Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

IL GOVERNO

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio.

Il tradimento della Patria.

Storia d’Italia.

Truffa o Scippo: La Spesa Storica.

Il Paese delle Sceneggiate.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutto va male? Diamo panem (reddito di cittadinanza) e circenses (calcio).

Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati.

Il Piano Marshall.

Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.

Gli errori sull’Euro.

L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Italia che siamo.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Mercato.

I Liberali.

La Nuova Ideologia.

Vizio sinistro: criminalizzazione della Società.

Un popolo di Spie…

I Senatori a Vita.

La Terza Repubblica (o la Quarta?).

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

E la chiamano democrazia…

Parlamento: Figure e Figuranti.

L’ossessione del complotto.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Riformismo e Riformisti.

Il Tecnopopulismo.

La Geopolitica.

La Coerenza.

Le Quote rosa.

L’uso politico della giustizia.

L’Astensionismo.

La vera questione morale? L’incompetenza.

Mai dire…Silenzio Elettorale.

Gli Impresentabili.

I Vitalizi.

Il Redditometro dei Parlamentari.

Il Redditometro dei Partiti.

Parlamento: un Covo di Avvocati.

Autenticazione delle firme per i procedimenti elettorali.

Il Conflitto di interessi.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Appalti truccati.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso Truccato. Reato Impunito.

Concorsi truccati nella Magistratura.

Concorsi truccati nell’Università.

Concorsi truccati nella Sanità.

Il concorso all’Inps è truccato.

Il concorso per docenti scolastici era truccato.

Il concorso per presidi era truccato.

Esami universitari e tesi falsate.

L’insegnamento e la Chiamata Diretta.

Concorsi truccati nella Pubblica Amministrazione.

In Polizia: da raccomandato.

Precedenza ai militari.

Il Cartellino Rosso per gli Arbitri.

L’Amicocrazia.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Esame di Abilitazione Truccato.

La Casta precisa: riforme non per tutti...

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ei fu CNEL.

Lo Spreco dei Comuni.

Lo scandalo della Pedemontana Veneta.

Immobili regalati o abbandonati.

Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi.

Alitalia: pozzo senza fondo.

Giù le mani dalle auto blu.

Le Missioni dei Politici.

Le Missioni dei Giornalisti Rai.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Il “gold exchange standard”, il “Nixon shock” e le politiche monetarie.

I Bitcoin.

Tassopoli.

Le vincite.

Il Contrabbando.

I Bonus.

Il Superbonus.

Bancopoli.

Le Compagnie assicurative.

Le Compagnie elettriche.

Le Compagnie telefoniche.

Il Black Friday.

Il Pacco: Logistica e Distribuzione.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

  

 

 

 

IL GOVERNO

SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Libero Mercato.

La logica del mercato. Preda del consumismo. La pubblicità non è onnipotente come le agenzie pubblicitarie e gli anticapitalisti vorrebbero farci credere. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 18 Dicembre 2021. L’immagine del cliente senza cervello sedotto da un marketing ingannevole per comprare oggetti non necessari è una grande esagerazione. Il cliente non è una vittima. Anzi, se c’è qualcuno che viene imbrogliato, di solito sono le aziende che investono tanti soldi in spot inefficaci e partecipano al gioco solo perché lo fanno anche i loro concorrenti. Nella sua enciclica del 2015 Laudato sì, una diretta accusa al capitalismo, Papa Francesco ha proclamato: «Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico». L’anticapitalista Noam Chomsky ha ripetutamente criticato l’industria pubblicitaria, dicendo che l’obiettivo di quest’ultima è quello di intrappolare le persone all’interno del consumismo per indottrinarle ed esercitare il controllo su di loro.

I critici dell’industria pubblicitaria vedono le aziende di marketing come onnipotenti. Tali critici tentano di creare l’impressione che i consumatori siano vittime senza cervello nelle grinfie dell’industria pubblicitaria. Secondo questa narrazione, le aziende pubblicitarie usano la loro propaganda per convincere le persone a comprare prodotti senza senso, con un consumo così dilagante che ha un impatto sull’ambiente a un livello senza precedenti.

Per dimostrare l’onnipotenza dell’industria pubblicitaria, i suoi critici hanno ripetuto costantemente alcuni miti per più di mezzo secolo. Uno è basato sul libro di Vance Packard del 1957 “I persuasori occulti”, che ha generato una grande copertura mediatica quando è stato pubblicato. Il libro parlava di un metodo pubblicitario particolarmente manipolativo, che coinvolgeva un cinema che mostrava sullo schermo immagini pubblicitarie della durata di frazioni di secondo durante le proiezioni dei film. Queste immagini apparivano e scomparivano così rapidamente che il pubblico non le notava nemmeno coscientemente.

La stampa si riferiva alla pubblicità subliminale come alla «persuasione più nascosta», e coloro che usavano tali tecniche come «mostri invisibili» e di «lavaggio del cervello» per i consumatori. Se il metodo funzionasse davvero come sostenuto, o se il presunto successo fosse solo il risultato di false tecniche di manipolazione, con alcuni esperimenti che pretendevano di provare il successo del metodo effettivamente inventato, rimane non dimostrato.

Certo, la pubblicità può funzionare, ma non è così onnipotente e insidiosa come la dipingono i suoi critici – e molto più spesso è effettivamente inefficace. Si attribuisce a Henry Ford l’affermazione: «Metà dei soldi che spendo in pubblicità sono sprecati; il problema è che non so quale metà». E David Ogilvy, il grande guru della pubblicità, ridicolizzò ripetutamente le campagne pubblicitarie create da altri professionisti della pubblicità nel suo libro “Confessioni di un pubblicitario”, accusandole di essere inefficaci: di solito non fanno nulla per aumentare le vendite e servono più per intrattenere che per informare. Ogilvy accusava gli altri pubblicitari di essere più preoccupati di aumentare le loro entrate che di vendere i prodotti dei loro clienti.

Howard Schultz, il fondatore di Starbucks, disse che vent’anni fa era difficile anche allora lanciare un prodotto attraverso la pubblicità perché la gente non vi prestava più attenzione come in passato, e non credeva al messaggio. Si è detto sorpreso del fatto che i clienti credessero ancora di ottenere un buon ritorno sul loro investimento pubblicitario.

Nel gennaio 2021, gli esperti pubblicitari americani Bradley Shaprio, Günter Hitsch e Anna E. Tuchmann hanno pubblicato uno studio basato sulla loro meticolosa e scientifica analisi della pubblicità televisiva per 288 beni di consumo. La loro scoperta è stata per certi versi scioccante: non solo la pubblicità non ha dato vantaggi economici per l’80 per cento dei marchi, ma aveva addirittura un ROI (Return On Investment) negativo (si veda questo paper).

Si potrebbe sostenere che la pubblicità online attraverso i social media sia oggi molto più efficace della pubblicità “di una volta”, ma ci sono dubbi anche su questo. Solo pochi anni fa, Procter & Gamble e Unilever hanno ridotto la loro spesa pubblicitaria online rispettivamente del 41% e 59% – e questo non ha avuto alcun impatto negativo sui loro profitti.

La pubblicità non è così onnipotente come le agenzie pubblicitarie e gli anticapitalisti vorrebbero farci credere – per una serie di ragioni – e l’immagine del consumatore senza cervello sedotto da pubblicitari ingegnosi che spende tutto il giorno per comprare oggetti non necessari è una grande esagerazione. Se c’è qualcuno che viene imbrogliato, sono più spesso le aziende che spendono così tanti soldi in una pubblicità inefficace e che partecipano al gioco solo perché lo fanno anche i loro concorrenti. Le agenzie pubblicitarie hanno più successo nel convincere i loro clienti, che non i clienti dei loro clienti.

Quando immagino un mondo senza pubblicità per prodotti e servizi, penso al grigiore del socialismo, dove noiosi manifesti dominano il paesaggio stradale, proclamando i messaggi di propaganda del partito. Preferisco di gran lunga la pubblicità sotto un sistema capitalista che, al suo meglio, ha raggiunto lo status di arte, come nel caso di Andy Warhol, che era lui stesso un artista commerciale di professione.

La logica del mercato. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 25 Novembre 2021. Invidia sociale. Imprenditori, artisti, ereditieri, vincitori della lotteria: chi merita di essere ricco? Nel suo nuovo libro, Rainer Zitelmann affronta in maniera comparata gli atteggiamenti delle persone nei confronti dei più facoltosi in diversi Paesi, tra cui l’Italia. Il volume verrà presentato il prossimo mercoledì 1 dicembre, alle ore 18, presso il Centro Brera di Via Formentini 10 (Milano). Il collaboratore de Linkiesta Rainer Zitelmann ha in questi giorni pubblicato il suo nuovo libro “Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi! Come e perché condanniamo chi ha i soldi” (IBL Libri, 2021). Nel libro l’autore affronta in maniera comparata gli atteggiamenti delle persone nei confronti della ricchezza e dei ricchi in diversi Paesi, tra cui l’Italia. Nel libro viene inoltre sviluppato un Indice dell’invidia sociale che denota come molti pregiudizi nascano anche da un’errata percezione delle dinamiche economiche. Il volume verrà presentato il prossimo mercoledì 1 dicembre, alle ore 18, presso il Centro Brera (Via Formentini 10, Milano). Insieme all’autore interverranno Luca Garavoglia (Presidente, Gruppo Campari), Angelo Miglietta (Professore ordinario di Economia e Management e Pro-rettore, Università IULM) e Nicola Rossi (Professore ordinario di Economia Politica, Università di Roma Tor Vergata). Chi merita di diventare ricco? Nella maggior parte dei sondaggi, agli intervistati viene chiesto qual è il loro atteggiamento nei confronti dei ricchi. Tuttavia, è logico che l’opinione delle persone varierà significativamente a seconda del modo in cui le ricchezze sono state accumulate. Per esempio, qualcuno ha costruito la sua ricchezza in seguito ad attività imprenditoriali o perché l’ha ereditata? È diventato ricco perché è un atleta ben pagato, oppure perché ha vinto la lotteria o è un investitore immobiliare?

Per il mio recente libro “Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi! Come e perché condanniamo chi ha i soldi”, Ipsos Mori ha intervistato 1.096 italiani di età superiore ai 18 anni. Il sondaggio è stato condotto per scoprire cosa pensano gli italiani delle persone ricche. Per esplorare la questione, è stata presentata agli intervistati una lista di dieci diversi gruppi e si è chiesto: «Quale dei seguenti gruppi di persone, secondo lei, merita di essere ricco?».

La domanda su quali gruppi meritino la propria ricchezza, ha determinato le seguenti risposte degli italiani che hanno preso parte al sondaggio: mentre il 42% crede che gli imprenditori meritino la loro ricchezza, solo il 15% dice lo stesso per gli ereditieri. In fondo a questa “scala di popolarità” ci sono gli investitori immobiliari e i banchieri (rispettivamente, 10% e 8%).

Il sondaggio è stato condotto anche in altri 10 Paesi, in Europa, Asia e Stati Uniti. Nei sei Paesi europei e negli Stati Uniti, gli imprenditori e i lavoratori autonomi sono stati ritenuti i più meritevoli per le ricchezze acquisite.

Tuttavia, gli intervistati hanno dichiarato che anche le persone creative e gli artisti, come attori o musicisti, gli atleti di primo livello e i vincitori della lotteria si siano giustamente meritati il proprio status economico. In quattro Paesi (Stati Uniti, Spagna, Gran Bretagna e Svezia) pure gli investitori finanziari figurano tra i meritevoli. Così non è invece in Germania, dove questa categoria figura al penultimo posto, e anche in Francia e in Italia gli investitori finanziari si posizionano molto in basso. In ogni Paese esaminato, i banchieri sono quelli considerati in maniera più negativa: non meritano affatto le loro ingenti entrate. Il quadro è molto diverso in Cina, dove i banchieri sono in cima alla classifica davanti agli imprenditori.

Nel libro effettuo una distinzione tra gli intervistati: da una parte gli “invidiosi sociali”, dall’altra i “non-invidiosi”. Le due categorie sono state individuate in base ad apposite domande. Una scoperta particolarmente interessante è che le persone in cima alla “scala dell’invidia sociale” nei sette Paesi occidentali sono molto meno propense a invidiare i vincitori della lotteria rispetto ai non invidiosi.

La Svezia è l’unico paese in cui proporzioni uguali di invidiosi e non invidiosi credono che i vincitori della lotteria meritino la propria ricchezza. A prima vista questo può sembrare sorprendente. In ogni caso, richiede ulteriori spiegazioni. Dopo tutto, altri gruppi di persone ricche sono criticati con veemenza perché presumibilmente non lavorano abbastanza a lungo o duramente per meritare il proprio patrimonio economico.

Allora perché gli invidiosi pensano che i top manager non meritino di essere ricchi e allo stesso tempo accettano che il caso abbia favorito i vincitori della lotteria, che sono diventati ricchi solo perché sono stati abbastanza fortunati da scegliere i numeri giusti o il biglietto giusto?

Come ha osservato il sociologo Helmut Schoeck, le persone invidiose sono più propense a pensare che i vantaggi siano meritati quando sono la conseguenza della fortuna e del caso piuttosto che dell’impegno e delle abilità personali. Dopo tutto, se qualcun altro ha ottenuto un vantaggio attraverso la fortuna o il caso – a differenza di quando il vantaggio è basato sul duro lavoro o sulle competenze – non porta a chiedersi in maniera assillante perché a lui è andata così e a me no.

Schoeck ha persino citato i vincitori della lotteria come esempio. Il processo di selezione casuale di una lotteria assicura che il vincitore non sia invidiato: «Una moglie non si arrabbierà con il marito per non aver comprato il biglietto giusto della lotteria. Nessuno potrebbe seriamente soffrire di un complesso d’inferiorità come risultato di un fallimento ripetuto alla lotteria».

In termini di autostima, è quindi più facile accettare la fortuna di un vincitore della lotteria che venire a patti con il successo di un imprenditore o di un manager di alto livello. Inoltre, nel caso dei vincitori della lotteria, c’è anche una remota possibilità che prima o poi si possa entrare a far parte della schiera dei fortunati vincitori.

«Le origini ebraiche della finanza moderna? Una leggenda»: 80 tappe per ribaltare i luoghi comuni. Emanuele Coen su La Repubblica il 19 novembre 2021. “La storia mondiale degli ebrei”, tre millenni in un libro: tra figure e avvenimenti dimenticati, pagine drammatiche e vicende sorprendenti. Un percorso per date, a cura di Pierre Savy. La distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, nel 1492, la nascita dello Stato di Israele, nel 1948. La storia del popolo ebraico, lunga tre millenni, è scandita da alcune tappe fondamentali. Date da segnare in rosso che si alternano con date meno eclatanti ma altrettanto significative come il 1290, l’anno in cui Edoardo I Plantageneto espelle gli ebrei per secoli da tutto il suo regno, la civilissima Inghilterra, primo re cristiano ad adottare una simile misura, seguito poi da altri sovrani. Un momento storico complesso eretto a simbolo dall’antigiudaismo medievale. Oppure il 1920, quando il Parlamento ungherese vara una legge che introduce il numero chiuso universitario in Ungheria, che istituzionalizza per la prima volta in Europa un antisemitismo razziale di Stato, dal momento che considera gli ebrei non una confessione, ma una nazionalità a parte. Una lunga storia, quella del popolo ebraico, popolata da personaggi noti e altri semisconosciuti come Regina Jonas, la prima donna rabbino, nominata nel 1935 a Berlino, caduta nell’oblio per quasi mezzo secolo dopo la sua morte ad Auschwitz, divenuta in seguito l’emblema dell’ebraismo riformato. Per realizzare la “Storia mondiale degli Ebrei” (Laterza) il curatore Pierre Savy, direttore degli studi per il Medioevo presso l’École française de Rome, ha coinvolto una schiera di storici e si è imbarcato in una sfida ambiziosa e appassionante, mettendo insieme avvenimenti e personaggi, un’ottantina in tutto, una selezione inevitabilmente incompleta ma non per questo meno interessante. «Non è una enciclopedia ma un testo divulgativo, rivolto non solo agli eruditi ma anche al grande pubblico. È il frutto di scoperte testuali e archeologiche, una materia in continua evoluzione», sottolinea Savy. Uscito in Francia l’anno scorso, realizzato con la collaborazione di Katell Berthelot, direttrice di ricerca al CNRS e specialista dell’ebraismo nelle età ellenistica e romana, e Audrey Kichelewski, docente di Storia contemporanea all’Università di Strasburgo, il volume esce ora nell’edizione italiana, rivista e adattata con il coordinamento di Anna Foa, già docente di Storia moderna all’università La Sapienza. «Una prima scommessa è stata quella di dare spazio alle date classiche ma insieme anche ad altre date meno scontate e addirittura quasi sconosciute, che permettono di presentare interi squarci della storia ebraica», dice Savy, che aggiunge: «Abbiamo dovuto trovare l’equilibrio fra le date che marcano la storia dell’antigiudaismo e le date che segnano relazioni più complesse, a volte addirittura felici, con la società maggioritaria, in modo da non sprofondare in quella storia “lacrimosa” giustamente denunciata dalla storiografia contemporanea da quasi un secolo». Le pagine dedicate alla Shoah, ad esempio, si concentrano sull’insurrezione del ghetto di Varsavia (1943), la conferenza di Wannsee (1942), in cui venne definita la soluzione finale della questione ebraica, e il ritorno dei deportati sopravvissuti, tralasciando altri fatti rilevanti. Tra le voci del libro, inoltre, destano particolare interesse quelle che contribuiscono a ribaltare luoghi comuni: come quella, scritta da Giacomo Todeschini, dedicata al IV Concilio Lateranense, nel 1215, un evento cruciale che afferma l’importanza dell’osservanza delle regole cristiane per l’identificazione civica e politica degli individui, che accusa gli ebrei di spogliare delle loro ricchezze i cristiani, e soprattutto le chiese, designando gli ebrei come usurai pericolosi per la cristianità. Oppure la voce, realizzata per l’edizione italiana da Francesca Trivellato, che rievoca la leggenda delle origini ebraiche della finanza europea. In sostanza, nel 1647 un volume di norme di diritto marittimo stampato a Bordeaux diffonde il racconto secondo cui gli ebrei medievali, cacciati dalla Francia, avrebbero inventato l’assicurazione marittima e le lettere di cambio, vale a dire i due strumenti finanziari del capitalismo preindustriale, per esportare furtivamente i propri patrimoni nell’Italia centro-settentrionale. «Priva di fondamento ma destinata a riscuotere ampio successo, questa leggenda a lungo dimenticata è l’anello che nell’immaginario cristiano congiunge l’ebreo usuraio medievale al finanziere ebreo moderno», prosegue Savy: «È un cliché di cui si nutre l’antigiudaismo. E, come spesso avviene, chi crede nello stereotipo dimentica la sua origine precisa. Un meccanismo molto pericoloso perché alimenta l’antisemitismo». Una vicenda complessa, quella del popolo ebraico, segnata da episodi tragici e fasi importanti di emancipazione e integrazione nel tessuto sociale, di relazioni felici con la società maggioritaria. Vengono in mente due date emblematiche: il 212 dopo Cristo, quando l’editto di Caracalla riconosce la cittadinanza romana a tutti gli abitanti non schiavi dell’impero, dunque anche agli ebrei. E, in un contesto del tutto diverso, il 1791, quando in Francia il re Luigi XVI firma il decreto in base al quale gli ebrei prestano giuramento ed entrano nella modernità politica, si possono presentare alle diverse funzioni elettive, candidarsi agli impieghi nella funzione pubblica. Un fatto che segna la fine della “nazione ebraica” e l’accesso, per la prima volta nella modernità, alla cittadinanza. «Si tratta di due date importanti, che pur nella loro diversità sottolineano la tensione tra l’integrazione e la rinuncia alla propria autonomia parziale», sottolinea Savy: «Una ambivalenza che si ritrova nell’editto di Caracalla, che infatti fu duramente criticato dai rabbini di Galilea, proprio perché insieme l’integrazione portava con sé l’abbandono di una certa fetta di autonomia giuridica». Nell’edizione italiana sono state aggiunte alcune voci, tra cui quella dedicata a Primo Levi (scritta da David Bidussa), quella del viaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa (di Andrea Riccardi), nel 2000, e del processo Eichmann (1961) con Hannah Arendt, a cura di Anna Foa. Una selezione che, naturalmente, taglia fuori date e personaggi importanti, tra cui Albert Einstein. «Non si tratta di negare la rilevanza di questa e di altre figure, ovviamente, tuttavia occorre mettersi in una prospettiva lunga», conclude Savy: «Se per la storia della scienza Einstein è fondamentale, non è detto che lo sia anche per la storia complessiva del popolo ebraico».

La logica del mercato. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 19 Novembre 2021. Il fallimento del comunismo. La lezione sul valore del capitalismo che Lenin imparò troppo tardi. Cento anni fa il dittatore capì che l’economia pianificata socialista aveva fallito e varò in fretta la Nuova Politica Economica per evitare altri scioperi nel Paese. La libertà di commercio fu addirittura ripristinata per gli artigiani e le piccole imprese industriali. Ma dopo soli tre anni Vladimir Ul'janov morì e Stalin ritorno ai vecchi metodi, riportando carestia e terrore. È il momento di fare una lezione sul capitalismo e sul socialismo parlando di cose accadute giusto cento anni fa. Nel febbraio e marzo 1921, gli operai posarono gli attrezzi e scioperarono in tutta la Russia – uno dei centri di questa protesta fu Pietrogrado. Unità speciali della Ceka aprirono il fuoco sui lavoratori che manifestavano. Il panico scoppiò tra i bolscevichi quando operai e soldati fraternizzarono. Kronstadt, una base navale e città portuale posta su un’isola al largo di San Pietroburgo, fu il luogo di un ammutinamento dei marinai di due incrociatori corazzati. Il 1° marzo, più di 15.000 persone si riunirono, rappresentando un quarto della popolazione civile e militare della base navale. Gli scioperi e le manifestazioni furono repressi violentemente e il bilancio delle vittime fu di migliaia di persone. 8.000 insorti fuggirono in Finlandia e più tardi tornarono in Russia dopo aver ricevuto la promessa di un’amnistia. Nonostante la promessa di clemenza, furono immediatamente arrestati e trasportati in un campo di concentramento, dove molti morirono. Lo storico Gerd Koenen fornisce la seguente valutazione: «Il trionfo e la dittatura dei bolscevichi poggiavano non da ultimo sul completo annientamento del movimento operaio russo». Lenin non ebbe altra scelta che riconoscere che continuare una politica economica radicale avrebbe minacciato le basi del potere sovietico. La produzione industriale era già scesa a un decimo del livello raggiunto nel 1913, e la gente in tutta la Russia stava morendo di fame. In risposta, Lenin fece un’inversione a U e propose una “Nuova Politica Economica” (NEP), che fu adottata al X Congresso del Partito Comunista Russo nel marzo 1921. Lenin ammise che «abbiamo subito una sconfitta molto grave sul fronte economico». La politica economica dei bolscevichi, diceva eufemisticamente, aveva «ostacolato la crescita delle forze produttive e dimostrato di essere la causa principale della profonda crisi economica e politica che abbiamo vissuto nella primavera del 1921». In termini più chiari: l’economia pianificata socialista aveva fallito non appena fu introdotta. Dopo tutto, Lenin era abbastanza intelligente da capire che l’unica soluzione consisteva nel «ritornare al capitalismo in misura considerevole». Queste erano le stesse parole che Lenin usò per formulare la sua svolta politica. La NEP legalizzò la produzione orientata al profitto, la proprietà privata nella produzione di beni di consumo e l’accumulo di ricchezza. I comunisti permisero alle imprese statali di dare in gestione le loro fabbriche a privati e di affidare il finanziamento e la logistica delle attività imprenditoriali in mani private. Nel luglio 1921, la libertà di commercio fu addirittura ripristinata per gli artigiani e le piccole imprese industriali. Le nuove linee guida adottate nell’autunno del 1921 si opposero risolutamente alla «parità di trattamento dei lavoratori con qualifiche diverse». La distribuzione gratuita di cibo, di beni di consumo di massa e di servizi pubblici – appena celebrate come grandi «conquiste» socialiste – furono cancellate. Non si parlava più di abolire il denaro. Lo storico Helmut Altrichter ha scritto: «Lo Stato aveva mantenuto il controllo dei “luoghi di comando dell’economia”: le banche, l’emissione di moneta, il sistema dei trasporti, il commercio estero, la grande e media industria. Al di sotto di questa soglia, tuttavia, si sforzava di ottenere maggiore produttività ed efficienza, più concorrenza, meno dominio dall’alto e più iniziativa dal basso». Quello che successe dopo fu quello che è sempre successo quando anche una piccola dose di capitalismo viene aggiunta a un’economia gestita dallo Stato: l’economia si riprese. La fame (nel 1921/22, almeno 5 milioni tra i 29 milioni di persone indigenti morirono di fame; alcune stime citano fino a 14 milioni di morti per inedia) diminuì tra il 1923 e il 1928, la produttività aumentò e, dal 1925/26, fu riportata ai livelli prebellici in molte grandi industrie. La Nuova Politica Economica fu l’ammissione da parte dei comunisti che la narrazione ufficiale, che incolpava «sabotatori e agenti stranieri» e altri fattori esterni per i fallimenti dei raccolti, la fame e il calo della produzione, non corrispondeva ai fatti. Le cause principali dei guai della Russia risiedevano nelle stesse politiche economiche socialiste. Ma per i comunisti, la NEP non rappresentava altro che una «ritirata tattica». Nel dicembre 1926, Stalin dichiarò che «abbiamo introdotto la NEP, permesso il capitale privato, e ci siamo in parte ritirati per raggruppare le nostre forze e passare poi all’offensiva». Le conseguenze della rinnovata «offensiva» sono ben note: carestia e terrore diffuso durante la politica che Stalin chiamò «la liquidazione dei kulaki».

·        I Liberali.

150 Sturzo, quando c’era la supremazia della società sullo Stato. Giovanni Orsinasu Culturaidentità il 26 Novembre 2021. In occasione del 150° anniversario della nascita di don Luigi Sturzo, sacerdote, fondatore del Partito Popolare, pubblichiamo l’approfondimento di Giovanni Orsino sul numero di novembre di CulturaIdentità (Redazione)

Non credo che il pensiero e l’azione politica di Luigi Sturzo possano essere compresi a partire dalla dicotomia destra-sinistra, e neppure da quella libertà-illibertà, o se si preferisce liberalismo-illiberalismo. Credo che lo si possa capire molto bene, invece, se lo si misura lungo l’asse società-Stato. Soltanto una volta che lo si sia compreso da questo punto di vista diviene possibile tornare a ragionare alla luce delle due dicotomie precedenti. Mi pare possibile sostenere insomma che nel cuore della riflessione sturziana vi siano l’autonomia della società, la salvaguardia e valorizzazione del suo ordine naturale, delle sue articolazioni interne, delle sue radici religiose, e la sua supremazia sullo Stato, che non solo non deve permettersi di toccare quell’ordine sociale naturale, ma, al contrario, deve mettersi al suo servizio. Interpretato così, Sturzo è prima di tutto un anti-giacobino, un nemico di qualsiasi tentativo di utilizzare il potere pubblico per modificare le strutture tradizionali della società o rieducare gli individui. Adottare questo punto di vista consente di tenere insieme le tre stagioni politiche di Sturzo. Il sacerdote calatino si oppone all’Italia liberale proprio perché eccessivamente giacobina, intenta a “fare gli italiani” attraverso lo Stato e a disarticolare l’ordine sociale – e in particolare le sue radici religiose – nel nome di una certa idea di individuo e libertà. Si oppone al fascismo perché, nel nome della nazione, non soltanto riprende il filo giacobino prefascista ma lo irrobustisce ulteriormente e in misura notevole, passando dall’idea del fare gli italiani a quella del fare i fascisti, con un’accelerazione marcata nella fase totalitaria della seconda metà degli anni Trenta. E nella stagione repubblicana si oppone infine sia alla partitocrazia, che pretende di imporre alla società un ordine politico, oltre a violare i principi di fondo di una liberal-democrazia ben funzionante, sia alle partecipazioni statali e più in generale all’intervento pubblico nell’economia. È liberale, Sturzo? Dipende ovviamente dal filone che scegliamo di privilegiare all’interno di una tradizione quanto mai complessa e pluralista come quella liberale. È indiscutibile che vi siano correnti del liberalismo fortemente incentrate sull’autonomia dell’ordine sociale e perciò robustamente antigiacobine. Per costoro Sturzo non solo è del tutto liberale, ma lo è molto di più degli esponenti dell’Italia che si auto-definiva liberale. Personalmente, tendo a schierarmi con loro. Arriverebbe tuttavia a conclusioni assai differenti un liberale convinto che la società possa coartare la libertà individuale come e più dello Stato, e che in quei casi occorra uno Stato interventista capace di liberare gli individui dall’ordine sociale e dalla tradizione (e dalla religione). Più complicato ancora è collocare Sturzo rispetto all’asse destra-sinistra. Valorizzare l’ordine sociale tradizionale è un’operazione conservatrice, e il rivoluzionarismo giacobino è indiscutibilmente “di sinistra”. Ma la presenza del fascismo rompe schematismi e simmetrie: il fascismo è a destra, e Sturzo non solo fu un grande antifascista, ma per le ragioni illustrate sopra non poteva in alcun modo non esserlo. A ogni modo, chi nell’epoca più vicina a noi ha ripreso, sia pure in maniera scombinata e strumentale, il messaggio sturziano sulla supremazia della società rispetto allo Stato, è stato il ricostruttore della destra italiana: Silvio Berlusconi. Quant’è attuale il messaggio sturziano? Sturzo, come detto, partiva dal presupposto che vi fosse un ordine naturale nella società e che lo Stato dovesse rispettarlo. Ma è proprio quest’ordine naturale che, con un’accelerazione drammatica negli ultimi cinquant’anni, i processi di modernizzazione e globalizzazione hanno largamente disarticolato. Per non dire dell’indebolirsi della Chiesa cattolica, sia in generale, sia come punto di ancoraggio delle tradizioni locali e nazionali. Oggi, insomma, vien da dire semmai che quell’ordine dovrebbe per certi versi essere ripristinato, o quanto meno difeso con decisione. Ma in quale direzione si può guardare per ripristinarlo o difenderlo, se non in quella dello Stato? Anche nelle mutate condizioni odierne, a ogni modo, del pensiero sturziano resta a mio avviso un lascito fondamentale: il legame fra la libertà e il tessuto tradizionale di una comunità. La crisi dei processi di globalizzazione che stiamo vivendo in questi anni, in fondo, è la crisi della pretesa di costruire una libertà individuale assoluta, disincarnata e de-territorializzata, globale. Se da questa crisi vogliamo uscire in direzione non dell’autoritarismo, ma di un diverso liberalismo, allora Sturzo è fra quelli che dobbiamo rileggere.

La logica del mercato. Come il mondo è diventato ricco. Il capitalismo ha portato un sensibile miglioramento nelle condizioni di vita delle persone. Rainer Zitelmann su L’Inkiesta il 15 Ottobre 2021. Il nuovo libro di Art Carden e Deirdre McCloskey, “La grande ricchezza”, descrive il percorso di crescita della prosperità globale, provando a demistificare i luoghi comuni contro il liberalismo usando un approccio storico-scientifico. Si dice che un giorno un socialista sia entrato nell’ufficio del magnate dell’acciaio Andrew Carnegie all’apice del suo successo, nell’ultima decade dell’Ottocento, e abbia chiesto che i ricchi distribuissero il loro denaro ai poveri. Carnegie, così si racconta, chiese al suo assistente di stimare la propria ricchezza e di dividerla per il numero di persone allora presenti sulla Terra. L’assistente tornò poco dopo con le cifre e Carnegie gli disse: «Dai a questo signore sedici centesimi. Questa è la sua parte di ricchezza». Nessuno può dire con certezza se questo sia realmente accaduto o meno. In un certo senso, non ha molta importanza. Ma è uno dei tanti aneddoti divertenti che rendono il libro di Art Carden e Deirdre McCloskey, “La grande ricchezza. Come libertà e innovazione hanno reso il mondo un posto migliore”, così piacevole. Eccone un altro: negli anni ’30, un vecchio amico andò dal comico Groucho Marx e gli disse: «Groucho, ho un disperato bisogno di un lavoro. Tu hai molti contatti utili». L’amico era un comunista e, dal suo punto di vista, ogni forma di impiego era anche una forma di sfruttamento. Groucho Marx, facendo uso della sua tagliente arguzia, rispose: «Harry, non posso. Sei il mio caro amico comunista. Non voglio sfruttarti». Il libro è costellato di questi aneddoti, ma affronta una domanda seria: come si è giunti ad avere un mondo così prospero? Dopo un lungo periodo in cui il livello di benessere è cambiato poco, all’interno di società che erano rimaste statiche per millenni, il capitalismo è emerso nei secoli XVIII e XIX e ha portato a un sensibile miglioramento delle condizioni di vita delle persone. I due autori, tuttavia, evitano la parola “capitalismo”, che considerano un termine polemico usato dagli intellettuali di sinistra. Parlano di “liberalismo” e di “innovazione” perché credono che questi termini siano scientificamente più accurati.

La schiavitù e il colonialismo non sono alla base del capitalismo

Nonostante le loro obiezioni, userò qui la parola capitalismo perché, in fondo, questo libro parla di come il capitalismo è nato. Gli autori affrontano una serie di spiegazioni comuni, ma concludono che nessuna di queste è convincente. I diritti di proprietà e lo Stato di diritto, per esempio, preesistevano al capitalismo da centinaia di anni, quindi sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Allo stesso modo, lo sviluppo della scienza, pur essendo molto importante, fu una conseguenza piuttosto che una causa dell’arricchimento economico: «La scienza fu più un risultato della crescita economica che una causa». Le scoperte scientifiche dell’epoca, osservano gli autori, furono conseguenti all’innovazione tecnologica. Gli autori dimostrano anche che la spiegazione attualmente di moda, secondo cui il capitalismo sarebbe radicato nella schiavitù e nel colonialismo, è tutt’altro che convincente. La schiavitù non è affatto un’invenzione moderna, essendo esistita per millenni, e se i profitti derivanti dallo sfruttamento della schiavitù avessero favorito l’emergere del capitalismo, allora perché il capitalismo è emerso in Olanda e Gran Bretagna, piuttosto che in Cina, o forse nel Brasile, che ha avuto molti più schiavi africani di quanti ne siano arrivati in Nord America? L’economista Thomas Sowell ha scritto: «14 milioni di schiavi africani sono stati portati attraverso il deserto del Sahara o spediti attraverso il Golfo Persico e altre vie d’acqua verso le nazioni del Nord Africa e del Medio Oriente, rispetto a circa 11 milioni di africani fatti viaggiare attraverso l’Atlantico».

In ogni caso, perché i profitti della schiavitù dovrebbero essere stati così cruciali per finanziare l’industrializzazione? «Se questi profitti sono stati giudicati di fondamentale importanza, perché allora non considerare, per esempio, i profitti dell’industria della ceramica, di portata simile, o del commercio al dettaglio, ancor più elevati? Perché i profitti “indegni” sarebbero stati più efficaci per il Grande Arricchimento rispetto a quelli “onorevoli”? (La ragione sembra essere il desiderio di vedere comunque il “capitalismo” come nato nel peccato)». Anche la spiegazione oggi popolare secondo cui il capitalismo ha le sue radici nel colonialismo è falsa. Portogallo e Spagna, le prime potenze imperialiste con colonie dal Messico a Macao, erano le più povere dell’Europa occidentale al momento in cui il capitalismo emerse. E Paesi come la Svezia e l’Austria divennero ricchi anche senza significativi territori coloniali d’oltremare.

L’importanza delle idee

Carden e McCloskey sostengono che la vera ragione per cui il capitalismo è emerso e il mondo si è arricchito riguarda il cambiamento che si è verificato in merito a «etica, retorica e ideologia». Viene così ribaltata la logica di Marx, per il quale l’essere determina la coscienza. È stato il contrario: un cambiamento nell’ideologia ha posto le basi per tutti i cambiamenti rivoluzionari che il capitalismo ha portato.

Naturalmente, non si dovrebbe pensare all’emergere del capitalismo in questi termini: Adam Smith che scrive un libro e poi fa attuare le sue idee da abili politici. Piuttosto, come F.A. Hayek ha ben spiegato, il capitalismo è sorto come un ordine spontaneo – in maniera simile al modo in cui nascono le lingue o le piante. L’importanza delle idee, secondo me, sta più nel ruolo che giocano nel rimuovere le barriere alla crescita spontanea precedentemente imposte da governanti e stati. Nel mio libro “La forza del capitalismo” uso la Cina come esempio per esplorare questo fenomeno: in Cina, il capitalismo si è sviluppato spontaneamente nelle regioni rurali. L’importanza delle idee e della politica risiede nel fatto che Deng Xiao Ping lanciò lo slogan «Lascia che alcuni si arricchiscano per primi». Non appena disse queste parole, i processi spontanei non furono più bloccati. Gli autori sfatano anche molti miti che circondano la nascita del capitalismo, compresi quelli che riguardano le condizioni intollerabili nelle prime fasi del capitalismo. L’industrializzazione e l’urbanizzazione, sostengono, hanno fatto di più per superare la povertà che per crearla. Prendendo la Francia come esempio, mostrano quanto fosse diffusa la fame nella Francia rurale prima dell’inizio dell’industrializzazione. E smentiscono anche il mito che i miglioramenti nelle condizioni di vita delle persone nel XIX e XX secolo siano dovuti principalmente al movimento operaio, ai sindacati e allo stato sociale. Le condizioni di vita migliorarono, spiegano, principalmente come risultato dell’aumento della produttività e non della ridistribuzione della ricchezza da parte dello stato sociale. Gli autori hanno il grande merito di argomentare non “teoricamente”, come fanno molti economisti moderni, ma “storicamente”: con una sorprendente ricchezza di fatti e un’astuta comprensione della storia, confutano molti miti diffusi – e lo fanno in un modo così divertente che rende la lettura di questo libro un piacere continuo.

Sintesi dell’articolo di “The Economist”, pubblicata da “La Verità” il 6 settembre 2021. «Qualcosa è andato storto con il liberalismo occidentale». Costretto a fronteggiare la sfida lanciata dalla Cina e dalla destra di Donald Trump, «un nuovo stile politico si è diffuso a partire dai dipartimenti universitari d'élite. Mano a mano che i giovani laureati sono stati assunti nei media e in politica, nel mondo dell'economia e dell'educazione, hanno portato con sé un sentimento di "insicurezza" e un'agenda ossessionata da una visione di corto respiro secondo la quale bisogna ottenere giustizia per i gruppi identitari oppressi». Non solo, questa sinistra sempre più «illiberale cerca di imporre una purezza ideologica eliminando dalle piattaforme i loro nemici e cancellando gli alleati che hanno commesso degli errori - ricordando così gli stati confessionali che dominarono l'Europa prima che il liberalismo classico mettesse le radici alla fine del XVIII secolo». Se il liberalismo classico riteneva che il cambiamento sociale dovesse essere «spontaneo e provenire dal basso, la sinistra illiberale ritiene che il vero progresso sia possibile solo quando le gerarchie razziali, sessuali come anche altre vengano smantellate». Per farlo, cercano con il potere conquistato di «imporre» ciò che loro ritengono essere «l'equità». In questo modo, però, non fanno che aumentare disuguaglianze, intolleranza e razzismo nella società. «I liberali classici dovrebbero dissociarsi dai prepotenti e da coloro che vogliono cancellare» tutto. Soprattutto, «i liberali dovrebbero avere il coraggio di dire queste cose». [4 settembre 2021]

La (vera) libertà contro l'omologazione delle masse. Andrea Muratore il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Ne "La ribellione delle masse" José Ortega y Gasset ha teorizzato i rischi della massificazione dell'uomo nelle moderne società industriali. La sua lezione vale anche ai giorni nostri. Un filosofo e pensatore liberal-conservatore, non privo di tratti elitisti, che seppe però indicare alle classi emergenti dei primi decenni del Novecento la via ideale per l'emancipazione attaccandone conformismi e spinte all'omologazione. Un uomo di un altro secolo che capì in anticipo le pulsioni problematiche che le ideologie totalitarie del Novecento avrebbero creato comprimendo gli individui alla massificazione, azzerandone originalità e diversità, e che il neoliberismo avrebbe portato all'eccesso sostituendo la religione del consumo e l'individualismo ai legami comunitari e alle dialettiche politiche. Un elitista che seppe capire che il modo migliore per portare le tematiche della filosofia e dell'analisi politologica al grande pubblico passava per la costruzione di un invito sistemico al ragionamento, all'analisi critica, al dibattito attraverso uno stile chiaro e semplice. José Ortega y Gasset è stato un pensatore poliedrico, una figura complessa con tratti che possono apparire contraddittori, ma che ritrovano coerenza leggendo l'opera principale della sua ampia produzione: La ribellione delle masse, testo che a novant'anni dalla prima edizione spagnola (datata 1930) non perde di attualità. Ortega y Gasset è il pensatore che sdogana il valore della gerarchia come alternativa ai regimi dei cosiddetti "uomini-massa" che riteneva il rischio principale per la sua epoca, ma anche il filosofo capace di cogliere la continua dinamicità dei corpi sociali. Per Ortega y Gasset "lo Stato è in ogni istante qualcosa che viene da e va verso. Come ogni movimento, ha un terminus a quo e un terminus ad quem", è un corpo in continuo cambiamento le cui evoluzioni devono essere però governate. Il grande fenomeno storico di inizio XX secolo, a suo avviso, avrebbe prodotto un'involuzione sistemica della qualità del governo e al tempo stesso delle relazioni umane. L'uomo-massa, la creta informe plasmata da ideologie totalitarie o con aspirazioni universaliste, era già sotto gli occhi del pensatore spagnolo, per il quale "la massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come "tutto il mondo", chi non pensi come "tutto il mondo" corre il rischio di essere eliminato". E se un tempo "tutto il mondo" poteva essere una coscienza collettiva plurale, fatta di confornto tra poli politici e sociali diversi, ai tempi di Ortega y Gasset si iniziava a concepire il problema dell'omologazione. Il fascismo, lo stalinismo, il nazismo fecero di questo concetto un punto di forza del loro martellante apparato di propaganda. Per questo Ortega y Gasset valorizzava, nella sua epoca, il valore delle gerarchie sociali, specie di quelle più consolidate, contro le pressioni disgregatrici del populismo. Per citare Nial Ferguson, la "torre" doveva prevalere sulla "piazza" non in termini autoritari, ma per permettere un'integrazione graduale nel sistema degli uomini-massa. Lungi dall'essere un rigoroso tradizionalista o un nazionalista, Ortega y Gasset era favorevole all'evoluzione dei paradigmi sociali, ma li interpretava come organi da far evolvere gradualmente. I "trenta gloriosi" del periodo post seconda guerra mondiale videro l'emersione, in Paesi come Italia, Germania, Francia, di una nuova coscienza plurale, democratica, repubblicana in cui culture politiche e sociali diverse (da quella democratico-cattolica a quella comunista, da quella socialdemocratica a quella liberale) seppero dialogare con profitto portando gradualmente gli uomini-massa a diventare protagonisti attivi e coscienti delle dinamiche storiche. Nacquero in quell'epoca i presupposti delle moderne società industriali, il welfare e l'istruzione pubblica, i corpi intermedi capaci di coordinare il rapporto tra individui, società e Stato. A mettere in crisi questi paradigmi sarebbe stata l'ideologia economica neoliberista, sorta dalla crisi del modello fordista-keynesiano nei primi Anni Settanta. Ortega y Gasset allora era già morto, essendo deceduto nel 1955 all'età di 72 anni, ma il paradigma de La ribellione delle masse rimase più vero che mai. Il nuovo uomo-massa divenne l'individuo atomizzato della società dei consumi, apparentemente focalizzato sulla massimizzazione dell'utilità personale nei consumi e nelle scelte personali, separato dal resto della società dal declino dei corpi intermedi in Occidente (partiti, sindacati e così via) ma di fatto massificato dalla spinta all'omologazione nei modi di pensare e consumare imposta dai nuovi paradigmi sociali ed economici. Ritenuti, nella loro versione più radicali, potenziali forme di minaccia anche da chi, come Papa Giovanni Paolo II, non aveva riservato una critica meno feroce di quella del filosofo spagnolo ai danni sulla coscienza collettiva e i valori umani compiuti dai regimi totalitari. Come non rivedere le previsioni di Ortega y Gasset nella "società dello spettacolo" narrata da Guy Debord, nel conformismo liberal-progressista e nel mondo segnato dal declino della politica e dall'ascesa del populismo e della sua dialettica semplificatoria? L'odierno uomo-massa è il cittadino trasformato in consumatore; l'attivista ridotto a influencer; il cittadino cosciente appiattito sul follower del leader politico di turno in cerca di visibilità; l'individuo che si va sradicando da qualunque sentimento di appartenenza (che si parli di nazione, religione, classe) con la stessa forza con cui i regimi di un tempo estremizzavano il radicamento ad essi. Come non trarre dalla sua produzione l'insegnamento che la vera libertà sta nell'originalità e nell'incontro tra esperienze culturali e umane diverse e non nel livellamento? Che la società si nutre sia della presenza di corpi collettivi sia della valorizzazione delle differenze tra le persone, della dialettica tra individui? "Tutti nasciamo originali, ma molti muoiono da fotocopie": le parole del beato Carlo Acutis appaiono la chiave di lettura ideale per semplificare, in un aforisma, l'ammonimento di Ortega y Gasset alla sua epoca e ai giorni nostri: un appello che invita a usare le forze della ragione umana contro le ideologie, le strategie e le dinamiche che tendono inesorabilmente a depotenziarne il valore, rendendo di fatto l'uomo succube.

"Libertà" per i conformisti. Tutti gli altri devono tacere. Stenio Solinas il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Il nuovo diritto di espressione vale per tutti tranne per chi canta fuori dal coro. Dunque non esiste...Contro il politicamente corretto è il sottotitolo di La nuova censura, di Alain de Benoist, appena uscito per Diana edizioni (traduzione di Marco Tarchi e Giuseppe Giaccio, 154 pagine, 15 euro). Senza quel sottotitolo non si comprenderebbe l'aggettivo che connota il pamphlet in questione, in quanto le censure nel corso della storia ci sono sempre state, ma quella attinente alla cosiddetta società postmoderna, ovvero la società degli individui, ha una sua specificità che le rende diversa e che ha nel pensiero unico, appunto, della correttezza politica la sua ragion d'essere. Vediamo di spiegarci meglio. Fino all'altro ieri, che è poi la metà abbondante del secolo scorso, la libertà di pensiero e di espressione restava il caposaldo di ogni Stato liberale che avesse la democrazia come suo assunto. Si tratta, come dire, di un qualcosa di irrinunciabile e di non trattabile, non soggetto cioè a criteri di opportunità, di convenienza, di contingenza. Come sottolinea de Benoist, «la libertà di espressione non avrebbe alcun valore se potessero beneficiarne soltanto coloro che esprimono opinioni che chiunque giudica giuste e ragionevoli». Del resto, proprio perché essa è la condizione primaria della libera informazione delle idee, ovvero dell'esistenza di un dibattito democratico, «la libertà di espressione ha senso unicamente se le opinioni più scioccanti, le più offensive, e persino le più inesatte e le più assurde, se ne vedono garantire anch'esse il beneficio». Comunque la si voglia girare, insomma, nessuna censura è intellettualmente difendibile e ogni censura intollerabile. Ora, quello che è paradossale è che in sistemi democratico-liberali avanzati, la Francia di de Benoist, o l'Italia, per restare in casa nostra, si assista ormai da anni alla presenza sulla scena di una volontà censoria che non potendosi appellare a una libertà di censura, controsenso troppo evidente da portare avanti, si ammanta di una moralità tutta propria. È insomma una censura etica, dalla parte del Bene, laddove i censurati non sono quindi delle vittime, ma dei colpevoli. Perché ciò sia possibile è necessario che venga accettato l'assioma che quello in cui si vive è non solo il sistema migliore, ma anche quello che non prevede ne consente alternative: è dominante proprio perché è unico. L'inevitabilità è l'altro suo assioma e infatti, come scrive de Benoist, «l'urbanizzazione e l'esodo dalle campagne, la generalizzazione del sistema salariale, l'onnipresenza della tecnica, il primato dei valori mercantili, la crescita dell'individualismo, le modalità di costruzione dell'Europa di Maastricht, per citare solo alcuni esempi, sono presentati come fenomeni inevitabili, come processi di cui non avrebbe senso discutere il valore, il significato, l'opportunità o la finalità». Che tutto questo sia stato prima frenato dalle tensioni del XX secolo, la lotta di classe, ideologie politiche in concorrenza e in contrapposizione fra loro, due guerre mondiali, e poi accelerato dal venir meno e/o dal fallimento delle ideologie, dal crollo dei modelli alternativi, dal rarefarsi del pensiero politico, è un dato di fatto. Ma è altrettanto un dato di fatto che «l'intero discorso politico odierno si fonda su presunte costrizioni' inaggirabili che in realtà non sono altro che credenze ideologiche sistematicamente presentate come fatti oggetti che dovrebbero imporsi a tutti». Ne deriva che «per il pensiero unico, mettere in dubbio una delle affermazioni dell'ideologia dominante significa già uscire dal dibattito». Il che ha come corollario «uno straordinario conformismo, che rende realmente insopportabile qualunque idea dissidente, qualsiasi pensiero non in conformità». È questa logica a rendere giusti, moralmente sostenibili comportamenti che nella norma dovrebbero essere inaccettabili: librai che rifiutano di mettere in vendita libri di cui non apprezzano il contenuto, editori esclusi da un salone del libro perché la loro produzione non è conforme alle convinzioni personali degli organizzatori, petizioni per mettere al bando l'editore censurato e non il salone che nei fatti lo censura, petizioni per contestare l'acquisizione di archivi «sospetti» perché non in linea, eccetera. Viene anche da qui l'utilizzo estensivo di termini, in Italia ci andiamo a nozze, quali fascismo e antifascismo, trasformati di fatto in categorie incarnanti il Male e il Bene, in realtà concetti caucciù, teste di turco, capri espiatori. Sorvolando sul fatto che fino a ieri per i comunisti il fascismo era anche il capitalismo, in quanto suo terreno di coltura, assistiamo al teatrino di ex o post comunisti che si ammantano di antifascismo proprio perché hanno aderito al pensiero unico e al sistema esistente, si sono pentiti, «il Pentito è la figura centrale del nostro tempo», chiosa de Benoist, e sono divenuti i cani da guardia di quello che era un tempo l'odiato capitalismo mercantile. Se però si va più in profondità, il discorso sul fascismo e i suoi pericoli, inesistenti ma strumentalmente enfatizzati, rientra in un campo di idee più ampio che vale la pena affrontare. Giorni fa, su Repubblica, in un articolo sui cosiddetti «italiban» di destra e di sinistra, Francesco Merlo si è lanciato in un'intemerata contro «i pacifisti assoluti». Merlo è un bravissimo giornalista, a cui invecchiando è venuta la mania del sopracciò, che altro non è se non la versione colta del marchese del Grillo: è sempre sdegnato e sdegnoso, e sempre con sussiego e insomma, «io so' io» con quel che segue. Nell'indignarsi contro chi non sceglie cita «i pacifisti che nel '39 gridavano nelle strade di Parigi di non voler morire per Danzica e si sa come è andata a finire» Ho paura che Merlo non lo sappia. Si entrò in guerra per difendere la Polonia e a guerra finita la Polonia passò da Hitler a Stalin e con essa tutta l'Europa orientale...È un punto che spiega bene l'utilizzo ossessivo dell'antifascismo, ovvero la coda di paglia che porta con sé. De Benoist cita in proposito un articolo rivelatore di Jean Daniel, mitico direttore del Nouvel Observateur, uscito nel 1993, ma perfettamente attuale: «Il nazismo era il male assoluto. A partire dal momento in cui ci si è messi a dire Hitler=Stalin tutto è cambiato () Soprattutto, questo rimette in discussione una scelta fondamentale. Se i totalitarismi comunista e nazista vengono confusi l'uno con l'altro, perché scegliere, anche durante la guerra, l'Unione Sovietica invece della Germania hitleriana?». Sorvolando sul concetto storico un po' zoppicante di «scelta», è la conclusione che interessa: «Non bisogna cedere un pollice su questo terreno, altrimenti tutti i valori, tutte le nostre fedeltà, tutte le nostre memorie crolleranno». Siamo insomma al puro manicheismo, a una sorta di religione laica di ricambio, «la fede nel Male politico o ideologico assoluto», come nota de Benoist, «la storia trasfigurata in mito e rappresentata in bianco e nero», la storia che diventa morale e perciò incomprensibile. Soprattutto, significa non voler fare bene i conti con l'altro totalitarismo del XX secolo, perché se così si facesse «si sgretolerebbero le basi di legittimazione dell'ordine politico mondiale scaturite dalla vittoria del 1945». Quell'alleanza, insomma, rimane per le democrazie una vera camicia di Nesso e «bisogna che quel sistema resti a distanza dal sistema nazista, così da sottolineare l'unicità' di quest'ultimo». Sbrigativamente, aveva capito tutto Churchill al tempo della guerra fredda: «Abbiamo ucciso il porco sbagliato» era stato il suo icastico commento a ciò che era successo prima. Churchill aveva tanti difetti, ma non era politicamente corretto. E forse è per questo che il politicamente corretto dei nostri tempi, nella sua versione Cancel Culture, ne butta giù le statue che lo raffigurano. Stenio Solinas

I veri liberali che hanno fatto grande l'Italia. Nicola Porro, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale.  I nuovo libro di Giuseppe Bedeschi, I maestri del liberalismo nell'Italia Repubblicana (Rubbettino) è da mettere a pieno titolo nella nostra personalissima biblioteca liberale. Uscito quasi in contemporanea con le zuccherose celebrazioni della nascita del Partito comunista, ci spiega, nel suo primo capitolo, perché la cultura marxista italiana è stata viziata sin dalle origini da un drammatico errore storiografico. La scrivo male, rispetto a quanto riesce a fare Bedeschi, ma il nocciolo della questione risiede in fondo nell'egemonia gramsciana. Togliatti, sulla scia di Gramsci, ha convinto una generazione di intellettuali, e ciò che più conta l'opinione dell'establishment, che il fascismo, il grande orrore della storia italiana, sia la semplice e banale conseguenza del cattivo Risorgimento. Anche noi, ben meno intellettuali, riusciamo così a mettere insieme i puntini. Il Risorgimento non è fatto da eroi, ma da reazionari, il capitale agrario ha vinto, e il fascismo ne è la logica conseguenza: ecco il mantra del Pci. La rivoluzione del Duce non poteva essere considerata dunque un'«escrescenza della nostra storia nazionale» come ha provato a sostenere Benedetto Croce, il Risorgimento non poteva che essere così, come ha stabilito il grande Chabod, e le sue conseguenze economiche sono state fruttuose, come ha dimostrato Romeo; eppure per l'egemonia culturale comunista questo non era accettabile. Bedeschi per questa strada fa una rapida carrellata di grandi liberali da Einaudi a Salvemini, da Croce a Bobbio. E lo fa magnificamente, portandoci per mano nei meandri di un metodo di pensiero difficilmente dogmatizzabile. Per questo motivo Einaudi può convivere con Bobbio: liberale o azionista? Chi scrive protende per la seconda ipotesi. Ma chi scrive d'altronde avrebbe gradito che tra i maestri del liberalismo nell'Italia repubblicana non fosse dimenticata la scuola della Luiss (quella vera, non quella alla ricerca di consulenza di medio livello rappresentata oggi). La ricchissima, dal punto di vista intellettuale, scuola di Dario Antiseri e del suo brillante allievo Lorenzo Infantino, i quali hanno declinato in Italia l'epistemologia liberale e tradotto Popper. La sua appendice politologica, con Domenico da Empoli, che importava in Italia un prodotto del made in Italy emigrato in America, che si chiama «public choice». La scuola di Antonio Martino, e il liberalismo economico sempre coniugato al libertarismo sociale. Quella scuola liberale della Luiss è stata cancellata dalla Confindustria. Non la dimentichiamo anche noi quattro gatti liberali.

·        La Nuova Ideologia.

Far temere è potere. La paura è la vera chiave per capire i nuovi equilibri della geopolitica. Dario Ronzoni su l'Inkiesta il 6 novembre 2021. Nel suo ultimo libro pubblicato da Egea, il professor Manlio Graziano analizza il declino relativo dei Paesi di vecchia industrializzazione e le sue conseguenze in termini sociali ed economici. Il problema è che l’inquietudine viene sfruttata da politici senza visione per facili incassi elettorali, senza risolvere mai i problemi che la causano. C’è un sentimento che prevale nella confusione di questi tempi. Determina decisione politiche, favorisce alcuni partiti anziché altri e influisce a definire i nuovi contorni geopolitici globali. È la paura: l’emozione che accompagna il declino relativo dei Paesi di vecchia industrializzazione (compreso il Giappone), alle prese con uno shift of power globale che obbliga a riconsiderare ambizioni, progetti e identità. È la chiave di “Geopolitica della paura. Come l’ansia sociale orienta le scelte politiche” di Manlio Graziano, pubblicato da Egea editore. Secondo il professore, che insegna geopolitica e geopolitica delle religioni alla Paris School of International Affairs di Sciences Po e all’Università della Sorbona, proprio la paura è la più importante delle ripercussioni psicologiche dello slittamento dell’asse geopolitico mondiale: l’economia dell’Occidente è in fase di rallentamento da ormai 40 anni, l’età media delle società è sempre più alta e l’ordine delle cose sta cambiando in modo inesorabile. Il risultato è un’inquietudine diffusa, che attraversa le popolazioni e orienta le risposte della politica. E allora, in un’epoca di soluzioni improvvisate e umorali, serve prima di tutto una buona analisi. «Ci sono analisti che vorrebbero essere anche suggeritori della politica», spiega il professore a Linkiesta. «Sperano cioè di influire sugli eventi. Io preferisco fermarmi prima. Come spiego nel mio libro, tra geopolitica – di cui mi occupo – e politica c’è la stessa differenza che si trova tra matematica e ingegneria. Alla prima toccano i calcoli e le analisi, alla seconda l’azione. Io non ho ricette. Al massimo posso formulare alcune ipotesi». Che il mondo si trovi in uno stato di disarray (disordine, ndr), come diceva prima ancora dello scoppio della pandemia Richard Haass, presidente del Council of Foreign Relations, è ormai evidente: l’ordine nato con Yalta si è esaurito da decenni, la supremazia americana è in fase discendente e i tentativi di restaurarla (riferiti anche negli slogan a un passato già idealizzato) sembrano poco efficaci. Nel frattempo emergono nuove potenze e la maturità delle società occidentali/avanzate è diventata senescenza. La paura prevale, insieme al bisogno di essere protetti: prima dalla globalizzazione, che avrebbe bloccato salari e cancellato posti di lavoro, poi dal terrorismo e dall’Islam in generale, poi ancora dalla pandemia. Si è delineato, anche in seguito alla crisi economica del 2008, una confusa opposizione popolo-élite (su cui hanno prosperato alcuni partiti) che è sfociata anche in scontri violenti, come è avvenuto in Francia con i gilet jaunes. La verità è che, di fronte a una macrotendenza ben precisa, la politica di piccolo cabotaggio ha le armi spuntate. Soprattutto se nel mercato dei partiti c’è chi preferisce assecondare ansie e timori, facendo incetta di voti e vincendo le elezioni con un programma che per forza di cose non può risolvere i problemi. «Secondo alcuni dei miei studenti l’analisi che faccio è pessimista. Ma non direi. Siamo in una fase di transizione storica, più o meno come sono tutte le fasi della storia, solo che questa è più marcata di altre a causa dello shift of power – preferisco la formulazione inglese perché è più esatta. I disordini, in periodi come questo, ci sono sempre. Per orientarsi serve però capire dove ci si trova e cosa sta succedendo davvero. Più ci si illude che certe cose possano essere evitate, più si finisce ostaggio della paura». Sia chiaro, «avere nostalgia è normalissimo. Ma guardare in faccia alla realtà è un vantaggio: ci fa capire quello che si può fare e quello che non si può fare». Piangere sul passato non serve, come non serve evocarlo in slogan di facile presa. Un esempio da manuale riguarda l’immigrazione. La sua percezione è, in generale, negativa. Si cerca di limitarla o in certi casi di impedirla. Eppure, per una società sempre più anziana e che fa pochissimi figli, il contributo degli immigrati è fondamentale, «anche se ancora insufficiente». Anziché opporsi agli ingressi si dovrebbe piuttosto affrontare il problema dal punto di vista demografico, «di cui si parla poco e che invece è essenziale». Le società occidentali, più ricche, vanno verso l’estinzione e non si fa niente per impedirlo. «È vero che l’arrivo di stranieri è sempre problematico e non si può negare il suo impatto sociale: è uno sfasamento rispetto alle abitudini, sia degli individui che della società». Detto questo, però, occorre considerare la gravità della situazione presente. «E non basta dire che gli immigrati sono necessari per la sopravvivenza della società. Occorre agire con un’operazione di contropedale. Serve affrontare il tema in modo strategico». Cosa significa? «Faccio un esempio: il caso delle ultime elezioni tedesche. Come si è notato, il tema degli stranieri è stato pressoché assente dal dibattito dei partiti. Le ragioni sono diverse, ma ha influito senza dubbio la presa di coscienza che, a sei anni dell’apertura voluta da Angela Merkel [il famoso “Wir schaffen das”] i problemi sono stati ampiamente oscurati dai vantaggi. Questo ha fatto cambiare la percezione generale dei tedeschi e, al tempo stesso, quella dei loro politici». Allora perché in Francia, in Inghilterra o in Italia l’immigrazione è ancora un tema caldo? «Serve cambiare la narrazione, con un’operazione dall’alto. In Giappone per anni hanno resistito all’apertura agli stranieri, ma ormai si sono resi conto che non ci sono altre soluzioni. È un problema di sopravvivenza del Paese. È questo che è in gioco. Credo che se tutti i soldi spesi dall’Unione Europea – che sono impossibili da conteggiare – per tenere fuori gli stranieri fossero stati impiegati per organizzare la loro integrazione le cose ora sarebbero diverse. Il Next Generation Ue sarebbe stata un’occasione: del resto i sentimenti europei cambiano anche a seconda di quanti soldi arrivano». In ogni caso, «anche le politiche per la natalità vanno rafforzate. Anche se, si è visto, non danno i risultati sperati, soprattutto in una società ricca e matura: più cresce lo sviluppo, più diminuisce il numero dei figli, lo si vede in tutto il mondo». Il problema, in questo caso, «riguarda l’idea di famiglia, rimasta ancorata a un modello valido 100 anni fa, adatto a un ambiente contadino. Ora è tutto diverso, le donne lavorano, sono inserite a pieno titolo nella società, fanno figli più tardi, hanno aspettative e ambizioni al pari degli uomini. È un aggiornamento sociale cui non è seguito un aggiornamento culturale». Se in passato «il divorzio equivaleva alla bancarotta del nucleo», adesso è una realtà comunissima. «In Francia sono tanti, come tante sono le coppie che scelgono di non sposarsi». Il mondo cambia, ma le idee di una volta restano sospese nell’aria: quasi come una nebbia, offuscano la vista delle cose. Eppure, in questo momento di contraddizioni, si parla anche di coppie che decidono di non fare figli per scelta in nome della lotta al cambiamento climatico. «Credo che la società che decida di non riprodursi per non influire sul clima stia soltanto scegliendo tra due suicidi: uno più veloce e uno più lento». Perché, tra le grandi paure degli ultimi anni, quella del cambiamento climatico è fortissima ed è emersa in modo deciso negli ultimi anni. «Il riscaldamento globale è un fatto, non si può negare». Però, «è evidente che viene trattato attraverso un filtro politico. Dico che, a fronte di un fatto reale, questa accelerazione della drammatizzazione del problema è sospetta». «Per anni si è discusso se emettessero più CO2 le vacche o le industrie; oggi le vacche sono state assolte quasi unanimemente»; eppure «nella fase di blocco mondiale della produzione causata dalla pandemia non si sono registrate diminuzioni significative delle emissioni di CO2, anche se è vero che conta l’accumulo di quanto emesso in passato. Va ricordato che prima di questa serie di campagne, le ragioni delle variazioni delle microfasi climatiche erano misteriose anche agli occhi degli specialisti. A metà del XIV secolo è avvenuta una microglaciazione che, forse, ha determinato lo scoppio della pestilenza, e nessuno sa di preciso da cosa sia stata causata. Si è assistito a un raffreddamento globale fino a metà del XIX secolo, da quando è cominciata une fase di riscaldamento, che però ha conosciuto alti e bassi. Negli anni ’70 gli studiosi del clima erano preoccupati dal rischio di una nuova glaciazione. Ora, a distanza di 50 anni, si è preoccupati dell’opposto». Ma «siccome non sono uno specialista del clima, direi: “chi sono io per giudicare?”»; sul fronte politico, invece, «il discorso è chiaro e lineare. Queste campagne sono nate in Europa e in linea di mira ci sono sempre stati i due maggiori inquinatori del pianeta, la Cina e gli Stati Uniti, competitori dell’Europa. Ci sono investimenti colossali in gioco, con le varie lobby dell’energia schierate le une contro le altre; anche gli ecologisti dovrebbero essere perplessi, perché il nucleare, che produce scarsissime emissioni di CO2, viene oggi riproposto come una delle soluzioni. Ecco, io noto questi elementi, vedo in gioco moltissimi interessi, e tutto ciò mette in prospettiva la narrazione principale, soprattutto quella più catastrofista». E se allora tutto si gioca in questa competizione globale, tra Paesi e tra modelli, uno degli elementi più evidenti di questa fase è la crisi della democrazia. Siamo arrivati al suo esaurimento? «Anche qui, è un problema di prospettiva. La democrazia è, prima di tutto, una forma di organizzazione del potere. Quella nata nel ’700 negli Stati Uniti aveva il principio del “no taxation without representation”. Per i padri fondatori americani serviva un campo dove potessero essere confrontati i diversi interessi della società per trovare quello comune. Il tutto in una società in cui quasi tutti erano portatori di interessi: o come artigiani e commercianti o contadini. Con il tempo quella democrazia proprietaria si è svuotata, la ricchezza è stata concentrata in un numero sempre minore di persone ed è cresciuto il numero dei salariati. La società è cambiata ma è rimasto il guscio di quella struttura, quello secondo cui tutti possono ancora votare e decidere». Se non si ha presente questo sviluppo storico, continua, «una delle conseguenze sono le geremiadi sui poteri forti, o sugli interessi che orientano la democrazia. Che però viene costruita proprio per questo, cioè per conciliarli. L’assenza di riflessioni sul punto ha generato alla lunga una contrapposizione tra portatori di interessi e partigiani della democrazia diretta», i cui riflessi sono ben noti, soprattutto in Italia. In questo scontro di retoriche «la figura del politico ne è uscita malissimo. Tanto che si sono candidate persone che hanno fatto un vanto del non essere politici, da Silvio Berlusconi a Donald Trump, fino al Movimento Cinque Stelle. Invece, prendere decisioni implica avere consapevolezza di ciò che si fa, vuol dire conoscere le cose di cui ci si occupa. Per questo la politica dovrebbe essere fatta da professionisti». Radunando insieme questi argomenti, «alcuni abbastanza tabù nel discorso politico di oggi» forse una strada per uscire dalla crisi si trova. L’analisi c’è. Serve trovare chi riesce a trasformarla in azione. Tenga presente però che la realtà comanda sempre e che, paura o non paura, alle tendenze della geopolitica non si può sfuggire».

Dagotraduzione dal Washington Post il 5 dicembre 2021. Siamo in un'epoca storica di proteste? Un nuovo studio pubblicato giovedì che ha esaminato le manifestazioni tra il 2006 e il 2020 ha rilevato che il numero di movimenti di protesta in tutto il mondo è più che triplicato in meno di 15 anni. Secondo lo studio ogni regione del mondo ha registrato un aumento, e in alcune si svolti i più grandi movimenti di protesta, come le proteste degli agricoltori iniziate nel 2020 in India, le proteste del 2019 contro il presidente Jair Bolsonaro in Brasile e le proteste in corso dal 2013 di Black Lives Matter. Intitolato "World Protests: A Study of Key Protest Issues in the 21st Century", lo studio proviene da un team di ricercatori del think tank tedesco Friedrich-Ebert-Stiftung (FES) e dell'Initiative for Policy Dialogue, un'organizzazione senza scopo di lucro con sede alla Columbia Università, e si aggiunge a un crescente corpo di letteratura sulla nostra epoca di crescenti proteste. Osservando da vicino più di 900 movimenti o episodi di protesta in 101 paesi e territori, gli autori sono giunti alla conclusione che stiamo vivendo un periodo storico come gli anni intorno al 1848, 1917 o 1968 «quando un gran numero di persone si ribellò al modo in cui le cose stavano chiedendo un cambiamento». Ma perché? Qui, gli autori evidenziano un problema particolare: il fallimento della democrazia. La loro ricerca ha rilevato che la maggior parte degli eventi di protesta che hanno registrato - il 54% - è stata provocata dalla percezione di un fallimento dei sistemi politici o della rappresentanza. Nel 28% tra le richieste c’era quella che gli autori hanno descritto come "di democrazia reale". Altri temi includevano la disuguaglianza, la corruzione e la mancanza di azione sui cambiamenti climatici. Ma gli autori dello studio affermano che i politici non rispondono adeguatamente. «Troppi leader nel governo e negli affari non stanno ascoltando. La stragrande maggioranza delle proteste in tutto il mondo avanza richieste ragionevoli già concordate dalla maggior parte dei governi. Le persone protestano per buoni posti di lavoro, un pianeta pulito per le generazioni future e una voce significativa nelle decisioni che influenzano la loro qualità della vita», ha affermato Sara Burke, esperta senior di politica economica globale presso la FES e autrice dello studio. Le proteste significano cose diverse per persone diverse. Lo studio è stato pubblicato la stessa settimana in cui il Washington Post ha pubblicato una massiccia indagine in tre parti sull'insurrezione del 6 gennaio iniziata, in parte, come protesta per le preoccupazioni di alcuni partecipanti, alimentate da teorie cospirative, sulla rappresentanza democratica. Ci saranno anche significative proteste contro il cambiamento climatico alla fine di questa settimana, ma alcuni leader europei temono che i costi dell'abbandono dei combustibili fossili possano innescare un contraccolpo come il movimento di protesta dei "gilet gialli" in Francia. Solo negli Stati Uniti, negli ultimi anni si sono verificate enormi proteste da Occupy Wall Street e Black Lives Matter al Tea Party e alle campagne Stop the Steal. Ma monitorare la portata delle proteste globali è un compito titanico. Altri progetti, come il Global Database of Events, Language e Tone, supportato da Google, hanno analizzato gli articoli di notizie per i dati sulle proteste. Burke, insieme ai coautori Isabel Ortiz, Mohamed Berrada e Hernán Saenz Cortés, ha invece adottato un metodo che richiedeva più tempo. I ricercatori hanno lavorato su mezzi di informazione in sette lingue per identificare proteste e movimenti di protesta, trovando articoli "a mano", come ha detto Burke in risposta alle domande di Today's WorldView. La raccolta da sola rappresentava più di mille ore di lavoro prima ancora che fosse iniziata qualsiasi analisi. Ma le tendenze erano chiare. Nel 2006, lo studio ha registrato solo 73 movimenti di protesta. Nel 2020 ce ne sono stati 251 – più alti anche dopo la crisi finanziaria del 2008 o le rivolte della Primavera araba del 2011. L'Europa e l'Asia centrale hanno visto il maggiore aumento del numero di movimenti di protesta e ci sono state più proteste nei paesi ad alto reddito che in paesi in altre fasce di reddito, ma è stato riscontrato un aumento delle proteste in tutte le regioni e livelli di reddito. (Gli autori hanno tenuto registri dei movimenti di protesta in diversi anni, contrassegnandoli come "eventi di protesta" separati quando sono durati più di un anno per un totale complessivo di 2.809. Ciò non significa che si siano verificate solo 2.809 proteste individuali; altri studi hanno indicato il numero di proteste del Black Lives Matter a quasi 12.000 nel solo 2020.) Oltre ai problemi con la democrazia e la rappresentanza politica, il rapporto identifica la crescente disuguaglianza come un altro tema ampio delle proteste in tutto il mondo: contribuisce a quasi il 53% delle proteste studiate. Le singole questioni sollevate dai manifestanti includevano la corruzione, le condizioni di lavoro e la riforma dei servizi pubblici seguite dalla "democrazia reale", la richiesta più citata. C'è stato anche un aumento significativo delle richieste di giustizia razziale o etnica, come con le proteste di Black Lives Matter, ma c'è stato un piccolo - ma crescente - numero di proteste incentrate sulla negazione dei diritti degli altri, come il movimento di estrema destra "Pegida" in Germania, i movimenti anti-cinesi in Kirghizistan e il movimento dei "gilet gialli". Gli autori dello studio riconoscono che il loro lavoro è intrinsecamente politico. «Non ci sono numeri neutri nelle proteste», ha detto Burke, ammettendo che la vaghezza di alcuni numeri, come le stime sulla dimensione della folla, ha lasciato le voci aperte per l'interpretazione. Anche uno studio basato su Internet è limitato da quanto riportato. «Possiamo solo studiare ciò che possiamo vedere e ciò che possiamo vedere è sempre più influenzato da dove e chi siamo», ha aggiunto Burke. Alla domanda su cosa definisca la "democrazia reale", Burke ha ammesso che era in qualche modo soggettivo: «La democrazia di una persona è l'autocrazia di un'altra persona». Ma lo studio ha cercato di prendere in parola i manifestanti. Per esempio, ha spiegato Burke, la protesta del 6 gennaio 2021 a Washington DC (che non è stata inclusa nello studio perché fuori dal suo arco temporale) sarebbe stata classificata come una manifestazione per la "democrazia reale" ma anche come protesta volta a negare i diritti. La maggior parte delle proteste non è violenta come l'insurrezione del Campidoglio, secondo lo studio, ma c'è stato un lento e costante aumento della violenza tra il 2006 e il 2020, e poco più di un quinto delle proteste registrate coinvolgono qualche tipo di violenza di folla, vandalismo o saccheggio. In quasi la metà delle proteste studiate, ci sono state segnalazioni di arresti; poco più di un quarto ha visto segnalazioni di qualche forma di violenza da parte della polizia. Forse l'argomento chiave dello studio è che con l'aumento delle proteste, i leader dovrebbero prenderle più sul serio. Nello studio circa il 42% delle proteste è andato a buon fine, anche se la percentuale varia in modo significativo in base alla regione e al tipo di protesta, e tenga conto anche di successi parziali. Più aumentano le proteste, più numerose saranno quelle che andranno a buon fine. «Ultimamente le proteste in tutto il mondo hanno avuto una dubbia reputazione», ha detto Michael Bröning, direttore dell'ufficio FES di New York. «Dobbiamo capire che le proteste non sono un comportamento verbale, ma un principio fondamentale della democrazia. Ciò di cui abbiamo bisogno è a dir poco una riabilitazione globale della protesta». 

«Abbiamo incontrato il nemico… e siamo noi». Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 13 Settembre 2021. Non sono la guerra nucleare o il terrorismo le più grandi minacce per la democrazia americana, scrive Tom Nichols, ma il narcisismo e il nichilismo della gente comune. Insomma, se siamo demoralizzati, preoccupati, o addirittura indignati per lo stato sempre più terribile della nostra democrazia, sgombriamo il campo dai dubbi: il nostro peggior nemico, come dice Nichols, siamo noi. Se la democrazia liberale sta facendo fiasco, la colpa, sostengono i populisti illiberali, è delle élite: globalisti, burocrati, giornalisti, intellettuali, politici. Secondo Nichols, che ha appena pubblicato «Our Own Worst Enemy», sono, al contrario, i cittadini comuni che stanno fallendo la prova della democrazia. Quella di Tom Nichols è una riflessione stimolante sullo stato della democrazia americana che, ovviamente, vale anche per noi: tutto il mondo (occidentale) è paese. «Decenni di continue lamentele», scrive, «mandate regolarmente in onda in mezzo a continui miglioramenti degli standard di vita, alla fine hanno preteso il loro pedaggio». Il nemico, afferma Nichols, siamo «noi». I cittadini delle democrazie, scrive, «devono ora vivere con la chiara consapevolezza che sono capacissimi di sposare movimenti illiberali e di minacciare le loro stesse libertà». Nel libro, Nichols spiega che l’assenza di virtù civiche, unita alle aspettative crescenti degli americani e alla convinzione che tocchi al governo prendersi cura di ogni loro necessità, rappresenta oggi una minaccia esistenziale per il sistema di governo americano. Nichols lo racconta prendendo a prestito una scena di un vecchio film (del 1975) diretto da Sidney Pollack: «I tre giorni del Condor». La vita, si sa, imita l’arte ed il thriller, ambientato nella New York della metà degli anni ’70, si discosta dal genere spionistico tradizionale e pone interrogativi di tipo politico. Al centro della vicenda, c’è infatti la possibilità che i servizi segreti, o una parte di essi, sfuggano ad ogni controllo e agiscano secondo finalità e con mezzi non corretti e, comunque, non autorizzati da nessuno. Nella scena, due agenti della CIA discutono nervosamente del piano segreto (preparato da un funzionario deviato: Leonard Atwood) d’una guerra da far scoppiare nel Medio Oriente per assicurarsi il controllo del petrolio (piano che il rapporto del giovane Joseph Turner, nome in codice «Condor» aveva involontariamente smascherato). Quando l’alto ufficiale, Higgins (il vicedirettore di New York, incaricato di recuperare Turner, sopravvissuto al massacro) dice che, in realtà, si trattava di un buon piano, la sua insensibilità sbalordisce il giovane analista di livello inferiore. Ma Higgins dice che in tempi difficili, alla gente non importa come le risorse come il petrolio o il cibo sono loro assicurate: «Vorranno solo che gliele procuriamo». Lo scambio di battute è serrato: «È semplice economia, Turner… Non c’è discussione. Il petrolio ora, tra 10 o 15 anni, sarà il cibo, o il plutonio. Forse prima. Cosa pensi che la gente vorrà che facciamo allora?». «Chiediglielo!», risponde Turner. «Ora?», replica Higgins, scuotendo la testa. «Huh-uh. Chiediglielo quando stanno per esaurire le scorte. Quando fa freddo a casa e i motori si fermano e le persone che non sono abituate alla fame…hanno fame! Non vorranno che glielo chiediamo…. Vorranno solo che glieli prendiamo». Il risultato, dice Nichols, è che, di questo passo, «avremo una tecnocrazia che non chiede più la nostra opinione perché non può avere una risposta. E dico sempre, questo non sarà un takeover. Ci governeranno di default, perché non ce ne frega niente». Nichols è cresciuto in una casa popolare nel Massachusetts e ora è insegna al Naval War College e alla Harvard Extension School. Collabora con The Atlantic e Usa Today e qualche anno fa ha scritto il bellissimo «The Death of Expertise» («La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia», editore Luiss University Press). È un ex repubblicano di vecchia data che ha lasciato il partito disgustato dalla beatificazione di Trump (fa parte del «Never Trump» movement). La sua è in parte una geremiade su quello che siamo diventati  – un elettorato infantile e poco serio che vuole il suo lecca-lecca e lo vuole «ora» – e in parte un appello per fermare l’emorragia prima che sia troppo tardi. Il libro, scritto con uno stile colloquiale, sembra infatti una ramanzina di papà (dei papà di una volta): tirati sù, infilati la camicia e trovati un lavoro, per l’amor del cielo. Ma il libro tocca un tasto dolente. La democrazia liberale è minacciata dall’interno. Insomma, i populisti fomentano passioni violente e soffiano sul fuoco della paura e dell’insoddisfazione? Sì, certo. Ma sono gli elettori a mandarli al potere. Meno di un americano su sei crede che la democrazia funzioni bene, quasi la metà ritiene che non stia funzionando per niente e il 38% dice semplicemente bah. Nel ventesimo secolo, osserva Nichols, le democrazie liberali sono sopravvissute a molteplici conflitti globali, hanno sconfitto il fascismo ed il totalitarismo, hanno superato depressioni e recessioni multiple, eppure oggi sembrano incapaci di superare sfide meno complesse, anche in un contesto globale di relativa pace e prosperità. Segmenti rilevanti della popolazione negli Stati Uniti e nei paesi europei hanno perso fiducia nelle istituzioni democratiche, e un numero crescente di sondaggi dice che sono in molti a pensare che non sia poi così «essenziale» vivere in una democrazia. Nichols sostiene che in un’epoca segnata dal più cinico egocentrismo, i cittadini delle società occidentali hanno smarrito ogni considerazione dei valori democratici e le virtù dell’impegno civico. Ma Nichols riconosce che ogni rinnovamento della democrazia liberale si dovrà basare proprio sulla gente comune, cioè su quelli, tra loro, che possiedono la coscienza civica e le virtù necessarie per far funzionare il sistema e resta fiducioso sul futuro della democrazia liberale sia in patria che nel mondo. «Di una cosa sono certo», scrive nella prefazione, «la possibilità di tornare ad una vita democratica più civile e più serena è interamente nelle nostre mani, se scegliamo di farlo».

Quel conflitto per il potere globale. Andrea Muratore il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Niall Ferguson ne "La Piazza e la Torre" parla del confronto come motore del progresso collettivo, anche a costo di una continua conflittualità. Le società complesse hanno, nel corso della storia, seguito sostanzialmente due direttrici: la tendenza a strutturare una gerarchia precisa sul fronte organizzativo, politico e sociale e la creazione di reti complesse volte a trasmettere idee, conoscenze, rapporti umani. Gerarchia e dimensione collettiva hanno spesso proceduto all'unisono, nella politica come nell'economia, sono sorte una in bilanciamento dell'altra o si sono opposte. L'età imperiale romana è un caso del primo tipo; l'Italia dei comuni medievali del secondo, la Francia dell'era rivoluzionaria e napoleonica del terzo. Gerarchie e reti come motore d'azione sociale sono studiate dallo storico britannico Niall Ferguson nel saggio La piazza e la torre, che prende il nome dalla struttura urbanistica di Piazza del Campo a Siena, simbolo della "rete" su cui si proietta l'ombra della Torre del Mangia, simbolo della gerarchia. Ferguson interpreta la storia degli ultimi millenni in Occidente come un'alternanza continua tra cicli di predominio sostanziale del modello gerarchico di società e Stato (dal Medioevo alla fase degli imperialismi) e periodi in cui sono le reti a dare il là a nuovi modelli (i Comuni, la Francia rivoluzionaria, l'età dei moti ottocenteschi, a suo modo l'era di Internet). La sua è una teoria della complessità, che analizza il potere e gli sviluppi sociali come prodotti derivati delle mutazioni sociali, politiche e culturali, e la società in sé come frutto di interazioni relazionali. Essa insegna molto anche della lettura del mondo di oggi, in cui i principi dell'agorà e quelli verticistici sono in perenne interazione. Non necessariamente conflittuale. Che cos'è, in fin dei conti, la pandemia di Covid-19 se non un virus diffusosi grazie all'espansione capillare delle reti di interconnessione, dei sistemi sanitari centralizzati e delle interazioni umane e la cui conoscenza è spesso degenerata in infodemia per errori e abusi commessi sulle reti digitalizzate? Cos'è stata la risposta imposta da molti governi se non la riaffermazione della gerarchia e dell'autorità come strumento d'ordine nella fase di emergenza? Allargando il campo, non possiamo forse vedere nella storia del mondo globalizzato un perenne confronto tra il principio della piazza e quello della torre? Risposte emergenziali sono state imposte in nome della lotta al terrorismo; le reti digitali narrate dai guru del web come strumento di emancipazione collettiva sono finite egemonizzate da pochi potentati estrattivi, da regimi autoritari intenti a governarne i dati, da Stati desiderosi di inserirli nel quadro del loro progetto per l'interesse nazionale (sono questi due i casi di Cina e Stati Uniti); la governance globale dell'era presente è caratterizzata dalla massima concentrazione di retorica democratica nella storia a cui va sostanzialmente associandosi di pari passo una riduzione sostanziale di svariate sovranità statuale. In diversi Paesi occidentali la crisi della democrazia, ovvero la comparsa di crepe sulla piazza, a causa dell'inaridimento del dibattito politico ha prodotto la rivolta populista e l'illusione di una ristrutturazione della torre anche nel nostro contesto. Leader come Vladimir Putin, Xi Jinping e Papa Francesco sfruttano per i loro progetti politici il controllo sulla gerarchia e la valorizzazione del controllo delle reti di comunicazione e influenza delle istituzioni da loro presiedute. La società del digitale e dell'informatica, in questo contesto, diffonde un mito egualitario che va di pari passo con il problema della ripresa della disuguaglianza: "quando le reti e i mercati si allineano, come sta avvenendo ai giorni nostri, la disuguaglianza riesplode, perché i guadagni prodotti dalle reti finiscono in misura preponderante nelle mani di chi le possiede", nota con lucidità Ferguson. La folle corsa delle borse mondiali nell'era del Covid segnala l'attualità di quanto sottolineato dallo storico britannico, che nell'era presente ravvisa un'accelerazione della capacità delle reti di creare nuovi sistemi gerarchici data dall'abbattimento di diverse barriere comunicative e di contatto. E oggi come in passato, le catastrofi sanitarie testimoniano la fragilità del sistema e le sue aporie interne, le sue fragilità e le sue contraddizioni: un complesso di relazioni sociali ed economiche e un apparato politico si trova messo in discussione quando è messa alla prova la sua capacità di preservare la vita dei cittadini che al suo interno si muovono. Per la nostra società, questo significa che il Covid ha posto fine definitivamente al beato positivismo circa i destini positivi inevitabili della globalizzazione e delle libertà di movimento e degli interscambi ad essa associati, rilevando un sottobosco di ineguaglianza e fragilità. Ma la dialettica continua: e tra reti sempre più ampie e avanzate tecnologicamente e poteri gerarchici rilanciati dalla pandemia, in una sfida che prosegue giorno dopo giorno, è ancora duro dire chi, in prospettiva, dopo il Covid-19 avrà la meglio. 

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è 

Se l’ambientalismo diventa ideologia la citta va fuorispista. Antonio Ruzzo il 20 giugno 2021 su Il Giornale.  C’è un filo sottile che separa l’ambientalismo dall’ideologia, dalla convinzione che le sorti del Pianeta possano essere interamente nelle mani dell’uomo. Così non è, ovviamente, ed è un attimo che quel filo si spezzi. Sembra un po’ quello che sta accadendo in città, dove la «crociata» ambientalista del sindaco Sala e di alcuni suoi assessori rischia di portare Palazzo Marino su posizioni lontanissime dalla realtà milanese, in una città «parallela» che ignora proteste, disagi, difficoltà economiche esigenze che il post pandemia impone per una ripartenza economica che dire incerta è essere ottimisti. E quando l’ambientalismo diventa ideologia cancella soprattutto il buonsenso. Le piste ciclabili di per sè non sono un problema. É sacrosanto che una città organizzi la sua mobilità al meglio possibile e le bici sono un’ottima alternativa. Un’ottima alternativa, appunto. Non l’unica soluzione possibile. A parte che non tutti possono o sono in grado di pedalare, una città come Milano per muoversi, lavorare, trasportare ha bisogno di un piano di mobilità concreto e non ideologico che metta mano, ad esempio, all’organizzazione del trasporto pubblico che durante l’emergenza ha mostrato qualche limite e che riveda, altro esempio, gli orari di consegna delle merci, che ipotizzi un carico-scarico notturno magari utilizzando anche le metropolitane, che immagini la possibilità di creare hub di smistamento fuori dalle circonvallazioni per camion e furgoni con navette elettriche che poi entrano in città per consegnare porta a porta. Cose concrete, ma non se ne parla. La deriva ideologica di Palazzo Marino è di andare avanti sommando chilometri e chilometri di ciclabili senza dubbi e senza sentir ragioni investendo un sacco di danè che magari sarebbero più utili per rimodernare una rete elettrica «antica» che in questi giorni di caldo e di condizionatori accesi non tiene botta. Una deriva che ha portato a una politica fatta di annunci che sogna una città libera e felice dove l’urbanistica è solo «tattica», dove le periferie sono «green e friendly», dove non ci sono auto nè parcheggi (perchè se non ci sono le auto non servono) e dove in strada non si può più neppure fumare una sigaretta. Dalla viabilità all’ambiente alla sicurezza è un furbo «zigzagare» alla ricerca del consenso inseguito con la scorciatoia degli slogan che alla lunga però finisce per scavare un solco profondo con le esigenze di chi si ritrova a fine mese con un negozio che non incassa, con gli stipendi da pagare, con le bollette sulla scrivania. E in questi casi per far tornare i conti l’ideologia serve a poco. Sarebbe meglio, molto meglio, un buon amministratore di condominio…

Moriremo marxisti inconsapevoli. Nicola Porro il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. Tutte le economie del mondo vivono in un delicato compromesso tra mercato e Stato, tra privato e pubblico. Non c'è mercato senza leggi, non esiste Stato senza individui. L'Italia sta prendendo una brutta piega. Tutte le economie del mondo vivono in un delicato compromesso tra mercato e Stato, tra privato e pubblico. Non c'è mercato senza leggi, non esiste Stato senza individui. L'Italia sta prendendo una brutta piega. La pandemia, come aveva auspicato il ministro Speranza nel suo libro mai uscito, è un'occasione per ristabilire «l'egemonia culturale di sinistra». Progetto che si sta realizzando. Vediamo quattro casi lampanti. Nel governo si bisticcia su come allentare il blocco dei licenziamenti. Fino ad oggi c'è stato uno scambio perverso: lo Stato paga la cassa integrazione e le imprese stanno mute e non fanno fuori nessuno. Ne pagano le conseguenze (inintenzionali?) i meno garantiti e cioè giovani al primo impiego e donne part time. Già il punto di partenza è sbagliato: un imprenditore non licenzia per il piacere di licenziare, ma perché non è in grado di reggere il conto economico. Bloccare i licenziamenti per più di un anno, uccide in prospettiva le imprese (a meno che non sperino di avere incentivi in eterno) e danneggia il mercato del lavoro. Da sinistra sino a destra, in pochi ritengono questa norma emergenziale, semplicemente folle. Seconda palese invasione di campo: il blocco degli sfratti. Qui i piccoli proprietari hanno qualche influenza in più sul centrodestra, non fosse altro che in Italia essi sono numerosissimi. È difficile giustificare, da un punto di vista liberale, l'impossibilità per un proprietario di godere dei propri beni, soprattutto nel caso in cui i contratti non siano stati rispettati. Tanto vale abolire la proprietà privata: il blocco degli sfratti altro non è che la statalizzazione del risparmio privato. Terzo campanello d'allarme: la proposta, tanto gradita da professori e media democratici, di inasprire l'imposta di successione. Gioverebbe ricordare loro che essa fu abolita da un governo di centrosinistra nel 2000, per il semplice motivo che le sue aliquote, allora stellari, non generavano entrate. Ma oltre a essere una tassa poco efficace, è odiosa: come ha detto un importante dirigente del Pd, essa è giusta perché i ricchi devono «restituire» ciò che hanno accumulato. Fu Marx a scrivere che l'origine del capitale «gronda di sangue»: un pregiudizio che ritenevamo seppellito. Ultimo aspetto riguarda le semplificazioni: è l'anello più importante. Semplificare vuol dire togliere poteri allo Stato e pensare che i privati non siano dei mascalzoni per definizione: è la battaglia culturale più difficile. Ecco perché il progetto messo in piedi da Mario Draghi è così contestato. Non moriremo democristiani, ma marxisti inconsapevoli.

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su...

Tutti invocano il popolo, ma quando va in piazza tutti lo vedono come nemico. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2021. Il Vento dell’antipolitica agita le piazze. Io partecipo, le vedo, non mi sottraggo. È politica o sono performances? Un artista potrebbe immaginare di trasformare in creazione artistica la rabbia, talvolta la disperazione, più spesso, sentimento molto forte oggi, la frustrazione. Non era un artista Daniel Marc Cohn Bendit? E non era un politico-profeta Giorgio Gaber? E Marco Pannella, grande attore nell’aula di Montecitorio? O un attore in attività, come Beppe Grillo, capo del primo partito in Parlamento, senza essere in parlamento? Non erano la fantasia al potere? Purtroppo non sono stati tanti, divertenti e appassionanti, nel gran teatro della politica, dove spesso il politico è didascalico e noioso. Andreotti, in fondo, è stato come Sordi (e con Sordi l’abbiamo visto in un film). Non è stato un grande artista, negli ultimi due anni dadaisti di presidenza, Francesco Cossiga? E poi un grande comico negli ultimi diciotto anni. Non è teatro lo scontro irresistibile con Palamara? Una profezia visionaria. In Parlamento Gabriele d’Annunzio, cambiando parte politica, dichiarò: “Vado verso la vita!”. E oggi, con impulso spontaneo, non è un artista il ribelle ristoratore, poeta della vita, Umberto Carriera di Pesaro? Volete confrontarlo con il politico ufficiale Matteo Ricci, renziano del Pd? Chi ci parla di più, nonostante le continue prediche televisive del secondo? E non è un artista il presidente della Regione Calabria, Nino Spirlì, indimenticato autore del “Diario di una vecchia checca”? Uomini nuovi. Vi ricordate i burosauri Emilio Colombo, Fiorentino Sullo, Giovanni Leone, Ciriaco de Mita. Oggi l’arte aspira al potere. Ma si manifesta da tempo come attacco alla politica, non con argomenti, ma con demagogia, da Berlusconi a Grillo. Fare politica criticando il fare politica. L’attacco alla politica è l’attacco a se stessi. L’hanno già fatto i 5 stelle, e li vedete. Nel mio caso, così ribellistico dentro il Palazzo, fino ad esserne espulso come nella “Deposizione” di Raffaello, non mi piace, dopo essere stato l’unico in Parlamento, l’unico, per un anno, a contrastare le misure di questi governi, essere trattato come uno che ha a che fare con i vigliacchi e gli opportunisti della politica. Io ho sempre pagato in prima persona per quello che ho detto. Il popolo in piazza è politica. Tutti invocano il popolo e, a parole, si dicono interpreti dei problemi del popolo. Poi quando il popolo (ristoratori, ambulanti, tassisti, baristi, parrucchieri…) scende in piazza e, disperato, grida e protesta, arrivano i nemici del popolo, e cioè quelli che “non bisogna agitare la piazza”, “non bisogna cavalcare la protesta”, “no ai toni esasperati”, “bisogna interloquire con il Governo”. Ecco, i nemici del popolo sono questi: i “pompieri” di professione, i normalizzatori, i silenziatori, i difensori dello status quo, quelli che il popolo lo vogliono tenere buono. E stanno tutti a pontificare da dentro un palazzo, con uno stipendio fisso (pagato dallo Stato), guardandosi bene dallo scendere in piazza e metterci la faccia. Sono le Carfagne di regime, che chiamano i pochi politici liberi “professionisti del caos”. Loro, professioniste del proprio vantaggio, favorite del potere. Io continuerò a metterci la faccia. Senza farmi intimidire da nessuno, comunicando pensieri e idee. Senza idee e senza rispetto delle idee, quando ci sono (posizione tipica e disfattistica di che non le ha , e si arrocca nel palazzo), non si va da nessuna parte. I partiti sono fatti di idee. Non vanno confusi con le partite. Gli slogan, perbenistici, da una parte e dall’altra, sono dei depensanti. E chi sta fuori deve entrare; non demonizzare il palazzo e la politica. Deve portare dentro la sua sofferenza e la sua insofferenza. Deve cambiare l’arredo del palazzo. Tra gli artisti, vero artista e intelligente, l’ha fatto Edi Rama, il premier albanese. Con il pensiero anche le stanze sono cambiate. Le ha letteralmente dipinte lui. Noi oggi abbiamo un banchiere dai gesti eleganti e sobri. Se avessimo un artista, con i soldi delle commissioni per le mascherine avremmo comprato l’ “Ecce homo” di Caravaggio, in asta a Madrid. La politica sono scelte nuove. Io non sono gradito alle persone con le idee confuse sulla politica e sulla vita, che sono sia dentro sia fuori del palazzo. Anche l’Università è corrotta, ma non per questo si smette di studiare. La politica è come la vita. Negarla è morire. Non si rinuncia a studiare perché un professore è ignorante. Ce ne sarà uno che ci ripaga per quello che gli altri non sanno.

I grandi malati della politica italiana? I partiti. Ed ecco il perché. Francesco Caroli, Agitatore culturale, su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Cambiano le stagioni politiche e le sigle, passano gli anni e si alternano differenti sistemi elettorali, ma il Parlamento e soprattutto le segreterie dei partiti politici, o ciò che ne rimane, restano popolati sempre dagli stessi volti. In realtà quello della mancanza di contendibilità dei partiti, in primo luogo, nei confronti di correnti ed esponenti outsiders, o semplicemente volti nuovi, è ormai diventato un tema preminente nell’agenda politica italiana. Non passa giorno, infatti, in cui in un qualche partito non si annuncino prese di posizione interne capaci di lacerarne la tenuta dello stesso, oppure tensioni provocate da attacchi personali e sgarbi istituzionali.

E questo, purtroppo, è un problema che si trascina dalla nascita delle Repubblica: dal correntismo interno alla Dc, all’incapacità di trovare un successore di Berlusconi e una sintesi unitaria nel centrosinistra. Tuttora, a destra, Forza Italia è ancora in crisi d’identità, schiacciata tra Salvini e Meloni, mentre a sinistra, Letta cerca la sintesi tra criteri di selezione difficilmente conciliabili e rappresentanza. Ed in entrambi i casi il problema di fondo è riconducibile alla contendibilità interna della leadership partitica (anche ai livello locale) e quindi del confronto tra correnti. Un problema questo, presente sia in grandi partiti, sia in entità più giovani, come +Europa; che nel giro di soli tre anni ha da prima incarnato una corrente liberale di centro, per poi subire una scissione interna le cui sorti rischiano persino di far naufragare il suo progetto politico stesso. Tra l’altro, prima ancora che alcune delle sue idee migliori possano esprimersi. Ed è proprio sull’espressione, questa volta degli iscritti di +Europa, che si è consumata una vera e propria lotte tra “bande” all’interno del partito, la quale ha condotto alle dimissioni di Bonino e di della Vedova. La prima, difatti, ha individuato nella cupidigia della classe dirigente le cause della autoespulsione, mentre della Vedova l’ha seguita per imporre un congresso, troppo a lungo rinviato, e giungere così a prendere atto della volontà degli iscritti. D’altronde le regole interne a +Europa sono chiare: il congresso doveva tenersi a inizio 2021, mentre c’era chi, in virtù di una posizione solida, sarebbe stato disposto a posticiparlo persino al 2022; non curandosi però di chi si era avvicinato al partito e desiderava dare il suo contributo. In sostanza, nulla di nuovo sotto il sole, ma il dover constatare, per l’ennesima volta, l’assenza di un dialogo tra posizioni differenti e la presenza di politici pronti a prendere la palla e minacciare di tornare a casa, pur di non confrontarsi sui voti, dimostra l’insensibilità verso gli iscritti. E tutta questa instabilità, questi continui cambi di regole e il non riconoscimento non solo degli avversari politici, ma anche di compagni di squadra che la pensano in maniera diversa, non produce che un effetto: indebolire i partiti politici. Di per sé già dilaniati dalla mancanza cronica di fondi e dall’inseguimento, sempre a ribasso, di proposte populiste di dubbio valore (come il taglio dei parlamentari). In questo modo, inoltre, si finisce spesso per alimentare scissioni quotidiane e la nascita di micro-partiti personali che evitano, per struttura propagandistica, quei momenti di dibattito che rappresenterebbero invece una vera e propria palestra per gli aspiranti “politici”. La formazione politica, infatti, non può essere ridotta a lezioni frontali o comizi, ma dipende da quelle esperienze, da quelle sintesi e quei compromessi che dovrebbero avvenire proprio all’interno di un partito. Occorre quindi più coraggio nel dare spazio ai quei pochi giovani che, anche in quest’epoca di sfiducia nelle istituzioni, hanno ritrovano la passione per la cosa pubblica. La paura di essere spodestati, estromessi, non può fungere da freno per l’ingresso di aria fresca, di idee ed di energie nuove capaci di donare più slancio alle sfide del futuro: un partito fermo è un partito morto. La rappresentatività, tanto invocata con il proporzionale e dai vertici dei partiti, si riduce spesso, soprattutto nei fatti, a liste bloccate e paracadutati che favoriscono sempre gli stessi nomi, i quali poi impediscono discussioni interne sulla leadership. Ed è allora poi evidente perché gli iscritti si allontanino e gli elettori non votino, oppure rivolgano il loro sguardo altrove. D’altro canto la Lega è riuscita, nonostante la sua proposta programmatica, a creare una successione interna e un ricambio della classe dirigente salvando di fatto un partito sulla via del tramonto, mentre chi oggi si professa liberale e democratico, non riesce neppure ad avviare un dialogo interno senza che qualcuno si cucia la bocca o se ne vada via. Occorre dunque ripensare al ruolo laico di quei partiti capaci di premiare e valorizzare le sensibilità dei militanti, promuovendo così una sana partecipazione, spesso ispirata dal desiderio di contare, di decidere nei momenti importanti. Dopo tutto, il confronto dentro un partito è il sale della democrazia; senza di esso, che cosa resterebbe della cosa pubblica?

Quando l’ideologia diventa umanitarismo: buonismo e snobismo radical chic. Clemente Sparaco su culturaidentita.it il 27 Dicembre 2020. L’anno che verrà è quello che ci si affanna a divinare in questi ultimi giorni dell’anno che volge al termine. E’ anche il titolo di una canzone famosa di Lucio Dalla scritta, manco a dirlo, sul finire di un anno, il 1978, aspettando il nuovo. Siamo a 10 anni dal ’68, quando, tramontati i sogni di trasformazioni epocali, si toccava con mano anche a sinistra la crisi dei grandi racconti, che avevano avuto per protagonisti i partiti, le masse, le avanguardie ispirate. Si avvertiva, quindi, che era tramontata non solo l’attesa messianica di una trasformazione rivoluzionaria, ma anche la fiducia nel nuovo. Proprio in quegli anni J. F. Lyotard teorizzava che era finito il moderno e che ci si avviava in un’epoca contraddistinta dal venire dopo e perciò connotata anche terminologicamente dal prefisso post: il postmoderno. Cosicché chi viveva quella condizione avrebbe avuto ormai la sensazione “di venire dopo la totalità della storia, con le sue origini sacre e mitologiche, la sua stretta causalità, la teleologia segreta, il narratore onnisciente e trascendente e la promessa di un lieto fine, in chiave cosmica o storica” (così Heller e Fehér in un loro felice saggio). In effetti, oggi che non si presume più di sapere quale sia la direzione della storia né di sapere se essa abbia una direzione (lineare e razionale), alla speranza del nuovo si è sostituito un desiderio di novità inessenziale e superficiale. E’ qualcosa di raggelante e di molto diverso da quanto presagiva Lucio Dalla, quando concludendo il suo brano cantava: “Io mi sto preparando, è questa la novità”. Perché il punto è proprio che noi non siamo preparati. Non lo siamo innanzitutto perché le nostre categorie ideali di lettura della storia sono inadeguate. E’ vero, l’ideologia, comunista, modernista, liberale, illuminista, scientista, presidia ancora giornali, case editrici, l’Università, la scuola, e continua a selezionare le fonti della storiografia, manipolando il passato per diffondere e a smerciare concetti e preconcetti andati a male. Ma questa sopravvivenza si esprime ormai solo nelle forme affievolite e melense di un’ideologia del bene, nella retorica dell’amore contro l’odio, della tolleranza contro i muri. Il materialismo dialettico ormai si è ridotto a consumismo pratico, la lotta per l’emancipazione a edonismo rozzo, l’emancipazione del soggetto ad arrivismo spicciolo, il libertarismo ad individualismo capriccioso, il collettivismo a massificazione mediatica. Dovunque i rottami di un dogmatismo ideologico che si traveste di umanitarismo: buonismo e snobismo radical chic di risulta. Il punto è che oggi è venuta a cadere non una singola ideologia, bensì la matrice narrativa e progressiva che era dietro la forza delle ideologie, sia quelle etico-politiche, sia quelle scientifiche. L’idea di modernità, definita come trionfo della razionalità sui vecchi ordini, “ha perso la propria forza di liberazione e di creazione” (A. Touraine) ed abbiamo smarrito la certezza del progresso, che era poi la nostra fede residuale. Stiamo pertanto cominciando a riapprendere che la storia non è una galoppata senza possibilità di ristagni e di involuzioni né la ragione una forza destinata al trionfo, perché l’una e l’altra possono deteriorarsi e ricadere in una sorta di nuova barbarie e di più raffinata violenza. La crisi si è fatta cronica ed è diventata strutturale. Dalla politica si è trasferita all’economia e quest’anno ha intaccato anche la salute con la pandemia, cosicché ormai si sparge in tutti i gangli del nostro organismo malato. Siamo in sostanza a quello che un interprete inascoltato della civiltà e della storia, il napoletano Giambattista Vico, chiamava il “ricorso”. Ma a fronte di tutto questo forse siamo messi finalmente nella condizione di capire che nell’ambito di questa nostra storia umana non esisterà mai la situazione assolutamente ideale e mai avremo un ordine di libertà definitivo. Siamo sempre in cammino ed in un cammino sempre relativo. L’ordine ideale non esiste. Il mondo liberato è un mito. Pertanto, anche il cambiamento non è un bene in se stesso. “Se esso è buono o cattivo – ha scritto J. Ratzinger – dipende dai suoi contenuti e dai punti di riferimento concreti. (…) Nella storia ci sarà sempre un progredire e un retrocedere. In rapporto alla autentica natura morale dell’uomo, la storia non si svolge linearmente, ma con ripetizioni. Nostro compito è lottare di volta in volta nel presente per quella strutturazione relativamente migliore della convivenza umana e custodire il bene così raggiunto, vincere il negativo esistente e difenderci dall’invasione delle potenze della distruzione”. Ed è forse questa la novità a cui dobbiamo prepararci per l’anno che verrà.

Covid, Chiesa sottomessa alla nuova religione terapeutica. Diego Fusaro su Affari Italiani il 15/4/2021. Così leggiamo su "La Repubblica", rotocalco turbomondialista, voce del padronato cosmopolitico e ultimamente anche grancassa del nuovo Leviatano terapeutico: "Il prete no-mask di Vanzago trasferito: invitava a non usare la mascherina e criticava le norme anti-Covid" (13.4.2021). È la triste storia di Don Diego Minoni, parroco della chiesa dei Santi Ippolito e Cassiano, colpevole di non essersi piegato al nuovo ordine terapeutico e, di più, di aver esortato i suoi fedeli alla disobbedienza civile e a non barattare la libertà per la sicurezza del bios. Quel che colpisce in questa vicenda è il fatto che ad aver, per così dire, sanzionato il prete è stata direttamente la Chiesa, non il potere mondano: Chiesa la quale, trattando don Diego come un eretico, ha dunque, ancora una volta, preso apertamente posizione a sostegno del nuovo ordine pandemico e della nuova modalità di governo delle cose e delle persone. La vicenda mi pare istruttiva, giacché avvalora la tesi a suo tempo formulata da Ernst Bloch in "Ateismo nel cristianesimo". Secondo Bloch, esisterebbero due correnti diverse e anzi opposte interne al cristianesimo: da un lato, la corrente calda, che nel nome del regno dei cieli si oppone alle storture del regno terreno e arriva perfino a battersi per il rovesciamento del potere; dall'altro, la corrente fredda, che in maniera diametralmente opposta fa da stampella per il potere, scomunicando chiunque osi ad esso contrapporsi. Ebbene, la vicenda di Don Diego mostra in modo adamantino la compresenza, nella medesima istituzione e nel medesimo tempo, di entrambe le correnti. Che quella di Bergoglio e della Chiesa di Roma sia incontrovertibilmente la corrente fredda del Cristianesimo, in specie in relazione al nuovo ordine terapeutico (ma poi anche in connessione con il globalismo del blocco oligarchico neoliberale), lo suffraga il trattamento riservato a don Diego, colpevole di non essersi piegato al potere egemonico che si nasconde oggi dietro il lessico medico-scientifico. Insomma, rivendicare dall'altare la non sacrificabilità delle libertà e dei diritti in nome della salute è assai più grave, a quanto pare, che svuotare dall'interno il cristianesimo in nome dell'ideologia del global-capitalismo e della ovunque imperante dittatura del relativismo. Come più volte ho evidenziato, fin dalla epifania del coronavirus la Chiesa di Bergoglio è divenuta pavida ancella della nuova religione terapeutica: religione che promette la salvezza del corpo e che in nome di essa chiede di sacrificare tutto il resto. Messe via streaming, accettazione dell'ordinaria disumanità del distanziamento sociale, sospensione della estrema unzione per i malati di covid, acquasantiere di gel sanificante all'ingresso delle chiese, aperta tematizzazione da parte del sommo pontefice della obbedienza alle norme del governo. I virologi hanno esautorato i teologi, con la conseguenza che ove ancora si diano preti che credono in Dio più che nella religione terapeutica, subito vengono puniti dai nuovi adepti del culto sanitario. Se Gesù Cristo sanava i lebbrosi e se San Francesco li abbracciava addirittura, la Chiesa di Bergoglio ha scelto di adeguarsi al nuovo noli me tangere della contactless society propria dell'ordine terapeutico del distanziamento sociale, del controllo biopolitico totale e del culto del Sacro Dogma medico-scientifico.

Diego Fusaro (Torino 1983) insegna storia della filosofia presso lo IASSP di Milano (Istituto Alti Studi Strategici e Politici) ed è fondatore dell'associazione Interesse Nazionale (interessenazionale.net). Tra i suoi libri più fortunati, "Bentornato Marx!" (Bompiani 2009), "Il futuro è nostro" (Bompiani 2009), "Pensare altrimenti" (Einaudi 2017).

·        Vizio sinistro: criminalizzazione della Società.

Antonello Piroso per la Verità il 29 ottobre 2021. Cari amici, vicini e lontani, della sinistra (chiunque voi siate: nel senso che non mi è chiaro quante e quali sinistre ci siano oggi in Italia, ma transeat), capisco vi sentiate «sinistrati», dopo l’intervenuta «tagliola» sul ddl Zan, ma vorrei provare a sottoporvi alcuni spunti di riflessione: 

1.Vi siete impossessati dello slogan «legge e ordine», tipicamente di destra. Norme, sempre più norme, che dovrebbero garantire una più efficace repressione dei comportamenti criminali o criminogeni. Per capirci, con un esempio necessariamente grossier, prendiamo l’omicidio, articolo 575 del codice penale: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito...». Lo disciplinano anche altri articoli che aumentano la pena, se sussistono la premeditazione o le cosiddette aggravanti (assassinio per motivi «futili e abietti», la compresenza di «sevizie» o «crudeltà» ecc).

2 Ad un tratto, però, si è ritenuto che tutto questo non bastasse più, e si è iniziato ad inasprire ulteriormente le sanzioni in caso di determinate vittime. Come? O con l’introduzione di articoli bis, ter e quater, o con leggi ad hoc. Muore, o è vittima di brutalità o discriminazioni, un nero, un ebreo, un sionista, un arabo, un musulmano, e, perché no, un «terrone»? Ecco la norma nuova di zecca sul delitto compiuto per motivi di odio etnico-razziali, nazionali, religiosi. 

3 Stesso format con l’omicidio stradale (da colposo in volontario, con molti dubbi su estensione e campo di applicazione), nonché con la legge sul cosiddetto femminicidio, un pigro mantra come se fosse in atto uno sterminio del genere femminile da parte di maschi desiderosi di annientarlo, e non casi - sempre troppi, terribili e dolorosi - di donne uccise da uomini che non meritano neppure di essere definiti tali.

4 Quindi ci si è preoccupati dei comportamenti esecrandi, vili e sadici verso omosessuali e lesbiche, cui poi si sono aggiunti i trans, e poi i queer, gli asessuali, con la proliferazione dell’acronimo da Lgbt a Lgbtqia+ etc, da sanzionare anch’essi con prescrizioni app o s i te. 

5 La domanda sorge spontanea: quante e quali altre tipizzazioni delle vittime di violenza e omicidio vanno previste? Quali categorie andranno vieppiù protette? Se i minori sono tutelati, come la mettiamo per esempio con gli anziani? Immaginando il geriatricidio? E perché fermarsi agli umani? Che fare con soppressione e maltrattamenti dei nostri amici animali?

6 Manette agli evasori, spazzacorrotti, codice degli appalti, codicilli, editti, pandette e grida manzoniane. Massì, facciamo vedere che abbondiamo. Un aumento dei precetti penali, però, non comporta una diminuzione dei reati. Fosse così, avrebbero ragione i sostenitori della pena di morte. Che non è mai stato un deterrente, mentre semmai lo è la sua abolizione. Potete verificare voi stessi sul sito nessunotocchicaino.it: «Un rapporto ha esaminato i tassi di omicidio in 11 Paesi che hanno abolito la pena capitale, constatando che dieci di essi hanno registrato un calo di tale reato nel decennio successivo all’abrogazione». 

7 Vogliamo stigmatizzare lo spettacolo «indecoroso e degradante», «gli applausi e quell ’orrido tifo da stadio» intervenuti alla proclamazione del risultato sul ddl Zan? Facciamolo pure, ma evitando di fare i sepolcri imbiancati: sottintendere, o sostenere, che questo dimostrerebbe la consustanziale omofobia della destra (vi do una notizia: esistono gay pure lì) significa cercare di lanciare la palla in tribuna per occultare la sconfitta politica incassata, a colpi di franchi tiratori (a sinistra). Chi a destra si è lasciato andare a sgradevolezze, lo avrebbe fatto su qualsiasi altra mozione sostenuta dalla sinistra e bocciata dopo mesi e mesi di martellante campagna propagandistica a favore. L’incivile scompostezza dei politici, nelle aule parlamentari o fuori, è trasversale, e non è una novità, fin dal 1949 per l’adesione dell’Italia alla Nato: si vide un cassetto volare da una parte all’al - tra dell’aula. Senza dimenticare le scuse tardive, vedi Luigi Di Maio, il balcone, l’esultanza, l’abolizione della povertà: «Sbagliai il gesto e le parole».

 8 Ultimo, ma non in ordine d’importanza. Il segretario del Pd Enrico Letta, nel commentare la debacle, è ricorso ai toni apocalittici: «Hanno voluto fermare il futuro». Nientemeno. C’è da chiedersi: qual è invece il futuro di lavoro, previdenza, sanità, insomma, qual è il posto riservato a sinistra per i diritti sociali? Non è una provocazione, e non intendo certo declassare quelli civili, contrapponendoli ai primi. Ma è questione urticante. Lo certifica questo testo del dicembre 2017: «La motivazione fondamentale, e ufficiale, della rottura tra il movimento di Giuliano Pisapia e il Pd è stata la mancata tempestiva calendarizzazione in Parlamento dello ius soli, un argomento importante, una battaglia di civiltà, ma, rispetto alle questioni aperte, alquanto circoscritto». Circoscritto. Continuiamo: «Anche in questo caso si conferma una singolare inversione di priorità nelle politiche della sinistra: i diritti civili ormai prevalgono su quelli sociali, che hanno sempre meno spazio nei programmi». Però. Andiamo avanti: «Questo mutamento è evidente da quando a sinistra si è affermata la linea più liberale che socialista della “terza via”: i diritti (individuali) civili sono diventati centrali nella strategia di sinistra e di fatto la loro rivendicazione è diventata un alibi, una sorta di copertura, rispetto al fatto che le problematiche sociali venissero, se non abbandonate, lasciate sulla sfondo». I diritti civili come alibi. Conclusione: «Così facendo si ponevano le premesse per una rinnovata contrapposizione con la destra conservatrice su basi diverse rispetto al passato e per l’acquisizione del consenso dei ceti medi cosiddetti “riflessivi”. Ma al tempo stesso si minava alle radici il rapporto tradizionale tra sinistra e ceti popolari».

9 Su che giornale o sito di destra è comparsa tale critica analisi? Nessuno. :Le ritrovate sul web all’indirizzo nens.it, Nuova economia nuova società, il centro studi fondato da Vincenzo Visco e da Pier Luigi Bersani. Non riesco a immaginare qualcuno più a sinistra di lui (senza offesa). ANTONELLO PIROSO 

·        Un popolo di Spie…

Schianto del sommergibile nucleare Usa. Colpì la montagna sottomarina cinese. Fausto Biloslavo il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. Feriti quindici uomini dell'equipaggio, comandante rimosso. L'incidente in una zona contesa, le proteste di Xi e di Pechino. Questa volta il «Lupo di mare», classe di sottomarini d'attacco Usa specializzati in operazione segrete, ha fatto cilecca nel Mar cinese meridionale una delle aree a più alta tensione del globo sollevando le ire di Pechino. Ufficialmente il sommergibile nucleare USS Connecticut ha urtato una montagna degli abissi, che non era segnata sulle carte. Forse è solo un «incidente» di copertura, che nasconde qualcosa di più grosso, ma la collisione è costata la testa al comandante dell'unità navale, Cameron Aljilani, il suo vice, Patrick Cashin e il primo capo tecnico Cory Rodgers. La dura punizione è stata decisa dal vice ammiraglio Karl Thomas, al comando della VII flotta americana di base in Giappone. La Marina ha fatto sapere che gli ufficiali silurati «avrebbero potuto evitare» la collisione che ha ferito una quindicina di uomini dell'equipaggio. L'incidente, avvenuto il 2 ottobre, ha costretto l'arma invisibile, fino a quando è in immersione, a navigare in superficie per raggiungere la base americana di Guam per le prime riparazioni. Il governo cinese ha duramente protestato per la presenza del sottomarino in un'area contesa e ipotizzato che ci sia stata anche una perdita di materiale nucleare. In realtà sia reattore che arsenale balistico sembrano sia rimasti intatti. La Cina ha addirittura costruito degli isolotti artificiali nel tratto di mare strategico trasformandoli in basi militari galleggianti con tanto di piste e caccia bombardieri. Lo strano incidente del Connecticut, però, è ancora tutto da scrivere non essendo stato fornito alcun dettaglio. L'unità costa tre miliardi di dollari e fa parte della classe Seawolf, sommergibili d'attacco rapido contro navi nemiche, che hanno pure un altro compito segreto. Il Connecticut può condurre operazioni strategiche di ricognizione grazie ad un'aliquota dei Navy Seal, i corpi speciali della Marina e una serie di mezzi subacquei speciali da utilizzare negli abissi compreso un drone sottomarino. Non è un caso che nel 2013 l'equipaggio dell'USS Jimmy Carter, un'evoluzione della classe Seawolf, sia stato insignito della più alta onorificenza della Marina per un'operazione segreta proprio nel Mar cinese meridionale. Si conosce solo il nome in codice, «Missione 7», portata a termine «in condizioni estremamente avverse senza appoggio esterno, in nome di obiettivi vitali per la sicurezza nazionale». I dettagli sono rimasti segreti, ma il sommergibile è rientrato alla base nello stato di Washington issando la bandiera Jolly Roger, che durante la seconda guerra mondiale significava avere affondato unità nemiche o portato a termine rischiose operazioni di intelligence. Il Jimmy Carter e l'USS Connecticut derivano dalla stessa classe dei «lupi di mare» e fanno parte dell'ultrasegreto Squadrone 5 di sottomarini, che testano i più sofisticati e innovativi strumenti di spionaggio negli abissi e mezzi subacquei. L'«incidente» è avvenuto poche settimane dopo l'annuncio degli Stati Uniti, Inghilterra e Australia di una nuova alleanza militare in chiave anti-cinese, incentrata sulla condivisione della tecnologia dei sottomarini nucleari. E all'apice dell'escalation militare con Pechino su Taiwan. Sull'isola ribelle sono sbarcati i corpi speciali Usa per addestrare le forze armate locali a fronteggiare i piani di invasione cinesi. E Pechino ha appena annunciato l'incremento dell'arsenale nucleare per raggiungere il numero di missili balistici americani.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace. 

Guerra di spie a Berlino. Russo sotto copertura precipita da grattacielo. Roberto Fabbri il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. Il corpo del diplomatico trovato davanti alla sua ambasciata. Non ci sarà un'inchiesta. Emana un inconfondibile (e sgradevole) odore di spy-story la misteriosa morte su un marciapiede davanti all'ambasciata russa a Berlino di Kiril Zhalo, un trentacinquenne diplomatico che aveva il rango di secondo segretario d'ambasciata, ma che era considerato dall'intelligence tedesca un agente dell'Fsb (i servizi segreti di Mosca) sotto copertura. L'incidente risale alle prime ore del mattino dello scorso 19 ottobre, ma se ne avuta notizia soltanto ieri dal sito del settimanale tedesco Der Spiegel, che ha reso noto il nome del defunto cui è giunto con l'aiuto del sito investigativo Bellingcat e del sito di informazione indipendente russo The Insider, dal momento che né le fonti ufficiali russe né quelle tedesche lo avevano fatto. Zhalo sembrerebbe essere precipitato da un piano alto del vasto complesso dell'ambasciata in Behren Strasse, nelle immediate vicinanze di Unter den Linden in quella che un tempo era Berlino Est. Risulta che la missione russa a Berlino abbia rifiutato l'autopsia sulla salma del diplomatico, che è stata rimpatriata senza rilasciare commenti ufficiali tranne un accenno a «un tragico incidente». Fonti di sicurezza tedesche definiscono «sconosciute» le cause della morte di Zhalo, ma anche se l'ambasciata russa a Berlino ha respinto come «assolutamente inappropriate le speculazioni di media occidentali» non mancano elementi per collegarla a storie oscure che di recente hanno avvelenato i rapporti tra i due Paesi. Kiril Zhalo era figlio del generale Aleksei Zhalo, un pezzo grosso dell'Fsb, capo del direttorato per la protezione dell'ordine costituzionale nonché direttore del cosiddetto «secondo servizio» dei servizi segreti russi. E qui cominciano i problemi, per due ragioni tra loro connesse. La prima è che, secondo Der Spiegel, vi sarebbe un collegamento tra questa struttura spionistica e l'assassinio avvenuto nell'agosto 2019 in un parco del centro berlinese di Zelimkhan Khangoshvili, un georgiano che aveva combattuto al fianco dei ribelli ceceni; la seconda è che Kiril Zhalo era stato trasferito da Vienna a Berlino due mesi prima di questo omicidio, ed è perlomeno strano che in una lista riservata dei diplomatici del ministero degli Esteri tedesco il secondo segretario dell'ambasciata russa che aveva assunto in quel giorno le sue funzioni non si chiamasse Kiril Zhalo, ma Dmitry Maltsev. Gli inquirenti tedeschi hanno sempre sostenuto che il killer di Khangoshvili (un russo di nome Vadim Krasikov, attualmente sotto processo a Berlino) non poteva aver agito poche ore dopo il suo arrivo in Germania senza appoggi nella capitale tedesca da parte appunto del «secondo servizio» dell'Fsb, ma questo non prova automaticamente (è lo stesso Bellingcat a riconoscerlo) il coinvolgimento diretto di Kiril Zhalo in questa vicenda. Rimane il fatto che il direttorato guidato dal padre del diplomatico morto in circostanze così misteriose ha fama assai sinistra, e che sarebbe coinvolto secondo Der Spiegel anche nell'avvelenamento del principale oppositore di Vladimir Putin, Aleksei Navalny, avvenuto nell'agosto 2020. Sono una decina i diplomatici russi morti all'estero in circostanze sospette o violente negli ultimi anni. I casi più noti sono quello del capo dell'intelligence militare Igor Sergun, morto misteriosamente in Siria nel 2016 dove era stato inviato per un delicato incontro con il dittatore Bashar el-Assad, e quello dell'ambasciatore ad Ankara Andrei Karlov, assassinato in una galleria d'arte nello stesso anno a colpi di pistola da un profugo siriano. E già nel 2003 un diplomatico russo era caduto da una finestra dell'ambasciata a Berlino morendo sul selciato del cortile. Roberto Fabbri

Zhalo era figlio di un alto dirigente dell'Fsb. Spy story a Berlino, diplomatico russo muore ‘volando’ dall’ambasciata: i dubbi sulla presunta spia sotto copertura. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Novembre 2021. Ha tutte le caratteristiche di una spy story, un intrigo internazionale, la morte a Berlino di un diplomatico russo, quasi certamente caduto da uno dei piani più alti dell’ambasciata di Mosca nella capitale tedesca. La notizia è stata diffusa solamente oggi dalla rivista tedesca Der Spiegel in una anticipazione del numero in uscita domani, ma i fatti risalgono in realtà al 19 ottobre: quel martedì mattina, intorno alle 7, il corpo senza vita del 35enne accreditato nella capitale tedesca come secondo segretario d’ambasciata è stato sulla via di ingresso dell’ambasciata russa. Una qualifica che in realtà nasconderebbe altro. Secondo il sito investigativo Bellingcat il diplomatico, Kirill Zhalo, sarebbe il figlio del generale Alexey Zhalo, capo del Direttorato per la protezione dell’ordine costituzionale dell’Fsb (erede del Kgb sovietico) e direttore del cosiddetto ‘Secondo servizio’ dell’agenzia di intelligence russa. Anche fonti dell’intelligence tedesca hanno riferito a Der Spiegel di sospettare che il diplomatico fosse in realtà un ufficiale dell’Fsb sotto copertura, con legami con alti funzionari dei servizi segreti russi. Una vicenda che rischia di provocare anche un incidente diplomatico: per ora l’ambasciata a Berlino parla di un “tragico incidente” smentendo le ricostruzioni apparse sui media, considerate errate, ma rifiutando anche di fornire dettagli sulla morte del diplomatico, trattando il caso come un mero incidente. Tornando alla vittima, Zhalo prima di Berlino era stato Terzo segretario della rappresentanza permanente della Russia presso le Nazioni Unite a Vienna, prima di venire trasferito nella capitale della Germania nel 2019. Nella ricostruzione dei fatti fornita dal giornalista Christo Grozev su Bellingcat, il 35enne diplomatico era stato trasferito a Berlino due mesi prima dell’assassinio del cittadino georgiano Zelimkhan Khangoshvili, che secondo gli inquirenti tedeschi è stato quantomeno autorizzato dall’Fsb russo e compiuto con appoggi ‘locali’ nella capitale teutonica. Khangoshvili da fine 2016 viveva in Germani con lo status di richiedente asilo dopo aver guidato negli anni Duemila una milizia di ribelli ceceni in guerra con la Russia. Attualmente comunque, lo sottolinea lo stesso Bellingcat, “non vi sono prove che fosse coinvolto nella pianificazione oppure nel supporto logistico dell’assassinio” avvenuto il 23 agosto 2019 al Kleiner Tiergarten, un parco nel quartiere di Moabit.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

JACOPO IACOBONI per la Stampa il 6 novembre 2021. Per Mosca è «un tragico incidente». Ma evidentemente la storia fa risuonare tante altre corde, sinistre. Un diplomatico russo - si è appreso solo ieri - è stato trovato morto alle 7,20 di mattina del 19 ottobre, dopo essere caduto da una finestra di un piano alto dell'ambasciata russa a Berlino. Il sangue ancora macchia il marciapiede, ma quando cade, il suo corpo sparisce e viene immediatamente rimpatriato, il Cremlino non concede che l'autopsia venga svolta in Germania. Nessuna notizia trapela per giorni. Scopriamo ora che il diplomatico (secondo segretario dell'ambasciata, 35 anni) è in realtà - stando ai servizi segreti tedeschi citati da «Der Spiegel» - una spia sotto copertura del Fsb, il successore del Kgb. Ma la storia non finisce qui. La realtà supera ancora una volta i romanzi di Le Carré. Il «diplomatico» - secondo quanto rivela un'investigazione del collettivo di giornalisti indipendenti Bellingcat - era il figlio del vicedirettore del «Secondo Servizio» dell'Fsb e capo del «Direttorato dell'Fsb per la protezione dell'ordine costituzionale», il generale Alexey Zhalo. I dati di registrazione dell'auto e dell'indirizzo dai database Cronos, leakato e liberamente disponibile su Internet, mostrano che il diplomatico - che porta anche il nome del generale Zhalo come patronimico - è stato registrato allo stesso indirizzo del generale sia a Mosca sia, in precedenza, a Rostov, da dove viene la sua famiglia. Cosa significa? Semplice: che potrebbero esserci connessioni con altri crimini internazionali di cui è accusato o sospettato il regime russo. In particolare, quella struttura dell'Fsb. Il Secondo Servizio dell'Fsb è stato collegato da Bellingcat all'assassinio dell'ex comandante ribelle ceceno Zelimkhan Khangoshvili, freddato nel Kleiner Tiergarten di Berlino il 23 agosto 2019. Stando ai metadati telefonici, l'assassino presunto, Vadim Krasikov (che è attualmente sotto processo a Berlino con l'accusa di omicidio sponsorizzato da uno Stato), fu in visita al centro antiterrorismo dell'Fsb - che rientra appunto nel «Secondo servizio». E di questo stesso Direttorato dell'Fsb faceva parte la squadra di spie che pedinò Alexey Navalny prima di avvelenarlo nell'agosto 2020 in Siberia, e potrebbe anche esser collegata al sospetto avvelenamento di altri dissidenti, tra i quali Vladimir Kara-Murza. Due vicende che hanno spinto Angela Merkel a tensioni molto aspre con Vladimir Putin. Una coincidenza? Berlino ancora una volta come ai tempi di George Blake - forse la più grande spia doppiogiochista della storia, passata dall'MI6 ai sovietici, la cui storia è narrata nel bellissimo libro di Steve Vogel, «Tradimento a Berlino» - sembra il set d'elezione di una spy story internazionale e di un circolo di spie russe che si sono mosse in Europa (e indisturbate in Italia) in questi anni. Il ministero degli Esteri russo nega queste ricostruzioni, sostenendo che «la copertura della morte di un diplomatico russo da parte dei media occidentali è fatta di pure speculazioni del tutto inappropriate». Secondo analisi forensi che La Stampa ha potuto verificare, le cache di Google mostrano che a un certo punto, tra il 1 e 4 novembre , il nome del secondo segretario dell'ambasciata russa è stato rimosso dalla lista diplomatica accreditata al ministero degli Esteri tedesco. Il commento di Roman Dobrokhotov, uno dei più coraggiosi giornalisti russi, riassume forse tutto: «Il figlio di uno dei principali carnefici dell'Fsb (lui stesso lavorava come "cekista" sotto le spoglie di diplomatico) cade improvvisamente dalla finestra dell'ambasciata - no, questa non è una serie Netflix, è una notizia russa».

Il libro di Paolucci e Iacoboni. Oligarchi, spie e fake news: ecco Italygrad. Nicola Biondo su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Ottantasette spie in piena attività, miliardi di euro investiti e transitati dai paradisi fiscali, una inestricabile tela di ragno fatta di relazioni e affari trasversali a qualsiasi colore politico. Benvenuti a ItalyGrad, accogliente paradiso e terra di conquista del potere russo. A schiudere la porta su questo panorama è un libro appena uscito firmato da due “pistaroli”, come si diceva un tempo in cui il giornalismo era scavo e non solletico, Gianluca Paolucci e Jacopo Iacoboni. Oligarchi è una lettura lisergica, un documento che in un immaginario “ritorno al futuro” avremmo potuto trovare in mezzo alle macerie del Muro di Berlino come un messaggio in bottiglia, “torneremo presto”. Oligarchi racconta come l’Italia sia diventata l’outlet del potere putiniano, conquistando anime e cose come nemmeno il più spietato degli stalinisti ai tempi dell’Urss avrebbe potuto immaginare. Quello che non è mai riuscito al comunismo sovietico è riuscito ad una banda di Stato che in Italia ha trovato il suo avamposto al sole. Nomi e cognomi, affari e relazioni, alleati e propagande di partito diventate megafoni della paccottiglia reazionaria propagandata dal Cremlino, Oligarchi è il who’s who della più grande operazione di penetrazione russa in Occidente. Due le armi usate: soldi e caos informativo. Di rubli in Italia ne sono sempre corsi a fiumi. Fieri anti-comunisti come Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi sono stati interlocutori del bolscevismo affaristico mentre l’ala di Cossutta nel Pci riceveva ancora istruzioni e rubli ma perdeva potere. Romano Prodi ha sempre avuto un occhio di riguardo per le dinamiche moscovite, Putin ne ha sempre rivendicato, con perfidia, l’amicizia. Ma quel fiume di denaro arrivava in una cornice disegnata sulla logica di una geopolitica indiscutibile, quella che fece dire ad Enrico Berlinguer “mi sento più sicuro da questa parte del Muro”. Vladimir Bukovsky sentenziò amaramente, «scaldare il bacon con il gas russo è stato più importante, per molti in Europa, dei diritti umani». Oggi ci sono oligarchi che finanziano restauri al Comune di Roma e le azioni anti-covid in Sardegna, altri comprano migliaia di ettari tra l’Umbria e la Toscana per costruirvi enclave che godono come un’ambasciata dell’extraterritorialità, intoccabili. Ville dove il “kompromat” è in agguato: ne sa qualcosa il premier inglese Boris Johnson che da ministro degli Esteri nel 2019 seminò la scorta per andare festeggiare nella tenuta dell’oligarca Evghenj Lebedev, figlio della spia Alexander. Da allora qualsiasi suo atto riguardante quella parte di mondo finisce sotto osservazione. Oggi, rivela il volume, ci sono squadre di spie che avvelenano e uccidono oppositori del regime russo a Londra o in Olanda o in Bulgaria e si “riposano” in Italia, come fosse un pit stop sicuro. Poi ci sono diplomatici che pagano ufficiali dell’esercito per farsi consegnare segreti militari, come il caso di Walter Biot. Come siamo arrivati fin qui? L’Italia è sempre stata un porto franco per 007 di mezzo mondo. Aldo Moro che di spy-story non era a digiuno inventò un protocollo, un lodo che prenderà il suo nome, per evitare che il terrorismo di matrice araba prendesse di mira Roma. Qui però siamo oltre. I soldi russi, provenienti dai paradisi fiscali di mezzo mondo come ricostruiscono Iacoboni e Paolucci, hanno sempre profumato di buono in Italia. Manager e impresari della tv berlusconiana hanno fatto carriera e fortuna in Russia, prima di Putin e con Putin. Ma è la seconda arma che spiega come è stato possibile che l’Italia sia diventata un campo di addestramento per le tecniche di manipolazione made in Mosca: il caos informativo. Dal 2014 il regime moscovita ha investito sulla politica italiana trovando i cantori della sua way of life nella propaganda di Lega e Movimento cinque stelle. Oligarchi mette una dietro l’altra le tappe di questa “invasione”. Tutto avviene dopo che per anni il web leghista e grillino, con in testa Grillo e Salvini, hanno beatificato Putin, le sue guerre di espansione, gli interventi a favore di Assad e dei signori della guerra in Libia, arrivando persino a deridere le vittime della feroce repressione di regime, come nel caso del primo arresto di Navalny. Putin diventa l’interlocutore privilegiato del primo governo sovranista ma anche dalla sua versione “moderata” del Conte 2. Da cui riceve nell’ordine svariati regali politico-diplomatici. Il rilascio di un manager russo accusato di spionaggio, primo regalo, per il quale l’allora Guardasigilli Bonafede rifiuta l’estradizione negli Usa e la concede a Mosca. Secondo regalo, l’incredibile parata militare con cui qualche medico e una vagonata di 007 e avvelenatori di civili siriani si recano in corteo da Roma a Bergamo per “studiare il covid e aiutare l’Italia”. E siccome un regime senza propaganda non è tale, la missione viene presentata e fotografata dai media putiniani come “un maglio nel cuore dell’Europa” che non aiuta l’Italia contro il covid. Uno spot agghiacciante. Terzo regalo, l’inchino di Stato che Conte e il suo governo concedono a Putin e ai suoi oligarchi a Palazzo Chigi nel corso di una cena, roba che De Gasperi non fece nemmeno a Truman di fronte ai miliardi del Piano Marshall. Era il luglio 2019 quando andò in scena un banchetto in cui sfilarono gli uomini del regime alcuni dei quali erano sottoposti a sanzioni e per questo impossibilitati da una norma europea a fare business. Un via libera, semaforo verde per ogni tipo di attività sul territorio italiano. Quarto regalo: il disimpegno in Libia seguito subito dopo dall’arrivo dei mercenari russi e turchi. Quinto regalo: l’aver abilmente occultato un voluminoso report degli apparati italiani – ricostruito minuziosamente dagli autori – dove si racconta “l’outlet Italia”. E già questo vale il prezzo del biglietto per questo viaggio in un paese invisibile ai più eppure così reale, Italygrad. Nicola Biondo

Tornano le spie, ma è la tecnologia la nuova frontiera dello scontro fra le potenze. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 6 novembre 2021. Una morte sospetta a Berlino, un cinese condannato negli Usa. Si riapre la sfida tra intelligence. Un diplomatico russo, Kirill Zhalo, che muore precipitando dal balcone dell’ambasciata a Berlino, salvo poi scoprire che era figlio del vice direttore del servizio segreto Fsb, convolto nell’omicidio al parco Tiergarten del ribelle ceceno Zelimkhan Khangoshvili. Otto spie di Mosca cacciate dalla Nato, dove fingevano di dialogare con l’Occidente. Un docile cinese, condannato in Ohio perché in realtà rubava informazioni industriali. Un tempo le spie erano discrete, ma oggi aprire i giornali significa leggere quasi oggi giorno le loro disavventure, a conferma che il gioco dell'intelligence è tornato centrale nel risiko degli equilibri globali sempre più instabili. Yanjun Xu non indossava barbe finte, e neppure girava col fucile mascherato da ombrello. Molto più semplicemente dal 2013 frequentava università e congressi, dove adescava le prede. Le invitava in Cina per presentazioni accademiche rispettabili, pagando le spese e offrendo un gettone di riconoscenza. Laggiù poi scattava qualcosa e, tra le promesse di compensi assai più alettanti, le lusinghe e chissà quali altre offerte seducenti, trasformava gli invitati in informatori. Nel maggio del 2017 Yanjun Xu aveva fatto un colpo grosso, attirando un ingegnere della GE che si era presentato con una valigetta piena di segreti sui motori per aerei prodotti dalla sua azienda. Felice del risultato, aveva chiesto altre informazioni. La preda aveva accettato, invitandolo in Belgio nell'aprile del 2019. Quello che ignori ti uccide, però, e Yanjun Xu non sapeva che l'Fbi aveva scoperto tutto costringendo l'ingegnere a collaborare. Perciò quando l'uomo di Pechino si era presentato all'appuntamento belga, invece della fonte con una valigetta colma di ghiotti segreti, aveva trovato un agente del controspionaggio americano con le manette. Venerdì un tribunale federale di Cincinnati ha condannato Yanjun Xu, che ora rischia sessanta anni di prigione. Il tutto per confermare che le spie sono tornate, ammesso che ci avessero mai abbandonati, e svolgono un ruolo sempre più cruciale non solo nella sfida geopolitica epocale tra Usa e Cina, ma anche nelle rivalità fra paesi avversari e alleati. (...) L'Italia è sempre stata un crocevia dello spionaggio internazionale, da quando la Cia dirigeva proprio da Roma le sue operazioni in Medio Oriente, o la futura talpa Aldrich Ames si preparava a tradire. Ci siamo ricascati nel marzo scorso, quando il capitano di Fregata Walter Biot è stato arrestato per aver lavorato al servizio del Cremlino. Siamo ancora un posto di frontiera, nel gioco più grande di noi per il dominio globale.

Come funzionano i servizi segreti francesi. Andrea Muratore su Inside Over il 22 settembre 2021. Nel quadro della ricostruzione della potenza nazionale operata dal generale Charles de Gaulle dopo la sconfitta francese nell’invasione tedesca del 1940 la Republique ha potuto usufruire dell’apporto di un apparato di sicurezza fondato su un sistema di servizi segreti estremamente professionalizzato e spregiudicato. L’intelligence francese è un cardine della proiezione di potenza transalpina e ne rappresenta la garanzia della capacità di azione su scala globale che solo pochi attori nel campo occidentale guidato dagli Stati Uniti possono permettersi di avere.

Una lunga tradizione. L’intelligence in Francia è mestiere antico e metodo di acquisizione di potenza consolidato. Maestri di intelligence furono importanti esponenti della Francia monarchica che tra Medioevo e Età Moderna fu al centro della politica europea: i cardinali Richelieu e Mazzarino e il “Diavolo zoppo” Talleyrand, ministro degli Esteri dei Borbone e di Napoleone Bonaparte, seppero gestire complessi apparati informativi alla loro dipendenza personale che valorizzarono sia l’interesse nazionale di Parigi sia la loro prominente posizione delle dinamiche politiche europee. Dall’epoca di Luigi XIII e almeno fino all’età napoleonica, in particolare, negli uffici di governo dell’Esagono fu attivo il Cabinet noir, una centrale di intelligence che otteneva informazioni controllando la corrispondenza di settori o enti ritenuti di rilevanza sensibile. Dopo la disfatta contro la Prussia di Otto von Bismarck nel 1870, invece, la Terza Repubblica si dotò di un sistema strutturato di intelligence militare, costituito come secondo ufficio dello Stato maggiore, da cui il nome “Deuxième Bureau”. Il Db restò in attività fino alla caduta della Francia nel 1940 e si conquistò in particolare grande fama come primo servizio d’intelligence capace di utilizzare le tecnologie di decrittazione e codifica dei cifrari militari segreti, arrivando nel 1918 a violare il cifrario tedesco ADFGVX e a fornire al comando supremo alleato del maresciallo Ferdinand Foch informazioni preziose sui movimenti delle truppe tedesche del generale Luddendorf prossime all’ultima, disperata offensiva che le avrebbe portate a cinquanta chilometri da Parigi prima della disfatta dell’autunno successivo.

L'intelligence della "Republique". Charles de Gaulle, guidando la resistenza della Francia Libera contro la Germania e il regime di Vichy, dotò le istituzioni militari fedeli alla Repubblica di un sistema nuovo, destinato a tenere i contatti con i partigiani operanti sul territorio metropolitano, a carpire informazioni nel campo degli Alleati, a lungo ambigui col Generale, e a strutturare la difesa delle aree rimaste fedeli al governo in esilio. Il Service de Renseignements (SR) fu fondato nel 1941 sulle ceneri del Db e fu alla base della strutturazione dei servizi segreti repubblicani rinati dopo la liberazione del 1944. Dal 1944 fu dunque attivo il Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage (Sdece) subordinato non più allo Stato Maggiore ma al presidente del Consiglio nell’era della Quarta Repubblica e, dopo la riforma semipresidenzialista, al primo ministro e attraverso di questi al presidente della Repubblica, “monarca repubblica” dell’era gaullista inaugurata nel 1958. Questo cambio di prospettiva si consolidò negli anni anche dopo la trasformazione dello Sdece in Direction générale de la sécurité extérieure (Dgse) nel 1982, nell’era di François Mitterrand, e rafforzò l’intelligence come strumento della proiezione di politica estera della Francia negli anni del declino dell’impero coloniale e della potenza mondiale di Parigi. L’intelligence francese fu in prima linea nel difendere gli ultimi avamposti in Indocina, a condurre la “guerra sporca” a favore dei pied-noir intenti a difendersi dal Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria, nel tentare di promuovere la causa francese nel Biafra nigeriano sul finire degli Anni Sessanta e, contro la volontà stessa di De Gaulle, nel trasferire tecnologia nucleare a Israele. Vero e proprio Stato nello Stato, la Sdece arrivò addirittura a supportare il separatismo del Quebec provocando l’ira del primo ministro canadese Pierre Trudeau e fu coinvolta nel puntellare i regimi africani favorevoli a Parigi dopo la decolonizzazione e a tentare di detronizzare i leader divenuti scomodi. Un tentativo del genere riuscì nel 1979 con l’Operazione Barracuda che portò alla fine del regime dei Jean-Bedel Bokassa in Repubblica Centrafricana, mentre analoghe azioni condotte contro Muammar Gheddafi nel medesimo periodo non sortirono effetti paragonabili, anche se in seguito la Dgse sarebbe stata in prima linea nel sostegno ai ribelli libici durante la rivoluzione del 2011 che condusse alla caduta del Colonnello. Tra gli Anni Novanta e Duemila, inoltre, successi importanti furono ottenuti con la fornitura di armi ai ribelli kosovari e l’infiltrazione nei campi di addestramento dei jihadisti in Afghanistan.

Il fronte interno. La presenza di una forte problematica securitaria interna e dell’insorgenza terroristica a partire dall’inizio degli Anni Duemila ha spinto la Francia a dotarsi di capacità di analisi d’intelligence interna con la strutturazione della Direction générale de la sécurité intérieure (DGSI) quale agenzia di coordinamento di tutte le competenze in materia di antiterrorismo, lotta al cybercrimine, controspionaggio e prevenzione dell’attività criminale prima parcellizzate tra diversi corpi di polizia. La Dgsi fa capo al ministero dell’Interno ed è stata subito esposta alla sua prima, impegnativa prova del fuoco di fronte all’ondata di attentati che a partire dall’assalto a Charlie Hebdo del gennaio 2015 ha sconvolto il Paese. Di importanza fondamentale per la Francia è anche la creazione di una strutturata cultura di intelligence economica trasversale alle varie agenzie governative. La Scuola di Guerra Economica francese (antesignana europea della materia) ha condotto analisi importanti sul tema dell’utilizzo del ciclo delle informazioni come strumento di costituzione di vantaggio competitivo in termini politici ed economici per sfruttare settori strategici in funzione dell’interesse nazionale. In Francia il capitalismo nazionale è “politico”, l’attore pubblico si adopera perché i mercati esteri siano aperti all’azione dei campioni industriali francesi e questi ultimi agiscono da portavoce delle priorità nazionali. Su questa sinergia s’innesta una cooperazione che porta la Francia a proiettarsi oltre le sue frontiere grazie all’industria e alla finanza nazionale, fattispecie ben conosciuta sul territorio italiano. Recentemente, in virtù di una proposta di legge fatta dal Senato francese, il 25 marzo 2021 è stata posta in essere oltralpe la possibilità di creare un Segretariato generale per l’intelligence economica (Sgie) sotto l’autorità del Primo Ministro che come dichiarato dall’analista Giuseppe Gagliano a L’Espresso avrà il compito di “anticipare e agire di fronte agli attacchi economici che potrebbero indebolire il Paese e consigliare le autorità pubbliche e gli attori economici per scopi operativi”. Gagliano ha sottolineato che la proposta di portare la politica francese a considerare la nascita dello Sgie come evoluzione naturale delle sue agenzie d’intelligence è frutto della “professionalità nel campo della analisi e della prassi di intelligence in senso lato di Alain Juliett che nel 2009 fu nominato Alto responsabile per l’intelligence economica per il Primo Ministro oltre ad aver occupato incarichi di rilievo” in seno alla Dgse. L’intelligence francese è dunque un corpo vivo che, tra operatività, azione autonoma e sviluppi complessi, recepisce e si adatta alle priorità del sistema Paese e agli sviluppi del contesto mondiale. Rappresentando un presidio fondamentale per la natura di grande potenza che Parigi intende promuovere e coltivare.

Il Mit, il servizio segreto della Turchia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 22 settembre 2021. Ogni grande potenza meritevole di tale titolo possiede degli eserciti paralleli, rispondenti unicamente al comando dello stato profondo, attivabili in caso di necessità. Necessità che possono essere il soffocamento di una pericolosa sedizione, l’annichilimento di una o più quinte colonne e/o la prevenzione di un colpo di Stato in divenire. Questi eserciti ombra possono essere delle realtà del mercenariato, come il Gruppo Wagner o l’Academi (ex BlackWater), oppure delle organizzazioni guerrigliere e/o terroristiche che, con la scusante del denaro – come nel primo caso – o della battaglia ideologica – come nel secondo caso –, combattono per conto di una capitale e sono fedeli ad una sola bandiera. E questi eserciti alternativi, talvolta, possono assumere le fattezze di veri e propri stati paralleli la cui esistenza è nota ad una cerchia ristrettissima di persone – in Italia è celebre il caso di Gladio. Nel caso della Turchia, una delle potenze più lungimiranti e fraintese dell’età attuale, le armate che difendono fondamenta e mura del sistema erdoganiano sono diverse, variegate e risultano accomunate da un elemento: la micidialità. Perché queste armate sono i Lupi Grigi del Partito d’azione nazionalista di Devlet Bahceli, i narcotrafficanti stanziati tra America Latina e Asia centrale, i padrini del crimine organizzato come Alaattin Cakici, una galassia di sigle e movimenti appartenenti all’islam politico e al jihadismo – dalla Fratellanza Musulmana all’Esercito Siriano Libero –, la compagnia Sadat e l’Organizzazione di Intelligence Nazionale (Mit).

Mit: che cos'è, cosa fa, quando nasce. L’Organizzazione di Intelligence Nazionale (MIT, Millî İstihbarat Teşkilatı) è l’agenzia di intelligence della Turchia. Il quartier generale si trova a Etimesgut, provincia di Ankara, in un edificio che il volgo ha ribattezzato evocativamente kale, ovvero il castello. Fondato nel 1965, in sostituzione al Servizio di Sicurezza Nazionale (MEH, Milli Emniyet Hizmeti) risalente all’epoca di Mustafa Kemal, il Mit è stato ed è un insieme di cose (simultaneamente) sin dal giorno uno: un ente dall’impronta fortemente militare, uno strumento nelle mani del governo di turno ed un Grande Fratello in grado di sorvegliare e punire i nemici dello Stato ovunque si trovino, sia in patria sia all’estero. Legato ad alcuni dei principali servizi segreti dell’Occidente e dell’Oriente da accordi di collaborazione in materia di antiterrorismo, come la Cia e il Fsb, il Mit agisce nel e gode del massimo riserbo – missioni e operazioni sono oggetto di una classificazione quasi-imperitura, similmente al Mossad – ed è dotato di una struttura verticistica a livelli contingentati, ovvero che precludono la possibilità di carriera negli alti ranghi agli agenti appartenenti a gruppi religiosi minoritari. Deputato alla raccolta di intelligence su fascicoli critici per la sicurezza nazionale, ad attività di controintelligence e guerra cibernetica, nonché al contrasto diretto e fattivo di minacce effettive e potenziali alla Turchia e ai suoi abitanti, il Mit è teoricamente obbligato a fare rapporto delle sue attività al presidente, al comandante in capo delle forze armate e al segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale, sebbene negli anni recenti sia divenuto ostaggio di una persona sola: Recep Tayyip Erdoğan.

Colonna portante del sistema erdoganiano. A partire dal giorno dopo il tentato colpo di Stato del luglio 2016, l’evento che sembra aver determinato il collasso dell’antico ordine kemalista e consacrato l’ascesa definitiva del sistema erdoganiano, il Mit è stato assoggettato completamente al nuovo potere, per conto del quale è divenuto il cacciatore di gulenisti. Nell’aprile 2018, cioè a poco meno di due anni dal fallito golpe, il Mit aveva esperito consegne straordinarie (extraordinary rendition) in 18 nazioni, portando dinanzi ai tribunali anatolici ottanta cittadini turchi ricercati per la presunta adesione alla rete gulenista. Una caccia all’uomo globale, senza limiti di giurisdizione, che con il tempo si è estesa ulteriormente e le cui dimensioni possono essere rappresentate soltanto per mezzo dei numeri:

Più di 130 i cittadini turchi che il Mit ha arrestato illegalmente all’estero, e successivamente riportato in patria, da luglio 2016 a luglio 2021.

Più di 31 i Paesi che, in accordo o meno con Ankara, sono stati interessati dalle suddette extraordinary rendition.

622mila i cittadini turchi che, nello stesso periodo di riferimento, sono stati indagati per terrorismo a causa dei loro presunti rapporti con la rete gulenista.

Più di 125mila i dipendenti pubblici che hanno perduto il lavoro a causa della loro presunta adesione al circolo gulenista.

Più di 5 i Paesi del Vecchio Continente in cui il Mit ha proceduto a catturare e rimpatriare presunti membri della rete gulenista, quando agendo legalmente (a mezzo di regolare estradizione) e quando illegalmente (consegna straordinaria): Albania, Bulgaria, Kosovo, Moldavia, Romania, Ucraina.

Più di 5 i Paesi del Vecchio Continente in cui le indagini del Mit hanno portato la giustizia turca ad inoltrare richieste di estradizione nei confronti di presunti gulenisti, il cui processo di rimpatrio è attualmente in corso e/o in fase di esame: Bosnia ed Erzegovina, Germania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia e Repubblica Ceca.

I numeri della caccia al gulenista sembrano, e in effetti sono, stratosferici. Numeri che parlano delle capacità del Mit, i cui agenti sono in grado di operare nei teatri più impensabili e remoti – come il Gabon, il Sudan, la Malesia e la Mongolia –, anche in assenza di contatti in loco, e che sono il risultato di una lunga tradizione in materia di spionaggio internazionale e arresti illegali. Non è dal 2016, in effetti, che il Mit è coinvolto in questo tipo di attività – le extraordinary rendition –, essendo stato fondato all’acme della guerra asimmetrica tra Ankara e il PKK. Guerra che aveva portato il Mit nel mondo dapprima della comparsa di Fethullah Gulen. Guerra che, il 15 febbraio 1999, aveva portato il Mit a Nairobi (Kenya) per compiere l’extraordinary rendition più importante della storia recente della Turchia, quella ai danni di Abdullah Öcalan, il fondatore del PKK.

I tentacoli del Mit in Europa. Non è soltanto a causa della rete gulenista che la Turchia ha inviato i propri agenti segreti in tutto il mondo. Perché prima che emergesse questa minaccia, come è arcinoto, Ankara ha dovuto affrontare l’insurgenza curda – che ancora oggi pone un serio pericolo per l’integrità territoriale e per la sicurezza fisica dei cittadini turchi. Non sorprende, dunque, che uno dei due obiettivi principali del Mit in Europa (e nel mondo) sia il rintracciamento di tutti quei militanti del PKK ritenuti una minaccia alla sicurezza nazionale. Come il Mit agisca in Europa, che è l’area dell’estero vicino turco ospitante il maggior numero di espatriati curdi, è stato svelato nel corso del tempo, grazie alle indagini delle forze di polizia, dei servizi di sicurezza e dei giornalisti investigativi del Vecchio Continente. In una sola parola: diaspora. Diaspora turca, per l’esattezza. Gli agenti del Mit, in breve, hanno infiltrato da tempo immemorabile le diaspore turche spalmate a macchia d’olio in Europa, in particolare quelle datate e numerose di Austria, Francia, Germania e Paesi Bassi. Un’infiltrazione che, con molta probabilità, risale all’epoca della Guerra fredda e che negli anni è stata approfondita, consolidata e sofisticata, come mostrano e dimostrano i numeri e i fatti:

13 gli imam turchi attualmente indagati in Germania perché presumibilmente legati al Mit e coinvolti in attività di spionaggio.

Circa 6mila i turchi di Germania che il Mit avrebbe reclutato per portare avanti operazioni spionistiche e/o di raccolta di intelligence ai danni di gulenisti, militanti curdi e politici “di interesse” per la Turchia.

Circa 200 i turchi di Austria che il Mit avrebbe arruolato per le medesime ragioni di cui sopra.

Tre i militanti curdi che il Mit, grazie all’intelligence raccolta dai propri informatori in loco, avrebbe assassinato a Parigi nel 2013.

Più di 300 le persone e più di 200 le associazioni che l’esercito invisibile del Mit avrebbe spiato in Germania nell’anno 2017.

568 i turchi in Grecia che, secondo documenti diffusi da Nordic Monitor, il Mit avrebbe spiato nel corso del 2019 per via dei loro presunti legami con la rete gulenista.

Gli strumenti con i quali il Mit avvicinerebbe i compatrioti, che si trovino ad Amsterdam o che vivano a Stoccolma, sono sempre gli stessi. I primari, per frequenza d’utilizzo, sono i gruppi criminali – come l’oggi estinto Osmanen Germania –, le associazioni patriottiche – come Millî Görüş –, le moschee – che Ankara gestisce attraverso Diyanet, operante in tutta Europa – e le sedi diplomatiche – cioè ambasciate e consolati. Le capacità nell’arte del sorvegliare-e-punire hanno reso il Mit uno dei servizi segreti più efficienti del pianeta, ma sono i numeri della demografia turca in Europa – perché la demografia è potere; potere (geo)politico – che gli hanno permesso di espandersi capillarmente nell’intero continente, neutralizzando obiettivi sensibili da Londra a Parigi e compiendo arresti illegali in lungo e in largo nei Balcani. Numeri che con il tempo dovrebbero aumentare e che, incidendo pesantemente sulla composizione etnica di diversi Paesi – dalla Svezia alla Germania –, potrebbero facilitare un incremento della presa del Mit sul continente. La poststorica e anziana Europa è dunque avvisata: gli 007 del Mit sono qui tra noi, già oggi, e domani saranno sempre di più. Essi sono e simboleggiano questo mondo che cambia; questo mondo sempre meno eurocentrico e sempre più turco.

Le spie del Regno Unito: come funziona l’intelligence di Londra. Andrea Muratore su Inside Over il 22 settembre 2021. Finita l’epopea dell’impero britannico, conclusasi la storia del domino sui mari della flotta di Sua Maestà, incerte le prospettive sulla “Global Britain” per l’era post-Brexit, il Regno Unito è oggigiorno mantenuto nel ruolo di potenza di taglia internazionale da pochi fattori strategici. Se da un lato uno è sicuramente il possesso di un arsenale nucleare strutturato e rodato, dall’altro non si può non mettere tra i comparti di eccellenza di Londra lo strutturato apparato di intelligence capace di una notevole proiezione su scala globale.

Le spie di Sua Maestà. Inglese è, non a caso, James Bond, l’agente segreto per antonomasia. E non è secondaria, nella storia di 007, la natura di ex agente dell’intelligence di Ian Fleming, il suo creatore. Nella Seconda guerra mondiale, durante la quale Fleming prestò servizio, l’intelligence fu la vera e propria arma segreta delle forze armate britanniche. Le intercettazioni del gruppo di Bletchley Park sul codice Enigma, che permisero di rompere la segretezza dei cifrari tedeschi, contribuì a diversi successi in Africa e nel Mediterraneo; le attività del Special Operations Executive (Soe) sostennero le resistenze norvegesi, olandesi, francesi, italiane, jugoslave e greche e consentirono diverse azioni di disturbo e sviamento della macchina militare del Terzo Reich. La Seconda guerra mondiale creò il mito delle spie britanniche ma spinse anche il governo di Winston Churchill e, dopo di lui, il successore Clement Attlee a portare a una razionalizzazione di un apparato che, tra varie strutture, vantava oltre mezzo secolo di storia e una vasta complessità. Il Grande Gioco raccontato da Peter Hopkirk nell’omonimo saggio, il confronto tra spie russe e britanniche per inserirsi nelle strategiche aree dell’Asia Centrale, a metà XIX secolo pose a Londra e allo stato maggiore imperiale il dilemma della strutturazione di apparati di raccolta informazioni capaci di evitare di dipendere dalle gesta di singoli “solisti”. Il War Office intento a coordinare l’esercito britannico istituì il suo comparto intelligence nel 1873, creando il Directorate of Military Intelligence (Dmi) che per la ricerca informativa in campo militare avrebbe operato fino al 1964. Parimenti, l’Ammiragliato a capo della Royal Navy creò nel 1882 il Foreign Intelligence Committee e nel 1887 il Naval Intelligence Department. La guerra alla Germania nazista prima e la Guerra Fredda poi crearono la necessità di una strutturazione chiara e univoca del governo dei servizi britannici, spingendo dal 1939 in avanti Downing Street ad approfondirne l’evoluzione e a garantire di fatto un crescente potere di coordinamento a una struttura di raccordo, il Joint Intelligence Committee, da allora in avanti centrale nel regolare un apparato sempre più complesso. Ad oggi, il comparto intelligence britannico conta dieci diverse agenzie suddivise in quattro branche, coordinate dal Jic e affidate in ultima istanza all’autorità del Primo ministro, che nel suo governo ha al suo fianco proprio il direttore dell’intelligence nazionale. La divisione dell’intelligence britannica è su due livelli: i servizi di Sua Maestà possono essere classificati o per attività funzionali o per area di competenza. La distinzione interno/estero divide in particolare le operatività di otto diverse agenzie.

Le agenzie interne ed estere. Sul fronte dell’intelligence domestica si trovano un’ampia e articolata gamma di strutture aventi come compito attività che esulano dal cerchio stretto delle attività di un servizio. Il National Fraud Intelligence Bureau si occupa di attività di contrasto al crimine finanziario; il National Ballistics Intelligence Service di monitoraggio di eventuali armi da fuoco illegali e la National Crime Agency svolge indagini e raccolte informative sulle reti criminali nel loro complesso. Ai vertici della piramide interna dei servizi britannici vi sono gli uffici per il contrasto all’estremismo (National Domestic Extremism and Disorder Intelligence Unit) e al terrorismo (Office for Security and Counter-Terrorism) e, in cima, il Security Service per eccellenza, il celebre MI5. Il MI5 è il principale servizio interno e opera nella direzione dell’attività anti-terrorismo, nella prevenzione dei rischi al sistema-Paese e del controspionaggio in campo militare, economico, tecnologico, industriale. Fondato come Secret Service Bureau nel 1909 ha il suo equivalente estero nel Military Intelligence Section 6 (MI6), che assieme alla Defense Intelligence rappresenta il perno dell’attività del Regno Unito fuori dai confini nazionali. MI6 lavora esclusivamente con informazioni straniere e, quindi, oltre i confini britannici. La legge britannica autorizza l’MI6 a eseguire operazioni solo fuori dai confini territoriali britannici.

Gchq: l'agenzia della tecnologia di frontiera. Completa l’architettura una struttura fondata sull’operatività in ambito tecnologico e informativo che rappresenta il prototipo di una moderna struttura di signal intelligence. Il General Communication Head Quarter (Gchq) istituito nel 1946 è da allora l’erede dell’apparato di “Ultra” che a Bletchley Park violò le chiavi delle comunicazioni naziste. Il Gchq è la chiave di volta della più strutturata alleanza d’intelligence a cui il Regno Unito appartiene, il complesso sistema Five Eyes che unisce Londra a Usa, Nuova Zelanda, Australia e Canada creando un vero e proprio sodalizio dell’Anglosfera in ambito di scambio di informazioni privilegiate, alleanze in termini di contrasto a minacce comune, prevenzione di offensive ibride. Il Gchq ha da tempo e in futuro avrà sempre più rilevanza mano a mano che si strutturerà la volontà di Londra di fare del cyber e del mondo tech la nuova frontiera per i suoi apparati militari e securitari. I nuovi 007 di Sua Maestà si occuperanno sempre di più di cybersicurezza, hackeraggi, offensive coperte, intrusioni informatiche: l’intelligence evolve e prepara la conquista  delle nuove frontiere proprio nel Paese che ne ha brevettato la sua versione moderna e modernizzato le linee guida operative.

CIA. Alessandro Camilli per blitzquotidiano.it il 10 ottobre 2021. Troppi agenti della Cia eliminati. È l’allarme lanciato dalla Cia che, con un dispaccio a tutte le sue stazioni sparse per il mondo e finito sulla stampa americana, certifica lo stato di crisi dell’intelligence a stelle e strisce. Spionaggio americano che fa acqua, rischiando di lasciare “cieca” la più grande potenza mondiale per colpe interne, vittima anche lei come un’Italia qualsiasi della burocrazia, ma anche della crescita dei sistemi di controspionaggio dei paesi nemici divenuti negli anni sempre più efficienti. 

Non c’è più la Cia di una volta, signora mia

O forse la Central Intelligence Agency non è quella che Hollywood ci ha sempre raccontato. La storia dell’agenzia di spionaggio americana è infatti, a leggerla, una storia costellata di clamorosi fallimenti.  Nata nel 1947 con l’intento di metter ordine in un’inadeguata attività di spionaggio per evitare il ripetersi di Pearl Harbor, attacco che aveva colto Washington di sorpresa, negli anni non è stata in grado di anticipare altre ‘sorprese’, ultimo in ordine di tempo il recente crollo del governo sostenuto dagli americani in Afghanistan. E poi si fece sfuggire la Primavera Araba e la morte di Kim Jong Il in Corea del Nord; non capì l’imminente crollo dell’Unione Sovietica, il disastro della Baia dei Porci a Cuba e l’imprevista offensiva del Tet dei Vietcong in Vietnam. Mancò completamente la rivoluzione iraniana del 1979 come nello stesso anno l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, in tempi più recenti, certificò il possesso da parte dell’Iraq di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa in realtà mai trovate.

Fallimenti noti contro, forse o probabilmente, successi mai diventati di pubblico dominio

E’ vero infatti che le operazioni ben fatte delle spie, come è facile immaginare e come anche 007 ci insegna, non sono pubblicizzate. Di fronte ai clamorosi insuccessi della Cia ci saranno quindi anche vere e proprie imprese di cui forse non sapremo mai nulla. Ma l’allarme in questo caso arriva direttamente da Langley e dice, senza mezzi termini, che le spie americane sono sempre più indietro, mentre quelle degli altri paesi migliorano anno dopo anno. Le cause e le colpe di questa crescente inefficienza, come spesso accade, sono molte e diverse. C’è, in primis, un problema molto interno e apparentemente molto poco americano di burocrazia e regolamenti ‘aziendali’.  Il dispaccio inviato identifica questo problema endogeno come “mission over security”: il privilegiare cioè la conquista di nuovi agenti sui potenziali rischi che ne derivano. Una fretta figlia di carenze delle quali la Cia risente già da tempo nelle attività di intelligence “umana”. I funzionari della Cia, noti come “case officers”, ricevono promozioni e fanno carriera sulla base di target quantitativi assai più che qualitativi con il successo e la crescita professionale che dipende da quanti agenti sono reclutati e non da come operano. Una politica che ha prodotto agenti di scarsa qualità e affidabilità che hanno ulteriormente compromesso le reti di spie americane. 

Un caso eclatante in questo senso risale al 2009, in Afghanistan

Una bomba esplose in un avamposto Cia a Khost, uccidendo sette agenti. Fu un attacco suicida da parte di un medico giordano che l’agenzia aveva pensato di aver arruolato per penetrare Al Qaeda e che invece era stato arruolato da Al Qaeda con la missione opposta. L’inefficienza casalinga non è però l’unica causa dei troppo agenti “eliminati”. Mentre la Cia perdeva capacità, contemporaneamente, le intelligence dei paesi ne acquisivano. Tra i paesi ‘ufficialmente’ nemici sono Russia e Cina a preoccupare in particolare ma, anche una nazione come l’Iran, con minor raggio d’azione della Cina ma con ambizioni nucleari e mire regionali, sarebbe nel mirino della Cia per una presenza essenziale di intelligence. Proprio Russia e ancor più Cina e Iran si sono invece trasformati in altrettanti, recenti disastri per le spie statunitensi. Numerosi informatori Usa sono stati in questi anni messi a morte anzitutto da Pechino a Teheran; altri hanno dovuto essere “estratti” in extremis e fatti sparire per sicurezza. Così gli agenti americani, come definisce la Cia gli informatori che recluta, vengono da alcuni anni sistematicamente eliminati, cioè definitivamente compromessi: arrestati, trasformati in protagonisti del doppio gioco oppure, più semplicemente, uccisi. 

La complessa comunità dell’intelligence Usa. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. I servizi segreti statunitensi sono un corpo estremamente articolato e complesso. Diviso in diversi settori e apparati coordinati da un’agenzia di raccordo, la United States Intelligence Community (Usic), il mondo dei servizi si occupa trasversalmente di sicurezza nazionale, raccolta informativa, controllo delle minacce al Paese e promozione degli obiettivi politico-diplomatici della superpotenza a stelle e strisce. 

Una comunità articolata e costosa. Gli Stati Uniti hanno ben 17 agenzie di intelligence la più antica delle quali è l’Office of Naval Intelligence facente capo alla Marina militare a stelle e strisce, fondata nel 1882, mentre la più recente è Space Delta 7, il corpo di raccolta informazioni della United States Space Force istituito nel 2020. Il numero di persone che lavorano in questi apparati e nell’ampio e complesso network di imprese, organizzazioni e think tank ad essi collegati è stimabile in diverse centinaia di migliaia di persone, tanto che nel 2010 il Washington Post aveva indicato in 854mila il numero di individui che (secondo una stima al ribasso) avevano accesso a informazioni classificate con diversi livelli di segretezza in ambiti strategici per la sicurezza nazionale. Tale apparato ha un costo di mantenimento sensibile: tra intelligence civile e militare, gli stanziamenti federali per i servizi segreti sono cresciuti dai 67,9 miliardi di dollari del 2014 agli 85,8 del 2020, a testimonianza della cruciale rilevanza dell’Usic nella vita pubblica americana.

Come l'intelligence riferisce al presidente. Il vertice operativo di tutta la comunità dell’intelligence è, chiaramente, alla Casa Bianca: il presidente degli Stati Uniti ha un potere di comando e controllo, di decisione delle nomine per i vertici e di scrutinio operativo sull’intera Usic, e in seno al governo allo Studio Ovale risponde direttamente il Director of National Intelligence (Dni), un vero e proprio plenipotenziario del presidente. La carica di Dni è attualmente ricoperto dall’esperta di sicurezza nazionale Avril Haines, il cui ruolo è stato da Joe Biden elevato a quello di un vero e proprio ministro dell’amministrazione. Secondo l’Intelligence Reform and Terrorism Prevention Act del 2004 il Dni ha la possibilità di affiancare il presidente nelle riunioni del National Security Council e ogni mattina il suo ufficio manda sulla scrivania del comandante in capo il Daily Brief, un memorandum contenente le informazioni più strategiche e dal più alto valore operativo. Si capisce in quest’ottica come i servizi siano di fatto il vero centro propulsivo della vita politica a stelle e strisce. La scelta di quali informazioni possano varcare prioritariamente la soglia dello Studio Ovale è in capo in maniera prioritaria alla comunità dell’intelligence e nel corso degli ultimi anni, dalla crisi afghana alla pandemia di Covid-19, dalla gestione dei rapporti con la Corea del Nord al braccio di ferro con la Cina, i presidenti hanno riposto nella raccolta informativa operata dagli alleati la massima, se non assoluta, fiducia per orientare le loro mosse. Nel 2002 il portavoce di George W. Bush, Ari Fleischer, definì il Daily Brief come “il più sensibile tra i documenti classificati del governo”, mentre l’ex direttore della Cia George Tenet nel 2000 parlò del fatto che per nessun motivo sarebbe mai stato possibile desecretare, in futuro, un solo di questi documenti. Nel corso degli anni, tuttavia, diverse migliaia di aggiornamenti arrivati sulle scrivanie dei presidenti sono stati resi accessibili al pubblico, specie per quanto concerne il periodo compreso tra l’amministrazione Kennedy e l’amministrazione Ford in cui il Paese fu profondamente impegnato in Vietnam.

Le agenzie chiave: Cia e Nsa. Mentre molte agenzie svolgono lavoro di intelligence classico sotto i vari Dipartimenti, due agenzie sulle diciassette facenti capo al Dni hanno una rilevanza particolare, e sono non a caso le maggiormente note: parliamo della Central Intelligence Agency (Cia) e della National Security Agency (Nsa). La Cia ha la particolare caratteristica di essere un’agenzia ibrida, formalmente civile ma con importanti ramificazioni operative in ambito militare e paramilitare. La sua natura di agenzia indipendente non facente riferimento a nessun dipartimento la pone in diretto contatto con la Casa Bianca ed è l’unico apparato federale Usa autorizzato dalla legge a compiere su ordine del Presidente operazioni coperte fuori dai confini nazionali. La Cia assorbe circa un quarto del budget dell’intelligence e ha la sua principale caratteristica nell’attività di coordinamento delle operazioni di human intelligence (Humint) attraverso l’intera comunità federale. La sua struttura focalizzata sull’arruolamento diretto di persone come agenti o operativi ne ha alimentato una certa mitologia, ma ha anche contribuito alla sua notorietà. Soprattutto dopo l’11 settembre, che ha mostrato la complessità del coordinamento interno ai servizi, la Cia è diventata di fatto l’organismo di raccordo che porta all’attenzione del Dni e del Presidente le priorità operative. La National Security Agency è invece sottoposta al controllo del dipartimento della Difesa ed è incaricata della sicurezza informativa in materia transnazionale. Si occupa del monitoraggio, della raccolta e dell’elaborazione globali di informazioni e dati a fini di intelligence e controspionaggio esteri e nazionali, con un focus dunque sulla signal intelligence (Sigint) e ha acquisito rilevanza a partire dalla Guerra al Terrore, nel corso della quale il cui uso è stato estremamente ambiguo. In particolare il 16 dicembre 2005 fece scalpore quanto dichiarato dal New York Times, secondo cui l’amministrazione Bush aveva ordinato intercettazioni telefoniche indiscriminate andando anche oltre le prescrizioni del Patriot Act, servendosi della Nsa e otto anni dopo Edward Snowden contribuì a rilevare le dinamiche dei programmi di sorveglianza di massa dell’agenzia. La Nsa acquisì una strutturata mole di dati su transazioni finanziarie, telefonate, scambi di e-mail, contatti di cittadini e leader stranieri in quella che ha rappresentato la più complessa procedura di conquista e archiviazione di informazioni sensibili della storia. A testimonianza del fatto che il cuore dell’impegno politico-strategico della comunità dell’intelligence sta nella caccia al ricco e sempre più sfruttabile potenziale informativo ricavabile dall’analisi degli scenari internazionali. Nella consapevolezza che monitorare Paesi amici e rivali, governi, infrastrutture fisiche e digitali di interscambio possa fornire agli Usa la capacità di analisi e previsione per anticipare gli scenari. E, in ultima istanza, conservare la leadership globale. Un paradigma spesso rivelatosi più complesso per problemi di elaborazione e errori politici, ma a cui manca ancora una reale alternativa su scala planetaria.

Come funziona l’intelligence italiana. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. I servizi segreti italiani sono una componente fondamentale del perimetro della sicurezza nazionale e della tutela degli interessi del sistema-Paese in un’era di minacce sempre più complesse. Il comparto intelligence, incardinato nel Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (Sisr) si occupa dell’attività di ricerca e analisi delle minacce, della raccolta informativa sul campo e dello scrutinio avanzato sulle sfide che l’Italia deve affrontare. Regolato da una precisa normativa e da una chiara catena di comando, il Sisr ha assieme ai suoi organi acquisito sempre più rilevanza nel quadro del sistema Paese negli ultimi decenni.

Un'evoluzione complessa. Inizialmente, nell’immediato secondo dopoguerra l’intelligence italiana fu ricostruita attorno a un unico ente di carattere militare, il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar) alle dirette dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, a cui informalmente faceva da parallelo l’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, alla cui guida si distinse la sulfurea e controversa figura di Federico Umberto d’Amato. A partire dal luglio 1966 il Sifar divenne il Servizio Informazioni della Difesa (Sid), cui vennero conferiti compiti di informazione, prevenzione e tutela del segreto militare e di ogni altra attività di interesse nazionale volta alla sicurezza e alla difesa dell Stato. Undici anni dopo, nel 1977, dopo anni di sospetti legati al possibile coinvolgimento di elementi deviati dei servizi nelle questioni più spinose della strategia della tensione e degli anni di piombo il governo italiano modificò, sdoppiandoli, i servizi. Nacquero così il Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi), in capo alla Difesa, e il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde), posto in capo al Viminale col fine di agire per la difesa dello Stato democratico contro chiunque vi attenti e contro ogni forma di eversione, sulla scia dei risultati ottenuti dai nuclei anti-terrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dell’l’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo (Igat) del Ministero dell’Interno, ridefinito nel 1976 come Servizio di Sicurezza (Sst), con un ruolo prevalentemente operativo. La riforma, oltre alla divisione tra comparto operativo di carattere militare e servizio legato ad apparati civili, introduceva la messa in capo alla presidenza del Consiglio dei poteri di controllo sugli apparati. Poteri ad ora ancora indiretti, data l’intermediazione del Comitato esecutivo sui servizi di informazione e sicurezza (Cesis) tra premier e apparati, ma che avrebbe segnato la strada per il futuro.

L'assetto attuale dell'intelligence italiana. Nel corso del secondo governo Prodi la convergenza tra la maggioranza di centro-sinistra e l’opposizione di centro-destra portò a una riforma bipartisan dei servizi segreti con la Legge 124/2007, che ha dettato la linea per l’attuale assetto del comparto intelligence. La Legge 124 ha operato sul solco tracciato già nel 1977, portando però i servizi segreti nel cuore della stanza dei bottoni del potere italiano e creando un filo diretto tra il potere esecutivo e quella che è la prima e più importante sorgente di informazioni riservate per la sua azione. Con la Legge 124/2007 il vertice dell’intelligence italiana fu identificata con la figura del presidente del Consiglio, che ex lege ne nomina i vertici, può autorizzarne le operazioni ed esercita un potere di controllo e di coordinamento che da allora, per prassi, gli inquilini di Palazzo Chigi hanno affidato a un’apposita autorità delegata che può esser da loro individuata. Al di sotto del premier è individuato con precisione il perimetro del Sisr. Esso comprende organi di coordinamento, strutture operative e il comitato di controllo, il Copasir.

Gli organi di coordinamento. Il coordinamento dell’intelligence italiana è affidata al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza costituita in seno alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Dis, oggi diretto dall’ambasciatrice Elisabetta Belloni, è la struttura chiave per il funzionamento del comparto intelligence. Esso elabora linee guida strategiche per le agenzie, fornisce rapporti e relazioni al governo, garantisce il rapporto operativo annuale al Parlamento, fa da camera di compensazione tra Sisr, forze di polizia, Carabinieri e altre strutture securitarie, analizza le dinamiche per l’apposizione di segreti di Stato e la concessione di nulla osta di sicurezza. Il Dis ha messo direttamente in capo a Palazzo Chigi responsabilità e azioni dell’intelligence italiana. Il presidente del Consiglio presiede inoltre il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), ulteriore organismo di coordinamento che si confronta col Dis per strutturare le linee guida politiche di riferimento per i servizi e che ha il fondamentale compito di definire operativamente le nomine dei vertici su proposta del capo del governo. Oltre all’inquilino di Palazzo Chigi lo compongono il direttore del Dis, che fa da segretario, l’Autorità delegata per la sicurezza (se nominata) e i ministri degli Esteri, dell’Interno, dell’Economia, dello Sviluppo Economico, della Giustizia e della Difesa.

Le agenzie. A partire dal 2007 il Sisr ha il suo braccio operativo in due agenzie: l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi), responsabile della lotta alla criminalità organizzata, dell’antispionaggio e del contrasto al terrorismo interno oltre che di tutte le attività che competono indagini interne ai confini nazionali, e l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise) che si occupa di tutela del sistema-Paese dalle minacce guardando soprattutto alle sfide esterne. Dal 2007, dunque, il confine tra le due agenzie è nell’area geografica di riferimento. Nel corso degli anni, in particolare, l’Aise ha agito in coordinamento con il Dis per l’acquisizione informativa in sostegno alla politica estera, il contrasto alle infiltrazioni straniere nell’economia, la ricerca di cittadini italiani caduti ostaggio di gruppi terroristici, mentre l’Aisi si è concentrata sulla repressione anti-terroristica e sulla lotta alle mafie. Aisi e Aise cooperano attivamente nel definire la relazione annuale al Parlamento. Oggigiorno, le principali richieste di modifica della Legge 124/2007 si concentrano proprio sulla difficoltà di imporre confini geografici precisi alle minacce al sistema-Paese e propongono un’evoluzione della divisione pienamente operativa, tra un organo di human intelligence volto a raccogliere informazioni e uno di signal intelligence in grado di operare sul campo.

Il Copasir. Perno conclusivo del Sisr è il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, o Copasir, avente sede a Palazzo San Macuto a Roma. Costituito da dieci tra deputati e senatori, il Copasir ha poteri di vigilanza attiva sulla condotta dei servizi e spesso non ha lesinato un’applicazione profonda di queste facoltà, puntando ad indagare attentamente le sfide sistemiche del Paese acquisendo rivelazione e rapporti sulle attività dei servizi. I suoi membri sono tenuti a un chiaro e preciso silenzio durante l’attività in carica e il Copasir ha la facoltà di convocare ministri, direttori d’agenzia, politici, manager, finanzieri per completare la sua opera. Per legge la presidenza del Copasir spetta a un esponente dell’opposizione parlamentare, a testimonianza della volontà del Legislatore di fare dei servizi un patrimonio comune della Repubblica.

Fuori dal Comparto. La piramide del Sisr è quella più ampia e strutturata, ma fuori dal Comparto intelligence propriamente detto gli apparati pubblici non mancano di strumenti operativi per definire una strutturata attività d’intelligence. Il II reparto della Guardia di Finanza e il Centro intelligence interforze dell’Esercito di Casal Malnome sono esempi di strutture che compiono attività di raccolta informativa di natura molto ben specifica e funzionale agli apparati di riferimenti. Nel quadro della Difesa ha peso anche il Raggruppamento Unità Difesa, dotato di compiti di vigilanza e difesa della logistica delle installazioni preposte ad attività di intelligence. Meno nota, ma secondo gli addetti ai lavori estremamente efficace, è l’Unità di Informazione Finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, istituita nel 2007, che opera nella raccolta informativa contro i flussi di denaro sporco ai terroristi o alla criminalità organizzata. Si attiva principalmente attraverso le segnalazioni di operazioni sospette trasmesse da intermediari finanziari, professionisti e altri operatori. Analogamente esterno al Sisr, ma parallelo, sarà invece il perimetro dell’Agenzia di cybersicurezza nazionale (Acn), integrato come nuovo apparato dopo l’approvazione del suo formato da parte del governo Draghi. L’Acn compartimenterà tra intelligenze e nuovi organi le attività legate al cyber, dominio multiforme di scontro dell’era contemporanea. Espandendo le prerogative della sicurezza nazionale pur restando al di fuori del Sisr. Anno dopo anno, lo scrutinio delle attività di intelligence in Italia riguarderanno, gradualmente, domini sempre più estesi. 

Come il Vaticano e la Chiesa fanno “intelligence”. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. Una grande potenza non può prescindere dai servizi di informazione e sicurezza. E se questo principio vale per i grandi potentati politici e militari, è a maggior ragione valido per una superpotenza “immateriale” come il Vaticano. La Santa Sede è forte di una potenza spirituale e diplomatica non indifferente, ma anche epicentro di un’importante rete informativa che ha pochi eguali nel contesto internazionale e che permette all’Oltretevere un’approfondita conoscenza degli affari globali.

I "servizi" del Vaticano. Nel 2014 ha fatto molto scalpore la pubblicazione del saggio L’Entità, pubblicato dal giornalista Eric Frattini, in cui si parla di quello che sarebbe un vero e proprio apparato di intelligence al servizio dei Papi, talmente segreto da non avere nemmeno un nome ufficiale. Frattini unisce fatti storici e illazioni, non costruendo un quadro storico completo: quel che manca nella sua chiave di lettura è una contestualizzazione storica precisa. Il Vaticano ha, sia durante l’epoca dello Stato Pontificio che dopo, sempre fatto intelligence, ma un vero e proprio corpo di servizi segreti operante come braccio spionistico della Santa Sede non è mai esistito ufficialmente. I Papi hanno, nel corso dei secoli, costruito piuttosto delle “task force” per rispondere alle sfide sistemiche che più volte minacciavano la posizione della Chiesa. Nel Seicento, Papa Innocenzo X approvò di fatto la costituzione di una rete di protezione e controllo tale da prevenire le infiltrazioni degli agenti francesi al soldo del Cardinal Mazzarino, strenuo nemico di Roma, avente il suo punto di raccordo con il Papa nella figura della cognata di Innocenzo, la “papessa” Olimpia Maidalchini. Più di recente, a inizio Novecento Papa Pio X organizzò il Sodalitium Pianum agli ordini di monsignor Umberto Benigni, attivo fino all’ascesa di Benedetto XV per contrastare le infiltrazioni moderniste nella Chiesa. Infine, si può definire a metà strada tra il pastorale, il politico e il lavoro d’intelligence l’operato del cardinale Luigi Poggi da capo delegazione della Santa Sede in Polonia (1975-1986) nell’epoca di Giovanni Paolo II, sancita dal forte e compatto appoggio a Solidarnosc. Tuttavia, ognuno di questi casi fa riferimenti a iniziative spontanee e di portata limitata di singoli pontefici per attuare operazioni di difesa delle loro priorità politico-pastorali. La pistola fumante dell’esistenza di un apparato di intelligence vaticano strutturato non è mai stata trovata, né si può propriamente definire così il servizio informazioni della Gendarmeria Vaticana, attenta a prevenire le infiltrazioni terroristiche e a garantire la sicurezza dei pontefici con elevata professionalità. Questo dato di fatto è legato alla natura ben più complessa dell’azione d’intelligence vaticana: di fatto, l’intera struttura politica, pastorale e istituzionale della Chiesa e l’organizzazione della Santa Sede sono costruite per creare un capillare apparato di raccolta informativa. Priva di eguali nel mondo contemporaneo.

Il Vaticano come struttura di intelligence. Oltre ad essere l’epicentro della principale religione dell’Occidente, l’Oltretevere è a capo di un’istituzione millenaria e presente globalmente. Capace dunque di essere al centro di un apparato informativo e di intelligence che, operando spesso alla luce del sole, non ha bisogno di veri e propri servizi per funzionare. Esaminando la mole di informazioni su cui la Chiesa può contare si capisce il perché. Alla Segreteria di Stato vaticana e agli organi collegati rispondono le nunziature apostoliche sparse per il mondo, che svolgono i compiti di diplomazia ordinaria, ma arrivano anche regolarmente i rapporti dei vescovi di tutto il mondo, che coordinano una struttura gerarchica fondata su diocesi, parrocchie, oratori che porta la Chiesa negli angoli più remoti del pianeta. Non va dimenticato che la Chiesa è l’unica istituzione religiosa ad aver dato una struttura territoriale precisa e una gerarchia organizzata all’intera superficie terrestre e all’intera popolazione umana per fini pastorali. Ma non finisce qui. Ai rapporti delle diocesi, fondamentali per tastare il polso sotto il profilo economico, sociale, politico delle varie aree del pianeta, si aggiungono le relazioni di organizzazioni cattoliche e prelature personali come l’Opus Dei, le informazioni trasmesse dalle missioni, dalle Ong cattoliche, da gruppi che operano in aree di crisi (come Aiuto alla Chiesa che Soffre). Il Vaticano ha poi un’efficace struttura mediatica che si basa sugli apparati interni (Osservatore Romano, Vatican News, e via dicendo) ma che è valorizzato dall’effetto-moltiplicatore dato dalla continua interazione con i media cattolici del mondo che, come dimostrano casi quali Nigrizia e Asia News, hanno spesso grazie al legame con le reti cattoliche locali informazioni dirette e di prima mano su scenari cruciali per il contesto geopolitico. Fanno poi riferimento al Vaticano imporanti informazioni economico-finanziarie legate allo Ior, alle banche cattoliche, ai movimenti che, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, tutelano lavoratori, emarginati, sfruttati e alle organizzazioni sindacali di matrice cattolica o che a tale mondo fanno riferimento. In Italia pensiamo a casi come Coldiretti, Cisl, Acli. Aggiungiamo al sistema il peso di una struttura come la Caritas, l’attività degli ordini religiosi che fanno regolare rapporto a Roma e lo scambio con l’ampia galassia di scuole, istituti educativi, università e associazioni caritatevoli e sanitarie legate alla Chiesa sparse per il mondo e il quadro è completo.

Informazioni e pensiero strategico. Messe a fattor comune queste conoscenze consentono alla Chiesa di avere una visione d’insieme del sistema-mondo articolata e lucida, che più volte ha reso la Santa Sede e i Papi in grado di leggere in anticipo scenari e dinamiche dell’era contemporanea: dalle minacce connesse ai conflitti in Medio Oriente all’ascesa delle disuguaglianze su scala globale, passando per l’effetto atomizzante e le insidie dello sdoganamento completo della globalizzazione. Il fatto che dal Concilio Vaticano II la Chiesa abbia operato una svolta politica e pastorale aprendosi al confronto con i nuovi scenari della nascente globalizzazione, rafforzando la dottrina sociale e aprendosi al confronto con altre religioni, con i governi del pianeta, financo col blocco socialista con l’Ostpolitik di Agostino Casaroli non fu casuale, ma il frutto di tale capacità di lettura. Messa in crisi dalla secolarizzazione, dalla crisi delle vocazioni e dal calo degli aderenti, la Chiesa cattolica ha reagito mettendo al centro la volontà di leggere i segni dei tempi. E da Giovanni XXIII in avanti ha promosso ai vertici figure con una visione ampia e prospettica degli affari internazionali. L’informazione capillare che raggiunge il Vaticano è alla base di un complesso pensiero strategico che gli ultimi pontefici, da Paolo VI in avanti, hanno strutturato. Posizionando l’Oltretevere come ponte tra Oriente e Occidente, rendendo la Chiesa cattolica l’ultima istituzione emancipatrice di fronte all’avanzare del pensiero unico neoliberista, cercando di sanare la complessa multipolarità interna all’antica istituzione facente capo al Vaticano. Obiettivi complessi per una strategia che mira a consegnare al XXI secolo una Chiesa in grado di sorpavvivere come attore pastorale e soggetto geopolitico, difficilmente in grado di avere successo senza la capacità di raccolta informazioni della Santa Sede. 

Gianluca Paolucci per “La Stampa” il 3 settembre 2021. Un gioiello della tecnologia per uso militare, la Alpi Aviation di Pordenone, è finita in mano cinese e stava per trasferire a Pechino brevetti e tecnologia. I suoi droni sono stati utilizzati dalle nostre forze armate nel complesso teatro afgano fin dal 2011 e dalle forze di polizia non solo italiane per operazioni di vigilanza e controllo. Un settore strategico e iper-protetto, quello della tecnologia per uso militare che però malgrado la regolamentazione molto rigida non ha impedito che la Alpi Aviation venisse acquisita - tramite una serie di schermature societarie - da un fondo riconducibile al governo cinese. Secondo la ricostruzione della procura di Pordenone, che ieri ha ordinato una serie di perquisizioni e sequestri a carico di sei persone, tre italiani e tre di nazionalità cinese, contestando la violazione delle norme sull'export di armamenti e della Golden power sulla tutela delle attività strategiche, la Alpi Aviation si stava preparando a trasferire la produzione - compresi gli Uav, Unmanned armed vehicle, i droni armati per uso militare - a Wuxi, in Cina. La genesi dell'affare risale al 2018: nel luglio di quell'anno la Mars (Hk) Information Technology Limited compra il 75% della Alpi Aviation per 3,995 milioni di euro. L'acquirente, una società con sede a Hong Kong, è controllata dalla China Corporate Investment Holding. Secondo il decreto di perquisizione, «nonostante la schermatura di plurime altre società, (la Mars di Hong Kong) risulta riconducibile al governo della Repubblica Popolare cinese». Contestualmente all'ingresso nel capitale, secondo quanto ricostruito dalle indagini della Guardia di finanza, «venivano avviate azioni () per il trasferimento della tecnologia e la delocalizzazione produttiva delle attività Uav in Cina, nella città di Wuxi» senza le autorizzazioni previste dalla normativa (in particolare l'articolo 13 della legge 185/1990). Il decreto cita una serie di scambi di email tra gli indagati dai quali risulta che il progetto prevede il completamento del trasferimento entro il 2021. Sempre secondo il decreto, la Alpi avrebbe omesso di riferirsi ai suoi droni armati in una serie di documenti relativi all'export in Cina di modelli per esposizioni, «occultandoli» sotto la dicitura generica di aeromobili. Un escamotage già utilizzato dall'azienda friulana in almeno altre tre occasioni: in India nel 2013, in Brasile nel 2016/17 e in Messico nel 2015 i modelli della Alpi sono stati trasferiti per fiere ed esposizioni come «modelli di aeroplano», «materiale marketing» o utilizzando il codice doganale dei giocattoli. La genesi dell'indagine è però ancora più inquietante: il sospetto, ricorda lo stesso decreto, che i droni di Alpi potessero essere esportati in Iran. Nata nel 1999 per la produzione di aerei, ultraleggeri, la Alpi si è successivamente dedicata alla progettazione di Uav. Il suo prodotto di punta, lo Strix, con varie evoluzioni è utilizzato dalle Forze armate da oltre 10 anni. L'indagine della Gdf ha sollevato preoccupazioni anche dal lato politico: Debora Serracchiani, presidente del gruppo Pd alla Camera, ha rilevato come «le relazioni con Cina richiedano di essere mantenute senza timidezza, avendo sempre presente la pulsione espansiva di quel paese».

Claudio Antonelli e Alessandro Da Rold per “La Verità” il 3 settembre 2021. Dopo l'Iran, la Cina. Alpi Aviation - azienda di componentistica per aerei, droni, elicotteri, con accordi commerciali con il ministero della Difesa, singole Forze armate e Leonardo - finisce di nuovo sotto inchiesta. Se a marzo la società il cui amministratore delegato è Massimo Tammaro, già comandante delle Frecce tricolori, era stata perquisita per il sospetto di violare l'embargo con Teheran, ora invece a finire nel mirino della Procura di Pordenone (sostituto procuratore Carmelo Barbaro) sono i rapporti con la Cina. Secondo l'accusa, i sei amministratori della società (Wei Jianhua, Corrado Rusalen, Qi Rong, Li Xia, Moreno Stinant e appunto Tammaro) avrebbero in concorso tra loro violato la legge 185 del 1990 che regola la vendita di materiali d'armamento all'estero. Avrebbero esportato in Cina armamenti militari e tecnologie avanzate senza autorizzazione, ma soprattutto avrebbero violato le norme del golden power che regola la cessione di quote o di contratti in capo alle aziende strategiche. Rischiano fino a 12 anni di carcere e multe fino a 280 milioni di euro. Per capire la realtà di Alpi Aviation bisogna però fare un piccolo passo indietro. E tornare al luglio del 2018, in pieno governo filocinese Conte uno (a marzo del 2019 viene firmato il memorandum della Via della Seta), quando l'azienda friulana viene acquistata per il 75% da Mars information technology, una società di Hong Kong, dietro cui si cela, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, in realtà il fondo Ccui (China corporated united investment management Ltd) di Shanghai. A sua volta azionista di Ccui è Crrc, colosso statale cinese nel settore ferroviario, concorrente di Alstom e Siemens nel mondo. L'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva inserito Crrc nella black list di aziende bandite con cui gli americani non possono avere interazioni societarie, in quanto sospettata dal dipartimento della Difesa Usa di essere un diretto fornitore dell'esercito popolare cinese. La somma corrisposta dal fondo honkonghino è stata di quasi 4 milioni di euro. Non appena creata la sinergia, in ogni caso già nel 2018, il team cinese e quello italiano avrebbero iniziato a trasferire e delocalizzare la produzione di sistemi Uav (aeromobili a pilotaggio remoto) in Cina, nella città di Wuxi. Peccato che, sostiene la procura, non risultano richieste da parti di Alpi Aviation al ministero degli Esteri né altre comunicazioni alla Difesa. Possibile che neppure un ex comandante della Frecce Tricolori come Tammaro, già manager Ferrari, non conoscesse le leggi sul golden power? Va precisato che l'attuale amministratore delegato ed ex colonnello, abbia preso l'incarico soltanto il 20 gennaio del 2020, mentre, secondo la procura, già un anno prima della sua nomina si era qualificato come il numero uno di Alpi Aviation proprio durante il trasferimento di tecnologia militare in Cina, anche in quel caso senza autorizzazioni ministeriali. Le fiamme gialle hanno raccolto diverso materiale durante le acquisizioni. Hanno svelato numerosi incontri in Cina tra Tammaro e gli altri azionisti, durante i quali si progettava l'avvio entro la fine di quest' anno di produzione di droni militari proprio a Wuxi. In pratica, Alpi Aviation progettava di delocalizzare la produzione sul territorio cinese, senza neppure comunicarlo al governo italiano e soprattutto ai suoi partner commerciali, come Leonardo, con cui sono stati sottoscritti accordi nel 2013 e nel 2019. Per via dei legami con la società di piazza Montegrappa era persino stata chiesta lo scorso anno una deroga per non sospendere l'attività durante la pandemia, esattamente come per le altre aziende strategiche italiane. Di per sé un concetto non sbagliato. La tecnologia di Alpi Aviation viene infatti usata dalle nostre Forze armate e i droni di Pordenone in questi anni sono stati avvistati in Afghanistan, tanto per fare un esempio. Stiamo parlando dei sistemi Uav Sixton, Strix-C, Strix D e Strix Df: uno di questi velivoli è al centro della vicenda perché sarebbe stato spostato in Cina in occasione della seconda edizione internazionale della Fiera dell'import di Shanghai. La società, in una nota, «nega con fermezza che nella condotta si debbano ravvisare violazioni delle norme a tutela del "golden power" e alla legislazione che regolamenta il trasferimento di informazioni strategiche o di tecnologia al di fuori del territorio nazionale, si riserva ogni azione a tutela della propria immagine». L'intervento a gamba tesa degli inquirenti ha permesso di raccogliere le informazioni necessarie alla magistratura per valutare il rischio connesso alla sicurezza nazionale e al tempo stesso le effettive condotte dei soggetti finiti nell'ordinanza. D'altra parte adesso sarà chiamato in ballo direttamente Palazzo Chigi. Nei giorni scorsi la Gdf ha infatti spedito agli uffici di competenza una nota contenente le informazioni di massima affinché il Comitato del golden power possa intervenire e giudicare ex post. Ci sono infatti due piani ben distinti in questa vicenda: quello giudiziario che farà il suo corso e quello politico che valuta l'opportunità di collaborare a condividere aziende con Pechino. Ci auguriamo che Tammaro e gli altri manager coinvolti siano estranei alle accuse e innocenti. Ciò non esclude che possa essere avvenuto ugualmente un trasferimento di tecnologia financo in buona fede. A maggior ragione bisogna rafforzare il monitoraggio, tarare le maglie dei filtri del golden power e unire in una sola filiera la capacità di prevenzione del comitato di golden power. Certo, l'arrivo di Mario Draghi ha impresso a tutti gli organi dello Stato una visibile sterzata filo occidentale. Le antenne adesso sono molto più alzate. Sarà anche il caso di approfittare della nuova agenzia di cyber security per tirare le fila di quella che i francesi chiamano «ecole de guerre economique» e che da noi è ferma alla fase dei desiderata. 

Così la Cina fa shopping di armi in Italia. Luana de Francisco su L'Espresso il 2 settembre 2021. Un’inchiesta della Guardia di Finanza punta i fari sull’azienda pordenonese Alpi Aviation, acquisita da Pechino e attiva nella produzione di droni militari. Che, secondo gli investigatori, sarebbero stati venduti all’Iran. Si comprano tutto. Ora che di soldi ne hanno in abbondanza, fanno prima a rastrellare aziende e know how italiani e a trasferire poi baracca e burattini in patria che a girarci attorno attraverso lunghe e pericolose operazioni di spionaggio industriale. E questo succede anche se il mercato di riferimento è quello, strategico e dunque altamente sorvegliato, dei “prodotti militari”. Con il risultato che, per quanto assurdo possa sembrare, gli armamenti finiscono per non avere bandiera. La prova arriva dal Friuli, dove si è dovuto attendere che un’inchiesta giudiziaria puntasse i fari sulla Alpi Aviation srl, società attiva nella progettazione e fabbricazione di aerei, elicotteri e droni dual use, per accorgersi che da oltre due anni la proprietà era passata in mani cinesi. Che poi significa sotto il controllo del governo di Pechino, visto che nella terra del Dragone, dove tutto fa capo al partito comunista, non esiste società che possa dirsi slegata dallo Stato. L’ipotesi a cui la Guardia di finanza di Pordenone ha lavorato, indagando su sei manager, tre italiani e tre cinesi, è che quello che era e resta uno dei fornitori ufficiali delle Forze Armate italiane e, dal 2019, pure di Leonardo spa del gruppo Finmeccanica, abbia venduto prodotti dual use anche all’Iran. Droni militari strix – quelli, per intendersi, impiegati dai nostri militari in Afghanistan –, ceduti senza l’autorizzazione del ministero dello Sviluppo economico a un Paese sottoposto a embargo internazionale. Accusa che l’azienda respinge fermamente. Ma che ha rinfocolato un dibattito che, a Nord-Est, aveva già visto i vertici di Confindustria opporre forti resistenze rispetto al prospettato sbarco della Cina nella piattaforma logistica del porto di Trieste. Lo schema proposto dalle sorti di Alpi Aviation vale quanto un modello matematico. Fondata nel 1999 in un garage da tre giovani costruttori con la passione per il volo, l’azienda affianca in breve alla sede di San Quirino, a due passi dalla base Usaf di Aviano, una filiale in Croazia, dove concentra costruzione e assemblaggio degli aeromobili. Il salto di qualità arriva con la produzione dei droni. Cosa la renda tanto strategica per gli interessi commerciali internazionali resta materia di investigazione. Certo è che, a un certo punto, da piccola società di periferia finisce per diventare oggetto d’attenzione degli investitori. Quelli grossi e preferibilmente invisibili, schermati da shell corporation, come confermano le carte agli atti della Procura e come suggerirebbero anche i contenuti di otto dispacci diplomatici resi pubblici da WikiLeaks. È il 2009 quando Alpi Aviation finisce al centro di una fitta rete di comunicazione tra Usa, Giappone e Italia. A impensierire il Dipartimento di Stato americano sono gli “attuatori servo assistiti” prodotti dall’azienda giapponese Tonegawa-Seiko e sui quali l’Iran ha messo gli occhi per i suoi programmi di aeromobili a pilotaggio remoto. Il sospetto è che l’azienda friulana, cui risulta effettivamente esportata una parte di attuatori, i 200 Ps050, possa diventare, anche involontariamente, un ponte verso la Repubblica islamica. Da qui, la richiesta all’ambasciata di Roma di vigilare su eventuali approvvigionamenti all’Iran. La sorveglianza, tuttavia, si esaurisce in tre mesi e non porta ad alcuna evidenza. È un fatto acclarato, invece, l’anomala acquisizione che, nel 2018, sposta la maggioranza delle quote di Alpi Aviation in territorio cinese. A presentarsi ai soci è la Mars information technology co. limited di Hong Kong: registrata appena cinque mesi prima e fissata la sede in uno studio legale specializzato nella domiciliazione di società offshore, dispone di un capitale sociale di soli 150 mila dollari, peraltro sottoscritti, ma non ancora versati. Eppure, per entrare in possesso del 75 per cento della torta, mette sul piatto un controvalore 90 volte superiore di quello nominale (3.995.466 euro a fronte di 45 mila euro). L’affare va ovviamente in porto. Ed è seguito da un incremento di capitale repentino: 3,8 milioni di euro che, all’improvviso, passano da chissà dove alla provincia di Pordenone. Troppo, secondo la Procura che un paio d’anni dopo iniziano a scandagliare gli assetti di quella che, a tutti gli effetti, somiglia a una scatola vuota, per non chiedersi chi abbia in realtà finanziato l’intera operazione. La risposta sembra portare in alto: ai vertici del governo cinese, nelle stanze in cui tutto si decide, politiche economiche comprese. È sufficiente tuffarsi nel mare magnum del web e stringere poi il cerchio attorno alle dichiarazioni rese alla stampa dalla Denton, uno dei più importanti studi legali al mondo, per ritrovare il nome di Alpi Aviation e scoprire che a controllarla indirettamente è la China corporate united investment holding, a proprietà mista e co-sponsorizzata da grosse imprese centrali e locali di proprietà statale. È il suo vicepresidente Li Xia, nel novembre del 2019, ad annunciare che parte della capacità produttiva sarà trasferita a Wuxi, dove si è cominciato a costruire uno stabilimento gemello. Come dire che la clonazione è in corso e che insieme alla forza lavoro a emigrare saranno anche testa e idee. I toni sono trionfali. L’operazione è definita da Pei Qiu, senior partner di Denton, “la prima transazione del suo genere, in cui una holding cinese ha acquisito un’impresa nel settore dell’aviazione high tech in Europa”.  Il problema è che parliamo di un’azienda italiana che progetta e realizza Unmanned aerial vehicle a uso militare e di law enforcement. E cioè di un settore sottoposto a una disciplina ferrea in termini di protezione, ancora più di quanto non preveda la golden power. Le norme sul controllo dell’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento (legge 9 luglio 1990, n.185) vietano finanche la delocalizzazione. A meno che non sia lo Stato ad autorizzarli, a cominciare dalla trattativa. Se, come e quando la comunicazione sia stata inoltrata a Roma è ancora oggetto di accertamenti. Qui, a ogni buon conto, si è andati oltre, visto che brevetti e tecnologia potrebbero appartenere ormai a un altro Paese. E che, come recita il capo d’imputazione formulato dal pm Carmelo Barbaro, tra i clienti dell’azienda figurerebbe l’Iran. Dei quattro indagati, tuttavia, soltanto uno al momento – l’allora amministratore delegato italiano della società – si è visto contestare la violazione del dl 221 del 2017, art 18, norma sull’embargo e sulle esportazioni di prodotti e tecnologie a duplice uso, sia civile sia militare. Droni, appunto, che sarebbero stati ceduti attraverso un’operazione commerciale triangolata con la Turchia. L’ulteriore paradosso della vicenda comincia dagli altri tre nominativi: rappresentanti legali, chi prima e chi dopo, dell’Aecp, una onlus pordenonese, contestualmente iscritta anche come associazione sportiva dilettantistica all’Aeroclub Italia – quindi, con una doppia soggettività giuridica –, in tesi accusatoria fittiziamente operante in attività di Protezione civile. È attraverso la singolare sinergia operativa instaurata proprio con l’ente no profit che la Alpi Aviation avrebbe beneficiato per anni dell’occupazione abusiva dell’aviosuperficie “La Comina”. Un’area posta a ridosso del proprio sito produttivo, per buona parte di proprietà del Demanio militare (e assegnata alla Brigata corazzata “Ariete”) e, per la restante porzione, del Comune di Pordenone. L’azienda friulana con socio di maggioranza cinese, in altre parole, ha svolto attività aviatoria in uno spazio aereo sottoposto a limitazioni particolari, per la vicina presenza della base Usaf di Aviano, compresa nella Atz (aerodrome traffic zone) militare nazionale. Non a caso, è su questa pista che è concentrato quasi il 90 per cento dei voli militari in Italia. Ragioni (e misure) di sicurezza che, tuttavia, non sono bastate a evitare saltuari passaggi a bassa quota di arerei privati e di alianti non autorizzati. Come quello che, nel 2015, scatenò la reazione degli stessi militari americani che, alla maniera degli sceriffi, si presentarono in Comina e, pur senza titolo, identificarono piloti e addetti. Sarà poi la Difesa, nel 2016, a sospendere tutti i voli, a esclusione di quelli sanitari e di protezione civile. Uno scenario a tratti inverosimile quello ricostruito dalla Guardia di finanzia al comando del colonnello Stefano Commentucci. Tanto più se si considera che l’uomo scelto dai nuovi timonieri di Alpi Aviation per curarne gli interessi in Italia è una figura di prestigio nel campo dell’Aeronautica e non solo: l’ex comandante delle Frecce Tricolori e poi dirigente della Ferrari, Massimo Tammaro. Il suo nome, al momento, non figura sul registro degli indagati. C’è invece quello di un politico, il consigliere regionale del Fvg della Lega e già due volte sindaco di Porcia, Stefano Turchet, accusato di sola truffa, in qualità di presidente dell’aeroclub. Il cerchio si chiude a Roma, dove gli investigatori sembrano avere trovato la regia del piano di rastrellamento imprenditoriale ordito dalla Cina. È lì che ha sede la Ccui Europe srl, società di servizi aziendali costituita nel 2016 e di proprietà della Ccui holding di Hong Kong. Nella relazione del bilancio di esercizio 2017, parla espressamente dell’“individuazione di opportunità di investimento nei settori indicati dalla controllante e dai diversi soci della controllante presenti in Cina e interessati al mercato italiano”, soffermandosi sulla valutazione di tre realtà produttive: la Alpi Aviation, appunto, il gruppo Gree holding spa, che opera nel settore del trattamento rifiuti e generazione di energia da rifiuti, e il gruppo Almaviva, attivo del campo It. “Fu Lenin a dirlo: I capitalisti ci venderanno la corda con la quale li impiccheremo. Beh, quella previsione non si è realizzata con l’Unione sovietica, ma potrebbe accadere adesso con la Cina”. Michelangelo Agrusti, il leader degli industriali pordenonesi che dal 2020 presiede Confindustria Alto Adriatico, nata dalla fusione con la territoriale di Trieste e Gorizia, predica prudenza da tempo. E i suoi moniti, un paio di anni fa, hanno contribuito a raffreddare gli entusiasmi di chi, anche a livello governativo, assecondava le ambizioni di espansione cinese attraverso l’insediamento di sue aziende nel porto giuliano. L’avevano battezzata nuova Via della seta, ma è stata superata dal recente accordo con il Porto di Amburgo (che ha peraltro portato linfa nuova ai rapporti con la diplomazia Usa). “Viviamo in una fase di forte competizione geostrategica con la Cina, e cioè con un Paese che è entrato senza condizioni nel Wto ed è cresciuto in maniera esponenziale, pur mantenendo un assetto comunista e una presenza statale pervasiva, e che ha adottato politiche di dumping salariale e di concorrenza sleale con le produzioni equivalenti occidentali”, osserva Agrusti, abbondando con gli esempi, in primis il monopolio nella produzione dei semiconduttori. E allora, se l’invito a vigilare vale in condizioni di normalità, figurarsi ora che la pandemia ha generato una crisi di portata globale. “L’ho evidenziato a una riunione con i prefetti del Fvg – continua –: non c’è soltanto il rischio di infiltrazioni mafiose. Il pericolo, adesso più che mai, è che in un Paese come il nostro che ha investito pochissimo nell’alta tecnologia e in settori strategici per la Difesa, sia un soggetto internazionale come la Cina a presentarsi e risolvere i problemi di liquidità delle aziende in difficoltà. Parliamo di intere filiere pronte a sfuggirci di mano, se non si provvederà a intensificare la sorveglianza statale sui passaggi di proprietà”. Anche perché i segnali, al netto di Alpi Aviation, secondo Agrusti non mancano. Uno porta il nome e cognome di un uomo di Governo. “Fu l’allora sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, a venire a Trieste e spingere l’ipotesi di aprire l’area logistica del Porto alla Cina, dopo che si era comprata già il Pireo – ricorda –. Arrivò al punto di chiedermi se conoscessi aziende che potessero essere vendute ai cinesi. Tanto che ancora oggi mi domando se non fosse piuttosto un uomo al servizio di Pechino”. L’altro alert porta alle Regioni e alle società che hanno indetto gare al massimo ribasso per l’acquisto di Dpi che hanno permesso ai cinesi di ripresentarsi. “Ma come – obietta Agrusti –, non era stata proprio l’Italia a creare una filiera che le permettesse di diventare autosufficiente? Questo significa spalancare nuovamente le porte alla concorrenza sleale”. Come non pensar male, insomma. “Esiste una Cina connection fatta di italiani che deprimono la possibilità di tenuta del sistema – la conclusione del leader degli industriali – e l’unica cosa che possiamo fare per difenderci è creare un’autosufficienza tecnologica e sanitaria. L’independence day del mondo libero occidentale”.

Gabriele Carrer per formiche.net il 2 settembre 2021. Violazione della legge 185/1990, che disciplina l’export di armamenti, e possibili violazioni della normativa cosiddetta Golden power, che tutela le aziende strategiche italiane. Sono questi i reati contestati dalla Guardia di finanza di Pordenone all’azienda Alpi Aviation di San Quirino, eccellenza nella produzione di droni militari, aeromobili e veicoli spaziali (figura anche tra i fornitori delle Forze Armate e di Leonardo spa) che recentemente è stata rilevata attraverso una società offshore da due importanti società statuali cinesi. Le Fiamme gialle hanno denunciato sei manager (tre italiani e tre cinesi). Come raccontato a marzo su Formiche.net, l’azienda friulana è già stata oggetto di indagine della stessa Guardia di finanza di Pordenone per una presunta violazione dell’embargo internazionale nei confronti dell’Iran per una vendita di droni militari strix, quelli impiegati dai nostri militari in Afghanistan, alla Repubblica islamica.  E sempre su queste pagine avevamo raccontato di un cablo della diplomazia statunitense che nel 2009 avvertiva l’Italia di possibili triangolazioni con l’Iran da parte di Alpi Aviation: il dipartimento di Stato americano invitava l’ambasciata statunitense a Roma a chiedere alle Dogane italiane di verificare una segnalazione dell’intelligence arrivata dal Giappone; per tre mesi le autorità italiane monitorano l’azienda ma non trovano prove di traffici illeciti; agli inviti statunitensi a continuare la sorveglianza, le autorità italiane risposero spiegando la necessità di una richiesta formale. L’operazione delle Fiamme Gialle era stata originariamente avviata con accertamenti su un’aviosuperficie, ricompresa nell’area del Demanio militare, che vedeva una sinergica occupazione, in assenza di autorizzazioni, da parte di un aeroclub privato (formalmente una onlus operante in inesistenti attività di Protezione civile) e di una società industriale operante nella fabbricazione di aeromobili e di veicoli spaziali, nonché nella progettazione e produzione di sistemi U.A.V. di tipo militare e certificati per tale impiego in ossequio agli standard “stanag” NATO. Si tratterebbe dell’area “La Comina”, molto vicina alla base Usaf di Aviano che la società avrebbe utilizzato grazie alla “schermatura” garantitale dalla onlus pordenonese. Successivi approfondimenti hanno accertato che l’azienda, nel 2018, fu acquistata, per il 75 per cento, da una società estera di Hong Kong (Mars Information Tecnology Co, come spiegavamo su Formiche.net), costituita ad hoc prima dell’acquisto delle quote e autonomamente priva di risorse finanziarie. Alpi Aviation fu valutata con un valore delle quote notevolmente rivalutato rispetto a quello nominale (90 volte superiore: 3.995.000 euro contro 45.000 euro). Regista dell’operazione fu Dentons, tra gli studi legali più importanti al mondo. Nel curriculum vitae di Pei Qiu, senior partner di Dentons, figura in bella mostra la consulenza per l’acquisizione di Alpi Aviation, “la prima transazione del suo genere, in cui una holding cinese ha acquisito un’impresa nel settore dell’aviazione high tech in Europa”. L’acquirente, mediante complesse partecipazioni societarie, sarebbe riconducibile a due importanti società governative della Repubblica popolare cinese, spiegano le Fiamme gialle. Ma il subentro societario sarebbe stato perfezionato in modo da non far emergere il nuovo socio, con ritardi nelle comunicazioni amministrative e omettendo di informare preventivamente la presidenza del Consiglio dei ministri dell’acquisto della maggioranza dell’azienda, violando la normativa Golden power che attribuisce speciali poteri alle autorità italiane sugli assetti societari di realtà strategiche in vari settori. La Guardia di finanza ha spiegato che il subentro risultava “perfezionato con modalità opache tese a non farne emergere la riconducibilità del nuovo socio straniero”. Infatti l’azienda ha comunicato soltanto due anni dopo l’acquisto e su sollecito dei funzionari ministeriali, la variazione della compagine societaria al ministero della Difesa; e ha omesso di comunicare preventivamente alla presidenza del Consiglio dei Ministri l’acquisto del 75% del capitale sociale dell’azienda italiana, in violazione delle prescrizioni Golden power. L’acquisto, spiegano ancora gli investigatori, non avrebbe avuto scopi di investimento ma l’acquisizione di know-how tecnologico e militare, che ha spinto a pianificare il trasferimento della struttura produttiva nel polo tecnologico di Wuxi, città industriale di 7 milioni di abitanti nella provincia del Jiangsu e meno di 150 chilometri da Shanghai ritenuta il laboratorio dell’intelligenza artificiale cinese. Operazioni non formalizzate, secondo la Guardia di finanza, in atti societari e per le quali non era stata chiesta preventivamente l’autorizzazione ai ministeri italiani competenti. “Gli investimenti da parte di soggetti stranieri nel territorio nazionale, di per sé, presentano riflessi positivi per il sistema economico nazionale, purché siano riconducibili a vere operazioni di investimento, di tipo finanziario o di sviluppo di programmi imprenditoriali. In questo caso, l’acquisto della società pordenonese presentava diverse finalità: verteva sull’acquisizione della sua tecnologia, anche di tipo militare, e sulla sua delocalizzazione all’estero”, ha dichiarato il colonnello Stefano Commentucci, comandante della Guardia di Finanza di Pordenone. “Si tratta di condotte per le quali molti Stati, tra cui l’Italia, hanno posto limiti che derogano ai principi di concorrenza e di libertà di investimento”. Le Fiamme gialle hanno anche accertato l’esportazione per oltre un anno in Cina di un U.A.V. (aeromobile a pilotaggio remoto) militare per la Fiera internazionale dell’import a Shanghai nel 2019. L’apparecchiatura militare era stata dichiarata agli uffici doganali di esportazione non come sistema U.A.V. o drone, ma falsamente come “modello di aeroplano radiocomandato”. Era novembre del 2019, l’anno della firma tra Italia e Cina del Memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Di quella partecipazione si ritrova traccia in un articolo pubblicato sulla piattaforma classxhsilkroad.it, nata dalla partnership tra l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua e il gruppo italiano ClassEditori, viene pubblicato un articolo (sotto lo pseudonimo di Mauro Romano). “Siamo molto ottimisti sullo sviluppo della megalopoli”, spiegava l’amministratore delegato, Massimo Tammaro, ex comandante delle Frecce Tricolori e poi dirigente della Ferrari. La vicenda di Alpi Aviation aveva riacceso il dibattito nel Nord-Est sulle mire cinesi, già ben evidenti in merito alla Piattaforma logistica Trieste. “L’inchiesta della Guardia di Finanza di Pordenone ha svelato quanto pervasiva sia l’attività della Cina nel sistema economico del nostro Paese, con particolare riferimento a imprese ad alto valore tecnologico e, come si è visto, riferibili ad importanti settori del militare”, ha dichiarato Michelangelo Agrusti, presidente di Confindustria Alto Adriatico, “Resta la preoccupazione per la sorte dell’azienda in questione, ma confidiamo che, con l’aiuto del governo, essa possa ritornare in mani italiane”. E ora che cosa accadrà? Poiché la notifica non è stata effettuata nei tempi richiesti, la situazione si trova ora in campo sanzionatorio e non più autorizzativo. Il meccanismo sanzionatorio va dalla sospensione dei diritti di voto fino alla nullità degli atti (compresa la vendita della società). È anche prevista una sanzione amministrativa di importo fino al doppio del valore dell’operazione e comunque non inferiore all’1 per cento del fatturato realizzato dall’impresa interessata nell’ultimo esercizio per il quale sia stato approvato il bilancio, oltre ad una serie di misure accessorie (come il ripristino dello status quo ante). Si tratta di una situazione inedita. La decisione spetterà alla presidenza del Consiglio dei ministri con un provvedimento che sarà eventualmente impugnabile al Tar. Intanto, Alpi Aviation, che ha rapporti anche con il nostro ministero della Difesa, rimane nelle mani del governo della Repubblica popolare cinese, Paese che non rientra nel quadro delle alleanze dell’Italia. Alpi Aviation ha diffuso una nota in cui “nega con fermezza che nella condotta della società si debbano ravvisare violazioni delle norme a tutela del Golden power e alla legislazione che regolamenta il trasferimento di informazioni strategiche o di tecnologia al di fuori del territorio nazionale, si riserva ogni azione a tutela della propria immagine”. Per quanto attiene alla cessione delle quote di Alpi Aviation, “la stessa è avvenuta in modo trasparente, con riferimento al reale valore dell’azienda e nel rispetto della normativa fiscale”, si legge ancora.

Intervista al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. “Cos’è, come funziona e perché era urgente l’agenzia per la Cybersicurezza” parla Franco Gabrielli. Claudia Fusani su Il Riformista il 12 Giugno 2021. La ripartenza dell’Italia passa anche dalla nuova Agenzia per la cybersicurezza. Vorrei soprattutto che fosse chiara una cosa», dice Franco Gabrielli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio cui il premier Draghi ha affidato la delega all’intelligence, «con questo decreto noi vogliamo mettere in sicurezza le strutture esistenti e quelle che nasceranno. Per far ripartire l’Italia è necessario anche metterla in sicurezza sotto il profilo del cyber». Gabrielli ci riceve nel suo ufficio a palazzo Chigi mentre il premier Draghi è in Cornovaglia al G7 dove porta, grazie al decreto appena approvato, il messaggio che l’Italia non è un colabrodo. «L’Agenzia nazionale per la cybersicurezza – sottolinea Gabrielli – è una struttura servente, un investimento per la qualità e lo sviluppo del Paese».

Sottosegretario, cominciamo con l’abc dell’Acn. Cos’è: un nuovo ministero, una nuova superagenzia di intelligence, la cassaforte e al tempo stesso lo scudo del sistema paese Italia? Qualcuno già sta parlando di una Spectre…

L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale è prima di tutto il modo in cui questo paese si mette al passo con gli altri paesi europei. Due date e due numeri: in Germania il Bis è nato nel 1991 e ci lavorano circa un migliaio di persone. In Francia la Anssi è nata nel 2009 e conta un personale di 800 persone. La Romania sta creando un’agenzia analoga che entro il 2030 avrà oltre 1300 dipendenti.

Sta dicendo che il decreto era lo strumento necessario? Molti cittadini si chiedono se c’era proprio bisogno, in tempi di semplificazione, creare un altro mostro di competenze, funzioni, dirigenze, budget.

Questo decreto risponde certamente ai criteri di necessità e urgenza che sono il presupposto di ogni decreto. Non è assolutamente la terza agenzia di intelligence. Anzi, Acn nasce proprio da una doppia esigenza: tenere distinte le attività di intelligence, quella della Difesa e delle forze di polizia; creare un contesto cibernetico sicuro per il sistema Paese. Un contesto di resilienza rispetto alla minaccia cibernetica che è uno dei dossier più delicati per le moderne democrazie.

Sottosegretario, serve spiegarlo meglio a tutti, anche ai non nativi digitali.

Usiamo l’immagine dei furti in appartamento. Sono un problema serio e diffuso e il cittadino chiede allo Stato che vengano arrestati, meglio prima che dopo il fatto. Ora tutti sanno che la cosa più importante è che gli appartamenti abbiano buoni sistemi di allarme e che porte e finestre siano correttamente attivati. Proviamo a trasferire tutto questo nel mondo del cyber: l’Agenzia è la sala regia che verifica e monitora il perfetto funzionamento di allarmi, sensori, porte, finestre e tutto ciò che contribuisce alla resilienza dell’abitazione. Il che non interferisce con l’attività preventiva o repressiva di tutti i soggetti che si occupano di sicurezza, forze di pubblica sicurezza e anche intelligence.

Veniamo al punto politico. Che differenze ci sono tra Acn e il progetto di agenzia dell’ex premier Giuseppe Conte? Si sente già qualcuno mormorare che “in fon-do le due soluzioni sono in perfetta continuità”.

L’obiettivo primo e principale di questo mio essere qui era realizzare nel più breve tempo possibile l’Agenzia e coprire il gravissimo gap che abbiano su questo fronte. Non amo fare confronti col passato. Ciò detto, quello che vorrei fosse chiaro è che l’Agenzia cancella quello che è stato un peccato originale.

Quale?

Nel 2016 la Ue ha emanato la direttiva Nis (network and information security), il vademecum dalla sicurezza cibernetica dei paesi membri. L’Italia ha recepito tardi, ha intrapreso la scorciatoia più breve e abbiamo messo la struttura all’interno del Dis, nel cuore della nostra intelligence. Dove in questi anni ha rischiato l’asfissia creando tra l’altro tensioni e fibrillazioni nei nostri apparati che si sentivano spodestati delle loro competenze. La vicenda della Fondazione, così come era stata pensata dall’ex premier Conte, è stato il tentativo di trovare una soluzione in un contesto però innaturale. A quel punto è stata cercata una soluzione che scontava un vizio originale: inserire la cybersicurezza all’interno del comparto di intelligence.

L’Agenzia pone fine a queste forzature?

Assolutamente sì perché lo schema della Fondazione privata inserita all’interno dell’intelligence è stato cancellato e superato da un’agenzia pubblica che avrà una propria casa da cui potrà interloquire con gli altri soggetti interessati e consentirà alle agenzie di intelligence di rinnovare e aumentare la propria capacità di attacco e difesa nel mondo del cyber.

Quanto è grave la minaccia cyber per l’Italia?

Fare classifiche è la cosa più sbagliata perchè non restituiscono l’immanenza e la gravità della situazione.

Il ministro per la Transizione ecologica Vittorio Colao dice che il 93% dei server della Pubblica amministrazione non sono in sicurezza.

Appunto. La situazione è ancora peggiore perché la verità è che non siamo attrezzati culturalmente alla comprensione e alla valutazione della minaccia. In questi anni c’è stato un sistematico depauperamento della competente tecnico- informatiche all’interno del pubblico impiego. Affidiamo la nostra vita a un telefonino che ci tiene in memoria le nostre password ma non c’è percezione del rischio che questo comporta.

Cosa sarà e a cosa servirà Acn? L’unica volta che ne parlò in pubblico ha insistito molto sul concetto di “olistico” legato a questo dossier.

Acn dovrà fare anche un lavoro di coordinamento delle 23 autorità Nis sparse su tutto il territorio. Il decreto consegna all’ Agenzia il coordinamento di queste realtà che saranno raggruppate in un unico centro che salverà però le singole competenze e specificità.

Un dossier potenzialmente esplosivo questo della cybersicurezza…

Il presidente Draghi ci ha sempre fatto sentire le spalle protette, se è questo che voleva sapere.

Un esempio di come funzionerà l’Agenzia.

Poniamo che ci sia un attacco al sistema sanitario. Chi lo rileva deve comunicare entro un’ora, al massimo sei, allo Csirt italiano (Computer security incident response team). Che finora è stato al Dis e transita dentro Acn. Una volta fatta la segnalazione, entra in azione il Nucleo di sicurezza cibernetica – anche questo dal Dis passa all’Acn- che valuta l’entità dell’attacco. E così risalendo la scala gerarchica.

Comunque il Presidente del Consiglio, cioè Draghi, e l’autorità delegata, cioè lei, conservate pieni poteri sulla struttura. Corretto?

Corretto. È lo stesso meccanismo che regola l’attività delle agenzie di intelligence. È speculare a quello della legge 124.

Quanti dipendenti avrà Acn: 500 o 300? E come saranno selezionati? Dalle altre amministrazioni o dal mercato?

C’è un primo nucleo di 300 persone destinato ad aumentare. Immaginiamo che si possa arrivare al migliaio di dipendenti nell’arco del quinquennio. Questo primo blocco di 300 persone è già in servizio al Dis, al Mise, all’Agid, l’Agenzia Italia digitale che perderà la competenza che oggi ha sulla cybersecurity. Il 30% del personale potrà essere assunto con contratto a tempo determinato. L’obiettivo è avere molto turn over e formare nuove figure professionali in questo settore. L’Agenzia, col suo sistema di relazioni con il mondo accademico, può aiutare a sviluppare il settore cyber, farlo diventare strategico e darci autonomia in questo settore.

Perché si è deciso di pagarli come fossero dirigenti di Banca d’Italia?

Perché il mercato esterno ci obbliga a far sì che questo tipo di attività abbia una certa appetibilità. Per essere chiari: non possiamo scegliere mediocri. Servono eccellenze competitive sul mercato: ingegneri, informatici, esperti di settore, hacker. Ci sono più messaggi positivi in queste scelta: anche nel pubblico si può essere correttamente remunerati se si tratta di settori strategici; la qualità, e quindi la formazione, è premiante rispetto alla quantità.

L’Agenzia ci metterà al riparo dagli attacchi cyber russi e cinesi?

In questo settore va giocata la partita della crescita. Non serve, non basta più alzare muri. Il Paese deve avere autonoma capacità di sviluppo tecnologico nel cyber. A quel punto si può giocare in modo più efficace la partita anche sotto il profilo geopolitico.

Perché insieme al decreto non è stato già indicato il Direttore di Acn? Si fanno i nomi del professor Baldoni e della dottoressa Ciardi.

Prima il Parlamento dovrà convertire il decreto e portare le correzioni del caso. A quel punto verrà il tempo dei nomi.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

007, giornali e procure: così devastano l'Italia. La vendetta del Fatto contro Renzi, asse di Travaglio con Pm e servizi segreti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Novembre 2021. Il Fatto Quotidiano ha lanciato la sua ennesima campagna contro Renzi (ma perché lo odia tanto? Renzi è alla guida di un partito che non raggiunge il 3 per cento. Forse è solo un tentativo di vendetta perché Renzi è stato decisivo nel fermare il governo Conte e portare un premier come Draghi a Palazzo Chigi? Può darsi. La vendetta è nelle corde della compagnia del Fatto. Però le campagne contro Renzi sono molto più antiche. Non si sono mai fermate. Abbondantemente sostenute dalla spinta e dall’aiuto anche tecnico di diverse procure). Stavolta Renzi è accusato di avere preparato una strategia di attacco a base di fake news contro i 5 Stelle e contro il Fatto Quotidiano. Strategia ispirata da Fabrizio Rondolino, ex giornalista dell’Unità. Se però poi leggi bene gli articoli scopri che è esattamente il contrario. Renzi, si capisce dai resoconto del Fatto, non ha preso in considerazione neppure per un minuto le proposte di Rondolino e non ha mai realizzato nessuna strategia contro Il Fatto. La cosa – cioè l’attacco a Renzi, ispirato probabilmente da una Procura – è abbastanza inquietante perché coincide con altri episodi che stanno emergendo in questi giorni. Per esempio la vicenda Cesa, che coinvolge i servizi segreti. In che consiste questa vicenda? Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc, fu raggiunto da un importante 007 – del quale non conosciamo il nome – il quale gli garantì che le accuse pesantissime che gli erano state mosse qualche giorno prima da Gratteri (associazione a delinquere) e che erano evidentemente del tutto infondate, sarebbero cadute, ma che lui avrebbe dovuto comportarsi bene e non fare colpi di testa. Il colpo di testa al quale evidentemente si riferiva lo 007 era quello appena compiuto da Cesa, e cioè il voto del suo piccolo gruppo in Parlamento contro il governo Conte 2, che fu decisivo per la liquidazione di quel governo. Il nostro 007 però, probabilmente, riteneva che ci fossero ancora i margini per un Conte 3 – visto che l’operazione Draghi non era ancora nota e che l’ipotesi di elezioni anticipate terrorizzava la maggioranza dei parlamentari – e che un voto dell’Udc di Cesa sarebbe stato fondamentale. Chi era questo 007? Il Fatto Quotidiano oggi fa il nome di Marco Mancini – sospettabile, dice il Fatto, in quanto amico di Gratteri – e spiega come e perché Marco Mancini non avesse nessun interesse a salvare Conte. Vero. Però c’è un errore nella ricostruzione del Fatto: tutto lascia pensare che quello 007 non fosse affatto Mancini, anzi, fosse uno dei nemici di Mancini e che, in questo caso, Gratteri non c’entrasse proprio nulla. Provate a mettere insieme le due vicende. E anche altre vicende recenti, legate soprattutto all’attacco giornalistico-giudiziario a Matteo Renzi, del quale Il Fatto Quotidiano ha pubblicato qualche giorno fa addirittura i conti correnti, violando ogni principio costituzionale, giornalistico, civile, di buon senso. La fotografia che esce è questa. Ci sono in azione, in Italia, vere e proprie bande di soldati di ventura (magistrati, giornalisti, agenti segreti) che in accordo tra loro, o talvolta persino in disaccordo, devastano il paese e inquinano, fino a infognarla, la lotta politica. Della politica vera vera, del resto, ormai è rimasto zero. Idee, programmi, progetti, ideologia: e chi li ha visti? Da una parte (per fortuna) c’è un drappello di governanti, guidato da Mario Draghi, che tenta di tenere in piedi l’Italia, infischiandosene dei partiti; dall’altro ci sono gli avventurieri, che trovano spazio ad abbondare proprio perché la politica vera ha abbandonato il campo. Schiacciata ora dalla magistratura, ora dal populismo, ora dal taglio dei fondi e dall’impossibilità di finanziarsi, ora dalle potenze economiche. Non è una novità: tutto cominciò con Tangentopoli e poi con la lotta a Berlusconi. Il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi: un deserto di idee e il campo libero alle bande. Il Fatto nell’edizione di ieri sommerge tutti di accuse infamanti. In realtà poi si scopre che molti degli accusati non hanno fatto proprio niente di male. Annalisa Chirico, giornalista, è accusata di essersi voluta informare sui fatti prima di andare in Tv. C’è qualcosa di male? Lilli Gruber è accusata di farsi imporre gli ospiti da Renzi (ma allora, uno si chiede, come mai a Otto e mezzo gli ospiti fissi sono Travaglio e Scanzi?). Molti altri collaboratori di Renzi sono accusati di avere detto e scritto parole di fuoco contro le fake news lanciate verso di loro. E lo scandalo dov’è? Lo scandalo sta in poche righe nelle quali Fabrizio Rondolino (inascoltato) suggerisce a Renzi di rispondere ai 5 Stelle e al Fatto, copiando pari pari lo schema della propaganda dei 5 Stelle e del Fatto. La strategia del pan per focaccia. Conosco Fabrizio da una trentina d’anni (credo di averlo portato io all’Unità alla fine degli Ottanta) e lo stimo. Se davvero ha proposto a Renzi di copiare i metodi di Travaglio, ha fatto malissimo, secondo me. Ma non mi pare che sia da fucilare. La frase incriminata poi è una sola, scritta su una mail confidenziale e riservata, e magari buttata lì un po’ a caso o come voluta provocazione. Quando si parla e si scrive senza sospettare che l’Ovra o la Stasi ti stiano spiando, spesso si usano esagerazioni e stupidaggini. Rondolino probabilmente non poteva immaginare che qualche talpa in Procura (diciamo così, in modo da non prendere querele: qualche talpa in procura…) avrebbe istruito i giornali dell’estrema destra (La Verità e il Fatto) perché saltassero sulle mail private dell’ex segretario del Pd e aumentassero la loro fame di infangamento. P.S. Travaglio scrive che gli 007 Pollari e Pompa prepararono nel 2006 dei dossier contro di lui. Non è vero. I magistrati accertarono che non era vero. Marco, Marco, caschi sempre sulla fake news.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Quarta Repubblica, la bomba di Bruno Vespa su Giuseppe Conte: "Legami con i servizi segreti". Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. "Io confermo sillaba per sillaba quello che ho scritto nel libro e quella di Cesa per chi sa leggere non è una smentita". A dirlo è Bruno Vespa che, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4, torna a parlare di quanto fatto emergere nel suo ultimo libro Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando). "Io non mi sono inventato nulla - esordisce nello studio di Nicola Porro durante la puntata del 16 novembre -. Confermo quello che ho scritto, ossia che Cesa è stato avvicinato da un signore dei servizi segreti". Insomma, una sorta di intimidazione. Nel libro infatti si legge che Cesa riceve la visita "di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza". Il riferimento del giornalista è al periodo di tempo che intercorre tra la fine del Conte bis e l'arrivo di Mario Draghi. In questo lasso di tempo Giuseppe Conte avrebbe corteggiato il leader dell'Udc Lorenzo Cesa, che poteva offrire all'avvocato di Volturara Appula una dote di tre senatori con lo scopo di formare un suo terzo esecutivo. E ancora: "Ho ricostruito i colloqui in cui Conte offre a Cesa ministeri e altro, ma Cesa gli ha detto di no". Fin qui nulla di nuovo negli ambienti della politica, "ma la cosa inquietante - prosegue - è che i servizi segreti in un Paese democratico si spacchino a favore di questo o quel governo. Mi auguro non sia vero". Infine Vespa chiede che andrebbe rivisto anche l'incontro di Renzi con un altro uomo dei servizi segreti. 

Quarta Repubblica, Vittorio Sgarbi: "Gioco sporco con gli 007". Lo scandalo spazza via Giuseppe Conte: "Dimissioni subito". Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. Le rivelazioni di Bruno Vespa sulla fine del secondo governo Conte hanno scosso gli ospiti di Quarta Repubblica. È accaduto nella puntata in onda lunedì 15 novembre su Rete 4, dove il giornalista ha ribadito i legami tra il leader del Movimento 5 Stelle, prima premier, e i servizi segreti. A prendere la parola negli studi di Nicola Porro è Vittorio Sgarbi. "Il problema è Conte - esordisce -, dovrebbe dimettersi da qualsiasi ruolo per aver usato i servizi a vantaggio del suo governo". Vespa ha infatti parlato di Lorenzo Cesa, il leader dell'Udc che ha negato il suo aiuto nella formazione del terzo governo Conte. Lui - sono state le parole del giornalista - "è stato avvicinato da un signore dei servizi segreti" subito dopo aver detto "no" all'ex presidente del Consiglio. Insomma, una sorta di intimidazione su cui il critico d'arte non ci va per il sottile: "Questa notizia ci dà la misura della totale assenza di credibilità dei 5 stelle".  L'accusa che emerge dalle rivelazioni di Vespa nel suo ultimo libro Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando) è che Conte le abbia tentate tutte pur di rimanere a Palazzo Chigi. Tentativi però falliti, visto che il neo grillino è stato messo alla porta da Matteo Renzi in un ribaltone che ha portato all'arrivo di Mario Draghi. 

Antonio Polito per corriere.it il 10 novembre 2021. Ci sono vicende della politica italiana che nascono nel segno del mistero, della trama, e lì restano per sempre. Speriamo che non faccia questa fine anche la vicenda della mancata nascita del Conte ter. Ricordiamo tutti che, quando Renzi fece cadere il governo giallorosso, o giallorosa se si preferisce, si creò un fronte molto attivo per ottenere la riconferma per la terza volta, con una terza diversa maggioranza, dell’avvocato pugliese. Per riuscirci, si cercarono freneticamente voti sparsi in Parlamento, una riedizione della saga dei «Responsabili» lanciata ai suoi tempi da Berlusconi. Poi non se ne fece niente, e Mattarella chiamò Draghi. C’è ora una pagina del nuovo libro di Vespa, Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando), che apre nuovi inquietanti squarci su quei giorni convulsi. Vespa infatti racconta, sulla base di informazioni evidentemente di prima mano, che Lorenzo Cesa decise di dire no alle offerte di Conte perché questi si rifiutò di passare prima per una crisi di governo, considerata da lui invece indispensabile per giustificare il sostegno del suo gruppo. «Cinque giorni dopo, all’alba di mercoledì 21 gennaio — racconta Vespa — uomini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l’abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso». E se questa coincidenza può essere certamente casuale e giustificata solo dalle esigenze dell’inchiesta giudiziaria, più inspiegabile è la successiva: «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell’Udc ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Non sarebbe la prima volta che pezzi dei Servizi tentano di influire sulla dialettica politica e parlamentare. Ma sarebbe interessante sapere, almeno, chi. 

Il retroscena sulla (mancata) nascita del Conte Ter. “Comportati con saggezza, l’indagine si risolve”, la visita dello 007 a Cesa: la spy story dietro la trattativa per il Conte Ter. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Le “barbe finte”, agenti dei servizi segreti, hanno avuto un ruolo nel tentativo di far nascere il governo Conte Ter? La bomba la sgancia Bruno Vespa nel suo libro “Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando)” in riferimento alle trattative, in quei giorni concitati, per portare un gruppo di ‘Responsabili’ nelle file della maggioranza e sostituire così i renziani di Italia Viva, decisi a far sloggiare da Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Al centro di questa sorta di spy story all’italiana c’è Lorenzo Cesa, il segretario dell’Udc che alla fine si sfilò dicendo no all’offerta di Conte e del PD-M5S all’ingresso nella maggioranza come stampella del governo. Una scelta, ricostruire Vespa, arrivata per il rifiuto dell’ex presidente del Consiglio di passare prima per una formale crisi di governo, considerata invece dal leader dei centristi indispensabile per giustificare il sostegno del suo gruppo parlamentare. È nel mezzo di queste trattative politiche, scrive Vespa, che arriva l’intervento della magistratura. “Cinque giorni dopo, all’alba di mercoledì 21 gennaio — racconta Vespa, riportato dal Corriere della Sera — uomini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l’abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso”. Ed è qui che Vespa racconta del presunto intervento dei servizi. Il giornalista scrive infatti che subito dopo la perquisizione nella casa romana del segretario dell’UDC, Cesa ricevette la visita “di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza”. La domanda è ovvia: ammesso che quanto scritto da Vespa corrisponda al vero, chi si è mosso per far recapitare a Cesa l’avvertimento sulle future mosse politiche da fare? Già lo scorso mese dall’entourage di Cesa veniva raccontato a questo giornale, in un articolo di Aldo Torchiaro, una “insostenibile pressione”, in quei giorni di fine gennaio. “Apparati dello Stato e perfino del Vaticano” avrebbero sollecitato con insistenza una conclusione della crisi che portasse alla riconferma di Giuseppe Conte e impedito alla crisi di aprire la prospettiva che portò poi invece alla formazione del governo Draghi.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Le minacce degli 007 per convincere i riottosi ad appoggiare Giuseppi. Paolo Bracalini l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. L'avvertimento a Cesa: "Comportati bene". La "passione" dell'ex premier per i Servizi. Un pezzetto alla volta iniziano ad emergere particolari interessanti su quel periodo oscuro tra la fine del Conte Bis e l'investitura di Draghi. Tre settimane scarse in cui l'ex premier Conte avviò una campagna con pochi scrupoli e con molti mezzi (alcuni alla luce del sole, altri meno) per arruolare truppe di parlamentari e cercare di dare vita ad un terzo governo con la vecchia maggioranza più la «quarta gamba». Un'operazione sostenuta politicamente dal Pd, grande sponsor del Conte ter prima di scoprirsi fedele a Draghi, da gruppi di peones interessati a incassare poltrone, ma a quanto pare anche da apparati più nascosti. L'episodio che rivela Bruno Vespa nel suo libro Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando) è inquietante e ha al centro un protagonista di quei giorni, il corteggiatissimo (da Conte) leader dell'Udc Lorenzo Cesa, che poteva offrire all'avvocato di Volturara Appula una dote di tre senatori, numeri succulenti in quei giorni di spasmodica caccia ai voti in Parlamento. Cesa non accettò le offerte di Conte, e pochi giorni dopo ricevette la visita degli uomini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che «per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l'abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso». Una coincidenza temporale, certo. Tuttavia un secondo episodio getta una luce molto ambigua sulla vicenda. Subito dopo la perquisizione dell'abitazione, Cesa riceve infatti la visita «di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Una frase che, in quel frangente politico molto delicato, suona come un avvertimento. Di chi si trattava? E per conto di chi recapitava quel messaggio? Misteri. Certo è che del dossier servizi segreti Conte si era sempre molto interessato, al punto da tenere a lungo per sè la delega sugli 007. Ma già molto prima, nel 2018, Conte aveva nominato un suo uomo di fiducia come Gennaro Vecchione a capo del Dis (Dipartimento delle informazioni per la Sicurezza) mentre come Sottosegretario di Stato con delega ai servizi di intelligence Pietro Benassi, cioè il suo ex consigliere diplomatico a Palazzo Chigi. È significativa non solo la consuetudine con i due uomini indicati da Conte ai vertici dei Servizi, ma anche la tempistica della nomina di Benassi: il 21 gennaio 2021. Il giorno successivo Conte completa i nuovi vertici dei Servizi segreti nominando tre vicedirettori all'Aise (servizi segreti estero) e Aisi. Il tutto, quindi, solo una settimana dopo che Renzi aveva ritirato i suoi ministri aprendo la crisi di governo, e dando quindi il via alle manovre di Conte per arrivare ad un ter. Utilizzando anche gli apparati segreti dello Stato? È un'ipotesi che è circolata spesso, e che ora si rafforza con l'episodio riguardante Cesa (che, interpellato dal Giornale, preferisce non commentare). Gli uomini dell'Udc, sentiti da Riformista, hanno raccontato di una «insostenibile pressione» in quei giorni per entrare nel Conte ter, un'operazione condotta non solo da Palazzo Chigi ma addirittura da «apparati dello Stato e perfino del Vaticano». Il direttore della Stampa, Massimo Giannini, scrisse che nella ricerca dei responsabili erano coinvolti «noti legali vicini al premier, presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, generali della Guardia di Finanza, amici del capo dei servizi segreti Vecchione» e alte gerarchie ecclesiastiche. Una ricostruzione allora smentita da Palazzo Chigi, ovviamente. Non tutti però nel M5s remavano in quella direzione. Nel sui libro l'ex sottosegretario Spadafora, molto vicino a Di Maio, racconta che fu Fico a mettere in contatto Grillo e Draghi. Un passaggio decisivo per portare alla nascita dell'attuale maggioranza e seppellire le ambizioni di Conte per un terzo mandato. Anche le guerre intestine dentro il M5s, pro e contro Conte, sono un mistero da servizi segreti. Paolo Bracalini

Claudio Antonelli per "la Verità" l'11 novembre 2021. Il libro di Bruno Vespa (Perché Mussolini rovinò l'Italia e come Draghi la sta risanando) fa emergere un altro fantasma del Conte ter e del probabile uso dei servizi e delle agenzie di intelligence per stringere nuove alleanze dentro e fuori il Parlamento. A sottolineare la paginetta è un articolo di Antonio Polito pubblicato, o meglio imboscato, dal Corriere della Sera. Nelle poche righe si racconta la vicenda giudiziaria di Lorenzo Cesa, già deputato ed europarlamentare dell'Udc. Il centrista decise di dire no alle offerte di Conte, motivando il diniego in un modo molto semplice. Niente supporto, senza prima aprire una crisi di governo. «Cinque giorni dopo», si legge nel testo, «uomini della Dda di Catanzaro coordinati dal procuratore Nicola Gratteri perquisiscono l'abitazione romana di Cesa contestando l'accusa di associazione per delinquere». Fatto fin qui pubblico e avvenuto il 21 gennaio. Fatto di cui lo stesso Gratteri parla in almeno due interviste, spiegando che le tempistiche sono state dettate da esigenze investigative e che comunque lo stesso Cesa aveva già pubblicamente fatto sapere di non voler sostenere un eventuale Conte ter. Come dire, nessuna interferenza politica. Il fatto nuovo è però riportato poche righe sotto. «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell'Udc riceve la visita di un agente dei servizi che conosceva da tempo che gli avrebbe detto più o meno: non preoccuparti, questa cosa si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». L'articoletto esplosivo ieri non ha suscitato reazioni. Cesa non ha replicato. Silenzio anche da parte di Conte. Eppure il direttore della Stampa, Massimo Giannini, aveva dedicato a metà gennaio un dettagliato articolo di accusa contro l'allora premier. Si descriveva un probabile utilizzo di alcuni generali della Gdf e di rappresentanti delle agenzie di intelligence per perorare la causa del terzo mandato. Palazzo Chigi smentì seccamente. Negando qualunque tipo di fondatezza. Giannini incassò facendo capire che sapeva altre cose e poi il mese successivo, il 13 per la precisione, a ricevere la campanella di Palazzo Chigi è ufficialmente Mario Draghi. Segue la nomina di Franco Gabrielli a sottosegretario con delega all'intelligence e a metà maggio il cambio di passo drastico al vertice del Dis, dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Gennaro Vecchione, uomo di fiducia di Conte, viene sostituito da Elisabetta Belloni. Con il trascorrere dei mesi da diverse inchieste giudiziarie o giornalistiche emergono pezzetti di notizie che ogni volta riportano a quell'editoriale di Giannini. Uomini vicini a Conte e Vecchione spuntano con costanza. Nell'inchiesta sulle presunte influenze di Luca Di Donna, ex partner di studio di Conte, è emerso il nome dell'allora capo di gabinetto dell'Aise, il generale Enrico Tedeschi. Presente insieme a un suo sottoposto a un incontro con un broker di mascherine cinesi. In un'altra inchiesta che riguarda Mario Benotti , mascherine cinesi e i rapporti con l'ex commissario Domenico Arcuri, è lo stesso Benotti a evocare i servizi quando afferma di avere avuto alert su possibili inchieste. La pax draghiana che ha sistemato con molta moral suasion anche la tensione che si era creata tra Lega e Fratelli d'Italia all'interno del Copasir ha avuto un effetto diretto anche su un'altra figura storica del Dis. Marco Mancini, celebre ai tempi di Pollari, è stato accompagnato alla porta dal neo direttore Belloni all'indomani di una inchiesta di Report che ha svelato un incontro tra lo 007 e il senatore Matteo Renzi. Un elemento che porta a unire i puntini e spiega quanto sia stata importante la delega ai servizi per l'intera durata del governo Conte e quanto impegno abbia messo Renzi nel far cadere l'esponente grillino. La notizia di Cesa non smentita è l'ultimo tassello. Almeno per ora. Per dire come il comparto sia con le orecchie alzate. Le fibrillazioni ieri sono derivate da un articolo pubblicato da Dagospia. Il sito ha riportato un comma finito in Gazzetta lo scorso 5 novembre lasciando intendere l'intenzione di Gabrielli di anticipare i pensionamenti per introdurre nuove leve. La notizia non appare fondata. Ma serve a misurare il polso. Comprensibile, quindi, che il governo Draghi voglia intervenire in modo selettivo con il bisturi, così come il nuovo presidente del Copasir abbia spiegato alla Verità in una intervista che il comitato si occupa di governo e di agenzie, non dei parlamentari. Sarebbe però interessante fare luce su quanto fatto da Conte per prorogare e nominare dirigenti. Lo stesso Mancini è stato in predicato di diventare vice di Vecchione. Bisognerebbe anche fare chiarezza su tutte le scelte attuate in contrasto con la legge statutaria del comparto. A chi tocca? Forse al Parlamento. Più che al Copasir. Per i motivi scritti sopra scritti. L'altroieri è stato audito dal Comitato il direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli, su temi come Etiopia, sicurezza energetica e difesa europea. Sul tavolo sono finite anche domande sulle trasferte retribuite di Renzi all'estero. Tema non certo di competenza dell'Aise. Risultato? I giornali ci hanno titolato. Ma così il tema finisce nel nulla. Per questo e pure per i fantasmi del Conte ter sarebbe opportuno che il Parlamento dicesse la sua e chiedesse a chi di dovere.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 12 novembre 2021. Tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio di sabato 16 gennaio il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa ebbe alcuni contatti politici del livello più alto in cui gli fu chiesto, senza girarci intorno, l’appoggio dei senatori Udc a Giuseppe Conte in una chiave di «responsabilità nazionale» nel voto di fiducia che si sarebbe dovuto tenere a Palazzo Madama il martedì mattina successivo, 19 gennaio. La risposta di Cesa fu aperta, ma non su un punto: per aprire un dialogo con i centristi occorreva passare da una crisi formale di governo. Proprio in quella giornata stava nascendo in Senato il gruppo Maie-Italia23, concepito per accogliere i sostenitori di Conte. La risposta di Cesa non piacque a chi in quei giorni faceva pressioni per un Conte ter. E furono tanti. Cinque giorni dopo, all’alba di mercoledì 21 gennaio, agenti della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l’abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso. Una coincidenza, naturalmente, ma adesso Bruno Vespa ne racconta un’altra nel suo nuovo libro: «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell’Udc ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Vespa non ne rivela il nome, e Cesa si è chiuso nel silenzio. A La Stampa risulta che abbia parlato di nuovo ieri l’altro con il giornalista, e non abbia fatto nessuna smentita. Una fonte importante tra i centristi riferisce non di un incontro, ma di un altro tipo di contatti, con qualcuno dei servizi, fatto sta che il racconto è confermato. È solo l’ultimo tassello di una connessione di interessi e poteri trasversali che si mossero in quelle ore, soprattutto attorno ai democristiani, che però si riveleranno più ostici del previsto. Una fonte centrista che ha la massima conoscenza della storia ci racconta: «Cesa riceveva una telefonata al minuto, in quelle ore. Politiche, istituzionali, e anche da uomini del Vaticano». Chiarisce: «Molte erano pressioni vere e proprie. Dal Vaticano non pressioni, ma alcuni uomini del Vaticano ci esponevano la forte preoccupazione di una crisi al buio, in un momento così drammatico per l’Italia». Su La Stampa il direttore Massimo Giannini, in un editoriale del 17 gennaio che ora riceve nuove conferme, aveva scritto «di senatori contattati da noti legali vicini al premier, da presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicini al cardinal Bassetti e alti prelati vicini alla Comunità di Sant’Egidio». Palazzo Chigi fece una smentita rituale. Alcuni testimoni diretti riferiscono anche di un attivismo di avvocati provenienti dallo studio Alpa. Sicuramente Andrea Benvenuti, diventato poi segretario di Conte. Un’altra fonte dice anche di telefonate da parte dell’avvocato senior dello studio, Luca Di Donna, circostanza che però altri negano. Come che sia su questo ultimo punto, proprio un’inchiesta su Di Donna (per un presunto traffico d’influenze in un’altra vicenda, riguardante gli appalti delle mascherine cinesi nella prima fase della pandemia) ha fatto emergere – scrisse La Stampa – che ricevendo un imprenditore, Di Donna si fece trovare «presso lo studio Alpa» con il capo di gabinetto dell'Aise (i servizi segreti esteri) Enrico Tedeschi. Una nostra fonte racconta come a quell’incontro fosse presente anche un altro alto ufficiale, che l’imprenditore fa però fatica a inquadrare. Sui servizi Conte è sempre stato assai criticato. Aveva tenuto il controllo per sé, accentrando tutto nella relazione personale con il generale della Guardia di Finanza Gennaro Vecchione, capo del Dis. Solo alla fine il leader M5S cedette all’ambasciatore Piero Benassi la delega di controllo. Il quale fu convocato con insistenza dal Copasir, nell’ultima settimana di Conte a Palazzo Chigi, ma la fine del governo fece cadere quella richiesta di capire alcuni passaggi cruciali. Mario Draghi tra i primi suoi atti ha nominato Franco Gabrielli autorità delegata all’intelligence, e Elisabetta Belloni al Dis, chiari segnali anche simbolici di fine di quella stagione. Ora il Copasir ha intenzione di sentire Cesa, per capire bene cosa sia accaduto in quei giorni.

La spy story dietro l'operazione (fallita) dei responsabili. Conte ter, così i servizi segreti provarono a salvare il governo dell’avvocato del popolo. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Il Conte Ter doveva nascere per forza. E la maggioranza che non c’era, si doveva trovare a tutti i costi. Tanto che sembra averci lavorato un pezzo del vertice di quei servizi segreti che con Conte erano diventati un’appendice di Palazzo Chigi. Dal libro di Bruno Vespa appena presentato (Perché Mussolini rovinò l’Italia e come Draghi la sta risanando) si assume una confidenza che l’autore non può che aver ricevuto dal protagonista di questa storia: Lorenzo Cesa. Il segretario Udc sarebbe stato al centro di pressioni fortissime, nei giorni in cui si cercava la maggioranza raccogliticcia (I “Responsabili”) per il Conte Ter. Cesa nicchiò e infine negò di dare l’appoggio della formazione centrista a Conte. Per pura coincidenza, tre giorni dopo il voto al Senato – era il 21 gennaio – ricevette in casa una perquisizione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, per ordine del procuratore Nicola Gratteri. Gli contestarono il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso. Anche nell’intervista recentemente fatta con il Riformista, Cesa fa riferimento alla singolare combinazione, nelle stesse giornate, di decisioni politiche e inchieste roboanti. Che nulla avevano di fondato: il leader Udc è stato prosciolto da tutte le accuse, anzi ha visto la sua posizione stralciata dall’inchiesta ancora nella fase preliminare. Come gli era stato pronosticato da uno 007 che lo ha raggiunto a casa, in quelle ore concitate. Con Conte appeso a un filo, Mattarella aveva evidentemente già iniziato a comporre il numero di telefono di Mario Draghi per sondarlo. Ma c’è ancora un margine per ripescare Conte, che fino all’ultimo si illude. Briga. Fa chiamare. È a quel punto che accade l’incredibile: «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell’Udc ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza», scrive Vespa nel libro. Chi decide di parlare oggi lo fa anche perché le partite aperte allora, sono oggi chiuse. Il generale Vecchione non dimora più a capo dei servizi, allontanato il 14 maggio da Mario Draghi. Legato a Conte da una solida amicizia, è stato al suo fianco dall’inizio del Conte I alla fine del Conte II. E l’ombra dei servizi la ritroviamo in più punti della cronistoria del Conte II. Si parlò insistentemente di uomini dell’intelligence che facevano pressioni per Conte, qualcuno anche transitando per le segrete stanze dello studio Di Donna-Alpa-Conte. Ed era in quello studio che – ancora indietro, nella primavera 2020 – l’avvocato Luca Di Donna, sotto le insegne del collega di studio più anziano, Giuseppe Conte, riceveva i clienti insieme con il capo di gabinetto dell’Aise, i servizi di controspionaggio, Enrico Tedeschi. E con un secondo generale, verosimilmente membro dell’intelligence, che il teste Giovanni Buini fatica a identificare. E d’altronde solo Cesa può fare il nome dell’importante dirigente dei servizi che lo andò a trovare, e tutto ieri Cesa è rimasto blindato: “non conferma e non smentisce”, ci fa sapere il suo portavoce Salvo Ingargiula che però si lascia sfuggire: «Di queste cose parla nelle sedi istituzionali, al Copasir». Parlerà al Copasir? La voce dal sen fuggita può trovare riscontro solo nell’agenda del Comitato parlamentare per la sicurezza. Le cordate degli 007 sono note, le poltrone che contano pure. Draghi ha imposto un cambio della guardia che però ha inciso fino a metà. «Chi comanda sempre è il giro di quelli che chiamiamo istituzionali, da Franco Gabrielli a Luciano Carta», ci dice una gola profonda dei servizi. Se solo Cesa può dire chi lo era andato a trovare e da chi era stato spinto, quel che si può escludere a una prima analisi è che fosse un uomo dell’Aise. E il campo si restringe all’Aisi, al cui vertice siede Mario Parente, generale dei Carabinieri la cui ascesa si lega a indicazioni di matrice dem. «Marco Mancini stava dall’altra parte», suggerisce la nostra fonte. A una attenta lettura l’evoluzione dei fatti – per come la concatena Vespa – tende a far pensare a una manovra ordita da chi è più vicino a Gratteri. E chi è più vicino a Gratteri si chiama Marco Mancini. «E non dovete farvi trarre in inganno: Mancini non era affatto tra gli uomini ai quali Giuseppe Conte avrebbe potuto rivolgersi», ci ricorda la nostra fonte. Il contestato scoop di Report, realizzato in circostanze mai del tutto chiarite, ha reso noto l’incontro di Mancini con Matteo Renzi. La cordata opposta, dunque. Di pressioni fortissime in quei giorni di fine gennaio se ne vedevano ovunque, e i discorsi di Conte a Camera e Senato erano infarciti di blandimenti sperticati. “Amici democratici cristiani”, si era lanciato Conte: ed ecco che Cesa viene messo sui carboni ardenti. Poi si era appellato ad “un uomo di cultura come il socialista Nencini”. Anch’egli protagonista di un giallo; Renzi gli raccomanda di votare contro la fiducia (Italia Viva e Psi integrano lo stesso gruppo) ma lui, appartatosi a palazzo Madama con Giuseppe Conte fino alle 22 della sera del 19 gennaio, ne uscirà con una carica insperata, correndo in aula per votarlo. Secondo una indiscrezione, un accordo su una posizione istituzionale di primo piano nel nascituro governo. Poi però i piani andarono diversamente. Arrivò Mario Draghi e con lui l’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica venne affidata nelle mani di Franco Gabrielli, ed Elisabetta Belloni venne incaricata di guidare il Dis dopo l’uscita di Vecchione. Da allora non si hanno più notizie di agenti segreti che girano di casa in casa a suggerire ai parlamentari come devono votare.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Report e la tragicommedia del giornalismo complottista in prima serata. Mario Lavia il 4/5/2021 su L'Inkiesta. Un parlamentare della Repubblica italiana è spiato. Si chiama Matteo Renzi, senatore di Italia viva. Forse ce ne sono altri ma ne basta uno per chiedersi se nel 2021 l’Italia è la solita Repubblica delle banane nella quale intrighi, spionaggi, dossier, servizi segreti eccetera eccetera la fanno ancora da padrone come nei decenni passati. Roba lontana, i servizi deviati, politici felloni, giornalisti equivoci. Siamo sempre qua, e già. Il giornalismo rischia di diventare “giornalismo” con le virgolette alla caccia di Watergate alle vongole con Sigfrido Ranucci al posto di Robert Redford – la storia che si ripete come farsa – che nel film faceva Bob Woodward. Non sappiamo nulla dei giri di Renzi e delle sue iniziative. Non è questo l’oggetto dell’articolo che state leggendo. Anzi, lasciamo proprio stare Renzi. Facciamo finta che a cadere nella rete di Report (allestita con soldi pubblici) sia un deputato di Fratelli d’Italia: ma è normale che il servizio pubblico metta insieme un presunto scoop nel quale si immortala il parlamentare mentre parla con una persona, peraltro un funzionario dello Stato definito 007 per fare colore,  rappresentando il tutto come un film americano con tanto di “testimone” lì per caso, con la voce artefatta (fa sempre effetto, evoca schifezze) che dice ho visto un personaggio “losco” – perché poi? – e racconta che dopo è arrivato il parlamentare e i due parlavano fitto fitto e allora ha pensato bene di filmare tutto con il cellulare inviando poi i video a – toh! – la trasmissione di Ranucci? Ma che combinazione! Il tutto infarcito di roba incomprensibile ai più volando pindaricamente dai soldi del Vaticano a Abu Omar alle nomine dei vertici dei servizi. Giornalisticamente inguardabile. È chiaro che il parlamentare Renzi è stato seguito. Perché? Da chi? Report (con i soldi del contribuente) va alla caccia di cosa, esattamente? Non è un affare loro ma trattandosi di un senatore della Repubblica è una cosa che riguarda tutti: estremizzando, riguarda la democrazia. E già, perché il teorema concerne la crisi di governo e la caduta di Giuseppe Conte, insomma il complotto (nessuna allusione qui alla teoria bettiniana della presunta convergenza di interessi, mai ben chiarita, alla base del cambio Conte-Draghi), e il ruolo di Renzi nella vicenda. Niente di meglio che un incontro segreto alle porte di Roma fra Renzi e Mancini (dopo – si sottolinea – che il leader di Italia Viva era andato a trovare in carcere Denis Verdini, che in questi retroscena è come il cacio sui maccheroni, anche se sfugge il nesso con lo scoop dal benzinaio). Il “testimone” filma, fotografa e manda tutto alla squadra di Ranucci. Era lì per caso. E gli asini volano. Vedremo. Vedrà, se è il caso, la magistratura. Restano le domande su dove stiamo andando in questo Paese con misteri e sottomisteri: dagli “scoop” di Report, ai corvi della magistratura, dalle trattative vere o presunte fra la Rai e Fedez, in questi giorni c’è un puzzo di malapolitica e di cattivo giornalismo, una disfida di pezzi di Stato contro altri pezzi di Stato, un’aria torbida che ammorba un’Italia già flagellata da problemi giganteschi mentre si tenta di imboccare vie nuove per rimetterla in piedi. Politica, magistratura, Rai, sempre i soliti racconti scritti male, sempre i vecchi rumori di sciabole nel retrobottega di questa osteria politico-giornalistica che sforna roba avariata non appena si cerchi di ripulire l’aria. 

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 4 maggio 2021. Un video girato con il cellulare, attraverso il finestrino, da un'automobilista ferma all' autogrill di Fiano Romano, sull' autostrada che da Roma porta a Firenze. È il pomeriggio del 23 dicembre 2020 e per Matteo Renzi è stata una giornata impegnativa. Al mattino in tv su La7, a ribadire le accuse a Giuseppe Conte, che vuole tenersi la delega ai servizi segreti, uno dei motivi di scontro che porteranno alla crisi di governo. Poi in visita al carcere di Rebibbia, dall' amico Denis Verdini, all' epoca lì detenuto. Quindi sale in macchina diretto a Firenze, ma si ferma, appunto, a Fiano Romano. Dove viene filmato in compagnia di Marco Mancini, un agente segreto, dirigente del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza). Non uno qualunque: già capo della Divisione controspionaggio nel Sismi, alla ribalta nel 2005 con la liberazione in Iraq della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, poi coinvolto nel sequestro a Milano dell'imam Abu Omar, ad opera della Cia. Pare che, da diversi anni, intrattenga rapporti costanti con Renzi. La testimone oculare dell'incontro, un'insegnante, riconosce l'ex premier e cattura le immagini, poi le gira a Report, che confeziona l’inchiesta andata in onda ieri sera su Rai3. All' interno c' è un'intervista a Renzi, il quale sostiene che quel giorno avrebbe dovuto incontrare Mancini nel suo ufficio al Senato, «doveva portarmi i "babbi", che mangio con grande voracità». Si tratta di wafer ricoperti di cioccolato, tipici della Romagna (Mancini è romagnolo), di cui ogni anno lo 007 omaggia l'ex premier. Renzi racconta di essersi dimenticato l'appuntamento con Mancini e di avergli così chiesto di raggiungerlo all' autogrill. Circostanza smentita dalla testimone, che racconta invece di aver visto prima Mancini, da solo e in attesa. In ogni caso, all' arrivo del leader di Italia Viva, si appartano a parlare per circa 40 minuti: di cosa non è chiaro, Renzi a Report smentisce che l'oggetto della discussione fossero le nomine ai vertici dei nostri servizi. Quelle di dicembre, dalle quali Mancini era rimasto fuori, e quelle di gennaio, quando evidentemente vuole rifarsi, puntando alla poltrona di vicedirettore del Dis. Cerca una sponsorizzazione? Renzi si è mosso per spingere il suo nome? «Mancini aveva un ottimo rapporto con Conte, chiedete a lui», è la risposta. Ma Conte non nomina Mancini e, da quel momento, il rapporto non è più così ottimo. Quindi l'idea che Renzi apra le crisi e faccia cadere il governo non deve dispiacere allo 007. Succede giusto due settimane dopo. «Il governo Conte non è caduto per intrighi, complotti o incontri segreti (all' autogrill). Semplicemente Draghi è meglio di Conte e l'Italia oggi è più credibile», scrive Renzi su Facebook. Draghi a cui ora, tra l'altro, toccano altre nomine nei nostri servizi e questa visibilità mediatica certo non aiuta Mancini. Tanto che fonti della nostra intelligence ipotizzano che il video in questione sia in realtà parte di una guerra intestina tra 007, in cui si cerca di screditare gli avversari per fare carriera. Lo stesso Renzi suggerisce che il filmato non sia arrivato a Report per caso, ma che «qualcuno ha seguito me o Mancini». E adombra anche sospetti sui giornalisti guidati da Sigfrido Ranucci, anticipando l'interrogazione parlamentare presentata da uno dei deputati a lui più vicini, Luciano Nobili, in cui si chiede conto di una presunta fattura da 45mila euro pagata dalla Rai a una società lussemburghese. Soldi destinati a una fonte della trasmissione di Rai3, per una puntata su Alitalia, utile a costruire notizie false per attaccare Renzi. Dalla redazione di Report smentiscono con forza e parlano di un dossier falso, costruito per delegittimare. E anche la stessa società di Lussemburgo nega di aver ricevuto un simile pagamento dalla Rai.

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 4 maggio 2021. Quelli di Report ci sono abituati, ma Sigfrido Ranucci non nasconde l'irritazione. «Solo fango, tutte accuse false, adiremo le vie legali, se qualcuno avrà il coraggio di rinunciare allo schermo della tutela parlamentare», dice mentre rilegge il testo dell'interrogazione presentata alla Camera da Italia Viva. «Mai pagato una fonte in 25 anni di storia. Paghiamo solo gli autori, che sostengono tutte le spese per realizzare le inchieste: siamo una casa di vetro, massima trasparenza».

Allora i renziani da dove le hanno prese queste informazioni?

«Da tempo gira questo dossier falso, già mandato alle redazioni di alcuni giornali, costruito per delegittimarci. Nemmeno si spiega quale struttura della Rai avrebbe pagato questa fantomatica fattura. Ma sapete quanto è costata in tutto l'inchiesta su Alitalia e Piaggio, a cui si fa riferimento nell' interrogazione? Tra i 30 e i 35mila euro. E andiamo a spenderne 45mila per avere notizie false da usare contro Renzi: assurdo, una follia».

C' è anche un accenno a uno scambio di mail tra te e Rocco Casalino, all' epoca portavoce del premier Conte.

«Mai avvenuto, lo stesso Casalino smentisce. Le inchieste le facciamo vedere solo al nostro direttore, figuriamoci se mi confronto con Casalino. Poi per le mie comunicazioni non ho mai usato la carta intestata di Report, quelle mail sono un falso evidente».

Chi e perché vuole delegittimarvi?

«Mi limito a evidenziare una coincidenza temporale. Noi abbiamo saputo dell'esistenza di questo dossier da quando abbiamo cominciato a occuparci degli investimenti della Segreteria di Stato vaticana, gestiti dal cardinal Angelo Becciu. La sua donna di fiducia, Cecilia Marogna, ci parla anche di un tentativo di infangare l'ex direttore dell'Aise, il generale Luciano Carta, orchestrato proprio da Marco Mancini. Guarda caso l'uomo al centro di quest' ultima inchiesta di Report. Come abbiamo diffuso l'anticipazione, è rispuntato questo dossier avvelenato, stavolta in Parlamento. Tra l'altro, a fare questa interrogazione sono gli stessi che ieri invocavano la libertà di espressione sul caso Fedez».

Mancini e Renzi all' autogrill, il 23 dicembre, a scambiarsi i "babbi" di cioccolato. E poi?

«Questa storia dei wafer romagnoli è la spiegazione di Renzi. A noi non risulta ci sia stato uno scambio di cioccolatini, ma che i due abbiano parlato per una quarantina di minuti».

Cosa si sono detti in quel colloquio resta però un mistero. «Possiamo fare ipotesi. Sappiamo, ad esempio, che Mancini vanta ottimi rapporti con il Medio Oriente, dove Renzi va spesso e ha vari interessi. Sappiamo anche che Mancini da tempo smania per una promozione a vicedirettore del Dis: a dicembre all' ultimo non era stato nominato, non sappiamo se per scelta diretta di Conte. È probabile che, in vista di una nuova tornata di nomine, attesa a gennaio, cercasse una sponsorizzazione. A precisa domanda se lui abbia suggerito il nome di Mancini, Renzi ha glissato. L' altra domanda è che cosa possa aver chiesto in cambio all' agente dei servizi».

Già, che cosa?

«Gli incontri tra politici e 007 sono sempre avvenuti, ma non sempre sono lastricati da buone intenzioni o da "babbi" di cioccolato. In questo momento stanno spuntando tanti dossier su magistrati, politici o imprenditori, è il caso di fare una riflessione sulla trasparenza del potere. Credo che il Copasir dovrebbe interrogarsi sul perché di questo incontro segreto. E poi Renzi, quando siamo andati a intervistarlo, era preparato, già sapeva dell'esistenza del video del suo incontro con Mancini. Chi lo aveva informato?».

DAGONEWS il 5 maggio 2021. Perché Report ha tirato fuori il video dell’incontro tra Matteo Renzi e Marco Mancini soltanto adesso? Il faccia faccia tra l’ex premier e lo 007 è avvenuto il 23 dicembre, cioè più di 4 mesi fa. Eppure la Rai(tre) targata Pd-M5s ha deciso di spiattellarlo adesso. L’obiettivo non è tanto azzoppare le ambizioni di carriera di Mancini (già segato), quanto piuttosto quello di gettare nuovo fango, e nuove ombre, sul senatore semplice di Rignano, reo di aver azzoppato il Conte-Casalino. Fateci caso: i grillini hanno presentato un’interrogazione, la Meloni ha invocato il Copasir mentre dal Nazareno e da Leu è risuonato un rumorosissimo silenzio. L’unico a intervenire in difesa di Renzi è stato il suo omonimo Salvini: “Io di esponenti dei servizi ne ho incontrati a decine, non sull'autogrill, ma per parlare di immigrazione, sicurezza. Mi sembra assolutamente normale, poi uno può incontrarli in un autogrill o nel suo ufficio, non mi sembra niente di particolare. La polemica è inesistente". L’intervento del “Capitone” non è un caso: i due Mattei in questa fase sono uniti da un obiettivo e da un comune interesse al centro dello spazio politico. Renzi vuole fare il pivot di una alleanza con Forza Italia-Calenda-Radicali e Toti. È la stessa area a cui guarda Salvini per lasciare la Meloni a strepitare a destra, ripulire l’immagine della Lega e dare risposta alla base pragmatica del nord-est, che è stufa delle sfuriate ed è al contrario entusiasta dell’inversione a EU dell’ex truce. Del resto, nel nuovo contenitore finirebbero due suoi alleati: ciò che resta del partito di Berlusconi e Ciccio-Toti.

Francesco Grignetti per "la Stampa" il 5 maggio 2021. Bando ai moralismi, l'ormai famoso «incontro dell'autogrill» non scandalizza Matteo Salvini. «Io - dice il capo leghista - di esponenti dei Servizi ne ho incontrati a decine. Mi sembra assolutamente normale. Poi uno può incontrarli in Autogrill, al monastero, a via del Corso o nel suo ufficio. Non mi sembra nulla di particolare». Ecco, se un ex presidente del Consiglio sente l'esigenza di incontrarsi lontano da occhi indiscreti con Marco Mancini, un alto dirigente dei Servizi segreti, nel pieno di uno scontro furibondo con l'allora presidente del Consiglio proprio sulla gestione dell'intelligence, agli uomini della politica non desta scandalo. Piuttosto s' interrogano se il video che immortala l'incontro sia genuino o non sia frutto di un pedinamento: contro Renzi o contro Mancini, non si scappa. Certo è che in quel dicembre 2020, Renzi accusava Giuseppe Conte di utilizzare gli 007 per suoi scopi personali e partitici. E il Comitato di controllo parlamentare ne fu talmente impressionato da decidere una serie di audizioni (i due contendenti innanzitutto) che poi non si sono mai fatte. Ma chi è Marco Mancini? Si sa che inizia da giovane brigadiere nell'Antiterrorismo, a Milano negli Anni Ottanta. Fa coppia fissa con Maurizio Tavaroli, altro brigadiere, che farà carriera nel settore privato. Il brigadiere Mancini, poi maresciallo, è svelto. Porta a casa i risultati. E dopo qualche anno passa ai servizi segreti, dove ritrova i suoi ex ufficiali, Umberto Bonaventura e Gustavo Pignero. Anche ai Servizi si occupa di antiterrorismo. Nel frattempo è esplosa l'emergenza islamista. Si dice che stringa un rapporto strettissimo con la Cia. Da Bologna, dove è capocentro, ha competenze su tutto il Nord. In questa veste, come scopriranno i magistrati milanesi Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, nel 2002 collabora al sequestro illegale dell'imam Abu Omar. Nel frattempo è diventato il braccio destro del capo, il generale Nicolò Pollari, tanto gradito a Berlusconi. Il suo volto diventa noto nel 2005, quando esce da un aereo tenendo sottobraccio la giornalista Giuliana Sgrena, appena liberata in Iraq. Nell'azione ci ha rimesso la vita il suo superiore, Nicola Calipari e la vedova Rosa Villecco scriverà che il dualismo ambiguo e machiavellico del Sismi - pro e contro gli americani - fu «un gioco che costerà la vita a Nicola». Machiavellico sembra l'aggettivo giusto. Qualche mese dopo, Mancini è arrestato per il sequestro di Abu Omar. In seguito viene arrestato anche per le intercettazioni illegali Telecom contro politici e imprenditori, a cura del suo amico Tavaroli. In entrambi i processi, Mancini beneficia di un Segreto di Stato. La sua carriera però sembra arrestarsi. Torna all'Aise nel 2014 e si dice che sia in rotta con l'allora direttore, Alberto Manenti, un generale dell'esercito tutto d'un pezzo, e con il colonnello Sergio Di Caprio, Ultimo, che s' è bruciato la carriera per antirenzismo. Presidente del Consiglio è appunto il nostro Matteo Renzi, che dice di essere in confidenza con Mancini da anni. Lui smania per tornare operativo. Passa al Dis. Quel che non gli riesce con il governo a guida Pd, potrebbe riuscirgli ora, dato che si è legato al sottosegretario grillino Angelo Tofalo, poi alla ministra Elisabetta Trenta, poi a Giuseppe Conte. Nel 2020, però, il premier non lo nomina vicedirettore, pare per un veto del Pd. E lui riparte con il gioco delle sette chiese.

Report, i renziani accusano Franco di Mare: "Omertoso, in un'ora non un riferimento sul caso Renzi". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. "Direttore Di Mare lei in più di un'ora di relazione non ha minimamente fatto riferimento al caso Report-Renzi. Questa vicenda era stata posta dal presidente della commissione vigilanza all'ordine del giorno ma lei ha deliberatamente evitato l'argomento: le chiediamo di rispondere alle nostre domande". Queste le parole del presidente dei senatori di Italia Viva Davdie Faraone intervenendo in commissione Vigilanza durante l'audizione del direttore di Rai Tre, Franco Di Mare. Grande polemica quindi in Commissione di Vigilanza sul caso del servizio andato in onda su Report sull'incontro tra Matteo Renzi e Marco Mancini. Il presidente della bicamerale, Alberto Barachini, ha sottolineato in apertura dell'audizione del direttore di Rai3, Franco Di Mare, che si sarebbe discusso, oltre che del caso Fedez, anche di questo episodio, chiedendosi se "le immagini potessero essere usate, sebbene non rappresentassero reato", richiamando i principi della privacy. Faraone inoltre ha definito "irrispettoso" il fatto che il direttore non avesse fatto cenno all'episodio e contestato a Barachini di non aver ricordato che l'ordine del giorno prevedeva anche il caso Report. Barachini ha negato quest'ultima circostanza e aggiunto che Di Mare si era disposto a rispondere nella replica. "Bene che la Vigilanza Rai abbia deciso di ascoltare il direttore di Rai Tre Franco Di Mare anche sul caso Report. In due giorni la Rai ha dimostrato la sua totale incapacità di governare con equilibrio il rapporto fra il diritto ed il dovere di cronaca, prima censurando un artista e poi confezionando un servizio indecente contro un politico", ha poi anche affermato sempre Anzaldi.

Scontro tra Ranucci e Italia Viva. Renzi e l’incontro con lo 007 Mancini, Report evoca il "complotto" sulla caduta del governo Conte. Carmine Di Niro su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Una "polpetta avvelenata" per colpire Matteo Renzi? Questa sera Report, su Rai3, manderà in onda un servizio già largamente anticipato sui social e dalla ‘stampa amica’ come il Fatto Quotidiano, sull’ex premier e leader di Italia Viva. Cosa ci sarà nel servizio? I rapporti tra lo stesso senatore di Scandicci e Marco Mancini, agente segreto italiano, dirigente del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS). I due, ricostruisce la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci, si incontrano per circa 40 minuti il 23 dicembre scorso, nel pieno della crisi del governo Conte II, mentre il tema dei servizi segreti e della delega che il premier non vuole cedere sono al centro dell’agenda politica. Il ‘meeting’ avviene un parcheggio dell’autogrill di Fiano Romano, nei pressi di Roma, e sarebbe filmato e poi girato a Report da una insegnante, che resta lì 40 minuti e riconosce Renzi, che sarebbe arrivato a bordo della sua auto blu per incontrare Mancini, definito più volte in atteggiamenti “loschi”, che sarebbe già stato sul luogo assieme a due uomini di scorta. Da parte sua Renzi, nella video anticipazione di Report, spiega che avrebbe dovuto incontrare Mancini nel suo studio di Roma, di essersene dimenticato e di esser stato raggiunto dallo stesso Mancini all’autogrill di Fiano Romano mentre lo stesso Renzi stava tornando a Firenze.

ITALIA VIVA: 45MILA EURO PER SERVIZI CONTRO RENZI? – A difensa di Renzi interviene quindi Italia Viva che ha presentato una interrogazione a firma deputato Luciano Nobili, indirizzata al ministero dell’Economia e delle Finanze. Il partito renziano evoca infatti una “presunta fattura da 45mila euro ad una società lussemburghese per confezionare servizi contro Renzi”. “Vogliamo vederci chiaro e capire se soldi pubblici sono stati utilizzati per pagare informatori allo scopo di costruire servizi confezionati per danneggiare l’immagine di Renzi. Ci chiediamo con preoccupazione se la Rai compri informazioni con i soldi degli italiani per le sue trasmissioni di inchiesta”, spiega Nobili. Nel testo dell’interrogazione è scritto: “Si interroga il Ministro per sapere: 1. se siano intercorsi rapporti economici nel mese di novembre 2020 fra la società Tarantula Luxembourg Sarl e la Rai TV e segnatamente se esista una fattura con oggetto Alitalia/Piaggio pagata dalla Rai a tale società per un totale di 45.000 euro e nel caso chi l’abbia autorizzata. 2. Se la redazione di Report abbia mai avuto rapporti con il dottor Francesco Maria Tuccillo, ex collaboratore della Piaggio Aerospace, e se vi siano stati rapporti economici fra la società lussemburghese e il dottor Francesco Maria Tuccillo”. L’interrogazione, viene spiegato, fa riferimento ad alcuni servizi andati in onda su Report: “In data 30 novembre 2020 la trasmissione tv Report, in onda su Rai 3, realizza un servizio dal titolo ‘Allacciate le cinture’, avente ad oggetto le vicende societarie di Alitalia e Piaggio Aerospace. Nella trasmissione si citano i rapporti del Governo Renzi con gli Emirati Arabi e una conferenza ad Abu Dhabi svolta successivamente dal Senatore Matteo Renzi; Nella trasmissione si intervistano testimoni che paventano rapporti personali e di favore – compreso l’inesistente pagamento di un volo privato – fra il dottor Alberto Galassi, ex amministratore delegato e poi Presidente di Piaggio Aerospace, e l’entourage del Senatore Matteo Renzi; il 2 febbraio 2021, i quotidiani Il Foglio, Il Giornale e Il Tempo accennano a presunte mail scambiate fra l’allora portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino e la Rai, aventi ad oggetto servizi che sarebbero stati confezionati al fine di danneggiare l’immagine del Senatore Matteo Renzi; il servizio in oggetto viene stranamente mandato in onda due volte, la seconda il giorno 28 febbraio 2021”. Messaggio agli inconsolabili: il Governo Conte non è caduto per intrighi, complotti o incontri segreti (all’autogrill). Semplicemente Draghi è meglio di Conte e l’Italia oggi è più credibile. Tutto qui, si chiama politica — Matteo Renzi (@matteorenzi) May 3, 2021. Lo stesso Matteo Renzi è intervenuto sui social con un messaggio rivolto a chi, come il ‘deus ex machina’ dell’ex segretario PD Nicola Zingarreti, Goffredo Bettini, vede un complotto dietro la caduta del governo Conte, per mettere in chiaro la situazione. “Messaggio agli inconsolabili: il Governo Conte non è caduto per intrighi, complotti o incontri segreti (all’autogrill…). Semplicemente Draghi è meglio di Conte e l’Italia oggi è più credibile. Tutto qui, si chiama politica”, scrive Renzi.

RANUCCI NEGA TUTTO – Accuse che Ranucci rispedisce al mittente, definendo l’interrogazione di Italia Viva “fango”. Report, dice il conduttore del programma, “in 25 anni non ha mai pagato una fonte e soprattutto non ha mai realizzato servizi contro. Noi abbiamo come unico editore di riferimento il pubblico che paga il canone”. Ranucci smentisce anche il riferimento “ad alcune mail che io avrei scambiato con il portavoce di Conte all’epoca Rocco Casalino addirittura sulla carta intestata. Io non uso mai la carta intestata, non ho mai mandato mail a Casalino, si tratta di un dossier avvelenato sulle cui tracce eravamo già da tempo, da gennaio per fortuna l’avevamo intercettato e anche altri colleghi che stavano per stamparlo si sono resi conto che era un falso clamoroso. Tutto questo avviene, singolarmente, il giorno in cui abbiamo annunciato e manderemo in onda questa sera delle immagini che riguardano il senatore Renzi che incontra ai margini di una stazione di servizio l’agente segreto 007 Marco Mancini, l’agente che era stato coinvolto in un’attività di dossieraggio illecito nel caso Telecom nel 2006 e nel rapimento di Abu Omar. L’amarezza più grande è prendere atto che queste note vengono proprio dalle stesse persone che in queste ore hanno evocato la libertà di espressione nel caso”.

CHI E’ MANCINI – Mancini è un personaggio dal passato controverso: era stato arrestato nel 2006 con l’accusa di concorso in sequestro di persona riguardo al rapimento di Abu Omar, imam egiziano della moschea di viale Jenner a Milano. Nel processo, col pm Armando Spataro che aveva chiesto la condanna a 10 anni per Mancini, l’agente dei servizi segreti se la caverà col non luogo a procedere in ragione del segreto di Stato, confermato in Appello. La Cassazione nel 2012 annulla la sentenza ritenendo che il segreto di stato non cora tutti i comportamenti dello 007, si torna ad un nuovo processo in Appello con la condanna a 9 anni di reclusione. Grazie ad un verdetto della Corte Costituzionale sull’applicabilità del segreto di stato, in Cassazione viene annullata senza rinvio la condanna nei confronti di Mancini (assieme a colò Pollari, direttore del SISMI, ed altri 3 agenti) in quanto “l’azione penale non poteva essere perseguita per l’esistenza del segreto di Stato”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il Copasir indaga sul video di Report. Chiara Giannini il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Convocato Vecchione (Dis) per l'incontro in autogrill tra Renzi e Mancini. Qual è il vero scopo dell'incontro avvenuto tra Matteo Renzi e l'alto dirigente dei Servizi, Marco Mancini, in un autogrill di Fiano Romano lo scorso 23 dicembre? Veramente lo 007 doveva consegnare «i babbi», ovvero un tipico dolce romagnolo al senatore di Italia Viva? Sarà il direttore del Dis (Dipartimento per le informazioni della Sicurezza), prefetto Gennaro Vecchione, a dover rispondere a queste domande di fronte al Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir) che nel corso dell'Ufficio di presidenza di ieri ha deciso di convocarlo per far luce sui fatti svelati dalla trasmissione televisiva Report, relativi all'incontro tra i due soggetti al centro della questione. Che non si esclude possano essere sentiti proprio su richiesta del Comitato presieduto dal leghista Raffaele Volpi. Vecchione è stato convocato «per una valutazione di tali vicende, limitatamente ai profili di propria competenza. All'esito dell'audizione, il Comitato si riserva di procedere a ulteriori approfondimenti ed eventuali altre audizioni», appunto. Tra le altre cose, l'incontro avvenne lo stesso giorno in cui Matteo Renzi si recò in carcere, a Rebibbia, a far visita a Denis Verdini. Semplice incontro tra amici e scambio di auguri natalizi o c'è dell'altro? Peraltro, molte pedine in queste ore si stanno muovendo sullo scacchiere dei Servizi. Mancini è infatti tra i papabili a sostituire il generale dell'Esercito Carmine Masiello nel suo posto di vice di Vecchione, visto che Masiello è appena stato nominato Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa, ovvero il vice del generale Enzo Vecciarelli. Anche se quello di Mancini, attuale caporeparto al Dis, non è l'unico dei nomi che stanno circolando. L'Ufficio di presidenza del Copasir ha anche concordato sull'opportunità di svolgere le audizioni, già precedentemente decise, dell'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del suo portavoce Rocco Casalino, con riferimento alla liberazione avvenuta a dicembre 2020 dei pescatori italiani sequestrati in Libia. Come si ricorderà, Casalino inviò un messaggio ad alcuni giornalisti fidati geolocalizzandosi in Libia. Fatto che avrebbe potuto mettere a rischio l'incolumità della delegazione che in quel momento si trovava nel Paese africano e mandare a monte l'impegno dei Servizi per la liberazione dei pescatori.

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 7 maggio 2021. La Rai nella bufera per il caso Report e il caso Fedez. Finisce a carte bollate almeno per quanto riguarda il racconto fatto da Sigfrido Ranucci a proposito dell'incontro in autogrill tra il senatore di Iv e l'uomo dei servizi segreti Mancini. Per Renzi si tratta di una narrazione falsa, da qui l'esposto in Procura per chiedere che siano acquisite le telecamere dell'autogrill per stabilire la verità dei fatti. «Il racconto che Ranucci riporta è falso. Come dimostreranno le immagini dell'autogrill l'auto di Renzi è andata via prima dell'auto di Mancini. E del resto la stessa signora che ha girato il video dice di sentire Mancini che saluta Renzi, mentre Renzi sale in macchina e riparte, con Mancini che resta in piedi fuori dall'auto a salutare. Se la signora è andata via in contemporanea all' auto di Mancini non può aver visto la direzione di Renzi. Il racconto è falso». Ribatte a stretto giro Ranucci di Report, «Il punto non è la direzione che ha preso l'auto di Renzi ma il perché di quell' incontro e che cosa si sono detti». E annuncia che nel corso della prossima puntata avrà ospite l'insegnante che ha scattato le foto e che ha girato le riprese con il suo telefonino, pronta a raccontare la sua verità. Ci sarà anche il padre dell'insegnante, a causa del cui malore la donna aveva fermato l'auto all' autogrill poco prima di immortalare la scena. «A tutti i punti contestati da Renzi la signora darà risposta durante la nostra trasmissione. Anche della direzione che hanno preso le due macchine. Ma è una questione di lana caprina. Il punto resta il motivo dell'incontro. Su questo non è stata data alcuna risposta». Altro fronte, il caso Concertone del Primo Maggio. In Rai ieri si è consumata una riunione di fuoco che ha visto riuniti nella stanza dell'ad al settimo piano di viale Mazzini, appunto Salini, il responsabile dell'ufficio legale della Rai Francesco Spadafora e altri uomini dell' entourage, per capire se depositare le carte in Procura e adire alle vie legali contro il rapper Fedez che avrebbe diffamato la Rai e i suoi dirigenti. Intanto il segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi chiede che sia reso pubblico dunque depositato, il Bilancio Rai 2020 che lo scorso 29 aprile il Cda ha dichiarato ufficialmente di aver approvato.

L'agguato di Sigfrido Ranucci a Matteo Renzi. Conte voleva Mancini a capo dei servizi, Report si occupi di lui. Michele Anzaldi su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Tra le tante questioni che non tornano sul caso “Report-Renzi” ce n’è una che mi sembra la più grave: il messaggio che la trasmissione ha inteso mandare con il suo racconto. Un messaggio che in pratica ha ricalcato la propaganda fatta in queste settimane dai principali sostenitori del vecchio governo Conte: il presunto “complotto” che starebbe dietro la caduta del Conte 2. Guardando la trasmissione andata in onda lunedì, infatti, si è portati a pensare che dietro l’azione di Renzi e Italia Viva ci siano state chissà quali oscure trame. Basta seguire la sequenza temporale indicata da “Report” sul fatidico 23 dicembre: la mattina Renzi va da Myrta Merlino su La7 a chiedere che Conte lasci la delega ai servizi segreti; poi Renzi va in carcere a trovare Denis Verdini (con le immagini di Rebibbia); poi c’è l’incontro all’autogrill con il dirigente dei servizi Marco Mancini, ripreso non si sa da chi e perché. Chiunque veda una narrativa del genere è portato a pensare a chissà quali macchinazioni. Davvero la redazione di “Report” e il suo direttore Sigfrido Ranucci, un giornalista di grande esperienza, pensano che dietro l’azione di Renzi che ha portato alla nascita del Governo Draghi ci siano oscuri complotti internazionali? Sono davvero convinti di questo? A prescindere dalle convinzioni, sarebbe bastato approfondire in maniera più seria e completa la questione per vedere che tutto ciò che era accaduto nei mesi precedenti porta a pensare il contrario. Innanzitutto la questione Mancini. Almeno dal 2019 i più informati giornalisti di questioni riguardanti l’intelligence avevano scritto più volte che a voler dare una promozione a Mancini nei servizi erano il presidente Conte in persona e il suo più stretto collaboratore, il direttore del Dis Vecchione. Il 15 maggio 2019 Carlo Bonini su “Repubblica”, in un articolo dal titolo “Il piano del governo per spartirsi i vertici dei servizi segreti”, racconta come Conte, con il sostegno dell’allora sottosegretario M5s Tofalo e dell’allora vicepremier Salvini, stesse lavorando per nominare Mancini vicedirettore dell’Aise. Il 19 aprile 2020, sempre su “Repubblica”, Giuliano Foschini in un articolo sull’addio del generale Carta all’Aise (passato a Finmeccanica) parla ancora del possibile ruolo di vicedirettore Aise per Mancini. Il 14 maggio 2020 Cristiana Mangani su “Il Messaggero” parla dello “scontro sul nome di Mancini come vice”, nomina per la quale “non tutta la maggioranza si è trovata d’accordo”. Il 3 settembre 2020 esce sulla “Stampa” un articolo a firma Jacopo Iacoboni, dal titolo “Mancini a rischio e le nomine di Conte hanno riacceso una guerra nei Servizi”. Occhiello: “Il primo ministro insiste sull’ex agente del Sismi del caso Abu Omar. Vecchione spinge per lui”. Scrive Iacoboni: “Il presidente del Consiglio, con estremo gradimento del direttore del Dis Gennaro Vecchione (un gradimento così esibito che quasi non se ne capiscono le ragioni), si è impegnato molto su (e con) Mancini, già direttore delle operazioni del Sismi di Pollari. (…) Il premier sta continuando a dire a diversi interlocutori, fino a pochi giorni fa, che supererà le resistenze su Mancini”. Il 10 novembre 2020 “Il Fatto Quotidiano” scrive che, naufragata ormai l’ipotesi Aise, ora per Mancini si parlerebbe di vicedirezione del Dis, guidato dal fedelissimo di Conte Gennaro Vecchione: “Il ritorno di Mancini: in ballo la nomina a vice degli 007”. Insomma, questa sintetica rassegna stampa fa capire chi fosse a spingere per la nomina di Mancini: il premier Conte, con il suo collaboratore Vecchione. Tutto questo, stando a quanto scritto sui quotidiani e mai smentito, è avvenuto nei mesi che hanno preceduto l’incontro di Renzi e Mancini all’autogrill, il 23 dicembre 2020. Perché “Report” non ha raccontato anche questi fatti? Perché non ha contestualizzato la vicenda, lasciando credere che esistesse solo chissà quale rapporto tra Renzi e Mancini? Sulla gestione da parte di Conte dei servizi segreti, peraltro, non solo Renzi ma tutta Italia Viva da mesi avevano sollevato dubbi. Io stesso, ad agosto 2020, fui tra quelli che protestarono per il colpo di mano di Conte, che all’insaputa di tutti e anche del Copasir inserì in un decreto Covid un codicillo per prorogare le sue nomine al Dis e ai Servizi addirittura oltre il mandato del suo governo. Quando fu scoperto grazie ad una grande firma del “Corriere della Sera” come Francesco Verderami, Palazzo Chigi accusò addirittura il giornalista di aver scritto il falso, un’accusa poi smentita senza che la presidenza del Consiglio chiedesse scusa alla stampa. Perché “Report” non ha ricordato in maniera chiara e netta che Italia Viva da mesi era critica sull’accentramento di Conte sui servizi segreti? Perché non ha ricordato in maniera più articolata quali erano i rilievi che da mesi Italia Viva e Renzi avanzavano, lasciando invece credere che Renzi avesse deciso di attaccare solo quel giorno, proprio in concomitanza con l’incontro su Mancini? L’incontro Renzi-Mancini non nascondeva nulla di illecito, né reati, ma è stato presentato come chissà quale oscura macchinazione. Il messaggio inviato è apparso incompleto, se non tendenzioso. Ora aspettiamo che “Report” dedichi una puntata alla gestione che Conte ha fatto del sistema dell’intelligence nei suoi quasi 3 anni di governo, primo e unico premier nella storia della Repubblica ad aver tenuto per sé per un tempo così lungo la delega ai servizi segreti. Michele Anzaldi

Lo 007 del Dis. Marco Mancini, chi è lo 007 italiano: dal caso Abu Omar all’incontro in autogrill con Renzi. Vito Califano su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Un incontro che sta facendo discutere: quello tra Matteo Renzi e Marco Mancini. E se il primo è noto, politico, ex Presidente del Consiglio, già segretario del Partito Democratico e leader di Italia Viva: il secondo è meno noto ma comunque una personalità di spicco: Mancini è caporeparto al Dis, l’agenzia che coordina Aisi e Aise, rispettivamente le agenzie dei servizi segreti che si occupano dell’interno e degli esteri. L’incontro sarà la ciliegina sulla torta di Report, la puntata in onda stasera su Rai3, il servizio di Giorgio Mottola. Succede tutto il 23 dicembre: i due si incontrano in un parcheggio dell’autogrill di Fiano Romano. Una quarantina di minuti di tempo. Un’insegnante per caso assiste alla scena e quindi filma i due che parlano. Dice sia arrivato prima Mancini. Renzi, a quanto scrive Il Fatto Quotidiano, avrebbe commentato di aver ricevuto per Natale dei Babbi di Cioccolato, specialità romagnola. La questione sembra però girare intorno ai servizi segreti. O almeno così si lascia intendere senza troppi eufemismi. Italia Viva da inizio novembre ha cominciato a pressare il governo Conte 2 sulla cybersecyrity e sulla delega governativa ai servizi che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tenuto per sé. La nomina di Pietro Benassi, ambasciatore, è arrivata soltanto il 21 gennaio 2021. Troppo tardi. Il 26 gennaio il governo cade. Già a capo della Divisione controspionaggio del Sismi (Servizio Segreto Militare Predecessore dell’Aise) dell’antiterrorismo, Mancini è stato braccio destro del generale Nicolò Pollari. Ha riportato nel 2015 in Italia la giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena, sequestrata in Iraq. La sua condanna a nove anni del 2013 per sequestro di persona, l’imam Abu Omar, è stata annullata dalla Cassazione. La Corte Costituzionale è intervenuta allargando i confini del segreto di stato sul caso. Mancini avrebbe puntato a un ruolo di ruolo più operativo nell’Aise o nell’Aisi, riassume l’articolo. L’incontro, dunque, sarebbe stato ripreso da una semplice passante, che ha registrato Renzi alla luce del sole, a colloquio con un volto per niente noto al grande pubblico, tra l’altro coperto dalla mascherina. Come ha ricostruito Anna Rita Leonardi: “Un’insegnante che sta dentro la sua macchina, prende il cellulare e si ferma spontaneamente a registrare Matteo Renzi che parla con uno, che lei riconosce nonostante sia assolutamente un volto sconosciuto. E, guarda un po’, sempre questa insegnante decide di inviare il video a Report. Questo dovrebbe dimostrare chissà quali segreti o manovre di GomBlotto ordite da Renzi”. Italia Viva ha presentato un’interrogazione parlamentare a firma Luciano Nobili per “una presunta fattura da 45mila euro ad una società lussemburghese per confezionare servizi contro Renzi”. La risposta immediata della trasmissione di Rai3. “Si tratta di fango: Report in 25 anni non ha mai pagato una fonte e soprattutto non ha mai realizzato servizi contro”, la risposta del giornalista Sigfrido Ranucci.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il senatore risponde sull'incontro con Mancini in Autogrill. Caso Report, Renzi pubblica l’intervista integrale: “Mai messo bocca sulle nomine dei Servizi”. Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Report ha mandato in onda un servizio sui rapporti tra Matteo Renzi e Marco Mancini, agente segreto italiano, dirigente del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS). I due, ricostruisce la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci, si incontrano per circa 40 minuti il 23 dicembre scorso, nel pieno della crisi del governo Conte II, mentre il tema dei servizi segreti e della delega che il premier non vuole cedere sono al centro dell’agenda politica. Il 30 aprile Report intervista Matteo Renzi nel suo studio. Un’intervista di circa 50 minuti. Intorno al minuto 30 gli chiede in merito all’incontro con Mancini all’Autogrill. “Si ho incontrato Mancini all’autogrill, l’ho incontrato qui nel mio studio come ho incontrato tanti altri dirigenti, ammenoché lei non voglia dire che l’incontro all’Autogrill fosse riservato visto che c’erano persino le telecamere”, ha risposto Renzi che sui suoi social ha pubblicato l’intervista integrale rilasciata a Report. “Perché incontrare lei in un autogrill come se fosse un’amante?”, gli chiede il giornalista. “A differenza sua c’ho una concezione della vita per cui non mi preoccupo degli affari degli altri quando non c’è un elemento di trasparenza – la risposta di Renzi – Dovevo incontrare il dottor Mancini qui come incontro altri dirigenti dello Stato ma me ne sono dimenticato. Gli ho mandato un messaggio e mi ha detto che era già in viaggio per Firenze per cui mi ha raggiunto all’Autogrill. Chissà come mai lì c’era qualcuno a riprendere”. E continua: “Il dottor Mancini aveva un ottimo rapporto con il premier Conte, per cui se vuole parlare della questione delle nomine deve parlarne con lui per un semplice motivo: sulle nomine dei servizi non ho mai messo bocca da un giorno specifico, il 4 dicembre 2016 quando ho perso il referendum e qualche giorno dopo mi sono dimesso. Sa perché? Perché c’è una legge in Italia, chi decide è il presidente del Consiglio. Ho solo chiesto al presidente del consiglio di lasciare il ruolo di autorità delegata perché ci sono troppe cose che non tornano su un presidente del consiglio che si tiene l’autorità delegata”. Quando poi il giornalista dice che “Gentiloni ha scelto Gentiloni, perchè in quel caso non l’abbiamo sentita protestare?”, Renzi spiega che in quel caso Gentiloni credeva che il suo governo sarebbe durato ancora poco essendo a fine mandato che quindi avrebbe lasciato quella incombenza al premier successivo. “Gli ho detto che secondo me faceva un errore e che per me doveva dare la delega. Quando poi Conte ha deciso di tenersi la delega e ha fatto degli incontri un po’ strani a palazzo Chigi nell’agosto del 2019, con i vertici inviati da Trump, su una vicenda di spie abbastanza strane gli ho fatto notare che c’era qualcosa di strano ma non ho mai messo bocca sulle nomine”. “Il dottor Mancini aveva un ottimo rapporto con il presidente Conte – continua Renzi – Quindi se c’era qualcuno che poteva sponsorizzarlo era Conte”. “Mancini mi doveva portare i ‘babbi’ dei wafer romagnoli, che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni che io mangio in modo molto vorace che lui mi ha gentilmente portato all’Autogrill in un incontro talmente riservato che per evitare il covid siamo rimasti fuori e casualmente c’è un video, ma guardi che strano”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Da vigilanzatv.it il 3 magio 2021. Dopo il caos che ha travolto Rai3 sul caso Fedez, ecco che arriva un'altra patata bollente, per non dire arroventata, per Viale Mazzini e per la Terza Rete. Una vicenda che ha quasi l'aria di un intrigo internazionale. Report condotto dal Vicedirettore Sigfrido Ranucci pagò 45mila euro una società lussemburghese per confezionare servizi contro Matteo Renzi? Lo domanda il deputato di Italia Viva Luciano Nobili in un'interrogazione da lui firmata e presentata dal suo partito al Ministero dell'Economia e delle Finanze. "Vogliamo vederci chiaro e capire se soldi pubblici sono stati utilizzati per pagare informatori allo scopo di costruire servizi confezionati per danneggiare l'immagine di Renzi. Ci chiediamo con preoccupazione se la Rai compri informazioni con i soldi degli italiani per le sue trasmissioni di inchiesta". Nell'interrogazione, si chiede di sapere "se siano intercorsi rapporti economici nel mese di novembre 2020 fra la società Tarantula Luxembourg Sarl e la Rai TV e segnatamente se esista una fattura con oggetto Alitalia/Piaggio pagata dalla Rai a tale società per un totale di 45000 euro e nel caso chi l'abbia autorizzata". E ancora: "Se la redazione di Report abbia mai avuto rapporti con il dottor Francesco Maria Tuccillo, ex collaboratore della Piaggio Aerospace, e se vi siano stati rapporti economici fra la società lussemburghese e il dottor Francesco Maria Tuccillo". Uno dei servizi di Report cui fa riferimento l'interrogazione andò in onda il 30 novembre 2020. Intitolato Allacciate le cinture, documentava le vicende societarie di Alitalia e Piaggio Aerospace, citando i rapporti del Governo Renzi con gli Emirati Arabi e una conferenza tenutasi ad Abu Dhabi cui partecipò sempre l'attuale leader di Italia Viva. Nella trasmissione venivano ascoltati alcuni testimoni che raccontavano di rapporti personali e di favore - compreso l'inesistente pagamento di un volo privato - fra l'entourage di Renzi e l'ex Ad e poi Presidente di Piaggio Aerospace, Alberto Galassi. Da segnalare che, il 2 febbraio 2021, alcuni quotidiani (Il Foglio, Il Giornale e Il Tempo) fecero riferimento a presunte mail scambiate tra l'allora portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino e la Rai, mail che alludevano a servizi confezionati per danneggiare l'immagine del Senatore Renzi. E solo pochi giorni più tardi, il 28 febbraio 2021, Report - in onda sulla Rai3 diretta da Franco Di Mare in quota M5s - replicò proprio il suddetto servizio sul leader di Italia Viva.

Dagospia il 3 magio 2021. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. L'interrogazione parlamentare di Italia Viva su Report, per un presunto servizio su Renzi pagato 45mila euro? “Ce la vedete Report a pagare 45mila euro per un servizio? E' una follia, Report non ha mai pagato una fonte, mai”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il giornalista e conduttore Sigfrido Ranucci. Poi nell'interrogazione parlamentare” in questione “fanno riferimento al fatto che il Giornale, il Foglio e il Tempo avrebbero accennato a presunte mail scambiate tra Rocco Casalino e la Rai. Ma gli dice male: noi sapevamo dell'esistenza di un dossier falso su di noi e su di me in particolare. Quelle mail sono false, noi già abbiamo la prova, bisognerebbe capire chi ha messo in piedi questo dossier falso”. Quindi lei smentisce che questo sia avvenuto. “Ma si figuri...” Chi vi ha dato il video che andrà in onda stasera su Report? “E' stata una semplice cittadina, munita di telefono, che era in una piazzola di servizio perché aveva il padre che non si sentiva bene, e si era incuriosita per l'uomo dei servizi e la sua scorta. Ad un certo punto poi da un'auto coi vetri oscurati vede scendere Renzi, e i due parlato per 45 minuti. Questa sera parlerà anche questa cittadina con la sua voce”.

Report, Sigfrido Ranucci smentisce Italia Viva: "Pagato una fonte? Come stanno le cose su Renzi e l'agente segreto". Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. Report manderà in onda stasera su Rai3 un atteso servizio sull’incontro tra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini, avvenuto in un autogrill. Un incontro definito “misterioso”, soprattutto perché avvenuto in piena crisi di governo: era il 23 dicembre quando il leader di Italia Viva veniva beccato mentre dialogava con un agente segreto italiano. Il deputato renziano Luciano Nobili ha presentato un’interrogazione al ministero dell’Economia e delle Finanze per chiedere di fare chiarezza. “Una presunta fattura da 45mila euro ad una società lussemburghese per confezionare un servizio contro Renzi?”, è l’interrogativo posto da Nobili, che poi ha aggiunto: “Vogliamo vederci chiaro e capire se soldi pubblici sono stati utilizzati per pagare informatori allo scopo di costruire servizi confezionati per danneggiare l’immagine di Renzi. Ci chiediamo con preoccupazione se la Rai compri informazioni con i soldi degli italiani per le sue trasmissioni di inchiesta”. Poi lo stesso leader di Italia Viva, che interverrà stasera a Report con un’intervista sull’argomento, ha twittato un messaggio diretto agli “inconsolabili”: “Il governo Conte non è caduto per intrighi, complotti o incontri segreti all’autogrill. Semplicemente Draghi è meglio di Conte e oggi l’Italia è più credibile. Tutto qui, si chiama politica”. Da RaiNews è arrivata la replica di Sigfrido Ranucci alle accuse del renziano Nobili: “Report non ha mai pagato una fonte in 25 anni. Cercheremo di capire il contenuto del dialogo tra Renzi e l’agente segreto, avremo anche un’intervista con il leader di Iv. Siamo accusati di aver pagato una fonte per realizzare il servizio, ma in realtà in 25 anni non abbiamo mai pagato nessuno. Poi l’interrogazione parlamentare è confusa perché si parla di Report e poi si dice che la Rai avrebbe pagato una fattura a una società estera”. 

Da rai.it il 3 magio 2021. Nella piazzola di un autogrill Matteo Renzi incontra un agente dei servizi segreti, Marco Mancini. È quanto mostra in esclusiva un video che ha ripreso di nascosto quell'incontro e che Report manderà in onda. L'appuntamento riservato dura quaranta minuti e avviene il 23 dicembre scorso, nel pieno della crisi del governo Conte, quando il tema dei servizi segreti è uno delle questioni di attrito principali all'interno della maggioranza. L'agente segreto, che partecipa all'incontro con il politico, è da tempo in lizza per una nomina di peso all'interno degli apparati di intelligence, ma ha un passato pesante. La sua biografia si intreccia infatti con alcune delle pagine più buie della storia recente italiana: il caso Abu Omar, l'imam egiziano rapito a Milano da agenti della Cia e torturato al Cairo perché sospettato di terrorismo, e lo scandalo Telecom Pirelli, che portò alla scoperta dell'esistenza di un dossieraggio di massa di imprenditori, magistrati, politici e giornalisti, operato all'interno dell'azienda all'epoca presieduta da Marco Tronchetti Provera. E di recente il suo nome è spuntato fuori anche nelle vicende che hanno riguardato Cecilia Marogna, la donna di fiducia del cardinale Angelo Becciu, a cui l'ex Sostituto della Segreteria di Stato aveva affidato il compito di costituire un servizio segreto parallelo in Vaticano.

Da lanotiziagiornale.it il 3 magio 2021. La foto di un incontro tra Matteo Renzi e uno 007 di nome Marco Mancini in un autogrill è parte integrante di un servizio di Report in onda stasera e anticipato oggi dal Fatto Quotidiano.Il contatto, dice il servizio di Giorgio Mottola, risale al 23 dicembre 2020, in un parcheggio dell’autogrill di Fiano Romano nei pressi di Roma. Dura – secondo Report – una quarantina di minuti. Marco Mancini lavora al Dis, Dipartimento Informazioni Sicurezza, l’organo che coordina l’intera attività di informazione per la sicurezza, compresa quella relativa alla sicurezza cibernetica e ne verifica i risultati. Ha lavorato nel Sismi con Nicolò Pollari. Ha ricevuto una condanna a 9 anni nel febbraio 2013 per sequestro di persona (l’imam Abu Omar) poi annullata dalla Cassazione. Nel marzo 2005 partecipa all’operazione che riporta in Italia dall’Iraq la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Mancini è caporeparto del Dis e secondo l’anticipazione di Report l’incontro avviene per una nomina, magari in Aise o in Aisi, oppure come vicedirettore del Dis. Il Fatto Quotidiano spiega che nei mesi precedenti l’incontro era esplosa una dura contesa sui servizi di sicurezza. Prima sulle regole per la proroga dei vertici, poi sulla delega affidata dalla legge al premier, infine sulla Fondazione per la cybersecurity. Tutto precipita dopo il consiglio dei ministri sul Recovery del 7 novembre 2020, interrotto per il tampone falso-positivo al Covid della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese prima che si voti. Dopo l’incontro Renzi critica la gestione dei servizi segreti da parte del premier. E polemizza sulla delega che Conte ha tenuto per sé, come Gentiloni. Il 23 dicembre Renzi lo ripete all’Aria che tira, su La7. Poi va a Rebibbia a visitare Denis Verdini. Infine incontra Mancini in autogrill. Conte cederà soltanto il 21 gennaio 2021, quando passa la delega all’ambasciatore Pietro Benassi. Troppo tardi. Il 13 gennaio si sono già dimesse le tre ministre di Italia viva. E il 26 gennaio il governo Conte cade. Il servizio di Report nasce per una insegnante che il 23 gennaio si trova all’autogrilli di Fiano Romano e filma Renzi con il telefonino mentre parla con Mancini. Secondo Report Renzi ha detto che Mancini gli avrebbe consegnato per Natale i Babbi di cioccolato, specialità romagnole. Dice che è stato l’agente del Dis a raggiungere lui. La testimone oculare sostiene il contrario. Secondo il Fatto il leader Iv si incontra regolarmente con Mancini dal 2016: “Quel 23 dicembre i due avevano un appuntamento già fissato e saltato perché Renzi se ne dimentica e parte per Firenze; recupera all’ultimo momento, pregando Mancini di raggiungerlo all’autogrill sull’autostrada. Ma – giurano – quel giorno non si parlò di nomine”.

Estratto dell'articolo di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli per il "Fatto quotidiano" il 3 magio 2021. […] Il servizio di Report nasce per caso. Una insegnante che il 23 dicembre 2020 si era fermata all' autogrill di Fiano Romano filma Renzi con il telefonino. Di cosa parla? Non lo sappiamo. Mancini non ha risposto a Report. Renzi risponde celiando: Mancini gli avrebbe consegnato per Natale i Babbi di cioccolato, specialità romagnole, come romagnolo è Mancini. Poi il senatore adombra versamenti segreti di Report in Lussemburgo. E racconta che è stato l'agente del Dis a raggiungerlo, anche se la testimone oculare, intervistata da Report a volto coperto, sostiene invece che sia arrivato prima Mancini. Ambienti vicini a Renzi spiegano al Fatto che il leader Iv si incontra regolarmente con Mancini dal 2016 e che quel 23 dicembre i due avevano un appuntamento già fissato e saltato perché Renzi se ne dimentica e parte per Firenze; recupera all' ultimo momento, pregando Mancini di raggiungerlo all' autogrill sull' autostrada. Ma - giurano - quel giorno non si parlò di nomine.

Ecco quello che non torna nell'incontro Renzi-Mancini. Roberto Vivaldelli il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Davvero c'è stato un grande complotto contro l'ex premier Giuseppe Conte? Il video dell'incontro fra Matteo Renzi e Marco Mancini, per ora, non dimostra nulla. Questa sera Report ha mandato in onda il servizio che mostra, nella piazzola di un autogrill nei pressi della capitale, l'ex premier Matteo Renzi mentre incontra un agente dei servizi segreti, Marco Mancini. È il contenuto del video che Report, all'interno dell'inchiesta di Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti, ha mandato in onda poco fa. Il contatto fra Renzi e Mancini avviene il 23 dicembre 2020, in un parcheggio dell'autogrill di Fiano Romano, nei pressi della Capitale, e dura - sempre secondo Report - una quarantina di minuti. A confermare l'identità di Mancini un ex collega dello 007 italiano. Per chi non lo conosce Mancini è un agente del Dis, l'agenzia che coordina Aisi e Aise, cioè i servizi segreti che si occupano rispettivamente dell'interno e degli esteri. "Messaggio agli inconsolabili: il Governo Conte non è caduto per intrighi, complotti o incontri segreti (all’autogrill). Semplicemente Draghi è meglio di Conte e l’Italia oggi è più credibile" ha commentato lo stesso ex premier su Facebook. A cosa si riferisce Renzi?

I dubbi sull'incontro Renzi-Mancini. Alla base di tutto, infatti, ci sarebbe - secondo alcuni esponenti della (ex) maggioranza giallorossa - un grande complotto internazionale ai danni di Giuseppe Conte e questo incontro rappresenterebbe un tassello di questa teoria che vede come vittima l'avvocato Volturara Appula. Ci sono però molte cose che non tornano. Primo, è noto che Marco Mancini fosse uno 007 "gradito" ai cinque stelle e allo stesso ex presidente Giuseppe Conte, e non certo un fedelissimo di Renzi. Già a capo della Divisione controspionaggio del Sismi (Servizio Segreto Militare Predecessore dell’Aise) dell’antiterrorismo, Mancini è stato braccio destro del generale Nicolò Pollari. Ha riportato nel 2015 in Italia la giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena, sequestrata in Iraq. La sua condanna a nove anni del 2013 per sequestro di persona, l’imam Abu Omar, è stata annullata dalla Cassazione. In quei giorni, mentre inconta Renzi, Mancini puntava a un ruolo di ruolo più operativo nell’Aise o nell’Aisi: come ammette lo stesso Fatto Quotidiano, per alcune settimane, Mancini ha buone possibilità di fare il salto. Ha il sostegno di Vecchione - fedelissimo di Conte - e non gli sono ostili neppure i Cinquestelle, consigliati dal magistrato antimafia Nicola Gratteri. Alla fine però non se ne fa niente: il premier Conte avvia un giro di poltrone dentro i servizi, ma Mancini resta al suo posto. Conte si poi dimette alla fine di gennaio, per fare posto a Mario Draghi. Secondo Goffredo Bettini, influente esponente del Pd, l'avvocato "è caduto per i suoi errori o ritardi, ma per una convergenza di interessi nazionali e internazionali". L'Incontro Renzi-Mancini ne è una possibile prova? No.

Chi ha filmato il video? Durante l'intervista concessa a Report, Renzi ha sottolineato che "Mancini è uno dei dirigenti dei servizi segreti con cui ho avuto incontri riservati. Penso di averlo visto anche all'autogrill. Se si fa riferimento al fatto che io lo abbia visto a dicembre in autogrill, assolutamente sì. A meno che non si voglia sostenere che l'incontro all'autogrill fosse riservato, ci sono pure le telecamere...". Mi pare di ricordare, prosegue l'ex premier, "che questo video sia di dicembre o gennaio e mi colpisce molto perché io dovevo incontrare Mancini qui (al Senato ndr) me ne ero dimenticato, ci siamo sentiti mentre io ero già in viaggio verso Firenze e lui mi ha raggiunto all'autogrill a Fiano Romano. E' molto strano che ci fosse qualcuno a riprendere questo video". Davvero Renzi è stato filmato da una persona che passava di lì, per caso? Come poteva sapere che la conversazione fosse rilevante? Secondo il partito di Renzi dietro c'è dell'altro. Come riporta Agi, il partito dell'ex premier contesta alla trasmissione di Rai3 una presunta fattura da 45 mila euro ad una società lussemburghese per confezionare servizi contro Renzi. Questa la domanda contenuta nell'interrogazione presentata da IV a firma Luciano Nobili, indirizzata al ministero dell'Economia e delle Finanze. "Vogliamo vederci chiaro e capire se soldi pubblici sono stati utilizzati per pagare informatori allo scopo di costruire servizi confezionati per danneggiare l'immagine di Renzi. Ci chiediamo con preoccupazione se la Rai compri informazioni con i soldi degli italiani per le sue trasmissioni di inchiesta", spiega il deputato renziano. Molti dubbi, poche certezze. Ma sembra del tutto improbabile, come qualcuno sembra far supporre, che Conte sia stato vittima di un complotto internazionale.

Babbi e spie. Report Rai PUNTATA DEL 03/05/2021 di Danilo Procaccianti e Giorgio Mottola collaborazione Norma Ferrara. Nella piazzola di un autogrill Matteo Renzi incontra un agente dei servizi segreti, Marco Mancini. È quanto mostra in esclusiva un video che ha ripreso di nascosto quell'incontro e che Report manderà in onda. L'appuntamento riservato dura quaranta minuti e avviene il 23 dicembre scorso, nel pieno della crisi del governo Conte, quando il tema dei servizi segreti è uno delle questioni di attrito principali all'interno della maggioranza. L'agente segreto, che partecipa all'incontro con il politico, è da tempo in lizza per una nomina di peso all'interno degli apparati di intelligence, ma ha un passato pesante. La sua biografia si intreccia infatti con alcune delle pagine più buie della storia recente italiana: il caso Abu Omar, l'imam egiziano rapito a Milano da agenti della Cia e torturato al Cairo perché sospettato di terrorismo, e lo scandalo Telecom Pirelli, che portò alla scoperta dell'esistenza di un dossieraggio di massa di imprenditori, magistrati, politici e giornalisti, operato all'interno dell'azienda all'epoca presieduta da Marco Tronchetti Provera. E di recente il suo nome è spuntato fuori anche nelle vicende che hanno riguardato Cecilia Marogna, la donna di fiducia del cardinale Angelo Becciu, a cui l'ex Sostituto della Segreteria di Stato aveva affidato il compito di costituire un servizio segreto parallelo in Vaticano.

BABBI E SPIE Di Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti Collaborazione Norma Ferrara immagini di Giovanni De Faveri, Cristiano Forti, Tommaso Javidi, Fabio Martinelli montaggio Giorgio Vallati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccole le immagini inedite di questo misterioso incontro girate con il telefonino dalla nostra testimone. Nella piazzola autostradale di Fiano Romano, Matteo Renzi parla appartato con uomo brizzolato e molto elegante.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I sogni miei segreti li rombavano via i TIR, così recita la canzone di Guccini “Autogrill”. Non sappiamo se quelli che si sono scambiati Matteo Renzi e l’uomo all’autogrill siano segreti, però lo diciamo subito: quell’uomo è un importante agente segreto, uno 007 italiano. Ecco, come siamo arrivati a questo incontro? Dopo aver indagato sui finanziamenti della Segreteria di Stato vaticana e in particolare sul ruolo del sostituto della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu, che è stato in quel posto dal 2011 al 2018, è lui che ha gestito le centinaia di milioni di euro provenienti dalle donazioni dei fedeli. Ad un certo punto al suo fianco spunta una donna misteriosa: Cecilia Marogna, che diventa una sorta di servizio segreto parallelo al servizio del cardinale. Lei gioca a fare un po’ la Mata Hari e a un certo punto però che cosa c’entra con l’incontro tra Matteo Renzi e l’agente segreto? È che la Marogna a un certo punto poteva diventare lo strumento per delegittimare i vertici dei servizi di sicurezza nominati dal governo Conte e a beneficiarne sarebbe stato proprio l’uomo che incontra Renzi nell’autogrill. Ora, le due storie per una curiosa coincidenza si intrecciano nello stesso periodo, quando si sta per aprire la crisi del governo Conte. Questo filo che parte da un faccendiere vicino alla P2, lambisce la Segreteria di Stato vaticana, uomini dei servizi segreti, fino ad arrivare ai protagonisti della caduta del governo Conte, lo tirano i nostri Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti.

GIORGIO MOTTOLA La domanda più giusta non è lei chi è, ma lei cos’è? È un massone, un politico un lobbista?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Beh diciamo che mi riconosco abbastanza nella parola faccendiere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Poco prima delle stragi del ‘92 il faccendiere Ferramonti è stato uno dei protagonisti della nascita delle leghe meridionali, il progetto politico a cui aderirono il tesoriere di Totò Riina, Pino Mandalari, l’ex capo della P2 Licio Gelli e il dirigente democristiano condannato per mafia Vito Ciancimino.

GIORNALISTA Lei starebbe in una lista con Gelli?

VITO CIANCIMINO Domanda provocatoria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le leghe meridionali nascono su spinta dell’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio.

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Beh io ero il suo diciamo galoppino, quello che andava di qua e di là che parlava con tutti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo anni di oblio, il nome di Ferramonti è rispuntato fuori nell’inchiesta su Banca Etruria, per aver contribuito ad aiutare nella ricerca di un nuovo AD Pierluigi Boschi, padre dell’ex ministro Maria Elena Boschi e all’epoca vicepresidente dell’istituto di credito toscano.

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Questo Boschi, massone ovviamente, chiede a un massone sardo, un certo Mureddu, di dargli una mano a trovare un direttore generale. Mureddu si rivolge a uno sopra di lui, che è Flavio Carboni e Flavio Carboni si rivolge a me. Hai capito?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E come abbiamo già raccontato, è proprio su Maria Elena Boschi che Ferramonti, lo scorso dicembre, prova a fare pressioni per accelerare la crisi del governo Conte.

GIORGIO MOTTOLA Mi hai detto l’altra volta al telefono che continui a essere in buoni rapporti con Maria Elena, cioè anche per questa crisi vi siete sentiti.

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Diciamo che con la Boschi ho una corrispondenza.

GIORGIO MOTTOLA Ma tu continui veramente a parlarci?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Ci scriviamo non ci parliamo.

GIORGIO MOTTOLA E la stai consigliando su questa fase?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Beh gli avevo dato una piccola notizia che se buttavano giù sto cretino di Conte, magari gli davamo una mano.

GIORGIO MOTTOLA Ma gli davate una mano chi voi?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Allora. Qui hai un rappresentante di Confimpresa; qui hai un rappresentante di Confimea, della Cifa. Insieme qualche milioncino di voti ce lo abbiamo, no? E se decidiamo di…

GIORGIO MOTTOLA Spostarli sulla Boschi?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Chi sarà al momento giusto al posto giusto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Report Maria Elena Boschi conferma di aver ricevuto i messaggi, ma precisa di non aver mai risposto. Le chat di Ferramonti risalgono a metà dicembre. In un’intervista al Fatto, il faccendiere ha spiegato che quei messaggi erano per Matteo Renzi, che pochi giorni prima aveva attaccato frontalmente il governo Conte di cui faceva parte.

DANILO PROCACCIANTI Le sono mai arrivati questi messaggi?

MATTERO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Chi è questo?

DANILO PROCACCIANTI L’ex leghista, frequentatore di massoni…

MATTERO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Io lo dico per rispetto a voi siete una trasmissione importante usate i soldi dello Stato. Spero che li usiate bene. Per piacere non perdete tempo dietro i fantasmi di cosa stiamo parlando. Qual è la domanda? conosci questo Ferramonti. Non conosco Ferramonti bene non so non so chi sia. Ho letto il commento di Maria Elena Boschi che dice che è incredibile che a uno che le manda i messaggi a cui lei non risponde. Su questo voi ci facciate una puntata.

DANILO PROCACCIANTI Una puntata? Insomma…

MATTERO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Quanto ci avete fatto?

DANILO PROCACCIANTI Ci abbiamo fatto un minuto. La puntata era su tutt’altro.

MATTERO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Un minuto. Un minuto ci avete fatto? avete speso un minuto dei soldi dei contribuenti per parlare di una persona di una cosa che non esiste.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In quel periodo Renzi attacca il Governo soprattutto su due fronti, uno è la gestione del Recovery Fund e l’altro è la delega governativa ai servizi segreti. T

G2 del 8/12/2020 MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Insistere su una misura che sostituisce il governo con una task force, che sostituisce la seduta del Parlamento con una diretta Facebook e che addirittura pretende di sostituire i servizi segreti con una fondazione privata voluta dal premier, significa una follia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il tema dell’autorità a cui affidare la delega governativa ai servizi segreti diventa dunque cruciale per la vita del Governo. Eppure nel 2016, quando Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni appoggiato dal PD di Renzi, il Premier aveva trattenuto per sé la delega.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA L'Autorità delegata è una cosa scandalosa che Conte non l'abbia fatto.

DANILO PROCACCIANTI Anche Gentiloni però.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Ma lei è il difensore di Conte o un giornalista?

DANILO PROCACCIANTI Io non so a quali giornalisti è abituato: facciamo le domande.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Le domande… le ho risposto.

DANILO PROCACCIANTI Se colgo una contraddizione, la dico.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA La contraddizione qual è? Le ripeto il concetto…

DANILO PROCACCIANTI E su Gentiloni a lei non l’abbiamo sentita parlare così tanto.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Non l’ha sentita perché non è stato attento. Gentiloni ha fatto una scelta diversa con il sottoscritto che era contrario. Lo scontro politico è diventato dopo due anni che Conte non la mollava. Perché Conte continuava a dire: “la mollo, la mollo, la mollo”. È diventata oggetto di scontro politico quando c’era una pervicacia nel tenere questa delega che non si spiega. Quando Conte ha scelto di tenersi la delega, ha fatto degli incontri un po’ strani a Palazzo Chigi nell’agosto del 2019 ha incontrato cioè i vertici inviati dal presidente Trump su una vicenda di spie abbastanza strane.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In ogni suo intervento la questione della delega ai servizi segreti viene sollevata con sempre maggiore enfasi.

L’ARIA CHE TIRA DEL 23/12/2020 MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Secondo me i servizi segreti devono essere guidati da un esperto tecnico che non è il presidente del Consiglio: quando c’era Berlusconi c’era Letta, quando c’era Monti c’era De Gennaro, quando c’era Renzi c’era Minniti. Tutti noi abbiamo sempre delegato, perché Conte accentra? Che c’ha? Bisogna che anche su questo ci siano dei segnali di novità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Matteo Renzi fa queste dichiarazioni il 23 dicembre del 2020, un giorno particolarmente fitto di appuntamenti per l’ex premier. Dopo la trasmissione infatti Renzi va al carcere di Rebibbia per fare visita a Denis Verdini, l’ex coordinatore di Forza Italia, che qui è recluso da novembre dopo la condanna per bancarotta. Dato conforto a Verdini, il leader di Italia Viva imbocca l’autostrada verso Firenze e fa tappa in questo autogrill a Nord di Roma, Fiano Romano, dove tiene un incontro riservato. Nessuno si accorge però che alla scena assiste anche una testimone, che si trova lì per caso. Dopo la puntata di Report del 12 aprile scorso ha inviato una mail alla nostra redazione.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa ha visto il 23 dicembre?

TESTIMONE Ho assistito a un incontro tra un personaggio a me sconosciuto con un politico, Matteo Renzi, il quale gli ha dato una pacca sulla spalla e poi si sono appartati a parlare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccole le immagini inedite di questo misterioso incontro girate con il telefonino dalla nostra testimone. Nella piazzola autostradale di Fiano Romano, Matteo Renzi parla appartato con uomo brizzolato e molto elegante.

TESTIMONE La persona con i capelli brizzolati era già presente sul luogo quando io sono arrivata e camminava avanti e indietro come in attesa di qualcuno.

GIORGIO MOTTOLA Perché ha ritenuto questo incontro a cui ha assistito tanto importante da dovercelo segnalare?

TESTIMONE Perché la persona con i capelli brizzolati mi aveva dato un po’ l’impressione che fosse un personaggio losco. Si aggirava come se stesse aspettando qualcuno e poi aveva queste altre due persone con lui come se fossero una sorta di scorta. Dico chissà chi è. Poi è arrivata l’Audi blu con i vetri oscurati dalla quale poi è uscito Renzi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo essere arrivato con la scorta nella piazzola autostradale deserta, Renzi si allontana con l’uomo brizzolato. Coperti dai rumori delle auto che sfrecciano in vicinanza, i due parlano per circa quaranta minuti.

GIORGIO MOTTOLA Li ha visti andar via?

TESTIMONE L’auto di Renzi ha proseguito prendendo l’autostrada in direzione di Firenze. E invece ha l’altra auto ha proseguito in direzione di Roma.

GIORGIO MOTTOLA Si sono detti qualcosa prima di salutarsi? TESTIMONE L’uomo brizzolato ha ricordato a Renzi che sapeva dove trovarlo, qualsiasi cosa…

GIORGIO MOTTOLA Era a disposizione.

TESTIMONE Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il misterioso uomo brizzolato che parla appartato con Renzi in realtà non si può certo definire losco: è uno 007 tra i protagonisti del servizio di Report del 12 aprile scorso. Si tratta infatti di Marco Mancini, ex agente del Sismi, come ci conferma un suo ex collega.

GIORGIO MOTTOLA Chi è quest’uomo che parla con Matteo Renzi?

EX AGENTE SISMI È Marco Mancini.

GIORGIO MOTTOLA Lei lo conosce bene?

EX AGENTE SISMI Sì, anche se mascherato direi proprio che è lui.

GIORGIO MOTTOLA È normale che un politico come Matteo Renzi incontri in una piazzola di sosta, in mezzo al nulla un alto dirigente dei servizi segreti come Marco Mancini?

EX AGENTE SISMI Può ingenerare un sospetto un incontro di questo genere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi Marco Mancini è un alto dirigente del Dis, il dipartimento dei servizi segreti che coordina e controlla le attività di Aisi e Aise.

DANILO PROCACCIANTI A noi risulta un suo incontro riservato con Marco Mancini all’autogrill. Diciamo come due amanti clandestini.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Mi fa ridere che lei dica “incontro riservato”, un incontro che è all’autogrill. Il fatto che lei mi dica che gli incontri degli amanti sono all’autogrill mi fa pensare che la sua amante non sia particolarmente fortunata.

DANILO PROCACCIANTI Non ho amanti.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Perché incontrarsi a Fiano Romano secondo me non è il massimo. Dopodiché le vorrei segnalare che, siccome voi state facendo riferimento a un video, sarebbe interessante sapere chi ve l'ha dato. Mi colpisce molto perché in realtà dovevo incontrare il dottor Mancini qui, come incontro altri dirigenti dello Stato, me ne ero dimenticato quando lui mi manda un messaggino e ho fatto “guardi dottore io sono già in macchina verso Firenze” e lui mi ha raggiunto all’autogrill. Quindi è molto strano che ci fosse proprio lì casualmente qualcuno a riprendere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Renzi fa riferimento al video girato a Fiano Romano. Ma fino a quel momento durante l’intervista non avevamo menzionato né la foto né il video che ci sono stati mandati. Come faceva Matteo Renzi, prima dell’intervista a sapere dell’esistenza della documentazione inviataci riservatamente?

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Quindi lei lo ha visto. Quindi qualcuno le ha dato un video interessantissimo. Magari diranno che è un caso un incontro, che era stato così un cittadino, un passante. Sa che alle barzellette non ci crede nessuno, ma son bellissime.

GIORGIO MOTTOLA Come mai si trovava in quella piazzola? TESTIMONE Perché mio padre si era sentito male un paio di cento metri prima e io mi sono fermata in quella piazzola di sosta per dar modo a mio padre di andare ai servizi igienici e io di andare al bar per prendere una camomilla a mio padre. Semplicemente per questo; quindi solo un caso fortuito al mille per mille.

GIORGIO MOTTOLA Perché lei ha deciso di scattare delle foto a Renzi e addirittura di girare un video?

TESTIMONE Mi è sembrato strano perché un personaggio pubblico incontra un’altra persona in un luogo così anonimo e appartato…

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Domandatevi perché avete quel video. Domandatevi soprattutto perché su tante questioni, forse la trasparenza che chiedete agli altri non sempre viene messa in atto.

DANILO PROCACCIANTI Però non mi ha detto cosa vi siete detti con Mancini.

MATTEO RENZI –LEADER ITALIA VIVA Come le ho detto dovevo vederlo qui. Mi doveva portare si figuri, i Babbi che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo vorace. Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l’autorità delegata?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando Mancini incontra Matteo Renzi il 23 dicembre 2020, c’erano ancora in ballo le nomine del governo Conte per i vicecapi dell’Aise e del Dis. E Mancini nutriva forti ambizioni.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Il dottor Mancini aveva un ottimo rapporto con il presidente Conte. Per cui se c’era qualcuno che poteva sponsorizzare o meno il dottor Mancini come altri, era il Presidente del Consiglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tre mesi prima dell’appuntamento riservato a Fiano Romano con Renzi, un ex collega di Mancini, Giuliano Tavaroli aveva reintensificato i rapporti con Cecilia Marogna, la donna di fiducia del cardinale Becciu, il potente ex sostituto della Segreteria di Stato.

GIORGIO MOTTOLA Da Becciu le viene chiesto di fare dossieraggio sostanzialmente.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Sì, chiamiamolo dossieraggio, sì. GIORGIO MOTTOLA Su figure interne al Vaticano; questi sono i suoi primi incarichi.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Anche sì. Dal discorso poi delle condotte amorali di alcuni alti prelati.

GIORGIO MOTTOLA Lei era un servizio segreto parallelo insomma.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Chiamiamolo così, in interazione con gli altri servizi segreti paralleli internazionali.

GIORGIO MOTTOLA Sembra un film spy complottista.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Sì, il discorso è questo, sì, esatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima di iniziare a collaborare con la Segreteria di Stato, Cecilia Marogna era molto addentro agli ambienti della massoneria italiana. Da giovanissima era entrata infatti nel direttivo del movimento Roosvelt, l’organizzazione politica fondata da Gioele Magalvi massone del Grande Oriente d’Italia e maestro venerabile. GIORGIO MOTTOLA Lei sembra molto vicina agli ambienti massonici.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Per deformazione professionale ovviamente sì. GIORGIO MOTTOLA Nel suo percorso ha anche conosciuto, frequentato Gianmario Ferramonti.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Gioele mi fece conoscere Gianmario Ferramonti, Flavio Carboni e anche il Pazienza proprio per… come tasselli, no?

GIORGIO MOTTOLA Un bel pantheon… Ferramonti e Pazienza…

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Beh, sì, sì. Qua in Italia sì poi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Cecilia Marogna il cardinale Becciu aveva affidato il delicato incarico di gestire i rapporti con i capi dei Servizi Segreti italiani. In particolare, con l’allora direttore dell’Aise, Luciano Carta, Marogna avvia una fitta corrispondenza nel 2018.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Queste sono le comunicazioni avvenute tra me, il generale e il suo uomo di fiducia.

GIORGIO MOTTOLA Il generale Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Esattamente. GIORGIO MOTTOLA Che cosa c’è in queste conversazioni?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Dei confronti e soprattutto una cooperazione che è durata per un lasso di tempo abbastanza importante.

GIORGIO MOTTOLA Addirittura, cooperazione? Lei ha cooperato con i servizi?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Sì, sì, esatto.

GIORGIO MOTTOLA In che tipo di operazioni?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Diversi tipi di operazioni relative a quelle che sono stati i casi di sequestro di persona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma da un certo momento in poi, Carta non si dimostra più molto disponibile e così Cecilia Marogna si rivolge a Giuliano Tavaroli per avere il contatto di un altro dirigente dei servizi segreti.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Volevo capire se un altro funzionario dei servizi avrebbe avuto perlomeno interesse…

GIORGIO MOTTOLA Chi è questo funzionario dei servizi?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Mancini. E da lì appunto rientrai in contatto con Tavaroli, che mi disse di farsi da portavoce con il Mancini.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cecilia Marogna cerca l’aiuto di Marco Mancini, l’agente segreto che Renzi incontra in autogrill. Ma la consulente di Becciu sembra finire al centro di una guerra tra vecchi e nuovi servizi.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI Mancini voleva i messaggi della Marogna che si era scambiata con Carta per fottere Carta perché lui voleva fare il vicesegretario ai servizi. Questo è il motivo per cui a un certo punto Tavaroli si occupa di questa cosa qua.

GIORGIO MOTTOLA Perché voleva prendere questi messaggi di Carta?

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI Della Marogna.

GIORGIO MOTTOLA Mai le è stata fatta qualche domanda sul suo rapporto con Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Sì, da parte di Tavaroli.

GIORGIO MOTTOLA Lei a un certo punto ha capito che c’era un’intenzione di danneggiare Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Sì, far fuori Carta.

GIORGIO MOTTOLA Le viene detto di far fuori Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Sì, perché disturbava. In un certo senso mi dicono tu devi, in senso figurato, devi essere la ghigliottina per Becciu, Bergoglio e poi il generale Carta.

GIORGIO MOTTOLA Questa allusione chi gliela fa? Tavaroli?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Tavaroli.

STUDIO QUATTRO MOTTOLA USCITA MAROGNA Tavaroli nega che questo sia accaduto. Tuttavia è un amico di Marco Mancini, lo 007 che Renzi incontra nell’autogrill, insieme hanno fatto parte del nucleo antiterrorismo di Milano al comando di Umberto Bonaventura, di colui che ha, che è entrato, ha violato il covo delle Brigate Rosse, quel covo dove è stato ritrovato il memoriale di Aldo Moro e, secondo alcuni, sono state anche asportate alcune parti. Ora Mancini è un ottimo agente segreto, è un po’ insofferente negli ultimi anni, vuole un posto di rilievo all’interno dei servizi segreti, chiede a Conte di essere nominato vicedirettore del Dis, viene presentato anche da altre persone, da altri membri del Governo, ma senza successo. Ora, il 23 dicembre del 2020 incontra Renzi in quell’autogrill, come abbiamo visto, anche Renzi ha il pallino dei servizi di sicurezza, nel 2016 aveva cercato di nominare il suo amico Marco Carrai come consulente per la cyber security e anche lì, senza successo, per via delle polemiche che sono poi state sollevate. Ma anche in questa vicenda della crisi di governo il tema dei servizi segreti era centrale, Renzi ha più volte battuto sulla vicenda della delega insieme al tema dei recovery fund e del Mes, delega che poi verrà risolta da Conte un mese dopo, il 22 gennaio, quando la mollerà. Ora, la questione però è questa: è normale che un leader di un partito e un agente segreto si incontrino ai margini di un autogrill? È per scambiarsi i babbi, i wafer di cui è tanto goloso Renzi? Hanno parlato per 40 minuti, che cosa si sono detti? Hanno parlato di sicurezza nazionale? Della questione mediorientale, dove Marco Mancini vanta vecchi e consolidati rapporti e dove Renzi si reca spesso? Oppure Mancini si è proposto in vista delle imminenti nomine della seconda tornata, ha chiesto a Renzi di sponsorizzarlo? Ecco, su questa domanda Renzi ha preferito glissare e ci ha ricordato che Mancini vantava ottimi rapporti con Conte però non ha voluto dirci se lui o qualcuna del suo governo l’abbiano poi di fatto sponsorizzato all’ex premier che non l’ha nominato, non sappiamo se per sua scelta o perché è scattato un veto sul nome di Mancini da parte di alcuni servizi segreti stranieri, la cui alleanza è strategica per il nostro Paese. Certo che il nome di Marco Mancini è un nome ingombrante per il suo passato che rende l’amicizia che ha con Tavaroli e con alcuni altri personaggi inossidabile nel tempo.

GIORGIO MOTTOLA Tavaroli prova a mettere le mani anche sulle chat che lei aveva con Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO VATICANA Mi fece incontrare un giornalista, Luca Fazzo, che non conoscevo. Una persona che comunque correttissima. Non mi chiese un’intervista. Non si presenta con nessun tipo di dispositivo di registrazione, si parla con Tavaroli preciso. E lui mi chiede se poteva fare, di poterla vedere e io gli dissi no per correttezza te la mostrerò solo nel momento in cui, eventualmente, ci fosse anche Carta di persona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Luca Fazzo è un cronista de Il Giornale, sospeso nel 2006 dall’Ordine dei giornalisti per i suoi rapporti anomali e distorti con l’agente Marco Mancini. Nel provvedimento gli viene contestata una sudditanza nei confronti del Sismi, culminata nella rivelazione al dirigente dei servizi di notizie riservate che riguardavano l’attività dei suoi colleghi. Durante l’inchiesta Abu Omar, l’imam rapito a Milano e torturato al Cairo perché sospettato di terrorismo, emerse che molti giornalisti italiani avevano rapporti altrettanto anomali con il Sismi.

ARMANDO SPATARO – PUBBLICO MINISTERO CASO ABU OMAR Sì è una pagina oserei dire vergognosa per la categoria dei giornalisti. È venuto fuori non un comprensibile ruolo tra il giornalista che cerca la notizia e l’appartenente al servizio, alle forze di polizia, ma è venuto fuori altro: una sorta di strategia in base alla quale chi nel Sismi si occupava dei rapporti con i giornalisti dava anche indicazioni ai giornalisti su quello che dovevano scrivere, in alcuni casi anche su quello che dovevano fare. Un giornalista è stato anche oggetto di un’accusa per favoreggiamento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il giornalista in questione è Renato Farina, allora vicedirettore di Libero, radiato dall’ordine dei giornalisti nel 2007 perché informatore a libro paga del Sismi con il nome in codice di Agente Betulla. Riammesso nell’ordine dei giornalisti, Renato Farina continua a scrivere su Libero e da mesi è protagonista di una campagna stampa in difesa del cardinale Becciu. Nei suoi articoli ha violentemente attaccato l’Espresso, che per primo ha dato la notizia dell’inchiesta sul porporato, e di recente ha rivolto i suoi strali contro Report dopo i nostri servizi sulla corruzione in Vaticano, bollandoli come falsi e calunniosi. Nel 2007 Renato Farina ha patteggiato una condanna per favoreggiamento del Sismi nel caso Abu Omar.

ARMANDO SPATARO – PUBBLICO MINISTERO CASO ABU OMAR Ci fu un giornalista incaricato di venire a intervistare me, ma con uno scopo esplicitato di capire quale erano i nostri orientamenti sulle responsabilità del Sismi. Avevamo intercettato anche queste istruzioni per cui il tentativo del giornalista fu francamente maldestro. Anzi suscitò persino qualche ilarità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È proprio Marco Mancini, l’agente segreto incontrato da Renzi, è stato uno dei protagonisti dello scandalo Abu Omar. Nel 2003 l’imam egiziano venne sequestrato in pieno giorno in una via del centro di Milano da alcuni agenti della CIA e trasferito di nascosto al Cairo dove venne torturato e interrogato per giorni.

ARMANDO SPATARO – PUBBLICO MINISTERO CASO ABU OMAR È un episodio molto particolare che non fa onore alla storia del nostro Paese. Da un lato perché conferma che anche pezzi di istituzioni del nostro Paese hanno in qualche modo sposato l’idea della war on terror americana, la teoria secondo cui per contrastare il terrorismo si può anche rapire e torturare un sospettato di terrorismo. E quella vicenda è anche lo specchio, la spia, di una sudditanza dell’Italia agli Stati Uniti. E questa sudditanza non è ammissibile in alcun modo quando si tratta di rispettare i diritti fondamentali delle persone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per le torture e il sequestro di Abu Omar sono stati rinviati a giudizio 26 agenti della Cia e 5 tra i più alti dirigenti del Sismi, tra cui il direttore Nicolò Pollari e Marco Mancini.

GIORGIO MOTTOLA Qual è stato il ruolo del Sismi nella vicenda Abu Omar?

ARMANDO SPATARO – PUBBLICO MINISTERO CASO ABU OMAR Il Sismi era stato coinvolto, informato di questa azione e quindi ha dato spazio ad agenti della Cia perché a Milano fosse rapito un egiziano per essere poi trasferito in Egitto dove è stato torturato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel processo di appello Nicolò Pollari viene condannato a 10 anni e Marco Mancini a 9 anni. Ma nei gradi successivi sono stati assolti perché tutti i governi che si sono succeduti, da Prodi nel 2006 a Renzi nel 2015, hanno opposto il segreto di Stato.

ARMANDO SPATARO – PUBBLICO MINISTERO CASO ABU OMAR La Corte europea dei diritti dell’uomo, il massimo organismo giurisdizionale europeo ha condannato il governo italiano a risarcire i danni per l’uso del segreto di Stato che in quella vicenda venne utilizzato per in qualche modo procurare l’impunità agli italiani.

DANILO PROCACCIANTI Lei lo ha rinnovato il segreto di stato?

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Guardi come tutti, viene rinnovato costantemente.

DANILO PROCACCIANTI Certo come tutti i presidenti.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Perché in questi casi non valgono le tue personali opinioni, vale un rispetto per le istituzioni.

DANILO PROCACCIANTI Era per dire che Marco Mancini qualche ombra nel suo passato ce l’ha.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Mi faccia finire…ma sapesse quante ombre ci sono nel passato di tutti

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le ombre di Mancini non si limitano al sequestro Abu Omar, pochi anni dopo infatti viene coinvolto con suo ex collega dell’Arma, Giuliano Tavaroli, nella più imponente operazione di spionaggio della storia recente. Quella della security di Telecom e Pirelli, di Marco Tronchetti Provera. Giuliani Tavaroli viene accusato di aver costituito dentro alla Telecom proprio con l’aiuto di Mancini una centrale che ha confezionato dossier illegali su circa 6mila persone tra imprenditori, politici, banchieri e giornalisti e uomini dello sport e dello spettacolo.

EX AGENTE SISMI Tornò in auge questo duo di operativi diciamo così.

GIORGIO MOTTOLA Tavaroli e Mancini?

EX AGENTE SISMI Tavaroli e Mancini, accusato di spalleggiare diciamo così l’attività illecita informativa operata da Tavaroli a favore di Pirelli.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca Mancini era già molto potente dentro i servizi?

EX AGENTE SISMI Sicuramente, dirigeva la prima divisione all’epoca era una divisione potente perché gestiva i centri all’interno del territorio nazionale e si occupava di terrorismo, controspionaggio e criminalità organizzata transnazionale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la vicenda dello spionaggio Telecom si intreccia anche con il rapimento di Abu Omar, in quegli anni infatti si suicida misteriosamente il capo della security Tim Adamo Bove che aveva fornito alla Digos i numeri delle 26 utenze degli agenti CIA e degli 007 italiani coinvolti nel rapimento. Inoltre Bove aveva permesso di intercettare l’alto dirigente del Sismi Marco Mancini il quale aveva a disposizione anche una utenza intestata al gruppo Pirelli. Proprio da quel numero sono state prenotate le stanze all’hotel Principe di Savoia a Milano in cui hanno dormito gli 007 italiani e americani coinvolti nel sequestro. L’utenza da cui sono partite le telefonate per il Principe di Savoia era intestata a Tiziano Casali, l’uomo addetto alla sicurezza personale di Marco Tronchetti Provera.

TIZIANO CASALI - EX ADDETTO SICUREZZA MARCO TRONCHETTI PROVERA Non posso confermare nulla perché ho risposto nelle opportune sedi per cui… Cosa aggiungere a quello che è stato abbondantemente scritto? Tra l’altro, per cui insomma… Non posso dirle nulla, non confermo né smentisco nulla.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E alla fine se per il dossieraggio in Telecom Giuliano Tavaroli patteggia una condanna a 4 anni e mezzo, Mancini invece beneficerà per la seconda volta del segreto di Stato e sarà prosciolto dalle accuse. Le inchieste giudiziarie non sembrano scalfire la carriera dell’agente segreto, anzi.

GIORGIO MOTTOLA Che cos’è successo a Mancini dopo il processo Abu Omar? EX AGENTE SISMI È stato promosso. Già aveva un alto livello dirigenziale, è stato promosso a un livello equivalente a dirigente generale.

GIORGIO MOTTOLA Che rapporti coltiva Mancini con la politica? EX AGENTE SISMI È fatto noto che frequenta molti politici dei più diversi schieramenti.

GIORGIO MOTTOLA Ha ancora grosse ambizioni di carriera?

EX AGENTE SISMI Si è parlato di lui come vicedirettore dell’Aise e queste sembravano essere le sue aspirazioni. E poi a un certo punto sembrava di capire che ci potesse essere per lui una promozione a vicedirettore del Dis.

DANILO PROCACCIANTI Questo ce lo può garantire che né lei né nessuno del suo partito abbia sponsorizzato Mancini?

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Il dottor Mancini aveva un ottimo rapporto con il presidente, professor Conte, per cui se vuole sapere la vicenda delle nomine la deve parlare, ne deve parlare con il professor Conte per un motivo molto semplice, che io sulle nomine dei servizi non ho mai messo bocca da un giorno specifico: che è il giorno 4 dicembre 2016, quando ho perso il referendum, mi sono dimesso qualche giorno dopo, il tempo di approvare la legge di bilancio, poi io non ho più messo bocca sulle nomine dei servizi segreti. Sa perché? Perché c’è una legge in Italia che chi decide il presidente del Consiglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Matteo Renzi sostiene di non aver messo più bocca sulle nomine dei servizi ma come documenta il video continua a intrattenere rapporti con alti dirigenti dei Servizi come Marco Mancini.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Qui c'erano due persone seguite. O ero io o era Mancini. E queste video casualmente finisce a Report. Altro che preoccuparsi degli scandali su cui sarà comunque un'interrogazione parlamentare a chiarire se ci sono stati dei soldi della Rai a Lussemburgo o no perché naturalmente se c'è una fattura. Lei lo sa. Basta che si chieda al Mef e il Mef lo deve dire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Renzi può star tranquillo, abbiamo fatto tutte le verifiche necessarie sulla provenienza di quel materiale. Può stare anche tranquillo, non troverà alcun bonifico fatto da Report in Lussemburgo. Ecco, però, insomma, non siamo certo delle verginelle e immaginiamo che Renzi non sia l’unico politico che incontri di nascosto agenti dei servizi segreti. Solo che a lui e a Marco Mancini, insomma, ha detto un po’ male, sono stati un po’ sfortunati, hanno trovato in quell’autogrill una cittadina, e sottolineo, una cittadina semplicemente curiosa che ha scattato delle fotografie. Ma siccome non siamo delle verginelle sappiamo anche che non tutti gli incontri tra i politici e i servizi segreti sono lastricati di buone intenzioni o finalizzati a scambiarsi dei babbi pieni di crema. Insomma, Renzi è un uomo non solo di una parte politica, ma per il ruolo che ha avuto e per lo spessore internazionale rappresenta un’istituzione. Ecco, con noi sui contenuti di quell’incontro non ha voluto parlare. È legittimo, potrebbe però farlo in un’altra sede: cosa pensa, per esempio, il Copasir delle modalità con cui è avvenuto quell’incontro? La questione di trasparenza del potere. Diceva Norberto Bobbio che quando non hai ben chiaro quello che hai davanti sei legittimato a sospettare che ci sia qualcosa di dietro. Insomma, i nomi che abbiamo incrociato nel corso della nostra inchiesta appartengono a una rete che pensavamo sinceramente non esistesse più a partire da quello di Giuliano Tavaroli. E poi anche il giornalista Luca Fazzo, che chiede alla Marogna le chat con il generale Carta, il capo dei servizi segreti nominato da Conte. Poi è spuntato anche la fonte Betulla, Renato Farina, che ha continuato a scrivere in questi ultimi giorni proprio contro Report per difendere le posizioni del cardinale Becciu, il cardinale che avrebbe creato una sorta di servizio segreto parallelo mettendosi a fianco la Marogna. Ecco, questa è una rete legata a Marco Mancini, numero due del Sismi, il Sismi di Nicolò Pollari, capo dei Servizi Segreti tra il 2001 e il 2006. Anche lui coinvolto nel rapimento di Abu Omar, e proprio durante le indagini su quel rapimento il magistrato Armando Spataro scopre in via Nazionale 230 un covo, un ufficio, dove dentro c’era un impiegato, Pio Pompa, che rispondeva direttamente a Pollari che aveva messo in piedi una piccola centrale di spionaggio, aveva raccolto informazioni su magistrati, giornalisti, imprenditori, sindacalisti. Aveva anche stilato un piano per prevenire gli attacchi da parte dei magistrati a Berlusconi. Ecco, insomma, in questi giorni sembra di respirare la stessa aria, spuntano dossier nei confronti di politici, di magistrati, di giornalisti. Uno che gira, falso, è anche su di noi. Speriamo di averlo intercettato in tempo. E a proposito della macchina del fango vediamo quella che è stata messa in piedi contro i magistrati che avevano condannato Berlusconi nel 2013, lo faremo attraverso interviste, documenti e soprattutto brani inediti di una registrazione che contiene la voce di uno di quei magistrati che avevano condannato Berlusconi.

L'incontro con il dirigente del Dis Marco Mancini. Esposto di Renzi contro Report: ecco il documento depositato alla Procura di Firenze. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Come anticipato da Il Riformista, oggi il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, e il suo avvocato Lorenzo Pellegrini, hanno consegnato alla Digos di Firenze l’esposto-denuncia sul colloquio da lui avuto con il dirigente del Dis Marco Mancini nell’autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020, episodio di cui ha dato conto la trasmissione Report. Nell’esposto – di cinque pagine, che alleghiamo integralmente – si ipotizza che lo stesso Renzi sia stato seguito e intercettato. La circostanza che la ripresa video sia stata girata fortuitamente da una professoressa di passaggio, in sosta nella stazione di servizio, la quale poi l’abbia inviata alla redazione di Report, è un racconto che per Renzi e il suo legale appare “alquanto contraddittorio”, invece “è possibile che Matteo Renzi sia stato seguito e/o che qualcuno abbia violato la Costituzione e la Legge intercettando e riprendendo in modo illegittimo un parlamentare”. Più che una ripresa fortuita, si legge, “una vicenda accuratamente orchestrata”. Nella denuncia Renzi si dice non convinto che sia stato possibile captare parole sue e di Mancini a distanza solo con un finestrino dell’auto, della professoressa, tenuto abbassato, anche perché il personale delle scorte di entrambi non avrebbero notato “alcun mezzo privato fermo per 40 minuti” nei pressi del colloquio. “Con quale mezzo”, riporta la denuncia, sarebbe stata ascoltata la conversazione? Per il leader di Iv le “circostanze potrebbero essere verificate agevolmente dall’autorità giudiziaria attraverso acquisizione ed analisi delle video riprese del 23 dicembre 2020 nell’autogrill” e pure “del video e delle foto girato dalla donna per capire se vi siano state manipolazioni o alterazioni che risultano possibili da una prima analisi superficiale”. “I mezzi con cui la captazione è avvenuta – ancora l’esposto – destano preoccupazione non solo per il senatore Matteo Renzi ma per un’attività illecita condotta ai danni di un membro del Parlamento e dunque in violazione della Costituzione”.

Caso Report, Matteo Renzi querela gli "ignoti" che hanno filmato l'incontro con lo 007 a Fiano Romano. I legali dell'ex premier hanno presentato al Tribunale di Roma la richiesta di sequestrare tutto il materiale usato dalla trasmissione e gli strumenti tecnologici della testimone oculare. Per gli avvocati è possibile un complotto e che "qualcuno abbia violato la Costituzione e la legge intercettando e riprendendo in modo illegittimo un parlamentare della Repubblica". La Repubblica l'8 maggio 2021. Matteo Renzi ha presentato al Tribunale di Roma una denuncia/querela contro ignoti per le immagini trasmesse da Report, il programma di RaiTre, del suo incontro nell'area di sosta di Fiano Romano con il dirigente dei Servizi segreti Marco Mancini. L'ex premier chiede di accertare cosa è accaduto, anche attraverso il sequestro del materiale in possesso della redazione di Report e della donna che ha filmato il colloquio. Nell'esposto si premette che "se non vi è dubbio che Matteo Renzi e Marco Mancini si siano incontrati nell'autogrill di Fiano Romano, altrettanto indubbio è il fatto che il racconto della donna (la professoressa che avrebbe fornito il video a Report, ndr) appaia alquanto contraddittorio". Inoltre, si chiede se il leader di Iv non sia stato seguito e intercettato in modo illegittimo: "È possibile che Matteo Renzi sia stato seguito e/o che qualcuno abbia violato la Costituzione e la legge intercettando e riprendendo in modo illegittimo un parlamentare della Repubblica". "Le immagini mandate in onda da 'Report' e il contraddittorio racconto della sedicente autrice - si legge nella denuncia - di tali riprese potrebbero rivelare dunque un fatto che costituisce grave violazione dei diritti di Matteo Renzi e segnatamente della sua riservatezza nonché libertà e segretezza delle conversazioni ed incontri". In particolare, i legali di Renzi, scrivono che "questa considerazione risulta più che evidente dalle assurdità e patenti contraddittorietà del racconto della testimone e dall'analisi attenta del servizio andato in onda, oltre che dalle dichiarazioni successive rese dal conduttore Ranucci sui social e sui media". "Tali circostanze, è il caso di metterlo in evidenza fin da subito - viene sottolineato - potrebbero essere agevolmente verificate da parte dell'autorità giudiziaria attraverso l'acquisizione ed analisi delle videoriprese del giorno 23 dicembre 2020 dell'autogrill di Fiano Romano, del video e delle foto girate dalla donna per capirne, attraverso l'analisi tecnica, se vi siano state manipolazioni o alterazioni che risultano possibile da una prima analisi superficiale. Alla luce di tali rilievi - si legge ancora- l'episodio potrebbe non essere una fortuita ripresa da parte di una cittadina qualunque quanto piuttosto una vicenda accuratamente orchestrata". Per questo si chiede anche di "sequestrare e acquisire i video e le foto girate dalla donna (la cui identità è d'accertarsi)". Renzi vuole, infatti capire, "attraverso l'analisi tecnica se vi sono state manipolazioni, alterazioni e provenienza". L'ex premier, chiede anche di accedere "all'ulteriore materiale informatico nella sua disponibilità - in particolare il cellulare, i computer, la corrispondenza telematica (email e messaggistica WhatsApp) e gli altri sistemi informatici".

Francesco Curridori per ilgiornale.it l'8 maggio 2021. Matteo Renzi denuncia Report per il servizio andato in onda il 3 maggio scorso dal titolo Babbi e spie in cui sono state mandate in onda le immagini di un incontro che il leader di Italia Viva ha avuto con Marco Mancini, agente dei servizi segreti. Secondo il senatore di Scandicci, la sua libertà e la sua riservatezza sarebbero state violate con riprese illegittime. Sono molte le incongruenze nella versione della professoressa che ha filmato il famoso incontro tra Renzi e Mancini, avvenuto nella piazzola di un autogrill di Fiano Romano lo scorso 23 dicembre, nei giorni caldi della crisi del governo Conte. Secondo la difesa di Renzi, la versione della fonte di Report non reggerebbe e sarebbe alquanto contradditorio, soprattutto quando l'insegnante racconta il momento in cui Renzi e Mancini si sono salutati e allontanati dalla famosa piazzola. Nella denuncia si afferma che "è possibile che Renzi sia stato seguito e/o che qualcuno abbia violato la Costituzione e la legge intercettando e riprendendo in modo illegittimo un parlamentare della Repubblica". Si parla di una "grave violazione dei diritti del senatore e della sua riservatezza, nonché della libertà e segretezza delle conversazioni e incontri". Alla trasmissione Report viene contestata la violazione degli articoli 617 bis e 323 del codice penale. Renzi, in base al primo articolo, ritiene di essere stato intercettato e pedinato. Il tutto aggravato dal fatto che il leader di Italia Viva è un senatore e, in quanto tale, protetto dall’articolo 68 della Costituzione. Il secondo articolo, invece, riguarda il possibile abuso d’ufficio dei pubblici ufficiali che avrebbero intercettato Renzi, se fosse dimostrato che l’insegnante non si trovasse all’autogrill per un semplice caso fortuito. Pertanto Renzi chiede che vengano sequestrate le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza del piazzale dell'autogrill di Fiano Romano, i video e le foto scattate dall'insegnante al fine di capire "se vi siano state manipolazioni o alterazioni". Ma non solo. Il leader di Italia Viva chiede che siano perquisiti non solo il servizio mandato in onda da Report, ma anche il telefonino e il computer dell'insegnante così da verificare anche la sua corrispondenza. Il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, ieri, parlando di quel video, ha chiarito che "il filmato non è di 40 minuti come scrive Renzi, ma dura circa 20 secondi, almeno quello che lei ci ha dato: 40 minuti è la durata del colloquio di Renzi con Mancini, come si può ricavare dagli orari in cui la signora ha scattato le prime e le ultime foto. Filmato che, tra l'altro, lei non ha dato subito a noi ma a un giornale, nella serata del 31 dicembre, dunque pochi giorni dopo il fatto. E non è vero che aveva riconosciuto Mancini, ma inizia a riprendere dal momento in cui arriva Renzi: non conosceva il volto dell'uomo dei servizi segreti, ha solo notato la presenza di una scorta, si è incuriosita e all'arrivo di Renzi li ha fotografati e poi ripresi". Ranucci ha aggiunto che "l'insegnante si è detta disponibilissima a incontrare Renzi personalmente, ovviamente lontano dalle telecamere. Noi, sicuramente torneremo nella puntata di lunedì prossimo sull'argomento".

Da repubblica.it l'11 maggio 2021. "Ho assistito a un incontro tra Matteo Renzi e un uomo che non ho riconosciuto, ma del quale ho appreso l'identità dal vostro servizio". Inizia così il racconto a Report su Rai3 dell'insegnante che il 23 dicembre scorso ha ripreso con il suo cellulare l'incontro nel parcheggio di un Autogrill di Fiano Romano tra il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, e il dirigente del Dis, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, Marco Mancini. Un filmato che nei giorni scorsi ha suscitato le proteste di molti esponenti di partito, che al leader di Iv hanno chiesto il perchè di quell'incontro.  Renzi ha presentato querela contro "gli ignoti" che hanno girato il filmato. A Report la donna, che ha voluto restare anonima, stasera ha raccontato: "Mi sembrava strano che un senatore della Repubblica Italiana si vedesse con una persona che già lo attendeva accompagnata da altre due di scorta in un'area appartata di un Autogrill". La testimone ha spiegato di essersi fermata in quella piazzola Fiano Romano per permettere al padre malato di andare al bagno. Renzi, che nei giorni scorsi ha più volte messo in dubbio l'esistenza della testimone, tra le domande  poste ha chiesto come fosse possibile che il cellulare avesse potuto riprendere 40 minuti di incontro senza scaricarsi. "Non ho ripreso tutti e 40 minuti, il video dura 28 secondi", ha replicato la testimone. Poi, il passaggio più delicato dell'intervista a Rai3. La testimone ha infatti spiegato di aver sentito "l'uomo brizzolato" (Mancini ndr) congedarsi dall'ex premier dicendogli che sarebbe rimasto "a disposizione". "Li ho sentiti - ha detto la donna - perché si sono avvicinati alle auto, e quindi alla mia, e avevo il finestrino leggermente aperto". Renzi ha più volte domandato come mai quel video sia stato diffuso quattro mesi dopo la data della ripresa. Una scelta che l'autrice imputa ai mezzi di informazione: "Io - dice l'insegnante - ho inviato il filmato il 31 dicembre, alle 11, alla redazione web di un quotidiano nazionale. A quella mail non ho mai ricevuto risposta".

Report, parla la testimone dell'incontro Renzi-Mancini. Adnkronos il 10 maggio 2021.La donna il 23 dicembre scorso ha ripreso con il suo cellulare il leader di Italia Viva e il dirigente del Dis. Matteo Renzi e il 'caso Autogrill', parla a Report la testimone. "Ho assistito a un incontro tra Matteo Renzi e un uomo che non ho riconosciuto, ma del quale ho appreso l'identità dal vostro servizio. Mi sembrava strano che un senatore della Repubblica Italiana si vedesse con una persona che già lo attendeva accompagnata da altre due di scorta in un'area appartata di un autogrill", spiega l'insegnante che il 23 dicembre scorso ha ripreso con il suo cellulare l'incontro tra il leader di Italia Viva, di ritorno dal carcere di Rebibbia dove era andato a fare visita a Denis Verdini, e il dirigente del Dis, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, Marco Mancini. La donna quel giorno ha raccontato di essersi fermata in quello stesso autogrill a Fiano Romano (di cui il senatore ha presentato un esposto per acquisire le immagini delle telecamere) per permettere al padre, costretto - dice lui stesso a Report - ad assumere farmaci "abbastanza potenti" diuretici, di andare al bagno. Renzi, che ha più volte messo in dubbio l'esistenza della testimone, tra le domande provocatoriamente poste ha chiesto come fosse possibile che il cellulare avesse potuto riprendere 40 minuti di incontro senza scaricarsi. "Non ho ripreso tutti e 40 minuti, il video dura 28 secondi" ribatte pronta la donna, rimasta a poca distanza dai due fino a quando entrambi sono risaliti nelle rispettive macchine. Renzi in direzione di Firenze "lo so perché ci ha superato al casello di Roma Nord, mentre non ho più incrociato l'auto del suo interlocutore, pur non andando a velocità sostenuta" dice ancora la donna. Ancora lei, a Report, spiega di esser riuscita a sentire "l'uomo brizzolato" congedarsi da Renzi dicendogli che sarebbe rimasto "a disposizione". "Li ho sentiti perché si sono avvicinati alle auto, e quindi alla mia, e avevo il finestrino leggermente aperto", chiarisce ancora l'insegnante. Renzi si chiede come mai quel video sia stato fatto uscire quattro mesi dopo. "Ma io ho inviato il filmato il 31 dicembre, alle 11, alla redazione web di un quotidiano nazionale. A quella mail non ho mai ricevuto risposta", ribatte la diretta interessata. "Non ho mai avuto rapporti professionali ed economici di sorta con alcuna azienda lussemburghese, ivi compresa la casa di produzione Tarantola. Non sono mai stato fonte remunerata di alcuna trasmissione radiotelevisiva e nel caso di Report, pur essendo stato contattato da Danilo Procaccianti in occasione dell’inchiesta su Alitalia e Piaggio dello scorso novembre, ho preferito non fornire informazioni né intervenire". Lo scrive Francesco Maria Tuccillo in un messaggio fatto pervenire alla redazione di Report e pubblicato dalla trasmissione su twitter, dopo che in un'interrogazione parlamentare firmata dal deputato di Italia Viva Luciano Nobili lo si menziona come ipotetica fonte del servizio "Allacciate le cinture", fonte 'coperta' che sarebbe stata retribuita con una fattura da 45mila euro che sarebbe stata pagata dalla Rai a una società lussemburghese, la Tarantula. L'ex manager di Finmeccanica e Piaggio Aerospace smentisce però qualunque coinvolgimento nella lettera inviata a Sigfrido Ranucci.

Renzi e gli 007, Gomez: “Nessun complotto. La segnalazione dell’incontro tra il leader di Iv e Mancini arrivò anche alla nostra redazione”. Da ilfattoquotidiano.it l'11 maggio 2021. Matteo Renzi, insieme al dirigente del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), Marco Mancini, impegnato per più di 40 minuti in una conversazione nella piazzola dell’autogrill di Fiano Romano, il 23 di dicembre del 2020. La puntata di Report di lunedì scorso, che ha mostrato il leader di Italia viva in compagnia dell’agente segreto, ha scosso la politica e parte dell’opinione pubblica, tanto che la vicenda è finita al Copasir e il partito guidato dall’ex segretario del Pd ha tirato in ballo un presunto “complotto”, annunciando di voler presentare un esposto in Procura per acquisire le immagini di videosorveglianza della stazione di servizio. Ma il direttore de ilFattoQuotidiano.it, Peter Gomez, in diretta per commentare quanto accaduto, ha respinto la ricostruzione del senatore di Rignano: “La signora che ha denunciato l’incontro tra i due si è detta disponibile a un confronto con Renzi. Il che fa cadere l’ipotesi del complotto. In più, quella segnalazione arrivò alla nostra redazione il 31 di dicembre”.

Report, Luciano Nobili attacca: "Per loro le interrogazioni sono intimidazioni", il video con cui smaschera la trasmissione di Ranucci. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. Tra Report e Italia Viva lo scontro è più che mai aperto. Nella puntata della prossima settimana Matteo Renzi dovrebbe essere ospite in studio di Sigfrido Ranucci, ma intanto la trasmissione di Rai 3 continua a essere nel mirino dei parlamentari renziani. E in particolare di Luciano Nobili, che ha denunciato il fatto di essere stato avvicinato da un inviato di Report, secondo cui sarebbe una intimidazione l’interrogazione parlamentare presentata per sapere se la trasmissione ha usato soldi pubblici per lo scoop sull’incontro tra Renzi e uno 007 italiano avvenuto in autogrill lo scorso dicembre. “Giovedì mattina alla Camera - ha raccontato Nobili - mi sono trovato davanti una troupe di Report che voleva, con il consueto stile aggressivo, parlare con me dell’interrogazione che ho depositato e delle legittime domande che ho rivolto alla Rai e per le quali sono in attesa di risposta. Chiedere spiegazioni su come la tv pubblica spende i soldi del contribuente per me non è un diritto, ma un dovere per un parlamentare. Per questo non comprendo il nervosismo di Report”. Inoltre il parlamentare renziano ha annunciato la pubblicazione dell’intervista ufficiale, “consapevole che quello che andrà in onda sarà il consueto taglia e cuci con montaggio creativo”. Tanto che Italia Viva ha diffuso un video non tagliato dell'intervista, che potete vedere qui in calce. Tra l’altro l’inviato di Report ha definito “intimidazione” l’interrogazione parlamentare: “Con me nascano male. Sono io che non mi farò intimidire. Il sindacato ispettivo è una prerogativa parlamentare a tutela dei cittadini: attaccarlo significa attaccare la democrazia parlamentare. Come Matteo Renzi ha risposto per un’ora ai giornalisti di Report, come io ho risposto alle loro domande per tutto il tempo che hanno voluto, chiedo semplicemente che questa volta - ha chiosato Nobili - sia la Rai a rispondere alle mie”. "Continueremo a trattare il tema". Ranucci da Fazio non molla Renzi. "Report parlerà ancora dell'incontro con Mancini"

Il deputato di Italia Viva: "È un dovere sapere come la Rai spende i soldi degli italiani". Report contro Nobili: “Interrogazione sulla fattura è una intimidazione”. Il deputato IV: “Cosa fa la Rai con i soldi degli italiani?” Redazione su Il Riformista il 10 Maggio 2021.

Giorgio Mottola di Report intervista Luciano Nobili sulla vicenda della presunta fattura da 45mila euro e dell’interrogazione parlamentare che il deputato di Italia Viva ha presentato per fare chiarezza sulla vicenda. La trasmissione di Sigfrido Ranucci, che stasera mostrerà l’intervista a Nobili, ha pubblicato sul suo sito il video integrale, di 23 minuti dell’intervista al deputato di Italia Viva. Nobili dice: “Un’interrogazione è una domanda, a volte si fanno anche per escludere certe cose. Io e Italia Viva crediamo tantissimo nel giornalismo libero. La Rai è stata protagonista di censura con Fedez noi siamo per il giornalismo libero. Abbiamo chiesto alla Rai, perché ti sei rivolto a un fornitore esterno se hai tante professionalità interne?”. Il giornalista di Report poi parla di intimidazione: “Si rende conto che lei è uscito con una interrogazione parlamentare su un dossier falso? Questa fattura non esiste”. Nobili dice: “Fare una interrogazione parlamentare è una cosa molto grave poiché farla è una prerogativa di libertà di un parlamentare della Repubblica, un mio diritto e io non me lo faccio conculcare da una trasmissione televisiva. E’ un mio diritto sapere cosa fa la Rai con i soldi degli italiani, e lei ha definito la mia interrogazione una intimidazione. Lei si rende conto cosa sta dicendo? Io difendo i giornalisti dall’intimidazione”. Mottola chiede: “Mi mostra la fattura? Mi fa vedere la fattura? Da dove ha ricavato queste informazioni? Lei fa riferimento a una fonte che abbiamo consultato (Tuccillo) e che noi non abbiamo rivelato”. Nobili prova a spiegare: “Una interrogazione parlamentare è una tutela della libertà. Io voglio sapere la Rai come spende i suoi soldi. La Rai può rispondermi dicendo che c’era una fattura pagata a Tarantola oppure che non c’è. Nel primo caso continuerò a fare domande e perché c’è questo pagamento. Nel secondo caso sono più leggero perché Report ha fatto un servizio indegno ma almeno senza far spendere altri soldi agli italiani”. Per gli autogrillini di Report le interrogazioni sono intimidazioni.

La polpetta avvelenata. Report Rai PUNTATA DEL 10/05/2021 di Danilo Procaccianti, Giorgio Mottola. Matteo Renzi ha presentato una denuncia con istanza di perquisizione nella redazione di Report per acquisire la documentazione relativa alle immagini che documentano l'incontro tra il leader di Italia Viva e l'agente dei servizi segreti Marco Mancini. Nella newsletter settimanale ha poi sollevato dubbi riguardo il racconto della testimone presente al momento dell'incontro. Con una seconda intervista all'insegnante, Report ritornerà a parlare della vicenda. Verranno poi sentiti i protagonisti al centro di un dossier con email e fatture false, secondo cui il programma avrebbe pagato 45 mila euro a una società lussemburghese per una fonte.

“LA POLPETTA AVVELENATA” di Danilo Procaccianti e Giorgio Mottola collaborazione Eleonora Zocca e Norma Ferrara immagini Cristiano Forti immagini Chiara D’Ambros – Matteo Delbò montaggio e grafica Monica Cesarani

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Oggi sono rimasti ancora sconosciuti i colloqui di quell’incontro che abbiamo mostrato lunedì scorso, che ritraeva Matteo Renzi e un agente segreto Marco Mancini, il 23 dicembre appartati ai margini di una stazione di servizio. Si stava per aprire una crisi di governo e a riprenderli è stato il telefonino di una insegnante che si era fermata perché il padre aveva avuto un malore.

L’ARIA CHE TIRA DEL 23/12/2020 MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Secondo me i servizi segreti devono essere guidati da un esperto tecnico che non è il presidente del Consiglio: quando c’era Berlusconi, c’era Letta; quando c’era Monti, c’era De Gennaro; quando c’era Renzi, c’era Minniti. Cioè, tutti noi abbiamo sempre delegato, perché Conte accentra? Che c’ha? Bisogna che anche su questo ci siano dei segnali di novità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Matteo Renzi fa queste dichiarazioni il 23 dicembre del 2020, un giorno particolarmente fitto di appuntamenti per l’ex premier. Dopo la trasmissione infatti Renzi va al carcere di Rebibbia per fare visita a Denis Verdini, l’ex coordinatore di Forza Italia, che qui è recluso da novembre, dopo la condanna per bancarotta. Dato conforto a Verdini, il leader di Italia Viva imbocca l’autostrada verso Firenze e fa tappa in questo autogrill a Nord di Roma, Fiano Romano, dove tiene un incontro riservato. Nessuno si accorge, però, che alla scena assiste anche una testimone, che si trova lì per caso. Dopo la puntata di Report del 12 aprile scorso ha inviato una mail alla nostra redazione.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa ha visto il 23 dicembre?

TESTIMONE Ho assistito all’incontro tra un personaggio a me sconosciuto con un politico, Matteo Renzi, il quale gli ha dato una pacca sulla spalla e poi si sono appartati a parlare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il misterioso uomo brizzolato con cui parla Renzi è Marco Mancini, un importante 007 italiano, oggi alto dirigente del Dis, il dipartimento dei Servizi segreti che coordina le attività di AISI e di AISE.

DANILO PROCACCIANTI A noi risulta un suo incontro riservato con Marco Mancini all’autogrill. Diciamo come due amanti clandestini.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Mi fa ridere che lei dica “incontro riservato”, un incontro che è all’autogrill. Il fatto che lei mi dica che gli incontri degli amanti sono all’autogrill mi fa pensare che la sua amante non sia particolarmente fortunata.

DANILO PROCACCIANTI Non ho amanti.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Perché incontrarsi a Fiano Romano secondo me non è il massimo. Dopodiché le vorrei segnalare che, siccome voi state facendo riferimento a un video, sarebbe interessante sapere chi ve l'ha dato. Mi colpisce molto perché in realtà dovevo incontrare il dottor Mancini qui, come incontro altri dirigenti dello Stato, me ne ero dimenticato quando lui mi manda un messaggino e ho fatto “guardi, dottore, io sono già in macchina verso Firenze” e lui mi ha raggiunto all’autogrill. Quindi è molto strano che ci fosse proprio lì casualmente qualcuno a riprendere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Renzi fa riferimento al video girato a Fiano Romano. Ma fino a quel momento durante l’intervista non avevamo menzionato né la foto né il video che ci sono stati mandati. Come faceva Matteo Renzi prima dell’intervista a sapere dell’esistenza della documentazione inviataci riservatamente.  

DANILO PROCACCIANTI Però non mi ha detto cosa vi siete detti con Mancini.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Come le ho detto, dovevo vederlo qui. Mi doveva portare, si figuri, i babbi che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo molto vorace. Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l’autorità delegata?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Noi certo non pensiamo a un complotto per far cadere il governo. Ci siamo posti esclusivamente delle domande. Come mai un politico incontra un agente dei servizi di sicurezza ai margini di un autogrill? È per scambiare i babbi come dice Renzi o per scambiare delle informazioni? Ecco, magari sul medio Oriente dove Mancini vanta ancora dei solidi rapporti per la sua passata esperienza e dove Renzi si reca spesso. Oppure sono, si scambiano informazioni sulla sicurezza del paese? O Mancini magari chiede una sponsorizzazione a Renzi in vista delle future nomine ai vice dell’Aise e del Dis? Ecco su questa domanda in particolare se lui o qualcuno del suo partito avesse ricordato a Conte il nome di Mancini tra i possibili candidati vice direttori, ecco, lui glissa e dice, guardate che Conte che con lui ha ottimi rapporti vero, ma sta di fatto che Conte poi non lo nomina. Non sappiamo se per una sua scelta o perché sul nome di Mancini è scattato il veto di alcuni servizi di sicurezza di Paesi stranieri che sono strategici nell’alleanza col nostro Paese. Perché Mancini è un bravo agente ma sul suo passato pesano delle ombre. C’è stato il coinvolgimento del dossieraggio Telecom con Tavaroli, coinvolgimento col rapimento di Abu Omar dove è anche emersa una centrale di dossieraggio, invece dei rapporti incestuosi e promiscui con alcuni giornalisti che erano al servizio del Sismi. Ora noi sappiamo benissimo che Renzi non è il primo politico che incontra segretamente un agente dell’intelligence, e sappiamo anche che le finalità non sono… non sempre sono lastricate di buone intenzioni. Proprio per questo, per una gestione trasparente del potere, abbiamo chiesto a Renzi quale fosse la natura dei suoi colloqui. Lui legittimamente non ha risposto, ma le stesse domande questa volta una settimana dopo la nostra trasmissione, se l’è poste il Copasir, l’Organismo Parlamentare di Controllo sui servizi che ha convocato per la prossima settimana Vecchione, capo del Dis, per sapere se lui fosse informato di questo incontro e sulla natura dei colloqui sui quali, legittimamente, lo ribadiamo, Renzi ha mantenuto il riserbo. Dopo la puntata però ha cominciato a mettere in discussione la qualità della nostra fonte. Anche l’attendibilità della sua versione. Una fonte che un’insegnate che stasera torna a parlare, questa volta con suo padre. E in questi giorni è spuntato anche un dossier falso per delegittimare Report. chi l’ha confezionato? I nostri Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo il nostro servizio, sabato scorso Matteo Renzi ha presentato una denuncia con istanza di perquisizione nella redazione di Report. È stato l’atto conclusivo dopo una lunga settimana di polemiche che ha visto Report al centro di attacchi da parte di giornali e politici. Alcuni hanno tentato in maniera persino ironico di delegittimare le nostre fonti e il senatore Renzi, subito dopo la puntata, ha pubblicato una lettera dove mette in dubbio l’esistenza della nostra testimone, elencando una serie di presunte contraddizioni. La prima stranezza, secondo il leader di Italia Viva, è che la nostra fonte abbia girato il video il 23 dicembre e poi lo abbia inviato alla redazione di Report solo quattro mesi dopo.

GIORGIO MOTTOLA Perché si è tenuta per sé per tutto questo tempo questo video e queste foto?  

TESTIMONE Allora io non le ho tenute assolutamente per me, perché io il 31 dicembre alle 11 ho inviato lo stesso materiale che ho inviato alla vostra redazione, l’ho inviato alla redazione web di un quotidiano nazionale. GIORGIO MOTTOLA Ha conservato questa mail?

TESTIMONE Sì, assolutamente. GIORGIO MOTTOLA E ha mai ricevuto risposta a questa mail?

TESTIMONE Assolutamente no. E questo mi ha fatto pensare che non fossero foto di nessuna rilevanza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Matteo Renzi ritiene sospetta la nostra testimone anche perché avrebbe riconosciuto nel signore elegante ma losco un famoso dirigente dei Servizi segreti italiani di cui non esistevano foto da anni. TESTIMONE Ma io non l’ho riconosciuto, l’ho scoperto quando avete mandato in onda il servizio con la mia intervista chi fosse realmente quella persona.

GIORGIO MOTTOLA E allora se non l’ha riconosciuto perché ha girato questo video e scattato queste foto?

TESTIMONE Mi risultava strano che un senatore della Repubblica italiana incontrasse una persona che già lo attendeva con due persone di scorta in un posto isolato e in un’area ancora più isolata di tutta la stazione di servizio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E infatti nella mail mandata a dicembre in cui allega il materiale su Renzi e Mancini, specifica che non sa se si tratta di foto importanti, perché non riconosce l’interlocutore di Renzi. Ma per il senatore è anomalo anche il video girato. Come ha fatto, si chiede Renzi, la batteria del telefono a durare per tutti e quaranta i minuti dell’incontro?

TESTIMONE Io non ho ripreso tutti i quaranta minuti della durata dell’incontro.

GIORGIO MOTTOLA Quanto dura il video?

TESTIMONE 28 secondi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La scorsa settimana la testimone ci aveva raccontato di essersi trovata casualmente nell’autogrill di Fiano Romano perché il padre si era sentito male. Ma anche questa circostanza sembra sospetta al senatore Renzi: “Fortuna vuole che il padre si senta male a Fiano Romano e non fuori da Palazzo Chigi dove avrebbe visto il dirigente dei servizi incontrare Conte”. E chiosa: “Report dica finalmente la verità al popolo italiano”. E così abbiamo deciso di intervistare anche il padre della nostra testimone.

PADRE TESTIMONE Quel pomeriggio io son partito con mia figlia e non mi sentivo troppo bene.

GIORGIO MOTTOLA Le posso chiedere che tipo di malore ha avuto quel giorno?

PADRE TESTIMONE Soffro di una patologia che mi obbliga ad assumere dei farmaci abbastanza potenti per una leucemia mieloidecronica, una LMC.

GIORGIO MOTTOLA Quindi a causa dei farmaci spesso va incontro a questi disturbi…

PADRE TESTIMONE Questi farmaci producono, producono questi, questi effetti. Sono degli attacchi ripetuti per cui sono stato costretto a entrare e uscire dal bagno diverse volte e quando siamo arrivati ho visto questa macchina ferma con questi, con questi signori ma lì per lì non c’ho fatto caso e poi ho visto il senatore Renzi, che parlava con questa, con questa persona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dovendo attendere che il padre si sentisse meglio, la nostra testimone è rimasta in autogrill a lungo, quasi fino alla fine dell’incontro di Renzi con Mancini.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha assistito a questo scambio di dolci, di babbi, fra Mancini e Renzi?

TESTIMONE Per quel che ho visto io, no.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha assistito a tutta quanta la scena fino a quando sono ritornati verso le loro auto

TESTIMONE E sono rientrati nelle loro auto. L’auto di Renzi ha proseguito prendendo l’autostrada in direzione di Firenze. E invece l’altra auto ha ripreso in direzione di Roma.

GIORGIO MOTTOLA Si sono detti qualcosa prima di salutarsi?

TESTIMONE L’uomo brizzolato ha ricordato a Renzi che sapeva dove trovarlo, qualsiasi cosa…

GIORGIO MOTTOLA Era a disposizione.

TESTIMONE Sì. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questo particolare per Renzi sarebbe la dimostrazione che si tratta di un racconto falso. E soprattutto, come fa a sentire le parole di commiato “sa dove trovarmi”. La professoressa, scrive il senatore, ha le orecchie bioniche.

TESTIMONE Allora io non è che la sento a distanza, io la sento nel momento in cui entrambi si avvicinano alle proprie auto. Io avevo il finestrino come ho detto leggermente aperto e quindi ho potuto sentire che si sono salutati a distanza.

GIORGIO MOTTOLA Lei sente questa conversazione dopo che loro si sono già avvicinati.

TESTIMONE Sì, assolutamente sì. GIORGIO MOTTOLA Nella scorsa intervista ci ha riferito che Renzi ha proseguito per Firenze mentre invece Mancini è tornato indietro verso Roma. Sulla base di quali elementi ci ha fatto questa dichiarazione? TESTIMONE Perché io sono partita leggermente prima di loro, quando entrambi erano rientrati nelle proprie automobili. Passato il casello di Roma Nord, dopo poche centinaia di metri l’auto di Renzi ci ha superati a gran velocità e benché io procedessi a velocità ridotta, l’auto di Mancini non mi ha mai superato e quindi da lì ho dedotto che fosse tornato verso Roma.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Luciano Nobili è uno dei parlamentari di Italia Viva più attivi sui social.

VIDEO TIKTOK LUCIANO NOBILI GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Luciano Nobili è stato anche tra i primi ad attaccare le nostre fonti. LUCIANO NOBILI L’unico falso che c’è in questa storia è la professoressa bionica. Quando me la presentate ‘sta professoressa bionica che vede a chilometri di distanza, che sente a centinaia di metri di distanza…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il giorno in cui va in onda il nostro servizio, è proprio Luciano Nobili ad annunciare una interrogazione parlamentare lanciando accuse gravissime contro la trasmissione Report.

LUCIANO NOBILI - QUATTRO SEMPLICI DOMANDE ALLA RAI ED A #REPORTRAI3 3/5/2021 Voglio sapere esattamente se la Rai abbia o meno pagato una fattura alla società lussemburghese Tarantula e, se sì, perché ha pagato questa fattura in virtù di quale servizio? La società Tarantula ha collaborato alla realizzazione del servizio su Renzi su Alitalia, su Piaggio Aerospace? Sono delle domande semplici e lecite, fatte proprio perché Italia Viva crede nella libertà del giornalismo e nel giornalismo d’inchiesta, ma quello vero.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Evviva Dio! A meno che non ipotizzi o pensi che il nostro sia un giornalismo d’inchiesta falso. Che cosa è successo? Che poco dopo aver anticipato i contenuti della puntata di lunedì scorso, mandando in onda in anticipo il filmato dell’incontro tra Matteo Renzi e l’agente segreto Mancini, Luciano Nobili, uno dei fedelissimi di Matteo Renzi annuncia un’interrogazione parlamentare nella quale si chiede se corrisponde al vero che la Rai abbia pagato una fattura di 45 mila euro a favore di una società di produzione lussemburghese, la Tarantula, finalizzata a pagare una nostra fonte coperta che ci aveva aiutato a realizzare un’inchiesta contro Renzi. Questa fonte coperta sarebbe secondo Nobili, Maria Tuccillo, Francesco Maria Tuccillo, e avrebbe avuto un ruolo nel confezionare un’inchiesta andata in onda novembre scorso, nella quale si parlava della gestione del dossier Alitalia e di Piaggio Aerospace, da parte del governo Renzi. Renzi che aveva spalancato le porte agli Emirati Arabi. Ora, premesso che noi effettivamente abbiamo incontrato Tuccillo, ma lo abbiamo incontrato una sola volta, e non è stata la nostra fonte perché poi si è rifiutato di parlare con noi. Premesso anche che in 25 anni di storia, Report non ha mai pagato una fonte né ha realizzato inchieste contro. Ecco, premesso tutto questo, quell’interrogazione si basa su un dossier falso. Non solo falso, ma palesemente falso. Se n’erano accorti anche alcuni giornalisti che poi lo avevano in qualche modo messo da parte, dopo qualche accenno di timida pubblicazione. Tuttavia, finisce nelle mani di Matteo Renzi. E proprio nel corso dell’intervista nella quale il nostro Danilo Procaccianti gli chiede conto del tragitto particolare che fanno i soldi delle sue consulenze arabe, ecco, lo evoca Matteo Renzi questo dossier. Con la fattura pagata in Lussemburgo.

DANILO PROCACCIANTI Sui bonifici che arrivano a Portici invece?

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Studi, deve studiare, non ne sa una.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ci eravamo lasciati così con il senatore Renzi, a novembre scorso. Gli avevamo chiesto conto delle sue conferenze a pagamento negli Emirati Arabi. L’ultima si era svolta ad Abu Dhabi, nel dicembre 2019. Per parlare 16 minuti effettivi, Matteo Renzi percepisce 33 mila euro. L’anomalia è il giro che fanno i soldi della conferenza, al punto che l’antiriciclaggio di Banca d’Italia ha segnalato l’operazione come sospetta. Dal conto di Anthony Scaramucci, l’organizzatore dell’evento negli Emirati, parte un bonifico di 75.000 euro. Quei soldi non vanno direttamente a Renzi, ma arrivano a Portici, in provincia di Napoli, sul conto della “Carlo Torino & associati”. Infine, Carlo Torino fa un bonifico di 33 mila euro a Matteo Renzi.

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA I soldi non fanno un giro strano. Quando ci sono le conferenze, ci sono in alcuni casi dei soggetti che le organizzano. Non c'è niente di strano, è molto simpatico cercare di far immaginare che ci sia sempre qualcosa di strano sotto.

DANILO PROCACCIANTI Dico: perché non pagano direttamente lei?

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Ma gliel’ho appena spiegato, faccia uno sforzo, faccia uno sforzo per ascoltare.

DANILO PROCACCIANTI Tra l'altro questa società, questa società era nata da sei giorni dopo che lei aveva chiuso la sua che si occupava proprio di questo, la Digistart.

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Scusi qual è la domanda? Lei mi domanda: tu hai preso 30. Quanti erano?

DANILO PROCACCIANTI 33 mila circa.

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA 33 mila euro, benissimo. Questi soldi sono trasparenti? Sì. Sono tracciati? Sì. Poi lei mi chiede di altre società che fanno l'attività di organizzazione di convegni. Siccome li ha sentiti, chieda a loro.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’organizzatore che ha incassato per lui è Carlo Torino, ex commerciante di calzature. È proprietario e amministratore unico di una società con un capitale di 1.500 euro che quando ha incassato i soldi della conferenza di Renzi era inattiva, lo è diventata dopo attiva. È stata costituita il 26 novembre 2019, proprio alla vigilia della partecipazione del senatore alla conferenza e tre giorni dopo che Matteo Renzi aveva chiuso la sua società, la Digistart Srl, che si occupava proprio della gestione delle conferenze. Anche la società di Carlo Torino si sarebbe dovuta occupare di convegni e di eventi, ma pare che si sia occupata solo dell’evento di Renzi.

CARLO TORINO - IMPRENDITORE Io sono una persona che lavora in perfetta trasparenza, lo possono dire tutti. Dire che una persona… Peraltro quel bonifico non arrivava da Dubai, lo posso dire in maniera molto chiara e trasparente, ma arrivava da una società degli Stati Uniti…

DANILO PROCACCIANTI A me risulta strano intanto che la sua società è nata tre giorni dopo, guarda caso, che Renzi aveva chiuso la sua.

CARLO TORINO - IMPRENDITORE Io non posso entrare nei dettagli insomma di questa vicenda. Posso dire che Matteo Renzi è una persona di una trasparenza, di una correttezza e di una professionalità straordinarie.

DANILO PROCACCIANTI Un'altra stranezza è che quando noi abbiamo fatto la visura la sua società risultava inattiva.

CARLO TORINO - IMPRENDITORE L’attivazione dell'oggetto sociale di una società può avvenire con il tempo. Il fatto che una società sia inattiva non significa che la società non sia in attività. L'idea che voi vogliate far passare questa cosa come una società veicolo è assolutamente fuorviante, non ha alcun senso.

DANILO PROCACCIANTI Quindi ha fatto altre transazioni economiche quella società.

CARLO TORINO - IMPRENDITORE Non vengo a dire alla stampa le attività della mia società.

DANILO PROCACCIANTI Arriva questo bonifico di 75mila dollari da Anthony Scaramucci, 33 mila euro vanno a Renzi. Mi sembra, come dire, eccessivo che chi fa l'intermediazione prenda di più di chi poi ha fatto la prestazione stessa.

CARLO TORINO - IMPRENDITORE Non è di più. C’è un carico di un carico di Iva che dagli Stati Uniti non è stata pagata. C’è un carico di Iva del 22%.

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Guardi, io penso che questa cosa sia una cosa molto semplice. C'è l'organizzatore del convegno, c'è chi organizza la presenza dei relatori e soprattutto non c'è niente di strano. A differenza di ciò che dice lei, un giro strano di denaro, che è una frase un po’ allusoria.

DANILO PROCACCIANTI No, strano lo dico perché è stata una segnalazione di operazione sospetta. Non è che lo dico io, quindi, insomma, era giusto per chiarire…

 MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA No, guardi, la segnalazione di operazione sospetta si fa sempre per i politici. Qualsiasi denaro che arriva ai politici che sia superiore a una certa cifra, viene segnalato dalla banca a Banca d'Italia e da Banca d'Italia alle procure e questa si chiama segnalazione di operazione sospetta. È una cosa secondo me giusta, io la farei anche per i giornalisti cosicché, se per caso qualcuno prende dei soldi da una società del Lussemburgo per aver fatto chissà che cosa, è un giornalista o un testimone…

DANILO PROCACCIANTI Chiaro. MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA …di una iniziativa giornalistica, a quel punto scatta l'operazione sospetta.

 DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A cosa si riferisce il senatore Renzi quando parla di giornalisti e del Lussemburgo? Si riferisce a noi. Un vero e proprio giallo che proviamo a ricostruire. Nel mese di gennaio tra le redazioni, circola un dossier falso finalizzato a delegittimare Report che, in un’inchiesta andata in onda a novembre scorso sui rapporto di Renzi con gli Emirati Arabi, aveva criticato la gestione del governo Renzi sui casi Alitalia e Piaggio Aereospace. Nel dossier falso si ipotizzava che Report, in accordo con la Rai, avesse pagato una fonte coperta con un bonifico di una fattura di quarantacinquemila euro a una società lussemburghese con la finalità di fare un’inchiesta contro Renzi. Era per questo che Renzi alludeva a Lussemburgo. Ce lo racconta Franco Bechis, direttore de Il Tempo che il dossier lo ha visto.

 FRANCO BECHIS – DIRETTORE DE “IL TEMPO” Quelle carte proprio non erano usabili perché io non posso avere in mano un conto bancario lussemburghese con le distinte che peraltro non corrispondevano come cifre. Cioè era molto caotica anche come documentazione. Ti dico quale fosse la tesi ovviamente. La tesi era che fosse pagato un consulente di Leonardo dalla Rai evidentemente attraverso il pagamento di una società e questo personaggio sarebbe stato intervistato, oscurato. Faceva il teste nascosto, diciamo, in cambio di 40 e passa mila euro. Ho pensato che in ogni caso la documentazione fosse falsa. Quindi, boh, mi sembrava veramente una cosa prefabbricata.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Di sicuro qualcuno dell’entourage di Renzi ne era a conoscenza. Alessio De Giorgi, l’uomo che cura la bestia social di Italia Viva, lancia un tweet dopo la messa in onda della puntata e scrive: “Ma guarda che strano: stasera rilanciano casualmente una puntata vecchia di Report, esattamente la stessa, ancora contro Matteo Renzi. Chissà che nei prossimi giorni non capiremo meglio cosa c’è sotto”. Evidentemente De Giorgi era quantomeno a conoscenza di quel dossier contro di noi.

DANILO PROCACCIANTI “Chissà che nei prossimi giorni non capiremo meglio che cosa c'è sotto”. C'è qualcosa che sai che noi non sappiamo?

ALESSIO DE GIORGI Non me lo ricordo sinceramente.

DANILO PROCACCIANTI È andata in onda una replica nostra su Alitalia e il senatore Renzi e tu appunto hai fatto questo tweet.

ALESSIO DE GIORGI Sì, ma non mi ricordo a cosa mi riferivo.

DANILO PROCACCIANTI Nel senso, siccome appunto tu non sei un passante… Cioè, sei uno che ha un ruolo, quindi se scrivi una cosa del genere, immagino che hai delle basi per scrivere: “Chissà cosa c'è sotto”. O sono parole al vento?

ALESSIO DE GIORGI Se non me lo ricordo, non me lo ricordo!

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Alessio De Giorgi ha perso la memoria. Matteo Renzi, invece, nello stesso giorno che mandiamo in onda le immagini del suo incontro con lo 007 Mancini, annuncia un’interrogazione parlamentare basata sul dossier falso che girava almeno da metà gennaio.

DANILO PROCACCIANTI Senta, ne approfitto subito, visto che ha detto questa cosa dei giornalisti e del Lussemburgo: casualmente, dopo la puntata nostra, è arrivato un dossier ad alcuni giornali dove appunto si parlava anche di un testimone che sarebbe stato pagato dalla Rai che ha un conto in Lussemburgo. Ne sa qualcosa? Visto che ha fatto questo esempio strano…

MATTEO RENZI, LEADER ITALIA VIVA Ho visto, ho visto l’interrogazione parlamentare su questo però non ho visto la risposta. Quando ci sarà la risposta del ministro dell'Economia e delle Finanze vedremo se, come io penso e spero, sia uno dei tanti dossier, sa quelle cose che vengono mandate e che non sono vere? Mi auguro che sia così.

DANILO PROCACCIANTI Lei non ne sa nulla però di questo dossier?

MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Voglio ben sperare che una trasmissione importante della Rai, come dire, non paghi qualcuno per dire delle false verità, io non ci credo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’interrogazione parlamentare annunciata da Matteo Renzi è stata presentata dal deputato di Italia Viva Luciano Nobili, che la commenta così sui suoi profili social.

LUCIANO NOBILI (VIDEO SU FACEBOOK) Sono un parlamentare della Repubblica, non costruisco dossier, non riprendo le persone all’autogrill spacciando una chiacchierata per un incontro segreto, detesto i complotti e non voglio censurare nessuno. Ho solo fatto delle domande, legittime, rientrano nelle mie prerogative, con un’interrogazione parlamentare. Come Report ha fatto delle domande a Renzi, io faccio delle domande alla Rai. La società Tarantula ha collaborato alla realizzazione del servizio su Renzi, su Alitalia, su Piaggio Aerospace? Esiste un rapporto fra la società Tarantula e il dottor Tuccillo?

GIORGIO MOTTOLA Il giorno in cui noi usciamo col servizio, voi uscite con questa interrogazione su un dossier che è falso. Al momento falso. Questa è intimidazione.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Allora capiamo come funziona… Dossier? Dossier? Intimidazione? Ma di che sta parlando? Quale dossier, dove sta il dossier? C’è un atto parlamentare di sindacato ispettivo, mio dovere farlo, dovere della Rai rispondere: è un'intimidazione?

GIORGIO MOTTOLA Perfetto, perfetto.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma lei si rende conto di quello che sta dicendo?

GIORGIO MOTTOLA Mi fa parlare?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Si rende conto di quello che sta dicendo? Lo sa cosa è un’intimidazione? Io difendo i giornalisti da intimidazioni! Io difendo i giornalisti da intimidazioni, la mia è un’interrogazione parlamentare. Quindi si pulisca la bocca prima di parlare!

GIORGIO MOTTOLA Lei ha fatto un’interrogazione su un dossier che è falso! Lei ha fatto un’interrogazione nel giorno in cui ci siamo occupati del suo capo. Ma perché urla e non risponde alle domande? Perché urla, perché urla? LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Perché lei non mi può accusare di intimidazioni!

GIORGIO MOTTOLA Nella sua interrogazione cita una fonte che lei non doveva, non era tenuto a sapere, non era tenuto a conoscere!

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io non cito la fonte, io domando, io domando se quell’informazione…

GIORGIO MOTTOLA Fa riferimento a Tuccillo…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA E certo, io domando da chi avete avuto quelle informazioni…

GIORGIO MOTTOLA Noi non l’abbiamo mai mandato in onda, lei come faceva a sapere che noi abbiamo parlato con questo Tuccillo però?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io domando se le informazioni contenute in quel servizio vengono da quella fonte e se quella fonte magari ha ricevuto un compenso.

GIORGIO MOTTOLA Ma come faceva a sapere della nostra fonte?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma che fa, sapete tutto solo voi?

GIORGIO MOTTOLA Ah, quindi ha fatto delle ricerche su di noi!

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Non ho fatto nessuna ricerca.

GIORGIO MOTTOLA E come fa a sapere di ‘sta fonte? È molto curioso però!

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Perché ‘sta cosa vi innervosisce tanto?

GIORGIO MOTTOLA Perché avete rivelato una fonte che voi non potevate conoscere! È questa la cosa!

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma perché vi innervosisce tanto? Ma perché vi innervosisce tanto?

GIORGIO MOTTOLA Perché siamo preoccupati, perché siamo preoccupati non solo per Report, ma per il giornalismo italiano, perché siamo preoccupati per le sorti del giornalismo italiano!

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma qual è la fonte che se fate un servizio su Piaggio Aerospace vi chiediamo se avete sentito un alto dirigente di Aerospace?

GIORGIO MOTTOLA Che non abbiamo mandato in onda, ci sono tanti alti dirigenti di Aerospace.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma di che state parlando? Ma di che state parlando?

GIORGIO MOTTOLA Ci sono tanti alti dirigenti di Aerospace, ce ne sono tanti, non c’è soltanto Tuccillo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma rimane una questione: esiste o no questo dossier che parla della fattura oggetto dell’interrogazione di Nobili?

GIORGIO MOTTOLA Ma chi ve l’ha data questa fattura?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io non ho nessuna fattura. Non me l’ha data nessuno perché…

GIORGIO MOTTOLA Chi ve le ha date queste informazioni?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Fonti giornalistiche che sono stanche…

GIORGIO MOTTOLA Fonti giornalistiche…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Fonti giornalistiche che sono stanche del fatto che la Rai ricorra a professionalità esterne. Visto che la Rai ha tantissime e validissime professionalità interne, è bene che lavori con professionalità interne.

GIORGIO MOTTOLA Lei mi ha appena detto che anche voi fate ricerche. Che tipo di ricerche fate su di noi?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Lo ha detto lei.

GIORGIO MOTTOLA Lo ha detto un attimo fa.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Lo ha detto lei.

GIORGIO MOTTOLA Ha detto “anche noi facciamo ricerche”

 LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io ho solo detto non avete solo voi le informazioni GIORGIO MOTTOLA Lo ha detto lei un attimo fa.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ho detto “ce le abbiamo anche noi le informazioni”. Le persone vengono a parlarci e a raccontarci.

GIORGIO MOTTOLA E quindi vi hanno rivelato di una fonte che noi abbiamo incontrato riservatamente

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ci hanno rivelato del fatto che è possibile che la Rai si sia rivolta a una società esterna – nello specifico questa Tarantula – per realizzare quei servizi, quel servizio. GIORGIO MOTTOLA Io immagino che lei li abbia visti questi dossier o fa le interrogazioni sul sentito dire, mi scusi? Lei fa delle interrogazioni sul sentito dire quindi?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma se io ho una fattura… No, ma perché io non faccio le interrogazioni sul sentito dire di cosa succede ai dipendenti Alitalia?

GIORGIO MOTTOLA Ok.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Per sapere che fine fanno?

GIORGIO MOTTOLA Anche questo di Report era un sentito dire quindi.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Le ho già detto come è andata, esattamente.

GIORGIO MOTTOLA Quindi riconosce che c’è l’ipotesi che lei abbia fatto un’interrogazione su una notizia falsa.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA E certo, su una notizia non fondata, questo è assolutamente possibile.

GIORGIO MOTTOLA E si può fare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Figuriamoci se Report vuole reprimere il sindacato ispettivo di un parlamentare. Lì il problema semmai è un altro: che alla base della sua interrogazione parlamentare c’è un dossier falso. Nobili dice che ha acquisito informazioni da una fonte Rai che gli avrebbe raccontato di questa fattura da 45 mila euro pagata dalla Rai a una società lussemburghese. Questa fonte avrebbe parlato perché è mortificata dall’ingerenza delle aziende esterne che mortificano appunto le professionalità interne all’azienda, ecco. Se così fosse, sarebbe anche un’iniziativa pregevole, il problema è che poteva diventare un boomerang perché tu attraverso quel dossier falso non solo avresti infangato una singola trasmissione storica della Rai, ma avresti infangato tutta l’azienda. Poi c’è qualcosa che non torna nella ricostruzione di Nobili perché quando il nostro Giorgio gli chiede, lo incalza, gli chiede, ma come fa a sapere che noi abbiamo incontrato Tuccillo? Lui dice anche “noi abbiamo i nostri informatori”. Ecco, questo, premesso che noi Tuccillo lo abbiamo una sola volta e non è stata poi la nostra fonte perché con noi non ha voluto parlare, ma questo è un fatto gravissimo. Chi è che ha seguito Tuccillo o addirittura gli inviati di Report e ha informato Nobili? È un fatto gravissimo per la libertà di informazione e il funzionamento della democrazia di un paese. È grave anche perché Tuccillo è stato il manager che più si è opposto alla nuova governance filo-araba, quella a cui aveva aperto le porte il governo Renzi, aveva aperto le porte agli Emirati Arabi che aveva anche ceduto, messo nelle loro mani un’azienda strategica dal punto di vista militare del nostro paese. Tant’è vero che poi gli arabi erano più interessati al progetto militare dei droni armabili che a salvare l’industria e i suoi lavoratori, che sono naufragati, come è naufragato il progetto dei droni, dei droni. Ecco, poi Tuccillo era stato anche l’uomo che da manager di Finmeccanica aveva soprattutto contribuito a denunciare, quindi catturare Roberto Vito Palazzolo. In arte Robert Von Palace, era il boss di Cosa Nostra sul quale aveva indagato anche molto Giovanni Falcone che riciclava dal Sudafrica i soldi sporchi della mafia, però si muoveva con una sua disinvoltura nelle ambasciate italiane, distribuendo con nonchalance anche i suoi bigliettini da visita e diceva di vendere gli elicotteri per conto di Finmeccanica. Ecco, Tuccillo oggi, sempre secondo questo dossier, sarebbe stata la nostra fonte, sarebbe stata pagata dalla Rai questa fonte con una fattura da 45 mila euro, attraverso una società lussemburghese, la Tarantula.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La società a cui la Rai avrebbe versato 45 mila euro per pagare la fonte coperta di Report è la Tarantula Luxembourg, una società cinematografica che ha sede in Lussemburgo e il cui socio unico è il regista Donato Rotunno.

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG Non c'è mai stato un versamento di questa somma a Tarantula Lussemburgo.

DANILO PROCACCIANTI Non esiste nessuna fattura con oggetto Alitalia Piaggio del valore di 45.000 euro quindi?

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG Non esiste! Mai, mai, mai e poi mai sentito parlare di questa fattura prima di questa questione parlamentare; mai!

DANILO PROCACCIANTI Lei ha mai collaborato con la sua società con la Rai a tutti i livelli anche Rai Cinema.

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG Ma certo! Tarantula Lussemburgo è una società di produzione cinematografica che da oltre 25 anni produce dei film, dei film fiction anche con la Rai, anche con l'Italia. Mai direttamente con Tarantula Lussemburgo perché nella nostra industria è di uso di avere un partner e un coproduttore italiano.

DANILO PROCACCIANTI L'unica cosa che abbiamo visto è che, per esempio, appunto voi, c'è questo film “Io sto bene” che avete fatto con Vivo film e Vivo film ha avuto un rapporto con la Rai.

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG Certo.

DANILO PROCACCIANTI Potrebbe trattarsi di questo carteggio?

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG No, il contratto della Rai con Vivo Film è di 60 mila euro per l'acquisto dei diritti televisivi del mio film, ma non ha niente a che vedere con questa faccenda.

DANILO PROCACCIANTI Cioè, in quel caso, quindi, Rai ha pagato 60mila euro Vivo Film e Vivo Film ha girato a voi una parte di soldi?

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG No, finora non c'è stato nessun versamento da Vivo film per quanto riguarda il contratto della Rai. Non c'è nessun legame tra questo film e il progetto di Report.

DANILO PROCACCIANTI Sempre nell’interrogazione parlamentare presentata da Italia Viva su Report si chiede se la Tarantula, una volta presi i 45mila euro dalla Rai, li avesse girati a Francesco Maria Tuccillo, per ricompensarlo in qualità di nostra fonte occulta.

DANILO PROCACCIANTI Mettono in correlazione Francesco Maria Tuccillo con la Tarantula. L'ha mai conosciuto?

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG Io non ho mai incontrato il signor Tuccillo, non c'è mai stato un legame economico tra questo signor Tuccillo e Tarantula Lussemburgo, mai!

DANILO PROCACCIANTI Cioè non lo conosce nemmeno diciamo indirettamente?

DONATO ROTUNNO - SOCIO UNICO TARANTULA LUXEMBOURG Ma guardi, ma adesso mi sono anche informato, scusi è normale che io mi informi. Il signor Tuccillo è venuto in Lussemburgo nel 2019 a presentare un libro. Io come il signor Tuccillo non ci ho manco mai, mai bevuto un caffè, non lo conosco.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma il vero mistero è un altro, e forse anche più grave e inquietante. Francesco Maria Tuccillo è un ex manager di Finmeccanica ed ex manager di Piaggio Aerospace che secondo il falso dossier noi avremmo pagato. L’abbiamo realmente incontrato ma in modalità altamente riservata, e il manager non ha mai voluto rilasciarci alcuna informazione. Eppure il deputato di Italia Viva Luciano Nobili ha detto che anche loro raccolgono informazioni. Da chi ha seguito la nostra fonte? O c’è chi ha seguito Report? Anche perché Tuccillo è un personaggio particolare.

ROSSELLA DAVERIO - EX CAPO COMUNICAZIONE PIAGGIO AEROSPACE Si oppose ad alcune decisioni che l'azionista voleva imporre alla Piaggio. Credo che in un ambiente estremamente condiscendente con l'azionista, qualcuno che alzasse la voce per cercare di valorizzare il futuro dell'azienda non fosse abituale, non fosse ben accetto. E Tuccillo venne allontanato dall'azienda nonostante i suoi eccellenti risultati di business.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma la figura di Tuccillo è importante per un altro motivo. Grazie a lui, infatti, si è arrivati alla cattura di un importante latitante italiano, Vito Roberto Palazzolo, uno dei più grossi riciclatori di denaro sporco per conto di Cosa Nostra, rimasto latitante per anni in Sudafrica. Ed è proprio in Africa che Tuccillo e Palazzolo vengono in contatto nel 2009.

ROSSELLA DAVERIO - EX CAPO COMUNICAZIONE PIAGGIO AEROSPACE Si recò a Luanda, la capitale dell'Angola, per partecipare a un seminario organizzato dall'Ambasciata italiana e dall'Ice, Istituto per il commercio estero. Nella pausa pranzo di questo seminario si vide avvicinare da un signore un po’ strano, che si rivolse a lui in una maniera davvero inquietante, dicendo: “So che adesso lei è responsabile di tutta la zona Africa Subsahariana, dovrebbe lavorare con me, io sono colui che ha venduto tutti gli elicotteri di Finmeccanica in questo continente. Lavori con me, vedrà che ne farà di strada”. Solo qualche mese dopo, leggendo un libro, trova un capitolo che si chiama l'africano di Terrasini e riconosce nella descrizione il signore che ha incontrato a Luanda, il cui nome reale è Vito Roberto Palazzolo, rifugiato latitante in Africa.

DANILO PROCACCIANTI E lui a quel punto avverte Finmeccanica.

ROSSELLA DAVERIO - EX CAPO COMUNICAZIONE PIAGGIO AEROSPACE A quel punto avverte Finmeccanica, i vertici di Finmeccanica prendono tempo. La notizia misteriosamente esce in un giornale. Tuccillo sarà fatto fuori da Finmeccanica perché dice di avere incontrato questo mafioso in Africa che vende elicotteri. Era un’intercettazione questa.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio per questo Tuccillo denuncia tutto alla procura di Napoli, che in pool con Palermo riesce a far estradare Palazzolo dalla Thailandia, dove nel frattempo si era rifugiato, e assicurarlo alla giustizia italiana nel dicembre 2013. Questa cosa, però, ha procurato a Tuccillo tanti nemici probabilmente anche tra personaggi legati direttamente o indirettamente ai servizi di intelligence.

ROSSELLA DAVERIO - EX CAPO COMUNICAZIONE PIAGGIO AEROSPACE Lui si chiese fin dall'inizio dell'incontro, quando scoprì che questo Roberto Von Palace era in realtà Vito Roberto Palazzolo, come avesse potuto entrare in quel seminario. Il seminario era in presenza di un membro del governo italiano, organizzato dall'Ambasciata d'Italia a Luanda. C'erano i servizi di sicurezza sia italiani sia locali che avevano filtrato i nomi di tutti gli invitati. Palazzolo era in quel momento latitante e quindi come è possibile che un evento ufficiale organizzato da un'Ambasciata italiana e passato al vaglio dai Servizi ammetta al suo interno questo tipo di personaggio?

DANILO PROCACCIANTI Quindi diciamo che Tuccillo ha molti nemici a tutti i livelli per cui non la sorprende che in qualche modo lo tirano in ballo in questa interrogazione parlamentare contro Report.

ROSSELLA DAVERIO - EX CAPO COMUNICAZIONE PIAGGIO AEROSPACE Mi stupisce la gratuità di queste accuse che sono quelle contro di lui e contro di voi che gli americani definirebbero con un'espressione molto efficace e non elegante “shit in the fan” cioè mettiamo, e le chiedo scusa non è mia abitudine, “la merda nel ventilatore” e poi dove si deposita, si deposita.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Shit in the fan”, insomma alla fine quello è. Tuccillo nei panni di manager aveva contrastato la governance filo-araba di Piaggio Aerospace e anche aveva contribuito all’arresto di Vito Palazzolo, il boss che si muoveva con disinvoltura nelle ambasciate italiane dicendo di vendere gli elicotteri di Finmeccanica. Oggi Tuccillo è al centro del dossier velenoso contro Report, teso a delegittimare Report che è finito alla base dell’interpellanza parlamentare di Italia Viva sulla Rai e sull’informazione che fa Report. secondo quell’interpellanza noi avremmo, la Rai avrebbe pagato una fattura da 45 mila euro alla lussemburghese Tarantula per poi pagare Tuccillo, ringraziarlo in qualche modo del contributo che ci avrebbe dato per realizzare un’inchiesta. Contributo che non c’è stato, neanche la fattura da 45 mila euro c’è mai stata. Abbiamo controllato, oltre che sentire i proprietari di Tarantula, abbiamo anche consultato l’archivio Rai grazie al nostro poderoso ufficio degli affari legali. Non esiste una fattura verso Tarantula, Tarantula non è neppure un fornitore Rai. Ecco, ma questa è solamente una parte del dossier velenoso contro Report. Il 2 febbraio scorso, Il Foglio, Il Giornale e Il Tempo pubblicano alcuni articoli. Hanno come oggetto delle email che si sono scambiati un conduttore della Rai e l’ex portavoce del premier Conte, Rocco Casalino. Il contenuto di queste email sarebbe stato quello di concordare delle inchieste contro Renzi e avere in qualche modo la benedizione di Rocco Casalino. Ecco, non lo scrivono, ma quel conduttore, c’è il nome su quelle mail, sarei io, Sigfrido Ranucci. Però peccato che quelle mail sono false, e dopo un timido tentativo di pubblicazione, il dossier sparisce grazie anche al fatto che un collega che ci stima, ci ha avvisato. DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nei giorni della crisi del governo Conte alcuni organi di stampa parlano di un presunto carteggio tra Rocco Casalino, allora portavoce del premier Conte, e un conduttore Rai al fine di mandare in onda ad orologeria un’inchiesta su Matteo Renzi. Il nome non lo fanno, ma è quello del conduttore di Report, Sigfrido Ranucci. Ne scrive il Giornale con Augusto Minzolini.

DANILO PROCACCIANTI Mi confermi che anche tu hai visto questo carteggio? Comunque le hai viste queste mail che ci sarebbero state…

AUGUSTO MINZOLINI - GIORNALISTA No, ho visto questa roba qui ma non è che ne ho fatto nulla, capito. Tant’è che non ho pubblicato…

DANILO PROCACCIANTI Qualcuno le ha messe in giro? Chi mette in giro delle mail false?

AUGUSTO MINZOLINI - GIORNALISTA Be’ lì, sai, entriamo in un merito abbastanza complicato perché non si riesce mai a capire che cos’è. In una situazione in cui poi addirittura nel diverbio, nella polemica, ci finiscono la responsabilità dei servizi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ne scrive anche Franco Bechis, direttore del Tempo, che ci dà qualche particolare in più.

FRANCO BECHIS – DIRETTORE DE “IL TEMPO” Anche a me fecero vedere quelle mail che erano tra Sigfrido e Casalino. Ne ho avuto dubbio e quando poi invece le ho avute tutte le carte secondo me erano false e quindi cioè non ho fatto nemmeno la verifica perché erano palesemente false.

DANILO PROCACCIANTI Però capisci che il fatto che circolassero delle email false su di noi per noi è interessante.

FRANCO BECHIS – DIRETTORE DE “IL TEMPO” Ma quando le ho avute, ho avuto la certezza che fossero false. Perché sai vabbè, finché c’è una lettera di Sigfrido su carta intestata RAI quella è facile da falsificare, punto. Chiedeva un giudizio sul servizio, se l’aveva visto e non era ancora andato in onda, ovviamente, dicendo che pensava di metterlo in onda a fine novembre. Però non mi convinceva la base della documentazione e quindi mi sembrava una polpetta avvelenata, aveva persino una perizia, perizia che però non si capiva di chi fosse, una perizia sull’origine della mail di Casalino che gli rispondeva “ottimo, mi fa comodo in quel periodo”.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Si tratta di email assolutamente false perché Sigfrido Ranucci non ha mai scritto a Rocco Casalino, né tantomeno ha cercato l’approvazione preventiva di un’inchiesta su Renzi, né i tempi della messa in onda.

DANILO PROCACCIANTI Sono usciti degli articoli del Tempo, il Giornale, che scriveva di un presunto carteggio tra lei e un conduttore Rai su un'inchiesta di Renzi, cioè di farla uscire ad orologeria. Siccome l'unica inchiesta è stata la nostra volevamo capire un po’ se ne sa qualcosa.

 ROCCO CASALINO – PORTAVOCE EX PREMIER GIUSEPPE CONTE No, intanto è assolutamente, ovviamente, una fake news.

DANILO PROCACCIANTI Da quello che sappiamo è intanto posticipare il servizio che sarebbe stato pronto a settembre invece di mandarlo a novembre, le sarebbe stato mandato prima per visionarlo, insomma, che per noi è fantascienza.

ROCCO CASALINO – PORTAVOCE EX PREMIER GIUSEPPE CONTE Per me ancora di più. Perché io non mi sono neanche mai sognato di poter mandare una email o un messaggio a un conduttore televisivo indicandogli scaletta o programma da mandare in onda. È una follia totale.

DANILO PROCACCIANTI Ci sta mettendo la faccia, lei è assolutamente tranquillo su questa cosa qui.

ROCCO CASALINO – PORTAVOCE EX PREMIER GIUSEPPE CONTE Se esistono delle mail con il mio nome e con il conduttore di Report allora sono dei falsi, lo posso anche davanti a un giudice, davanti a chiunque, lo posso dire.

DANILO PROCACCIANTI E lì saremmo di fronte a un terreno ancora più scivoloso, più grave insomma. Qualcuno che si mette a fabbricare mail fasulle…

ROCCO CASALINO – PORTAVOCE EX PREMIER GIUSEPPE CONTE Sarei curioso di sapere chi fa queste cose.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chi ha tentato di sporcare di fango una trasmissione dopo 25 anni ipotizzando che potessimo pagare una fonte per realizzare un’inchiesta contro, su mandato politico? Ecco, ma potrebbe anche essere una polpetta avvelenata, offerta a Italia Viva, perché la sua interrogazione sulla Rai e su Report si trasformasse poi in un brutto boomerang. L’unico modo per dipanare il mistero è, on. Luciano Nobili, colleghi giornalisti, se siamo tutti animati dalla volontà di scoprire la verità, voi che avete avuto questo dossier tra le mani o avete ricevuto informazioni in merito, ecco, dossier che noi non abbiamo potuto avere, che non ci è stato dato nonostante ci riguardasse, ecco, andate a denunciare presso la Procura della Repubblica. Qui non si tratta di tutelare una fonte, ma un avvelenatore di pozzi. E qui non è neanche il gioco la dignità di una persona o di una trasmissione, è in gioco la libertà di informazione. Che è il cane di guardia di una democrazia. Se consentiamo a un avvelenatore di abbassare così tanto l’asticella… cioè oggi, insomma, hanno tentato di avvelenare Report, ma domani chissà a chi toccherà. Insomma, poi per tornare poi all’incontro tra Renzi e lo 007 Mancini, Renzi ha chiesto, ha presentato un esposto finalizzato ad acquisire i filmati delle telecamere poste nell’area di servizio di Fiano Romano dove si sono incontrati, quelle dell’autostrada. Vuole ripristinare la verità. Però insomma la verità è quella che noi abbiamo visto, speriamo invece che non serva di cercare di scoprire l’identità dell’insegnate che li ha ripresi, e magati una volta scoperta, e appurato che non appartiene al Kgb, una preghiera: che questa identità venga mantenuta riservata. Questo per togliere diciamo l’idea a qualcuno che per fare un favore a qualcun altro possa esercitare delle ritorsioni. Perché poi se la preoccupazione è quella di vedere se qualcuno li ha ripresi attraverso questi filmati beh, piuttosto che preoccuparci di una povera insegnante con un telefonino, vi posso garantire che bisogna vedere di che marca sono quelle telecamere nella stazione di servizio perché è possibile che quell’incontro sia stato filmato e visto dall’altra parte del mondo. Vi garantisco che non è una battuta.

L'uso del segreto. Report Rai PUNTATA DEL 25/10/2021 di Giorgio Mottola collaborazione di Norma Ferrara. Report ritorna sull'incontro all'autogrill di Fiano Romano che ha scatenato polemiche in Parlamento e nei servizi segreti con un'intervista esclusiva allo 007 che si è appartato a parlare con Matteo Renzi durante la crisi di governo.

L’USO DEL SEGRETO Report Rai di Giorgio Mottola collaborazione Norma Ferrara immagini di Giovanni De Faveri

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È il 23 dicembre del 2020, nella piazzola di un autogrill di Fiano Romano un’insegnante documenta l’incontro tra Matteo Renzi e un agente dei servizi segreti, Marco Mancini. L'appuntamento riservato dura quaranta minuti e avviene nel pieno della crisi del governo Conte, quando il tema dei servizi segreti è una delle questioni di attrito principale all'interno della maggioranza. L'agente segreto, che partecipa all'incontro con il politico, è da tempo in lizza per una nomina di peso all'interno degli apparati di intelligence. Il 3 maggio scorso Report ha trasmesso in esclusiva le immagini, e ha cercato di fare chiarezza sulla natura di quell’incontro.

DA REPORT DEL 3/5/2021 DANILO PROCACCIANTI Però non mi ha detto che cosa vi siete detti in quell’incontro…

 MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA Come le ho detto dovevo vederlo qui. Mi doveva portare si figuri, i Babbi che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo molto vorace.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dei babbi però nel filmato non c’era traccia, quindi ci fidiamo. Ora, dopo che Report aveva documentato questo incontro all’autogrill, è scattata l’indagine del Copasir, il comitato di controllo parlamentare sui sevizi. È stato audito l’ex direttore del DIS Gennaro Vecchione che è stato poi anche sostituito, ed è stata diramata una direttiva che vieta senza previa autorizzazione agli agenti segreti di incontrare politici, magistrati e giornalisti. E poi è stato prepensionato lo 007 Marco Mancini. È rimasto invece il segreto sulla natura dei colloqui tra l’ex premier e lo 007. Dopo aver sentito la versione di Renzi e quella dell’insegnante che ha documentato l’incontro all’autogrill, non poteva mancare quella di Marco Mancini. Il nostro Giorgio Mottola è tornato all’università.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quattro mesi dopo la nostra puntata ritroviamo l’ex agente segreto nel porticato della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia.

GIORGIO MOTTOLA Marco Mancini buongiorno, sono Giorgio Mottola di Report. Finalmente ci conosciamo di persona.

MARCO MANCINI Non so fino a che punto finalmente per lei… posso andare in bagno?

GIORGIO MOTTOLA Certo, ma si figuri se mi frappongo fra lei e il bagno

MARCO MANCINI Quel signore cosa sta facendo?

GIORGIO MOTTOLA Sta facendo delle riprese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei mesi scorsi Marco Mancini non ha mai risposto alle nostre richieste di intervista. Neanche in parlamento Mancini ha mai fornito una spiegazione convincente sulla natura dei suoi colloqui con Renzi in autogrill.

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle di questo incontro con Renzi. Ma che cosa vi siete detti?

MARCO MANCINI Posso permettermi? Sono qui per una lezione universitaria. Io la ringrazio moltissimo e non ho nulla da dichiarare.

GIORGIO MOTTOLA Questo l’ho capito, però posso chiederle come mai non vuole spiegare che cosa si è detto con Renzi?

MARCO MANCINI Sono qui per una lezione universitaria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La lezione universitaria che Mancini sta tenendo a Pavia è sul segreto di Stato. Un seminario per gli studenti organizzato da un professore dell’ateneo, Alessandro Venturi, anche lui una vecchia conoscenza di Report. Venturi è infatti presidente del policlinico San Matteo, su nomina di Attilio Fontana. E in questo ruolo risulta indagato per la vicenda dei test sierologici da 2 milioni di euro, comprati dalla Diasorin.

ALESSANDRO VENTURI – PRESIDENTE POLICLINICO SAN MATTEO Penso che sia anche una grande opportunità per gli studenti. Questo è il motivo per cui l’ho invitato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Beh assolutamente, anche perché è in parte in causa rispetto al segreto di Stato lui. È grande parte in causa…

ALESSANDRO VENTURI - PRESIDENTE POLICLINICO SAN MATTEO Incontrare anche le persone, credo faccia parte dell’università, no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sull’argomento Marco Mancini è senz’altro molto preparato, visto che il segreto di stato lo ha salvato in due processi. Lo 007 dell’Aise era rimasto coinvolto nello scandalo Telecom Pirelli e nel sequestro di Abu Omar. In entrambi i casi, governi di centrodestra e centrosinistra hanno opposto il segreto in suo favore.

ARMANDO SPADARO – PUBBLICO MINISTERO CASO ABU OMAR La Corte europea dei diritti dell’uomo, il massimo organismo giurisdizionale europeo, ha condannato il governo italiano a risarcire i danni per l’uso del segreto di Stato che in quella vicenda venne utilizzato per, in qualche modo, procurare l’impunità agli italiani.

MARCO MANCINI Dottor Mottola, io la saluto e la ringrazio.

GIORGIO MOTTOLA Dottor Mancini, anche io la ringrazio, ma io non posso non chiederle che cosa vi siete detto con Renzi visto che ci sono state anche delle importanti conseguenze. C’è stata una riorganizzazione dei servizi dopo quello che è successo. L’incontro con Renzi è stato considerato illegittimo o quantomeno inopportuno.

MARCO MANCINI Le posso offrire un caffè?

GIORGIO MOTTOLA Assolutamente, lo prendo molto molto volentieri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ultimo caffè che Mancini aveva preso all’autogrill di Fiano Romano era stato particolarmente lungo, 40 minuti. Il nostro è decisamente più ristretto.

MARCO MANCINI Non è buono, è vero?

GIORGIO MOTTOLA Non è granché.

MARCO MANCINI Vero?

GIORGIO MOTTOLA Non è granché.

MARCO MANCINI Io la preferisco dolce la vita. Non so lei.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La vita Mancini la preferisce dolce. Ed è forse per questo che regala wafer romagnoli ai politici. Oltre a Renzi, risultano infatti suoi incontri riservati anche con Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

GIORGIO MOTTOLA Anche questi incontri con i politici non sono stati esattamente considerati opportuni dalla sua struttura, no? Lei è dovuto andare in pensione dopo la storia di questo video con Renzi.

MARCO MANCINI Andiamo vicino al professor Venturi.

GIORGIO MOTTOLA Va bene, andiamo vicino al professor Venturi. Quello che tutti quanti si sono chiesti: se si stava parlando di governo, se lei era alla ricerca di una sua promozione.

MARCO MANCINI Ahahahah

GIORGIO MOTTOLA No? Perché tutti dicevano che lei voleva diventare vice capo dell’Aise. Se ha visto la trasmissione, e immagino l’abbia vista, Renzi dice che c’è stato un scambio di babbi. È così?

MARCO MANCINI Ahahahha.

GIORGIO MOTTOLA Lei su questo che cosa dice? No, non mi faccia… siamo all’università, davanti a un professore, non può fare scena muta.

MARCO MANCINI Le ho detto anche che non intendo parlare e lei sta continuando.

GIORGIO MOTTOLA Non posso fare altro, perché sono dei fatti che riguardano lei e che sono di grande interesse pubblico dottor Mancini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’università di Pavia ha perso come docente un ex magistrato come Armando Spataro che si è dimesso per polemica, in compenso ne ha acquisito uno nuovo: l’ex 007. Ma perché il nostro Giorgio Mottola è andato disturbarlo mentre svolgeva una lezione magistrale sul segreto di stato? Perché questa estate si è consumato un paradosso. Dopo Renzi, anche Marco Mancini attraverso il suo avvocato ha chiesto a Report di consegnare tutti i documenti detenuti sul caso Mancini-Renzi. Ha anche precisato che solo dopo averli acquisiti, dopo averli potuti visionare, deciderà cosa presentare ai fini di una querela. In particolare, chiede di acquisire ogni informazione che i giornalisti di Report hanno ottenuto per mail, attraverso messaggi social o in altra forma scritta e orale dal 1 gennaio in poi, e tutte le informazioni che sono state ottenute dalla redazione o dai singoli giornalisti ottenute attraverso dialoghi, contatti con le pubbliche amministrazioni o enti privati che abbiano riguardato appunto, il caso Mancini. Poi chiede a tutti documenti che abbiamo ottenuto in questi mesi e utilizzati per la messa in onda del filmato. Ecco, lo 007 che si è appellato più volte al segreto di stato e che grazie al quale si è anche salvato, ora chiede ai giornalisti di svelare il segreto professionale. Fantastico. Viva la libertà di stampa.

Il patto del Nazareno. Report Rai PUNTATA DEL 10/05/2021 di Luca Chianca. Un'esclusiva di Report. La caduta del governo Letta registrata su un nastro da Berlusconi: "Matteo Renzi entro il 20 febbraio manda a casa questo governo (di Enrico Letta, ndr) e si mette lui presidente del Consiglio".

“IL PATTO DEL NAZARENO” Di Luca Chianca

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo nel febbraio del 2014, da pochi mesi Berlusconi è stato condannato in Cassazione definitivamente con l’accusa di evasione fiscale. A palazzo Grazioli incontra uno dei giudici che l’aveva condannato, Amedeo Franco relatore della sentenza, anche se poi confiderà a Berlusconi che quella sentenza è stata una porcheria.

REGISTRAZIONE AMBIENTALE AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Il Presidente della repubblica lo sa benissimo di questa cosa quindi non lo so…

SILVIO BERLUSCONI Ma che cosa sa il presidente che…

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 lo sa che è stata una porcheria…

SILVIO BERLUSCONI Mmm…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il giudice non sa di essere registrato e quel nastro con la sua voce spunta dopo sette anni e solo dopo la sua morte. Ma chi lo ha registrato? Franco si era recato da Berlusconi almeno tre volte e per due volte a portarlo era stato l’ex magistrato dalle mille relazioni, oggi passato nel partito di Renzi: Cosimo Ferri, all'epoca sottosegretario alla Giustizia del governo Letta, è lui il link tra Berlusconi e Franco.

LUCA CHIANCA Eravate lei, Franco e Berlusconi e basta, voi tre?

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Sì. LUCA CHIANCA E quindi uno dei tre ha registrato però…

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Che ne so, io no di certo e non sapevo niente, quindi, glielo posso spiegare… Franco non penso…

LUCA CHIANCA Quindi rimane Berlusconi, il regista di tutta l'operazione…

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma no, che ne so, che ne so di chi ha registrato… posso dire che io non ero stato e che Franco penso che non sia stato…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO UNO Buonasera. Lunedi scorso avevamo mandato in onda i colloqui registrati da Berlusconi del suo incontro con il giudice di cassazione che lo aveva condannato. Ecco quel giudice aveva definito la sentenza una porcheria. E quei nastri emergono sette anni dopo i fatti e dopo che il giudice Franco era morto. Ora però siccome il nostro Luca Chianca è andato a recuperare l’originale, questo nastro è un po’ come il vaso di Pandora. Ci restituisce un cameo. Sopra c’è registrato, sopra quel nastro, il patto del Nazareno. Berlusconi indica esattamente il giorno in cui Matteo Renzi si sarebbe insediato dopo aver dato la spallata al governo Letta. Il nostro Luca Chianca. Ma come faceva a saperlo? Aveva la palla di vetro?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nei giorni in cui il giudice si incontra con Berlusconi, nel Paese sta accadendo altro. In quel momento si stavano aprendo le crepe all’interno del Partito democratico. Tra il neo segretario del partito Renzi e l’allora Premier Enrico Letta. Una crisi le cui avvisaglie erano cominciate ai primi di gennaio con una battuta di Renzi sull'allora viceministro dell'Economia Stefano Fassina.

GIORNALISTA So che è allergico alla parola rimpasto, però Fassina…

MATTEO RENZI Rimpasto, chi?

STEFANO FASSINA –VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA MAGGIO 2013- GENNAIO 2014 La battuta appunto sul sottoscritto era un messaggio politico chiaro al presidente del consiglio, toglietevi di mezzo il governo è mio. LUCA CHIANCA Il vero obiettivo era far cadere Letta.

STEFANO FASSINA – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA MAGGIO 2013- GENNAIO 2014 Assolutamente, guardi a proposito del governo Conte e dell'offensiva di Renzi ho rivissuto esattamente la stessa situazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Stessa situazione di sette anni fa, quando Fassina si dimette e lo stesso giorno va a casa di Enrico Letta.

STEFANO FASSINA –VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA MAGGIO 2013- GENNAIO 2014 Enrico mi dice che riusciremo a recuperare, a resistere a questa spinta e a mio avviso sottovaluta appunto la convergenza di interessi contro il suo governo. A mio avviso sottovalutò la portata dello tsunami che lo stava per investire. LUCA CHIANCA È lei che ha voluto Letta lì a guidare quel governo.

PIER LUIGI BERSANI – SEGRETARIO PD 2009-2013 Toccava a lui, io dissi certo Enrico guarda che tocca a te. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mentre Letta è al governo il nuovo segretario del partito Renzi dà vita al patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. È il 18 gennaio 2014, sono passati solo 5 mesi dalla condanna definitiva del Cavaliere nel processo Mediaset per evasione fiscale.

LUCA CHIANCA Quel patto serviva per scalzare Letta dal governo o avere un supporto esterno maggiore per scalzarlo?

PIER LUIGI BERSANI – SEGRETARIO PD 2009-2013 Sì diciamo creare una situazione di movimento diciamo nella politica che facesse vedere ancora una volta la presunta lentezza, inadeguatezza e così via del governo Letta.

LUCA CHIANCA Per la prima volta Berlusconi si ritrova da voi nella vostra sede con Renzi ma soprattutto in un momento in cui era fuori dai giochi, no? condanna definitiva per evasione fiscale e fuori dal parlamento in autunno, lui lo ritira dentro.

PIER LUIGI BERSANI – SEGRETARIO PD 2009-2013 Io credo di aver visto abbastanza per tempo dove Renzi voleva arrivare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il giorno prima l'incontro del Nazareno, Renzi è dalla Bignardi e lancerà il famoso hashtag Enricostaisereno.

DA “LE INVASIONI BARBARICHE” 17 GENNAIO 2014 MATTEO RENZI Enrico stai sereno, nessuno ti vuole prendere il posto, vai avanti, fai quello che devi fare, fallo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mentre Renzi rassicurava Letta, Berlusconi incontrava il giudice che lo aveva condannato e lo registrava di nascosto. E questo nastro spuntato dopo sette anni è un po' come il vaso di pandora: Report è venuto in possesso della sua versione integrale e scopriamo che in una parte inedita della registrazione è inciso l’accordo del Nazareno. È il 6 febbraio 2014 Berlusconi anticipa a Cosimo Ferri, all’epoca sottosegretario del governo Letta, e al giudice Franco, che Renzi farà cadere il governo Letta.

SILVIO BERLUSCONI Adesso vediamo cosa fa. Renzi accetto scommesse entro il 20 di febbraio manda a casa questo governo e si mette lui Presidente del Consiglio, noi cosa facciamo? Io resto all'opposizione e voto le riforme.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Scommessa vinta. solo sette giorni dopo la Direzione Nazionale del Partito Democratico chiede con una maggioranza bulgara le dimissioni del premier Letta. E come aveva anticipato Berlusconi il 21 febbraio nasce il Governo Renzi.

LUCA CHIANCA Se le dicessi che il 6 febbraio di quell'anno Berlusconi già sapeva che il Governo Letta sarebbe stato spazzato via e al suo posto nuovo presidente del consiglio sarebbe stato Renzi da lì a pochi giorni…

PIER LUIGI BERSANI – SEGRETARIO PD 2009-2013 Ah certo, se fosse vero una cosa di questo genere non ne sarei stupitissimo ecco, francamente.

LUCA CHIANCA Però Berlusconi sapeva quello che lei immaginava…

PIER LUIGI BERSANI – SEGRETARIO PD 2009-2013 Esatto così, se è così, è proprio così

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se la ride sornione Bersani. Certo fa un po’ impressione ascoltare le parole di Berlusconi su quel nastro che emerge sette anni dopo quei colloqui. Aveva identificato con precisione il giorno in cui si sarebbe insediato il governo Renzi, dopo aver dato la spallata al collega di partito Enrico Letta, dopo aver anche rassicurato con l’hashtag #staisereno. Ecco, insomma, aveva la palla di cristallo Silvio Berlusconi? È un veggente oppure aveva semplicemente annunciato un accordo segreto? Immagino che non lo sapremo mai.

Calenda difende il leader di Iv. Agguato di Ranucci a Renzi, dietro il falso scoop di Report l’ombra dei servizi segreti. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Non c’è due senza tre. Il racconto pompato da Report e giudicato poco attendibile dagli esperti avrà una terza puntata. Lunedì prossimo tornerà in scena l’ombra misteriosa dalle sembianze travisate e la voce distorta nota nell’ambiente come “la Professoressa”. Una figura femminile dal ruolo rassicurante e materno che coincide con i canoni di uno storytelling ben definito, ancorché non accurato. È una sceneggiata a puntate funzionale, al di là del colore, a una duplice campagna: quella politica contro Renzi e quella tutta interna all’intelligence tra due correnti, due cordate che se ne danno di santa ragione. Alla luce di questa guerra intestina si capisce meglio il perché del peso che una certa famiglia – in Rai, al Fatto, in Parlamento – attribuisce al fango da gettare addosso ai due protagonisti. Si capiscono meglio i dettagli: perché si sottolinea quel “tipo losco”, riferito a Mancini. Perché si ripete così spesso che qualcuno “proprio in quei giorni di dicembre” tramava ai danni del governo. L’immaginifica narrazione della “complicità”, del fantomatico “incontro carbonaro” tra Matteo Renzi e Marco Mancini cela lo scontro trasversale tra pezzi di Aise ed Aisi, le due agenzie di intelligence interna e internazionale. Che non a caso avviene sullo sfondo della lunga e imbarazzante fase di stallo del Copasir, impantanato da mesi nelle sabbie mobili della querelle tra Fratelli d’Italia e Lega. È in atto un confronto aspro tra due scuole di formazione, due circoli di appartenenza che separano i servitori dello Stato e li contrappongono in una disfida senza esclusione di colpi. Destinata ad avere un esito ravvicinato: sono in scadenza posti-chiave, le stanze dei bottoni che più contano nell’ambito dei servizi. Il rinnovo di cui più si parla ai piani alti dell’intelligence è quello di Mario Parente, direttore dell’Aisi, l’agenzia dei Servizi per l’interno. Nominato il 29 aprile del 2016 proprio da Matteo Renzi, Parente ha già avuto due proroghe: una dal 2018 al 2020 ed una seconda “tecnica” di un anno il 15 giugno del 2020 da Giuseppe Conte. L’ex premier, che teneva così tanto al controllo dei servizi segreti da aver a lungo agognato la nascita di una fondazione istituzionale preposta, ha nominato sul finire del suo mandato Luigi Della Volpe e Carlo Massagli come vicedirettori dell’Aise e Carlo De Donno quale vicedirettore dell’Aisi. Il cui numero uno va adesso rinnovato, entro un mese, con una corsa “inter pares” che non esita a tirare fuori qualche veleno. Di Marco Mancini la trasmissione Report si è incaricata di elencare non i successi (Beirut, Falluja, i teatri operativi in cui lo stesso ha rischiato grosso, venendo anche sequestrato da un gruppo islamico) ma i due processi subìti. Si sono premurati di sottolineare la vicenda del sequestro di Abu Omar, a carico della Cia, e la vicenda dello spionaggio Telecom che ha portato Mancini a processo nel 2006. Procedimento dal quale Mancini uscirà a testa alta, vedendo archiviate tutte le accuse. Per Abu Omar, imam egiziano sequestrato a Milano e riportato a Il Cairo, vennero condannati 19 agenti americani. Sul ruolo dei servizi italiani la Presidenza del Consiglio pose il segreto di Stato. Report lo contesta a Renzi, con l’inviato della trasmissione che gli dice: “Ha mantenuto il segreto”, in segno di complicità. Risulta per la verità diversa la dinamica dei fatti. Dal 2013 la Corte Costituzionale ha esaminato le carte per valutare la fondatezza del principio del segreto di Stato; lo stesso è stato confermato a tutela di Mancini e del suo operato alla guida dei servizi a partire dal 2006 da tutti e quattro i governi succedutisi: il secondo governo di Romano Prodi; il Berlusconi IV; il governo di Mario Monti e quello di Enrico Letta. Proprio lui, l’attuale segretario Pd e garante dell’alleanza con i Cinque Stelle ed il loro futuribile leader Conte. Non Matteo Renzi. E per dovere di cronaca, la Corte Costituzionale ha poi confermato la corretta applicazione del segreto di Stato sulla vicenda con la sentenza del 14 gennaio 2014, che estendeva il segreto ai documenti relativi al processo. Ma è nel procedimento Telecom/Sismi – intercettazioni illegali – del dicembre 2006 che forse va letta la storia in controluce. Le indagini preliminari a carico dell’agente segreto, inusualmente delicate, vennero svolte dalla Guardia di Finanza con l’attenzione dei suoi comandi più alti. E all’epoca al vertice operativo delle Fiamme Gialle c’era il generale Gennaro Vecchione, che poi diventerà amico personale di Giuseppe Conte (si racconta che le rispettive signore siano legate da altrettanta amicizia). Vecchione è stato rinnovato come Direttore generale del Dis nel novembre 2020 proprio da Conte. Erano i giorni in cui Matteo Renzi avvertiva: «Non abbiamo dato pieni poteri a Salvini, adesso non possiamo darli ad altri». Certamente Conte sta con Vecchione e dunque Mancini parla volentieri con Renzi. «In maniera del tutto normale e più che legittima», dichiara Carlo Calenda al Riformista, sorpreso per la grancassa mediatica.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Politici e servizi segreti, l’intreccio di un’attrazione dai tempi di Dc e Pci. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 7 maggio 2021. SCOOP. Ecco a voi Matteo Renzi in persona beccato in un’area di parcheggio dell’autostrada mentre chiacchiera in pieno sole con un funzionario dei servizi segreti che fu il numero due del generale Pollari. Quando era al comando del Sismi, servizio segreto militare, quando io ero Presidente di una Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle penetrazioni sovietiche durante gli anni della guerra fredda. Ero quindi in eccellenti rapporti istituzionali con quel capo dell’intelligence e nel passato mi sono occupato mille volte come giornalista dei servizi segreti italiani, in connessione di scandali o presunti tali degli anni Sessanta, Settanta. Per mestiere, prima come giornalista e poi come presidente di una commissione che indagava sulle spie, ho frequentato molto a lungo quella che viene chiamata “Intelligence community”, l’ambiente di chi si occupa di intelligence. Grazie a quell’esperienza ho imparato molto. Ad esempio, che nessuno è così pazzo a distruggere o bruciare un documento. Basta cambiargli posto e sarà perso per sempre. Oggi, i servizi segreti sono pieni di giovani “nerd” che sanno smanettare su internet e hackerare, maneggiando telecamere e connessioni satellitari. Il genere che potrete conoscere se già non le conoscete in serie molto ben fatte come “Homeland” o il raffinatissimo francese “le Bureau”. L’Italia non produce telefilm su sè stessa. Non vedremo mai in Italia un film in cui, che so, il comandante generale dei Carabinieri, in combutta con un politico, piega il corso degli eventi a suo vantaggio. Gli americani e gli inglesi, oltre i francesi e gli scandinavi lo fanno, ma da noi quel mondo è tenuto lontano dagli schermi. Fino a poco tempo fa, quando ho smesso di occuparmene, nei nostri servizi segreti si assumevano per lo più parenti e fidanzate dei raccomandati. Ma i servizi segreti sono sempre rimasti sulla linea d’ombra della politica italiana per due motivi: forniscono informazioni e forniscono disinformazioni. Disinformare è un’arte molto più produttiva che informare. E per i politici è spesso vitale: sputtanare un avversario è molto più importante che raccogliere notizie. Il fatto è che bisognerebbe poter distinguere fra servizi segreti e segreti servizi, ma quando c’è la politica di mezzo non sempre – anzi quasi mai – è possibile. In ogni democrazia esiste il problema del comando e della gestione dei servizi segreti in modo che queste entità lavorino per il Paese e la sua sicurezza, e non per i partiti politici. In Italia è stato e seguita ad essere un problema irrisolto. Ai tempi dell’Italietta post-risorgimentale le cose erano più semplici: lo spionaggio apparteneva alla sfera militare al resto ci pensava la polizia con i suoi infiltrati, agenti provocatori, doppiogiochisti e ricattatori. Il fascismo istituì l’Ovra, la cui sigla fu concepita da Mussolini per motivi comunicativi: suonava come piovra e incuteva timore. Poi la guerra ha messo in mostra tutte le carenze: le forze armate italiane ignoravano che sia gli alleati tedeschi e che i nemici inglesi avessero il radar. E si arriva al dopoguerra con la nascita del servizio poliziesco del ministero degli Interni che ebbe finalmente un nome ufficiale: Ufficio Affari Riservati. Riservati a chi? Certamente al governo e ai suoi ministri ed alleati. Il servizio segreto militare prese il nome troppo lungo di Sifar che fu messo in riga dall’alleato prima inglese e poi americano. Ovviamente i servizi segreti erano gestiti dalla democrazia cristiana e passarono di mano dall’area che faceva capo a Mario Scelba quando era il potentissimo ministro degli interni che fronteggiava il pericolo comunista con i reparti antisommossa della “Celere”, ma poi passarono ad Aldo Moro e da lui al giovane Francesco Cossiga suo sottosegretario agli Interni con delega ai servizi segreti. Cossiga sarà poi ministro degli interni, proprio durante il rapimento di Aldo Moro e si dimetterà dopo il ritrovamento del cadavere dello statista trucidato dalle Brigate Rosse. Francesco Cossiga è stato l’uomo che più di ogni altro nella politica italiana si è vantato di essere competente nell’intera area dell’intelligence. E, con un po’ di esagerazione letteraria, lo era. Ma allora, finché la guerra fredda era in atto, l’Italia aveva due fronti aperti: quello con ingerenze sovietiche diffusissime sia a livello politico che economico e militare, sia nella gestione delle faccende mediterranee, in particolare libiche e del petrolio. L’Eni di Mattei aveva il suo apparato di intelligence che trattava direttamente con le potenze mediorientali e in perenne guerra con i francesi, gli inglesi spesso gli americani. In genere si dà per scontato che l’incidente aereo in cui morì Mattei fu dovuto a un sabotaggio omicida probabilmente ordinato dai francesi anche se non è stato mai provato. Ma Mattei significava democrazia cristiana e anche in una certa parte partito comunista e partito socialista. Contenere i palestinesi dopo la guerra del 1967 e la nascita dell’Olp di Arafat fu un compito molto molto complesso perché si trattava di trattenere gli arabi in Italia dal compiere atti di terrorismo consentendo loro una certa libertà di azione cosa che fu chiamata in maniera molto sbrigativa “Lodo Moro”. I servizi segreti subirono un brutto scossone quando nel luglio del 1960 scoppiarono i cosiddetti fatti di luglio una serie di rivolte contro il movimento sociale italiano che sosteneva apertamente il governo di Fernando Tambroni voluto dal presidente della Repubblica Giovanni gronchi. Il movimento sociale era apertamente un partito neofascista in un’epoca in cui ancora in Italia esisteva una fortissima corrente fascista, erano vivi sia i partigiani che i loro nemici specialmente durante la guerra civile e la Repubblica di Salò, motivo per cui la nascita del governo Tambroni fu un evento politico traumatizzante perché rompeva violava la regola dell’arco costituzionale. Questo “arco costituzionale” comprendeva tutti i partiti antifascisti e quindi lasciava fuori soltanto il MSI. L’accordo era che il PCI sedesse nell’arco costituzionale, senza poter entrare al governo per motivi di politica estera, a condizione che i fascisti del MSI fossero fuori sia dell’arco che dal governo. L’operazione Tambroni aveva rotto gli equilibri e le conseguenze furono sanguinose. Portare i fascisti al governo anche se senza ministri, costituiva un trauma politico al quale l’organizzazione del partito comunista reagì con manifestazioni molto violente alle quali reagì la polizia in modo altrettanto violento, sicché ci furono moltissimi morti a Genova, dove avrebbe dovuto tenersi un provocatorio congresso del MSI, a Livorno a Parma a Roma a Palermo a Reggio Emilia. Il trauma politico si ricompose dopo la caduta del governo Tambroni e una certa pacificazione appunto ma dal punto di vista internazionale quel trauma aveva voluto dire che l’Italia non era in grado di fronteggiare un eventuale insurrezione guidata dei comunisti. Si trattava di una conclusione molto sommaria e poco realistica ma comunque determinò uno sconvolgimento nei servizi segreti e nel Sifar oltre alla nascita di un nuovo organismo affidato all’arma dei carabinieri che fu dotata per la prima volta di una brigata corazzata del tutto spropositata per questioni di ordine pubblico, ma che avrebbe potuto agire in caso di guerra civile per rassicurare gli alleati. La costituzione di questa brigata e il fatto che l’ordine pubblico fosse affidato quasi in esclusiva al comandante dei carabinieri De Lorenzo, il quale era allo stesso tempo comandante del servizio segreto fece precipitare l’Italia in una crisi profonda che durò molti anni. Emerse senza prove l’ipotesi di un colpo di Stato appoggiato dal presidente della Repubblica Antonio Segni e si disse che questo presidente fosse stato colto dal malore che lo portò a morire dopo alcuni giorni, in seguito ad un alterco con alcuni leader politici che lo accusavano di ordire trame. Tutto questo fu in realtà una creatura mostruosa creata da operazione di disinformazione del KGB in Italia, come mi confermò proprio nella commissione Mitrokhin l’allora capo della Residentura sovietica a Roma Kolosov e il risultato fu un lungo strascico di odi, sospetti rancori che spaccò il paese in due. Certamente l’Italia era colonizzata dagli americani dal punto di vista dell’intelligence ma non meno dai russi, anzi i sovietici avevano un potere di influenza enorme e lo esercitavano non attraverso il partito comunista, per una scelta strategica, ma piuttosto attraverso elementi che ritenevano molto più affidabili all’interno della democrazia cristiana e del partito socialista. Gli anni ‘70 furono quelli del terrorismo e poi del caso Moro, ma furono gli anni dello scontro frontale fra due capi dei servizi segreti italiani, il generale Miceli e il generale Maletti i quali rappresentavano rispettivamente la sfera d’influenza filoaraba e quella filoisraeliana. Miceli era un siciliano poco duttile mentre, Gian Adelio Maletti era un ufficiale con una tradizione familiare alle spalle, piemontese e un uomo di intelligence sofisticato. Maletti appoggiò apertamente il segretario socialista Giacomo Mancini, il quale era in conflitto con la Democrazia cristiana su una serie di dossier. Questi riguardavano la gestione della sanità, lo sviluppo del Mezzogiorno e l’uso politico dei servizi segreti. Mancini fu l’oggetto di una delle più rabbiose campagne di stampa organizzate dei servizi di fede democristiana appoggiati dalla stampa di estrema destra che scatenarono un vero linciaggio politico contro il leader socialista molto legato anche ai radicali e ai dissidenti del Pci. Mancini si difese alleandosi con Maletti che lo sosteneva, contrattaccando Miceli che era invece il rappresentante della DC che faceva affari con la Libia, paese in cui il colonnello Gheddafi era stato installato con un colpo di Stato guidato dai servizi italiani, con una solida contropartita petrolifera su cui vegliava il ministro Andreotti, che era stato in primo tempo il “cavallo di razza” preferito dagli americani e dalla Cia, ma che nei primi anni Settanta cominciò la sua conversione ad “U” in senso sia filoarabo che pro-sovietico. Che cosa c’entra l’incontro di Renzi nel parcheggio della stazione di servizio dell’uscita Fiano dell’Autostrada del Sole? Onestamente, non lo sappiamo. Ma il fatto in sé, benché non avesse assolutamente nulla di segreto è diventato uno strano scoop televisivo di cui diremo nel prossimo articolo.

Mirella Serri per "la Stampa" il 24 maggio 2021. Il più rispettato dei partigiani della divisione Valtoce fu il comandante Alfredo Di Dio che il 12 settembre 1944 cadde in un' imboscata dei tedeschi. A prendere il suo posto fu l' amico e braccio destro Eugenio Cefis. Circa 25 anni dopo l' ex repubblichino Giorgio Pisanò scrisse sul Candido che su Cefis aleggiava il sospetto che non avesse approntato soccorsi adeguati allo scopo di diventare lui stesso il capo della formazione cattolica. Quest' ombra accompagnò per tutta la vita il presidente di Eni e di Montedison, il quale nell' armadio collezionava anche altri scheletri: come il fatto di non aver mai raccontato la feroce repressione antipartigiana di cui fu protagonista con il Regio esercito in Slovenia durante la Seconda guerra mondiale, il suo ambiguo ruolo di agente del Sim, il servizio di informazioni militare, l' arresto a Milano alla fine del conflitto da parte dei partigiani comunisti per aver favorito l' esodo verso la Svizzera di truppe tedesche in ritirata. Insomma, la vita pubblica di Cefis, di cui il 21 luglio ricorrono cento anni dalla nascita, prende avvio con tanti oscuri episodi, a cui poi anche molti altri se ne aggiunsero: è il giornalista Paolo Morando a svelarci con dovizia di documenti inediti la vicenda di Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e di misteri (Laterza, pp. 375, 20). Il nome dell' imprenditore di Cividale del Friuli, scomparso nel 2004, oggi torna alla ribalta anche per la rinnovata richiesta di presenza pubblica nell' economia di cui nel dopoguerra fu il grande alfiere. Tornano d' attualità il pensiero e l' operato di questo «esponente della borghesia di Stato», come lo appellò l' allora governatore della Banca d' Italia Guido Carli? «Non c' è dubbio. Come visione e come spirito oggi più che mai Cefis è molto moderno», commenta l' economista Innocenzo Cipolletta, presidente di Assonime. «Come Enrico Mattei ed Enrico Cuccia, anche lui coltivava e metteva in atto le sue idee sul ruolo industriale dello Stato senza essere il mero portavoce delle esigenze dei partiti politici. Il suo progetto fallì? Certo, ma perché mancarono gli imprenditori e i capitali e il mercato poté riempire i vuoti e conquistare gli spazi lasciati liberi». Evocare oggi Cefis suona come la richiesta di nuovo equilibrio tra pubblico e privato? Non a caso quest' anno il Festival dell' Economia di Trento (dal 3 al 6 giugno) avrà come titolo «Il ritorno dello Stato» e si parlerà anche dell' imprenditore friulano. «Nel 1972, in un discorso all' Accademia militare di Modena, Cefis poneva il problema dell' avvento prepotente delle multinazionali e del rischio che si delineava per le democrazie occidentali, con lo svuotamento del potere degli Stati e dei partiti», spiega Morando. «Cefis prefigurava un futuro in cui alcune centinaia d' imprese multinazionali avrebbero fatto il bello e il cattivo tempo. Ora l' economia internazionale è governata da player meno numerosi ma assai pervasivi: Google, Amazon, Facebook, Microsoft. Non vagheggiamo, oggi, il modello delle Partecipazioni statali e le sue storture, un modello economico che i partiti della Prima repubblica hanno fagocitato per propri fini, ma la parabola di Cefis e della Montedison può insegnarci parecchio». Per tornare alle singolari e assolutamente uniche vicissitudini politiche ed esistenziali del «corsaro all' arrembaggio dei galeoni di Stato», come lo definì Eugenio Scalfari nel celebre Razza padrona (scritto con Giuseppe Turani), ad alimentare l' aura di segreti e di rimozioni che sempre circondò il manager friulano furono varie morti e incidenti associati alla sua persona. Dopo la drammatica fine di Enrico Mattei, il cui aereo precipitò nel 1962 a seguito di un attentato, vi fu chi sostenne che il mandante dell' omicidio fosse Cefis il quale lo sostituì alla testa dell' Eni. Trame e indiscrezioni accompagnarono anche la successiva escalation del finanziere, il quale nel 1968, con fondi pubblici e con l' aiuto del banchiere Cuccia, conquistò Montedison, la maggiore industria privata italiana. Nel 1970 scomparve nel nulla Mauro De Mauro, poco prima che consegnasse al regista Francesco Rosi i materiali per il film Il caso Mattei. Venne individuata dietro al delitto la longa manus dell' imprenditore-corazziere, soprannominato così per la stazza imponente. Sospetti analoghi maturarono intorno alla tragica morte di Pier Paolo Pasolini, assassinato quando era al lavoro su Petrolio, romanzo-inchiesta dedicato a Cefis e a Mattei. Il saggio di Morando segue pure le piste di tangenti e fondi neri per finanziare partiti e movimenti sovversivi di estrema destra e ripercorre le diramazioni dello sterminato potere della «razza padrona» sostenuta dalla Dc di Amintore Fanfani. La leggenda nera del finanziere-imprenditore, che ebbe anche un convinto e instancabile avversario nell' Avvocato Gianni Agnelli, proseguì a ridosso del suo inaspettato abbandono di Montedison e dell' Italia. Quando nel 1977 annunciò a Cuccia l' improvvisa decisione di ritirarsi, sembra che il banchiere di Mediobanca abbia detto: «Questo da lei non me lo aspettavo. Credevo che lei avrebbe fatto il colpo di Stato». Morando mette in dubbio l' autenticità delle parole di Cuccia. Ma il fatto stesso che queste parole siano state considerate fino a oggi assai plausibili testimonia il pericoloso clima d' illegalità e di delitti irrisolti che ha dominato l' Italia all' epoca del «corsaro» ricco di idee e di visioni su uno Stato imprenditore.

Un libro fantasma svela le trame intuite da Pasolini. Luigi Mascheroni il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Pochi lo conoscono e ancor meno lo hanno letto: è il libro-inchiesta "L'uragano Cefis". Ecco cosa c'è scritto. Dietro le trame politico-finanziarie che avvolgono gli anni '70, dietro l'affaire Mattei, dietro il romanzo-inchiesta Petrolio che Pier Paolo Pasolini iniziò a scrivere nel 1972 e ancora stava scrivendo quando fu ucciso nel novembre del '75 sul litorale di Ostia, così come dietro molte ricostruzioni giornalistiche e inchieste giudiziarie di quell'epoca vischiosa e ancora oggi a tratti oscura, c'è un libro misterioso. Inseguito da giornali e da pistaroli, citato da magistrati, ricordato dai critici e dai biografi di Pasolini, cercato da collezionisti e bibliofili. S'intitola L'uragano Cefis, fu scritto da un fantomatico Fabrizio De Masi (uno pseudonimo), con un'introduzione di un altro alias, tale Pier Crescenti, e fu pubblicato da una sigla editoriale sconosciuta, Egr, senza data, ma molto probabilmente agli inizi del '75. Si tratta di una biografia per nulla ufficiale di Eugenio Cefis, il protagonista della finanza italiana negli anni '60-70, Signore e padrone del petrolio, del gas e della chimica, una vita di potere e intrighi, a lungo al timone dell'Eni, poi alla testa di Montedison, uscito di scena nel '77, ritiratosi a vita privata in Svizzera e morto nel 2004 - non si conosce neppure il giorno esatto - senza che di lui si ricordi, né prima né durante né dopo la grande stagione del potere, una sola intervista o un'apparizione pubblica di rilievo. Bene. Quel libro, uno spietato capo d'accusa contro il grande burattinaio d'Italia, era una «storia dal vero» che svelava vita e misfatti di un «industriale privato allergico a scrupoli e remore: il maneggione irruente e villano, il padre naturale d'immobiliari e holding finanziarie pro domo sua, il meschino accomandante di società da casella postale nel Liechtenstein e nel Canton Ticino; l'evasore fiscale e lo spallone di valuta; il rivenditore al minuto e all'ingrosso del metano della fabbrica, il dinamico ma distratto manipolatore d'interesse privato in atti d'ufficio», come scrive l'ignoto autore della prefazione. In quel momento - metà anni '70 - un libro del genere poteva essere una bomba. Ma fu bloccato prima dell'uscita in libreria. Da chi e perché, è facile intuirlo. Probabilmente fu scritto solo per ricattare Cefis e, una volta ottenuto lo scopo, fatto sparire. Non si sa in quante copie fu stampato. L'uragano Cefis non è presente in alcuna biblioteca pubblica italiana. Pochissime le persone che lo hanno letto. Tra cui Riccardo Antoniani, italianista e studioso di Pasolini; il magistrato Vincenzo Calia, che come pm ha condotto la terza inchiesta sulla morte di Enrico Mattei; il giornalista Paolo Morando, autore del nuovo saggio Eugenio Cefis: Una storia italiana di potere e misteri (Laterza); il film maker Salvatore Diodato, che sta lavorando a un docufilm sulle morti intrecciate di Mattei, De Mauro e Pasolini; e l'editore Giovanni Giovannetti, il quale da una vita studia la materia e con la sua casa editrice di Pavia, Effigie, ha deciso di pubblicare finalmente, entro l'anno, questo libro fantasma. L'aspetto curioso della vicenda, uno dei tanti, è che tutti loro lo hanno letto su fotocopie (o fotografie) dell'unica copia superstite di cui si è a conoscenza. E cioè l'esemplare posseduto da Marcello Dell'Utri, uomo forse non a caso sia politico sia bibliofilo, conservata nella sua Biblioteca di Via Senato, a Milano. Ci siamo andati e abbiamo chiesto il libro. Eccolo finalmente, l'enigmatico e rarissimo L'uragano Cefis. Ottime condizioni, di fatto intonso. La cosa che più colpisce è che la sigla dell'editore (Egr) compare solo sulla costa: sia al piede della copertina sia all'interno è sbianchettata. E poi l'ultima pagina, il colophon: tagliata con cura, con un taglierino. Impossibile sapere da chi e quando è stato stampato. Finora L'uragano Cefis - che Dell'Utri possiede da una ventina d'anni, «ma a essere sinceri non mi ricordo da chi l'acquistai, mi sembra che me lo propose un giornalista d'Imperia...» - è uscito dal Palazzo di Via Senato una sola volta, nel marzo 2010, quando lo stesso Dell'Utri organizzò all'interno della «Mostra del libro antico» di quell'anno, alla Permanente di Milano, una piccola esposizione di fotografie e libri di Pasolini. L'uragano Cefis era esposto in una bacheca (sopra un'errata didascalia che ne attribuiva la curatela a Giovanni Raboni, Laura Betti e Francesca Sanvitale) ed era accanto a un altro volume misterioso, sebbene non così raro: Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente di Giorgio Steimetz (pseudonimo di Corrado Ragozzino, collaboratore di Graziano Verzotto, senatore democristiano e uomo di Mattei nonché tra le fonti di Mauro De Mauro) edito nel 1972 dalla Ami, cioè l'Agenzia Milano Informazioni finanziata dallo stesso Verzotto. Un pamphlet che svela il ruolo oscuro di Eugenio Cefis nella politica italiana e gli ambigui rapporti tra Stato e potenze occulte. Da notare che mentre L'uragano Cefis probabilmente non arrivò mai nelle mani di Pasolini, Questo è Cefis (ripubblicato proprio dalla Effigie di Giovanni Giovannetti nel 2010) fu a lungo sul tavolo da lavoro dello scrittore, il quale ne aveva avuto una copia dall'amico psicoanalista Elvio Fachinelli, direttore della rivista L'erba voglio che all'epoca promosse una violenta campagna contro Cefis... Comunque. Prima domanda, fra le tante. Dietro i due libri c'è la stessa mano? Probabilmente no (però curiosamente la grafica delle due copertine è simile). Rispetto a Questo è Cefis, più ironico e «narrativo», L'uragano Cefis è puntuale e ricco di informazioni: dati, cifre, nomi. Chi lo ha scritto ha spulciato con l'abilità di un commercialista tra documenti della Camera di commercio, bilanci, statuti, registri societari... Un lavoro - da questo punto di vista - eccellente. Che poi sia stato usato come arma di ricatto per estorcere soldi o altro a Cefis, è un dettaglio. Seconda domanda. Chi ha venduto i due libri a Dell'Utri è la stessa persona che, proprio nel 2010, gli mostrò il famoso capitolo fantasma di Petrolio «Lampi su Eni» (l'«Appunto 21») su cui eredi e parenti di Pasolini, critici, curatori e studiosi si accapigliano da anni? Sembra di no. Però la visita alla Biblioteca di via Senato ci ha permesso di chiedere a Marcello Dell'Utri - per tutti «il Dottore» - come andarono le cose. Ecco la risposta: «Una mattina, era il 2010, stavo per inaugurare un evento alla Biblioteca di via Senato. Io ero nel cortile del palazzo. Dentro c'erano i giornalisti e gli invitati, quando una persona mi saluta e mi dice che ha una cosa per me. Le carte originali di un capitolo mancante di Petrolio, Lampi su Eni. Mi mostra un fascicolo, lo sfoglia e io, più che vedere, intravedo dei fogli e la carta carbone... Gli dico che in quel momento non posso fermarmi con lui, di richiamarmi il giorno dopo, che sono curioso e la cosa mi interessa. Poi commetto l'ingenuità, subito dopo, di parlare di quei fogli in conferenza stampa, e di dire che li avrei esposti alla Mostra del Libro antico che ci sarebbe stata di lì a poco... A quel punto esplode il caso sui giornali e quella persona, spaventata, scompare... Oggi non saprei neppure dire se le carte erano vere o false». Terza domanda. Ma cosa c'è «dentro», L'uragano Cefis? Risposta: «La storia mediocre di un uomo mediocre», come strilla la quarta di copertina: «Un personaggio, il tutto, un bric-à-brac d'avventura e coraggio, d'iniziativa e profitto, di ambiguità e malafede. Un'indagine spietata del Sistema-Cefis. Un detector per chi crede ancora alla giustizia. Un signore o un ciarlatano? L'uno o l'altro? Questo libro non lascia adito a interrogativi inevasi. Per un giudizio quasi definitivo, in un processo a porte quasi spalancate, il dossier è completo». Il libro - che pure deve essere preso con le pinze, perché scritto a scopo ricattatorio - svela la storia, senza censure, del «Maxicefis», il «Montedisonman», il «Gran Maestro della Loggia petrolchimica». Si ricostruisce biografia, patrimonio, legami politici e finanziari di Cefis, «l'uomo più potente d'Italia, il tamburino (friulano) di Foro Bonaparte, il nocchiero finanziario della livida palude italica» raccontando - fra cifre, allusioni e piccoli squallori (un'amante) - la postazione dominante da cui Cefis «può razziare giornali, infestare partiti, condizionare opinioni, golpeggiare governi, insabbiare inchieste, addomesticare storici compromessi, ipotecare finanza e industria». Si dà conto dell'immensa fortuna che gli porta in dote la moglie, Marcella Righi, e delle successive speculazioni edilizie a Milano. Si narra l'incredibile scalata alla Montedison. E si fa la conta (nel capitolo «Il dumping della stampa e dell'editoria») dei soldi passati ai giornali attraverso prestiti o pubblicità per tenerseli buoni. Quello che colpisce l'anonimo autore del libro, e incuriosisce il lettore, è come Cefis abbia potuto fare tutto ciò, a tali livelli, tanto a lungo, e sempre restando impunito. Forse è vero: perché siamo in Italia. Mentre negli Usa e in Urss, pur su opposti versanti rispetto all'idea di democrazia, si conducono indagini, legali o meno, su chiunque sia designato ad alte cariche, «In Italia - si legge in L'uragano Cefis - si schedano le peripatetiche (forse) e gli scolari sottoposti all'immunizzazione con vaccini. Per questo oggi abbiamo il fenomeno da baraccone Cefis, goffo e allampanato manager, insospettabile e insospettato: perché nessuno a tempo debito ha osato avvicinarlo da presso».

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 9 maggio 2021. Prima di cominciare qualche data per orientarsi in questa e nelle pagine seguenti. Enrico Mattei, ex capo partigiano, viene nominato liquidatore dell'Agip da Cesare Merzagora il 28 aprile 1945. L' Agip era l'ente statale per la produzione, lavorazione e distribuzione dei petroli. Mattei capisce le potenzialità dell'azienda, che diventa Eni. Il presidente è convinto che l'indipendenza nel campo dell'energia sia fondamentale per la rinascita dell'Italia. Inizia a muoversi molto: stringe affari con l'Unione Sovietica, spiazza le multinazionali offrendo contratti vantaggiosi ai fornitori mediorientali, prende accordi con le forze anticolonialiste in Algeria, pesta i piedi un po' a tutti, rompendo equilibri industriali che avevano resistito anche al Fascismo. Mattei ama la disciplina militare e si circonda di ex partigiani. In particolare chiama Eugenio Cefis, abile imprenditore. Mattei è dappertutto, Cefis lavora nel riserbo più totale. Dopo la morte di Mattei, e il regno di passaggio di Raffaele Girotti, Cefis diventa il successore di Mattei. Poi, il colpo di scena. Cefis si dimette e scala, con i soldi pubblici, la più grande azienda privata italiana: nasce Montedison. Altro colpo di scena: Cefis si ritira giovane e ricco, senza motivo apparente, nel 1977. Il caso Mattei finisce nel mirino di giornalisti e giudici: non incidente aereo ma omicidio. L' aereo caduto a Bascapè era stato manomesso. A chi giova la morte di Mattei? A Cefis, dicono in molti. E qui inizia la leggenda nera di Cefis. La vicenda è insabbiata, Mattei aveva troppi nemici. E chiunque provi a tirarla fuori finisce molto male: tocca morire prima a Mauro De Mauro e poi a Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo (uscito postumo) Petrolio non si accontentava di dire io so. Questa volta voleva tirare fuori anche i nomi. Il primo della lista, avrete capito, è Eugenio Cefis. Intorno alla scrivania di Pasolini ci sono giri di carte tutti da chiarire. Fatto sta che lo scrittore vorrebbe inserire a metà romanzo gli interventi pubblici di Cefis, a suo dire eversivi. In particolare, Pasolini è colpito dal discorso tenuto all' Accademia militare di Modena, dove Cefis profetizza la fine dello Stato tradizionale, superato dal potere delle multinazionali. Anche l' esercito dovrà cambiare, in vista di questa trasformazione in senso globale dell' economia e della politica. Cefis è sospettato di tutto: aver fondato la loggia P2, aver designato come successore Licio Gelli, aver complottato contro lo Stato, essere il mandante occulto dell' omicidio Mattei, aver avallato il sistema delle tangenti, aver fatto l' imprenditore privato con i soldi pubblici, aver deviato i servizi per essere sempre al corrente di cosa accade, aver foraggiato la stampa, tutta quanta o quasi, compreso il giornale che stringete tra le mani, essersi arricchito personalmente in modi poco chiari. Secondo i complottisti, chi indaga su Cefis, come il giornalista Mauro De Mauro e lo scrittore Pier Paolo Pasolini, muore. Forse i nemici provano a ricattare Cefis con libri-calunnia come Questo è Cefis di Steimetz e Uragano Cefis: saggi diffamatori, scritti da autori fantasma, stampati in poche copie, forse ritirate dal commercio da Cefis stesso. Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza) di Paolo Morando ridimensiona la leggenda nera e lancia spunti o tracce da seguire.

Primo. La misteriosa origine delle ricchezze non è misteriosa: Cefis è diventato imprenditore con i soldi della ricchissima moglie.

Secondo. Le misteriose vicende del Cefis partigiano non sono misteriose: sono state raccontate sia nella memorialistica sia da Cefis in piccole pubblicazioni. Non era un doppiogiochista e nemmeno un agente, anche se era il terminale di molti informatori, visto il suo ruolo di capo.

Terzo. Un appunto dei servizi indica in Cefis il fondatore della P2. Si tratta dell'allegato a un appunto da vagliare al fine di vergare la vera e propria nota informativa. Ovvero: siamo al fondo del pozzo delle informazioni riservate. Attendibilità scarsa.

Quarto. Il rapporto con Mattei. Era ottimo, di reciproca ammirazione. Difficile dire se alla fine, quando Cefis si ritirò per qualche tempo prima di rientrare in Eni da presidente, i due avessero litigato.

Quinto. Il discorso di Modena, lungi dall' essere eversivo, è una previsione esatta della globalizzazione. Il testo non fu scritto da Cefis. L' ispiratore e forse in parte estensore fu Gianfranco Miglio. Sesto. Cefis si ritirò perché era stufo delle ingerenze della politica nei suoi piani industriali. Temeva che il conto del sistema delle mazzette, al quale non poteva sottrarsi, sarebbe arrivato a lui. Per questo trattò una uscita senza clamori in cambio di protezione dalle inchieste. Il finale del saggio, davvero ben fatto, rilancia la pista francese ma lasciamo al lettore scoprire in che modo.

C' è un'ultima cosa da segnalare. Tra i vari brandelli di complottismo più o meno smontati da Morando, è incredibile la storia sulla morte del cantautore Rino Gaetano, che nasce da un libro dell'avvocato Bruno Mautone, Chi ha ucciso Rino Gaetano? Sotto esame il brano Berta filava. Eccone alcuni versi: «E Berta filava / E filava con Mario / E filava con Gino / E nasceva il bambino che non era di Mario / E non era di Gino». Berta sarebbe il generale Robert E. Gross, fondatore della Lockheed, azienda costruttrice di aerei che distribuì mazzette a politici e alti gradi militari. Mario sarebbe Mario Tanassi, Gino invece sarebbe Luigi Gui: entrambi ministri della Difesa finiti davanti ai giudici. Il bambino sono le tangenti. «Il santo vestito d' amianto» che sembra benedire l'operazione sarebbe Cefis. Non è finita qui. Nello stesso disco di Berta filava c' è un'altra canzone criptica intitolata La zappa, il tridente, il rastrello. Il testo fa riferimento a giocatori di bridge in una mansarda di via Condotti a Roma. Luogo dove si incontravano gli iscritti alla P2. Ci permettiamo (io e il collega Matteo Sacchi) di aggiungere che nella stessa canzone, uscita nel 1976 pochi mesi dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, si dice: «Giovane e bello divo e poeta / con un principio d' intossicazione aziendale». Stai a vedere che Gaetano cita Pasolini e il motivo della sua morte... Rino muore il 2 giugno 1981 alle sei di mattina, in seguito a un grave incidente stradale. Molti ospedali di Roma lo rifiutano per mancanza di letti. Quando arriva al Gemelli è troppo tardi.

Giorgio Boatti per “Domani” il 7 maggio 2021. Se scrivere una biografia è dare un ordine, e magari trovare un senso, all'accadere delle cose dentro una vita, Paolo Morando, col suo libro, ci è riuscito alla grande. Con uno scrupolo documentario e un rigore d'esattezza esemplari. Però, trattandosi di Cefis, la faccenda si complica. La sfida si alza. E di parecchio. Poiché Cefis non è stato solo uno degli uomini più potenti, più temuti, più discussi, della seconda metà del Novecento italiano. Cefis è stato, anzi, continua a essere, nel nostro paese, una leggenda inquietante. Inchieste giudiziarie e investigazioni giornalistiche, libri e libelli e saggi, voci e illazioni. Un'immensa e composita costruzione narrativa, in corso da tempo e mai interrotta, ne ha filato e tessuto la leggenda minacciosa. Morando ne espone l'accurato repertorio. Qui, tanto per ricordare, alcuni esempi. Cominciando dal bestseller del 1974 Razza padrona diventato, dirà poi Cefis, il «Manuale degli imprenditori privati spinti alla riscossa contro l'industria di stato» dagli autori, Turani e Scalfari. Uno Scalfari, aggiungerà Cefis anni dopo, che operava «non per ragioni ideali o di principio ma perché la Fiat era per lui una miniera d'oro inesauribile». Prima di Razza padrona era arrivato Questo è Cefis di Giorgio Steimetz (nome di copertura del vero autore) edito dall'agenzia giornalistica Ami esclusivamente per spillare quattrini a Cefis. Proprio quando stava in mezzo al guado, nel salto dall'Eni alla Montedison. Altro libro avvelenato L'assassinio di Enrico Mattei di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi. Qui, ovviamente, sul delitto si fa aleggiare l'identikit di un mandante. Assai somigliante a Cefis. Anni dopo uno degli autori ammetterà che il libro nasce su input molto concreto di Giorgio Valerio, il patriarca dell'archeocapitalismo milanese messo in croce dalla scalata di Cefis. Altre volte è il giornalista neofascista Giorgio Pisanò che bussa a quattrini, facendo soffiare aria di reportage e scoop. Sedati da generosi interventi. Nello stendere coraggiosamente il catalogo di questa leggenda Morando fa emergere la patologica fisiologia di un giornalismo che, spesso, va oltre ogni spregiudicatezza deontologica. Da questa fabbrica informativa esce alla fine la leggenda. E la leggenda produce l'avatar di un Cefis incarnazione e origine di buona parte dei mali che hanno azzoppato l'Italia. Che ci hanno guastato. Guastato chi e cosa? A quanto pare hanno guastato quel paese che prima era puro e autentico. Abitato da un popolo che, senza i Cefis e quelli come lui, aveva genuinità di pensieri e freschezza di gesti quotidiani. E semplicità di luoghi. Dove, dal buio di notti serene, sarebbero spuntate ancora le lucciole. Le lucciole, appunto. Pasolini, nell'articolo sulle lucciole apparso sul Corriere della Sera nel febbraio del 1975, ha in mente proprio il Cefis, presidente della Montedison, quando evoca quel «potere reale» contro il quale si scaglia. Un articolo che si conclude così: «Sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola».

La leggenda nera. Quando Pasolini scrive l'articolo è, da tempo, alle prese con Petrolio. Lavora al canovaccio di romanzo nel quale vuole raffigurare e trafiggere il nuovo «potere reale» che a suo parere sta imponendosi sull'Italia. Al centro della sua narrazione c'è un personaggio che esplicitamente fa riferimento a Cefis. Tratteggiato attingendo alla leggenda alla quale si è appena fatto riferimento. È un Cefis che, tra l'altro, sta mettendo le mani sul Corriere sul quale scrive Pasolini. Infatti tra poco aprirà ingenti fideiussioni (per 9 miliardi di lire) alla cordata rizzoliana-piduista prossima a sbarcare in via Solferino. Un Cefis dunque quanto mai adeguato a indossare la leggenda che gli viene cucita addosso. E che gli sta attribuendo sempre più inquietanti connotazioni. Su questa narrazione incombe soprattutto il copione quasi shakespeariano, del come e perché Mattei si sia insediato al vertice dell'Eni. Dopo l'incidente aereo, nell'autunno del 1962, che ha fatto fuori Mattei, il fondatore dell'ente petrolifero di stato. Una tragica uscita di scena che vede Cefis lontano. Da pochi mesi, spiazzando tutti, ha rotto il sodalizio con Mattei. Del quale è stato il braccio destro, l'artefice delle missioni più riservate. Un sodalizio sorto sin dall'immediato dopoguerra. Dopo che lui e Mattei si sono conosciuti, e apprezzati, nel vivo della lotta partigiana. Dove Cefis, operando in Valdossola, opera in stretta sinergia con l'intelligence anglo-americana che sta a ridosso del confine italo-svizzero. L'ipotesi che la leggenda diffonde è che Cefis, formatosi all'Accademia militare e perfezionatosi in ruoli attigui al servizio informazioni dell'esercito, pur dismessa la divisa continui a essere quel che è sempre stato. Non tanto un militare di mestiere quanto un professionista dell'intelligence. Dislocato sullo scacchiere economico e politico italiano. Di certo ovunque Cefis pianti il suo bastone di comando sboccia nei dintorni la sua rete informativa. La mano felpata delle sue operazioni speciali. Delle sue guerre silenziose. Informazioni capaci di condizionare, intimidire, corrompere. Segreti pescati calando le reti dei dossieraggi e delle intercettazioni telefoniche. Mettendo all'opera gente di fiducia dentro servizi segreti e polizie parallele. Senza rinunciare ovviamente a investigatori privati, Tom Ponzi, per esempio, pagati direttamente con i fondi aziendali.

Giochi di guerra. È un flusso mai interrotto di rivelazioni sospeso sul destino degli avversari. È la continua pianificazione di giochi di guerra calati in un conflitto sommerso. In palio ha il potere. Scontri da condurre in silenzio e con la massima riservatezza. Così – nel libro di Morando non mancano certo gli esempi – Cefis cerca di sottomettere la politica. Piegare le istituzioni. Indurre alla resa chiunque pensi di resistere alle sue scalate. In questa biografia è ricostruita dunque, con molti dettagli, la disinibita attitudine di Cefis a presidiare con le spregiudicate modalità della sua formazione militar-spionistica ogni crocicchio politico-economico-affaristico cruciale per la sua ascesa. Ma il valore aggiunto del libro di Morando non sta solo qui. Consiste nella lucida analisi del sorgere, irrobustirsi e ramificarsi della leggenda nera cucita attorno a Cefis. Qui Morando dà veramente il meglio del suo lavoro perché stende ogni tassello di questa ammorbata architettura narrativa sul tavolo anatomico. Ne viviseziona le fibre, i flussi, le metabolizzazioni. Cose che ancora oggi permangono nelle ricostruzioni di pagine cruciali di storia nazionale. Questa analisi implica anche chinarsi sul lavoro di mostri sacri, come Pasolini. E dimostrare come quei testi, quei bagliori di «verità occultate», che appaiono in Petrolio, e poi vengono ripresi da ulteriori epigoni convinti di possedere la chiave interpretativa di ogni male italiano, fuoriescano da pessime fonti. Anzi, peggio. Sono spesso il prodotto di una fabbrica di disinformazioni, di ricatti, di illazioni su vicende «indicibili» e «misteri insolubili». Elaborati da quella editoria del ricatto sulla quale Morando si sofferma con coraggio e acutezza. Leggendo Morando si apprende, sorprendentemente, come Cefis, sempre parco di interviste, e assai poco loquace, in varie fasi della sua vita abbia dedicato ore e ore per ricostruire in dettaglio i passi della sua complicata biografia. Lo ha fatto rispondendo a sollecitazioni di storici magari non noti ma rigorosi nell'adesione ai fatti. Con loro è disposto, per giorni e giorni, a rievocare pagine della sua vita. A partire dalla Resistenza sino alle brucianti “guerre” petrolifere e chimiche, con annesse ripercussioni politiche, dei decenni successivi. Lo fa, quando ormai ha lasciato ogni carica, con Giuseppe Locorotondo, dell'Ufficio storico dell'Eni. E, stessa cosa avviene con Marino Viganò, appartato e puntiglioso storico di Varese, col quale, in quasi cento pagine di testimonianza, ricostruisce i suoi esordi, dall'Accademia militare alla Resistenza sino al legame con Mattei. Forse è proprio Viganò a fornire la chiave di volta per apprezzare il valore dirompente della biografia che Morando dedica a Cefis. Ci riesce con lapidaria chiarezza quando, commentando la leggenda nera sorta attorno a tante vicende, ricorda quello tutti dovremmo rammentare. I misteri non ci sono. Anzi,non dovrebbero esserci. Perché «dietro ogni mistero c'è solo una pessima ricerca».

Estratto Dell'articolo Di Alessandro Mantovani Per “il Fatto Quotidiano” il 12 maggio 2021. La prossima volta che vorrà regalare a Matteo Renzi i "babbi" di cioccolato della sua Romagna, Marco Mancini dovrà farsi autorizzare dal direttore del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Dis), l'organo di coordinamento dei Servizi di cui è caporeparto. A seguito dell'incontro Renzi-Mancini in autogrill, immortalato dalla professoressa che ha girato le immagini a Report, il sottosegretario delegato ai Servizi Franco Gabrielli ha richiamato i direttori del Dis, dell'Aise e dell'Aisi al principio che gli appartenenti all'intelligence possono incontrare parlamentari, giornalisti, magistrati e altre categorie "sensibili" solo per motivi di servizio e con la preventiva autorizzazione del vertice dell'agenzia a cui appartengono. […] A Palazzo Chigi ritengono che questa regola rientrasse già nell'obbligo di riservatezza. Però ieri il capo del Dis Gennaro Vecchione, sentito dal comitato parlamentare di controllo sui Servizi (Copasir), avrebbe detto di non essere stato informato da Mancini e che un obbligo specifico non c'era. Ora c'è. Vecchione ha sostanzialmente difeso Mancini. Il governo invece intende evitare che le relazioni tra gli appartenenti ai Servizi e i politici conducano a impropri do ut des. […]

Francesco Bechis per formiche.net il 12 maggio 2021. Il governo Draghi interverrà sulla vicenda Renzi-Mancini con una direttiva dell’autorità delegata per l’Intelligence e la Sicurezza Franco Gabrielli. Gli incontri fra politici e dirigenti dei Servizi segreti italiani in carica saranno da ora in poi sottoposti a regole più rigide. È quanto ha annunciato in audizione al Copasir il direttore generale del Dis (Dipartimento per l’Informazione e la Sicurezza) Gennaro Vecchione. Convocato dal comitato di controllo dell’intelligence per parlare dell’inchiesta giornalistica della trasmissione di Rai3 Report sull’incontro in un autogrill, lo scorso dicembre, fra il leader di Italia Viva Matteo Renzi e il dirigente del Dis Marco Mancini, il capo degli 007 italiani ha spiegato che, da ora in poi, ci sarà una stretta su questo tipo di tête-à-tête. Da quanto trapela a Formiche.net, sarà prevista una specifica autorizzazione da parte dei vertici delle agenzie, che dovranno essere preventivamente informati di un eventuale incontro con un politico. Il comitato ha richiesto il testo della direttiva, in fase di ultimazione. Il polverone sollevato dal video di Renzi e Mancini, ripresi a parlare in una piazzola di sosta dell’Autogrill a Fiano Romano lo scorso 23 dicembre, nel pieno della partita per le nomine dei Servizi che vedeva lo stesso Mancini tra i papabili nuovi vicedirettori del Dis, non è piaciuto ai vertici delle agenzie. La legge quadro sull’intelligence italiana (124/2007) ad oggi non regola gli incontri fra agenti segreti in servizio e politici. Né, fatta eccezione per alcune restrizioni previste per gli agenti operativi di Aise ed Aisi, esiste uno specifico divieto nei regolamenti interni per i dirigenti delle agenzie. Un vuoto normativo cui ora il governo vuole mettere mano per evitare che il comparto sia di nuovo trascinato nelle polemiche, con il danno di immagine che inevitabilmente ne deriva. Dall’audizione del Copasir, ancora una volta riunitosi senza esponenti della minoranza, che ne reclama la presidenza con Adolfo Urso (attuale vicepresidente e senatore Fdi) in lizza per succedere al leghista Raffaele Volpi, emerge dunque la volontà di Palazzo Chigi di mettere i puntini sulle i nei rapporti fra intelligence e politica. Respinti al mittente invece i sospetti, avanzati da Renzi, che dietro il video di una ventina di secondi pubblicato da Report non ci sia, come sostiene la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci, una “insegnante” in sosta ma un’attività di dossieraggio per monitorare l’ex premier.

ELISABETTA BELLONI, LA PRIMA DONNA A CAPO DELLA SICUREZZA ITALIANA. Il Corriere del Giorno il 12 Maggio 2021. La nomina della Belloni è stata disposta sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, a garanzia della sicurezza dello Stato e delle istituzioni. È la prima volta che in Italia una donna arriva alla guida dell’intelligence. In suo favore è stata importante la grande esperienza di ambasciatrice da sempre in prima linea nelle emergenze internazionali. Il prefetto Vecchione termina in anticipo il suo mandato: nominato nel novembre del 2018 dall’allora premier Conte,si era visto rinnovare l’incarico per 2 anni nell’estate scorsa. Il premier Draghi ha scelto e nominato Elisabetta Belloni a capo del Dis, il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza al posto dell’attuale Direttore generale, il prefetto Gennaro Vecchione, dopo aver preventivamente informato della propria decisione Raffaele Volpi, presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. La nomina è stata disposta sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, ringraziando Vecchione per il lavoro svolto a garanzia della sicurezza dello Stato e delle istituzioni. Confermato per un anno il prefetto Mario Parente attualmente alla guida dell’ AISI, il servizio segreto interno dello Stato. Elisabetta Belloni, romana, 61 anni, laureata in scienze politiche alla Luiss nel 1982, è entrata in carriera diplomatica nel 1985, ricoprendo incarichi, tra gli altri, a Vienna e Bratislava.Era segretario generale alla Farnesina, ruolo che ha ricoperto per cinque anni, dal 2016 a oggi, sostituendo Michele Valensise, per la Farnesina la sua nomina era stata una novità assoluta: infatti fino a quel momento, quell’incarico era stato ricoperto soltanto da uomini. Al posto della Belloni è stato nominato l’ambasciatore Ettore Sequi, sinora capo di gabinetto del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. L’ambasciatrice Belloni, fin da ragazza è stata un’apripista . Infatti, fu la prima studente di sesso femminile a essere ammessa, insieme a un’altra ragazza, all’Istituto “Massimiliano Massimo” dei Gesuiti, scuola fino a quel momento esclusivamente maschile. Lo ha fatto anche successivamente, durante la sua carriera al ministero degli Esteri: dall’Unità di crisi (Udc) alla direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo (Dgcs) fino all’ultimo incarico ricoperto prima della nomina a segretario generale: quello di capo di gabinetto del ministro Paolo Gentiloni. Tutte queste posizioni, infatti, con l’ambasciatore Belloni sono state coperte per la prima volta da una donna. Ma non tutti sanno di cosa si occupa il Dis. Principalmente, coordina l’intera attività di informazione per la sicurezza, compresa quella relativa alla sicurezza cibernetica e ne verifica i risultati, oltre a essere informato costantemente delle operazioni di Aise e Aisi e trasmette al Presidente del Consiglio dei ministri le informative e le analisi prodotte dal Sistema; raccoglie informazioni, analisi e rapporti prodotti da Aise e Aisi, da altre amministrazioni dello Stato e da enti di ricerca. Inoltre, il Dis elabora analisi strategiche o relative a particolari situazioni da sottoporre al Cisr o ai singoli ministri che lo compongono e promuove e garantisce lo scambio informativo tra i servizi di informazione e le Forze di polizia. “Rivolgo i miei sentiti e sinceri complimenti all’ambasciatore Elisabetta Belloni per il nuovo incarico alla direzione del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). La vasta esperienza professionale ed il profilo umano sono doti che consentiranno un contributo saldo e costante alla sicurezza nazionale. Al prefetto Mario Parente confermato alla guida dell’Aisi ribadisco la mia stima certo che possa dare continuità all’ottimo lavoro che sta svolgendo. A tutti e due i migliori auguri di buon lavoro nel comune supremo interesse della nostra Italia” ha dichiarato il presidente del Copasir Raffaele Volpi. La nomina di Elisabetta Belloni ha messo d’accordo tutti, anche due avversari politici come Matteo Salvini e Matteo Renzi. “Buon lavoro a Elisabetta Belloni, donna di valore nominata ai vertici del Dis, e buona prosecuzione al generale Mario Parente” ha commentato su Twitter il leader della Lega, mentre Renzi leader di Italia Viva sottolinea: “La nomina di Elisabetta Belloni alla guida del Dis è un’ottima scelta per le Istituzioni italiane” a cui si è aggiunto l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini: “La nomina di Elisabetta Belloni a capo del Dis premia una donna di grande valore, di profonda conoscenza delle relazioni internazionali e di sicura affidabilità. Sono certo che interpreterà al meglio un ruolo così delicato per le istituzioni democratiche del nostro Paese”. È la prima volta che in Italia una donna arriva alla guida dell’intelligence. In suo favore è stata importante la grande esperienza dell’ambasciatrice Belloni, da sempre in prima linea nelle emergenze internazionali. A capo per anni dell’unità di crisi della Farnesina, ha gestito i sequestri degli italiani in Iraq lavorando fianco a fianco con gli 007 e diventando punto di raccordo per l’azione del governo per la liberazione degli ostaggi, ma anche punto di riferimento per le famiglie. Da segretario del ministero degli Esteri si è occupata dell’organizzazione della Farnesina. La nomina dell’ambasciatrice Belloni alla guida e coordinamento dei servizi segreti italiani (AISI ed AISE) conferma la volontà del presidente del Consiglio di dare una svolta agli assetti dell’Intelligence italiana con una nomina di peso. Dopo la scelta del prefetto Franco Gabrielli, ex capo della Polizia di Stato, come autorità delegata per l’Intelligence e la Sicurezza, il premier Draghi ha scelto un altro vertice di alto livello dell’amministrazione dello Stato. Una decisione che conferma la volontà di rafforzare il comparto sicurezza per essere pronti alle sfide economiche e geopolitiche affrontate dal Paese. Il cambio ai vertici non sarà certo l’ultimo intervento del governo sulle nomine, in quanto sarebbe imminente anche un cambio dei vicedirettori del Dis.

Francesca Sforza per "la Stampa" il 13 maggio 2021. Se è la prima volta che i servizi avranno una donna come capo, non è la prima volta, per quella donna, arrivare prima. Elisabetta Belloni, classe 1958, nominata ieri alla direzione generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, ha alle spalle una storia di comando all'interno della Farnesina, che nell'ultima puntata l'ha vista nel ruolo di Segretario Generale, ma che è stata costruita con pazienza anche nelle puntate precedenti, da quando fu la prima donna a essere ammessa all'Istituto Massimo di Roma, lo stesso frequentato da Mario Draghi. Segretario o Segretaria? Direttore o direttrice? Alla Farnesina il dibattito sugli asterischi non è mai entrato, perché alla fine, per farsi capire, si parlava sempre di "Lei": «Lo ha detto Lei», «A Lei non piace», «Lei è d'accordo», «Bisogna chiederlo a Lei». Inizia la sua carriera all'estero alla rappresentanza di Vienna, ma è il ritorno a Roma, nella Direzione nevralgica degli Affari Politici, a farle capire che la sua storia sarebbe stata lì, dove le cose si decidevano, dove il potere si mostrava nelle sue molte e differenti sfaccettature. «Ha fatto poco estero», dicono i suoi critici. Ma molta Roma: ha attraversato indenne il governo Berlusconi, quello Monti, quello di Letta e Renzi, quello Conte e ora Draghi, a cui la lega un'amicizia di scuola, di appartenenza, di conoscenze comuni, dai gesuiti alla Luiss, dove si è laureata, ha tenuto corsi, ha fatto parte insieme a Paola Severino del Consiglio direttivo e non manca, ancora oggi, a una riunione degli ex alunni. Il suo ingresso nella rosa dei nomi che non si possono ignorare è datato 2004, quando diventa capo dell'Unità di Crisi - prima donna, ancora - e si trova a gestire due situazioni complesse come il rapimento dell'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo e la tragedia dello tsunami, con italiani intrappolati nei paradisi thailandesi e bisognosi di ogni tipo di assistenza. Le dirette televisive mostrano al Paese il volto di questa donna ferma e minuta, sempre piuttosto elegante, che dava la sensazione di avere la situazione in mano, non una parola di meno, non una di troppo. Misura, strategia, capacità di calcolo e profonda conoscenza dei meccanismi istituzionali: Elisabetta Belloni è il ritratto del grand commis d'etat, senza cedimenti "all'in quanto donna". Si è convertita alle quote rosa con il tempo: inizialmente era convinta - come spesso accade alle donne brave e sostenute dalle circostanze - che fosse solo una questione di merito. Col tempo si è resa conto dell'importanza di "fare rete", e sotto la sua reggenza - è stata segretario generale alla Farnesina per cinque anni, un tempo lungo rispetto al passato - gli incarichi di rilievo alle diplomatiche si sono moltiplicati. Sposata con un uomo di oltre vent' anni più grande di lei - anche lui diplomatico - e rimasta vedova da qualche anno, una casa nella campagna toscana dove trascorre il (poco) tempo libero dagli impegni di lavoro, Elisabetta Belloni ha costruito nel tempo una rete di contatti - dentro e fuori la Farnesina - che costituisce il suo asset fondamentale. Non è un caso che il suo nome, negli ultimi giri di nomine, sia stato in più occasioni evocato per posti di rilievo, da ministro degli Esteri fino a presidente del Consiglio. Poi la mano è sempre passata ad altri, ma Elisabetta Belloni non ha mai coltivato il culto della sconfitta. Casomai il contrario: a ogni giro di nomine riprendeva il suo lavoro a testa bassa, senza dichiarazioni improvvide, senza pencolamenti. I suoi critici le rimproverano da sempre un eccesso di tatticismo, una tendenza al compromesso mirante più a non scontentare che a promuovere, più a mantenere che a innovare. Ma difficile - anche per chi la critica - non riconoscerle una profonda sapienza nel gestire equilibri, e di fronte alle difficoltà, una salda capacità di gestione. Amata da molti, tollerata da altri, Belloni esce dalla Farnesina col passo sicuro di chi sa di aver fatto molto: «Con la sua nomina al Dis - ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio - arriva un importante riconoscimento per tutto il corpo diplomatico».

Elisabetta Belloni nuovo capo dei servizi segreti: salta Vecchione, l’uomo di Conte “licenziato”. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2021. L’ambasciatrice Elisabetta Belloni, 61 anni, è il nuovo capo dei servizi segreti. La nomina del direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) è arrivata dal presidente del Consiglio Mario Draghi in sostituzione del prefetto Gennaro Vecchione. Il Presidente Mario Draghi ha preventivamente informato della propria intenzione il Presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR), Raffaele Volpi, e ha ringraziato il prefetto Vecchione per il lavoro svolto a garanzia della sicurezza dello Stato e delle istituzioni. La nomina è disposta sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica. Dopo la nomina di Belloni, secondo quanto apprende l’Ansa da fonti informate, l’ambasciatore Ettore Sequi, attualmente capo di gabinetto del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è il nuovo segretario generale della Farnesina. IL PROFILO – Nata a Roma, l’ambasciatrice Belloni, 63 anni, è stata la prima donna segretario generale della Farnesina (dal 2016 ad oggi). Laureata in scienze politiche alla Luiss, Belloni ha iniziato la carriera diplomatica nel 1985, ricomprendo incarichi nelle ambasciate italiane e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava, oltre che presso le direzioni generali del Ministero degli Affari Esteri. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di Crisi della Farnesina, passando poi a rivestire il ruolo di direttrice generale della cooperazione allo sviluppo fino al 2013 e successivamente direttrice generale per le risorse e l’innovazione. Nel febbraio 2014 è stata promossa ambasciatrice di grado e, dal giugno 2015, è stata capo di gabinetto dell’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nell’aprile 2016 viene nominata Segretaria Generale del Ministero degli Affari Esteri, ruolo che ha mantenuto finora. Belloni era stata tra i nomi ipotizzati per il ruolo di ministro nel governo Draghi, qualora non vi fosse stata la riconferma di Di Maio. LA SCONFITTA DI CONTE – La scelta di sostituire Vecchione a sei mesi dalla naturale scadenza del suo mandato è di fatto uno “schiaffo” del presidente del Consiglio Mario Draghi al suo predecessore Giuseppe Conte, che aveva voluto con forza Vecchione, suo amico, al Dis. L’irritazione di Conte, spiegano i retroscena, sarebbe emersa anche durante le telefonate di rito durante le quali il premier informa i leader di maggioranza e opposizione della nomina. Vecchione però paga la volontà da parte di Draghi di un deciso cambio di rotta nella gestione dei principali dossier. Quello più spinoso per Vecchione risale ormai all’estate 2019, quando l’allora premier Conte incaricò il numero uno del Dis di incontrare l’allora ministro della Giustizia americano William Barr per condividere le informazioni che l’Italia aveva su Joseph Mifsud. Mifsud, professore dell’università romana Link Campus, aveva fatto sapere all’amministrazione Trump di avere mail segrete russe in grado di mettere in difficoltà Hillary Clinton, candidata democratica alle Presidenziali del 2016. Quell’incontro tra Vecchione e Barr, avvenuto fuori dalle regole, crearono un caso con l’avvio di una istruttoria del Comitato parlamentare di controllo.

Chi è Elisabetta Belloni, prima donna a capo dei servizi segreti: l’amicizia con l’ambasciatore Luca Attanasio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Elisabetta Belloni è la nuova direttore generale del Dis, il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. Si tratta della prima donna ai vertici dei servizi segreti italiani. Il suo nome era circolato nei mesi scorsi anche per il ministero degli Esteri, confermato a Luigi Di Maio nell’avvicendamento tra il governo Conte 2 e il governo Draghi, e per il sottosegretariato con nomina ai servizi segreti, carica poi andata a Piero Benassi. Belloni prende il posto del prefetto Gennaro Vecchione. L’ambasciatore Ettore Sequi, capo di gabinetto del ministro degli Esteri Di Maio, succede a Belloni come nuovo segretario generale della Farnesina. LA CARRIERA – Belloni ha 62 anni. Romana. Era alla guida della macchina della Farnesina dal 2016, prima donna segretario generale degli Esteri. Ha studiato al liceo Massimo di Roma, lo stesso frequentato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi. Si è laureata in Scienze Politiche all’Università Luiss nel 1982. LA DIPLOMAZIA – La sua carriera diplomatica è partita nel 1985. Ha ricoperto incarichi a Vienna e a Bratislava. Belloni è stata nominata nel 2004 capo dell’Unità di crisi del ministero degli Esteri. Anche in questo caso la prima donna a ricoprire tale incarico. Durante quel mandato si occupò di dossier delicati come i rapimenti di italiani in Iraq e Afghanistan e lo tsunami nel sudest asiatico. Dal 2008 al 2012 è direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo e poi dal 2013 al 2015 ha assunto le funzioni di direttore generale per le Risorse e l’innovazione. Promossa ambasciatore di grado nel 2014, nel 2015 è stata capo di gabinetto dell’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Da oggi coordinerà le due agenzie dei servizi segreti e si coordinerà con l’autorità delegata Franco Gabrielli. L’AMBASCIATORE ATTANASIO – “L’Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, e il Carabiniere Vittorio Iacovacci sono rimasti vittime di una violenza che non riusciamo a capire e ad accettare”. Questo il cordoglio dell’allora segretario generale del ministero Belloni, in un intervento del 23 febbraio su Il Corriere della Sera, dopo l’attacco in Congo che aveva colpito il collega e amico Luca Attanasio. Con quelle parole aveva voluto salutare un “collega, amico e Ambasciatore d’Italia” di cui “siamo orgogliosi”. “Ieri non sono riuscita a esprimere ai familiari il dolore profondo di tutta la Farnesina e la vicinanza sincera perché è prevalso il silenzio e la commozione”, aggiungeva, scrivendo di ricorrere “quindi alla penna per lasciare traccia dell’esempio di Luca che spero non svanisca negli anni a venire e che possa, invece, ispirare i più giovani che hanno fatto la stessa scelta professionale”. Il suo ricordo di Attanasio, dal 2017 Ambasciatore a Kinshasa, corrispondeva a quello di “una persona buona, affettuosa con la stupenda famiglia che amava sopra ogni cosa e che lo ha accompagnato anche in Africa, nonostante la giovane età delle tre bambine” e al tempo stesso “anche un vero diplomatico che ha affrontato la ‘Carriera’ con l’entusiasmo di chi è consapevole della necessità di imparare e farsi le ossa affrontando senza scorciatoie le sfide che la Diplomazia mette dinanzi a ogni passaggio della vita professionale e personale”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Marco Travaglio per Il Fattoquotidiano - stralcio il 14 maggio 2021. …..Il caso 007 è emblematico: nessuno discute le capacità della nuova direttora Belloni, beatificata dai soffietti dei giornaloni come estranea alla politica, come se non navigasse alla Farnesina nel sistema dei partiti dalla notte dei tempi e l' avesse portata la cicogna. La verità la conoscono tutti: Vecchione ha l' unica colpa di essere stato nominato da Conte, dunque dava noia ai due Matteo. Infatti è l' unico a saltare, senza uno straccio di spiegazione, mentre i capi di Aise e Aisi, trasversalmente protetti, restano. E resta incredibilmente pure il caporeparto del Dis Mancini, malgrado l' incontro carbonaro con l' Innominabile, o forse proprio per quello….

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 14 maggio 2021. Il redde rationem nei Servizi è solo all' inizio. E del prefetto Gennaro Vecchione, direttore del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza fino alle 19 di mercoledì, e del suo dirigente ancora in servizio, Marco Mancini - per il quale il sottosegretario alla presidenza del consiglio Franco Gabrielli ha disposto l' interruzione del servizio di scorta di cui godeva e di cui nessuno è stato in grado di giustificare le ragioni - sentiremo probabilmente parlare ancora per un po'. La faccenda che li ha travolti - convincendo Palazzo Chigi ad accelerare la nomina di Elisabetta Belloni - è infatti tutt' altro che chiusa. Ieri, il Copasir ha deciso formalmente di chiedere alla Presidenza del Consiglio di autorizzare un' indagine interna al Dis che accerti le mosse sghembe di Mancini all' interno del Dipartimento (raccontano, ad esempio, che nella sua veste di revisore delle spese delle due Agenzie, Aise e Aisi, sia solito a un ostruzionismo nelle autorizzazioni spesso strumentale) e la catena di anomalie che hanno accompagnato il suo infelicissimo e sfortunatissimo rendez vous in autogrill con l' ex presidente del Consiglio Matteo Renzi il 23 dicembre dello scorso anno (filmato da una curiosa insegnante di passaggio e mandato in onda da "Report"). Detta altrimenti, un' indagine che dia risposta a una domanda molto semplice e dalle implicazioni tutt' altro che banali. Chi ha consentito a Marco Mancini, naufrago della peggiore e più opaca stagione della nostra Intelligence (il Sismi di Pollari), di tornare a muoversi, almeno a partire dal 2018, in una incessante spola tra i palazzi della politica e quelli dell' intelligence, con la disinvoltura di una spia agit-prop e la sicumera di un plenipotenziario? È una domanda che interpella Vecchione e con lui l' uomo che, nel novembre 2018, lo paracadutò come un alieno a capo dei Servizi: l' allora premier Giuseppe Conte. Ed è una domanda che ha quale sua premessa il pomeriggio in cui Vecchione si è giocato l' osso del collo. Quello di martedì scorso 11 maggio, quando, alle 14.45, l' allora ancora direttore del Dis prende posto di fronte al Copasir, il Comitato Parlamentare di controllo dei Servizi. È stato convocato - e ha per giunta avuto tempo una settimana per riordinare carte ed idee - per dare conto di quell' incontro tra Mancini e Renzi in autogrill. Ma non ha nulla da dire. O, almeno, questo dà ad intendere. Peggio, ha deciso di trasformare l' audizione in uno spettacolo che offende l' intelligenza di chi lo ascolta e che, alle 16.30, viene interrotto con una certezza condivisa da tutti i commissari presenti. Vecchione non può restare al suo posto un minuto di più. E Mancini è un problema. L' audizione, del resto, comincia malissimo. Vecchione comunica che l' abboccamento del 23 dicembre tra il suo dirigente e Renzi è «ascrivibile al rango di incontro privato». «Uno scambio di auguri con la consegna di Babbi Natale di cioccolato». Dalla cartellina che ha con sé estrae uno scartafaccio di appunti su norme che disciplinano il grado di segretezza degli atti e le immunità funzionali dei nostri agenti. Chi lo ascolta trasecola. E abbozza le prime domande: esiste una relazione di Mancini sull' accaduto e Vecchione è in grado di produrla? «No». Ancora: se è vero, come accredita anche Vecchione, che si trattava di un incontro privato, perché scegliere un luogo pubblico come un autogrill, perché andarci scortati e, soprattutto, perché Mancini ha una scorta? Vecchione, che dovrebbe sapere perché un suo dirigente non operativo (quale Mancini è) giri scortato, farfuglia: «Non so. Mi informerò con Aisi, che è l' Agenzia che provvede. Forse per il caso Abu Omar». Vecchione non sa, o finge di non sapere, come le ragioni di quell' incontro del 23 dicembre abbiano cessato di essere un segreto per molti. Sia a Palazzo Chigi che al Copasir. In quei giorni di vigilia di festa, ballano infatti le nomine di 3 vicedirezioni nei Servizi. E Mancini, cui una di quelle vicedirezioni è stata promessa da Conte, bussa a qualunque porta. Anche a quella di un vecchio amico, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. È il magistrato a chiamare Renzi (con cui ha un rapporto di confidenza dai tempi in cui lo aveva immaginato ministro di giustizia) pregandolo di incontrare Mancini che, evidentemente, in quella vigilia di Natale, comincia a sentire puzza di morto a Palazzo Chigi e ritiene utile un appoggio per la nomina anche da chi ha di aperto la crisi di governo mettendo in mora Conte. Eppure, Vecchione tira dritto verso la sua personale catastrofe. Dice: «Renzi e Mancini? So che hanno un rapporto molto stretto e che Mancini ha lavorato anche per Renzi, in passato ». Il Comitato è esterrefatto. Ha lavorato per Renzi? Vecchione realizza l' enormità che ha appena detto. E rincula: «Mah, che posso dirvi Io sono arrivato al Dis solo nel 2018 e dunque sul prima non so essere preciso». Conferma tuttavia al Copasir di aver appoggiato lui, «avendone parlato personalmente con Conte» la nomina di Mancini alla vicedirezione del Dis o di un' Agenzia. Ed è disarmante la risposta che consegna a chi gli chiede se la circostanza che un suo dirigente del Dis si sia fatto riprendere da una insegnante in un autogrill non lo abbia fatto riflettere. In fondo, al posto di quella signora ci sarebbe potuto essere un agente straniero con un microfono direzionale. «In effetti, capisco la sua domanda». Il Comitato insiste. È almeno possibile sapere se dietro quel video non ci sia un' operazione di spionaggio interna al Servizio? «Mi informerò», dice lui. Palazzo Chigi non gliene lascerà il tempo.

Gratteri al Fatto Quotidiano: «Non ho chiesto a Renzi di incontrare Mancini». Il Quotidiano del Sud il 15 maggio 2021. Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha smentito al “Fatto Quotidiano”, la ricostruzione di Repubblica secondo la quale avrebbe chiesto a Matteo Renzi di incontrare Marco Mancini, il direttore di divisione del Dis. L’incontro, filmato e reso noto da Report, è quello avvenuto a dicembre del 2020 in un autogrill di Fiano Romano e sarebbe servito ad aiutare Mancini a diventare vicedirettore di una delle tre agenzie di intelligence. Erano i giorni in cui si intravedeva la fine del Governo Conte 2 e Matteo Renzi aveva aperto la crisi di Governo con il ritiro di due ministri di Italia Viva dall’Esecutivo. Gratteri, però, al Fatto Quotidiano smonta tutto: «Non è vero che ho chiesto a Matteo Renzi di incontrare Marco Mancini – ha dichiarato il procuratore di Catanzaro – sono disposto a depositare i miei tabulati telefonici delle settimane e mesi precedenti il 23 dicembre scorso. Non verrà trovata nessuna chiamata o messaggio a Renzi»

Nuovi veleni contro Gratteri. La spia Mancini per il Domani non muore mai. James Wormold su Il Quotidiano del Sud il 18 maggio 2021. Nella primavera bollente per la magistratura italiana, non mancano schizzi di fango che qualcuno mette nel ventilatore per tentare di delegittimare il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Già da ieri, il quotidiano “Il domani” annuncia in un servizio esclusivo a doppia firma sullo 007 Marco Mancini, caporeparto del Dipartimento “Servizi per l’informazione e la sicurezza” (Dis),ritornato celebre alle cronache per la video soffiata dell’incontro in un autogrill con Matteo Renzi. Ora secondo il Domani ci sarebbe stato un altro incontro con i vertici politici nazionali: quello con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. E sul giornale edito da De Benedetti si legge “A Domani Gratteri conferma l’appuntamento. «Tra l’uomo dei servizi e il ministro c’è stato solo uno scambio veloce, tipo “piacere, piacere”». Fonti del Csm vicine a Gratteri credono che l’amicizia tra il pm calabrese e la spia possa essere usata per minare la candidatura del magistrato antimafia alla guida della procura di Milano. «Se continua così, Nicola rinuncerà alla sua corsa», chiosano. Chi vuole fermare Gratteri verso la Procura di Milano?

Estratto dell'articolo di Lucio Musolino per “il Fatto quotidiano” il 27 maggio 2021. Politica, 'ndrangheta, affari e "pagliacciate". Ma anche un "laboratorio criminale" che ha trasformato Reggio Calabria in un "mondo di mezzo" tra mafiosi, massoni e pezzi deviati dello Stato. Con il processo "Gotha", la Dda non vuole solo sostenere l'esistenza della 'ndrangheta, ma anche della sua componente riservata capace di infiltrarsi negli enti locali dettandone gli indirizzi politici. […] Durante il processo si è parlato anche del finto attentato del 2004, quando in un bagno del Comune sono stati trovati alcuni panetti di tritolo grazie a tre informative del Sismi firmate dall' attuale 007 Marco Mancini. Per il procuratore Lombardo, quella è stata "una pagliacciata" per superare una crisi che Scopelliti stava affrontando dentro e fuori il palazzo. Il direttorio delle cosche ha compreso che serviva una scossa per far capire al pupo che c' è un disegno "più grande di lui". Occorreva ricordargli i patti: "Tu finisci quando lo diciamo noi e diventi il numero uno, se noi decidiamo in quel senso". Come? Con una messinscena che serviva a creargli l' immagine di "sindaco antimafia" e allo stesso tempo a mandare un messaggio per fargli capire "che non è padrone di niente, torna a essere e a fare il cane da mandria". Il colpo di teatro va in onda il 6 ottobre 2004. Politica, "riservati" della 'ndrangheta, pezzi delle istituzioni e apparati di sicurezza sono tutti scritturati per la sceneggiata. Ognuno recita la sua parte e nei bagni di palazzo San Giorgio spunta il tritolo senza innesco. Per scoprirlo il Sismi ha pagato circa 300mila euro. Dopo quasi 17 anni, non solo non si sa chi è stato a piazzare quei panetti ma neanche quali cosche volevano attentare alla vita di Scopelliti.

Quando lo 007 Mancini forniva servizi a Reggio Calabria. James Wormold su Il Quotidiano del Sud il 19 maggio 2021. Marco Mancini, lo 007, torna protagonista incrociando vicende tutte da accertare che ruotano attorno a Renzi, Di Maio e Gratteri. Quest’ultimo nome lo lega alla Calabria trattandosi del procuratore della Repubblica di Catanzaro e secondo le ultime cronache un interlocutore del celebre agente segreto. Con la Calabria l’agente dei servizi ha già avuto un ruolo controverso tre lustri fa in fatti mai chiariti. Correva l’anno 2006, quando tre parlamentari avevano segnalato la strana storia dell’esplosivo ritrovato nel bagno del municipio, due anni prima, in un momento di difficile governabilità a Reggio Calabria per il sindaco dell’epoca, Giuseppe Scopelliti. La bomba era stata ritrovata grazie alla segnalazione di un informatore del Sismi, l’esplosivo adoperato proveniva dalla stiva della Laura C, la cosiddetta “nave della ‘ndrangheta”, un relitto adagiato sui fondali della jonica reggina e non si capisce per quali motivi sotto stretta gestione dei servizi. La soffiata da fonte anonima sembra fosse costata allo Stato 300.000 euro. Da chi era stata gestita l’operazione molto coperta? Da Marco Mancini, il vice di Pollari al Sismi e rimbalzato poi alle cronache nei meandri oscuri del rapimento di Abu Omar e dello scandalo Telecom. Sulla bomba al sindaco Scopelliti erano state tre le informative firmate da Mancini: la prima fa scoprire i panetti di tritolo nel water del sindaco, la seconda spiega che l’ordigno, pur senza innesco, sarebbe dovuto esplodere la mattina successiva, la terza segnala che il sindaco Scopelliti è in pericolo di vita. Delle iniziative del ministro Pisanu per accertare il garbuglio che assegnò scorta e notorietà di vittima al sindaco Scopelliti non c’è gran ricordo. La vicenda si incrocia anche con il commercialista Giovanni Zumbo, oggi collaboratore di Giustizia e figura di collegamento tra politica reggina, clan criminali di gran spessore ai quali annunciava in anticipo le operazioni di Dda e servizi segreti. Dagli archivi risulta che il poliedrico Zumbo era stato interrogato dall’allora Procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, e in un verbale di appena sei pagine aveva dichiarato a futura memoria: “Ho collaborato con i servizi ma non intendo rivelare nulla in merito”. Ma una notizia l’aveva aggiunta: “Del Sismi ho incontrato l’ex funzionario Mancini che scese a Reggio Calabria, ma dell’argomento preferirei non parlare”. Tasselli da andare a incastrare con nuove gole profonde che parlano e rivelano. Per quell’esplosivo “c’era stato l’interesse di Nicolo’ Pollari”. È stato di recente il collaboratore di giustizia Seby Vecchio, ex assessore e presidente del Consiglio comunale di Reggio ma anche poliziotto, a fare il nome de relato dell’ex direttore del Sismi nella vicenda del tritolo “tarocco” in un’udienza del processo Gotha. “Ho parlato in prima persona sia con i politici che persone della ‘ndrangheta Per quanto riguarda l’esplosivo, è stato una bufala. Era un attentato per accreditare un peso politico maggiore a Scopelliti. Qualcuno ha detto anche il nome di chi ha portato l’esplosivo. Per esempio chi entrò a Palazzo San Giorgio per mettere il tritolo nel bagno”. Mancini? No. Un noto ultrà amaranto e dipendente comunale, che ha risposto a questa dichiarazione con un video che ha spopolato a Reggio su Facebook per la genuinità con cui ha respinto ogni accusa. Sono passati molti anni. Scopelliti finito nella polvere ha scritto le sue memorie. Le rivelazioni più recenti nelle aule di Tribunale sul falso attentato sembrano le dissimulazioni di medievale memoria. Mancini torna protagonista nazionale ma del tritolo senza innesco nel cesso del Comune non si conosce verità. Forse perché non frega più niente a nessuno e a Reggio Calabria, per antica vocazione, si preferisce e si vuole che il contesto resti sempre un po’ oscuro.

Tommaso Ciriaco per "la Repubblica" il 15 maggio 2021. Sarà un'indagine interna ai servizi - quella richiesta dal Copasir a Mario Draghi - a fornire risposte definitive agli interrogativi che ruotano intorno all'incontro in autogrill svelato da Report tra il capocentro del Dis Marco Mancini e l'ex premier Matteo Renzi, avvenuto lo scorso 23 dicembre. Tasselli mancanti, indiscrezioni, veleni: tutto si mescola in queste ore. Neanche l'ormai ex capo del Dis Gennaro Vecchione ha saputo fornire spiegazioni convincenti, ed è stato rimosso. Per aggiungere elementi utili a fare luce sulla vicenda, Repubblica ha compulsato fonti parlamentari di alto livello, a partire da quelle di Italia Viva. Ha sentito alcuni dei protagonisti politici e di governo. E ha contattato Giuseppe Conte. Questo è quello che risulta. Non è solo una storia di «babbi di Natale». Proprio alla luce di questa considerazione, va chiarito il primo dilemma: chi ha sollecitato il faccia a faccia tra l'esponente del Dis e l'ex premier? Secondo le fonti consultate, sarebbe stato Mancini a chiedere a Renzi di incontrarsi. L'esponente dei Servizi ha in rubrica il numero del leader di Iv e avrebbe chiamato per reclamare il colloquio. Il capocentro avrebbe chiesto e ottenuto l'incontro - che sarebbe durato tra i dieci e i venti minuti - con due obiettivi, emersi nel corso del confronto: chiedere informazioni rispetto all'imminente crisi di governo, che a fine dicembre è già pronta ad esplodere, e perorare la propria eventuale ascesa a vicedirettore del Dis. Sul primo punto, Renzi avrebbe risposto ribadendo le criticità del rapporto con Giuseppe Conte, lasciando pochi margini alla ricomposizione. Un altro quesito determinante si può riassumere così: chi e perché ha girato il video? È noto che il leader di Italia Viva non ritenga credibile la versione di una registrazione casuale poi consegnata a Report. Più volte i renziani hanno lasciato intendere di considerare irrealistico che sia stata davvero una professoressa capitata lì per caso a registrare l'incontro. A supporto di questa considerazione le fonti consultate rilevano un dettaglio: il fatto che sarebbero udibili alcune parole del video rende improbabile una captazione non pianificata. E quindi, ancora: chi può aver realmente girato il video? Le versioni accreditate da chi è nel cuore di questa storia sono due. La prima è che sia stato lo stesso Mancini a far registrare l'incontro. La seconda è che la registrazione sia stata effettuata da apparati dell'intelligence e all'insaputa del capocentro. In entrambi i casi, ne discende che Renzi sarebbe finito in mezzo a una resa dei conti dell'intelligence. Ma c'è un altro dettaglio da approfondire: chi ha sollecitato l'interessamento di Mancini alla questione della possibile crisi di governo? Secondo fonti di Italia Viva, è plausibile ipotizzare che l'abbia fatto chi era interessato alla stabilità dell'esecutivo. E, dunque, ragionevolmente e in ultima istanza, anche Palazzo Chigi. Questo snodo va affrontato tenendo in considerazione anche un'altra indiscrezione che circola in queste ore, alimentata da fonti di primo piano: Conte avrebbe sostenuto in privato che a perorare la causa di Mancini sarebbero stati il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e la big renziana Maria Elena Boschi. Quest' ultima si sarebbe interessata nella seconda metà di gennaio, prima della caduta dell'esecutivo giallorosso. Interpellato su queste circostanze, Conte si limita a dire: «No comment». Boschi, invece, smentisce in modo «più che categorico», facendo sapere di non aver mai conosciuto Mancini o perorato la sua causa. Una nettezza che lascia supporre che il «no comment» dell'ex premier si riferisca a Gratteri (che tra l'altro gode da anni di rapporti solidi con Renzi, e che conoscerebbe da tempo anche Mancini). Il procuratore di Catanzaro, contattato, fa sapere di non avere nulla da dire, se non smentire categoricamente di aver fissato l'appuntamento in autostrada tra il fondatore di Iv e l'esponente del Dis. Cosa, tra l'altro, che non ha sostenuto nessuno, perché il punto sollevato da Repubblica è piuttosto quello di aver più in generale sollecitato un incontro con Mancini. A sera, infine, Report preannuncia per la puntata di lunedì novità sul caso. Una fonte ha riferito alla trasmissione che Matteo Salvini ha incontrato più volte lo stesso Mancini nel corso degli anni. Gli incontri si sarebbero svolti anche «in prossimità di Cervia», quando Salvini si recava al Papeete, e pure «in autogrill». Report ha sentito il leghista, che ha confermato la consuetudine: «L'ho incontrato più volte da ministro in ufficio e al ministero. All'autogrill? No. Se sono sicuro? Non mi sembra di averlo incontrato in autogrill. A mia memoria no».

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 16 maggio 2021. Il Palazzo della politica è assai inquieto e gli apparati sono con l'orecchio a terra. Perché l'affaire dell'autogrill Renzi- Mancini è una palla di neve che si è già fatta slavina e minaccia di diventare valanga. Perché il sacrificio umano di Gennaro Vecchione (rimosso dal vertice del Dis mercoledì scorso), ragionevolmente, non basterà. Perché Marco Mancini, o se preferite "doppio Mike" (MM come Marco Mancini – ndDago), come apostrofano la sessantunenne spia emiliana di Castel San Pietro terme gli addetti dell'Intelligence, comparto dove senza soluzione di continuità lavora da 36 anni (per intenderci, nell'anno in cui Elisabetta Belloni, entrava alla Farnesina, e sei anni prima che Mario Draghi mettesse piede la prima volta in Banca d'Italia, Mancini transitava dai nuclei antiterrorismo dei carabinieri al Sismi, come capocentro di Bologna), fa paura. E non solo e non tanto perché, in queste ore, lo raccontano più irragionevole del solito. Tutt' altro che disposto a una onorevole resa e uscita di scena, quanto, piuttosto, animato da robusti propositi di vendetta. Al punto da essersi messo personalmente alla ricerca della fonte di "Report" (l'ormai famigerata insegnante che accompagnava l'anziano padre incontinente) che il 23 dicembre lo filmò nei suoi conversari all'autogrill. Ma perché, se possibile, ancora più vittima di se stesso e della convinzione - che lo accompagna come una scimmia sulla spalla dal 2006, anno in cui entrò in carcere due volte, prima per la vicenda Abu Omar e quindi per lo spionaggio della struttura illegale che faceva capo a Telecom - di essere vittima di un complotto ordito dai suoi nemici interni ai Servizi. Di una conventio ad excludendum che gli avrebbe illegittimamente interdetto l'approdo ai vertici dei Servizi. Già, seduto sul doppio-fondo di alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e dei suoi apparati, Mancini è una di quelle bombe a orologeria che la politica e gli stessi apparati hanno sempre avuto angoscia a maneggiare e non sono mai riusciti a disinnescare. L'uomo - che è di notevole intelligenza intuitiva - capisce infatti presto che è proprio nella fragilità, pubblica e privata, della politica, delle sue classi dirigenti, e nella forza del ricatto che la tiene insieme e ne governa la cooptazione e la selezione, che è il tesoro di una spia come lui. L'autogrill di Fiano, da questo punto di vista, è solo un inciampo del destino. Sarebbe potuto accadere molto prima. Armati di uno smartphone, sarebbe bastato, in questi anni, perdere una giornata feriale lungo il "golden mile" di "doppio Mike". Quello che, a Roma, unisce Largo santa Susanna (per anni sede degli uffici del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza) a piazza Barberini, alla galleria Sordi e a piazza Montecitorio. Lo avreste facilmente incrociato, in ogni stagione, in uno dei suoi eccentrici outfit, negli uffici a cielo aperto (bar, marciapiedi) dove nuotava e pasturava nella risacca del Palazzo. Incontrando e confabulando con onorevoli, spiccia faccende, manager, ministri, sottosegretari. Il metodo Mancini, del resto, è infallibile. Perché antico quanto il lavoro delle spie. Crea un problema e candidati a risolverlo. Era stato così nell'Italia spaccata a metà da Berlusconi (quando, da capo della Prima divisione del Sismi di Pollari, dimostra la stessa confidenza di accesso al Pd come a Forza Italia e quando, per ben due volte, il segreto di Stato lo salva dalla condanna definitiva alla reclusione per Abu Omar e gli guadagna il non luogo a procedere per la vicenda Telecom). Ed è così anche nell'Italia politicamente stravolta che esce dalle urne nel 2018. Quando aggancia il neoministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini (incontrato la prima volta 12 anni prima da detenuto durante la vicenda Abu Omar), promettendogli fedeltà nel sorvegliarne le potenziali fragilità e caldeggiandogli - almeno a suo dire - a direttore dell'Aise Luciano Carta, convinto che quest' ultimo lo avrebbe ricompensato riportandolo in ruoli operativi o addirittura a una vicedirezione (la cosa non accadrà e Carta finirà nella lista dei nemici personali di "doppio Mike" e di Vecchione). O quando - è sempre il 2018 - trasforma l'allora giovane e sprovveduto deputato 5 Stelle e oggi sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo - che da membro del Copasir era inciampato in una disavventura giocando a fare lo 007 in Medioriente con una coppia napoletana di trafficanti d'armi - in un suo ventriloquo all'interno del Palazzo. Con queste premesse, si capisce perché mettersi nel taschino Vecchione e Conte sarebbe stato un gioco da ragazzi. A maggior ragione, forte anche dell'amicizia di un peso massimo come il procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri che, a quale titolo e per ragioni che non è tutt' ora dato sapere, non ha mai smesso di sponsorizzarne la nomina («Soltanto nell'ambito di interlocuzioni e rapporti istituzionali», ha detto ieri il Procuratore al Fatto ). Vecchie storie calabresi, suggerisce qualche vecchio investigatore in quella terra. Quando il Sismi di Pollari e Mancini aiutava a ritrovare asseriti arsenali di 'ndrangheta.

Alessia Candito e Carlo Bonini per “la Repubblica” il 21 maggio 2021. Per capire quanto profonde siano le radici dell'affaire Marco Mancini, quali opacissimi mondi attraversino, quali doppie fedeltà abbiano cementato nel tempo, e perché il destino di questa spia sia diventato un caso di Sistema dove tornano ora a saldarsi, a protezione dello 007, la filiera sovranista 5 Stelle, la destra di Fratelli d' Italia, l' ala salviniana della Lega e qualche ventriloquo dell'ex premier Giuseppe Conte e dell'ex direttore del Dis Gennaro Vecchione, conviene tirare un filo che porta in Calabria. Terra di mafia e antimafia. Terra di Nicola Gratteri, oggi procuratore di Catanzaro, simbolo della lotta senza quartiere alla 'ndrangheta e facilitatore nel tempo di Marco Mancini in alcune sue «interlocuzioni istituzionali». Terra che vede proprio Mancini e il Sismi del suo direttore Nicolò Pollari, nei primi anni del duemila, al centro di una ragnatela che ha quali suoi snodi il ritrovamento di curiosi arsenali, il destino politico di un campione della destra come l'ex sindaco Giuseppe Scopelliti, attentati farlocchi, politici al soldo delle 'ndrine. E, soprattutto, terra che è proscenio, per dirla con il Procuratore aggiunto di Reggio Giuseppe Lombardo, di un piano «che deve trasformare la 'ndrangheta da interlocutore dello Stato in sua istituzione». Inizi duemila, dunque. Marco Mancini, che nel 2003 diventerà capo della prima divisione del Sismi incaricata del contrasto al terrorismo nazionale e internazionale, scopre in una Calabria non esattamente affollata di jihadisti o eversori interni un fertile terreno di pascolo. Cosa o chi lo spinga non è dato saperlo. È un fatto che a queste latitudini conti su due uomini. Il capocentro di Reggio Corrado D' Antoni, ex finanziere che rimarrà in AISE fino al 2016 per essere poi trasferito ad AISI con un incarico di seconda fila, e il poliedrico, diciamo così, Giovanni Zumbo. Ufficialmente, commercialista e amministratore di beni confiscati a Reggio e nella struttura particolare dell'allora sottosegretario regionale Alberto Sarra (oggi imputato come uomo di fiducia della 'ndrangheta). In realtà, da sempre nelle mani del clan De Stefano. Un "riservato" - come scopriranno vent' anni dopo i magistrati di Reggio - Un non affiliato ma a completa disposizione. Quando, nel 2010, Zumbo viene arrestato perché beccato a spifferare a don Peppe Pelle dettagli su imminenti arresti e indagini in corso e ad aiutare il boss Giovanni Ficara ad organizzare il ritrovamento di un falso arsenale nel giorno della visita dell'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (una messinscena immaginata dal boss per mettere nei guai il cugino rivale), decide di cantarsi i suoi rapporti con il Sismi. «Ho collaborato con i Servizi ma non intendo rivelare nulla in merito», dice a verbale il 16 giugno del 2011 all' allora Procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone. Senza sapere che di quella circostanza gli inquirenti reggini hanno già più di un'evidenza. In un'intercettazione, Zumbo si abbandona a una confidenza con Pelle: «Ho fatto parte e faccio parte tutt' ora di un sistema che è molto, molto più vasto di quello che ma vi dico una cosa in tutta onestà. Sunnu i peggiu porcarusi du mundu!». E in un colloquio in carcere con la moglie, al termine del quale scrive un nome su un biglietto che poi distrugge, aggiunge: «Lavoravo per lo Stato, e non posso toccare determinati argomenti, sennò smuovo pure» . In realtà, ai magistrati Zumbo aggiunge qualche altro dettaglio. «Ho lavorato per il Sismi dal 2001 in avanti e, oltre a D' Antoni, ho incontrato Mancini che all' epoca scese a Reggio Calabria». Non è un dettaglio di poco conto. Perché aiuta a inquadrare il contesto dell'impegno calabrese di Mancini e del Sismi. Quelli post 2001 sono infatti anni complicati in riva allo Stretto. La prima stagione dei grandi processi antimafia si avvia al termine e i principali imputati - l'ex consigliere comunale Giorgio De Stefano e l'ex parlamentare Paolo Romeo, il primo oggi condannato e il secondo imputato quale componente della direzione strategica della 'ndrangheta - se la cavano con una modesta condanna per concorso esterno. A "primavera di Reggio" si è spenta con la morte del sindaco Italo Falcomatà e, nel 2002, la destra è tornata a prendersi il Comune con il rampante ex presidente del Fronte della Gioventù, Giuseppe Scopelliti. «Uno che tutta l'Archi (feudo storico dei clan) l'ha preso e gli ha detto "fai il sindaco"», dice il pentito Consolato Villani, al pari di altri sei collaboratori. Tra cui Seby Vecchio, ex poliziotto, uomo del clan Serraino, massone e assessore di Scopelliti («Lo sanno anche i bambini che era vicino al clan De Stefano», dice). Per i magistrati che hanno istruito il processo "Gotha" (che si avvia a conclusione), Scopelliti è la pedina di un grande progetto criminale. «La politica reggina - ricostruisce il Procuratore aggiunto Lombardo - è gestita in quel momento dalla direzione strategica della 'ndrangheta attraverso Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Sono stati creati a tavolino uomini politici collocati in ruoli apicali al comune di Reggio, in Provincia, alla Regione, in Senato e all' europarlamento. L' obiettivo è trasformare lo Stato in una gigantesca macchina di riciclaggio. Scopelliti, che Romeo chiamava "braciolettone", è uno di questi uomini politici». E ora state a sentire: «Nel 2004 - prosegue Lombardo - si sta realizzando quello che Romeo ha programmato e il "braciolettone" (Scopelliti) va sostenuto. Deve fare il cane da mandria. Ma deve essere circondato da persone di fiducia e capire chi comanda. Deve subire le pressioni che il Sistema gli manda. E così, nel 2004, si arriva alla pagliacciata di palazzo san Giorgio». Palazzo san Giorgio è la sede del comune di Reggio. Ed è lì, dietro un water nei bagni dello stabile, in un'ala dell'edificio opposta a quella che ospita gli uffici del sindaco, che ad ottobre del 2004, viene ritrovata una strana bomba. Alcuni panetti di tritolo privi di innesco. Ancora il Procuratore Lombardo: «A cosa serve questa pagliacciata? A trasformare Scopelliti, che è nelle mani dei clan, in sindaco antimafia e a dirgli: "Tu finisci il lavoro quando diciamo noi". E infatti Scopelliti torna a fare il cane da mandria"». Bene. Ma chi ha fabbricato la pagliacciata? «Il Sismi di Pollari», dice il pentito Seby Vecchio nell'aula del processo "Gotha". «L' interesse era di blindare Peppe Scopelliti affinché prendesse tutto. Bisognava portarlo avanti dal nulla nell' interesse delle consorterie 'ndranghetistiche di Paolo Romeo e dei De Stefano». Ma c' è di più. E riguarda la nostra spia emiliana. L'allora procuratore della Dna, Alberto Cisterna, racconta in aula qualche anno fa: «L' attentato fu anticipato parecchi giorni prima all' allora Procuratore Nazionale antimafia Vigna. Che, preoccupato, convocò me e il collega Macrì». E aggiunge: «Ad avvisare dell'attentato era stato Marco Mancini del Sismi. Con tre informative». Una ne indicava l'obiettivo (Scopelliti), una il giorno e l'ora (7 ottobre 2004, tra le 10 e le 10.30). La terza il luogo in cui ritrovare l'esplosivo. La recita di palazzo san Giorgio non è la sola in Calabria, in quel 2004. In giugno, viene sequestrato un quintale di tritolo. A novembre, altri 70 chili. In dicembre, viene scoperto un deposito di bazooka e kalashnikov. E dietro ogni ritrovamento è sempre il Sismi. Il 24 giugno del 2005, si replica. Nella piana di Gioia Tauro, saltano fuori un chilo di plastico con detonatore, lanciarazzi, kalashnikov, bombe a mano. Il Sismi - daranno conto le cronache dell'epoca - indica che l'arsenale è destinato a eliminare Nicola Gratteri, allora pm a Reggio. Lo stesso che - nell' agosto 2004 - sempre il Sismi aveva già indicato come obiettivo di un possibile attentato. Ripensando ad allora, il Procuratore Nicola Gratteri si mostra più sconfortato che irritato. Convinto, quale è, che nell' incrocio tra il suo nome e quello di Mancini vi sia una coincidenza: la sua attuale intenzione di candidarsi a procuratore di Milano. Ricorda che, in quel giugno 2005, fu il primo a smentire la notizia suggerita dal Sismi («Non penso ci sia un legame tra questo ritrovamento e la mia persona», disse). Quindi ribadisce: «Con Mancini ho avuto solo rapporti istituzionali e nell' ambito dei rispettivi ruoli». Certo, le impronte digitali del Sismi di Pollari e Mancini restano. Zumbo, interrogato, dice: «Dal 2001 in poi, feci ritrovare a D' Antoni delle armi. Successivamente, ho fornito altre notizie per il ritrovamento di armi ed esplosivo». In cambio di cosa, non vuole o non sa dire, perché, aggiunge «di questo se ne occupava D' Antoni». Che, chiamato a testimoniare, prova a ridimensionare. È vero, conferma, Zumbo era un'antenna del Servizio, ma solo dal 2004 alla primavera 2006, ed è stato reclutato «casualmente in un bar» perché «aveva molti contatti». E poi: «Mancini? Lo ha incontrato solo una volta». Versione smentita dal maresciallo della Finanza Alessio Adorno, che di Zumbo era amico di famiglia. Gli incontri dell'uomo dei clan con Mancini - dice - sono stati «più di uno a Reggio e più di uno a Roma». Quindi aggiunge: «All'inizio del 2010, Zumbo mi confidò che i Servizi erano tornati a corteggiarlo». Di tempo ne è passato. Ma non troppo. Zumbo è tornato in libertà. E Reggio non ha mai dimenticato l'ex direttore del Sismi Nicolò Pollari, che qui ha per altro insegnato all' Università, e che, dicono, torni sempre molto volentieri.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 17 maggio 2021. Marco Mancini, l’agente segreto videoregistrato in un autogrill mentre parla con Matteo Renzi, non ha incontrato solo con il capo di Italia Viva. Report ha raccontato anche di alcuni appuntamenti con Matteo Salvini, il leader della Lega. Ora Domani è in grado di svelare un altro incontro con i vertici politici nazionali: quello con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha ricevuto l’uomo del caso Abu Omar direttamente alla Farnesina. Fonti autorevoli spiegano che nell’agenda del ministro 5 Stelle, all’inizio del 2020, era segnato un incontro con Nicola Gratteri, il capo della procura di Catanzaro. Ma insieme a lui, nello studio di Di Maio, a un certo punto si è presentato anche Mancini. L’incontro risale ai primi mesi del governo Conte II. Mancini, caporeparto del Dipartimento “Servizi per l’informazione e la sicurezza” (Dis), sperava da tempo (grazie anche all’appoggio che credeva di avere dal premier e da Gennaro Vecchione, l’ex numero uno del Dis sostituito anzitempo la scorsa settimana da Elisabetta Belloni) in una promozione a vicedirettore, fino a quel momento mai concretizzata. Impossibile sapere che cosa si siano detti Di Maio, Gratteri e Mancini. È un fatto certo, però, che l’incontro dimostra come Gratteri (che nei giorni scorsi ha smentito seccamente di aver favorito l’incontro tra Renzi e la spia) abbia un consolidato rapporto di stima con Mancini, tanto da andare a trovare insieme a lui un potente ministro della Repubblica. A Domani Gratteri conferma l’appuntamento. «È vero, ci siamo incontrati alla Farnesina a inizio 2020, ma per motivi squisitamente istituzionali», dice. «La presenza di Mancini non era prevista: mi aveva chiamato per farmi un saluto, e io risposi che stavo andando al ministero degli Esteri per un incontro con Di Maio. Mancini così mi chiese se poteva venire anche lui. Tra lui e il ministro c’è stato solo uno scambio veloce, tipo “piacere, piacere”, sarà durato un minuto. Durante la riunione istituzionale tra me e il ministro, invece, Mancini non c’era. E naturalmente non chiesi niente per nessuno». Se dalla Farnesina confermano l’incontro senza aggiungere dettagli, fonti del Csm vicine a Gratteri credono che l’amicizia tra il pm calabrese e la spia possa essere usata per minare la candidatura del magistrato antimafia alla guida della procura di Milano. «Se continua così, Nicola rinuncerà alla sua corsa», chiosano. Sul presunto “complotto” ai suoi danni Gratteri non dice nulla. Ma tiene a ribadire nuovamente che, nel caso di Renzi, non ha mai fatto da tramite. «Non ho organizzato io l’incontro tra lui e Mancini. Ho già detto che posso mettere a disposizione i miei tabulati se qualcuno vuole verificare». Naturalmente ogni incontro ha la sua storia. Non conosciamo i contenuti di quello tra Gratteri, Di Maio e Mancini. Nemmeno quello tra l’agente segreto e Renzi. Il polverone scatenato dal video che ha immortalato la coppia vicino una pompa di benzina è dovuto però a varie anomalie. Innanzitutto il timing dell’appuntamento: il governo Conte bis traballava da qualche settimana. Poi il mistero della ripresa video, chi ha videoregistrato la coppia? Report, che ha mandato in onda le immagini, ha spiegato che a girarle è stata una professoressa che era lì per caso, mentre il senatore di Rignano teme di essere stato pedinato da soggetti terzi. Inoltre c’è l’inconsueto luogo dell’incontro e il fatto che Vecchione, il capo di Mancini, non fosse stato avvisato dal suo sottoposto. Renzi, infine, non aveva alcun ruolo ufficiale nel governo, né poteri specifici di promuovere chicchessia: è questo uno dei motivi che ha portato il Copasir ha chiedere accertamenti sui motivi del meeting. Il caporeparto dei servizi, cresciuto nell’intelligence di Nicolò Pollari, non è il primo agente ad aver incontrato politici di rango. Gli addetti ai lavori spiegano che l’interlocuzione con il potere esecutivo è del tutto abituale. Sia per questioni professionali, sia per chi si candida a diventare direttore o vicedirettore, e si vuole presentare a chi decide le nomine. La legge, in realtà, prevede che le promozioni siano indicate «in via esclusiva» dal presidente del Consiglio, sentito il parere del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), a cui partecipa l’autorità delegata, il ministro degli Esteri, dell’Interno, della Difesa, dell’Economia, della Giustizia e dello Sviluppo economico. Anche i vice direttori, dice la legge 124 del 3 agosto 2007, sono scelti dal premier, che per i ruoli da numero due si dovrebbe consultare solo con i capi delle agenzie. In Italia, invece, anche chi vuole fare carriera nei servizi deve godere di appoggi trasversali, e molti scelgono di sottoporsi al solito giro delle sette chiese, chiedendo sostegno a destra e a manca in modo da creare un consenso forte intorno al proprio nome. Una pratica discutibile a cui possono sottrarsi davvero in pochi. Per Mancini appuntamenti e interlocuzioni non hanno comunque portato i frutti sperati. Nonostante l’appoggio del suo ex capo Vecchione, l’agente è stato sempre superato da altri candidati: nella tornata di nomine dell’estate del 2019 gli vengono preferiti due “esterni” come Angelo Agovino all’Aise e Vittorio Pisani all’Aisi, e quando a settembre si libera una posizione nel suo Dis viene sopravanzato da Bruno Valenzise. Anche tra il 2020 e il 2021, davanti a tre nuove caselle da assegnare, le aspirazioni di Mancini si infrangono davanti ad altri nomi. Perché Mancini non vince mai la corsa? Non tanto per i suoi concorrenti, comunque di alto livello. Ma a causa di due fattori su cui si basa quella che considera una conventio ad exludendum: il suo iperattivismo, che alla fine infastidisce non poco chi comanda (Quirinale compreso), e la sua storia professionale, fatta di successi sul campo ma pure di vicende mai del tutto chiarite, dal caso dei dossier illegali Telecom (Mancini fu prosciolto, il suo amico Giuliano Tavaroli patteggiò 4 anni e mezzo) al rapimento dell’imam Abu Omar, i cui dettagli oscuri restano segreto di Stato ancora oggi. Macigni che fanno di Mancini – che si professa da sempre innocente di qualsivoglia illecito - un nome su cui nessun politico vuole lasciare, nonostante promesse personali vere o presunte, le impronte digitali.

Proni alle Procure. Lo "scoop" di Repubblica sui servizi segreti arriva con 10 anni di ritardo: ne parlammo ma nessuno ci badò. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 22 Maggio 2021. Ieri il quotidiano la Repubblica parlava della “ragnatela calabrese dell’agente segreto Mancini”. Sono andato a rileggermi un articolo pubblicato su Calabria ora, diretto da Piero Sansonetti, e scritto circa dieci anni fa. Riporto solo qualche rigo: «In occasione della bomba alla procura generale di Reggio Calabria è nato un movimento con l’obiettivo di “esprimere la solidarietà ai magistrati reggini e risvegliare la coscienza dei singoli e della comunità”. Un movimento che ha l’ambizione di essere “la scorta civica della Procura”». «Nobili le intenzioni». Ma avvertivamo «.. dietro bombe e bazooka insieme alle coppole da sgarro, si potrebbe individuare un luccichio di stellette ed il color di toghe…». Oggi i fatti ci dicono che le nostre non erano allucinazioni ma, come scrivemmo nell’articolo, certezze supportate da prove univoche che dimostravano come dietro il mafioso Lo Giudice, l’agente segreto Zucco, le bombe alla procura o al Comune, la Fiat Marea imbottita di tritolo e fatta ritrovare in occasione d’una visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Reggio, ci fosse un’unica regia in grado di gestire lo “Stato” nel territorio calabrese e utilizzare la Calabria come terreno di oscure manovre su tutto il territorio nazionale. Per noi non era una novità. Già il famoso summit di Montalto in cui nel 1969, nel cuore dell’Aspromonte, si ritrovarono tutte le cosche calabresi in un raduno e con cinque uomini incappucciati al centro, più che dalla ‘ndrangheta fu gestito ed utilizzato dai “servizi”. Una parola che, in Calabria, vuol dire tutto e non vuol dire niente perché si trovano dappertutto. Almeno in parte, hanno cogestito le cosche nei loro loschi traffici, hanno “allevato” politici, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine. Hanno controllato e controllano gran parte della burocrazia statale e regionale per assicurare una continuità storica che esclude il popolo calabrese da ogni diritto a favore di una ristretta cerchia di privilegiati. Si può ben dire che in Calabria, la stessa mano ha creato (e crea) la mafia e gran parte dell’”antimafia” e utilizza entrambe contro la moribonda “democrazia” calabrese. È amaro essere arrivati a una più che probabile verità con dieci – alcune volte con trenta – anni di anticipo rispetto a coloro che avrebbero avuto il dovere di indagare e al cosiddetto giornalismo di inchiesta che vive nelle anticamere delle procure. Certamente non perché siamo stati più bravi degli altri ma solo perché costantemente “eretici” rispetto alle verità di casta. E un tempo “eretica” era l’intera Sinistra che oggi vive prona e all’ombra di alcune procure, in uno stato di perenne subalternità alle manovre dei “servizi”, condannandosi così all’irrilevanza politica e al tradimento della propria storia. Tutto in Calabria viene deciso dalla “ragnatela”: quali “politici” eliminare dalla scena, come punire chi denuncia l’impostura, chi deve gestire i tantissimi soldi della sanità o i fondi europei, quali personaggi lanciare sulla scena nazionale. E guardando in filigrana alle prossime elezioni regionali, possiamo comprendere che si farà in modo che non cambi assolutamente nulla. Lo so, sembra impossibile crederci. Ma vi assicuro che la realtà calabrese è ben più grave di quanto io non abbia saputo dire nel presente articolo. Solo che quanto succede in Calabria non interessa a nessuno ed è per questo che le poche voci libere si vanno spegnendo tra l’indifferenza generale. Ilario Ammendolia

Servizi: Conte, Mancini risponde a me? Concezione abnorme. (AGI il 17 maggio 2021) - Roma, 17 mag. - "Dire che un uomo dell'intelligence risponda a questo o a quello e una concezione abnorme". Lo dice l'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, intervistato da Report, in un video postato sui canali social della trasmissione. "Matteo Renzi dice che Marco Mancini e un suo uomo", afferma il cronista che intercetta Conte per la strada: "Un uomo di Renzi?", ribatte Conte che, alla precisazione del giornalista "no, suo", spiega: "Un uomo mio? E' un uomo dell'intelligence. E' una concezione assolutamente abnorme dire di persone dell'intelligence " è uomo di questo o di quello. Io sono stato il presidente del Consiglio e ho lavorato con l'intelligence nell'ambito del mio ruolo istituzionale". Alla domanda, "l'ha mai incontrato Mancini?", Conte risponde: "L'ho incontrato in occasioni ufficiali, tutte ufficiali, in sedi istituzionali". A questo punto, il giornalista chiede: "prima Renzi ha incontrato Mancini, poi Salvini ha incontrato Mancini, sempre nell'imminenza della crisi dei suoi governi. Che impressione le fa tutto questo?". Conte risponde: "Chi ha un ruolo o un compito politico cosi e giusto che renda sempre conto del suo operato. Io ho cercato sempre di informare a questo la mia azione politica e continuerò a fare questo. Quindi, mi auguro che tutti si conformino a questo. Noi abbiamo bisogno di persone responsabili che lavorino, quando sono alle istituzioni, con onore e disciplina. Grazie".

DAGONOTA il 18 maggio 2021. La domanda delle mille pistole: perché lo 007 Marco Mancini incontra Matteo Renzi all'autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020? Intanto va detto che tutti i precedenti tentativi di "Tortellino" di diventare vicedirettore dell'Aise, nel corso del tempo, hanno fatto un buco nell'acqua. Leggiamo sul "Domani": ''Per Mancini appuntamenti e interlocuzioni non hanno comunque portato i frutti sperati. Nonostante l’appoggio del suo ex capo Vecchione, l’agente è stato sempre superato da altri candidati: nella tornata di nomine dell’estate del 2019 gli vengono preferiti due “esterni” come Angelo Agovino (quota Di Maio) all’Aise e Vittorio Pisani (quota Salvini) all’Aisi, e quando a settembre si libera una posizione nel suo Dis viene sopravanzato da Bruno Valenzise. Anche tra il 2020 e il 2021, davanti a tre nuove caselle da assegnare, le aspirazioni di Mancini si infrangono davanti ad altri nomi". Ecco un "reietto" che non sa più a chi santo affidarsi. Non rimane che bussare alla porta di Renzi. Su chi ha sollecitato l'incontro, Matteuccio non fa il nome, da una parte. Dall'altra, il magistrato antimafia Nicola Gratteri, grande amico di Mancini, ha smentito di aver fatto la telefonata. Torniamo all'autogrill di Fiano. Cosa diavolo aveva da chiedere lo spione? Ovviamente, l'agente dei Servizi ha chiesto un "sostegno" al senatore di Rignano per diventare vicedirettore del Dis. Secondo richiesta: ha provato a convincerlo a non far cadere il governo Conte-bis. Curiosa supplica: chi ha sollecitato l'interessamento di Mancini alla questione della possibile crisi di governo? Qualcuno in alto si è mosso? Ci sono "mandanti" politici? Gli "addetti ai livori" ritengono che la spiegazione sia più semplice di quanto non si pensi. Come ha spiegato Carlo Bonini su Repubblica: "Il metodo Mancini, del resto, è infallibile. Perché antico quanto il lavoro delle spie. Crea un problema e candidati a risolverlo". L'ipotesi più accreditata è appunto questa: Mancini avrebbe provato a fermare la caduta del governo giallo-rosso così da potersi presentare a Conte e al direttore del Dis, Gennaro Vecchione, con una "medaglia", un successo personale, con cui reclamare la tanto agognata promozione. Altro nodo è chi abbia girato il video. "Report" sostiene di averlo ricevuto da una professoressa capitata lì per caso. Ma è una versione che non convince fino in fondo. "Le versioni accreditate - scrive Tommaso  Ciriaco su Repubblica - da chi è nel cuore di questa storia sono due. La prima è che sia stato lo stesso Mancini a far registrare l'incontro. La seconda è che la registrazione sia stata effettuata da apparati dell'intelligence e all'insaputa del capocentro. In entrambi i casi, ne discende che Renzi sarebbe finito in mezzo a una resa dei conti dell'intelligence". Nella denuncia-querela presentata dai legali di Matteo Renzi sono evidenziate tutte le contraddizioni del racconto di "Report" e della famigerata professoressa. "L'attenta analisi del video e delle foto scattate - si legge nella denuncia - rassegnano un punto di sosta dell'auto verosimilmente incompatibile con la ricostruzione data vicino ai due interlocutori ripresi e lontano dal bar dove la stessa dice di essere andata per prendere una camomilla)". Continua la denuncia: "Durante l'intervista, andata in onda il 3 maggio 2021, l'intervistatore domanda "Li ha visti andar via?" e la signora replica "L'auto di Renzi ha proseguito l'autostrada in direzione di Firenze invece l'altra auto in direzione di Roma". L'intervistatore domanda: "Si sono detti qualcosa prima di salutarsi?" e la signora — che dunque sostiene di aver assistito al momento del commiato — risponde: "L'uomo brizzolato ha ricordato a Renzi che sapeva dove trovarlo, qualsiasi cosa". E l'intervistatore conclude la frase "Era a disposizione". Dunque, la professoressa ha ascoltato le parole di saluto che il Mancini ha effettivamente pronunciato. Con quale mezzo? Il Senatore e il Mancini, infatti, avevano due auto di scorta con un totale di quattro persone che non hanno visto nelle vicinanze alcun mezzo privato fermo per oltre quaranta minuti. Eppure, la professoressa ascolta le vere parole pronunciate dal Mancini". Gli avvocati di Renzi chiedono di verificare il racconto fornito a "Report" dalla curiosa professoressa attraverso l'acquisizione ed analisi dei filmati registrati il 23 dicembre 2020 dalle telecamere di sicurezza dell'autogrill di Fiano Romano. Oltre alla verifica che sui video e le foto non vi siano state manipolazioni o alterazioni: "Alla luce di tali rilievi l'episodio potrebbe non essere una fortuita ripresa da parte di una cittadina qualunque, quanto piuttosto una vicenda accuratamente orchestrata".

Estratto dell'articolo di Marco Franchi per “il Fatto Quotidiano” il 18 maggio 2021. A inizio 2020, Luigi Di Maio, già ministro degli Affari esteri, ha incontrato Marco Mancini, lo 007 di nuovo agli onori della cronaca dopo gli incontri avvenuti con il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, e poi con il segretario della Lega, Matteo Salvini. Lo ha rivelato Domani: erano i primi mesi del 2020, Di Maio doveva incontrare Nicola Gratteri, il capo della Procura di Catanzaro, che si era presentato alla Farnesina con Mancini. […] L'incontro con Di Maio avviene […] alla Farnesina, in un momento in cui ancora non si discute delle nomine dei Servizi. Il vertice dell'Aise (i servizi segreti per l'estero) verrà rinnovato solo nel maggio successivo. […] L'incontro con Renzi avviene in un momento diverso: in quel momento Mancini, direttore di divisione al Dis (l'agenzia che coordina i due servizi per l'interno e gli esteri, Aisi e Aise), puntava a diventare vicedirettore di una delle tre agenzie di intelligence. Per alcune settimane, lo 007 ha avuto anche buone possibilità di riuscirci, con il sostegno di Gennaro Vecchione (ex direttore del Dis) e con la non ostilità dei Cinquestelle. Consigliati - come ha rivelato Il Fatto ormai il 3 maggio scorso - anche dal magistrato antimafia Nicola Gratteri, che però ha puntualizzato: soltanto nell'ambito di interlocuzioni e rapporti istituzionali. […] Oltre a Matteo Renzi, lo 007 […] ha visto anche Matteo Salvini. A Report il leader della Lega ha confermato di aver incontrato Mancini "più volte, da ministro".

L'inchiesta di Report alla stazione di servizio di Fiano Romano. “Marco Mancini ha chiesto a Renzi di non far cadere Conte”, l’incontro all’autogrill con lo 007. Vito Califano su Il Riformista il 18 Maggio 2021. Marco Mancini ha chiesto a Matteo Renzi di non far cadere il governo Conte 2. Esecutivo che un mese dopo quell’incontro in autogrill a Fiano Romano, il 23 dicembre 2020, sarebbe puntualmente caduto e quindi avrebbe fornito materiale per le teorie del complotto dei nostalgici dell’“avvocato del popolo”. A rivelare tale richiesta, nell’affaire del faccia a faccia alla stazione di servizio sollevato da un’inchiesta della trasmissione di Rai3 Report, è Dagospia. Addio complottone, quindi, nel caso. Addio alla macchinazione tra servizi segreti e il senatore ex Presidente del Consiglio per affossare l’esecutivo. Mancini avrebbe avanzato tale richiesta solo per poter avvallare la sua ambizione di diventare finalmente vicedirettore dell’Aise, Agenzia Informazioni e sicurezza Esterna, il servizio segreto per l’estero. Lo 007 è caporeparto al Dis, l’agenzia che coordina Aisi e Aise, già a capo della Divisione controspionaggio del Sismi. Le sue ambizioni sono state via via affossate negli anni. Angelo Agovino nel 2019 è arrivato all’Aise, Vittorio Pisani all’Aisi. Stessa storia per le nomine tra 2020 e 2021. “Doppio Milke” ha incontrato, com’è emerso negli ultimi giorni, anche il segretario della Lega Matteo Salvini e il leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. A fare incontrare quest’ultimo con l’agente, secondo Domani, Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro. Gratteri ha smentito. Ma a Renzi Mancini si è affidato dopo la girandola di nomine gestite dai partiti al governo, Movimento 5 Stelle e Lega. All’ex premier avrebbe chiesto di sostenerlo per diventare vicedirettore dell’Aise. E quindi di non far saltare il governo Conte. Come scrive Dagospia: “L’ipotesi più accreditata è appunto questa: Mancini avrebbe provato a fermare la caduta del governo giallo-rosso così da potersi presentare a Conte e al direttore del Dis, Gennaro Vecchione, con una ‘medaglia’, un successo personale, con cui reclamare la tanto agognata promozione”. Conte, interrogato dalla stessa Report, ha declinato la sua vicinanza a Mancini: “Renzi dice che Marco Mancini era mio uomo? È un uomo dell’intelligence, una concezione abnorme dire ‘uomo di questo o di quello’. Io sono stato il presidente del Consiglio e ho lavorato con l’Intelligence nell’ambito del mio ruolo istituzionale. L’ho incontrato in incontri ufficiali e istituzionali”. No comment sulle ambizioni di Mancini. Ancora mistero – nel mistero, dell’inchiesta – sull’insegnante che ha girato il video. Una professoressa capitata lì per caso. Matteo Renzi ha presentato querela: troppo sospetta la ricostruzione fornita. La Repubblica sintetizza questo capitolo della vicenda in due versioni: o è stato lo stesso Mancini a far registrare l’incontro; o la registrazione è stata effettuata da apparati dell’intelligence all’insaputa dello stesso Mancini. Quindi sempre di 007 si parla, di conflitti all’interno dei servizi. La denuncia di Renzi ripercorre i punti che non tornano nella questione, le contraddizioni. Dal punto di sosta alle parole sentite dall’insegnate alla scorta che non ha visto niente di sospetto. Gli avvocati del senatore hanno chiesto l’acquisizione e l’analisi delle telecamere della stazione di servizio. “Alla luce di tali rilievi l’episodio potrebbe non essere una fortuita ripresa da parte di una cittadina qualunque, quanto piuttosto una vicenda accuratamente orchestrata”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

In pensione da luglio. Marco Mancini lascia i Servizi segreti, lo 007 “paga” l’incontro con Renzi in Autogrill. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Giugno 2021. L’esperienza di Marco Mancini nei servizi segreti termina in maniera netta e brusca. Lo 007, dirigente del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), paga a caro prezzo l’incontro pre-natalizio con l’ex premier Matteo Renzi in una piazzola dell’Autogrill di Fiano Romano. A Mancini infatti il nuovo vertice dell’istituzione, quella Elisabetta Belloni nominata dal premier Mario Draghi al posto del fedelissimo dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Gennaro Vecchione, ha comunicato nei giorni scorsi le due alternative: andare in pensione anticipatamente o il trasferimento all’Arma dei Carabinieri. Un ritorno che equivale di fatto ad un licenziamento. Per questo Mancini ha prima preso un periodo di ferie e poi ha manifestato l’intenzione di presentare domanda di prepensionamento con decorrenza metà luglio. A 60 anni, dopo 37 passati nei servizi segreti, termina così la carriera di un personaggio che negli ultimi decenni è stato al centro di alcuni fatti a dir poco controversi, l’ultimo in ordine di tempo proprio l’incontro con Renzi in Autogrill: una vicenda sulla quale l’ex capo dei servizi segreti Vecchione, chiamato a risponderne al Copasir, non ha saputo dare una spiegazione plausibile. Ma nel passato di Mancini ci sono altri fatti clamorosi: il sequestro in Iraq nel 2015 e la liberazione della giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena, durante la quale perderà la vita Nicola Calipari, come Mancini dirigente del Sismi. Quindi il caso Abu Omar, per il quale viene arrestato nel 2006 con l’accusa di concorso in sequestro di persona riguardo al rapimento dell’imam egiziano della moschea di viale Jenner a Milano. Nel processo, col pm Armando Spataro che aveva chiesto la condanna a 10 anni per Mancini, l’agente dei servizi segreti se la caverà col non luogo a procedere in ragione del segreto di Stato, confermato in Appello. La Cassazione nel 2012 annulla la sentenza ritenendo che il segreto di stato non cora tutti i comportamenti dello 007, si torna ad un nuovo processo in Appello con la condanna a 9 anni di reclusione. Grazie ad un verdetto della Corte Costituzionale sull’applicabilità del segreto di stato, in Cassazione viene annullata senza rinvio la condanna nei confronti di Mancini (assieme a Nicolò Pollari, direttore del SISMI, ed altri 3 agenti) in quanto “l’azione penale non poteva essere perseguita per l’esistenza del segreto di Stato”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

DAGOREPORT il 4 giugno 2021. La decisione, secca come un cassetto chiuso con una ginocchiata, di far fuori Marco Mancini è stata di Franco Gabrielli, autorità delegata ai Servizi Segreti. La novella badessa del DIS, Elisabetta Belloni, temporeggiava con una commissione interna sull’operato dello svalvolato 007 deciso a tutto pur di diventare vice direttore dell’Aise prima, del DIS poi, al punto che dopo le promesse mancate di Conte e Vecchione, aveva bussato alla porta di Matteo Renzi (video dell’autogrill). Sulla spinta che “Report” di Ranucci sarebbe ritornato sul caso Mancini, Gabrielli ha chiamato la Belloni: fuori dall’Intelligence l’amico di Gratteri, Tavaroli, Bisignani, Bocchino, Salvini, Renzi, etc. Ma la Belloni non se l’è sentita di affrontarlo per comunicargli che era giunto al capolinea. E ha dato l’incarico al suo povero vice, Bruno Valensise. L’incontro è iniziato alle 11 del mattino ed è finito alle 17, con un Mancini impazzito che ne ha urlate di tutti i colori. Messo davanti all’onta di un rientro con il grado di maresciallo dei carabinieri, arma da cui proveniva, Mancini ha preferito il pensionamento anticipato a 61 anni (avrebbe potuto restare per altri 5 anni) che firmerà a metà luglio. La brusca uscita di scena di questo spione invasato di potere è un altro tassello del “metodo Gabrielli” inaugurato con la cacciata di Gennaro Vecchione e che continua con un altro ordine: il taglio delle scorte di competenza dei Servizi, se non ci sono motivi giustificati. (Le scorte sono decise dal Comitato di Sicurezza del Viminale mentre quelle dell’Intelligence sono a discrezione del capo del DIS). Tra i primi ad essere “descortati” ci sono i vecchi capi dei Servizi, da Manenti a Pollari, ambedue incazzatissimi. Sembra che non l’abbia presa bene nemmeno Massimo D’Alema, anche lui pare scortato dai Servizi. Ma questo non è che l’inizio del “metodo Gabrielli”. Ne vedremo delle belle…

Il linciaggio dell'agente segreto cacciato per l'incontro con Renzi. Paolo Guzzanti il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ipocrisia sul pensionamento di uno 007 della vecchia guardia. L'ultimo agente segreto della vecchia guardia, Marco Mancini di 61 anni, se ne è andato. O meglio dismesso, costretto al pensionamento anticipato. E così dunque si chiude una fase di revisione della nostra intelligence che aveva già visto la sostituzione del generale Vecchione, uomo di fiducia di Conte, con la qualificatissima ambasciatrice Elisabetta Belloni, prima donna a capo dei servizi in Europa. Ma poiché l'ultimo ad andarsene è l'ex carabiniere Mancini già protagonista di storie e storiacce degli anni passati, ieri abbiamo assistito alla riedizione di uno spettacolo già visto: il linciaggio del caduto, o del licenziato, o comunque eliminato. Che fegato. Quanta carica etica. Confesso: io non ho mai conosciuto Mancini e non ho sviluppato nemmeno una particolare simpatia. Però so da quando faccio il giornalista che questi uomini e donne, che servono i servizi e i governi, in ogni Paese anche il più democratico, sono prima o poi invischiati in storie e storiacce che li scaraventano nelle cronache, nelle corti di giustizia, sotto i fari del cosiddetto quinto potere, che sarebbe quello della stampa. Ora, è vero: i giornalisti dovrebbero fare inchieste anziché farsi imbeccare da giudici e compari politici, ma ogni eroismo professionale cessa nel momento in cui si lapida uno che è già caduto, che ha già perso la carriera (avrebbe potuto fra qualche mese diventare vicedirettore come premio, se non altro allo stress). Ma certamente è da codardi profittare della loro cacciata, o pensionamento anticipato, per darsi freneticamente al moralismo d'accatto, trincerati in articolesse fumosamente soliloquenti e ipocrite. Mancini era un carabiniere, ha fatto quel che lo mandavano a fare ed ha anche avuto guai e condanne della giustizia. Quasi tutti gli uomini dei servizi incappati nelle storiacce di cronaca hanno avuto guai che non li rendono più amabili, ma nemmeno diabolici. Prendiamo l'ultimo fatto: il famoso colloquio alla luce del sole in mezzo a un parcheggio del casello autostradale di Fiano alle porte di Roma. Mancini parlava con Matteo Renzi (nel tondo). Che si saranno detti? Mah. Segreti innominabili. O forse considerazioni sul freddo, non sappiamo. Fatto sta che guarda caso proprio quel giorno e in quel posto sperduto ma pubblico una telecamerina filmava e riportava alla trasmissione Report che ne faceva giustamente dal punto di vista della cronaca - un grande caso. Che ci faceva un ex capo del governo in un parcheggio alla luce del sole? La Storia si interrogherà a lungo. Mancini fu davvero al centro di eventi drammatici, come la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena che costò la vita al funzionario Nicola Calipari e finì anche lui sotto i riflettori e nei fascicoli dei magistrati. E fu coinvolto nel preteso (ci sono molti dubbi) rapimento da parte della Cia di un iman milanese sospettato di far parte di al-Qaeda, di nome Abu Omar. Ma nessuno fra questi leoni della notte ha mai letto Conrad? O Graham Greene? Gli inglesi, giornalisti inclusi, hanno un vecchio motto: con i servizi segreti si deve adottare la stessa precauzione che si usa alludendo al sesso coniugale. Tutti sappiamo che c'è e che è una cosa buona. Ma non è assolutamente il caso di usarlo per filmini porno.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 5 giugno 2021. Il prepensionamento dello 007 Marco Mancini è il primo atto della direzione di Elisabetta Belloni al Dis. Il primo segnale di normalizzazione da parte di un direttore del Dipartimento per la sicurezza, la cui nomina è stata fortemente voluta dal premier Draghi. Probabilmente se la situazione non fosse precipitata, Belloni avrebbe dato più tempo a Mancini per uscire dai ruoli dell'intelligence. Ma il video dell'incontro con Matteo Renzi in un autogrill di Fiano Romano, le nuove rivelazioni che la trasmissione Report si appresta a mandare in onda, hanno fatto sì che il direttore del Dis, in accordo con l'autorità delegata ai servizi, l'ex capo della Polizia Franco Gabrielli, decidesse di chiudere la partita rapidamente. Non sembra che siano servite a molto le urla, le discussioni, le giustificazioni, che Mancini ha sollevato mentre gli comunicavano che avrebbe dovuto lasciare l'incarico. Ormai era deciso. E la pensione anticipata di qualche anno è stata solo l'inizio di un cambiamento di linea per il Dis. Durante gli anni alla Farnesina, Belloni ha sempre puntato alla mediazione, lontana come è dal protagonismo. Quanto prima il neo direttore verrà sentita dal Copasir. In ballo c' è il dossier libico, del quale è molto esperta, ci sono altre cariche in scadenza: vice direttori da confermare o cambiare, nuovi incarichi da assegnare. Nell' agenda del governo Draghi c'è, poi, l'Agenzia nazionale per la cybersecurity, un nuovo ufficio che dovrà blindare il funzionamento del settore pubblico e privato nazionale dagli attacchi cyber. E c'è anche un cambiamento più profondo che sta portando ad avvicendamenti e addii. Dopo la nomina del capo del Dis, l'ulteriore proroga di Mario Parente a direttore dell'Aisi, c' era stato il presidente del Copasir, Raffaele Volpi (deputato in quota Lega) a lasciare dopo mesi di pressioni collegate alle accuse di chi, agitando la legge istitutiva, sosteneva che quella poltrona andava occupata da un membro dell'opposizione. Su questo fronte la situazione è ancora incerta e in evoluzione e un'altra disputa è aperta: in caso di ricomposizione del comitato con nomi nuovi, uno dei candidati accreditati alla presidenza per Fdi potrebbe essere l'ex ministro, Ignazio La Russa. Ma in queste ore i presidenti di Senato e Camera, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico, hanno comunque affermato che «diversamente dalle dimissioni dalla carica di Presidente, le dimissioni da componenti del Copasir, quando non seguite dall' indicazione dei sostituti, sono prive di efficacia e non costituiscono un impedimento alla convocazione dell'organo ai fini dell'elezione del nuovo Presidente. Tale compito spetta al Vice Presidente del Comitato». Marco Mancini lascerà i servizi segreti a metà luglio, dopo 37 anni di carriera. «Ho sempre servito lo Stato, vado via amareggiato», avrebbe confidato ad alcuni colleghi. Secondo la norma, chi lascia questo tipo di incarico, ha comunque la facoltà di rientrare nell' amministrazione di provenienza, ma vorrebbe dire ritornare nell' Arma dei carabinieri con il grado di maresciallo. Inaccettabile per lui che era riuscito a scalare uno dopo l'altro i vertici dell'intelligence, fino a diventare capo reparto. Sulla scelta di prepensionarlo pesa, probabilmente, anche il passato da dirigente del Sismi all' epoca di Niccolò Pollari. Restano diversi gli episodi che hanno segnato la sua carriera: la morte del collega Nicola Calipari durante l'operazione che portò alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena in Iraq, il caso dell' imam Abu Omar. Ombre e segreti che lo 007 porta via con sé, forse già sigillate negli scatoloni pronti nel suo ufficio.

Le conseguenze del caso Mancini per i servizi segreti italiani. Andrea Muratore su Inside Over il 6 giugno 2021. Il primo atto formale della nuova direttrice del Dis, l’ambasciatrice Elisabetta Belloni nominata da Mario Draghi poche settimane fa, è stato quello di mandare anticipatamente in pensione Marco Mancini, l’alto ufficiale dei servizi italiani interessato dalla polemica riguardante il suo incontro con Matteo Renzi rivelato dalla trasmissione Report. Il 60enne Mancini, di cui all’epoca del governo Conte II si parlava come possibile vicedirettore del Dis, è stato prepensionato dal Dis nel quadro di un preciso assunto che ha ispirato la scelta da parte di Draghi di Belloni e del prefetto Franco Gabrielli, scelto come autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, al vertice dei servizi: l’obiettivo è rimettere ordine, sottrarre i servizi dal tourbillon mediatico, restituire allo Stato la sua centralità e alla fedeltà repubblicana il suo ruolo a scapito di quella di cordata e partito che ha caratterizzato la governance dell’intelligence negli ultimi anni, trovando il suo apice nel governo Conte II. Certamente molti lati della vicenda narrata da Report non convincono o non sono chiari: in primo luogo è lecito dubitare della natura “accidentale” della ripresa del colloquio tra Renzi e un uomo dal volto ben poco mediatico come Mancini in un autogrill, azione che ricorda molto una classica operazione coperta, e porta a interrogarsi, ad esempio, se effettivamente si possa supporre che un ex premier o un alto funzionario del Dis siano effettivamente pedinati e spiati e, se sì, da chi; in secondo luogo, la presenza di una lacuna legislativa sui rapporti tra politica e esponenti dei servizi pone una questione relativa alla riforma della Legge 124 del 2007 sull’intelligence che merita di essere approfondita. Ma d’altro canto è indubbio sostenere la tesi secondo cui l’intelligence italiana, dopo i casi degli ultimi anni (dalla controinchiesta sul Russiagate ai giochi di spie di Giuseppe Conte negli ultimi mesi di governo) necessiti di tornare a una fase di tranquilla operatività e rischia di ricevere un danno dall’eccessiva esposizione mediatica di suoi alti funzionari. L’intelligence, in questa nuova fase scandita dal lavoro certosino di Belloni e Gabrielli, dovrà essere come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni sospetto. Il coinvolgimento di Mancini in casi del passato, da quello Abu Omar alla liberazione di Giuliana Sgrena, in tal senso c’entra solo indirettamente e contribuisce esclusivamente a aumentare la visibilità della vicenda, ma nell’economia della decisione va pesata soprattutto la volontà di Belloni e Gabrielli, interpreti delle linee su cui punta a indirizzare l’intelligence il nuovo premier, di evitare nuove querelle scandalistiche e mediatiche. Rafforzando una discontinuità col passato che va di pari passo con quanto seguito in altri campi come quello delle partecipate: Draghi ha nel suo progetto l’obiettivo di rimettere lo Stato e le istituzioni, con le loro prassi, i loro equilibri, le loro strategie, al centro. Il messaggio dovrà giungere con chiarezza anche alle dirigenze dei servizi, l’Aisi e l’Aise: non ci sarà più spazio per conflitti di corrente o guerre di fazioni nel prossimo futuro. Mancini, in quest’ottica, è sia vittima delle circostanze sacrificabile con (relativa) comodità, dato che non essendo asceso a nessuna carica dirigenziale non impone andando in pensione una nuova corsa alle nomine, sia figura utilizzata come pretesto per accelerare sulla road map della normalizzazione. Non a caso in vista che il vuoto legislativo sia colmato Palazzo Chigi, per mezzo dell’ufficio di Gabrielli, ha emesso una precisa direttiva sugli incontri tra ufficiali dei servizi e esponenti politici: sarà prevista una specifica autorizzazione da parte dei vertici delle agenzie, che dovranno essere preventivamente informati di un eventuale incontro con un politico in attività. “In questi casi conta l’autodisciplina delle singole persone, sia dei politici che degli agenti in servizio. Una norma può comunque essere utile a stabilire criteri e procedure di fondo”, ha commentato il politico e magistrato Luciano Violante, ex presidente della Camera, parlando con Formiche. Il caso Mancini ha dunque avuto, per eterogenesi dei fini, l’effetto di aprire il dibattito sulle più corrette modalità di governance dell’intelligence. In primo luogo per evitare fughe di notizie sull’attività del comparto. “Parliamo nei briefing — va ripetendo Elisabetta Belloni nelle riunioni coi vertici delle agenzie — quando si è fuori meglio stare zitti”. “Non sarà un caso se i Servizi sono segreti”, chiosa spesso l’ambasciatrice con un’ironica tautologia. In secondo luogo, l’emersione di vuoti normativi nella Legge 124/2007 sul rapporto tra politica e servizi e la parallela apertura del caso Copasir stanno rafforzando il dibattito sulla riforma del quadro normativo in maniera tale da includere gli avanzamenti in termini di minacce e opportunità per i servizi nei riferimenti legislativi. Umberto Saccone, ex funzionario dei servizi ed ex direttore della security di Eni, conversando con Inside Over ha ad esempio proposto di aprire alla divisione del comparto non più per confine geografico ma per funzione, dividendo la human intelligence dalla signal intelligence. E da più campi si propone di aumentare l’attenzione alle nuove tecnologie, all’intelligence economica, alla collaborazione tra apparati pubblici e mondo privato per pensare in termini di sistema-Paese. Tutte questioni fondamentali e decisamente calde. Che hanno ricevuto un’accelerazione in termini dialettici anche per la svolta della governance dei servizi che il caso Mancini ha contribuito a consolidare.

Storia dell'agente segreto. Chi è Marco Mancini, il miglior 007 italiano fucilato da Report. David Prati su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Cosa cantava Enzo Jannacci? “La televisiun la g’ha na forsa de leun…la televisiun la t’endormenta cume un cuiun”. Report più che del leone ha mostrato i denti della iena. Di certo però ha espresso una forza bestiale nella sua capacità di processare e consegnare al plotone d’esecuzione governativo il reprobo, riuscendo ad addormentare, anzi ipnotizzare qualsiasi forma non diciamo di garantismo, non esageriamo con le pretese, ma persino di pallido habeas corpus, anche solo di impercettibile finzione di civiltà. Qui si parla del trattamento riservato in questa giungla che è l’Italia a Marco Mancini, consegnato alla morte civile, all’isolamento sociale, e forse anche a vendette jihadiste, perché? Perché una campagna insistita, ossessiva, del famoso programma di Rai3, accompagnato dal martellamento di Repubblica, La Verità e il Corriere, nonché la Stampa e infine dei tg Mediaset, ha spiegato che è un tipo “losco” anche se è incensurato, anche se è stato assolto e prosciolto, dopo essere stato arrestato due volte e consegnato per quasi un anno alla custodia cautelare in carcere e agli arresti domiciliari. Nessuna scusa per l’errore-orrore tant’è tipico. Tutto questo è stato capovolto di senso: l’hai fatta franca, ma ora ti incastriamo. Ed ecco il filmato stupendamente dilettantesco, sfuocato, spampanato, che fa tanto miracolo della casualità, dunque giustizia divina: lo hanno sorpreso mentre parlava con un senatore della Repubblica, anch’egli incensurato, ex presidente del Consiglio, l’antivigilia di Natale fuori da un autogrill vicino a Roma. Su questo tre puntate di Report. Fin qui niente di nuovo, ma per la prima volta tutto questo non ha suscitato il più piccolo cenno di dissenso, neppure un “però”. Forse perché chi ha comandato il trattamento alla Dreyfus per Mancini, con le mostrine strappate per il godimento della folla, senza però nessun J’accuse di un difensore alla Zola, è stato l’ “infallibile” Mario Draghi, avendo come certificatrice di giustizia Marta Cartabia. Non devono averci badato, Draghi e Cartabia, con tutto sto Recovery plan e Pnrr, rinascita e resilienza, eccetera, per cui un gattino può capitare finisca sotto le ruote. Con il loro senso del bene e del male, e la capacità di provvedere a dare empito morale alla voglia di rinascita morale prima che economica e sanitaria dell’Italia, una lieve imperfezione è consentita per placare un minimo di voglia di sangue. Noi qui però insistiamo. Ehi, fermati un attimo Draghi, come hai fatto quando la tua auto ha tamponato per la fretta la vettura di un cittadino. Scendi dalla macchina, guarda sotto le ruote chi hai tirato sotto. Siamo stati i soli sul Riformista a titolare “Macelleria Report” sin dai primi di maggio, ma qui non siamo più a un linciaggio televisivo reiterato e al suo perché, ma alla domanda che ci sgomenta un tantino di come si debba collocare nella vita di questo Paese, la fucilazione alla schiena decretata dal governo, praticata dinanzi alla folla plaudente, come in Iran, e senza possibilità per l’uomo reso pupazzo da Report, di dire una parola, non foss’altro di confessare il delitto, come si usa in Corea del Nord. A Pyongyang, ma prima in Unione Sovietica, si faceva firmare una dichiarazione con l’ammissione del tradimento. Da noi non c’è stato bisogno. Marco Mancini, 60 anni, è da 42 anni uno che lavora per la sicurezza dello Stato. Prima nella squadra di Carlo Alberto Dalla Chiesa. E’ stato lui ad arrestare in viale Monza a Milano, senza usare la minima violenza, Sergio Segio, capo di Prima linea. Nel 1988 si è dimesso da sottufficiale dei carabinieri ed è entrato nel servizio segreto militare (Sismi, ora Aise). Anche chi lo ha voluto fulminare riconosce la sua bravura in territori sensibili. Diventa capo del nostro controspionaggio. Viene arrestato nel luglio del 2006 per la “rendition” (sequestro e trasferimento in Egitto) di Abu Omar condotta dalla Cia nel febbraio del 2003, ma che sarebbe avvenuta, secondo la Procura di Milano, con la complicità del Sismi. Si dice che sia stato condannato ma salvato dal segreto di Stato. In realtà la Corte Costituzionale – fatto unico nella storia repubblicana – ha annullato anzitutto la sentenza con cui la Corte di Cassazione rinviava alla Corte di appello la prima sentenza di assoluzione. Per cui quella condanna non è stata annullata, semplicemente non sarebbe dovuta esistere. In questo modo l’assoluzione ha toccato tutti i dirigenti del Sismi, dal direttore Pollari ai capi reparto tra cui appunto Mancini. Un’inchiesta interna al Sismi negli anni scorsi, condotta dai successori di Pollari, ha documentato – come rivelato da varie fonti senza alcuna smentita – una verità diversa da quella sostenuta dall’accusa nei vari dibattimenti. Si dimentica tra l’altro che il segreto di stato non può coprire reati quale può essere il rapimento, ciò per cui ha invece patteggiato un maresciallo del Ros. Ma accusare suggestivamente di rapimento Mancini è diventato un topos narrativo dei giornalisti pistaroli, con la classica aggiunta dell’aggettivo “opaco”. Siccome non ci vedono loro, non danno la colpa al loro occhio ma alla pagina di storia che loro stessi oscurano. Pochi giorni dopo essere stato scarcerato Mancini è riarrestato. Stavolta non è più tradotto a San Vittore, dove ricevette la visita di Francesco Cossiga che lo trattò da eroe perseguitato, ma a Pavia. A valergli la cella preventiva, nel caso di indagini e dossieraggi illegali di Telekom, è per lui l’accusa di di associazione a delinquere. Per la quale com’è ovvio non vale alcuna scriminante da segreto di stato. La Gup Mariolina Passanisi lo proscioglie direttamente. La Procura di Milano si oppone. Ma è la Cassazione a bocciare l’istanza dei pm. Su Abu Omar il segreto di stato è stato fatto valere – viste le carte – in ordine di comparizione da Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte. Coprono un delinquente? Tutti e sette? Mancini è stato trasferito nel 2011 come capo Aise a Vienna, e nel 2014 richiamato a Roma in un ruolo non di azione, ma persino più delicato nel Dis (il dipartimento che coordina l’intelligence interna, Aisi, ed esterna, Aise): custodire la Cassa, controllare le spese, cosa che dà fastidio a molti. Che nasca da qui l’avvertenza del pericolo, la percezione di quella che Carlo Bonini, lo vedremo, chiamerà “bomba ad orologeria” umana da dissinnescare per il sollievo di una certa parte mano lesta e molesta dello Stato maggiore e minore di questo esercito segreto? Come sanno bene i giornalisti, solo uno che non viene dalla ragioneria, ma ha fatto il mestiere sul campo è in grado di capire furbizie e creste. Pare che la Corte dei Conti – fatto mai prima successo – abbia inoltrato addirittura un apprezzamento per l’attività svolta. Ma ecco che – basti leggere le biografie dedicate a Mancini in queste settimane – gli viene con la tecnica del dico-non-dico gettato addosso il sospetto sulla morte di Nicola Calipari, l’agente del Sismi ucciso a Baghdad dal marine Lozano mentre stava conducendo in aeroporto Giuliana Sgrena, appena liberata dopo un lungo rapimento. Risale a quel 2005 l’unica foto circolante di Marco Mancini finora, prima cioè di Report. Lo ritrae a Ciampino, mentre scende la scaletta dell’aereo sorreggendo la Sgrena ferita che lui era stato incaricato di riportare a casa insieme alla salma del collega-eroe. Ombre su ombre, il sospetto come anticamera della verità? Direi del rito vudù dello sfregio a distanza. Qui non c’è di mezzo alcun segreto di stato: Conte lo ha tolto dal caso Sgrena. E allora perché? David Prati

Storia di un agente segreto. Guerra dei servizi segreti, l’ordine di Report con cui è stato "eliminato" Mancini. David Prati su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Si comincia in aprile. Report, Rai tre. Marco Mancini viene introdotto nella torbida storia della “dama di Becciu”, Virginia Marogna, senza che risulti alcun contatto né conoscenza di qualsivoglia genere con la signora sarda con frequentazioni vastamente massoniche. La quale fu introdotta in Vaticano sostenuta dalle garanzie dell’allora direttore dell’Aise oggi a Leonardo, il sardo generale Luciano Carta, e confermata in questo ruolo dal successore Giovanni Caravelli (confermatissimo direttore). È l’inizio dell’ossessione. E siamo alla puntata di lunedì 3 maggio della trasmissione di Rai tre, Report. Molto è già stato scritto. Dell’insegnante di passaggio dall’Autogrill, incuriosita da un tipo “losco” che poi incontra Renzi. Lei filma. Renzi spiega che si tratta di auguri di Natale. Che aveva spostato l’appuntamento dal Senato alla piazzola di Fiano perché si era dimenticato, tanto la cosa era decisiva per il destino della Repubblica. Ma si sa, l’allusione di Report è persino ovvia, i complotti devono ambientarsi in luoghi “in mezzo al nulla” (nulla assai popolato però come gli autogrill, forse i posti meno anonimi che ci siano: chi di voi che leggete questo articolo non ha mai sostato lì?). Non è questo il punto. E nemmeno adesso è il caso di vivisezionare il susseguirsi di versioni contraddittorie sulla direzione delle auto dopo l’incontro. Il centro della questione è: è un reato incontrarsi in autogrill per un funzionario della presidenza del Consiglio (tale è Mancini) e un ex presidente del Consiglio? No. È contro regole sottoscritte? No. Tant’è che la necessità dell’autorizzazione previa a questo tipo di incontri è stata fissata a metà maggio. maggio viene parecchi mesi dopo Natale. E forse vale il principio – chiedere per sicurezza a Cartabia – “nulla poena sine praevia lege”, o no? Ma chi l’ha detto che Mancini non avesse dal superiore un permesso addirittura scritto per incontrare politici, e non lo avesse avvertito dell’incontro? E i convenevoli augurali necessitano di protocolli con il timbro? Chiunque abbia anche una marginale nozione di vita romana, sa che tutti parlano con tutti, e incontrano tutti, se non altro per ragioni di vicinato tra Palazzi, la separazione delle carriere non è un punto di forza della vita sociale dell’Urbe, e si sa che scambi di pensieri sono all’ordine del giorno. Mai nessuno ha però mai visto Mancini partecipare a ricorrenze, cene, terrazzi, salotti. Fa una vita ritirata, dicono. Nessuna fotografia in giro salvo quella di sedici anni prima. E a chi è toccato allora riconoscere Mancini in tutt’altro abbigliamento, faccia attempata, inquadrature sfocate? Report non è andato all’Ordine dei geometri o a quello degli Avvocati con la foto segnaletica fornita dall’insegnante. Con un colpo di genio l’ha indovinata subito. Ed ecco è stato interrogato un ex agente del Sismi, con il volto oscurato e la voce camuffata. Trascriviamo dal sito di Report la versione ufficiale. Sigfrido Ranucci, autore e conduttore: “Il misterioso uomo brizzolato che parla appartato con Renzi in realtà non si può certo definire losco: è uno 007 tra i protagonisti del servizio di Report del 12 aprile scorso. Si tratta infatti di Marco Mancini, ex agente del Sismi, come ci conferma un suo ex collega”.

Giorgio Mottola (autore del servizio): “Chi è quest’uomo che parla con Matteo Renzi?”

Ex agente del Sismi: “È Marco Mancini”.

Mottola: “Lei lo conosce bene?”

Ex agente: “Sì, anche se mascherato direi proprio che è lui”.

In realtà l’unico con la barba e la voce finta, è lui. L’ex agente del Sismi sa bene perché non circolano dal 2005 altre foto di Mancini. Nel 2014 è stato oggetto di minacce di morte giudicate serissime all’indirizzo privato e sul suo cellulare con il numero riservato. Non c’entra il caso Abu Omar, ma come sanno i presidenti del Copasir e i parlamentari che lo hanno composto e lo compongono, c’è documentazione della gravità di queste minacce .

Ed ecco che una trasmissione Rai espone in bacheca una sorta di Wanted: ringrazieranno i jihadisti e le varie formazioni di terrorismo rosso e nero contro cui da 42 anni “Doppio Mike” (lo ribattezzano così) è in battaglia, senza mai ricevere un appunto disciplinare, semmai encomi, e promozioni.

Non è finita qui. Report ha scatenato la macchina dei quotidiani. La televisione ha la forza delle iene, come detto.

Ed è da allora che si scatena una caccia al Mancini. C’è un lavoro di vero e proprio dossieraggio. Bonini su Repubblica scrive dei suoi spostamenti a piedi. «L’autogrill di Fiano, da questo punto di vista, è solo un inciampo del destino. Sarebbe potuto accadere molto prima. Armati di uno smartphone, sarebbe bastato, in questi anni, perdere una giornata feriale lungo il “golden mile” di “doppio Mike”. Quello che, a Roma, unisce Largo Santa Susanna (per anni sede degli uffici del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza) a piazza Barberini, alla galleria Sordi e a piazza Montecitorio. Lo avreste facilmente incrociato, in ogni stagione, in uno dei suoi eccentrici outfit, negli uffici a cielo aperto (bar, marciapiedi) dove nuotava e pasturava nella risacca del Palazzo. Incontrando e confabulando con onorevoli, spiccia faccende, manager, ministri, sottosegretari». Dal suo posto di lavoro in Santa Susanna si sposta – quatto quatto – in piazza Barberini che è contigua. Peccato non fotografarlo con lo smartphone, sai che roba, che scoop osservare che cammina per prendersi un caffè a un tavolino nei dintorni, o si siede nella Galleria più frequentata d’Italia, che è la Sordi. Che relazione di servizio ha letto Bonini, oppure era solito fare gli identici percorsi? Ma per forza che era necessario pedinarlo. Infatti, dice Bonini, “è una bomba a orologeria da disinnescare”. Ordine eseguito subito da Draghi. Da Draghi? Mah. Lo sa Draghi? O sono stati gli eterni gerarchi provenienti da carriere dove la politica (nel caso sinistra dc) si intreccia con gloriose carriere in polizia e nei servizi? L’attributo di gloriose è senza ironia, e si riferisce certo a Gabrielli, oggi autorità delegata per i servizi. Che ha deciso, senza bisogno di sentire il presunto reo, l’estromissione di Mancini, la sua consegna alla morte civile di fatto disonorandolo. Sulla Verità è Fabio Amendolara, quello stesso 15 maggio, a completare il rapportino di servizio per il lupo. Scrive che Mancini ha “un alloggio di servizio” e indica persino chi ci ha invitato a cena. Che carte ha consultato? Ha chiesto lumi pure lui all’ex agente del Sismi, il tipo pulitino di Report, così trasparente e così consapevole di commettere un reato da mascherarsi? Tranquilli, quest’ultimo lo lasceranno schizzare informazioni in serenità, essendosi schierato dalla parte giusta della storia, qualunque comportamento abbastanza vile pratichi. Che pena per le istituzioni repubblicane. Ormai intanto Report ha il sorcio in bocca, insiste con un nuovo servizio dopo 15 giorni. Scopre che magari Giuseppe Conte e Luigi Di Maio avevano convocato Mancini, ma si insiste sull’Autogrill, perché fa effetto. Cosa si sono detti? Che complotto avranno messo su Marco e Matteo? In quel momento Mancini, scrivono Il Fatto e la stessa Repubblica, è in corsa per la vice direzione di uno dei servizi, portato proprio da Conte. Che interesse può avere a tramare per buttarlo giù? Forse è scemo. Si badi alle date. Il 23 dicembre c’è l’incontro natalizio con Renzi. L’insegnante, chiamiamola così, assicura di aver inviato le immagini e il filmato con Renzi e il “brizzolato” al Fattoquotidiano.it. Non un testo noioso, che capita di buttar via. Ma fotografie che anche senza volere chiamano attenzione. E lì chi c’è? L’Innominabile con il Losco. E questa roba qui è credibile sfugga al rigore e alla precisione certificata e premiata della squadra di segugi di Marco Travaglio? Figuriamoci. Ed ecco che alla tornata di nomine, ma guarda un po’, l’unico escluso è quello che Conte – letto curriculum, attinto informazioni da colloqui – voleva più di tutti portare in alto. Vuoi vedere che quel filmato era giunto chissà come a Conte stesso inducendolo al sospetto di tradimento? Il 17 gennaio era uscita sulla Stampa la rivelazione di Massimo Giannini che raccontava come pezzi grossi dei servizi segreti si stessero dando da fare per reclutare senatori onde sostenere a qualunque costo il governo Conte. Che Mancini ambisse spingere Renzi nelle braccia responsabili e materne della senatrice Mastella? Ma no: ha tradito! Mi rendo conto. Qui siamo alle illazioni, che non combineranno il corso della piccola storia delle persone singole e sole. I giochi sono fatti oramai. E sono stati i ricami falsificanti di Report e della truppa al seguito ad aver deciso la partita. Il 13 maggio scrive il solito informatissimo Bonini: «Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Franco Gabrielli ha disposto l’interruzione del servizio di scorta di cui godeva (Mancini) e di cui nessuno è stato in grado di giustificare le ragioni». Ma guarda un po’. Quanta pigrizia. Magari aprire il fascicolo e leggere. Ma non doveva essere vietato riferire ai giornalisti decisioni che appartengono alla sfera di riservatezza dei servizi, appunto, segreti? Ci sono canali autorizzati dai vertici a comunicare le notizie comode alla stampa di riferimento? Un’inchiesta del Copasir sul punto, no? Finché arriva a giovedì scorso quando dev’esserci stata una conferenza stampa a cui noi del Riformista non siamo stati invitati. Deve esistere un catalogo di nomi fidati, e ci piacerebbe che quelli bravi pubblicassero l’elenco dei privilegiati di questa Loggia che si è esibita lo stesso giorno con la medesima notizia (Rep, Corriere, Stampa, Il Fatto, Domani), cioè sul cosiddetto congedo “con disonore” (Bonini) di Mancini. Nessuno scrive quale contestazione gli sia stata fatta, scrivono che se non avesse accettato il prepensionamento gli sarebbe stato fatto balenare il ritorno nell’arma dei carabinieri con il grado di maresciallo. Si tratta di colorare di minacce al limite del reato penale la ammirata liquidazione del brigante sbugiardato. Che goduria. La menzogna rivela malizia è ignoranza. Il diritto amministrativo prevede il mantenimento di una equipollenza di grado nei trasferimenti amministrativi, capo reparto del Ds equivale nella gerarchia militare a generale, ma non è questo. È il fiorire corale di queste rivelazioni a impressionare. A indurre una domanda semplice: chi ha elaborato il piano di tortura e liquidazione? Di che mafia stiamo parlando? Intanto Marco Mancini è solitario y final in ferie, quindi ancora in servizio fino a metà luglio. Come tale è convocabile come dipendente della presidenza del Consiglio dal Copasir, o da superiori che vogliano capire. Lo vogliono? Ma va’ là. Fiorenza Sarzanini riferisce, dopo un colloquio avuto nell’ambito del Dis, che M.M. è “probabilmente pronto a un incarico nel settore privato”. Dopo l’allontanamento “con disonore”? L’ha letto su Linkedin? E qui siamo pieni di domande a Draghi, Gabrielli, Belloni. Confermate “il disonore” per Mancini? Possibile vi siate fatti mangiare dalla iena televisiva? Davvero va bene distruggere l’identità personale, passare una mano di acido muriatico sulla reputazione di un “servitore dello Stato” senza che abbia diritto allo Stato di diritto? Qui nessuno di noi è Zola, ma come ci piacerebbe si alzasse in un cosiddetto grande giornale o in Parlamento uno che gli somigliasse. David Prati

Dal “Fatto Quotidiano” il 14 giugno 2021. Stasera su Rai3, nell'ultima puntata della stagione, Report torna sulle vicende di Marco Mancini, ex dirigente del Sismi (ora Aisi) convinto a lasciare il suo incarico al Dis dopo il discusso incontro con Matteo Renzi all'autogrill di Fiano Romano, rivelato dalla trasmissione di Sigfrido Ranucci. E ricostruisce, anche con la testimonianza di un ex agente Sisde, le attività di dossieraggio su politici e imprenditori condotte nei primi anni Duemila da alcuni responsabili della sicurezza della Telecom di Marco Tronchetti Provera, con il coinvolgimento di un ex responsabile della Cia. In quel caso Mancini fu prosciolto anche a seguito dell'opposizione del segreto di Stato. L'ex Sisde, fra le altre cose, dice che gli incontri in autogrill erano abituali. Report rimette in fila anche l'oscuro caso del tritolo apparentemente destinato all'ex sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti, che pure ha coinvolto Mancini e altri uomini del Sismi di Nicolò Pollari.

Babbi e spie: l'insegnante. Report Rai PUNTATA DEL 14/06/2021 di Sigfrido Ranucci. Dopo aver pubblicato le immagini che riprendono l’incontro in un autogrill tra il senatore Matteo Renzi e l’agente Marco Mancini, sono state sollevate alcune polemiche sull’autenticità del racconto. Per fugare ogni dubbio e dimostrare che Report non è strumento di nessuno nel fare informazione, abbiamo deciso di ospitare l’insegnante, autrice delle immagini, in studio. 

SIGFRIDO RANUCCI Era stato presentato come un semplice caffè, magari un po' lungo perché è durato circa 40 minuti ma ha provocato grandi fibrillazioni, anche nei palazzi, anche nelle istituzioni. È stato intanto sostituito il capo del Dis, Gennaro Vecchione poi è stata diramata una direttiva che impedisce agli agenti dei servizi di sicurezza di incontrare politici senza autorizzazione. Poi c’è stata anche un’accelerazione anche nella caduta della presidenza del Copasir nel presentare delle dimissioni. Insomma, ecco, la causa di tutto questo terremoto, questa sera, in via del tutto eccezionale, è qui con noi, è l’insegnante che ha filmato l’incontro tra Renzi e Mancini. Buonasera.

INSEGNANTE Buonasera.

SIGFRIDO RANUCCI Lei si aspettava di provocare questo terremoto?

INSEGNANTE Assolutamente no.

SIGFRIDO RANUCCI Che cos’è che l’ha appassionata così tanto da filmare e fotografare Renzi con Mancini?

INSEGNANTE La cosa è che mi ha incuriosito è vedere comunque sia il senatore, che era uno dei protagonisti della crisi di governo che si stava delineando, incontrarsi in un luogo un po' anomalo come quello che era appunto un autogrill e parlare in disparte con questa persona.

SIGFRIDO RANUCCI Lei ha letto sicuramente le cronache di questi giorni e avrà visto che dietro queste fotografie, questi filmati, si adombra una lotta tra i servizi di sicurezza e Report sarebbe stato lo strumento dei servizi. Ecco, e lei di conseguenza sarebbe stata l’autrice di questo complotto o comunque sarebbe stata complice di questo complotto. Chi c’è dietro di lei?

INSEGNANTE Assolutamente nessuno. Sono una semplice cittadina che incuriosita da quello che si stava svolgendo ho deciso di fare queste foto.

SIGFRIDO RANUCCI Ecco, il senatore Renzi ha presentato una denuncia perché teme di essere stato intercettato. Lei ha realizzato quanti filmati? L’abbiamo già detto, due filmati, questa stasera li vedremo per intero. Quanto durano questi filmati? Eccoli.

INSEGNANTE Sì, ho realizzato due filmati. Uno di 24 secondi e uno di 28. Dalle immagini si può vedere appunto che non sono filmati realizzati da un professionista.

SIGFRIDO RANUCCI C’è un audio. Ha registrato anche le loro voci?

INSEGNANTE Assolutamente no.

SIGFRIDO RANUCCI Perché c’è stato a un certo punto che Renzi si è allarmato nel momento in cui ha sentito che lei ha riportato esattamente la frase che ha proferito Mancini al momento dei saluti.

INSEGNANTE Sì. Quando si sono appunto congedati con un saluto: Qualsiasi cosa sono a sua disposizione.

SIGFRIDO RANUCCI Ecco, perché lei è riuscita a sentire questa frase?

INSEGNANTE Ho potuto sentire loro che si sono salutati, anche perché eravamo molto vicini.

SIGFRIDO RANUCCI Noi abbiamo ricostruito in base alle sue indicazioni quelle che erano le posizioni delle macchine. INSEGNANTE Esatto. La mia è quella rossa, davanti quella blu è di Mancini e quella rosa è l’auto di Renzi.

SIGFRIDO RANUCCI Quindi quando loro si sono allontanati sono passati vicino alla sua macchina?

INSEGNANTE Assolutamente sì.

SIGFRIDO RANUCCI Lei ha potuto sentire appunto Mancini che…

INSEGNANTE Quando loro si sono salutati, quando loro stavano rientrando nelle auto. La macchina di Renzi ha fatto una leggera manovra all’indietro affiancandosi a quella di Mancini, io sono passata a fianco a entrambe e loro congedandosi a distanza, si sono detti… si sono salutati in quella maniera e io ho potuto sentire.

SIGFRIDO RANUCCI Lei si è detta disponibile più volte a incontrare personalmente Renzi.

INSEGNANTE Da subito. Da quando ho visto che veniva messa in dubbio il mio essere cittadino qualunque e la vostra professionalità.

SIGFRIDO RANUCCI Lei aveva anche manifestato a un certo punto l’intenzione di realizzare un’intervista mostrando il suo volto, no? Poi… dopo il primo clamore di questa vicenda si è spaventata?

INSEGNANTE Sì, perché purtroppo ho visto come tutte le cose, viene molto strumentalizzato un atto come quello che ho fatto io, ho pensato di agire da semplice cittadino interessato agli accadimenti che ci riguardano o che ci dovrebbero riguardare, quindi ho temuto soprattutto per la mia famiglia.

SIGFRIDO RANUCCI lei ci ha mandato il materiale dopo la puntata del 12 aprile, dopo aver visto quello che avevamo raccontato e c’era appunto una dichiarazione di Ferramonti, un faccendiere, che aveva ammesso di aver inviato gli sms all’onorevole Boschi chiedendole a metà dicembre di far cadere il governo Conte.

INSEGNANTE Io infatti è questa l’associazione che ho fatto: ho fatto Boschi-Renzi. Io non sapendo l’identità della persona con la quale stava interloquendo Renzi all’autogrill, l’unica associazione che ho fatto è Boschi-Renzi e da lì ho deciso di inviarvi il materiale. Era sicuramente un periodo particolare, Renzi era uno dei protagonisti della crisi di governo, eravamo nelle giornate proprio in piena crisi di governo che stava appunto iniziando in quei giorni.

SIGFRIDO RANUCCI La magistratura adesso sta indagando, probabilmente le chiederà il materiale che ci ha inviato. Lei ovviamente è disponibile a fornire tutto alla magistratura? INSEGNANTE Assolutamente sì, sono tranquillamente disponibile a offrire tutto il materiale che ho realizzato e a dire la verità, quella che ho detto finora.

SIGFRIDO RANUCCI Va bene, grazie per essere stata con noi. Abbiamo stravolto una volta tanto il format proprio per sgombrare il campo da ogni equivoco. Report non sarà mai strumento di altri nel fare informazione, ha come unico editore di riferimento il pubblico, voi che pagate il canone.

Un agente è per sempre. Report Rai PUNTATA DEL 14/06/2021 di Giorgio Mottola. Se la scelta di un autogrill come luogo dell’incontro tra Renzi e lo 007 Mancini ha creato scompiglio nel mondo della politica e tra i vertici dei servizi, non è rimasto per niente sorpreso chi invece conosce da anni l’agente segreto.

“UN AGENTE È PER SEMPRE” di Giorgio Mottola immagini di Alfredo Farina

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Comunque grazie alla documentazione filmata dell’insegnante, noi abbiamo potuto riscoprire Mancini. L’ultima volta che era emerso alle cronache era il 2003 in seguito al controverso rapimento di Abu Omar, poi nella vicenda del 2006 quella del dossieraggio illecito del gruppo della security Telecom – Pirelli, al vertice del quale c’era il collega nell’Arma dei carabinieri di Mancini, Giuliano Tavaroli. Loro e altri agenti dei servizi di sicurezza avevano confezionato, realizzato, dei dossier su 5mila persone fra dipendenti del Gruppo, azionisti del gruppo Telecom-Pirelli e poi su giornalisti, politici, imprenditori, uomini della finanza e anche uomini dello sport. A contribuire al loro dossieraggio illecito c’era anche un’agenzia privata che faceva riferimento a John Spinelli, ex agente della Cia a Roma aveva una società la Global Security Services e suo socio era l’ex agente del Sisde Marco Bernardini. Parla per la prima volta dopo 15 anni, ci dice qualcosa intorno a quei dossier. E ha anche detto di non essersi poi stupito così tanto nel vedere il filmato con Mancini in un autogrill. Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se la scelta di un autogrill come luogo dell’incontro tra Renzi e lo 007 Mancini ha creato scompiglio nel mondo della politica e tra i vertici dei servizi, non è rimasto per niente sorpreso chi invece conosce da anni l’agente segreto.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Mi è venuto da sorridere.

GIORGIO MOTTOLA Quindi, l’autogrill è un luogo abituale di incontri?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Un luogo abituale, sì. Quando venivo giù da Milano a Roma e facevo i viaggi con Giuliano Tavaroli ogni tanto ci si fermava in qualche autogrill fra Bologna e Firenze e lui parlava con Marco Mancini.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marco Bernardini è un ex agente del Sisde, vecchia sigla del servizio segreto civile. È stato tra i protagonisti dello scandalo Telecom-Pirelli. Condannato in via definitiva a 5 anni e 8 mesi per aver fatto dossieraggi illegali per conto della security di TelecomPirelli, che all’epoca aveva sede in questo palazzo di Milano, accanto alla Borsa. Ed era guidata da Giuliano Tavaroli.

GIORGIO MOTTOLA Su chi ha svolto dossieraggio in quegli anni?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Uh, tantissimi.

GIORGIO MOTTOLA Le vengono commissionati dossieraggi anche su politici?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Il dossieraggio viene commissionato sul garante della privacy e il presidente della commissione contro l’antitrust. Poi mi viene chiesto di rintracciare il contratto che aveva firmato Bossi – Berlusconi quando andarono al governo insieme.

GIORGIO MOTTOLA Le viene chiesto di ritrovare il contratto.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Di trovare il contratto, materialmente di portare il contratto.

GIORGIO MOTTOLA E questo cosa gliene fregava a Pirelli-Telecom?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Ah non lo so. Io, cioè, mi pongo delle domande però voglio dire pecunia non olet quindi me pagavano e lo faccio. Punto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel patto stipulato davanti al notaio, in cambio di 70 miliardi di lire Bossi si sarebbe impegnato a non rompere la coalizione con Silvio Berlusconi che era rimasto scottato dal ribaltone del 1994. Rimane il mistero su chi avesse commissionato quel dossier alla security di Telecom-Pirelli che a Marco Bernardini chiede di indagare anche su giornalisti e imprenditori.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Sì, tanti imprenditori.

GIORGIO MOTTOLA Un nome su tutti?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Della Valle.

GIORGIO MOTTOLA E che tipo di dossieraggio ha fatto su Della Valle?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Classico. Trovai… adesso non me li ricordo bene però ne trovai degli elementi di criticità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le informazioni raccolte dall’ex agente segreto e poi consegnate alla security di Telecom Pirelli guidata da Tavaroli avrebbero riguardato collegamenti fra l’imprenditore Della Valle e la Svizzera.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Dopo una decina di giorni che avevo consegnato questo dossier vedo Berlusconi che gli dice a Della Valle: stai zitto che anche te c’hai degli scheletri nell’armadio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’episodio che stupisce Bernardini per la strana tempistica riguarda un’assemblea nazionale di Confindustria che si svolge pochi giorni dopo la consegna del dossier. L’allora premier Silvio Berlusconi si lancia in una invettiva estremamente allusiva proprio nei confronti del patron di Tod’s.

SILVIO BERLUSCONI – 19/03/2006 ASSEMBLEA DI CONFINDUSTRIA VICENZA Signor Della Valle che scuote la testa. Allora io vi dico quando penso perché un imprenditore se non è andato fuori di testa può sostenere la sinistra, io penso che ha molti scheletri nell’armadio, che ha tante cose da farsi perdonare, e che si mette sotto il manto protettivo della sinistra e di magistratura democratica.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE E la cosa mi ha colpito… perché …

GIORGIO MOTTOLA Perché solo dieci giorni prima lei aveva consegnato…

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Avevo consegnato, dico… c… c’ha ragione..

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal processo Telecom-Pirelli è emerso il rapporto particolarmente stretto tra Giuliano Tavaroli e Marco Mancini, che per la vicenda dei dossier illegali fu arrestato e rinviato a giudizio. Secondo le accuse dei magistrati infatti l’agente del Sismi avrebbe avuto un ruolo molto importante in tutta la storia.

GIORGIO MOTTOLA Uno dei soggetti esterni che in quel periodo ha commissionato delle attività di dossieraggio a Telecom-Pirelli era il Sismi?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Che a volte per evitare di apparire vengano usate società esterne ai servizi, questa è una cosa che viene fatta da tutti i servizi.

GIORGIO MOTTOLA Qual è stato il ruolo di Marco Mancini?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Lui è stato accusato di dossieraggio illecito, di… Però io non lo so. So che comunque la sua posizione è stata stralciata perché è stato opposto il segreto di Stato.

GIORGIO MOTTOLA Perché è stato opposto il segreto di Stato?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Chiediamolo ai presidenti del consiglio che l’hanno fatto. Non capisco poi perché solo per lui, potevano metterlo per tutti. Me risparmiavo tante rogne.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante il processo Marco Mancini invoca il segreto di Stato e il governo Berlusconi glielo concede. La sua posizione verrà quindi prosciolta. Ma sullo sfondo rimane un anomalo coinvolgimento del Sismi nelle attività della security di Telecom Pirelli. Attività a cui era molto interessato anche qualcuno proveniente dalla Cia. Come John Spinelli, ex numero due dell’agenzia spionistica americana a Roma. Diventato investigatore privato dopo la pensione, è alla sua agenzia che la security di Telecom-Pirelli commissionava buona parte dell’attività di dossieraggio.

GIORGIO MOTTOLA Questi dossier che voi preparavate ma chi le leggeva?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Facevo il report, preparavo il rapporto e tutto quanto. La mandavo con FedEx a Spinelli negli Stati Uniti.

GIORGIO MOTTOLA Il dossier?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Il dossier con la fattura.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei sta dicendo che tutti i dossier che ha prodotto sono stati letti prima da Spinelli… negli Stati Uniti.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE A volte in contemporanea. Anzi molto spesso era lui che mi telefonava e mi commissionava dei lavori.

GIORGIO MOTTOLA Il fatto che Spinelli fosse informato di tutto vuol dire che anche la Cia sapeva tutto di questi dossieraggi?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Potrebbe, come dice Putin: agente una volta, agente sempre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E durante i suoi incarichi a Roma per la Cia, John Spinelli aveva avuto modo di conoscere bene Marco Mancini.

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Mancini ha un rapporto molto stretto con Spinelli. A detta di John Spinelli, aveva in qualche modo ricevuto dei benefit, chiamiamo così, da lui. Ma questo è quello che mi ha detto Spinelli.

GIORGIO MOTTOLA Da lui, quando era alla Cia?

MARCO BERNARDINI – EX AGENTE SISDE Sì. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quali benefit non lo sappiamo perché manca la voce, più volte, inutilmente sollecitata di Marco Mancini. Allora, a che cosa servivano questi dossier? Sappiamo che una parte servivano per tutelare il gruppo Telecom-Pirelli, alcuni per sviluppare le strategie di mercato, un po’ per far arrotondare lo stipendio agli investigatori privati. Ma non sappiamo quali mani passassero invece quei dossier che avevano come oggetto politici e imprenditori. Una gran parte - abbiamo sentito dalle parole di Marco Bernardini, l’ex agente segreto del servizio civile – finivano nelle mani dell’ex agente Cia John Spinelli per fare cosa però non lo sappiamo. Quello che è certo è che emerge un ruolo anomalo del Sismi e della figura di Marco Mancini che però va esteso ad un periodo, cioè proprio alla gestione di Nicolò Pollari, capo del servizio segreto militare dal 2001 al 2006 di cui Mancini era il vice. Non dobbiamo scordarci, l’abbiamo più volte ricordato, che in quel periodo era stata scoperta quella piccola centrale di spionaggio in via Nazionale, al centro c’era Pio Pompa, un impiegato che rispondeva direttamente a Pollari e a chi aveva il compito di realizzare dei dossier su magistrati, sindacalisti, giornalisti anche a tutela del governo Berlusconi.

Laura C: bombe e spie. Report Rai PUNTATA DEL 14/06/2021 di Giorgio Mottola. Sui fondali dello Jonio calabrese da ottanta anni giace il relitto di un piroscafo militare affondato da un sottomarino inglese durante la seconda guerra mondiale. Nella stiva sono ancora conservate decine di tonnellate di tritolo, che stando ad alcune informative redatte negli anni 2000 dal Sismi, il servizio segreto militare, sarebbe stato usato dalla 'ndrangheta per i suoi attentati in Calabria e, in base ad alcune ipotesi investigative, addirittura per la strage di Capaci. L'esplosivo del relitto, secondo il Sismi, sarebbe stato adoperato anche per l'attentato del 2004 all'allora sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti. Un episodio che ha cambiato il corso della recente storia politica calabrese. L'ordigno venne scoperto grazie a tre informative firmate da Marco Mancini, l'agente segreto protagonista dell'incontro in autogrill con Matteo Renzi. Vent'anni dopo, alcuni pentiti stanno raccontando un'inquietante verità: l'attentato a Scopelliti sarebbe una bufala, orchestrato dai servizi segreti in collaborazione con la 'ndrangheta per accelerare la carriera del politico calabrese.

LAURA C: BOMBE E SPIE di Giorgio Mottola collaborazione Norma Ferrara Immagini di Cristiano Forti e Andrea Lilli. IGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma c’è anche un altro episodio che risale alla notte del sei ottobre del 2004 e che vede sempre come protagonista Marco Mancini. In quella notte dei sei ottobre del 2004 viene trovata nel bagno del comune di Reggio Calabria, un ordigno. Le prime informative parlano, ipotizzano, un attentato nei confronti di un sindaco, allora era Scopelliti, un sindaco in crisi ma quello che è certo è che quella bomba cambierà il suo destino, la sua carriera politica e anche quella della politica della Calabria. Oggi a distanza di 20 anni è emersa in un processo la versione di un ex assessore di Scopelliti, un massone e ex ‘ndranghetista – ‘ndranghetista pentito – è una versione che rischia di sparigliare le carte. E cambia le finalità di quell’attentato e anche i cosiddetti mandanti. Però per trovare la verità bisogna scendere a 50 metri di profondità nelle stive di un relitto, di una nave che porta il nome di donna, ma trasportava un carico di morte.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A poche miglia dai gorghi di Scilla e Cariddi, sui fondali dello Jonio calabrese, giace da ottant’anni esatti il relitto di un piroscafo militare, affondato da due siluri inglesi durante la seconda guerra mondiale: la Laura Cosulich, meglio nota come Laura C. Sebbene ormai da tempo sia diventata rifugio per pesci, polpi e stelle marine, negli anni Duemila la Laura C si è trasformata in una nave dei misteri, al centro di storie di servizi segreti, terroristi e ‘ndrangheta.

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Questa è la prima parte visibile della nave che corrisponde più o meno da un lato alla sala macchine, intorno ci sono le cabine degli ufficiali e poi c’è immediatamente dopo la cucina, all’interno della quale si vedono ancora gli utensili utilizzati dai cuochi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nell’estate del 1941 la Laura C. era partita da Venezia, diretta a Tripoli, carica di 1200 tonnellate di esplosivi e munizioni.

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Ecco, vedi? Qua si intravede il tritolo.

GIORGIO MOTTOLA Ah, quelli sono panetti di tritolo.

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Esatto, esatto. Ora non so dirti delle 1200 tonnellate quante fossero di tritolo perché poi c’erano anche proiettili di obice e di antiaerea.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il relitto della Laura C. si trova a meno di 150 metri dalla spiaggia di Saline Ioniche, e secondo alcune informative redatte negli anni Duemila dall’allora Sismi, il servizio segreto militare guidato da Nicolò Pollari, la ‘ndrangheta avrebbe usato per i suoi attentati il tritolo nascosto nelle stive della Laura C. Secondo alcune ipotesi investigative, l’esplosivo della nave sarebbe stato adoperato anche per la strage di Capaci del 1992 e addirittura venduto ai terroristi di Al Qaeda negli anni Duemila per le bombe in Europa. Grazie alle informative dei servizi, la Laura C dai fondali dello Jonio torna a galla con una misteriosa seconda vita di nave della ‘ndrangheta.

FEDERICO CAFIERO DE RAHO - PROCURATORE REGGIO CALABRIA 2013 - 2017 In tante altre occasioni il tritolo di quella nave è stato utilizzato negli anni passati. Quindi ancora una volta, come lei dice, quella nave si conferma il supermarket della ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma questa ricostruzione al centro di molte inchieste della magistratura calabrese non trova d’accordo chi negli anni ha visitato quasi ogni settimana il relitto.

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Io non ho mai notato cose del genere, mai.

GIORGIO MOTTOLA Ma visto che faceva visita quasi quotidianamente a questo relitto. Vedeva giorno per giorno scomparire il tritolo?

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Assolutamente no. Oltre tutto la profondità era superiore ai 48 metri, il tempo di permanenza sul fondo è proprio poco, poco, poco. Mettersi là a prendere la roba, staccarla, caricare delle ceste, insomma...ma da qui si evince. Qui… Tantissime volte abbiamo provato a entrare ma è bastata sfiorare il fondo che abbiamo dovuto andare via perché non si riusciva più a vedere nulla.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Eppure secondo un’informativa dei servizi segreti militari, l’esplosivo della Laura C avrebbe cambiato il corso della recente storia politica calabrese. Stando al Sismi, infatti, con il tritolo della nave sommersa sarebbe stata confezionata la bomba ritrovata nella notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2004 in un bagno del comune di Reggio Calabria.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Nel bagno adiacente al cortile da dove passava il sindaco di Reggio Calabria, all’epoca Scopelliti, fu messo un ordigno che poi si scoprì un ordigno rudimentale, senza innesco.

GIORGIO MOTTOLA Quindi non poteva scoppiare?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Non poteva scoppiare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo le prime notizie che filtrano la notte stessa a mettere la bomba sarebbe stata la ’ndrangheta con l’obiettivo di attentare alla vita del sindaco di allora Giuseppe Scopelliti.

MASSIMO CANALE - CONSIGLIERE COMUNALE REGGIO CALABRIA 2002-2007 Questo fu un fatto che qualche dubbio me lo ha sempre lasciato.

GIORGIO MOTTOLA Aveva qualche sospetto?

MASSIMO CANALE - CONSIGLIERE COMUNALE REGGIO CALABRIA 2002-2007 Non posso dire di avere avuto dei sospetti. Sapevo però che quello sarebbe stato uno spartiacque. Avevo percepito che diventare un paladino della lotta alla ‘ndrangheta avrebbe costituito una chiave di volta nella storia personale e politica di Giuseppe Scopelliti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gli stessi dubbi colgono anche molti dei giornalisti accorsi davanti al comune di Reggio Calabria la notte del ritrovamento della bomba.

LUCIO MUSOLINO - GIORNALISTA Sicuramente c’erano molte domande che sin da subito ci siamo posti, una su tutte: perché una minaccia all’allora sindaco Giuseppe Scopelliti? Qual era il motivo? Nessuno lo ha mai capito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Poche ore prima che venisse scoperto l’ordigno, il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza aveva assegnato la scorta all’allora sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Scopelliti. A segnalare che c’è un pericolo per la sua vita è l’agente segreto ripreso in autogrill mentre parlava con Renzi durante la crisi del governo Conte.

GIORGIO MOTTOLA Come mai venne data la scorta a Scopelliti il giorno prima?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Su segnalazione di Marco Mancini, che raccontò che c’era un pericolo di attentati nei confronti del sindaco di Reggio Calabria.

GIORGIO MOTTOLA E il giorno dopo… questo pericolo diventa concreto.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 E il giorno dopo, guarda caso, si trovò questo ordigno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marco Mancini, l’agente segreto, allora dirigente del Sismi agli ordini di Nicolò Pollari, firma la prima informativa che segnala pericoli per l’incolumità di Scopelliti. È ancora lui l’autore della seconda informativa che rivela la bomba in comune, indicando la posizione esatta dove verrà trovata. Ed è sempre Mancini a firmare anche la terza informativa che tira in ballo la Laura C e la ‘ndrangheta, parlando esplicitamente di attentato mafioso contro Giuseppe Scopelliti.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Anche un’altra cosa di carattere politico ci sembrava strana. Noi eravamo nella fase del decreto Reggio, un fiume di soldi che sarebbe arrivato per opere pubbliche nella città metropolitana. Questo fatto della ‘ndrangheta che faceva un attentato a Scopelliti, quindi che metteva in difficoltà il sindaco, non ci ha mai convinto. La ‘ndrangheta aveva al contrario tutto l’interesse perché l’amministrazione si consolidasse proprio per la spesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’epoca il governo Berlusconi aveva appena stanziato quasi 100 milioni di euro per il Comune di Reggio Calabria da spendere in opere pubbliche, ma la giunta rischiava di cadere a causa delle tensioni interne alla maggioranza. La bomba trovata in Municipio si rivela quindi provvidenziale per placare polemiche e litigi.

MASSIMO CANALE - CONSIGLIERE COMUNALE REGGIO CALABRIA 2002-2007 Noi venivamo da una stagione di grande tensione all’interno del centrodestra. Il sindaco faceva difficoltà a sfondare nell’immaginario collettivo, nell’affetto della gente.

GIORGIO MOTTOLA Quindi c’era una grande frattura dentro Alleanza Nazionale e la giunta Scopelliti traballava.

MASSIMO CANALE - CONSIGLIERE COMUNALE REGGIO CALABRIA 2002-2007 C’erano delle fibrillazioni molto forti all’interno del partito di Alleanza Nazionale per una contrapposizione storica tra due componenti che qui a Reggio Calabria erano ben rappresentate. Dopo questo evento, invece, le cose cambieranno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima dell’attentato a Reggio Calabria, Alleanza Nazionale era spaccata tra la corrente di Gianni Alemanno e quella di Maurizio Gasparri a cui apparteneva Scopelliti. Proprio in quei giorni, l’allora commissario provinciale del partito, Wanda Ferro, minaccia le dimissioni, rischiando di mettere definitivamente in crisi la giunta comunale. Ma come documenta questa telefonata inedita, due giorni dopo la bomba l’allora ministro Maurizio Gasparri chiama un assessore regionale di Alleanza Nazionale e usa l’attentato per ricompattare il partito.

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Quindi oggi l’ho detto anche a Wanda. Mentre succede questo tu ti vai a dimettere per Chiarella. Ma dico, c’è anche un momento

DOMENICO ANTONIO BASILE - ASSESSORE REGIONALE CALABRIA 2002-2005 E lo so…. ma guarda io… e lo so.

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Queste cose vanno valutate. Cioè sta uno in guerra, quello sta in guerra quel disgraziato. E uno si mette a dimette. Perché questo tritolo viene da una partita sequestrata dal Sismi qualche settimana fa in Calabria, ci fu il sequestro di una quantità ingente di esplosivi, per cui quindi…

DOMENICO ANTONIO BASILE - ASSESSORE REGIONALE CALABRIA 2002-2005 Io pensavo che fosse una cosa così, ma…

GIORGIO MOTTOLA Al telefono Basile non sembrava così convinto rispetto a questo attentato, sembrava avere qualche perplessità.

 MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Guardi, non ricordo adesso a memoria. Sicuramente io volevo capire come stavano le cose ma dicevo anche che mi ero appunto informato e che c’era la conferma della pericolosità dell’attentato.

GIORGIO MOTTOLA Perché sin dall’inizio molti nutrono molti dubbi rispetto a quell’attentato.

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Chi sostiene una tesi diversa la sostiene ma non è che l’abbia dimostrata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella telefonata del 2004 al perplesso collega di partito, Gasparri spiega di aver avuto informazioni sulla matrice criminale dell’attentato addirittura dal capo del Sismi Nicolò Pollari.

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Lì è una cosa molto seria quindi non va sottovalutata …il Sismi ha avuto una dritta. Perché io poi ho parlato con il direttore del Sismi, con Pollari, che mi ha dato un po’ di notizie e… mi tiene informato.

GIORGIO MOTTOLA Queste informazioni gliele dà Pollari in persona, non un suo vice o un suo sottoposto.

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 No, Pollari.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nella risposta che ci ha inviato il generale Pollari si nega categoricamente di aver mai parlato con l’allora ministro Maurizio Gasparri e anzi, l’ex capo del Sismi minaccia di querelare chiunque dica il contrario.

GIORGIO MOTTOLA Però Pollari nega di aver parlato con lei. E dice che ci querela se diciamo che ha parlato con lei. E dice che ci querela se diciamo che ha parlato con lei. Per il principio di non contraddizione uno dei due mente. Mente lei o mente Pollari?

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Pollari ha delle regole di riservatezza che riguardano il suo incarico pregresso anche credo in fasi successive e quindi rispetto le sue affermazioni.

GIORGIO MOTTOLA Però noi rischiamo una querela in base ai suoi… vincoli di riservatezza.

MAURIZIO GASPARRI - MINISTRO DELLE TELECOMUNICAZIONI 2001-2005 Voi siete dei giornalisti, fate quello che volete.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E proprio sul ruolo anomalo del Sismi nella vicenda nel 2006 scrive una lettera al Prefetto l’allora consigliere comunale d’opposizione Massimo Canale. La bomba trovata in comune dà una svolta alla carriera politica di Scopelliti e cambia la storia della politica calabrese.

MASSIMO CANALE - CONSIGLIERE COMUNALE REGGIO CALABRIA 2002-2007 Percepii che nulla sarebbe mai stato come prima.

GIORGIO MOTTOLA Perché, che cosa succede alla vita politica di Scopelliti dopo?

MASSIMO CANALE - CONSIGLIERE COMUNALE REGGIO CALABRIA 2002-2007 È evidente che a quel punto sapientemente viene fatta passare all’esterno l’immagine di un sindaco che lotta contro il malaffare e la ‘ndrangheta, tanto è vero che la ‘ndrangheta gli fa gli attentati. E questo cambierà per sempre le sorti della nostra città e della nostra regione, credo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle elezioni successive Scopelliti viene confermato sindaco con oltre il 70 percento dei voti. A metà del secondo mandato si dimette per fare il grande salto e farsi eleggere presidente della giunta regionale calabrese. È un trionfo: il modello Reggio diventa il modello Calabria. Dell’attentato nessuno parla più.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Sicuramente il Sismi e Marco Mancini in un certo periodo avevano un ruolo in Calabria preponderante. Si è aspettato nel 2010 che alcuni collaboratori di giustizia cominciarono a dire che probabilmente si trattava di un attentato fatto ad hoc per favorire l’ascesa politica del sindaco che si trovava in difficoltà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso marzo, infatti, durante il processo Gotha, per la prima volta un pentito ha ricostruito il retroscena del presunto attentato. Si tratta di un testimone d’eccezione: Sebastiano Vecchio, ex poliziotto, ex consigliere comunale di Alleanza Nazionale e soprattutto ex ‘ndranghetista.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Ho fatto parte anche della massoneria e nonché della consorteria della famiglia Serraino negli ultimi tempi in maniera proprio attivo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Giuseppe Scopelliti è stato il testimone di nozze di Sebastiano Vecchio, che è stato poi nominato assessore comunale a Reggio durante la sua seconda giunta. Con la sua testimonianza Vecchio ha incrinato l’immagine di Scopelliti di “sindaco antimafia”.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Peppe Scopelliti rappresentava la famiglia De Stefano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stando alla testimonianza di Vecchio, sono proprio i rapporti di Scopelliti con le cosche che rappresenterebbero la chiave di volta per comprendere le ragioni di quell’attentato.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Per quanto riguarda l’esplosivo nel bagno ritrovato a palazzo san Giorgio è stata una bufala, cioè nel senso è stato un qualcosa preparato. Con l’aiuto dei servizi segreti. C’era stato l’interesse di Nicola Pollari in questa situazione coinvolgendo anche altre persone esterne ai servizi segreti affinché questo potesse andare in atto e portarlo comunque avanti.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Questo è Scopelliti?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicolò Pollari era allora il capo del Sismi alle cui dipendenze lavorava Marco Mancini che sull’ordigno al Comune preparò le tre informative che parlavano di attentato della ‘ndrangheta.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Perché i servizi si interessavano a Scopelliti?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Erano interessati a blindare la persona di Peppe Scopelliti affinché prendesse tutto e per tutto, sia nel lato politico, sia nel lato personale, di immagine e di successo perché comunque, alla fine, c’era sempre il lato economico.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Perché c’era bisogno di fortificarlo da un punto di vista dell’immagine?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Più che fortificarlo, formarlo, uso un termine inventarlo, strutturarlo e portarlo avanti.

GIUDICE SILVIA CAPONE -TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Nell’interesse di chi?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Delle consorterie ‘ndranghetistiche.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante la requisitoria al processo Gotha il magistrato Giuseppe Lombardo ha bollato la storia dell’attentato mafioso a Scopelliti come una pagliacciata. Ci sarebbe stata infatti, secondo la ricostruzione dei pentiti, una piena convergenza di interessi tra ‘ndrangheta e servizi. Un disegno criminale inquietante che ha anche un lato grottesco: l’intera operazione infatti è stata finanziata direttamente con i soldi dello Stato.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Questa notizia sull’attentato che poi risulta un attentato su cui non si è andato fino in fondo, non si è tentato di arrestare gli attentatori, eccetera eccetera, è costato 300 mila euro ma non si sa chi è che ha dato la soffiata rispetto alla vicenda.

GIORGIO MOTTOLA Questa soffiata era arrivata a Marco Mancini?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Marco Macini. È sempre lui che detiene le fila di tutta quanta la vicenda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Trecentomila euro. Ora il riserbo sulla fonte è nelle cose, però alla luce delle dichiarazioni dell’ex assessore, massone, ‘ndranghetista Sebastiano Vecchio che è anche amico di Scopelliti, in base al quale quell’attentato era una bufala, era finalizzata per blindare politicamente Scopelliti perché serviva… era il garante di una consorteria mafiosa della ‘ndrangheta e in particolare doveva essere il referente e curare gli interessi della famiglia De Stefano. Ora Scopelliti ci scrive e dice che lui non ha mai avuto rapporti con la ‘ndrangheta e in particolare con i De Stefano. Ci dice anche che secondo lui, l’attentato era finalizzato a interferire sulla gara pubblica che riguardava la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia, una gara del valore di 81 milioni di euro. Scopelliti ci dice anche di aver svolto nel corso della sua carriera un’incisiva lotta alla criminalità organizzata e di aver anche ricevuto negli anni varie intimidazioni, alcune hanno coinvolto anche la sua famiglia. Però sempre l’ex assessore massone e ‘ndraghetista, Sebastiano Vecchio, in merito all’attentato che definisce “bufala” tira in ballo ad un certo punto il ruolo anche del Sismi, della figura di Nicolò Pollari. Pollari ovviamente nega, minaccia querela, chiunque dice falsità verrà perseguito penalmente, ha detto. Nega anche Pollari di aver informato Gasparri. Però noi qui ci arrendiamo, perché c’è un giallo: l’ex ministro all’epoca delle telecomunicazioni Gasparri dice invece di aver ricevuto informazioni da Pollari. Ecco, fatto sta…. noi non abbiamo gli strumenti per scoprire la verità e stabilire la realtà delle cose… fatto sta che quella telefonata che ha realizzato Gasparri all’assessore Antonio Basile, regionale della sua stessa corrente politica, nella quale Gasparri spendeva il nome di Pollari per confermare l’autenticità, la pericolosità, dell’attentato ha avuto il merito di ricompattare l’alleanza del centro-destra. Altra cosa certa è che questo episodio, seppur datato, indica la necessità di regolamentare i rapporti tra gli uomini dei servizi di sicurezza e i politici. Così come ha fatto oggi il governo Draghi che ha imposto delle regole ferree e ha imposto agli uomini dei servizi di avvisare, di avere l’autorizzazione dell’amministrazione, prima di incontrare un politico. Questo per la gestione trasparente del potere.

Controllori e controllati. Report Rai PUNTATA DEL 14-06-2021 di Walter Molino. Da quando Report ha documentato l’incontro in autogrill tra Marco Mancini e politici come Renzi e Salvini, il Comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti è finito in un pantano. Il premier Mario Draghi ha sostituito il Direttore del DIS e a Marco Mancini è stato proposto il congedo anticipato. D’ora in poi gli incontri tra politici e 007 dovranno essere autorizzati dai vertici dei Servizi.

“CONTROLLORI E CONTROLLATI” di Walter Molino collaborazione Federico Marconi

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il tre maggio scorso Report ha mostrato il video esclusivo dell’incontro nell’autogrill di Fiano Romano tra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini. Era il 23 dicembre scorso, cioè lo stesso giorno in cui il leader di Italia Viva aveva picconato il governo Conte sulla delega dei servizi segreti.

MATTEO RENZI – LEADER ITALIA VIVA (PORTA A PORTA, 18 MAGGIO 2021) La tesi dei complottisti sarebbe che, siccome io ero in quel momento impegnato a fare cadere il governo Conte, facevo incontri riservati.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Non è la tesi di Report che ha sollevato la legittimità da parte di uno 007 di incontrare in modo riservato e autonomo un leader politico fuori dai luoghi istituzionali. Un dubbio che è stato sollevato anche dagli organi di controllo, e così l’11 maggio il Copasir convoca il direttore del DIS, Gennaro Vecchione.

WALTER MOLINO Avete capito se questo incontro in autogrill era autorizzato o meno?

RAFFAELE VOLPI – PRESIDENTE COPASIR FINO AL 20/05/2021 – LEGA PER SALVINI PREMIER Il direttore del DIS non ho l’impressione che abbia la contezza dei contenuti.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Vecchione cade dalle nuvole e si gioca il posto. Ventiquattro ore dopo il premier Mario Draghi lo sostituisce con Elisabetta Belloni. Palazzo Chigi interviene anche per mettere un freno alle relazioni troppo disinvolte tra politici e 007. Il sottosegretario Franco Gabrielli, Autorità delegata all’intelligence, emana una direttiva che Report vi può mostrare in esclusiva: d’ora in poi gli incontri degli agenti segreti con politici e magistrati dovranno essere autorizzati dai vertici dei Servizi.

WALTER MOLINO Lei ha mai incontrato Marco Mancini?

MATTEO SALVINI –LEGA PER SALVINI PREMIER L’ho incontrato in ufficio, l’ho incontrato al Ministero, non all’autogrill.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Report ha scoperto che nell’estate 2019, nel pieno della crisi del primo governo Conte, anche Matteo Salvini aveva incontrato Marco Mancini, pure lui in un autogrill, nei pressi di Cervia, durante una delle sue puntate al Papeete.

WALTER MOLINO Ecco, noi abbiamo una fonte che dice che invece lei lo avrebbe incontrato proprio in un autogrill.

MATTEO SALVINI –LEGA PER SALVINI PREMIER In un autogrill?

WALTER MOLINO Lei può smentire questa notizia?

MATTEO SALVINI –LEGA PER SALVINI PREMIER A mia memoria non l’ho incontrato in autogrill.

WALTER MOLINO Quindi potrebbe solo averlo dimenticato. Potrebbe averlo incontrato e dimenticato.

MATTEO SALVINI –LEGA PER SALVINI PREMIER L’ho incontrato ripetutamente, anzi lo andai a visitare per la prima volta in carcere a San Vittore.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 20 maggio altri quattro membri del Comitato abbandonano i lavori. Il Copasir è smembrato e solo a questo punto Volpi si dimette insieme all’altro membro della Lega, il senatore Paolo Arrigoni. WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il nuovo Presidente dovrebbe essere l’unico membro dell’opposizione, Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, ma Salvini pretende l’azzeramento del Comitato perché Urso è ancora azionista di una società che ha fatto affari in Iran.

MATTEO SALVINI –LEGA PER SALVINI PREMIER In questo momento gli amici dell’Iran, non sono miei amici.

WALTER MOLINO Questo non è un problema per chi presiede un comitato parlamentare così delicato?

CLAUDIO FAZZONE – MEMBRO COPASIR - FORZA ITALIA Certamente bisognerebbe approfondire per vedere di che cosa si tratta.

WALTER MOLINO Ma chi dovrebbe approfondire?

CLAUDIO FAZZONE – MEMBRO COPASIR FORZA ITALIA Credo che lo stesso Comitato, gli uffici… dovremo lavorare per capire se questa cosa possa avere una possibilità di incompatibilità…

WALTER MOLINO Si parla di interessi nazionali.

CLAUDIO FAZZONE – MEMBRO COPASIR FORZA ITALIA Sempre si devono fare delle verifiche quando esce qualche notizia che potrebbe destare un eventuale sospetto. WALTER MOLINO Cosa si dovrebbe accertare secondo lei? CLAUDIO FAZZONE – MEMBRO COPASIR FORZA ITALIA Ma non lo so, ripeto, non conosco questa situazione, se realmente c’è…

WALTER MOLINO Lei è un membro del Copasir, dovrebbe essere informato.

CLAUDIO FAZZONE – MEMBRO COPASIR FORZA ITALIA Non ne abbiamo parlato di che cosa… io l’ho appreso dai giornali. WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Copasir finisce in un pantano, le audizioni di Renzi e Mancini rinviate a data da destinarsi fino a quando un colpo di scena sblocca la situazione. A Marco Mancini, lo 007 che sussurrava ai politici in autogrill e più volte salvato dal segreto di Stato, l’Amministrazione propone il congedo anticipato. Il 9 giugno il Copasir torna a riunirsi per eleggere il nuovo presidente.

WALTER MOLINO Buongiorno. Siamo pronti? Oggi ci sarà la sua elezione.

ADOLFO URSO – PRESIDENTE COPASIR DAL 09/06/2021 - FRATELLI D’ITALIA Grazie.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Per votare Urso alla fine è bastata mezz’ora.

GIORNALISTA Adolfo Urso è il nuovo presidente del Copasir eletto con sette voti a favore, una scheda bianca ed erano assenti i due rappresentanti della Lega, Volpi e Arrigoni.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ma perché il partito di Salvini fa tanta resistenza? Forse perché nei cassetti del Copasir ci sono dossier molto delicati come quello dello scandalo dell’hotel Metropol di Mosca che getta un’ombra inquietante sui rapporti tra i vertici della Lega e la Russia di Putin.

FEDERICA DIENI – MEMBRO COPASIR – MOVIMENTO 5 STELLE Stavo guardando i documenti perché abbiamo un ufficio… una stanza dove c’è tutta la documentazione storica e bisogna guardarli per forza là tutti gli atti.

FEDERICA DIENI – MEMBRO COPASIR - MOVIMENTO 5 STELLE C’è tanto da fare, ci sono tanti dossier da portare avanti.

WALTER MOLINO Tra questi dossier c’è quello scottante dei rapporti tra Marco Mancini e tutta una serie di politici che lui avrebbe incontrato senza riferire ai suoi capi.

FEDERICA DIENI – MEMBRO COPASIR - MOVIMENTO 5 STELLE Noi abbiamo delle audizioni in sospeso che avevamo calendarizzato…

WALTER MOLINO Tra questi c’è il leader di Italia Viva Matteo Renzi anche.

FEDERICA DIENI – MEMBRO COPASIR MOVIMENTO 5 STELLE Lo ascolteremo con molto piacere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Era stato presentato come un semplice caffè, un po’ lungo perché è durato circa 40 minuti, ma ha provocato grandi fibrillazioni. Anche nei palazzi, nelle istituzioni è stato intanto sostituito il capo del DIS Gennaro Vecchione, poi è stata diramata una direttiva che impedisce agli agenti dei servizi di sicurezza di incontrare politici senza autorizzazione. Poi c’è stata un’accelerazione nella caduta della presidenza del Copasir nel presentare le dimissioni.

Che fine ha fatto l'interrogazione? Report Rai PUNTATA DEL 14/06/2021 di Danilo Procaccianti. Il 3 maggio scorso, dopo l'anticipazione del filmato dell’ incontro tra lo 007 Marco Mancini e il senatore Matteo Renzi, l'onorevole Luciano Nobili, annuncia la presentazione di un'interrogazione parlamentare nella quale si chiede se corrisponde al vero che  la Rai abbia pagato  una fattura di 45 mila euro a  una società di produzione Lussemburghese di nome Tarantula, finalizzata a pagare la fonte coperta che avrebbe contribuito a realizzare un'inchiesta di Report che criticava la gestione del governo  Renzi  nella vicenda riguardante  Alitalia e Piaggio Aerospace. Dopo l’annuncio di Luciano Nobili è emerso che il dossier su cui si basa l'interrogazione  era palesemente falso. Che fine ha fatto l’interrogazione? 

CHE FINE HA FATTO L’INTERROGAZIONE? di Danilo Procaccianti collaborazione di Eleonora Zocca immagini di Cristiano Forti montaggio di Monica Cesaroni

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dopo l’inizio della nostra inchiesta, dopo aver annunciato il filmato dell’incontro tra Renzi e Mancini, l’esponente di Italia Viva, Luciano Nobili, aveva annunciato un’interrogazione su Report.

LUCIANO NOBILI - QUATTRO SEMPLICI DOMANDE ALLA RAI ED A #REPORTRAI3 3/5/2021 Sono un parlamentare della Repubblica, non costruisco dossier, non riprendo persone in autogrill spacciando una chiacchierata per un incontro segreto, detesto i complotti, e non voglio censurare nessuno. Ho solo fatto delle domande legittime, rientrano nelle mie prerogative con un’interrogazione parlamentare. Come Report ha fatto delle domande a Renzi. Io faccio delle domande alla Rai. La società Tarantula ha collaborato alla realizzazione del servizio su Renzi, su Alitalia, su Piaggio Aerospace?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, che è successo? Che l’onorevole Luciano Nobili aveva annunciato la presentazione di questa interrogazione che aveva la base un dossier. Si ipotizzava il pagamento di una fattura da parte della Rai da 45 mila euro ad una società lussemburghese: la Tarantula. E questa a sua volta avrebbe pagato una fonte coperta che aveva contribuito a realizzare un’inchiesta di Report critica sulla gestione da parte del governo Renzi, del dossier Piaggio Aerospace, che poi… azienda che era finita in mano agli arabi. Ora, permesso che Report in 25 anni, lo abbiamo già detto tante volte, non ha mai pagato una fonte, ma questo dossier si era anche rivelato palesemente falso. Che fine ha fatto l’interrogazione annunciata da Nobili? Il nostro Danilo Procaccianti.

DANILO PROCACCIANTI Sostituzione del capo dei servizi segreti, prepensionamento di Marco Mancini, sono cambiate le regole per gli incontri degli agenti segreti, nuovo Copasir… non era poi così consono quell’incontro?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma, le cose che sono accadute voi costruite una correlazione che secondo me non esiste, noi abbiamo chiesto…

DANILO PROCACCIANTI Vabbè una correlazione c’è…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma la correlazione c’è con un’altra cosa secondo me, poi se è merito di Report che c’è stata una svolta per cui non c’è più l’amico di Conte ai servizi segreti, noi siamo contenti. Se vuoi la mia opinione, la correlazione non è con Report, la correlazione è con l’arrivo del governo Draghi.

DANILO PROCACCIANTI Per noi quella era una notizia visto che per qualcuno non lo era e ha prodotto dei risultati.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Domanda, Di Maio siete andati a chiedere cosa si è detto con Mancini e dove si sono visti? Per sapere perché da Salvini ho visto siete andati, perché da Di Maio non siete andati? DANILO PROCACCIANTI Perché Salvini pure lui in autogrill. È il posto un po’ esotico.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io non so dove lo ha visto Salvini.

DANILO PROCACCIANTI Senta lei ha presentato un'interrogazione parlamentare.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Oh yes.

DANILO PROCACCIANTI Puntata del 30 novembre replica a febbraio lei presenta l'interrogazione guarda caso alle nove del mattino del 3 maggio quando noi avevamo anticipato queste immagini delle autogrill. Volevate intimorirci.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Francamente passare per intimidatori di giornalisti quando mi sono sottoposto a 40 minuti di domande, Renzi a 60 minuti, io sono qui ancora oggi a fare tutte le risposte che volete. Per una volta faccio una domanda io…

DANILO PROCACCIANTI Proprio quel giorno…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Certo, proprio quel giorno. La domanda dell’interrogazione poi alla fine è ma questo lavoro d'inchiesta un po’ deboluccio è stato fatto dalle risorse interne della Rai, di Report e vabbè, è un servizio un po’ deboluccio, ma va bene…

DANILO PROCACCIANTI L'importante è che non ho detto cose false, da giornalista mi interessa questo.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io sbaglio tutti i giorni. Questo… questo… Diciamo, la ricostruzione dell’incontro in autogrill…

DANILO PROCACCIANTI Non sono arrivate querele. No, stavamo parlando di quel servizio di prima…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA La ricostruzione dell'incontro in autogrill è piena di incongruenze, accerterà la magistratura. La domanda è ma per caso per fare quel servizio su Renzi avete pagato una fattura?

DANILO PROCACCIANTI Assolutamente no.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Non si può sapere…

DANILO PROCACCIANTI Assolutamente no. Il quotidiano Il Domani ha rivelato che questa interrogazione sarebbe inammissibile, è ferma lì da un mese e mezzo. Ha sbagliato pure a presentarla…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Non so se hanno capacità divinatorie al Domani.

DANILO PROCACCIANTI Che fine ha fatto questa interrogazione?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Se vuole glielo spiego…

DANILO PROCACCIANTI Sì…

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA La Camera ha aperto un dialogo con me sulla base di una argomentazione che la mia richiesta è rivolta al Mef. Secondo loro, il Mef risponde a interrogazioni solo e limitatamente a tematiche che riguardano esclusivamente il contratto di servizio fra la Rai e il Mef. Io allora ho proposto una riformulazione dell'interrogazione ma in ogni caso le assicuro che da qui alla riapertura di Report ci metteremo d'accordo con gli uffici della Camera.

DANILO PROCACCIANTI Ma non esiste nessuna fattura con questa Tarantula.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Vedremo, vedremo insieme…

DANILO PROCACCIANTI È rimasto solo lei a crederci… proprio l’ultimo degli ultimi

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Vedremo insieme.

DANILO PROCACCIANTI Siccome si parlava di mail tra il conduttore della Rai e Rocco Casalino.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Sono state smentite, sono felice che siano state smentite.

DANILO PROCACCIANTI Sarebbero totalmente false. Quello è un reato se qualcuno ha falsificato quelle mail.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Se qualcuno ha falsificato, va perseguito.

DANILO PROCACCIANTI Quindi lei dovrebbe andare in Procura e dire questa persona m'ha detto una cosa falsa.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA No, quella delle mail peraltro è uscita ed è stata smentita.

DANILO PROCACCIANTI Quindi non ci va in Procura?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io in Procura ci vado ogni qualvolta ritengo ci sia qualcosa di serio da portare in Procura. Siccome nel vostro servizio di serio c’era poco o niente…

DANILO PROCACCIANTI Fare delle mail false è una cosa molto seria.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Siccome nel vostro servizio di serio c'era poco o niente…

DANILO PROCACCIANTI Quando si renderà conto che questo era tutto falso, si renderà pure conto che lei è stato uno strumento consapevole o inconsapevole per infangare una trasmissione come Report?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma io sa che sono convinto che magari invece scopriamo che magari a sua insaputa a Report comprano i servizi…

DANILO PROCACCIANTI A mia insaputa?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Eh! Magari lo fanno. Vorremmo capì perché?

DANILO PROCACCIANTI Ma è fango questo, si rende conto onorevole?

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Fango? È una domanda!

DANILO PROCACCIANTI È fango su una trasmissione storica della Rai.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Fango è quello che state facendo voi da tre trasmissioni, da cinque trasmissioni.

DANILO PROCACCIANTI No, noi stiamo raccontando dei fatti che hanno prodotto dei risultati.

LUCIANO NOBILI – DEPUTATO ITALIA VIVA Speriamo che almeno vi frutti un po’ di share, l’azienda del servizio pubblico a noi ci sta a cuore quindi se fa buoni indici d'ascolto è positivo.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo tranquillizziamo, anche perché insomma…. Report gode di ottima salute a prescindere dai temi che tratta. Poi, insomma, l’onorevole Nobili non si può nascondere nulla. Sono 25 anni che Report compra e acquista i servizi. In parte li acquista, in parte li realizza con dipendenti interni. Ed è tutto regolamentato da contratto regolare, è tutto tracciato. Però gli va dato atto di averci messo la faccia, sempre. È l’ultimo irriducibile ancora a credere alla bontà di questo dossier che però insomma, anche le istituzioni ai quali lo ha presentato al momento non l’hanno accettato. Noi sappiamo che è un pacco.

Sono 4-5 puntate che insiste su una cosa che non c'è". “L’insegnante mostrata da Report è una presa in giro”, Anzaldi contro Ranucci sul caso Renzi-Mancini. Piero de Cindio su Il Riformista il 15 Giugno 2021. La trasmissione di Rai 3 Report, condotta da Sigfrido Ranucci, è tornata un’altra volta sull’episodio dell’autogrill e dell’incontro tra l’agente segreto Marco Mancini e il senatore di Italia Viva Matteo Renzi. In merito alla puntata, che avrebbe finalmente dovuto svelare il volto dell’insegnante che secondo Ranucci avrebbe filmato l’incontro, il Riformista ha sentito il deputato di IV Michele Anzaldi deputato di IV e segretario della commissione di Vigilanza Rai.

Anzaldi, cosa ne pensa di Report dell’altra sera?

La trasmissione di Ranucci aveva dato grande risalto all’insegnante che ha filmato Mancini e Renzi. La signora, però, è apparsa criptata, non ne è stata svelata l’identità, sia nell’immagine che nella voce camuffata.

Quindi?

È una presa in giro poiché la signora non è riconoscibile. Una cosa mai vista, neanche fossimo di fronte ad un caso di pentiti di mafia. Ma non è tutto… La trasmissione di ieri avrebbe dovuto mostrare il viso, la normalità anzi la riconoscibilità e di conseguenza la sua attendibilità, testimoniata da conoscenti e addirittura da colleghi e alunni. Ed invece nulla anzi l’opposto.

Cioè?

C’è qualcuno in Italia che, come sostengo da tempo, pensa che non sia una guerra tra servizi segreti? Deviati e non? Se la signora fosse al soldo dei servizi andrebbe mai in televisione a dirlo? Andrebbe a confessare? Andrebbe a dire: non sono un semplice cittadino ma una spia professionista! Evidentemente no… Questo affare è lunare. Dopo la signora c’è stata un’ora di trasmissione per raccontare di presunti servizi segreti marci, di presunti rapporti con la ndrangheta, di mafia, di tritolo: ma che c’entra Renzi con tutti questo? Un minestrone che per un telespettatore che non sia stato attentissimo avrebbe potuto avere anche effetti diffamatori.

Sull’attenzione a Mancini vede quindi opacità?

Registro che Report non ha mai detto in questa ennesima puntata dedicata a questo caso che Mancini era sponsorizzato dal presidente Conte, come scritto più volte dai giornalisti più informati e specializzati in questo ambito come Bonini de “La Repubblica” e dal vostro stesso giornale. Stando alle cronache, dal 2019 il presidente Conte avrebbe tentato più volte di nominare Mancini a vice direttore di Aise o Dis, una nomina cui non era riuscito ad ambire con nessun premier precedente. Se davvero dovessi fare un ragionamento giornalistico, mi chiederei: Mancini, in quanto sponsorizzato da Conte, forse ha portato a Renzi una proposta per conto del premier che stava rischiando di cadere? Era un ennesimo tentativo, dopo quelli fatti sui parlamentari, per salvare il Governo? Sono 4-5 puntate che Report insiste su una cosa che non c’è, un’attenzione che la trasmissione di rado ha dedicato a vicende ben più gravi. E quando Ranucci dice che non è caduto in una trappola dei servizi perché non fa chiarezza e svela chi è la signora? Perché non spiega tutti questi sottintesi che invece di fare giornalismo avvalorano piuttosto la tesi fantasiosa del complotto, cara ai supporter di Conte come Travaglio?

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

Scopelliti risponde a Report: «Sempre contro la 'ndrangheta, io vittima di 16 intimidazioni». Il Quotidiano del Sud il 15 giugno 2021. «Non ho mai avuto alcun rapporto con esponenti della famiglia De Stefano, né con altre famiglie di ‘ndrangheta in quanto la mia attività politico-amministrativa si è incentrata sulla lotta alla criminalità organizzata come mai prima era accaduto a Reggio Calabria. Un’azione incisiva e determinata, documentata da atti amministrativi condivisi con le massime istituzioni internazionali, nazionali e locali». Parole messe nero su bianco dall’ex sindaco di Reggio Calabria ed ex governatore regionale, Giuseppe Scopelliti, nella sua replica alla puntata di “Report” andata in onda ieri sera su Rai3 di cui la trasmissione ha dato conto solo in parte. Scopelliti tra l’altro rivela per la prima volta di essere stato vittima, anche insieme alla sua famiglia, di 16 intimidazioni, episodi denunciati all’autorità ma mai resi pubblici per evitare strumentalizzazioni. Quanto, invece, a eventuali rapporti o scambi di informazioni con gli agenti Marco Mancini e Nicolò Pollari, «non ho mai avuto alcun rapporto né diretto né indiretto con l’agente Marco Mancini – risponde Scopelliti –, che peraltro non conosco. Mentre ho avuto modo di incontrare il generale Pollari in un evento organizzato dall’Università di Reggio Calabria, di cui lui era titolare di cattedra, probabilmente nel 2008 o nel 2009». La terza domanda posta da “Report” è «quale sia la sua versione in merito al ritrovamento di un ordigno al comune di Reggio Calabria che il collaboratore di giustizia Sebastiano Vecchio ha definito una bufala». «Non so su quali presupposti il collaboratore Vecchio possa essere certo che la bomba al Comune di Reggio Calabria sia stata una bufala – replica Scopelliti –, io so che all’atto del ritrovamento dell’ordigno sono stato escusso presso la procura di Reggio Calabria dal procuratore dottore Scuderi e dal pm dottoressa Nunnari ai quali ho rappresentato, cosi come riportato a verbale, che il mio principale pensiero era rivolto alle procedure in corso per la gara, ad opera dell’amministrazione comunale, per la realizzazione del nuovo Palazzo di Giustizia, del valore di 81 milioni di euro. Il progetto più importante finanziato negli ultimi trent’anni nella Città di Reggio Calabria». «Mi permetto di aggiungere – prosegue Scopelliti – che quanto affermato dall’avvocato Canale nello stralcio di intervista mandato in onda nella precedente puntata di Report (“non posso dire di avere avuto dei sospetti, sapevo però che quello sarebbe stato uno spartiacque, avevo percepito che diventare un paladino della lotta alla ‘ndrangheta avrebbe costituito una chiave di volta nella storia personale e politica di Giuseppe Scopellitì”) non corrisponde alla realtà dei fatti per come accaduti. Se è vero che sono stato, per come mi definisce l’avvocato Canale, “un paladino alla lotta alla ‘ndrangheta”, questo non è dipeso dall’attentato al Comune di Reggio Calabria ma dalla mia incisiva e concreta azione di contrasto agli interessi della criminalità organizzata locale nel corso della mia intera carriera politica». «Se avessi voluto trarre vantaggi da un tale fatto – osserva Scopelliti –, avrei reso noti anche altri importanti episodi intimidatori ai danni miei e della mia famiglia, almeno 16, che si sono verificati negli anni in cui ho svolto la mia attività politica. Dalle molotov lanciate contro il Palazzo Comunale (con immediato arresto in flagranza di reato, nella seconda circostanza, a pochi mesi dal mio insediamento) al sorvegliato speciale che doveva uccidermi nel 2003, alla famosa bomba oggetto di discussione, alle numerose lettere intimidatorie tra cui quella delle Brigate Rosse, all’hackeraggio del fantomatico gruppo americano ‘Anonymous’, alle diverse buste contenenti proiettili indirizzate alla mia persona e alla mia famiglia, all’attentato compiuto da uomini incappucciati fuori casa mia e ad altri atti intimidatori. Per finire a quella che più mi ha turbato, l’intimidazione rivolta a mia figlia all’epoca dodicenne: atto che ha determinato l’istituzione di un servizio di scorta alla mia bambina per circa quattro anni e su cu il procuratore De Raho si impegnò in prima persona». «Episodi, questi, per buona parte denunciati soltanto alle autorità competenti – evidenzia Scopelliti – e mai prima d’oggi resi pubblici a riprova della assenza di ogni volontà di strumentalizzarli per fini personali. Ecco – scrive Scopelliti a conclusione delle sue risposte –, ritornando alla vicenda della bomba al Comune, so soltanto che quella intimidazione ha sì costituito uno “spartiacque” nella mia vita, perché da quel momento ho perso la mia libertà essendo stato sottoposto al regime di protezione con scorta per 14 lunghi anni. Una condizione che ha profondamente inciso sulla mia vita e su quella della mia famiglia».

Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" il 17 giugno 2021. L'incredibile catena delle balle, che da Milano arriva ai più importanti palazzi del governo di Roma e poi a Dubai e in Uganda, si spezza davanti alla meno grave delle millanterie. Il colonnello del Sismi Guido Umberto Farinelli racconta al comandante di una compagnia dei carabinieri dell'hinterland di Milano di aver avuto, anni prima, un alterco con un ufficiale dell'Arma mentre era impegnato nella scorta a Silvio Berlusconi. Il caso vuole che i due si conoscano e che quell' ufficiale sia oggi uno dei comandanti del Nucleo investigativo dei carabinieri di Milano. Non c' è mai stato nessun alterco, né l'ufficiale ha mai sentito il nome di Farinelli. Un controllo nelle banche dati permette di scoprire che in realtà il 46enne, nato a Milano ma residente a Verona, ha una fila di segnalazioni per truffa, utilizzo di divise e distintivi. È questa circostanza a far crollare, passo dopo passo, l'immenso castello di frottole, millanterie, truffe che Farinelli era riuscito per anni a mettere insieme. E grazie alle quali era entrato in contatto con molti generali delle forze armate, funzionari di polizia e perfino ada accreditarsi con il senatore Roberto Cotti. Tanto da ottenere un attestato di collaborazione con il ministero della Difesa ed essere ricevuto con tutti gli onori in un circolo veronese dell'Esercito. Niente però, al confronto di quanto era riuscito a fare attraverso il web: modificando pagine di Wikipedia era riuscito a inserire il suo nome tra gli agenti dei Servizi che avevano partecipato al rapimento di Abu Omar, alle indagini sull' uccisione di Fabrizio Quattrocchi, all' inchiesta sui Panama papers e all' operazione per la liberazione di Giuliana Sgrena che vide la morte del funzionario Nicola Calipari. Con tanto di attestati e medaglia d' oro al Valor militare. Balle. Frottole. Menzogne che il gip Sofia Luigia Fioretta ricostruisce nell' ordinanza di custodia con la quale è stato disposto il carcere per Farinelli accusato di una lunghissima serie di reati che vanno dalla truffa, alla sostituzione di persona, fino alla falsa attestazione a pubblico ufficiale, accesso abusivo al sistema informatico, traffico di influenze, autoriciclaggio e corruzione. Le indagini, coordinate dal pm Rosaria Stagnaro e dall' aggiunto Laura Pedio, sono state condotte dai carabinieri del Nucleo Investigativo guidati da Michele Miulli, Antonio Coppola e Cataldo Pantaleo. Tra gli indagati ci sono anche un funzionario della Polaria che lo «agevolava» nei controlli alla frontiera in cambio di biglietti per lo stadio e viaggi. E anche altri appartenenti alle forze dell'ordine che hanno effettuato alcuni «accessi» negli archivi della polizia su personaggi segnalati dal 46enne. Tra questi anche nominativi di interesse dell'ex deputato Amedeo Matacena, condannato per mafia e latitante a Dubai, con cui era in stretto contatto. Poliziotti e carabinieri erano però convinti di aver a che fare con un vero 007. Così come tutti gli altri testimoni raggirati ascoltati dagli investigatori, tra i quali importanti generali delle forze armate. Ma che se ne faceva Farinelli di tutte quelle millanterie? Si faceva pagare per sedicenti importazioni d' oro dall' estero, per «aggiustare» inchieste e accertamenti della guardia di Finanza e perfino per bloccare inchieste producendo false mail di pm milanesi. Niente di vero. Ma nel frattempo intascava i soldi. Chi mai avrebbe denunciato un colonnello dei Servizi segreti?

Tutti i dubbi sul caso dell'agente segreto. Killeraggio di Mancini, chi c’è dietro il siluramento del 007. David Prati su Il Riformista il 29 Giugno 2021. Che ne è stato dei sassi che abbiamo gettato in solitaria nel quieto stagno del conformismo giornalistico sulla liquidazione di Marco Mancini, esponente di lungo corso, bravo ed esperto, dei nostri servizi segreti? Avevamo ipotizzato l’obbedienza dell’autorità delegata per i servizi segreti (il sottosegretario Franco Gabrielli) alle pressioni endogene di Report (Rai), Repubblica, La Verità, con l’aggiunta successiva di Stampa e Corriere. Silenzio. Nessuna smentita. I due bracci della tenaglia (quello mediatico nel ruolo di ispiratore e quello istituzionale che ha eseguito) erano stati messi davanti all’evidenza di come la reputazione e la stessa vita di Marco Mancini erano state messe in pericolo, senza lasciargli alcuno spazio di difesa. Come hanno reagito? Si pascono del risultato ottenuto. Coprire, dimenticare. Ma la vanità gioca brutti scherzi. Nel nostro caso il principale protagonista televisivo della pubblica garrota di Mancini non ha resistito alla lusinga di esibirsi da étoile sul palcoscenico della gloria. Ma questo ci consente di esercitarci di nuovo per dimostrare come quella alleanza continui. Al solito, da poveri don Chisciotte, convinti come Cervantes che i giganti si travestono da mulini a vento per far passare per scemo il cavaliere, ma noi non la beviamo, preferiamo la libertà. Breve sintesi delle puntate precedenti. Usando esclusivamente virgolettati delle citate testate, Il Riformista con due successive uscite (8 e 9 giugno) aveva esposto le impronte digitali del torbido che ha consentito ad ambienti dei servizi segreti di estromettere “con disonore” (Repubblica) il nostro forse miglior agente segreto, Marco Mancini – di certo il più apprezzato dalle agenzie di intelligence occidentali e il più temuto al di fuori della Nato – , grazie alla semplice reiterata esibizione della sua immagine mentre parla nel parcheggio di un autogrill con Matteo Renzi. Non esistendo foto da 16 anni di Mancini, il riconoscimento è stato ottenuto interrogando un ex agente del Sismi-Aise mascherato, consapevole di violare – lui sì – disciplina e onore. Insomma. Il legame con i servizi per eliminare uno dei servizi è lampante. Non potendo esibire alcuna condanna di Mancini, e neppure violazioni disciplinari, si procede per insinuazioni. Fino a provocare la decisione di emettere una direttiva che, annunciata l’11 maggio al Copasir e diffusa dai quotidiani immediatamente, viene formalizzata nei giorni seguenti. Ma applicata retroattivamente – un incredibile capottamento dello stato di diritto – per buttar fuori Mancini. Noi ci permettiamo a nostra volta di identificare l’immoralità di un programma moralizzatore. La coda del diavolo spunta infatti tra i ciclamini che ornano, visibili a noi ormai mistici devoti di Report, la testa del conduttore Sigfrido Ranucci, che sorride sempre, contentissimo degli scalpi della sua collezione. Che gioia far fuori la gente cattiva. Non basta farla eliminare, occorre esporne la testa tagliata su una picca. La quarta puntata di Report, divisa in tre sotto-puntate, fantastica innovazione, è stata così dedicata non a Osama Bin Laden o a Matteo Messina Denaro, ma a Marco Mancini. A Ranucci qualcosina era andato di traverso. Deve dimostrare che il suo lavoro da scotennatore aveva ragioni più profonde di un appuntamento in autogrill, per quanto a nessuno sfugga l’efferatezza di avervi incontrato Renzi, che secondo lui basterebbe e avanzerebbe. Non gli va giù di essere identificato come un killer che spara a tradimento per conto di un’ala della nostra intelligence che ritiene Mancini «una bomba a orologeria» (Carlo Bonini su Repubblica) da disinnescare prima che possa far saltare per aria l’establishment di barbe finte con patrimoni occulti molto molto veri. Ed ecco allora che si fruga in vicende di diciotto o quindici anni fa. Sono vicende per le quali Mancini è stato assolto o prosciolto. Bisogna dimostrare che magari la magistratura non ha potuto strizzargli il collo in Calabria o a Milano, ma Report invece ci riesce. Peccato che Carlo Bonini, che di questi servizi è stata buona fonte con articoli usciti in sequenza serrata negli anni su Repubblica, non abbia fatto conoscere ai suoi numerosi lettori che un giudice civile gli ha dato torto proprio sul tema. Lo scorso 7 giugno, e le carte circolano tra i giornalisti, ma nessuno chissà perché lo scrive, forse per dare la precedenza a Report, che dovrà risarcire, con l’editore Gedi, Mancini, per averne offeso la reputazione, con le ricorrenti formule di “opaco”, “uomo nero”, “doppia obbedienza”, “sussurrava all’orecchio” eccetera. Siamo in primo grado. Poi ci sarà il secondo, e si vedrà. Stessa faccenda è capitata a Fabrizio D’Esposito del Fatto Quotidiano, per un articolo diffamatorio su Mancini proprio a proposito delle vicende calabresi oggetto di Report del 14 giugno. Erano i tempi di Antonio Padellaro, la pubblicazione è del 16 marzo 2014, e l’ordinanza che condanna al risarcimento è del 12 settembre 2017. Per questa sana tempra di amici dei giudici e dei pm, i giudici contano soltanto quando danno ragione alle loro tesi. Così come il segreto di Stato è da essi inteso solo come artificio per salvare Mancini da condanne sicure. Giacomo Stucchi, senatore leghista che presiedette il Copasir dal 2013 al 2018, in questi giorni, è intervenuto in questi giorni sul caso Macini. E’ stato ignorato da tutti. Ovvio, infatti lo ha difeso vigorosamente. C’è una ragione: conosce come stanno le cose. Fu lui a richiedere alla magistratura gli atti a proposito delle gravissime minacce che imposero la scorta all’agente segreto. I membri del Copasir, così puntuti sugli autogrill, dovrebbero studiare un po’, visto che possono accedere alle carte: apprenderebbero che su certe strani addentellati che portavano le indagini in una spiacevole direzione (forse interna all’Aise), l’allora direttore dei servizi esterni, Alberto Manenti, oppose il segreto di Stato. Se ci fosse coerenza, Repubblica e Report informatissimi sul Copasir e con eccellenti agganci con i vertici, potrebbe magari scavare un pochino. David Prati

Il caso dello 007. Cosa c’è dietro il caso Mancini: intreccio tra servizi segreti, giornali e Tv. David Prati su Il Riformista il 30 Giugno 2021. Riprendiamo il discorso avviato ieri. Oggetto, il nostro 007 Marco Mancini, uno dei migliori dei quali l’Italia disponeva, messo alla porta dal governo su richiesta di un gruppo di giornali e trasmissioni televisive. Nel silenzio generale della stampa e della Tv. Torniamo allora, nel nostro racconto, a Report (Rai). Eccoci allo scoop. I giornali avevano riferito, citando i parlamentari del Copasir presenti alla riunione dell’11 maggio, che era stata annunciata una direttiva di Franco Gabrielli. Ecco cosa scrive la Stampa il 13 maggio. «Ha dichiarato Filippo Scerra, deputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Gruppo alla Camera: “Le direttive del sottosegretario con delega ai Servizi, Franco Gabrielli, specificano come i componenti dei Servizi possano incontrare giornalisti e politici solo per motivi di servizio e con la preventiva autorizzazione del vertice del Copasir. Quindi riteniamo lecito chiedere a Renzi le dovute spiegazioni per un incontro che continuiamo a considerare del tutto inopportuno. I due cosa si sono detti?”». A parte la pretesa di dar valore retroattivo a una disposizione disciplinare, magari sarebbe anche interessante applicare questa direttiva agli stessi uffici di Gabrielli e a quelli circostanti. Infatti non si è mai visto un tale piacevole trasferimento di informazioni e documenti dei servizi passati ai giornalisti amici. Il Fatto, rispetto a politici e giornalisti, elencava anche i magistrati tra le categorie cui accedere solo con permesso. Invece, chissà come, Ranucci elimina i giornalisti tra quelli cui sono vietati contatti. E scopriamo che ha pure ragione, e lo sa per rivelazione esclusiva, roba che neppure il Copasir, poveretto, sa. Report infatti, dopo essersi attribuito il merito della direttiva purificatrice, si vanta pure di poter mostrare “in esclusiva” la bolla pontificia che ha fatto scattare la ghigliottina e cadere nel cesto la testa di Mancini. In realtà appare per un solo istante, dietro la gigantografia di Gabrielli, così che non si legga (si sa che è una noia). Siamo riusciti faticosamente a trascrivere buona parte del testo volutamente spampanato. Eccolo: «L’Autorità Delegata a seguito dell’ampia eco riservata dagli organi di stampa all’incontro tra un alto dirigente del Comparto con un noto esponente politico, ha richiamato all’attenzione il rispetto delle norme comportamentali, sottolineando come condotte ordinariamente prive di disvalore e di interesse mediatico quando attuate dagli appartenenti agli OO.II. (organismi informativi, ndr), possono essere caricate di significati e piegate alle più disparate chiavi di lettura ed interpretazioni. Pertanto ha dato indicazioni affinché ogni tipologia di incontro con esponenti del mondo politico, giudiziario e, più in generale, suscettibile di esporre il Comparto alle citate criticità (sarebbero i giornalisti, ma meglio non inimicarseli, ndr), sia preventivamente autorizzata e gli esiti documentati per gli eventuali e successivi riscontri. Quanto sopra premesso, dispongo che gli incontri in argomento, da tenere sempre in coerenza con le previsioni degli artt. 44 e 45 del DPCM 1/2011, siano sottoposti alla mia preventiva autorizzazione e che gli esisti degli stessi siano documentati secondo le modalità e le procedure in vigore. La mancata ottemperanza delle presenti disposizioni configura motivo di grave profilo disciplinare». Notiamo. Rispetto a quanto detto verbalmente al Copasir i giornalisti sono compresi o no tra coloro che si possono frequentare solo con il nulla osta? Nel caso ci piacerebbe leggere la relazione consegnata dal simpatico agente spione di Report “alli superiori”. In questo periodo dovrebbero esserci pigne di relazioni: perché non c’è mai stato un movimento di carte e notizie riservate di Aisi, Aise e Dis così intenso come da quando sarebbero vietati contatti salvo autorizzazione. Ma ci dev’essere una nota bene in un’altra pagina, con il nome dei cronisti embedded. Ad esempio. Com’è che Carlo Bonini (Repubblica) ha saputo addirittura il giorno in cui Mancini andava in ferie e quando esse si concluderanno? E sempre il medesimo, in un articolo sulle vicende calabresi, che sono un must della ditta, da chi e come ha potuto apprendere che un funzionario del Sismi, citato con nome e cognome, è stato trasferito all’Aisi, presumibilmente in zona di massima esposizione al pericolo? Tutto questo non è violazione di segreto che vige per gli interna corporis delle agenzie? Ma eticamente con che coraggio si butta in pasto una persona alle mafie mentre sta lottando contro di esse? Chissà che la procura di Roma ritagli questo nostro articolo ipotizzando un’inchiesta. Improbabile. Ma basterebbe che il Copasir chiedesse se Dis, Aisi, Aise e l’Autorità delegata si siano agitati oltre che per i Babbi di Natale a Renzi anche per queste brecce nel fortino, rispetto alle quali Porta Pia era lo sbrego di una calzetta di nylon. La direttiva è anche una forma di confessione. Per licenziare Mancini senza diritto di difesa è bastata – carta canta – l’esposizione mediatica. Un bel precedente: non importa che l’incontro sia stato innocente (come pur lascia intendere la direttiva di cui sopra), basta che qualcuno per scopi suoi riproduca dieci, cento, mille volte una fotografia infilandoci dei sospetti per sgozzare la vittima designata? Che bel giochetto per i servizi stranieri. Funziona così? Chi ha passato a Bonini (13 maggio, Rep) la notizia della scorta ritirata a Mancini? La riunione era ristrettissima. Per quali ragioni Gabrielli ha piazzato questo uno-due delegittimante, e lo si è pure fatto sapere ai cronisti che tifavano perché questo accadesse? Non è questione di simpatie o antipatie, non può essere. Forse c’era da vellicare settori di intelligence piuttosto deviati sui soldi di cui garantirsi obbedienza e insieme stampa amica? Boh. Fonti del ministero dell’Interno comunicano stupore, perché la tutela era stata confermata per l’intero 2021, compresa la “vigilanza dinamica” intorno alla residenza privata. Perché Mancini, assolto da tutto, senza alcuna sanzione disciplinare, è stato eliminato e invece lo stesso Gabrielli come capo della polizia ha riaccolto i funzionari di polizia condannati per il macello messicano della Scuola Diaz a Genova? Niente nomi, ma da 3 anni e 8 mesi di condanna definitiva a promozione nella Dia c’è un salto che va molto oltre il garantismo. E’ una strana discrezionalità. E che dire del successore di Gabrielli? Cito dal Riformista del 28 maggio scorso: <Caso Shalabayeva, per il capo della polizia Lamberto Giannini la sentenza è ingiusta. Non era mai successo di sentire il Capo della polizia in carica esprimere “grave disappunto” per una sentenza della magistratura che ha condannato, in primo grado, due tra i migliori investigatori in servizio nella Polizia di Stato>. Lo fa in continuità con Gabrielli. E c’è di mezzo il sequestro di una bambina. Intanto, intorno al fatale 23 dicembre di Fiano Romano, nessuno ha fiatato alla notizia della promozione a vice dell’Aise di un dirigente con eccellenti frequentazioni, di sicuro lontano dai plebei parcheggi autostradali. Il nome trovatelo voi in questo articolo sul caso Palamara di Fiorenza Sarzanini, 6 febbraio 2018, Corriere della Sera: <Accertamenti sono in corso anche sulla ristrutturazione di una casa che Luigi Della Volpe ha affittato a partire dal 2014 ad una società di Centofanti che a sua volta lo ha subaffittato ad Amara. Della Volpe potrebbe infatti essere un ufficiale della Guardia di Finanza ora ai servizi segreti, e il sospetto degli inquirenti è che quel contratto sia in realtà fittizio e utilizzato semplicemente per l’emissione di false fatture>. Molto bene e molto giusto non trasformare un sospetto in stroncatura. Colpisce come i segugi dal naso fino abbiano appreso sì, ma poi coperto, oscurato, nascosto. Seguirà ulteriore silenzio. Va così in Italia la cui sicurezza è magnificamente tutelata dalla triade Gabrielli-Ranucci-Bonini, più qualcun altro che forse comanda ancora i servizi, ma nell’ombra. David Prati

Il testo dell’audizione parlamentare tenuta l’1 luglio da Umberto Rapetto, sul dl Cybersicurezza, pubblicato da infosec.news  e startmag.it l'1 luglio 2021. Non è facile condensare in 7 minuti il contributo di chi ha cominciato ad occuparsi di computer crime nel 1987 e di cyberdefense nel 1995. L’unico disperato tentativo è quello di leggere un testo dopo averne cronometrato la durata. La norma, forse per ridotta conoscenza dello scenario, è stata redatta senza tener conto del vero obiettivo da perseguire. La creazione di un burosauro è destinata a produrre conflitti tra le articolazioni già esistenti che non riesce necessariamente ad armonizzare, innesca ingessate dinamiche amministrative, genera un pericoloso senso di falsa sicurezza. Questo approccio all’emergenza cibernetica confligge con il buon senso e dimentica le esperienze straniere dove i Governi hanno preferito un cyber-czar o un ristretto manipolo di veri conoscitori della materia per assumere rapidamente le decisioni e muovere le pedine già operative per affrontare attacchi digitali, gestire la controffensiva, ripristinare la situazione quo ante e – nei periodi di apparente quiete – coordinare tutte le iniziative per innalzare il livello di preparazione e la capacità reattiva di chi gestisce le infrastrutture critiche e delle organizzazioni pubbliche e private che erogano servizi essenziali. La previsione di un direttore generale e di un suo vice raddoppia le possibilità di accontentare i promotori dei candidati. La loro scelta da una parte esclude che quel ruolo venga rivestito da un giovane brillante e competente che magari ha un grado o una posizione non apicale (ve lo dice chi da tenente colonnello ha catturato gli hacker entrati nei sistemi di Pentagono e NASA) e privilegia alti dignitari di una generazione lontana da queste tematiche, dall’altra apre a chiunque provenga dall’esterno della Pubblica Amministrazione. Se è vero che il 95% dei sistemi informatici non è sicuro, come dice il ministro Colao, è giusto tenere fuori da questa partita chi nella PA o alla Presidenza del Consiglio per anni ha avuto e continua ad avere responsabilità in area cyber perché probabilmente non ha le debite competenze tecniche ed organizzative oppure non ha saputo fare il proprio mestiere. Ma non vorrete farmi credere che siete convinti che nell’industria, nelle banche o nelle imprese la situazione sia migliore? Pensate alle umiliazioni subite da Leonardo (ne ho parlato anche qui e qui), ENEL (anche qui), INPS (anche qui), Vodafone e TIM, Ho.mobile (anche qui), Unicredit (anche qui), SAIPEM (anche qui), CINECA, SNAI, Geox, Luxottica (anche qui e qui), Campari, l’ANIA, l’Università di Tor Vergata, l’Ospedale San Raffaele (anche qui) e alle altre mille realtà cui – in certi contesti – andrebbe tolta la parola. Vertice a parte, situazioni di difficoltà vanno risolte con strutture snelle, rapide ad intervenire, chirurgiche nell’agire. Servono team affiatati, di poche persone con doti professionali straordinarie e capaci di giocare senza protagonismi. L’assetto ipotizzato prevede il coinvolgimento di troppi soggetti la cui inclusione deve essere solo esecutiva. Il “Nucleo per la cyber sicurezza”, ad esempio, evoca teste di cuoio e SWAT pronti a piombare in campo, a duellare contro il nemico di turno, a risolvere il problema. Invece si traduce in un conclave di rappresentanti ministeriali che si riunisce periodicamente, con la lentezza delle convocazioni e l’incertezza delle rispettive agende. I suoi componenti rispettano le regole della buona convivenza istituzionale, ma calpestano quelle della necessità di contrastare momenti di estrema drammaticità con rapidità ed effettiva capacità proattiva. Il “contingente di esperti”, in cui si prevedono 50 luminari impiegati part-time, prova il comprensibile desiderio di non scontentare nessuno e al contempo è un goffo tentativo di diluire possibili responsabilità in caso di incidente. Il “Centro Nazionale di Valutazione e Certificazione”, che viene assorbito dall’Agenzia, è una realtà che – varata nel 2019, Di Maio ministro – ancora deve avere piena operatività, testimoniando che l’obsolescenza non sembra far paura, dimenticando che due anni sono un’era geologica, Il Computer Security Incident Response Team (CSIRT), istituito nel 2018 e rivisitato l’anno successivo, sopravvive per non far torti a chicchessia ma risulta depotenziato…Qualche mutilazione tocca in sorte anche all’Agenzia per l’Italia Digitale e dulcis in fundo si prevede la migrazione delle risorse pregiate finora in carico al DIS. È evidente la nebbia che obnubila il panorama e favorisce l’avvio di altre maldestre iniziative che prevedono, però, l’assunzione di 300 superspecialisti cui affidare il nostro destino. Se è difficile capire come procedere alla loro selezione (e non ci sono così tanti “guerrieri” davvero all’altezza), incuriosisce chi dovrebbe provvedervi. Gli stessi del 95% di Colao? Immaginando che nessuno avrà domande da farmi, i quesiti per una volta li pongo io. Qualcuno ha mai conosciuto un hacker, visto che è questo che non immagina solo il quisque de populo ma si prefigura il Governo? Si conosce il livello di reale affidabilità dei pirati informatici o si è convinti di organizzare battaglioni di ascari virtuali per una estemporanea performance bellica? Si crede davvero che un Rocambole del bit sia disposto a giocare in squadra? Quanto tempo si immagina possa trascorrere prima che qualunque masnadiero cominci ad annoiarsi nel vedersi tramutato in un mezzemaniche? E poi chi dovrebbe incarnare il sergente di ferro che tiene a bada tante primedonne? Soprattutto per quale motivo non c’è traccia di un percorso formativo (che avrebbe dovuto e potuto avviarsi trent’anni fa) o di una scuola che sensibilizzi il management pubblico e privato, crei capacità di committenza (invece di lasciar mano libera ai fornitori), istruisca chiunque è parte del sistema così da evitare quelle banali imprudenze all’origine di troppi disastri? Perché non si procede ad un’opera di razionalizzazione delle risorse esistenti, costringendole a funzionare e trasformando dannose sovrapposizioni in utili complementarità? Perché non ci si capacita del tempo perso in chiacchiere e convegni e non si tirano le somme del “non fatto finora”, dal decreto Monti del 2013 a oggi? Perché si pensa di stanziare 429 milioni di euro se non si immagina nemmeno dove e come andranno spesi e oggi invece lo si dovrebbe sapere al centesimo? Per quale dannato motivo non si copia il modello statunitense senza aver timore di riconoscerne limiti e difetti? Perché non si prova a calcolare il tempo necessario per una decisione che dovrebbe essere istantanea grazie ad un diretto link tra il leader e il suo cyber-centurione e invece si prevede una estenuante e imperitura sequenza di passaggi in cui ognuno fatica a prendersi le responsabilità che gli competono? Se qualcuno, nella sua adulazione vocazionale, vi dirà che il provvedimento è perfetto, siate certi che aspira soltanto ad una collocazione in sella o nel ventre della nascente creatura.

(ANSA il 15 luglio 2021) - "Per l'audizione del dottor Marco Mancini al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica non resta che fare un applauso al Parlamento che si dimostra, come purtroppo non sempre è stato, davvero “sovrano”. Ascoltare, valutare, approfondire e controllare è non solo un dovere costituzionale ma anche un adempimento del ruolo e dei doveri propri del parlamentare, che non devono e non possono venire meno per ragioni di piccola propaganda politica". Così il deputato Angelo Tofalo (M5S). "Bene dunque soprattutto - osserva Tofalo-che il presidente Draghi abbia autorizzato il dottor Mancini a rispondere positivamente alla richiesta di audizione del Copasir. Un servitore dello Stato come lui se davvero lascerà il servizio almeno potrà lasciarlo con l'onore della verità, lasciando agli atti del Copasir quella verità storica che spesso è radicalmente diversa da quella rappresentata dalle inchieste giornalistiche. In un Paese democratico nessuno deve avere paura della verità".

Giuliano Foschini e Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 15 luglio 2021. A pochi giorni dal suo pensionamento dai Servizi segreti, Marco Mancini - la spia italiana al centro dei fatti italiani più delicati degli ultimi 30 anni - apre una partita che potrebbe avere ripercussioni, importanti, dal punto di vista politico. Racconta infatti del suo rapporto con l'allora premier Giuseppe Conte e soprattutto con l'ex direttore generale del Dis, Gennaro Vecchione, fedelissimo dell'ex presidente del Consiglio. E lo fa davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, al termine di un'audizione improvvisa e assai contestata dal Partito democratico (il deputato Enrico Borghi ha infatti deciso di disertare la seduta) ma fortemente voluta dal nuovo presidente del Comitato, il senatore di Fratelli d'Italia Alfonso Urso. Mancini è stato chiamato per dare spiegazioni sul suo incontro in autogrill, avvenuto alla vigilia dello scorso Natale, con Matteo Renzi. Incontro registrato - grazie al cellulare di una passante che aveva riconosciuto il leader di Italia viva, questa la ricostruzione che fin qui è stata fatta - e poi mandato in onda su Rai3 dalla trasmissione Report. Proprio dopo la pubblicazione del video, e le arrabbattate spiegazioni su quanto era accaduto, il governo Draghi aveva deciso la sostituzione di Vecchione con Elisabetta Belloni, attuale numero uno del Dis. Mentre a Mancini era stato proposto di rientrare nei Carabinieri, dove si era arruolato alla fine degli anni '70, e di fatto spinto verso il prepensionamento. Eppure, ancora ieri, l'ex 007 ha raccontato che dietro l'appuntamento con Renzi non c'è stata, dal suo punto di vista, alcuna anomalia. Nel corso dell'audizione segreta avrebbe spiegato infatti che del faccia a faccia era stato informato Vecchione. E che non era stato certo il primo: gli capitava spesso di vedere parlamentari, seppur tenuto all'obbligo di riservatezza che tutti i dirigenti del Servizio devono rispettare in questi casi. Tali incontri erano stati autorizzati per iscritto dal suo ex capo. E, d'altronde, non erano vietati: lo sono diventati solo dopo, in seguito allo scandalo dell'autogrill. Mancini avrebbe rivelato poi che di questi rendez-vous era al corrente anche il premier, col quale intratteneva rapporti assolutamente cordiali. Al punto che in più occasioni - ha aggiunto l'ex dirigente dell'Intelligence - gli era stata promessa la vicedirezione del Dis: oltre che da Conte, anche da Vecchione e dal ministro degli Esteri Di Maio. E sull'incontro con Renzi ha ribadito che si era trattato di un semplice scambio di auguri. Durante il quale gli avrebbe davvero consegnato gli ormai famosi "Babbi", i wafer di cioccolato. Arrivando persino a esibire la ricevuta della carta di credito con cui li ha acquistati. Un'audizione «illegittima» secondo il Pd, che accusa il presidente del Copasir di non aver seguito le procedure corrette. Ma Urso si difende: «Ho fatto tutto secondo le regole e ho informato il premier Draghi». Tuttavia la Lega, che dall'elezione di Urso al posto di Raffaele Volpi alla presidenza del Comitato non ha più indicato nuovi componenti a sostituire i dimissionari, si schiera con il partito guidato da Enrico Letta. «Le dimissioni degli esponenti della Lega dal Copasir avevano e hanno fondamento, come confermato anche dal Pd - fanno trapelare da via Bellerio -. Meglio tardi che mai, anche a sinistra convengono che il Copasir ha bisogno di una guida equilibrata, senza subire continue tensioni politiche che nulla hanno a che vedere con un organismo di garanzia. Siamo sicuri che i presidenti di Camera e Senato sapranno maturare una saggia decisione». Il sospetto è che FdI voglia utilizzare il Comitato di controllo sui Servizi contro il governo Draghi.

Francesco Bechis per formiche.net il 7 ottobre 2021. Marco Mancini non sceglierebbe Antigone, “la morale non c’entra con il rispetto della norma”. L’integrità dello Stato viene prima di tutto. Anche al prezzo, se necessario, della verità. A pochi mesi dal pensionamento che ha chiuso anticipatamente una lunga carriera nell’intelligence, prima nel Sismi di Nicolò Pollari, poi come dirigente del Dis, Mancini riappare dietro a una cattedra universitaria. In un’aula dell’Università di Pavia, invitato da Alessandro Venturi, professore di Diritto pubblico e amministrativo nell’ateneo lombardo, l’ex 007 tiene una lezione sul “Segreto di Stato”. È la prima volta che parla in pubblico da quando ha lasciato il suo ufficio a Piazza Dante. La prima da quando è scoppiata la polemica politica sul suo incontro in Autogrill insieme all’ex premier Matteo Renzi, nel dicembre del 2020. Un episodio che ha riaperto il dibattito sull’opportunità per un agente in servizio di incontrare politici e sulla necessità di un’autorizzazione ufficiale da parte dei suoi dirigenti (nel caso specifico, il direttore generale del Dis). Mancini è un “veterano” dei Servizi. Protagonista di vicende che hanno segnato la storia dell’intelligence italiana. Fra le altre, il salvataggio della giornalista Giuliana Sgrena nel 2003, rapita in Iraq e liberata con un’operazione in cui ha perso la vita l’agente del Sismi Nicola Lipari. Prima ancora l’impegno come brigadiere dei Carabinieri nella squadra del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un agente segreto di grande esperienza, apprezzato da alcuni, criticato da altri. Oggi rompe il silenzio di fronte a un centinaio di studenti, in presenza e collegati online, per parlare di un argomento che ha toccato da vicino i suoi 37 anni di carriera nei Servizi segreti italiani. Si può dire in effetti che Mancini, a suo modo, abbia fatto “giurisprudenza” sul segreto di Stato. È il caso del rapimento nel 2003 di Abu Omar, l’imam della Moschea di Milano accusato di terrorismo e prelevato dalla Cia con la collaborazione dell’intelligence italiana. Allora fu proprio la Corte Costituzionale ad annullare una sentenza in appello a nove anni per Mancini perché “l’azione penale non poteva essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato”. Incalzato da uno studente, Mancini si limita a dire che “tutte le sentenze vanno rispettate”, ma spiega anche: “Se non si conosce il contenuto del segreto di Stato, come si fa a sapere con certezza cosa sarebbe successo senza quel segreto?”. Dopotutto è una prerogativa prevista dalla legge, dice Mancini. L’istituto del segreto di Stato è definito nel dettaglio dalla più grande riforma dell’intelligence italiana, la legge 124 del 2007, oltre che dalla giurisprudenza della Consulta. “Lo Stato è come una persona che guarda, osserva, tace e si rifiuta di riferire certe notizie per la sua salvaguardia, nel rispetto delle norme che si dà”. La lezione di Mancini viaggia in punta di diritto, da un comma all’altro. Ogni tanto inframezzata da una precisazione, “non sto parlando di cose che mi riguardano personalmente”. Anche se a tratti riaffiora un filo di criticismo. “Sono grato al mio Paese per il servizio, è stata un’avventura meravigliosa – confessa agli studenti, per poi tirare una stoccata a chi non lesina critiche al suo “periodo in attività” – forse si dovrebbe tacere quando non si conosce”. “Tacere”, appunto. È quel che lo Stato chiede con il segreto previsto dalla legge quando la verità mette a rischio la sua sicurezza. “Spesso la violazione del segreto di Stato è un reato più grave di quello confessato”, dice Mancini. Anche per questo, ricorda, c’è solo un organo che può infrangere quel muro del segreto di Stato: la Corte Costituzionale. Neanche il presidente della Repubblica ha diritto a rivelare segreti di Stato, spiega l’ex agente, e lo stesso vale per il Parlamento. “Il segreto di Stato è opponibile anche al Copasir (il comitato parlamentare di controllo dei Servizi, ndr)”, dice Mancini, che dal comitato bipartisan di Palazzo San Macuto, oggi presieduto dal senatore di Fdi Adolfo Urso, è stato audito pochi mesi fa (scelta contestata dal responsabile Sicurezza del Pd e componente del comitato Enrico Borghi). Comitato che comunque resta “una struttura parlamentare importante, una garanzia democratica, talmente importante che il presidente è affidato dalla legge all’opposizione”. Certo, non è facile capire quando il ricorso al segreto di Stato si trasforma in una censura o in una limitazione delle garanzie democratiche, fanno notare dubbiosi due studenti all’ex Sismi. Il sequestro di persona, ad esempio, può davvero essere coperto da quel segreto? Lui risponde che le garanzie ci sono. “Se si ritiene che siano stati compressi dei diritti costituzionali, si raccolgono le firme e si va davanti alla Corte Costituzionale”. “I Nar, le Brigate rosse, il terrorismo sono state sconfitti con la democrazia, grazie a strumenti del sistema politico e giudiziario”. A volte senza raccontare tutta la verità. “È anche questa una forza dello Stato – sospira Mancini – si deve fidare dei propri funzionari, sapere che quando è necessario eserciteranno il silenzio”.

Dagonews il 9 ottobre 2021. Armando Spataro si dimette da docente dell’Università di Pavia, dopo la lezione sul segreto di Stato tenuta nello stesso ateneo il 7 ottobre dall’ex agente segreto, Marco Mancini. Spataro è stato procuratore aggiunto a Milano e poi procuratore della Repubblica a Torino. Indagò sul caso Abu Omar, l’imam sequestrato a Milano nel 2003 da un gruppo di americani della Cia con l’aiuto del Sismi, il servizio segreto militare italiano. Mancini era il capo della Divisione controspionaggio del Sismi. Per quel sequestro di persona fu arrestato, poi condannato in appello a 9 anni, infine salvato dal segreto di Stato…

Gianluca De Maio per "la Verità" il 22 aprile 2021. Non sappiamo quale sia stato l' approccio del Copasir. D' altronde mentre il generale era in audizioni ben 37 costituzionalisti si sono riuniti virtualmente per lanciare l' allarme democratico. «Nelle democrazie pluraliste contemporanee la separazione dei poteri, uno dei cardini dello Stato di diritto, si declina, necessariamente, anche come garanzia delle opposizioni e del loro ruolo costituzionale». È scritto nella lettera-appello inviata al presidente della Camera, Roberto Fico, e al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati affinché si superi la situazione di stallo che si è creata nel comitato con la nuova maggioranza che si è creata con il governo Draghi e l'applicazione di quanto previsto dalla legge che attribuisce la presidenza del Copasir, che svolge il delicato compito della vigilanza parlamentare sulle agenzie di intelligence, all' opposizione e quindi a Fratelli d'Italia. Tra i 37 firmatari dell'appello spiccano i nomi di Antonio Baldasarre e Valerio Onida, entrambi presidenti emeriti della Corte costituzionale. Resta ora da capire quale sarà la risposta dei presidenti d' Aula. In fondo l' audizione di ieri ha palesato il problema. Al tempo stesso le stringenti necessità della pandemia non possono certo attendere il Parlamento. Il lavoro di Figliuolo deve andare avanti indipendentemente dalla composizione del Copasir. Spetta agli stessi partiti trovare il proprio punto di caduta.

ITALIA-RUSSIA, RITORNA LA GUERRA FREDDA E NON HO NIENTE DA METTERMI. Un ufficiale della Marina avrebbe venduto segreti della Nato a due diplomatici (espulsi) di Putin. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud l'1 aprile 2021. Volevate il vaccino Sputnik e liberarvi dai domiciliari? Macché è tornata la guerra fredda e non abbiano niente da metterci, come avrebbe detto la grande attrice Livia Cerini. Due ragazzi al bar: un ufficiale dei servizi della Marina e un giovane del GRU, i servizi militari russi in carico all’ambasciata a Roma. Il dossier, per quattro soldini, che scambia l’ufficiale italiano riguarda le manovre Usa e Nato nei Balcani e nel Mediterraneo, sulle quali Manlio Dinucci ha già dato ampie descrizioni sul Manifesto. Insomma basterebbe leggere i giornali. Li hanno beccati e prontamente Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina, già ieri mattina ha incontrato l’ambasciatore russo per comunicare l’espulsione di due incaricati militari russi dall’Italia. Ineccepibile. La Belloni come Eva Kant, non sbaglia un colpo.

OPERAZIONE NOSTALGIA. Poi c’è il resto e scatta l’operazione Nostalgia. Dove vanno a parare in politica estera Draghi, Di Maio e la Farnesina? Il presidente del consiglio e il suo ministro degli esteri – al quale una volta piaceva così tanto la Cina – sono stati dichiarati abili e arruolati sul fronte anti-Pechino. Su quello anti-russo c’erano già. Ricordate il discorso di insediamento di Draghi: attaccò Putin su Navalny ma non disse una parola sul generale Al Sisi, Regeni o Zaki. A lui interessa sapere cosa pensa la Casa Bianca per posizionarci sulla scacchiera, non cosa pensiamo noi cittadini dei diritti umani o della giustizia. Draghi applica alla lettera il nuovo manuale Biden-Blinken del “perfetto alleato”. Non come la Merkel che vuole completare il gasdotto Nord Stream 2 con i russi.  Così, per dare un tocco sicuramente apprezzato oltreoceano, il premier e la Farnesina hanno dato ordine di votare contro la risoluzione presentata al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sulle ripercussioni negative delle sanzioni economiche a Cuba e altri Paesi, come Venezuela, Siria ed Iran. Sul blocco di Cuba ne sappiamo mentre si cerca di tenere nascosto che le sanzioni Usa ed europee a Damasco stanno impedendo qualunque ricostruzione del Paese e affondano pure il Libano con il congelamento dei conti siriani nelle banche di Beirut. Il caso di Cuba è illuminante perché in piena pandemia l’anno scorso l’Avana mandò in Italia un’equipe di 53 medici. La risoluzione Onu è passata lo stesso ma vale la pena ricordare che l’anno scorso, in aprile, a sole tre settimane dall’arrivo della Brigata cubana Henri Reeve, in occasione dell’Assemblea Generale Onu la Ue – di cui facciamo parte – votò insieme agli Usa per respingere una risoluzione proposta dalla Russia per sospendere le sanzioni data l’emergenza coronavirus. Con i cubani in casa ad aiutarci non abbiamo avuto neppure il ritegno di astenerci. Il nostro servilismo verso Washington ha solide radici ma soprattutto non ha limiti. E ora trova un’ottima occasione per essere applicato a Russia e Cina. Come spiegava sul Manifesto Manlio Dinucci partecipiamo a una gigantesca esercitazione militare, Defender-Europe 21, dove gli Usa guidano gli alleati Nato a resistere all’”attacco” di Mosca. Così con il passaporto Covid, mentre stiamo chiusi in casa, migliaia di soldati passeranno da un Paese all’altro per contrastare “l’infiltrazione di Mosca nei Balcani” dove ormai è rimasta solo la Serbia, da noi bombardata nel ’99, ad avere un atteggiamento filo-russo.

IL NEMICO CINESE. Ma la cosa interessante è che nell’esercitazione verranno utilizzate tutte le rotte marittime e terrestri che collegano l’Europa all’Asia e all’Africa. Perché? C’è un altro nemico, ancora più fastidioso di Putin, da tenere a bada ed è la Cina con la Nuova via della Seta, la Belt and Road Initiative (Bri) riadattata al contesto marittimo, la cosiddetta Maritime Silk Road, o Via della Seta marittima, dove il Mediterraneo e Suez hanno un ruolo chiave. Lo ha detto con chiarezza il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg: “La Nato sarà chiamata a occuparsi sempre più della sfida cinese, adattando il suo approccio strategico”. Ed ecco il punto chiave, la vera novità. L’Alleanza atlantica ha una nuova ed esplicita missione: contenere Pechino. Così Biden e Blinken hanno preso per il bavero gli italiani intimando di mollare subito l’accordo della Via della Seta. Ce lo ripetono ogni due-tre giorni. E pensare che nel 2018 Xi Jinping veniva accolto con tutti gli onori da Mattarella, Conte e Di Maio. Come per altro nel 2010 avevamo ricevuto Gheddafi con i tappeti rossi per bombardarlo sei mesi dopo. La nostra politica estera, se per caso diventi “amico” dell’Italia, è il bacio della morte. Siamo così dei “bravi ragazzi” che abbiamo già accontentato gli americani – come chiedeva pure Trump – e venduto il porto di Trieste non ai cinesi ma ai tedeschi di Amburgo. Come tutti i camerieri solerti anticipiamo le richieste del padrone. Gli Usa adesso, come “premio”, ci riportano nella Libia – che loro insieme a francesi e inglesi hanno distrutto – dopo che Di Maio di recente si è presentato a Tripoli con l’Eni, che una sua politica estera, sia pure ambigua, ce l’ha sicuramente più della Farnesina.

DRAGHI IN LIBIA. Perché adesso gli americani mandano Draghi in Libia? In Tripolitania siamo ospiti della Turchia che si oppone alla Russia di Putin. Quale è lo scopo? A Blinken, che nel 2011 fu un accesso sostenitore dei raid su Gheddafi, la presenza russa dà un enorme fastidio e l’Italia viene chiamata a fare il suo ruolo in funzione anti-russa. E vedrete che anche Erdogan, con un’economia collassata, potrebbe essere d’accordo con Washington. Il gioco si fa duro anche per noi se gli Stati uniti di Biden vogliono contrastare Putin proprio davanti a casa nostra. Ma da un pezzo, come dimostra anche il triste caso di Cuba, non abbiamo una vera e propria politica estera autonoma, nell’illusione, già ripetutamente naufragata, che gli altri possano proteggere i nostri interessi. Consoliamoci con Guantanamera, a tutto volume, con due ragazzi al bar.

Qualcuno guadagnerà dal caso Walter Biot (e non sarà l’Italia). Emanuel Pietrobon su Inside Over l'1 aprile 2021. La giornata del 31 marzo è stata monopolizzata dalla diffusione di una notizia che ha gettato nello sconcerto l’opinione pubblica e il governo Draghi: il Cremlino avrebbe adescato un ufficiale della Marina militare italiana, tal Walter Biot, persuadendolo a cedere informazioni riservate e classificate in cambio di denaro. Determinanti i problemi economici dell’uomo, provocati dalla pandemia e abilmente strumentalizzati da un reclutatore di stanza presso l’ambasciata russa a Roma. Colti sul fatto, ovverosia al momento dello scambio, i due hanno subito dei destini radicalmente differenti: il militare italiano è stato tradotto in carcere, da dove attenderà un processo per rivelazione di segreti militari a scopo di spionaggio, mentre l’omologo russo ed il suo superiore sono stati fatti oggetto di un ordine di espulsione da parte di Luigi di Maio, titolare della Farnesina. La domanda, come sempre in questi casi, è la seguente: Cui prodest? A chi giova il deterioramento delle relazioni bilaterali tra Cremlino e Palazzo Chigi in un momento delicato quale attuale? Sicuramente né all’Italia, entusiasticamente in fermento per la cooperazione vaccinale e un possibile lenimento delle sanzioni russe ai prodotti alimentari nostrani, né alla Russia, che si gioca la fiducia di una storica “voce amica” all’interno della Comunità euroatlantica, ma ad un insieme variegato di giocatori accomunati dall’obiettivo di aumentare le frizioni lungo l’asse Roma–Mosca.

Qualcosa non torna, parla Mori. Il 31 marzo ha avuto delle accezioni profondamente diverse per Italia, Austria, Francia e Germania, sebbene tutte legate alla Russia. Per noi il 31 marzo è la data dell’arresto del capitano di fregata Walter Biot, dato in pasto al pubblico il giorno dopo, per Vienna è la conferma dell’esistenza di un tavolo negoziale per l’acquisto di un milione di dosi di Sputnik V e per Berlino e Parigi è il giorno di una video-conferenza a tre fra Angela Merkel, Emmanuel Macron e Vladimir Putin durante la quale si è discusso di cooperazione multisettoriale. Il 31 marzo, in breve, è stato funesto soltanto per l’Italia, la cui timida corsa in direzione della Russia, nel nome della cooperazione vaccinale e della mitigazione dell’embargo alimentare, ha subito un brusco arresto. Come abbiamo spiegato in occasione dello scoppio dello scandalo spionistico, è altamente probabile che il Cremlino reagisca all’espulsione dei due funzionari in maniera simmetrica, oppure “asimmetrica al ribasso”, perché non è nel suo interesse un ulteriore deterioramento delle relazioni bilaterali con Roma. Se al caso seguiranno ritorsioni di una certa gravità, riguardanti Sputnik V, sanzioni e altri dossier, esse proverranno da parte italiana. Perché come ha spiegato Mario Mori, ex direttore del Sisde, c’è qualcosa che non torna nella vicenda: la canea (forse) voluta da qualcuno per ragioni politiche.

Cui prodest? Mori, non certo un dietrologo da bar, si è detto meravigliato dal “clamore” mediatico del caso, osservando come “potrebbe trattarsi della solita, banale lingua lunga di qualche nostro funzionario che parla con la stampa, però mi sembra strano, perché conosco quelli che lavorano in quel settore e non hanno la lingua lunga”. Conoscendo l’ambiente dello spionaggio e ricollegando la vicenda al clima guerrafreddesco che sta avvolgendo l’arena internazionale, ne consegue, secondo Mori, che potrebbe aver avuto luogo una “fuga di notizie” data da “qualche decisione a livello governativo, anche in un quadro di valutazione di politica generale”. L’ex direttore del Sisde non ha dubbi: “il caso è stato ingigantito, perché tutto sommato quell’ufficiale, un tenente colonnello con quella collocazione, non è che poteva avere i segreti della Nato”. Di nuovo, la domanda è sempre la stessa: cui prodest? L’ingigantimento del caso, con annesso un possibile deterioramento delle relazioni bilaterali tra Roma e Mosca, potrebbe giovare soltanto a quattro attori: Washington, Berlino, Parigi e la lobby atlantica nostrana. La stampa specializzata, del resto, ha già intravisto dei possibili messaggi subliminali nel caso Biot – il cui adeguato leveraggio potrebbe consentire al governo Draghi di reiterare alla Casa Bianca il fermo posizionamento atlantico dell’Italia, nonché di ridurre ulteriormente i sentimenti russofili di una certa area politica, ottenendo in cambio dei maggiori margini di manovra nel Mediterraneo –, ma non ha approfondito l’altra pista: quella di un possibile sabotaggio ordito tra Parigi e Berlino a danno della consolidata tradizione diplomatica dell’Urbe, in dialogo attivo (e proattivo) con Mosca anche ai tempi della Guerra Fredda. Il tempo aiuterà a comprendere chi ha perduto e chi ha guadagnato dal caso Biot, ma qualcosa già la sappiamo: presagi funesti ed eventi lugubri accadono ogniqualvolta fra Palazzo Chigi e Cremlino vi siano prove di riavvicinamento (il “Savoinigate” docet) e, del resto, mentre a Roma si piangeva, a Berlino e Parigi si rideva (in compagnia di Mosca). Mori ha sollevato dei dubbi legittimi; al pubblico l’onere di riflettere sulle zone grigie dello scandalo e di rammentare qual è il contesto che sta facendo da sfondo all’intera vicenda: la nuova Guerra Fredda.

La “richiesta” di Biden all’Italia: arriva la prova di fedeltà. Lorenzo Vita su Inside Over il 2 aprile 2021. Chi ha fatto uscire la notizia sull’arresto di Walter Biot e perché. Deve essere questa la domanda che bisogna porsi dopo che lo scandalo ha superato il recinto di via XX Settembre diventando di dominio pubblico. Perché se è vero che l’informazione è importante, e se è fondamentale per un Paese democratico che tutto sia fatto in modo trasparente e alla luce del Sole, è altrettanto evidente che un affaire di spionaggio non rientra tra le categorie fisiologicamente “trasparenti” di uno Stato. Le operazioni di intelligence esistono da quando probabilmente esiste una qualsiasi forma di potere. E l’Italia, territorio di caccia per le grandi potenze, non è mai stata estranea a questo genere di operazioni. Né può dirsi semplicemente vittima di questo gioco, avendo anche noi servizi segreti di livello assoluto.

Perché tanto clamore? Sgombrato il campo dalla sorpresa con cui molti sembrano aver scoperto che in Italia esistono le spie, il problema adesso è capire perché questo livello di segretezza che da sempre contraddistingue le operazioni di intelligence sia stato completamente infranto nel caso Biot. Cosa è scattato per rendere questo affaire di spie un affare di Stato? Chi ha dato il via a un’operazione mediatica senza precedenti sul fronte del controspionaggio? Le risposte probabilmente non arriveranno mai in via definitiva. Ma come in ogni analisi, bisogna partire dal “cui prodest”. Chi aveva interesse all’esplosione della bolla evitando che l’arresto e l’espulsione rimanessero un “gioco di spie” rinchiuso nei fascicoli delle procure e delle agenzie di sicurezza. Partiamo da un presupposto: non è la prima volta. Casi di tradimenti, ricatti, compravendita di dossier e uomini che passano al nemico sono abbastanza comuni nel mondo dell’intelligence. Lo ha spiegato in modo molto chiaro ad AdnKronos l’ex generale del Sisde Mario Mori, che infatti si meraviglia soprattutto del clamore. “Per come si è sviluppato e per le mie conoscenze del servizio segreto russo, in particolare del Gru, si tratta di un caso classico. Quello che mi meraviglia è perché si sia dato questo clamore al caso” dice Mori. E lancia la prima bordata: “Potrebbe trattarsi della solita, banale lingua lunga di qualche nostro funzionario che parla con la stampa, però mi sembra strano, perché conosco quelli che lavorano in quel settore e non hanno la lingua lunga. E allora forse c’è qualche decisione a livello governativo, anche in un quadro di valutazione di politica generale. Penso non si tratti, dunque, di una fuga di notizie, se non voluta. Credo, insomma, si tratti di una valutazione che deve aver fatto l’organo di governo”. L’intervista a Mori è lunga e tocca diversi punti, dalla definizione di “atto ostile” data da Luigi di Maio – “gli atti ostili li fanno tutti, anche gli americani, gli inglesi, i cinesi” – fino ai metodi del Gru, “sempre gli stessi” dice Mori. Ma il tema della scelta politica di fare uscire la notizia è qualcosa su cui vale la pena riflettere.

Un ordine dall’alto. L’impressione è che in questo caso abbia prevalso non tanto la trasparenza, che è sempre apprezzata, quanto l’utilità in termini di politica interna ed esterna. L’Italia aveva bisogno di un elemento per dimostrare qualcosa: un messaggio erga omnes che deve andare a mettere dei puntini sulle “i” non solo in ambito interno ma anche verso gli alleati del governo in ambito internazionale. E non è detto che l’ordine non sia partito proprio da Palazzo Chigi. Il Messaggero riferisce che “Mario Draghi ha voluto che l’arresto del militare italiano e il fermo del diplomatico russo venissero comunicati immediatamente ai presidenti delle commissioni Difesa ed Esteri e al Copasir. E che Di Maio ne chiedesse conto all’ambasciatore russo a Roma”. Tesi che a questo punto sembrerebbe accreditata dallo stesso Mori e da molti analisti. C’è un intento che va ben al di là del singolo caso. La questione è particolarmente importante se si ricordano due elementi. Il primo riguarda i partiti che sostengono l’attuale maggioranza. Due in particolare, Lega e Movimento 5 Stelle, sono sempre stati accusati di avere in qualche modo legami con la Russia. E questi rapporti sono stati una spada di Damocle importante per il governo giallo-verde del primo Conte, tanto è vero che come primo atto del nuovo corso giallorosso vi fu l’arresto di una spia russa proprio in Italia, Aleksander Korshunov. Segnale che non può essere considerato casuale. L’intento di accreditarsi come nuovo premier filo-americano serviva a Giuseppe Conte per evitare di rimanere in un’impasse molto pericolosa, specialmente per la nuova alleanza con il Partito democratico.

Atlantismo e i timori di Biden. Draghi rispetto a Conte viene da tutt’altra storia e ha un curriculum che parla da sé. Atlantismo ed europeismo sono stati da subito il marchio di fabbrica del nuovo esecutivo sostenuto dalla maggioranza trasversale. E non è un caso che il premier abbia usato quei termini dopo che per anni gli Stati Uniti hanno accusato Palazzo Chigi, tra le righe, di essere troppo tentennante. L’Italia arrivava dai camion militari russi a Bergamo e i medici cinesi accolti festosamente, ma quelle immagini raffiguravano rapporti amichevoli che a Washington non sono mai piaciuti E questo ha indubbiamente creato dei problemi all’interno dei palazzi romani e dei referenti Usa. Draghi non ha certo bisogno di dimostrare la sua convinzione nell’asse euro-atlantico: ma in questo senso l’arresto di Biot può servire anche a far capire ai suoi stessi alleati che in Italia non si accetteranno scivolamenti verso Oriente, sia che esso si chiami Pechino o che si chiami Mosca. E l’arrivo di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti non può che essere stato un momento di passaggio fondamentale. Un dato forse chiarisce più di tutti l’importanza dei partiti italiani nell’ottica della sfida americana alla Russia. Nel dicembre del 2017 uscì un articolo su Foreign Affairs a firma di Biden e del suo conigliere per l’Eurasia, Michael Carpenter, sulle infiltrazione di Mosca nella politica europea. Si parlava anche dell’Italia e venivano citati due partiti in particolare: Lega e Movimento Cinque Stelle. E fa riflettere che meno di quattro anni fa l’attuale presidente americano considerava i due più grandi partiti che sostengono di Draghi come elementi sostenuti dal Cremlino. Il mondo certamente è cambiato: ma la mentalità da Guerra Fredda di Biden evidentemente ha bisogno di alcuni simboli. Garanzie da parte di Roma che la visione atlantica non cambi, nonostante fughe in avanti verso la Via della Seta o Sputnik che di certo in molti non hanno apprezzato.

 (ANSA il 31 marzo 2021) - Un ufficiale della marina militare italiana è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo essere stato fermato assieme ad un ufficiale delle forze armate russe: entrambi sono accusati di gravi reati attinenti allo spionaggio e alla sicurezza dello Stato. L'intervento è avvenuto in occasione di un incontro clandestino tra i due, che sono stati sorpresi mentre l'ufficiale italiano cedeva all'altro dei documenti "classificati" in cambio di soldi. La posizione del cittadino straniero è tuttora al vaglio in relazione al suo status diplomatico. Il capitano di fregata della marina militare e l'ufficiale accreditato presso l'ambasciata della federazione russa sono stati fermati ieri sera. L''intervento è stato effettuato dai carabinieri del Ros, sotto la direzione della Procura di Roma, e l'attività informativa è stata condotta dall'Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, con il supporto dello Stato maggiore della Difesa. In relazione a quanto riportato dagli organi di stampa circa l'operazione condotta ieri dai carabinieri del ROS, sotto la direzione della Procura della Repubblica di Roma, la Farnesina rende noto che il Segretario Generale del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni, ha convocato al Ministero questa mattina - su istruzioni del Ministro Luigi Di Maio - l'Ambasciatore della Federazione Russa presso la Repubblica Italiana, Sergey Razov. Il capitano di fregata della marina militare arrestato avrebbe ceduto, tra i dossier riservati, anche documenti Nato all'ufficiale accreditato presso l'ambasciata della federazione russa. Al momento è attesa la convalida del fermo e sulla vicenda anche la Procura militare ha aperto un fascicolo. "Confermiamo il fermo il 30 marzo a Roma di un funzionario dell'ufficio dell'Addetto Militare. Si verificano le circostanze dell'accaduto. Per adesso riteniamo inopportuno commentare i contenuti dell'accaduto. In ogni caso ci auguriamo che quello che è successo non si rifletta sui rapporti bilaterali tra la Russia e l'Italia". Lo riferisce in una nota l'ambasciata russa a Roma. Cinquemila euro in contanti. E' quanto il militare dell'esercito russo avrebbe dato al capitano di fregata arrestato oggi in cambio di documenti militari classificati. Il denaro è stato sequestrato al momento dello scambio dopo l'intervento del Ros. In base a quanto si apprende i due si erano accordati anche su una cifra più bassa, circa quattromila euro, per la cessione di documenti avvenuta in passato. Nei confronti del militare italiano, attualmente detenuto, l'accusa è di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, spionaggio politico e militare, diffusione di notizie di cui è vietata la divulgazione.

Dagonews il 31 marzo 2021. Chi è Walter Biot, l'ufficiale della Marina arrestato per spionaggio? Il capitano di fregata, come rivela l'Ansa, era in servizio all'ufficio Politica Militare dello Stato maggiore della Difesa. In passato è stato il responsabile della Pubblica Informazione e Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali della Difesa quando era ministro Roberta Pinotti, durante il Governo Renzi. E' stato anche membro della Commissione esaminatrice del concorso per allievi marescialli della Marina militare. Entrò al ministero quando in sella c'era Ignazio La Russa (2008-2011). Oggi, al III Reparto, aveva compito di classificare i documenti.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 31 marzo 2021. L’ufficiale della marina militare italiana Walter Biot (un capitano di fregata) è stato arrestato nella serata di ieri, martedì 30 marzo, dai carabinieri del Ros, dopo essere stato fermato assieme ad un ufficiale delle forze armate russe. I due sono accusati di gravi reati attinenti allo spionaggio e alla sicurezza dello Stato.

L’intervento è avvenuto in occasione di un incontro clandestino tra i due, che sono stati sorpresi mentre l’ufficiale italiano cedeva all’altro dei documenti «classificati» in cambio di denaro.

Arrestato il capitano di fregata, l’ufficiale russo sarà espulso. L’ufficiale russo, che era in servizio presso l’ambasciata russa in Italia, è stato espulso dal ministero degli esteri italiano. Con lui verrà allontanato dall’Italia anche il suo diretto superiore: lo status di diplomatico impedisce infatti che possano essere arrestati. La Farnesina ha immediatamente convocato al ministero – su istruzioni del Ministro Luigi Di Maio - l’Ambasciatore russo Sergey Razov. Lo ha reso noto il Segretario Generale del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni. A Razov sono state comunicate le misure adottate dall’Italia. Dal canto suo l’ambasciata di Mosca a Roma ha auspicato - in una nota - che l’arresto del diplomatico russo non comprometta le relazioni tra i due Stati. «Per ora riteniamo inopportuno commentare accaduto» hanno aggiunto fonti dell’ambasciata.

Lo spionaggio anche ai danni della Nato. Walter Biot, il capitano di fregata della Marina militare accusato di avergli venduto documenti riservati è invece in carcere. Al momento dello scambio di quelle carte riservate avrebbe intascato 5.000 euro in contanti. L’esame del materiale sequestrato nell’appartamento del militare avrebbe già dimostrato che, oltre a dossier italiani, avrebbe passato documenti top secret della NATO mettendo quindi a rischio non soltanto la sicurezza nazionale, ma anche quella di altri Paesi. La prima segnalazione sui rapporti tra i due è arrivata qualche mese fa dall’Aisi, l’agenzia per la sicurezza interna guidata da Mario Parente e da quel momento sono scattate le procedure per i controlli dei movimenti dei due.

L’operazione dei Ros. Quando si è avuta la certezza del passaggio dei soldi e soprattutto di poter avere le prove dello spionaggio è scattata l’operazione del Ros che ha determinato il fermo dei due. Non è la prima volta che emergono rapporti tra italiani e russi per la cessione di materiale riservato. Finora era accaduto soprattutto per questioni industriali, il coinvolgimento del militare della Marina apre invece uno scenario inquietante sul quale anche il ministero della Difesa dovrà avviare verifiche.

Di Maio: «Grazie all’intelligence». Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha postato un messaggio su Facebook: «In occasione della convocazione al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale dell’ambasciatore russo in Italia, abbiamo trasmesso a quest’ultimo la ferma protesta del governo italiano e notificato l’immediata espulsione dei due funzionari russi coinvolti in questa gravissima vicenda. Ringrazio la nostra intelligence e tutti gli apparati dello Stato che ogni giorno lavorano per la sicurezza del nostro Paese.

Fabrizio Caccia per "il Corriere della Sera" l'1 aprile 2021. «Mio marito non voleva fottere il Paese, scusate la parola forte. E non l'ha fatto neanche questa volta, ve l'assicuro, ai russi ha dato il minimo che poteva dare. Niente di così compromettente. Perché non è uno stupido, un irresponsabile. Solo che era disperato. Disperato per il futuro nostro e dei figli. E così ha fatto questa cosa...». Claudia Carbonara, 54 anni, psicoterapeuta specializzata in sessuologia clinica, esperta di terapie individuali e di coppia, è la moglie di Walter Biot, il capitano di fregata sorpreso dai Ros a vendere segreti militari ai russi in un parcheggio di Roma. Quando squilla il telefono, nella loro casa di Pomezia, a rispondere subito è la figlia più grande. La voce sofferente, sua madre è vicino a lei, un attimo di esitazione poi le passa il ricevitore. La donna è confusa, sconvolta, si contraddice più volte. Ma alla fine le sue risposte sembrano dimostrare fosse consapevole che il marito aveva deciso di collaborare con i russi.

Ma perché Biot era così disperato, dottoressa Carbonara?

«Guardi, io so che Walter era veramente in crisi da tempo, aveva paura di non riuscire più a fronteggiare le tante spese che abbiamo. L'economia di casa. A causa del Covid ci siamo impoveriti, lo sa?».

Suo marito, però, non fa il ristoratore. Lavora allo Stato maggiore della Difesa. Ha uno stipendio fisso, anche di buon livello. Si parla di 3 mila euro al mese.

«Sì tremila euro, ma non bastavano più per mandare avanti una famiglia con 4 figli 4 cani, la casa di Pomezia ancora tutta da pagare, 268 mila euro di mutuo, 1.200 al mese. Eppoi la scuola, l'attività fisica, le palestre dei figli a cui lui non voleva assolutamente che dovessero rinunciare».

Si è venduto per 5 mila euro?

«Noi viviamo per i figli, abbiamo fatto sempre tanti sacrifici per loro. Niente vizi, niente lussi, attenzione, solo la vita quotidiana che però a lungo andare fa sentire il suo peso».

E questo secondo lei giustifica la decisione di passare segreti militari ai russi?

«Guardi, se solo me ne avesse parlato ne avremmo discusso insieme, avrei provato a dissuaderlo. Invece ha deciso tutto da solo e adesso è un giorno e mezzo che non lo vedo, davvero è a Regina Coeli? Non riesco a parlarci, non riesco nemmeno a trovargli un avvocato».

Tra i colleghi di suo marito si dice anche che fosse alla ricerca di denaro per curare la vostra bambina più fragile, tanto bisognosa di cure.

«È vero, lui è un padre meraviglioso, affettuoso, sempre presente. Ma no, la piccola per fortuna è tutelata, non era questo il problema economico più grande da fronteggiare».

E allora qual era?

«Non riuscivamo ad andare avanti, a campare».

I colleghi hanno detto anche di essere rimasti spiazzati, disorientati.

«Ma certo, lui per 30 anni c'è sempre stato, ha servito il Paese, dalla Marina alla Difesa, a bordo delle navi come davanti a una scrivania. Walter si è sempre speso per la patria e lo ribadisco: anche se ha fatto quello che ha fatto sono sicura che avrà pensato bene a non pregiudicare l'interesse nazionale. Non è uno stupido, lo ripeto».

Ora cosa teme?

«Temo la gogna mediatica, soprattutto. Chi non lo conosce lo ha già condannato, lo ha già crocifisso».

Traditore della patria.

«No, lui la patria l'ha servita».

C. Man. per "il Messaggero" il 31 marzo 2021. Lavoro e famiglia, per tanti anni è stata soprattutto questa la vita del capitano di fregata Walter Biot, 55 anni, romano. Quattro figli, una moglie psicoterapeuta e quella nomina a capitano di vascello che non è mai arrivata. Finché non cambia qualcosa: l'arrivo del Covid e la figlia gravemente ammalata, la casa a Pomezia è una spesa continua per via delle ristrutturazioni in corso. Cominciano i debiti e l'ufficiale marinaio diventa una preda facile. Viene agganciato da spioni russi e finisce nei guai. «Abbiamo problemi economici - si sfoga la moglie Claudia -. Se mio marito ha sbagliato, l'ha fatto per aiutare la famiglia. È uscito e mi ha detto che sarebbe tornato a casa per la cena. Il tempo di andare a rinnovare il pass per il parcheggio per disabili di nostra figlia». Ma non è tornato. Negli ultimi tempi, il marinaio di fregata era «ansioso e preoccupato». «Non so nulla dei russi - aggiunge la donna -, so che se Walter ha sbagliato è perché abbiamo problemi economici a causa del Covid. Ha agito d'impulso. Non riesco a parlargli da giorni. Sono venuti qui e hanno portato via tutti i documenti, ma lui non è una spia». Ora chi lo conosce, stenta a credere che possa essersi venduto «per quattro denari». Ha occupato tanti posti all'interno della Difesa e tutti senza mai ombre. L'ultimo incarico era quello più prestigioso, quello che gli consentiva di maneggiare documenti importanti: III Reparto dello Stato maggiore della Difesa, ufficio Politica militare e pianificazione. Praticamente dove passa ogni documento classificato e segretissimo, non soltanto italiano ma anche straniero. Settore molto delicato, il suo, ai più alti livelli dello strumento militare. Lo staff del suo ufficio, infatti, concorre a formare le direttive politiche in tema di sicurezza e difesa e poi le traduce in direttive tecnico-militari. Non solo, tra gli altri compiti ha anche quello di gestire le relazioni internazionali riconducibili al capo di Stato maggiore della Difesa e di elaborare le linee d'azione in materia di distensione e disarmo, oltre a fornire consulenza nelle trattative internazionali di interesse militare. Insomma, tanti dossier scottanti, quasi tutti riferiti alla Nato. Biot aveva intrapreso da ragazzo la carriera militare in Marina ed era diventato sottufficiale. Poi, con un concorso interno, il passaggio tra gli ufficiali. Proprio da ufficiale del ruolo speciale si è qualificato guida caccia che, in gergo tecnico, vuol dire militari addetti alle operazioni aeree nelle loro varie forme, dalla gestione radar al controllo e alla guida, appunto, dei caccia intercettori. Per molti anni - proprio in seguito a questa sua specializzazione - è stato imbarcato, prima su cacciatorpedinieri poi sulla portaerei Garibaldi. E il suo ruolo lo ha portato a raffrontarsi con chi lavora nelle centrali operative, con chi maneggia documenti riservati e accede a dati classificati: 007, esperti di intelligence. È intorno al 2008 che cambia mestiere e da ruoli operativi passa all'ufficio stampa dello Stato maggiore della Marina militare. A dicembre 2010 lavora nel gabinetto del ministro della Difesa che, all'epoca è Ignazio Larussa. Fino all'agosto 2015, quando entra a far parte della sezione internazionale della Pubblica informazione del ministero di via XX settembre, periodo durante il quale al dicastero si sono alternati diversi ministri. Nello stesso anno l'ufficiale arriva al III Reparto rivestendo un ruolo determinante: la classificazione della documentazione riservata. È a lui che spetta decidere che grado di segretezza dare a un atto. Un lavoro di grande responsabilità che gli consente di conoscere anche buona parte dei segreti militari italiani e stranieri. Ed è per questo, forse, che da Washington si sono affrettati a dire che Biot ha passato al nemico i sistemi di telecomunicazione militare, «carte non troppo importanti» e che non ci sono rischi per la sicurezza. Dal suo computer, comunque il capitano di fregata poteva consultare i piani di intervento nelle principali operazioni militari, dall'Afghanistan al Libano, dall'Iran, all'Africa, comprese quelle zone del Sahel e del Mediterraneo, dove si stanno pianificando nuove strategie. Territori sui quali la Russia sembra aver indirizzato parecchie attenzioni. Oggi Biot verrà interrogato dal giudice per l'udienza di convalida. L'atto istruttorio, a causa dell'emergenza coronavirus, si svolgerà da remoto dal carcere di Regina Coeli.

Si accende la tensione Italia- Russia. Ufficiale arrestato per spionaggio, i colleghi: “Era a corto di denaro con una figlia malata”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Aprile 2021. I carabinieri del Ros lo hanno colto con una scatola di cioccolatini contenente 5mila euro e documenti riservati forse trafugati dal data base dello Stato Maggiore di Difesa. La spy story che coinvolge due ufficiali, un italiano finito in carcere e un russo, che ha evitato l’arresto solo grazie allo status di diplomatico accende la tensione Italia- Russia. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha convocato l’ambasciatore russo Sergey Razov e notificato l’espulsione di due funzionari russi coinvolti nella vicenda che definisce senza mezzi termini “gravissima”. I fatti risalgono alla tarda serata di martedì: i carabinieri del Ros, sotto la direzione della procura della Repubblica di Roma, arrestano in flagranza di reato i due ufficiali. L’italiano di chiama Walter Biot, è capitano di Fregata della Marina militare, in servizio presso lo Stato maggiore della Difesa dove ha accesso a documenti riservatissimi che riguardano anche la Nato. L’ufficiale russo riceve i documenti e dà il denaro: il blitz dei militari del Ros scatta proprio nel momento dello scambio tra i due, che i reati contestati sono spionaggio e rivelazione del segreto. L’indagine era in piedi da tempo, sotto il coordinamento di Aisi (Agenzia informazioni sicurezza interna) e Stato Maggiore di Difesa. Ieri l’accelerazione, dopo che gli inquirenti hanno saputo dell’incontro tra i due, e la decisione di intervenire sul luogo dell’appuntamento, fissato di notte. La notizia scatena una caso diplomatico tra Italia e Russia, con il ministro Di Maio che convoca l’ambasciatore Razov “per trasmettere con forza la ferma protesta” e notificare l’espulsione dei due funzionari russi. Dopo l’incontro alla Farnesina, in cui il ministro Di Maio ha trasmesso “con forza la ferma protesta” e notificato l’espulsione dei due funzionari russi, arriva il commento dell’ambasciatore Razov che si dice “rammaricato” per l’espulsione dei due “proclamati persone non-grate” con “l’augurio che l’accaduto non si rifletta sui rapporti” tra i due Paesi. A stretto giro arriva la risposta di Mosca che annuncia “possibili passi” già allo studio, in risposta a una situazione definita “non adeguata al livello delle relazioni bilaterali”. Intanto proseguono le indagini, mentre Biot, in carcere a Regina Coeli comparirà domani davanti al magistrato per l’interrogatorio di convalida.

I PROBLEMI PERSONALI – Sposato con quattro figli, Biot dal racconto dei colleghi riportato dal Corriere della Sera Biot era un insospettabile. “I russi devono aver lavorato molto bene sulla sua debolezza, sui problemi personali di Walter”, raccontano. L’uomo era afflitto dai problemi di salute di sua figlia, una bambina affetta da handicap grave e bisognosa di cure continue e costose, di un’assistenza totale, per cui lui fruiva anche della Legge 104. Molti sapevano che aveva bisogno di soldi. Se le accuse dovessero essere confermate rischia almeno 15 anni di carcere. “Da ore non facciamo che chiederci: possibile?— racconta un ex collega — È come se ti dicessero che una persona di cui ti fidavi ha commesso un’enormità. Perché per noi Walter era l’amico di cui non si dubita di nulla. Scherzoso, appassionato, aveva gli occhi che parlavano da soli”.

La spy story italo-russa. Spionaggio in Italia: chi è Walter Biot, l’ufficiale della Marina che vendeva segreti ai russi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Il suo compito era quello decretare la sicurezza dei documenti dello Stato maggiore di Difesa. Invece, secondo quanto appurato dai carabinieri del Ros, il capitano di Fregata della Marina militare, avrebbe intascato soldi in cambio della cessione di documenti riservati a un ufficiale accreditato presso l’Ambasciata della federazione Russa. È la vicenda che riguarda Walter Biot, l’alto ufficiale arrestato questa mattina e tradotto nel carcere romano di Regina Coeli per una incredibile spy-story che rischia di creare forti tensioni nei rapporti tra Italia e Russia. Biot sarebbe stato colto dai carabinieri nell’atto di passare all’ufficiale russo documenti “classificati” in cambio di denaro. Non solo. Dall’esame di altro materiale sequestrato nell’appartamento dell’ufficiale romano sarebbe emerso che, oltre a documenti italiani, sarebbero stati passati al funzionario russo anche dossier della NATO: in questo modo si sarebbe messa a rischio la sicurezza nazionale di altri Paesi, non solo l’Italia. La lunga indagine è stata condotta dal Ros con l’Agenzia Informazioni Sicurezza Interna (Aisi), con il supporto dello Stato Maggiore della Difesa. Dall’ufficio di Biot passavano documenti riservati, compresi come già accennato quelli della Nato: il capitano di Fregata della Marina militare potrebbe dunque aver venduto alla Russia dei carteggi sulle missioni internazionali compiute dall’Alleanza atlantica, tra cui gli interventi militar in Afghanistan e Iraq. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera, Biot nel 2014 lavorava nell’ufficio relazioni esterne della Difesa, all’epoca ministero guidato da Roberta Pinotti, successivamente invece è stato trasferito passando ad un incarico “importante e delicato”, nell’ufficio Politica Militare, ruolo per cui aveva accesso ai file venduti. L’alto ufficiale italiano è accusato di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, spionaggio politico-militare, spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione. Per non farsi smascherare Biot avrebbe fotografato documenti militari classificati dal monitor del computer e poi li avrebbe scaricati in una pen-drive da consegnare all’ufficiale delle forze armate russe. LA REAZIONE POLITICA – Immediata la reazione della Farnesina col ministro degli Esteri Luigi di Maio che ha parlato di un atto ostile di estrema gravità e ha disposto prima la convocazione dell’Ambasciatore della Federazione Russa Razov e poi l’espulsione di due funzionari di Mosca. “Su mie istruzioni, la segretaria generale Belloni ha convocato al ministero questa mattina l’Ambasciatore della Federazione Russa Razov per trasmettere con forza la nostra ferma protesta e notificare l’espulsione di due funzionari russi accreditati presso l’Ambasciata della Federazione Russa a Roma – sottolinea Di Maio -. Lasciatemi sottolineare che si tratta di un atto ostile di estrema gravità e quindi abbiamo assunto immediatamente i provvedimenti necessari. Vorrei ringraziare per questa operazione la magistratura, i Ros, l’intelligence e tutte le autorità che hanno collaborato”. L’Ambasciata russa in Italia ha presto commentato l’accaduto: “Nel corso del colloquio la parte italiana ha informato che due funzionari dell’ufficio dell’addetto militare presso l’Ambasciata Russa a Roma sono stati proclamati persone non-grate. L’Ambasciatore ha espresso il rammarico in merito a questa decisione e l’augurio che l’accaduto non si rifletti sui rapporti Italo-russi”. Anche Mosca ha subito reagito preannunciando delle risposte alla mossa di Roma. Il ministero degli Esteri russo ha dichiarato che “possibili passi, in relazione alla situazione non adeguata al livello delle relazioni bilaterali, saranno annunciati in seguito”.

L’ufficiale russo sarà espulso assieme al suo superiore. Spionaggio, arrestato un militare italiano: “Vendeva documenti ai russi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Arrestato un alto ufficiale della marina militare italiana dopo essere stato fermato con un ufficiale delle forze armate russe. I due sono accusati di gravi reati attinenti allo spionaggio e alla sicurezza dello Stato. Un’operazione senza precedenti: non si verificava un’indagine di contro-spionaggio di tali dimensioni dai tempi della Guerra Fredda, prima della caduta del Muro di Berlino. Stando a quanto emerso dalle indagini il militare, Walter Biot, sarebbe stato colto in flagrante mentre cedeva dei documenti. L’operazione dei carabinieri del Ros in occasione di un incontro clandestino tra i due. Il militare sarebbe stato colto nell’atto di passare all’altro documenti “classificati” in cambio di denaro. Il capitano di fregata è stato pedinato a Roma, dove è avvenuto lo scambio di documenti riservati in cambio di una cifra di circa 5mila euro. Dall’esame di altro materiale sequestrato nell’appartamento dell’ufficiale romano sarebbe emerso che, oltre a documenti italiani, sarebbero stati passati al funzionario russo anche dossier della NATO: così si è messo a rischio la sicurezza nazionale di altri Paesi, non solo l’Italia. La lunga indagine è stata condotta dal Ros con l’Agenzia Informazioni Sicurezza Interna (Aisi), con il supporto dello Stato Maggiore della Difesa. Il capitano di fregata Biot era stato in servizio nello Stato Maggiore della Difesa, il comando di tutte le forze armate che ha sede in via XX Settembre a Roma. In relazione all’indagine, il Segretario Generale del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni, ha convocato al Ministero questa mattina – su istruzioni del Ministro Luigi Di Maio – l’Ambasciatore della Russia in Italia Sergey Razov. Con un messaggio su Facebook il ministro degli Esteri ha comunicato “l’immediata espulsione dei due funzionari russi” coinvolti “in questa gravissima vicenda”. Assieme all’ufficiale russo è stato allontanato infatti anche il suo direttore superiore: lo status di diplomatico impedisce infatti che possano essere arrestati. I ‘PRECEDENTI’ – Un’operazione da Guerra Fredda, come si accennava: l’ultima, di questo tipo, di controspionaggio, nel 1989 riguardava i piani del Patto di Varsavia per carpire i documenti dalla Oto Melara di La Spezia, l’azienda produttrice di cannoni e mezzi corazzati, e di un’azienda triestina che collaborava al progetto di un sistema di comunicazioni della Nato. Operazione che coinvolse agenti del Kgb sovietico e dell’intelligence bulgara che riuscirono a sottrarsi agli arresti con un carabiniere italiano. Nel 2016, sempre a Roma, l’arresto di un diplomatico portoghese che stava per vendere piani di azione della Nato a un funzionario russo, Sergey Nicolaevich Pozdnyakov. A fine agosto 2020 la cattura di un colonnello francese in servizio nel comando dell’Alleanza Atlantica di Napoli, per via di una collaborazione rimasta top secret.

Walter Biot spia per i russi, il retroscena: "Conoscevano la sua debolezza". Dramma privato: perché aveva bisogno di soldi. Libero Quotidiano l'1 aprile 2021. Ci sarebbe un dramma personale dietro la scelta di Walter Biot, capitano di fregata e ufficiale della Marina militare italiana, di "vendersi" ai russi passando a Mosca documenti "classificati". Uno scandalo internazionale (la Farnesina ha minacciato duri provvedimenti con il governo di Mosca) che sarebbe partito da una vicenda strettamente privata. "I russi devono aver lavorato molto bene sulla sua debolezza, sui problemi personali di Walter", spiega al Corriere della Sera un ufficiale che lo conosce bene. E anche questo, in fondo, è inquietante: come facevano a sapere gli agenti del servizio segreto russo, dei problemi di salute della figlia di Biot, affetta da un grave handicap e per la quale il militare fruiva anche della Legge 104? Risposta, in fondo, semplice: è il lavoro delle spie, carpire segreti. Siano personali e privati o di Stato, e spesso le due cose possono andare a braccetto. "Il suo bisogno di soldi si conosceva", confermano dagli ambienti militari, "sapevamo che non godesse di disponibilità economica". Eppure Biot era un insospettabile, a partire dal suo curriculum. Lavorava all’ufficio Politica Militare e Pianificazione dello Stato Maggiore della Difesa, Terzo reparto, tra le sue mani passavano alcuni dei dossier più scottanti. Era diventato ufficiale attraverso i concorsi interni, capitano di corvetta e "guida caccia", imbarcato sui cacciatorpedinieri e sulla portaerei Garibaldi. Quindi la promozione a ufficio stampa allo Stato maggiore della Marina militare. "Per noi - raccontano al Corriere - Walter era l’amico di cui non si dubita di nulla. Scherzoso, appassionato, aveva gli occhi che parlavano da soli". Dal 2010 al 2015 ha lavorato presso il Gabinetto del ministro della Difesa, a palazzo Baracchini, capo della sezione relazioni internazionali del servizio pubblica informazione. Quindi il salto finale, allo Stato maggiore della Difesa, prima alla pubblica informazione, poi alla Politica militare, con le consulenze nelle trattative di interesse militare tra i Paesi, in materia di distensione e disarmo. Sposato, 4 figli, casa fuori Roma. Tutto gettato al vento nel momento in cui il controspionaggio lo ha colto in flagrante nell'atto di intascarsi 5.000 euro in contanti. "Quello che ha fatto rimane un atto gravissimo per la sicurezza del Paese e della Nato, se si è davvero venduto non ci sono scusanti e così adesso si è rovinato la vita, rischia almeno 15 anni di carcere". 

Spionaggio Russo, il militare arrestato lavorava per la Difesa quando c'era Roberta Pinotti: il passato di Walter Biot. Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. Walter Biot, l'ufficiale della Marina arrestato per spionaggio, era in servizio all'ufficio Politica Militare dello Stato maggiore della Difesa. Secondo quanto scrive Dagospia, ha lavorato anche come responsabile della Pubblica Informazione e Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali della Difesa quando era ministro Roberta Pinotti. Biot è stato anche membro della Commissione esaminatrice del concorso per allievi marescialli della Marina militare. Entrò al ministero quando c'era Ignazio La Russa (2008-2011). Oggi, al III Reparto, aveva compito di classificare i documenti. Questo il profilo dell'ufficiale della Marina accusato di spionaggio che sta creando un incidente diplomatico tra Russia e Italia. Intanto la Farnesina ha immediatamente convocato al ministero l'ambasciatore russo Sergey Razov. A Razov sono state comunicate le misure adottate. Anche se l’ambasciata russa  - in una nota - si augura "che l’arresto del diplomatico russo non comprometta le relazioni tra i due Stati. Per ora riteniamo inopportuno commentare l'accaduto", dicono da Villa Abamelek sull'Aurelia sede diplomatica della Russia. Non è la prima volta che emergono rapporti tra italiani e russi per la cessione di materiale riservato. Finora era accaduto soprattutto per questioni industriali, il coinvolgimento del militare della Marina apre invece uno scenario inquietante sul quale anche il ministero della Difesa dovrà avviare verifiche. Nel frattempo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha postato un messaggio su Facebook: "In occasione della convocazione al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale dell’ambasciatore russo in Italia, abbiamo trasmesso a quest’ultimo la ferma protesta del governo italiano e notificato l’immediata espulsione dei due funzionari russi coinvolti in questa gravissima vicenda. Ringrazio la nostra intelligence e tutti gli apparati dello Stato che ogni giorno lavorano per la sicurezza del nostro Paese". Una vicenda dai lati oscuri che apre scenari anche sui rapporti con la Russia, dopo che Draghi è stato escluso dal vertice Russia-Ue. E che sembre direttamente uscita da una serie tv.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it l'1 aprile 2021. «Non avevo alcun interesse politico o ideologico. Non ho mai messo a rischio la sicurezza dello Stato, non ho fornito alcuna informazione di rilievo. Non ho dato alcuna informazione classificata. Non ho mai fornito documenti che potessero mettere in pericolo l’Italia o altri Paesi». Sono le parole che Walter Biot ha affidato al suo avvocato Roberto De Vita che lo incontrato a Regina Coeli. «Io ho quattro figli, il primogenito che non lavora, due figlie che studiano e la più piccola che ha una grave malattia e necessita di cure particolari. Ho sbagliato ma l’ho fatto per la mia famiglia. Ho avuto un momento di grandissima debolezza e fragilità. Sono stato coinvolto in un meccanismo più grande di me. Avevo un debito che non riuscivo a ripagare». «Parlerò con i magistrati, voglio rispondere e raccontare tutto», ha detto al suo legale. «È una storia semplice fatta di grande tristezza per grave difficoltà familiare. Oltre ad essere giudicata deve essere compresa», dichiara l’avvocato al termine del colloquio. Nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice gli contesta di aver “venduto” «181 foto di materiale classificato, 9 documenti bollati come “riservatissimo” e 47 documenti segreti provenienti dalla Nato». Dal suo “contatto russo Biot avrebbe ricevuto 4 smartphone».

Per il giudice potrebbe reiterare il reato. Walter Biot era in contatto con i russi da 5 mesi: incastrato da un video, aveva 4 smartphone e vari Pc. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Aprile 2021. La frequente presenza dei due diplomatici russi Aleksej Nemudrov, addetto militare dell’ambasciata, e Dmitrij Ostroukhov, addetto per l’esercito, nelle sale di Palazzo Esercito, sede dello Stato Maggiore Difesa, non era passata inosservata. E nemmeno i contatti con il capitano Walter Biot. Tanto che nel suo ufficio e nell’auto i carabinieri del Ros avevano piazzato pulci e telecamere nascoste. Un video avrebbe incastrato Biot mentre nel suo ufficio fotografava documenti segreti da passare ai russi. Come riportato dal Corriere della Sera, nel video datato 25 marzo 2021, si vede Biot che seduto al Pc scatta fotografie allo schermo. Una volta finito estrae la scheda dal telefono e la nasconde in una scatola di medicine. Poi va via. Quella stessa schedina sarà ritrovata il 30 marzo addosso a Dmitrij Ostroukhov che aveva agganciato Biot e pagato 5mila euro per farsi consegnare le carte. Si tratta di “181 foto di materiale in gran parte classificato come ‘riservatissimo’ di cui 47 file ‘Nato secret’ classificati come ‘segreti’”. L’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice di Roma racconta una storia di spionaggio iniziata almeno 5 mesi fa quando Biot fu agganciato dai due diplomatici russi durante un ricevimento in Ambasciata. Biot aveva bisogno di soldi e questo i russi lo avevano capito. Così nasce il sodalizio. Gli specialisti del controspionaggio dell’Aisi, l’Agenzia per la sicurezza interna guidata dal generale Mario Parente, si accorgono che Ostroukhov è sospetto e cominciano a monitorarlo. Si accorgono degli incontri con Biot. Ostroukhov periodicamente prende la metro fino all’Eur, sale su un autobus e arriva a Spinaceto, fa alcuni giri a piedi per controllare di non essere pedinato poi sale sull’auto di Biot e insieme raggiungono il parcheggio di un supermercato. Poi l’ultimo appuntamento: i carabinieri osservano da lontano l’incontro poi entrano in azione e trovano Ostroukhov con la schedina in tasca e Biot con 5mila euro in contanti nella valigetta. Biot aveva quattro cellulari dedicati alle loro conversazioni e svariati Pc, tanto che il giudice evidenzia la possibilità che “reiteri il reato dal numero di computer e smartphone in suo possesso a dimostrazione che non si tratta di attività isolata e sporadica”. E ancora: “Le modalità esecutive e la natura della vicenda mostrano in maniera palmare l’estrema pericolosità del soggetto stante la professionalità dimostrata nel compimento delle suddette azioni desumibili dai numerosi apparecchi utilizzati, dalle tempistiche e dagli accorgimenti adottati”. Per il giudice gli appuntamenti e la modalità degli incontri “sono sintomatici dello spessore criminale dell’indagato che tra l’altro non si è posto alcuno scrupolo nel tradire la fiducia dell’istituzione di appartenenza al solo fine di conseguire profitti di natura economica”. Le indagini chiariranno se Biot ha trasmesso altre informazioni in cambio di soldi Aleksej Nemudrov, e Dmitrij Ostroukhov, sono stati reimpatriati. La Russia probabilmente non sarà clemente con chi ha messo a repentaglio la rete di spionaggio che in questi anni le tre agenzie della Federazione — SVR, GRU, FSB — hanno steso in Italia. Almeno un’ottantina di operativi, un terzo della forza diplomatica russa accreditata nel nostro Paese.

Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera il 3 aprile 2021. Un incontro al mese senza telefonate o contatti preventivi. Era questa la modalità concordata tra il capitano Walter Biot e Dmitri Ostroukhov, il diplomatico russo che l'aveva agganciato nel novembre scorso, per la consegna di documenti riservati dello Stato Maggiore della Difesa. L'informativa dei carabinieri del Ros allegata agli atti dell'inchiesta rivela i dettagli dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ufficiale italiano e all'espulsione immediata decisa dalla Farnesina dei suoi referenti di Mosca: lo stesso Ostroukhov e il suo diretto superiore Alexey Nemudrov. Il sospetto degli investigatori è che Biot fosse soltanto una delle «fonti» reclutate e per questo sono già state avviate verifiche sugli altri contatti dei due diplomatici, addetti militari dell'ambasciata russa a Roma. Ieri il capo della diplomazia del Cremlino in Italia Sergey Razov ha provato a smorzare la tensione resa altissima dall'operazione condotta dagli specialisti dell'Aisi, l'Agenzia per la sicurezza interna guidata dal generale Mario Parente, parlando di «episodio spiacevole che non deve influire negativamente sulle relazioni complessivamente costruttive tra i nostri Paesi». Ma dal carcere Biot ha chiesto di essere interrogato dai magistrati e le sue rivelazioni potrebbero aprire scenari nuovi e inquietanti in una vicenda segnata da molti punti ancora oscuri. Agli atti dei carabinieri del Ros coordinati dal generale Pasquale Angelosanto c'è la ricostruzione di quanto avvenuto martedì 30 marzo quando Ostroukhov scende dalla metropolitana al laghetto dell'Eur, zona a sud della Capitale, prende l'autobus, arriva nel parcheggio di un supermercato a Spinaceto dove lo attende Biot. Il capitano entra nel supermercato, acquista alcuni prodotti e poi sale in macchina dove lo raggiunge il russo. In quel momento avviene lo scambio: una scheda Sd caricata con 181 foto di documenti classificati per 5.000 euro in banconote da 50 euro. L'ultimo di una serie di appuntamenti sempre uguali. Per tre volte Biot è stato filmato mentre fotografava il computer con il suo smartphone: il 18, il 23 e il 25 marzo. Azioni preparatorie all'appuntamento del 30 marzo. Ma che cosa è accaduto prima? Quali altri documenti ha portato ai russi per dimostrare la propria affidabilità? L'attività di controspionaggio svolta a partire dal novembre scorso avrebbe documentato gli altri incontri. Adesso bisogna scoprire quali segreti Biot abbia venduto, quali informazioni lo abbiano trasformato in una pedina utile agli interessi di Mosca. Senza escludere che il governo possa decidere di apporre il segreto di Stato sui documenti, proprio per evitare ulteriori danni alla sicurezza dell'Italia e rispetto ai rapporti con gli alleati visto che nell'elenco dei dossier memorizzati nella scheda ci sono anche atti classificati della Nato. Il sospetto è che Biot non fosse l'unica «fonte» reclutata dai russi: altri suoi colleghi o comunque ufficiali impiegati in uffici strategici potrebbero essere stati agganciati dai due diplomatici di Mosca con le stesse modalità e con promesse di retribuzione anche più elevate. Ieri il capitano della Marina Militare ha incontrato in carcere il suo avvocato Roberto De Vita e ha depositato l'istanza per essere interrogato: «Ho sbagliato, travolto dai problemi della mia famiglia ho commesso un errore grave ma non ho messo a rischio il mio Paese perché io non avevo un accesso di alto livello, gli atti che ho ceduto erano comunque rintracciabili anche in altro modo. Sono comunque pronto a chiarire ogni dettaglio». Il procuratore Michele Prestipino e i magistrati delegati all'inchiesta decideranno dopo le festività pasquali se accogliere la richiesta ma l'avvocato De Vita tenta di ridimensionare il ruolo dell'ufficiale: «I documenti classificati non possono essere fotografati, ma solo stampati. Questa storia è molto diversa da come appare, molto più banale». Una linea di difesa che al momento si scontra con le decisioni prese dal governo e con la reazione di Mosca. E deve fare i conti con l'inchiesta già avviata dalla procura militare che sta esaminando gli atti e delegato nuove verifiche ai carabinieri. Biot - indagato per rivelazione di segreti militari a scopo di spionaggio - rischia l'ergastolo. Quanto basta per comprendere quanto alta sia la posta in gioco. E soprattutto come l'operazione dell'Aisi sia servita a lanciare un messaggio chiaro alla rete di spie che agiscono nel nostro Paese e a tutti coloro che, impiegati in posti strategici, potrebbero aver deciso di mettersi al servizio delle potenze straniere.

Estratto dell'articolo di Floriana Bulfon, Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su la Repubblica il 3 aprile 2021. Aleksej Nemudrov e Dmitri Ostroukhov sono rientrati a Mosca come turisti qualunque. Dopo l'arresto del capitano di fregata Walter Biot, la loro talpa nello Stato Maggiore Difesa, e dopo aver appreso dal governo italiano di non essere più ospiti graditi, giovedì scorso a mezzogiorno e mezzo si sono imbarcati su un volo di linea. In silenzio, lo sguardo piantato a terra. Non c'era nessuno a salutare i due ufficiali del Gru (il servizio di spionaggio militare estero), mentre salivano le scalette dell'Airbus A320 dell'Aeroflot sulla pista di Fiumicino. Ed è curioso. Perché Aleksej Nemudrov di amici, in sette anni di lavoro in Italia (dal 2003 al 2005 come addetto di marina dell'ambasciata russa, e dal gennaio 2017 fino a giovedì scorso come addetto militare), se n'era fatti parecchi. Soprattutto tra quegli imprenditori del Nord Italia desiderosi di un "lasciapassare" per ampliare il raggio del proprio business nei confini della Federazione. Soprattutto, dunque, tra chi di quel mondo si diceva rappresentante e portatore di interessi.(...) Il suo nome, già da tempo, è finito nel radar dei nostri servizi di intelligence. Lo seguono, sanno come si muove, ne conoscono le capacità relazionali. L'alto ufficiale della marina russa dissemina contatti in tutto il Paese, parla un ottimo italiano, sa come approcciare le associazioni degli imprenditori, stringe legami con uomini che gravitano attorno alla politica. Di un partito in particolare: la Lega di Salvini, il quale non ha mai nascosto la passione per "l'amico Putin" e il rigetto per chiunque sollevi sospetti di ingerenze del Cremlino. Risultano diverse frequentazioni tra Aleksej e l'entourage di Savoini, protagonista dello scandalo del Metropol e di una fittizia compravendita di petrolio. E tra Aleksej e consorzi imprenditoriali, vicini alla Lega, attivi nella mediazione di investimenti e trattative commerciali con la Russia.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" l'1 aprile 2021. Quella che ai vertici dell'intelligence italiana chiamano una «escalation» dell'attività aggressiva dello spionaggio russo in Italia si è intensificata nell'anno del governo Lega-M5S, e ha avuto un punto di svolta ulteriore nei controversi marzo e aprile del 2020, quelli della missione degli «aiuti russi in Italia» per il Covid. A cavallo di questi due snodi, l'Italia è diventata il teatro di una serie di operazioni di una «cellula» di intelligence russa nel Belpaese, della cui attività la vicenda degli arresti e delle due espulsioni di martedì sera è solo «la punta dell'iceberg». Un iceberg russo sul Tevere. Secondo Mark Galeotti, uno degli analisti considerati anche a Mosca equidistanti sulle operazioni della Russia in Occidente, i dubbi sono pochi: i due russi espulsi, entrambi militari, saranno, «presumibilmente, l'attachè (l'addetto militare, ndr) e il capo stazione del Gru (i servizi segreti militari di Mosca, ndr.)». Così come è facile prevedere che ci sarà «un occhio per occhio a cui la Russia non potrà sottrarsi per non apparire debole: la presenza diplomatica dell'Italia a Mosca non è enorme, ma mi aspetto che si ridurrà», dice Galeotti. Tuttavia si sbaglierebbe a vedere l'arresto del capitano di fregata italiano Walter Biot, in servizio presso l'ufficio politico dello Stato maggiore, e di due russi accreditati presso l'ambasciata russa a Roma, come un capitolo solo italiano. Si tratta semmai di una serie di operazioni russe aggressive in diverse parti d'Europa, che hanno per oggetto segreti della Nato, e di diverse agenzie sovranazionali occidentali. All'inizio di dicembre un alto funzionario del ministero della Difesa bulgaro, usando uno smartphone Samsung nero, scattò una serie di fotografie di documenti militari classificati sul suo computer, archiviandole su una chiavetta Usb. Le foto riguardavano segreti sui caccia F-16, sulla Nato, sulla Cia, sull'Ucraina e sulla guerra armeno-azera in Nagorno-Karabakh. Le modalità dello spionaggio bulgaro ricordano molto da vicino quelle dell'italiano Biot: anche qui una chiavetta, almeno 200 fotografie (che forse venivano cedute a pezzi) scattate davanti al computer col telefonino, «con modalità sprovvedute, da uomo in difficoltà», dice un militare. Ma la vicenda bulgara (le espulsioni sono arrivate il 25 marzo) non è il solo precedente immediato: a dicembre due funzionari russi sospettati di spionaggio furono espulsi dai Paesi Bassi. Le informazioni che cercavano riguardavano «intelligenza artificiale, semiconduttori e nanotecnologie», ha spiegato l'Aivd, il servizio segreto olandese. Ad Amsterdam peraltro ha sede l'Ema, l'agenzia europea che autorizza i vaccini. Hackerata proprio a inizio dicembre. Del resto è da almeno tre anni, quelli che ci separano dal trionfo di due partiti populisti e filorussi nel voto 2018, che l'Italia è diventata terra «di pascolo di spie russe», stando a un analista dell'intelligence. Osserva Galeotti: «L'Italia è stata generalmente uno degli stati più amichevoli o almeno tolleranti della Russia nell'Ue. La pazienza è esaurita?». Il 20 agosto del 2020, a Parigi, i servizi segreti francesi del Dgsi avevano arrestato un militare francese di alto grado, accusato di aver passato informazioni definite «ultra-sensibili» a Mosca: il francese era di stanza in una base Nato vicino a Napoli, dove avrebbe consegnato a un colonnello del GRU materiale classificato. Un anno prima, sempre a Napoli, era stato fermato a fine agosto Alexander Korshunov, direttore per lo sviluppo aziendale della russa United Engine Corporation (Odk). L'azienda per la quale lavorava produce motori per aerei civili e militari e turbine di potenza per i motori, e fa parte del colosso statale Rostec, il cui ceo è Sergey Viktorovich Chemezov, un amico di Putin fin dai tempi in cui vivevano nello stesso blocco a Dresda, e lavoravano per il Kgb. Putin reagì furioso. Disse: «Questa è davvero una brutta pratica. In questo caso abbiamo a che fare con tentativi di concorrenza disonesta». Korshunov, che aveva un curriculum di livello militare, alla fine fu estradato dall'allora Guardasigilli del governo Conte2, Alfonso Bonafede, ma non negli Usa: in Russia. Cosa che non fu sgradita al Cremlino. Oggi pare un'altra èra politica. Il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha detto che Londra «è solidale con l'Italia e le sue azioni odierne, che smascherano e agiscono contro l'attività maligna e destabilizzante della Russia, progettata per minare il nostro alleato della Nato». Le due espulsioni dei russi arrivano in un momento delicatissimo anche per la rumorosa offensiva di influenza russa sul vaccino Sputnik, e in una fase militare complessa. Proprio lunedì, aerei da combattimento italiani sono stati coinvolti in un'operazione Nato per intercettare aerei russi sul Mar Baltico.

"Oligarchi", gli affari opachi degli associati di Putin in Italia. Da tgcom24.mediaset.it il 25 ottobre 2021. C'è un gruppo ristretto di persone legate a Putin che sta conquistando influenza in Italia con finanziamenti e operazioni opache. "Oligarchi, come gli amici di Putin stanno comprando l'Italia" è il nuovo libro di Jacopo Iacoboni e Gianluca Paolucci, edito da Laterza. Ricostruisce la rete di rapporti dei russi nel nostro Paese e del potere segreto che stanno ottenendo. La Russia ha la quota più alta del mondo di soldi opachi detenuti all'estero: secondo studi recenti è pari a un trilione di dollari. Si stima che un quarto di questi sia collegato a Vladimir Putin e ai suoi più stretti associati. Dove vanno questi soldi? Tra le destinazioni spicca l'Italia: secondo quanto riporta il libro, gli oligarchi russi comprano grandi proprietà, agiscono al limite dello spionaggio e investono in operazioni di influenza politica. Sono persone legate a Putin e spesso sono connesse l'una con l'altra. Nel libro si parla dei passaggi in Italia degli avvelenatori di Skripal e si registrano in modo puntuale i flussi di denaro provenienti dalla Russia e diretti verso il nostro Paese. E si pone una questione, quella dell'intelligence russa in Europa. L'inchiesta dei due giornalisti de "La Stampa" si avvale di documenti esclusivi, interviste, atti societari, ma anche fonti aperte, facendo luce su storie di servizi segreti, traffici e dark money. Quello che emerge, secondo Iacoboni e Paolucci, è un quadro di profonda influenza della Russia in Italia, che ha attraverso governi di segno politico opposto. Pubblichiamo un brano tratto dal Prologo: È la Nato il bersaglio dei russi: l’Italia rientra in un panorama di operazioni di spionaggio e controspionaggio avvenute negli ultimi anni in tanti altri paesi, dal Regno Unito alla Francia, dai Paesi Bassi alla Bulgaria, fino alla Repubblica Ceca. Solo nel 2021 operazioni russe aggressive in diverse parti d’Europa hanno avuto per oggetto segreti dell’Alleanza atlantica e di di­verse agenzie sovranazionali occidentali. A dicembre del 2020 due funzionari russi sospettati di spionaggio vengono espulsi dai Paesi Bassi. Le informazioni che cercavano riguardavano «intelligenza artificiale, semiconduttori e nanotecnologie», ha spiegato l’Aivd, il servizio segreto olandese. Ad Amsterdam peraltro ha sede l’Ema, l’agenzia europea che autorizza i vaccini contro il Covid-19. Hackerata proprio all’inizio di quel mese, con i russi tra i principali sospettati. E all’inizio di dicembre un altro episodio era partito da modalità assolutamente analoghe a quelle italiane: un alto funzionario del ministero della Difesa bulgaro era stato ripreso in due video in cui scattava una serie di fotografie di documenti militari classificati sul suo computer, archiviandole su una chiavetta Usb. I documenti riguardavano segreti sui caccia F-16, sulla Nato, sulla Cia, sull’Ucraina e sulla guerra armeno-azera in Nagorno-Karabakh. Il telefonino era anche in quel caso un Samsung S9 nero, come quello che sareb­be stato fornito a Biot dai russi. Anche lì tutto fu ripreso dalle telecamerine e – soprattutto – fu fatto uscire. Video compresi. Assieme a Dmitry Ostroukhov viene espulso un altro russo. Si chiama Alexey Nemudrov, capitano di Marina e addetto navale e aeronautico dell’ambasciata russa. Nemudrov è l’ufficiale che riceve fisicamente gli invitati – politici, manager, personalità italiane – ai ricevimenti in ambasciata russa. Fa discorsi alti in cui inneggia alla pace tra Russia e Italia. Ha partecipato a tantissimi eventi in Italia, spaziando dalla Fondazione Diesse di Genova, nel mondo post-comunista e poi diessino, all’Associazione Liguria-Italia, nel cui consiglio siede il leghista Gianluca Savoini, già al centro dello scandalo sui presunti finanziamenti russi alla Lega. Soprattutto, entrambi, Nemudrov e Ostroukhov, non sono due diplomatici, e non sono neanche due semplici militari. Grazie ai database consultati da Christo Grozev di Bellingcat – il collettivo di reporter investigativi fondato da Eliot Higgins, che ha scoper­to l’identità del commando di avvelenatori di Sergey Skripal nel Regno Unito (tre operativi del Gru), e di Alexey Navalny in Sibe­ria (una squadra dell’Fsb, il successore del Kgb) – si scopre che entrambi i russi espulsi da Roma figurano negli elenchi di allievi che si perfezionarono nelle più importanti accademie militari dello spionaggio russo. «Sia Alexey Nemudrov (nato nel 1967), attaché militare, sia il suo aiutante Dmitry Ostroukhov (nato nel 1977) sono diplomati alla cosiddetta “Accademia diplomatica militare” della Russia, conosciuta come “il Conservatorio” del Gru. In precedenza Ostroukhov si era laureato presso l’Istituto del Comando militare di Mosca», ha ricostruito Grozev. Dietro l’apparenza di un quarantenne giovanile e gentile (Ostroukhov) e quella di uno stagionato e sovrappeso capitano di Marina russo, siamo davanti a due militari che hanno avuto un training speci­fico per operazioni particolari. E da anni agivano indisturbati in Italia. Secondo fonti russe, Biot avrebbe rivelato loro anche codici crittografici per le comunicazioni Nato. Il “Conservatorio”, in Ulitsa Narodnogo Opolcheniya 50 a Mosca, non lontano dall’area in cui si trova il quartier generale del Gru e dagli istituti di ricerca affiliati all’intelligence militare russa, consta di tre dipartimenti: il primo forma agenti sotto copertura che operano sotto protezione diplomatica. Il secondo forma gli attaché militari, ossia rappresentanti delle forze arma­te russe in servizio in missioni diplomatiche. Il terzo istruisce gli ufficiali che guideranno le operazioni speciali all’estero. In quest’ultimo dipartimento, per capirci, è stato formato Anatoly Chepiga, accusato di essere l’autore materiale dell’avvelenamen­to di Sergey Skripal e sua figlia a Salisbury, nel Regno Unito, con il novichok, o il suo capo, il generale Denis Sergeev (nome sotto copertura: Sergey Fedotov). Anche loro, come vedremo, sono transitati da aeroporti italiani, in questi anni. Ma anche il secondo dipartimento alleva ufficiali pericolosi: per esempio viene da lì Eduard Shishmakov, che guidò le operazioni per organizzare un colpo di stato in Montenegro nel 2016. Shishmakov nel 2014 aveva lavorato come addetto militare in Polonia, e poi era stato espulso. Modalità e storie ormai familiari in Italia, non solo nell’Est europeo o in Gran Bretagna. L’Italia è sempre stata una terra accogliente per l’influenza russa, una storia che risale almeno ai tempi della Guerra fredda, ai soldi di Mosca al Pci, ma anche alla Realpolitik della Demo­crazia Cristiana, in un’Italia alleata degli Stati Uniti e al tempo stesso con la pretesa di essere il “ponte” dell’Occidente verso Mosca. Ma negli ultimi quattro anni, quelli che ci separano dal trionfo nelle elezioni italiane del 2018 di due partiti populisti e filorussi, Lega e Movimento 5 stelle, la tendenza si è a tal punto intensificata da mutare di segno: l’Italia è diventata terra «di pascolo di spie russe», per usare l’espressione di un analista dell’intelligence. Molte tra loro sono appunto del Gru, i servizi militari di Mosca, anche di quella sua unità 29155 dedicata a sovversione e assassinii politici in Europa. Altre del Svr, i servizi esteri, il successore del Primo direttorato del Kgb. A Roma si è creata una cellula di operativi russi che va dalle ottanta alle cento persone. Una nostra fonte nell’intelligence ce ne ha rive­lato anche il numero esatto censito fino a oggi: 87 spie. Osserva lo studioso di spionaggio russo Mark Galeotti: «L’Italia è stata generalmente uno degli stati più amichevoli o almeno tolleranti della Russia nell’Ue. La pazienza è esaurita?».

La spy story di Walter Biot: dietro l’inchiesta il nuovo clima geopolitico atlantista di Draghi. Claudia Fusani su Il Riformista l'1 Aprile 2021. L’atto è “ostile e di estrema gravità”. E questo sia detto in principio per chi già ieri ha provato a derubricare l’affaire Italia-Russia alla stregua di Totò che si vende il Colosseo perché ogni dettaglio di questa storia tutto sommato sembra un B-movie di spie da quattro soldi: i file riservatissimi fotografati e poi archiviati in una pen drive; i soldi, cinque mila euro in contanti, sistemati in ordinate mazzette dentro una scatola di cartone. E poi, il luogo, i protagonisti e i dettagli degli incontri e degli scambi che andavano avanti da quasi un anno: martedì sera, poco dopo le 20, in un parcheggio della periferia della Capitale (Roma Spinaceto) nei pressi di un supermercato che era diventato il “luogo” degli incontri; il Capitano di fregata Walter Biot, ufficiale della Marina in servizio all’Ufficio politica militare dello Stato maggiore della Difesa, 56 anni, con l’auto piena di cimici e telecamere; l’addetto diplomatico dell’ambasciata russa di Roma che ogni volta faceva precedere gli incontri con attenti sopralluoghi del parcheggio e dintorni. Ogni volta il russo prendeva la metro fino all’Eur, da qui il bus fino a Spinaceto e poi un cappellino blu in testa come segnale di via libera. L’altra sera ha pure cercato di darsela a gambe con plateale placcaggio da parte dei carabinieri del Ros. Da quel momento è rimasto zitto e muto e rifiuta cibo e acqua. Il terrore di essere avvelenato? Gli ingredienti perfetti di un B-movie, appunto. Ma l’atto, come ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è “ostile e di estrema gravità” perché le indagini di Ros e Aisi (l’intelligence interna) – grazie anche alla lunga esperienza comune di due cavalli di razza dei nostri apparati come il generale del Ros Pasquale Angelosanto e Mario Parente (che dopo il Ros guida l’Aisi) – raccontano che il “canale” era aperto da tempo. Da almeno un anno Biot era in contatto con i due diplomatici russi per motivi di servizio. «Da mesi» i loro contatti erano controllati dai colleghi che annotavano «una preoccupante escalation nelle richieste e negli incontri». Il procuratore di Roma Michele Prestipino ha seguito di persona l’inchiesta e l’arresto è scattato ieri sera perché aver beccato i due con le scatole zeppe di soldi ha tolto di mezzo una lunga e penosa serie di dubbi, incertezze, reticenze. Il reato di spionaggio è conclamato, l’accusa anche: aver ceduto documentazione classificata a un ufficiale delle Forze Armate russe di stanza in Italia dietro pagamento di compensi in denaro. Biot è in carcere con le accuse di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, spionaggio politico-militare, spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione. Diciamo che il quadro indiziario è tale per cui è difficile che possa migliorare nel tempo. Più probabile che peggiori. «Certo – si lascia intendere negli ambienti investigativi – i documenti ceduti in questa occasione (per quanto di rilievo Nato, ndr) magari non sono così esplosivi dato anche il livello non apicale ricoperto da Biot. Stiamo cercando di capire cosa è successo prima e cosa sarebbe successo poi». Gli analisti di questi dossier concordano nel dire che «la condotta dall’ufficiale russo potrebbe essere un’operazione di reclutamento ancora in corso». Funziona così: si chiedono documenti di bassa classifica di sicurezza, che sembrano quasi innocui alla persona cui vengono chiesti, in cambio di cifre molto modeste ma che sembrano appaganti per lo sforzo richiesto. «Una volta che uno accetta di prendere anche piccole cifre diventa ricattabile e fidelizzato in maniera coatta». La brillante operazione del nostro controspionaggio va contestualizzata nel quadro geopolitico definito dal nuovo corso della Casa Bianca dopo l’era Trump, dalle prime parole pronunciate dal premier Draghi («l’Italia si muove in una cornice sempre più europeista a atlantista»), dalla pandemia e dalla guerra diplomatica in nome dei vaccini. Non sfugge che il presidente Usa Joe Biden ha individuato nettamente il nemico nella Russia di Putin e ha dato l’altolà alla Cina di Xi Jinping. Che Mosca e Pechino hanno avviato da mesi una campagna di conquista del mondo grazie ai vaccini (Africa, Medioriente, est Europa) mentre la vecchia Europa sui vaccini non ha curato alcuna autonomia perdendo tempo e spazi preziosi. Così come i due governi stanno mandando in giro emissari a solleticare le paure di presidenti (l’austriaco Kurtz) e dei governatori delle regioni italiani (da Zaia a De Luca passando per Zingaretti) promettendo lotti di un vaccino – lo Sputnik – che sarà anche efficace ma non è stato esaminato dalle nostre agenzie del farmaco e soprattutto non è autosufficiente per la produzione. Mosca ha il know how del principio attivo ma cerca stabilimenti (già chiusi un paio di accordi in Italia) per la produzione. Insomma, un pessimo momento per consolidare un’attività di spionaggio. Un ottimo momento per Roma e l’Italia per mandare un segnale chiaro: basta giochi sui vaccini. E per la Nato per rilanciare il patto e l’alleanza atlantica contro il Cremlino e la Cina e anche la Turchia. Tutte potenze che hanno approfittato della pandemia per muovere le proprie pedine in Africa e Medioriente. Cioè ai confini dell’Italia. E dell’Europa. Avendo presente questo scenario, vanno lette le reazioni e le dichiarazioni che fanno da contorno all’arresto dell’ufficiale di Marina Biot. Reazioni che posizionano l’Italia senza se e senza ma dalla parte di Washington e contro Mosca. Il segretario generale della Farnesina Elisabetta Belloni, su istruzioni del ministro Luigi Di Maio, ha convocato l’ambasciatore russo a Roma Sergey Razov per comunicare «la ferma protesta del governo italiano» e notificare «l’immediata espulsione dei due funzionari russi coinvolti in questa gravissima vicenda». Il secondo espulso è il “diretto superiore” del protagonista dello scambio. Razov ha espresso «rammarico per la decisione» e spera che l’incidente «non influenzi le relazioni russo-italiane». Il portavoce del Cremlino minimizza: «Auspichiamo che i buoni rapporti tra Italia e Russia continuino». Poi rilancia: «Siamo rammaricati per l’espulsione di due dipendenti dell’ambasciata. Annunceremo i nostri possibili passi in relazione a questa azione che non corrisponde al livello delle nostre relazioni bilaterali». Il vicepresidente della commissione per gli Affari internazionali della Duma, Alexei Cepa è arrivato a minacciare: «Saremo costretti a rispondere in modo analogo. Ci sarà una risposta simmetrica». Insomma, siamo nel mezzo di una crisi diplomatica Roma-Mosca in cui Washington e la Nato applaudono alle indagini e alla ferma reazione italiana. Tutto questo succede all’indomani dell’audizione alla Camera dell’ambasciatore Razov «nell’ambito delle priorità della Presidenza italiana del G20». Da quell’audizione Razov è uscito raccomandando, per l’appunto, più Sputnik per tutti «perché per noi conta solo la salute». E non pochi in Parlamento cominciano a crederci. Non solo Salvini e Zaia, persino Zingaretti e De Luca e pezzi dei 5 Stelle. Ieri mattina poi, mentre il Ros diffondeva il comunicato stampa dell’operazione, Beppe Grillo ha pubblicato un post che accusava «il maccartismo disastroso di Usa e Ue e i toni bellicosi contro Russia e Cina». Probabilmente lo ha scritto prima degli arresti per spionaggio. Sicuramente c’è un problema nella linea di politica estera nella maggioranza di questo governo. Il premier Draghi ieri ha preferito tacere. Sul punto ha già detto e ribadito quello che doveva dire. Il nostro controspionaggio ha contribuito a fare chiarezza.

Walter Biot, il Pd attacca Matteo Salvini sulla Russia e la Lega risponde: "Perché è Letta che deve spiegare". Libero Quotidiano il Scontro tra Lega e Pd anche sullo spionaggio. Il dem Andrea Romano riprende un'inchiesta di Repubblica sui rapporti tra l'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, e uno dei diplomatici russi espulsi, e sgancia la bomba sul Carroccio: «Salvini deve chiarire al più presto i rapporti tra la Lega e Aleksej Nemudrov, il diplomatico russo che insieme a Dmitri Ostrouchov coordinava la rete spionistica che avrebbe arruolato l'ufficiale infedele Walter Biot». Nessuna ombra, conclude Romano, può rimanere sulla vicenda. Immediata la replica leghista: se c'è qualcuno che deve chiarire, non siamo noi. «L'unica certezza in questa brutta storia è che Biot, il militare italiano che ha tradito, lavorava al ministero della Difesa quando il ministro era del Pd», spiegano da via Bellerio. «È Letta che deve chiarire». E sulla vicenda anche la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni chiede chiarezza, ma da parte del premier: «Draghi riferisca subito in Parlamento. Abbiamo inviato la richiesta di informativa urgente ai presidenti delle Camere Fico e Casellati, ma non abbiamo ricevuto risposte». Ovviamente, le critiche di Salvini alle chiusure volute da Speranza hanno provocato l'immediata reazione anche degli esponenti Leu, scesi in campo in difesa del ministro. «Caro Salvini», attacca il deputato Stefano Fassina, «il vittimismo anche no. Dovresti ringraziare Speranza per assumersi le responsabilità morali e politiche che tu per primo e in troppi, anche da presidenti di regioni, scaricano. Facile cavalcare i drammi economici e sociali quando altri devono farsi carico di ridurre i carichi delle terapie intensive, soprattutto nelle Regioni come la Lombardia, sempre più piagata dalla giunta leghista». E il senatore Francesco Laforgia rincara: «Le dichiarazioni scomposte e quotidiane di Salvini sulle riaperture hanno stancato». Il leader del Carroccio, da parte sua, intervistato dal Corriere della Sera replica alle accuse della sinistra a proposito del suo incontro con i premier di Ungheria e Polonia: «Per il Covid, c'è il vaccino. Purtroppo, per la salvinite no. E loro sono ossessionati, non pensano ad altro... Il problema? Non è il Covid, è Salvini».

Vittorio Feltri sull'arresto di Walter Biot: "Fatto passare per traditore, perché è un'indegna montatura". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 aprile 2021. Alcune nuove di questi giorni mi hanno lasciato perplesso. La prima. Un ufficiale della Marina italiana è stato arrestato per spionaggio in favore della Russia. Nello specifico, il militare Walter Biot (che in bergamasco significa nudo) è accusato di aver consegnato ad alcuni 007 di Putin documenti segreti riguardanti la sicurezza nazionale. Mi domando di cosa si trattasse visto che il nostro Paese sfilacciato e caciarone non mi sembra abbia alcunché da nascondere, considerato che i cittadini sono talmente pettegoli che nulla di quanto accade loro, a qualsiasi livello, viene celato. Nell'arte di spifferare ogni fatto e misfatto, bufale comprese, siamo imbattibili. In materia di esercito e similari siamo notoriamente scadenti e, quando ci chiamano a partecipare a missioni all'estero, poi ci affidano ruoli secondari, tipo quello una volta assegnato alle crocerossine. Infatti la Costituzione italiana non prevede che i nostri soldati prendano parte a battaglie offensive, a loro è consentito soltanto proteggersi. Insomma, essi non dispongono di armamenti particolarmente sofisticati che facciano gola ad altre Nazioni. Pertanto il povero Biot, stretto da necessità familiari, probabilmente ha venduto (per la misera somma di 5mila euro: segno di disperazione) agli agenti di Mosca incartamenti farlocchi o comunque inerenti a cose abbastanza insignificanti. Ciononostante costui è stato fatto passare quale traditore della Patria e quindi meritevole di finire in carcere come un pericoloso criminale disposto a vendere carte preziose e riservate. In conclusione, ritengo che questa vicenda sia una montatura indegna di essere presa in seria considerazione. Liberate l'ufficiale e piantiamola di fantasticare. Per spiare i nostri affari interni basta dare un'occhiata ai telegiornali e al Grande fratello, non c'è altro che sia in grado di interessare la Russia. Seconda notizia. A Napoli un tizio sfigato è stato aggredito da due furfanti che lo hanno rapinato dell'orologio e forse di altro. L'uomo ovviamente si è incavolato e ha reagito. Come? Si è messo al volante e ha inseguito i malviventi che viaggiavano su uno scooter. Li ha raggiunti e per fermarli li ha investiti, cos' altro poteva compiere? Giudicando a posteriori avrebbe fatto meglio a lasciarli perdere, in fondo non valeva la pena di accanirsi su di loro per un Rolex. Però al momento non ha resistito all'idea di vendicarsi e finché non è riuscito a travolgerli con la sua macchina non ha desistito. Peccato che entrambi i rapinatori siano rimasti secchi. All'istante. Avere sulla coscienza due cadaveri non è un peso leggero. E non è sbagliato punire adeguatamente l'accanimento. Tuttavia bisogna pur valutare che il signore, ora accusato di duplice omicidio, era stato aggredito e la sua condotta almeno in parte è giustificata. Invece egli è stato buttato in galera e adesso da offeso dovrà difendersi. Il che mi fa riflettere sulla circostanza che in Italia i grassatori siano più rispettati di chi subisce un assalto e risponda smodatamente. Il problema è che i ladri, stando alla cultura di sinistra, sono da compatire perché agiscono in stato di necessità, essendo miseri disgraziati i quali si procurano da vivere, non avendo alternative, agendo nella illegalità. Di contro le loro vittime sono obbligate a patire in silenzio ogni sopruso in quanto non sono morti fame. Terza notizia. Ieri il Corriere della sera apre la prima pagina con il seguente titolo: "Le Regioni: dateci più vaccini". Ma quali vaccini se lo Stato non è capace di comprarne e aspetta che glieli consegni l'Europa, che pure ne è priva? Ci sarebbe da ridere se tutto ciò non facesse incazzare.

Edward Luttwak, "i ministri e i sottosegretari italiani nell'elenco". La bomba: mezzo governo al soldo della Cina. Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. "Ministri e sottosegretari italiani sull’elenco della Città Proibita". Secondo Edward Luttwak c'è la mano della Cina sull'Italia, ed è di questo che dovremmo preoccuparci quando si parla di spionaggio e superpotenze. Intervistato da Formiche.net, il politologo americano ammette di non prendere troppo sul serio la spy story di Walter Biot, l'ufficiale di marina arrestato a Roma perché accusato di aver venduto a due agenti segreti russi dei documenti classificati per 5.000 euro. "Un grande classico. Mancava solo il cappello Borsalino", ironizza Luttwak. Siamo di fronte a "un tipico caso di spionaggio, di quelli che non si sentono più". Innanzitutto, lo stratega militare americano avanza delle perplessità su cosa Biot possa aver passato al Cremlino. In ballo ci sono 181 documenti, di cui 9 "riservatissimi" e 47 classificati come "Nato secret": "Dubito che si tratti di informazioni altamente sensibili o che mettano a rischio la Nato. Non appena diventi una spia russa, professione cui si avvicinano tanti italiani, scopri presto che i tuoi capi di lavoro hanno una sola mania - ironizza Luttwak -. Non vogliono avere informazioni, né la verità. Vogliono i documenti, quintali di documenti. E Biot lavorava in un ufficio che ne è pieno". Resta il fatto che "oggi la Federazione russa non è una minaccia militare attiva. È molto attiva nello spionaggio, perché è un’attività che rende, e costa poco. Costa di più modificare l’ala di una serie di caccia che mantenere una burocrazia di spie". Il vero pericolo, chiosa sibillino, viene dalla Cina: "La penetrazione cinese in Italia è considerevole, senza precedenti".

Paolo Mieli a Tagadà sullo spionaggio russo: "Un caso montato", il sospetto su Luigi Di Maio. Libero Quotidiano l'01 aprile 2021. Paolo Mieli è stato ospite di Tiziana Panella a Tagadà, dove ha commentato il caso dello spionaggio russo. Rispetto a tanti altri opinionisti, il giornalista del Corriere della Sera in realtà ha ridimensionato molto la questione: “Quella inerente la Russia è strategica e ci deve preoccupare molto, ma quello della spia mi sembra un caso molto montato allo scopo di far vedere agli Stati Uniti che non facciamo più gli occhi dolci alla Russia, con la quale abbiamo avuto un rapporto diverso negli ultimi anni”. Mieli ha spiegato perché si è convinto della poca rilevanza di questo caso di spionaggio: “Innanzitutto non succede quasi mai che si fa il nome, poi questo signore che trasmetteva segreti della Nato lo faceva con incontri a Spinato, in un quartiere di Roma, e per 5mila euro che è una cifra alta ma per nulla sbalorditiva”. In più non va sottovalutato il fatto che la Nato “da un anno lo teneva sotto osservazione, lo ha preso con le mani nel sacco perché lo pedinavano. Ma che segreti avrà mai potuto svelare per 5mila euro? Non sono quelle cifre… insomma, ci aspetteremmo che paghino meglio”. E quindi in definitiva Mieli è convinto che la spia non avesse accesso a segreti strategici. A fargli specie è la reazione del ministro Luigi Di Maio, che “ha alzato la voce su questa questione. È più significativo che lui ne abbia fatto un caso da esibire, però se le notizie dovessero rimanere queste, vedrete che fra due giorni non se ne parlerà più”. 

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 2 aprile 2021. La spy story all'amatriciana del capitano di fregata Walter Biot da Pomezia, la spia che venne dall'Agro Romano arrestata a Spinaceto mentre vendeva terribili segreti Nato a due russi in cambio di 5mila euro in una scatola da scarpe per pagarsi il mutuo e le medicine, un merito l'ha avuto: restituirci i nostri Le Carré preferiti, al secolo Paolo Guzzanti fu Mitrokhin (Giornale), Claudia Fusani fu Pompa (Riformatorio) e Jacopo Iacoboni (Stampa). Tutti e tre sgomenti per una notizia inaspettata: in Italia ci sono spie russe. […] I nostri eroi invece parlano della spia che venne da Pomezia come di un caso unico nella storia. Il commissario Iacoboni lo spiega così: "Lo spionaggio russo in Italia si è intensificato nel 2018 col governo Lega-M5S […]" […] […] gli stessi Le Carré de noantri accusavano Conte di aver venduto l'Italia a Trump, cioè agli Usa. […] Ma il problema per Feltri jr. sono "Beppe e Luigino divisi a Berlino”. […] Intanto Stampubblica, capofila dell'atlantismo nostrano, s'è battuta come una leonessa per riportare al governo B. e Salvini, i migliori amici di Putin. In cambio di 5mila euro in una scatola da scarpe? No, gratis. Furba, lei.

Walter Biot, cosa sa Guido Crosetto: "È un traditore di Serie C, chi sono quelli veri". Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Walter Biot "è un traditore. Un traditore di Serie C". Guido Crosetto, su Twitter, dice la sua sul caso del militare italiano arrestato per spionaggio a Roma dopo essere stato colto in flagrante nell'atto di vendere documenti classificati a due agenti dei servizi segreti russi. Un caso diplomatico clamoroso, che ha creato non poco imbarazzo tra Farnesina e ambasciata russa nella Capitale. Ma che per il fondatore di Fratelli d'Italia è ancora avvolto da un "non detto". "La cifra della corruzione dà l’idea del valore di ciò che vendeva", spiega Crosetto riguardo alla somma intascata da Biot, "appena" 5.000 euro. La famiglia e i colleghi hanno motivato il gesto con il bisogno di soldi del capitano di Fregata, chi parlando del tenore di vita da mantenere (villa fuori Roma, 4 figli e 4 cani) chi riferendo della grave situazione di una figlia, affetta da handicap. La difesa di Biot sottolinea come il passaggio di documenti ai russi "non abbia messo in alcun modo a repentaglio la sicurezza dello Stato", riferendo di documenti di scarsa rilevanza. Dalla telecamera nascosta piazzata dallo Stato maggiore della Difesa nell'ufficio di Biot, però, si evincerebbe come tra il 18 e il 25 marzo l’ufficiale di Marina abbia fotografato il monitor del computer con documenti classificati. Eppure, qualcosa non torna.  "I veri traditori non vendono foto. Non si incontrano per strada - sottolinea ancora Crosetto -. Il traditori veri sono quelli che minano e svendono settori strategici dell’economia e del know-how". 

Umberto Rapetto per infosec.news il 5 aprile 2021. L’incredulità continua a dominare la scena, tra chi dice che si tratta di una montatura (forse quella degli occhiali del capitano di fregata Biot), chi critica la gestione sicuramente maldestra del caso di spionaggio, chi ipotizza il monito politico e chi immagina il ricatto farmaceutico. Non potendo uscire per la tradizionale scampagnata del Lunedì dell’Angelo, forse si può cercare di “evadere” tuffandosi nel giallo di questi giorni per trovarne la più sfiziosa chiave di lettura. A incuriosire certamente è il tradimento low-cost, con il nostro Zero Zero Setter che fissa il prezzo dei segreti militari e della sicurezza nazionale a 5000 euro. Sul tema c’è chi ha pensato che la scatola delle medicine contenesse semplicemente una rata, frazionamento certo non da attribuirsi alla mancata disponibilità di denaro da parte della Russia ma forse riconducibile ad un pagamento progressivo basato sull’aurea regola “dare soldi, vedere cammello”. Ma perché proprio cinquemila euro? Per battere una ipotetica concorrenza spietata che era arrivata a vendere dossier e incartamenti top secret a 6000 o addirittura a 5500? La suggestione di un eventuale “dumping” (ovvero la corsa al ribasso) è forse quella che alimenta la caccia ad altre potenziali “gole profonde”. I cultori dell’intelligence – forgiatisi con anni e anni di letture, film e serie televisive – si domandano il perché del clamoroso arresto che ha esposto al pubblico ludibrio non solo l’intraprendente ufficiale di Marina, ma che ha messo alla gogna l’intero apparato cui competono gli affari riservati di Stato e della NATO. Il “che bisogno c’era” è il caso di dire che ci sta tutto. Abbiamo dimostrato grandi capacità investigative, l’abilità nel piazzare telecamere nascoste come nemmeno Nanni Loy sarebbe stato capace di fare, l’attitudine a “sputtanare” altre articolazioni istituzionali, la somma perizia a far finire tutto sui giornali per guadagnare un briciolo di visibilità nell’incuranza del florilegio della credibilità italiana. Una volta che ci è ripresi dallo choc di avere una serpe in seno, per quale motivo non si è trasformato in “agente doppio” il personaggio nei confronti del quale non si nutrono semplici sospetti ma si vantano terrificanti certezze? Il tizio poteva essere adoperato in una strepitosa operazione di controspionaggio, veicolando carte che un domani potevano essere ben più proficuamente messe sul tavolo internazionale per far valere le proprie ragioni. E veniamo quindi al monito ai partiti e ai loro leader, soprattutto a quelli che – dimenticando il versante su cui l’Italia è schierata – non si sono accorti che gli “alleati” sono altri. La sorprendente fetta della “destra” che enfatizza la Grande Madre Russia come punto di riferimento probabilmente si troverebbe a ridimensionare gli entusiasmi da comizio e a riconsiderare la situazione in una meno galvanizzata ottica. Ultimo, ma non certo per importanza, ragionamento: l’esigenza vaccinale. Se l’obiettivo di tanto clamore era acquisire potere contrattuale per la rapida fornitura di “Sputnik”, credo si potesse ottenere il medesimo effetto se la “partita” la si fosse giocata lontano da riflettori e telecamere. Anzi, il rapporto di forza sarebbe stato ancor più vantaggioso. Rimaneva infatti l’asso nella manica dello spifferare ai quattro venti la scorrettezza degli “amici” russi nei confronti di un Paese dove persino i diametrali avversari di Marco Rizzo e dei comunisti italiani nutrono simpatia per il Cremlino.

(ANSA il 6 aprile 2021) - "Non è possibile visualizzare su un pc il contenuto di documenti riguardanti il segreto di Stato o ad alto livello di segretezza". E' quanto ha riferito Walter Biot, il militare di Marina arrestato per spionaggio, nel corso del colloquio avuto oggi in carcere con il suo difensore, l'avvocato Roberto De Vita. "Sono documenti che si possono solo stampare - precisa l'avvocato - e lui non ha abilitazione a stampare". Il penalista ha annunciato, inoltre, di avere "depositato richiesta alla Procura per potere ottenere copia forense di tutto il materiale sequestrato, compresi i tre video fatti con la telecamera nascosta messa nel suo ufficio. Per questo abbiamo nominato un consulente tecnico informatico: l'analisi dei video sarà utile per capire se c'è corrispondenza tra quanto trovato nella pennetta usb e ciò che sarebbe stato fotografato". De Vita aggiunge che gli elementi "raccolti, nel corso del confronto con il mio assistito, ribadiscono che non aveva accesso ad alcun tipo di documento che riguarda la sicurezza dello Stato o strategico in tema anche di operazioni militari: dall'analisi dei registri e dei protocolli emergerà proprio questo. Lui è determinato e convinto a dimostrare ciò e assicura che non è mai stato a nessun ricevimento in ambasciate o consolati in presenza di personale estero". "La famiglia - ha poi detto il legale - gli ha consegnato l'ultimo libro di Roberto Saviano che aveva intenzione di leggere. Restiamo, comunque, in attesa di essere convocati dai magistrati per l'interrogatorio e della fissazione dell'udienza davanti al tribunale del Riesame".

"The war is an option". Biot è stato "sacrificato" per dimostrare fedeltà agli USA: tutti i lati oscuri del Russiagate. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Aprile 2021. Tutto è avvenuto secondo le regole, salvo la rottura delle regole. Un ufficiale della marina italiana, Walter Biot, afflitto dal mutuo, dai bambini e dai cani da mantenere, è stato colto in flagrante atto di vendita di materiale militare classificato (cioè segreto) ad agenti russi e arrestato. Sembra soltanto quel che appare: una storia di povere spie. Ma non lo è. Tutti i Paesi si spiano e i russi sono sempre stati non soltanto dei grandi maestri d’intelligence, ma anche infaticabilmente attivi a prescindere dai venti di guerra, che fosse fredda o calda. Non sta lì l’anomalia. L’anomalia è nella scelta delle apparenze, che fanno la sostanza. Provo a capirci qualcosa, avendo per anni presieduto una Commissione parlamentare sull’intelligence russa ed essendo persino stato annichilito da quei nobili artisti che usano ancora un prevalente fattore umano su quello tecnologico (è la scuola del master spy Giacomo Casanova che oltre alla seduzione coltivava nella Serenissima Repubblica di Venezia l’arte contigua della seduzione e del tradimento, diffusa da allora nel mondo dell’oriente slavo). Le spie – per un sistema di regole del gioco – non vengono mai acciuffate, ammanettate sotto i riflettori e sbattute in prima pagina. Mai. Quando uno Stato trova una spia, in questo caso un proprio militare infedele per denaro, lo rende un agente doppio: “Tu da oggi darai ai russi (perché di russi si tratta) soltanto i documenti che ti prepariamo noi e saremo noi a dirigere il tuo utilizzo”. Dall’altra parte la potenza implicata sa come agire e reagire e si creano quelle situazioni a catena che fanno la gioia dei racconti spionistici e dei loro consumatori letterari. Ma nella vicenda dell’ufficiale italiano che vendeva segreti militari ad agenti russi sotto copertura diplomatica, qualcosa è andato storto. Con una operazione sotto la luce dei riflettori e delle telecamere è stato consumato il rito dell’arresto del soldato traditore, quello dello sdegno politico, l’inflizione della rituale condanna dell’espulsione di diplomatici cui segue immancabilmente l’eguale e misurata rappresaglia. Ma con alcuni piccoli elementi ulteriori: da Washington il Dipartimento di Staso ha gridato forte e chiaro all’Italia “Ben fatto, siamo con voi”, dal Cremlino la voce del ministro degli Esteri Sergev Lavrov (che sembra una felice reincarnazione del sovietico Andrej Gromiko) si è levata per manifestare la presa d’atto di una situazione radicalmente modificata: “Non erano queste le regole con cui giocavamo di comune accordo, prendiamo atto del vostro cambiamento ma ci conformeremo”. Che cosa è cambiato e che cosa sta all’origine dei cambiamenti? Qui si entra nell’opinabile, ma dopo lunghe conversazioni nelle room on line con Mosca e altre capitali, ho visto prevalere l’interpretazione più sensata. La nuova amministrazione americana – cosa che su queste colonne avevamo più volte previsto e indicato – riparte dall’”heri dicebamus” lasciato aperto da Barack Obama e dalla sua protegée Hillary Clinton: la guerra con la Russia non è chiusa e la riprendiamo da dove l’avevamo lasciata. L’ultimo atto significativamente ostile del governo Obama fu la collocazione in Polonia – con un grande apparato di festeggiamenti popolari – di una brigata corazzata super tecnologica, in grado di contenere, se non intimidire, ogni velleità russa di premere sulla Polonia. Quell’apparato di altissima tecnologia militare non è stato rimosso da Donald Trump, che si è ritirato da tutti gli altri fronti indignato con l’Europa, ma più che altro con Angela Merkel che non è disposta a mandare all’estero neppure un vigile urbano. L’attuale esercito tedesco è una organizzazione deliberatamente poco militare ed è nota la definizione che dei soldati tedeschi di oggi hanno dato i servizi inglesi: “I tedeschi sembrano campeggiatori aggressivi e con nessuna voglia di lavorare”. Le esercitazioni della Nato in centro Europa si svolgono ormai con una partecipazione distratta e quasi irritante dei tedeschi che hanno sempre i carri armati in manutenzione. Gli Stati Uniti nel frattempo hanno aumentato in queste ultime ore l’impegno in Ucraina dove Kiev ha scelto la linea dura contro i russi e filorussi di casa. Nel Mare del Sud della Cina continua a salire la tensione ed è di ieri la notizia che l’Indonesia ha appena scoperto di aver trovato in alcuni suoi isolotti delle postazioni militari cinesi costruire in fretta e furia da equipaggi di piccoli pescherecci che avevano chiesto asilo durante una tempesta. Se l’Indonesia insiste chiassosamente per ottenere una presa di posizione in armi degli Stati Uniti, vuol dire che anche la catena delle isole che governa fa parte di fatto di una coalizione marittima, mentre a Taiwan proseguono i sorvoli armati della Cina continentale. Tutto ciò non indica per fortuna che una guerra sta per scoppiare. Ma solo – ed è più che abbastanza – che una guerra potrebbe scoppiare: War is an option. E su questa ipotesi di lavoro gli allenatori radunano le squadre, selezionano giocatori e ruoli e, nel caso dell’Italia, pretendono atti incontrovertibili e chiari di adesione, lealtà e schieramento senza se e senza ma. E come il caso della povera spia con troppi cani e troppi bambini da mantenere, l’hanno avuta. Il filo-russo (ma ancor più filo cinese) Di Maio ha immediatamente prodotto l’atto di contrizione richiesto e tutti i suoi si sono allineati come soldatini sulle direttive del presidente Mario Draghi, il quale agisce in sintonia sia con Bruxelles che con Washington ma anche – se non ci sbagliamo – con il Regno Unito, che per la guerra cinese ha già inviato nelle acque contestate il suo più pregiato capolavoro miliare, la portaerei Queen Elizabeth. Mentre l’Occidente europeo e americano dà segni di ripresa dopo lo shock pandemico, si stanno formando le squadre e le risorse per esercitare pressioni militari o almeno rendere possibili i fantasmi di quelle pressioni. Il materiale tecnologico contrabbandato dall’ufficiale italiano sembra non di grandissima attualità e le modalità della consegna sa di arsenico e vecchi merletti, del resto in cambio di poche migliaia di dollari. Ma il pretesto è arrivato e – certamente prima ancora che tutto avvenisse sotto i riflettori dei media – ogni dettaglio e ogni conseguenza erano stati calcolati come si fa tra giocatori di livello. È stato così per esempio che la televisione russa, a poche ore dall’annuncio dell’arresto in Italia, ha potuto mandare in onda magnifici documentari giornalistici sulla vicenda, preparati con largo anticipo. Il capitano di fregata italiano ha scelto il momento peggiore per mettere all’asta le carte cui aveva accesso, perché si è trovato in una tempesta infinitamente più grande delle sue minuscole forze di bancarellaro di segreti. Il segnale è comunque partito e ci saranno sviluppi. Non resta che mettersi alla finestra per seguirli, magari con la protezione di sacchetti di sabbia e occhiali da sole.

Tempi, notizie e documenti: cosa "non torna" sulla spia di Mosca. Tempistiche, prezzo e nomi dati con estrema facilità. La Russia prova a comprare uno dei nostri, ma ne esce a pezzi. Lorenzo Vita - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. Un ufficiale di Marina in forza allo Stato Maggiore scatta delle foto dal suo computer. Poi, secondo le ricostruzioni dell'inchiesta, mette tutto in una scatola delle medicine e la consegna a un "addetto militare" russo in forza all'ambasciata a Roma. Il metodo va avanti per molti mesi, nei servizi segreti scatta l'allarme e, dopo una serie di pedinamenti, intervengono i Ros, che fermano i due dopo uno scambio in un parcheggio di Spinaceto, periferia sud di Roma. Un blitz in pieno stile Guerra fredda, come da Guerra fredda è la spy story che coinvolge l'Italia. È il solito vecchio triangolo Roma-Mosca-Washington, con la capitale d'Italia a fare da teatro a una guerra di spie che va avanti da decenni e che ora è semplicemente più mediatica, incapace di rimanere nelle segrete stanze dei servizi o in vecchi faldoni di cui nessuno saprà mai realmente nomi, fatti, entità del danno e metodi di lavoro. Del resto se si chiamano servizi segreti, e se le parole hanno ancora un senso, è chiaro che molto di quello che fanno debba rimanere tale. Quasi tutto. E la Repubblica gioca la sua sicurezza anche su questo.

Denunciare pubblicamente la trama. In questo caso, invece, di segreto non c'è stato praticamente nulla. Ed è già di per sé un elemento che va considerato. In poche ore, i media sapevano tutto dell'uomo accusato (formalmente) dalla Procura di Roma di aver venduto documenti ai russi. Sapevamo forza armata di appartenenza, reparto in cui era dislocato, nome, età, situazione familiare, entità delle somme con cui vendeva documenti Nato e italiani al Cremlino, e infine addirittura il metodo con cui questo avveniva. Fino alla descrizione praticamente fotografica dell'arresto avvenuto da parte dei carabinieri. Un fatto causale? Difficile quando si parla di azioni messe in piedi dai servizi segreti. Un modo per far affiorare il tutto e metterlo alla luce del Sole? Già più probabile. Ed è da qui che bisogna partire per ricostruire l'accaduto. Non perché qualcosa non torna nell'indagine, ma perché l'impressione è che esista una sorta di regola non scritta per cui alcuni casi vanno immediatamente portati all'attenzione dei media. E questo è sicuramente uno di questi. La dinamica impone delle riflessioni. Non è un mistero che in Italia da tempo sia in attività una rete di spie che coinvolge anche uomini del Cremlino. Non può non essere così semplicemente perché dai tempi dello scontro tra Nato e Unione sovietica l'Italia è un territorio di confine. Oltre Trieste, la Cortina di ferro lasciava lo spazio alle forze sovietiche di muoversi con assoluta libertà di manovra. La prossimità geografica diventa quindi per forza di cose anche prossimità politica, culturale e di intelligence. L'America lo sa e non ha mai mostrato di non saperlo. Gli episodi in tal senso si sprecano e negli ultimi anni si nota come la guerra di spionaggio e controspionaggio abbia preso una piega molto mediatica e numericamente importante. C'è sicuramente un problema che coinvolge l'Italia e che coinvolge sia i rapporti con la Russia che quelli con la Cina. Relazioni pericolose, secondo la Nato, che devono essere fermate al più presto.

Quei documenti venduti per niente. In questo caso la pericolosità dell'azione di Walter Biot, questo il nome del capitano di fregata arrestato dai Ros, sembra in ogni caso ridotto. Innanzitutto per il suo ruolo, perché non aveva accesso a documenti, sembra, estremamente delicati. In più per l'esiguità del prezzo pagato dai russi. Cinquemila euro è una cifra che, a naso, non vale una carriera, l'infamia e il carcere. Specialmente con una famiglia a carico e l'assenza di motivazioni ideologiche dietro il gesto. Sembra abbastanza difficile credere che un vero agente venduto a Mosca possa farsi beccare fotografando il proprio pc e poi lasciando tutto in una chiavetta Usb scambiandola in un parcheggio di un supermercato a fronte di un pagamento in contanti dentro scatolette di medicinali. L'impressione, dunque, è che non fosse esattamente una persona con in mano dossier veramente rilevanti. E questo si capisce anche dal fatto che i servizi lo pedinavano da mesi. Se avesse venduto documenti realmente importanti, non ci sarebbero stati più incontri dopo la scoperta del traffico. Le indiscrezioni in mano alle agenzie di stampa parlano di un uomo che si è venduto per "problemi familiari". Una figlia disabile, una moglie senza lavoro dopo il coronavirus, quattro figli da mantenere e uno stipendio che non permette più di mantenere il tenore di vita di qualche mese prima. Lo ha confermato anche la moglie dell'ufficiale al Corriere della Sera: "Mio marito non voleva fottere il Paese, scusate la parola forte. E non l'ha fatto neanche questa volta, ve l'assicuro, ai russi ha dato il minimo che poteva dare. Niente di così compromettente. Perché non è uno stupido, un irresponsabile. Solo che era disperato. Disperato per il futuro nostro e dei figli. E così ha fatto questa cosa...". "Walter era veramente in crisi da tempo - dice la donna al Corsera - aveva paura di non riuscire più a fronteggiare le tante spese che abbiamo. L'economia di casa. A causa del Covid ci siamo impoveriti". "Tremila euro di stipendio non bastavano più per mandare avanti una famiglia con 4 figli, 4 cani, la casa di Pomezia ancora tutta da pagare, 268 mila euro di mutuo, 1.200 al mese. E poi la scuola, l'attività fisica, le palestre dei figli a cui lui non voleva assolutamente che dovessero rinunciare. Noi viviamo per i figli, abbiamo fatto sempre tanti sacrifici per loro. Niente vizi, niente lussi, attenzione, solo la vita quotidiana che però a lungo andare fa sentire il suo peso". Intanto però ha tradito la patria. Una preda facile, quindi, per i servizi segreti, che da sempre si affacciano nei ministeri che contano e nelle caserme con le lusinghe di chi conosce i punti deboli degli uomini che compongono un certo reparto. Cinesi e russi in questo senso sono maestri, ma semplicemente perché noi siamo dall'altra parte della barricata e subiamo le loro sirene. Probabilmente il Gru, l'intelligence di Mosca, sapeva tutto di Biot e ha saputo colpire dove era il suo fianco scoperto. Questo non è ovviamente una scriminante, ma fa comprendere il metodo che è stato usato. I punti deboli diventano immediatamente punti di forza per l'avversario. Anche se in questo caso l'intelligence ha rassicurato la Nato che non si trattasse di un chissà quale asso nella manica della Russia. E forse lo si capisce anche dai metodi utilizzati dagli stessi agenti di Mosca.

Il nodo diplomatico. La Russia però rimane attonita di fronte a una figuraccia di queste dimensioni. Ambasciatore convocato alla Farnesina, espulsi subito l'uomo delle consegne e il suo diretto superiore. Mosca che è costretta a sfilarsi dicendo che dovrà prendere contromisure "simmetriche" all'espulsione dei due funzionari, mentre ribadisce la speranza che questo non intacchi i rapporti politici con Roma. Ed è proprio questo il punto che più interessa di più alcuni segmenti dell'intelligence e della diplomazia, che ora indagano su cosa e dove volesse arrivare il Gru. AdnKronos citava un interessante commento di una fonte vicina al dossier che sembrava abbastanza stupita da quello di cui era accusata la Russia: "Una mossa molto poco intelligente da parte russa ai danni di un Paese che si è sempre espresso per non interrompere il dialogo". C'è di più, l'Italia è sempre stato un Paese molto vicino alle istanze russe. Forse il più vicino rispetto al blocco Nato. Dai governi italiani le accuse americane verso la Russia sono sempre state ripetute a mezza bocca, più per obblighi che per convinzione, e i rapporti tra i due Stati sono sempre stati molto diversi rispetto a quelli con altre nazioni atlantiche. "Perché mettere il dito nell'occhio di uno dei pochi Paesi che cerca di mantenere un rapporto decente?", si chiede la fonte. Ed è su questo indizio che si gioca l'indagine sul motivo dietro questa spasmodica ricerca della notizia. L'impressione è che dopo la scoperta del tradimento, qualcuno abbia anche voluto lanciare un segnale politico: Luigi Di Maio in primis, che da sempre si è proposto come un referente di una diplomazia moderata nei confronti dei nemici strategici americani. Ma adesso il vento è cambiato: a Washington c'è un nuovo presidente, i rischi per l'intelligence sono molto alti. E la polarizzazione dello scontro fa sì che non si accettino più tentannamenti. È finita un'epoca: e l'Italia sembra doverne prendere atto.

Gabriele Carrer per formiche.net il 31 marzo 2021. Il governo britannico di Boris Johnson ha espresso “solidarietà” all’Italia per la spy story che vede coinvolto un alto ufficiale della Marina, Walter Biot, accusato di aver venduto documenti riservati a un militare russo. Ritwittando il messaggio con cui il ministero degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha riferito della protesta consegnata all’ambasciatore russo a Roma e dell’espulsione di due funzionari russi, il capo della diplomatica britannica, Dominic Raab, ha offerto il sostegno di Londra a Roma e denunciato “l’attività maligna e destabilizzante della Russia, che mira a minare un alleato della Nato” come l’Italia. Formiche.net ha chiesto un commento al professor Mark Galeotti, direttore di Mayak Intelligence e senior associate fellow del Royal United Services Institute, il più antico think tank al mondo. “L’Italia si era schierata con il Regno Unito dopo l’avvelenamento di Sergej Skripal, quindi c’è un elemento di reciprocità”, spiega. “Più in generale, Londra sembra capire che questo tipo di solidarietà è cruciale per scoraggiare l’attività russa”. Come ha evidenziato il politologo Mark N. Katz in una recente analisi per l’Atlantic Council della “scommessa mediterranea” di Vladimir Putin, le relazioni del Cremlino sono storicamente “particolarmente forti con l’Italia, che acquista quantità sostanziali di gas naturale russo e che non condivide il punto di vista di altri membri della Nato che vedono la Russia come una minaccia”. Ma secondo Galeotti la spy story riguarda la Nato e l’Occidente. Secondo l’esperto, infatti, “non c’è nulla di particolare verso l’Italia” da parte di Mosca. “I russi stanno conducendo operazioni di intelligence attive e aggressive in tutto l’Occidente”, aggiunge. Rispondendo a una domanda su Twitter, Galeotti aveva sostenuto: “Non ho dubbi che ci sarà almeno un’espulsione” da parte russa dopo quelle italiane. “Questo causerà inevitabilmente tensioni con l’Italia, ma in un certo senso Mosca è intrappolata dalle sue stesse retorica e pratica passate”. In pratica, non la Russia non può fare altro. “Mosca si vendica sempre delle espulsioni occidentali pubblicizzate, e già abbiamo visto nazionalisti alla Duma chiedere un’azione reciproca”, spiega a Formiche.net. “In questo contesto, senza espulsioni Mosca avrebbe paura di apparire debole o di ammettere la colpa”. E ora? Galeotti dice di non attendersi “alcun cambiamento reale: penso che finché Vladimir Putin è al potere, non possiamo aspettarci alcun miglioramento sostanziale. Ma nessuno ha interesse in un grave peggioramento delle cose”. Un’ultima battuta gliela rubiamo sulla cronaca dell’arresto: l’ufficiale italiano e il funzionario russo sono stati fermati durante uno scambio documenti per contanti in un parcheggio di Roma. Non sembra in linea con la sofisticatezza spesso glorificata dalle spie russe. “In un certo senso, penso che tutto lo spionaggio – che in gran parte è noioso, routinario e ha uno scarso impatto reale sul mondo – sia sopravvalutato”.

Francesco Grignetti per "la Stampa" l'1 aprile 2021. Il gioco delle spie, l'ammiraglio Sergio Biraghi lo conosce bene. Ha trascorso quasi tutta la sua vita nei servizi segreti della Marina, prima di andare al Quirinale come consigliere militare di Carlo Azeglio Ciampi e terminare la carriera come Capo di stato maggiore. «Le regole del gioco - sorride - sono sempre le stesse. Loro ci provano, noi dobbiamo impedirlo. Ma vale anche all'inverso. Pure noi ci proviamo».

Una continua partita a scacchi.

«E ci fu una volta che ai russi diedi io personalmente scacco matto».

Come andò, ammiraglio?

«Erano i primi anni Novanta e io comandavo il Sios-Marina. Mi chiama un nostro sottufficiale che era appena andato in pensione e lavorava per una ditta privata in Lombardia. Tramite un amico, l'addetto commerciale del Consolato di Milano voleva conoscerlo. Aveva saputo che era un esperto di sonar e di caccia ai sommergibili».

E lei?

«Dissi subito: vai avanti, fingi interesse. E infatti ci furono incontri. Il nostro, ben istruito da me, disse di avere ottimi rapporti con i colleghi e di essere offeso per come l'aveva trattato la Marina. Ci fu un primo abboccamento, poi un secondo. Il russo faceva molte domande. Il nostro sottufficiale lasciò intendere che aveva alcuni documenti interessanti, e che poteva contattare chi lo aveva sostituito a bordo della fregata Maestrale. A quel punto l'uomo del consolato si mostrò molto interessato in particolare a un manuale tecnico sulle caratteristiche dei sonar che noi usavamo per monitorare i loro sottomarini nucleari. Un manuale ovviamente classificato. Uscì fuori, come ci aspettavamo, anche il discorso dei soldi. Si misero d'accordo per una quindicina di milioni in cambio della prima consegna. Ovviamente c'erano ancora le lire. A prova di affidabilità, diede al russo la prima pagina del manuale».

Come finì?

«Il russo a quel punto aveva una fretta indiavolata. Voleva tutto il manuale. E noi lo preparammo nella tipografia della Marina: tra la notte del sabato e la domenica, stampammo un manuale con le vere pagine quando inoffensive, e inventate quando segrete. Naturalmente ogni passo era stato concordato con il Sismi e poi con i carabinieri. Al momento dello scambio, il lunedì mattina, appena il russo aprì la valigetta con i soldi, intervennero i nostri. L'uomo fu impacchettato e portato all'aeroporto; i soldi e il manuale farlocco furono sequestrati. Non era stato consumato alcun reato, e perciò non era necessario informare la magistratura. La Farnesina chiamò l'ambasciata a Roma, quelli fecero la scena di chi cade dalle nuvole, diedero la colpa a un eccesso di zelo del loro addetto, ci fecero anzi tante scuse e via. L'uomo fu messo direttamente sul primo aereo per Mosca».

Sembra che ci risiamo, ammiraglio.

«Pare di sì. E mi dispiace molto perché un ufficiale di Marina dovrebbe difendere la patria, non tradirla. Ma si sa, queste sono le regole del gioco. Lo spionaggio è così. E infatti il Sios che comandavo aveva tra i suoi compiti il contro-spionaggio».

E non è la prima volta neppure che i russi infilzano la nostra Marina.

«Vero. Lo scoprimmo dal dossier Mitrokhin. Era una storia di qualche decennio prima, ma mi bruciò moltissimo anche quella. Venne fuori che un nostro ammiraglio, non per soldi quanto per simpatie ideologiche, gli aveva dato documenti segreti. In quel caso il rapporto passava per Roma, tra un addetto dell'ambasciata e il nostro ammiraglio che aveva avuto pure un incarico importante e che io stesso avevo conosciuto alla lontana. Ma c'era poco da fare, era passato così tanto tempo...».

Spionaggio russo, il militare arrestato? "Un colpo a Sputnik e anche a Salvini", il sospetto: cosa c'è dietro. Libero Quotidiano l'01 aprile 2021. Sembra cascare a fagiolo la vicenda del capitano di fregata Walter Biot, accusato di spionaggio politico-militare a favore della Russia e arrestato. Si complica quindi una situazione già delicata dal punto di vista diplomatico, in particolare per quanto riguarda il gelido clima di Guerra Fredda, instauratosi a causa della lotta globale al vaccino. "Abbiamo trasmesso all’ambasciatore russo in Italia la ferma protesta del governo italiano e notificato l’immediata espulsione dei due funzionari russi coinvolti in questa gravissima vicenda" ha fatto sapere il ministro degli Esteri Luigi Di Maio tramite un post pubblicato sui Social. Ora si attende la reazione di Valdimir Putin. Lo scontro diplomatico sembra tuttavia essere legato a più fattori, che vanno oltre la "vicenda Biot". Rispetto agli altri Stati membri dell'Ue, l'Italia è da sempre considerata come il Paese più vicino alla Russia. L'insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, tuttavia ha portato a un inevitabile rinnovo del patto transatlantico tra Usa e Ue. Significative le parole del Presidente della Repubblica federale tedesca Frank-Walter Steinmeier, che aveva sin da subito anticipato i rapporti internazionali futuri della Germania, e quindi dell'Unione europea: "Ora sappiamo di avere di nuovo gli Stati Uniti dalla nostra parte, un partner indispensabile" aveva scritto in una nota ufficiale. Il cambio a Palazzo Chigi che ha visto Mario Draghi prendere il posto di Giuseppe Conte, come ricorda Il Giornale, non ha fatto altro che accentuare l'avvicinamento dell'Italia agli Stati Uniti a discapito dei Paesi orientali. E questo, in un contesto politico che vede in Italia alcune forze politiche vicine alla Russia, come il M5s e la Lega di Matteo Salvini e che ora vedono indebolirsi le ali filorusse al loro interno. La posizione di Bruxelles si era capita da subito: il presidente del Consiglio europeo Charles Michel aveva presto bollato il vaccino Sputnik V come una "arma di propaganda". L'Ema, l'agenzia del farmaco dell'Unione Europea, aveva invece definito il vaccino come una "roulette russa", ritardando in ogni modo le verifiche del preparato, procedendo invece spedita per quelli americani. Anche Luigi Di Maio ha presto cambiato punto di vista riguardo alla Russia. Come riporta il Giornale, in audizione davanti alle commissioni riunite Esteri di Camera e Senato, il ministro degli Esteri a proposito di Russia e Cina ha parlato di "sistemi politici e valori diversi dai nostri", aggiungendo che "i punti di riferimento dell'Italia sono europeismo, atlantismo e multilateralismo". Parole quelle Di Maio, che sembrano influenzate dal cambio di vertice a Palazzo Chigi. Chissà cosa avrebbe detto invece il grillino se Giuseppe Conte fosse ancora stato alla guida del Paese. La posizione dell'Italia sembra chiara: vaccini assolutamente sì, ma soltanto se provengono dall'Ue o dagli Stati Uniti d'America. La vicenda Biot sembra portare inevitabilmente al rifiuto categorico del vaccino russo, sul quale aveva iniziato a spingere anche Matteo Salvini. Proprio l'Italia aveva aperto al vaccino russo tramite una serie di accordi che ne prevedono la produzione del Belpaese. Ora dovremo però attendere chiusi in casa, fino a quando saranno disponibili le dosi americane Johnson & Johnson. 

La spy story e le manovre pentastellate. Russiagate in salsa 5 Stelle: così Grillo, Di Battista e Di Stefano hanno costruito l’asse con Roma-Mosca. Nicola Biondo su Il Riformista il 2 Aprile 2021. Che l’Italia fosse un target per l’Ambasciata russa è un dato pubblico. Artem Kalabukhov, nel board della diplomazia putiniana a Roma, lo scriveva chiaramente in rete. Il 13 novembre 2016 – in piena campagna referendaria – ritwitta un post, una lista di obiettivi che il suo Paese sta raggiungendo e a ogni obiettivo raggiunto c’è una spunta. Brexit, Usa, Bulgaria, Moldova sono i target raggiunti. A cui segue la lista di quelli da raggiungere: Olanda, Italia, Francia, Germania. Tutto sotto una foto di Vladimir Putin che mangia popcorn come fosse davanti al suo spettacolo preferito. Kalabukhov, ex dirigente dell’ambasciata moscovita, amava frequentare salotti e università italiane dove esporta la teoria degli “alternative facts”, la distopica visione del mondo secondo Mosca. Era in prima fila quando Beppe Grillo, accompagnato da Alessandro Di Battista, varcò i cancelli di Villa Abamelek, storica residenza dell’ambasciatore russo, in uno degli scorci più belli di Via Aurelia Antica. Sul numero degli incontri e sulle date non c’è alcuna certezza: in Italia succede anche questo. Che avvenimenti politici di carattere internazionale vengano clamorosamente “bucati”. La cronaca odierna, l’arresto di un ufficiale italiano e l’espulsione di due diplomatici russi che lo hanno corrotto, ha il pregio di svelare una certezza: l’Italia il suo “Russia-gate” lo ha davanti gli occhi da anni. E da anni lo ha occultato riducendolo nel migliore dei casi “a colore”. Così fu derubricato l’incontro in ambasciata dallo stesso Grillo, “mi vennero a prendere con una macchina scassata Dibba e Di Stefano… (attuale sotto-segretario agli Esteri) “. Insomma, una gita. Di certo è stato “colore” il fidanzamento di Di Battista con una ragazza moldava che lo portò a frequentare l’Istituto di Cultura e Lingua Russa nel quartiere Monti e da qui a un primo contatto con l’ambasciata di Mosca. Era il 2015 e Ana, questo il nome della ragazza, lo introdusse in quel mondo e divenne la sua consigliera più fidata. Ma nella primavera del 2016 improvvisamente tutto cambiò: prima arrivò l’annuncio di lui di future nozze e poche settimane dopo la ragazza venne «licenziata» da compagna e da consigliera: sarebbe entrata in conflitto con lo staff milanese e la segreteria di Di Battista, recitavano gli spin finiti nel rullo delle agenzie. Fino ad allora Dibba e Di Stefano avevano in mano il dossier russo. La giravolta del Movimento sulla Russia di Putin era stata radicale, veloce e priva di spiegazioni. E i due deputati l’avevano incarnata perfettamente, fino a portare Di Stefano al congresso di Russia Unita. Per Grillo e Casaleggio Putin era un assassino e la Russia una dittatura. Poi il Genovese si cambiò d’abito nel marzo 2014 e Putin divenne un faro a cui guardare. Il Movimento chiese la fine delle sanzioni, derubricò l’invasione ucraina a “una guerra scatenata dalla Nato” fino al 2015 quando Grillo rilasciò un’intervista a pagamento a Russia Today, l’asset della propaganda russa noto tra le altre cose per aver ricompensato il generale Usa Michael Flynn poi finito agli arresti. I viaggi sauditi di Renzi erano al di là da venire, nessuno si pose il problema che un leader politico ricevesse soldi da un network di Putin. Di certo è che la propaganda russa veniva irradiata in Italia attraverso i canali ufficiali del Movimento, il blog di Grillo, e da Tze Tze un sito gestito da Casaleggio associati. La Rete nella storia del Russia-gate italiano ha un ruolo fondamentale. Pietro Dettori, social media manager prima della Casaleggio e oggi nella segreteria del ministro Luigi Di Maio è tra i fan del leader russo: “Con Putin non si scherza – ritwitta dal sito “Silenzi e falsità” gestito dal fratello – Mosca ha annunciato il progetto per un nuovo missile nucleare che si chiama RS 28, o Satan 2, in grado di colpire e ridurre in cenere un territorio della dimensione del Texas o della Francia. “Putin è uno che tira, il suo nome produce traffico sulla rete”, erano le istruzioni che arrivavano all’ufficio comunicazione del Movimento. Alla battaglia mediatica, come quella del diplomatico Kalabukhov, si è sommata quella politica. Negli stessi giorni di quel tweet così poco diplomatico Di Battista, era impegnato sul fronte referendario per la riforma costituzionale. C’è chi, in quei giorni, lo ricorda negli uffici del gruppo parlamentare profferire una frase che se fosse confermata, e fino ad oggi Dibba non l’ha mai smentita, spiegherebbe molto. “ Che ne dite di farci dare una mano per la campagna sul referendum dall’ambasciatore russo? Con tutto quello che stiamo facendo per loro…”. Sbruffonerie o i vertici dell’ambasciata erano davvero così intimi con il deputato? Certo è che di cose gradite a Mosca ne avevano davvero fatte tante. Allora tutto passò sotto silenzio: tutto era derubricato a gossip, colore. Oggi di fronte all’espulsione di due diplomatici russi assumono ben altro significato le accuse di “maccartismo” che Grillo e Di Battista rilanciano nei confronti dell’amministrazione Usa. “Invece di costruire nuove fondamenta per una più ampia cooperazione internazionale Biden-Blinken identificano nemici – con toni bellicosi nei confronti di Russia e Cina – attribuendo responsabilità sempre e solo agli “altri”. Parola del Garante che un giorno diede del criminale a Putin e poi cambiò idea.

Da liberoquotidiano.it il 2 aprile 2021. Andrea Purgatori ha offerto il suo punto di vista sul caso di spionaggio russo che sta tenendo banco su tutti i quotidiani. In collegamento con Francesco Magnani a L’aria che tira, il giornalista di La7 ha voluto sottolineare due aspetti di questa clamorosa vicenda: “Dal punto di vista italiano questa purtroppo è una storia molto triste, nel senso che le informazioni sono state vendute non per motivi ideologici ma economici, pare che questa persona abbia un problema familiare molto serio, con la figlia che ha bisogno di aiuto, e quindi si trovava pressata”. E poi c’è l’aspetto legato alla Russia, che è anche quello più serio e rilevante: “Qui dobbiamo mettere nel conto che siamo dentro a una questione internazionale. Sappiamo che la Russia è accusata dagli Stati Uniti di interferenze nelle ultime due elezioni presidenziali; sappiamo che ci sono state delle situazioni critiche con diversi paesi europei per l’espulsione di presunte spie. La Russia ha una tendenza nell’ingerenza degli affari dei paesi occidentali e di conseguenza quello che è successo a Roma di sicuro avrà un impatto”. Purgatori è infatti convinto che ora di certo non miglioreranno le relazioni, ma d’altronde il giornalista è convinto che la guerra fredda non sia mai finita: “Si è solo trasformata. Vladimir Putin è stato ex responsabile dell’ex Kgb, esiste un’impostazione per cui la Russia fa politica anche con lo spionaggio e ovviamente a danno dei paesi occidentali. Il controspionaggio ha lavorato molto bene, è stato capace di bloccare questo flusso di informazioni che riguarda non solo l’Italia ma anche la difesa europea”.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” l'1 aprile 2021. La dolce vita delle spie, dove muoversi senza bisogno di stare nell’ombra, sentendosi in qualche modo a casa. Quando è caduto il Muro, è tramontato il mito di Vienna: il porto franco delle trame sospeso tra i due blocchi, città di misteri consacrata da quel “Terzo Uomo” scritto non a caso dal maestro delle spy story Graham Greene. Ma subito il Grande Gioco dell’intelligence ha trovato un nuovo approdo, molto più confortevole: Roma, la più levantina delle capitali occidentali, scenario nell’ultimo trentennio di arcani internazionali rimasti quasi sempre sotto silenzio. Senza più l’Unione Sovietica, i russi non apparivano più come nemici bensì partner nella lotta al terrorismo. E nella lunga stagione di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, Vladimir Putin è diventato l’amico più caro tra dacie, lettoni e transazioni economiche mai decifrate. Un’apertura che il fondatore di Forza Italia ha sempre presentato come perno di una mediazione verso gli Stati Uniti, sognando di incentivare la pace mondiale. Dopo di lui, però, è arrivata l’ondata del populismo con la scalata al potere di Lega e Cinque Stelle prima maniera, facendo dell’Italia una terra di conquista: il ventre molle della Nato, con un ministro degli Interni che lodava il Cremlino e tifava per l’annessione della Crimea, dove lavorare per scalzare il pilastro meridionale dell’Alleanza atlantica. Tutte le strade portano a Roma, inclusa la via della Seta. Con un’esplicita influenza di Pechino per legarci commercialmente all’impero economico d’Oriente. Come dimenticare le visite di Beppe Grillo all’ambasciata cinese e la campagna per adottare la rete 5G Made in China? Si è arrivati persino alla collaborazione spaziale lanciata agli esordi del governo Conte, progettando insieme satelliti e stazioni orbitanti dove mandare AstroSamantha Cristoforetti. L’assedio del Dragone alle aziende con tecnologie pregiate è stato asfissiante. Contrastato dal più sensibile dei nostri reparti d’intelligence, quell’unità anti-proliferazione dell’Aise che veglia sui mercanti di strumentazioni a doppio uso: in apparenza civile ma molto spesso militare. Una sfida riservatissima, giocata su diversi fronti fino agli ultimi giorni del governo Conte. Nasce sulla scacchiera dei segreti industriali uno degli affaire più delicati: la cattura di Aleksandr Korshunov, top manager dell’azienda bellica statale Odk, sorpreso nel settembre 2019 a Capodichino mentre andava a godersi i lussi di Capri. Contro di lui c’era un mandato di cattura statunitense perché Korshunov grazie ad alcuni soci italiani si era appropriato dei disegni di motori americani. A dimostrazione della caratura del personaggio, si mosse Vladimir Putin accusando gli Stati Uniti perché facevano “arrestare cittadini russi in Paesi terzi”, in modo da “complicare le relazioni bilaterali”: un messaggio chiaro al governo di Roma. Quando poi la Corte d’Appello di Napoli si è pronunciata in favore dell’estradizione negli Usa, la magistratura russa ha presentato a sua volta la domanda di processarlo in patria. Tra Mosca e Washington, a chi abbiamo dato ragione? Korshunov è volato a casa, grazie a una decisione del ministero guidato allora da Alfonso Bonafede. Quasi un replay di quanto accaduto dopo il blitz di Trastevere del 21 maggio 2016. Sergey Nicolaevich Pozdnyakov aveva dato appuntamento al funzionario dell’intelligence portoghese Manuel Frederico Carvalho, promettendo 10 mila euro in cambio di documenti Nato top secret. La polizia è entrata in azione e li ha colti sul fatto. Pozdnyakov però ha rivendicato di avere una copertura diplomatica e dopo due mesi è stato scarcerato dalla magistratura capitolina, con successiva archiviazione delle accuse. Tutti felici e contenti, tranne gli alleati visibilmente infastiditi per la posizione italiana. Tanto più che nell’ultimo lustro la Penisola è tornata a essere strategica nel confronto tra potenze, con un peso crescente delle uniche installazioni Nato del Mediterraneo. Non a caso, lo scorso agosto è finito in cella un colonnello francese del comando atlantico di Napoli, catturato Oltralpe per avere venduto informazioni classificate agli emissari del Cremlino. L’irritazione americana ha raggiunto l’acme un anno fa, quando il premier Conte ha accolto l’offerta di Putin e aperto le braccia a una brigata chimica dell’esercito russo per lottare contro il Covid. Non era mai avvenuto che truppe di Mosca sbarcassero in territorio della Nato e la mossa di Palazzo Chigi ha spiazzato i vertici militari e quelli degli apparati di sicurezza. Perché i volenterosi accorsi per disinfestare gli ospizi lombardi erano anche specialisti dell’intelligence e si sono aggirati per mesi intorno alla base di Ghedi, sede pure di un deposito statunitense di armi atomiche. Sempre marcati a vista dai nostri soldati e dalla nostra intelligence. Che tiene gli occhi bene aperti su chi cerca di confondersi tra la folla di turisti e tra il personale delle 120 ambasciate attive nella capitale, a cui vanno aggiunte le delegazioni accreditate agli uffici Onu della Fao. Un via-vai di cui hanno approfittato spesso gli agguerriti 007 nord-coreani, usando la Città Eterna come trampolino di lancio per le loro incursioni europee. Missioni non sempre fortunate, perché proprio a Roma il regime di Pyongyang ha subìto lo smacco più clamoroso: la defezione dell’ambasciatore Jo Song-gil, sparito alla fine del 2018 e ricomparso due anni dopo a Seul. Un’operazione da manuale a cui non sono estranei le donne e gli uomini dell’Aise. Nonostante i luoghi comuni farseschi e la lunga litania di scandali, nel corso degli anni i nostri Servizi hanno sempre saputo farsi rispettare dagli avversari. Lo racconta Fulvio Martini, l’ammiraglio che ha guidato il Sismi nella fase finale della Guerra Fredda, descrivendo un episodio: «Da intercettazioni telefoniche, ci risultò che alcuni agenti del Kgb, parlando del Sismi, ci chiamavano gli “italianucci”. Decisi allora di dare una lezione al capo della “residentura”, cioè il centro romano del Kgb, usando su di lui le stesse tecniche di pressione che loro usavano a Mosca contro gli occidentali. Impiegai per l’operazione più di quindici auto, che non lo lasciarono per un minuto quando lui era fuori dell’ambasciata, stringendolo da vicino. Alla fine gettò la spugna e rientrò a Mosca. Nessuno ci chiamò più gli “italianucci”». Nel suo “Nome in codice Ulisse”, forse il miglior memoir di una nostra spia, Martini sottolinea una questione chiave rimasta ancora irrisolta: «Il rapporto classe politica-Servizi è un punto dolente della vita pubblica italiana. La classe politica italiana è mentalmente impreparata alla gestione dei Servizi, non li capisce, tende a volte a usarli per scopi per i quali non possono e non devono essere impiegati, ma soprattutto non ha nei confronti dei servizi quella considerazione, quella consapevolezza di non poterne fare a meno che esiste non solo nei Paesi autoritari ma anche nelle piccole e grandi democrazie, soprattutto quelle anglosassoni». Adesso le cose stanno cambiando. Lo dimostra la delega affidata da Mario Draghi a un esperto come Franco Gabrielli. E le parole pronunciate nel presentare il suo esecutivo: «Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica,nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori». Anche a costo di affrontare un braccio di ferro con il Cremlino.

Marco Conti per "il Messaggero" l'1 aprile 2021. Ciò che rileva dell'«atto ostile» russo, come lo definisce il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è l'immediata pubblicità data all'operazione di controspionaggio. Appena informato sull'esito dell'operazione da Franco Gabrielli, sottosegretario con delega ai Servizi, e dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, Mario Draghi ha voluto che l'arresto del militare italiano e il fermo del diplomatico russo venissero comunicati immediatamente ai presidenti delle commissioni Difesa ed Esteri e al Copasir. E che Di Maio ne chiedesse conto all'ambasciatore russo a Roma. «L'eccellente lavoro di Aisi e Ros», sottolineato nelle ore successive da molti esponenti della maggioranza, diventa quindi l'occasione per ribadire il perimetro di alleanze dentro il quale si muove la politica estera del governo Draghi. Un perimetro saltato con la maggioranza gialloverde del Conte-1 - perennemente oscillante tra Russia e Cina, irridente dell'Europa e della Nato - e rimasto sospeso con il Conte-2 dove non solo si salutarono come «eroi» i medici russi giunti da Mosca in piena pandemia, ma si permise una scorribanda di mezzi russi da Pratica di Mare a Bergamo concordata via telefono da Giuseppe Conte con Vladimir Putin. Nessuno vuole una rottura diplomatica con Mosca. Anzi, nel governo c'è chi considera controproducente l'aggressività russa svelata dall'operazione dell'Aisi e del Ros. L'Italia, quando si discute a Bruxelles delle sanzioni nei confronti della Russia per l'aggressione alla Crimea, ha infatti cercato sempre una mediazione rispetto a posizioni ben più drastiche. Ma l'azione dell'intelligence russa stavolta è stata colta in fragranza e l'interesse per documenti Nato classificati, già emersa a Napoli con l'arresto tenente colonnello francese, si somma alle continue interferenze russe sulle democrazie europee. «Europeismo e atlantismo», i due cardini che Draghi ha messo da subito in chiaro sin dalle consultazioni per la formazione del governo, emergono come i due più evidenti segni di discontinuità rispetto al governo precedente e pongono un problema alla Lega di Salvini che fatica ad uscire dallo schema del Metropole e a posizionare il partito nel solco delle liberaldemocrazie. Aver però fatto capire a Mosca che con l'atlantismo dell'Italia non si scherza, serve anche per mandare un messaggio alle molte vedove del precedente assetto che emergono non solo nel M5S, ma anche nel Pd. Il post diffuso da Beppe Grillo poche ore dopo l'operazione di controspionaggio, nel quale accusa l'attuale amministrazione americana di «maccartismo» nei confronti di Russia e Cina, svela quanta poco sia cambiata la politica estera grillina e il rammarico di Di Battista lo conferma. Nel Pd è appena arrivato Enrico Letta, europeista ed atlantista al pari di Draghi, ma tra i dem c'è chi continua ad invocare il vaccino Sputnik malgrado il presidente del Consiglio abbia più volte spiegato che i russi non hanno dosi a sufficienza e sia riuscito a convincere persino Salvini che non vale la pena finanziare i laboratori biomedici militari russi. D'altra parte l'attuale governo non ha bisogno del sostegno geopolitico ed internazionale del Quirinale e di Sergio Mattarella proprio perché non intende fare sconti o nascondere vicende spiacevoli come quella di martedì notte. Ottimi rapporti con tutti, compreso con un Paese come la Russia con il quale l'Italia ha rapporti decennali, ma nessun cedimento geopolitico sia verso Mosca, sia verso Pechino. Soprattutto ora che alla Casa Bianca c'è Joe Biden e che la politica estera americana ritorna a quel «multilateralismo efficace» evocato da Draghi nel suo discorso di insediamento. Anche se alla Farnesina si attendono reazioni da parte russa alle espulsioni di funzionari, non c'è preoccupazione per i rapporti tra i due Paesi che ogni anno realizzano un interscambio di oltre venti miliardi basato da parte russa quasi esclusivamente sul gas. Proprio perché Roma non sta costruendo con i russi un gasdotto, non c'è stato a Roma l'imbarazzo registrato a Berlino quando Biden ha definito «Putin un assassino». Così come non si è esitato ieri a render noto come si comporta il governo di una democratura.

Luca Rocca per Adnkronos l'1 aprile 2021. - "Per come si è sviluppato e per le mie conoscenze del servizio segreto russo, in particolare del Gru, si tratta di un caso classico. Quello che mi meraviglia è perché si sia dato questo clamore al caso. Potrebbe trattarsi della solita, banale lingua lunga di qualche nostro funzionario che parla con la stampa, però mi sembra strano, perché conosco quelli che lavorano in quel settore e non hanno la lingua lunga. E allora forse c'è qualche decisione a livello governativo, anche in un quadro di valutazione di politica generale. Penso non si tratti, dunque, di una fuga di notizie, se non voluta. Credo, insomma, si tratti di una valutazione che deve aver fatto l'organo di governo". A dirlo all'AdnKronos è l'ex direttore del Sisde Mario Mori, commentando il fermo di un ufficiale della Marina Militare e un ufficiale delle Forze Armate russe di stanza nel nostro Paese con le accuse di spionaggio e rivelazione di segreto. "Ho visto che il ministro degli Esteri definisce l'accaduto gravissimo - aggiunge Mori -, ciò sta a dimostrare, a mio avviso, che questa propalazione, anche in maniera eclatante, era avallata, voluta. Di Maio ha parlato di "atto ostile", ma gli atti ostili li fanno tutti, anche gli americani, gli inglesi, i cinesi. Si fa attività di spionaggio, la fanno i russi, la fa tutto il mondo". Per Mori, dunque, "il caso è stato ingigantito, perché  tutto sommato quell'ufficiale, un tenente colonnello con quella  collocazione, non è che poteva avere i segreti della Nato. Mi sembra  non potesse rivelate dei grandissimi segreti militari". Quanto alla  possibilità che la vicenda possa ripercuotersi sulle relazioni fra  Italia e Russia, Mori sottolinea: "La vicenda non avrà assolutamente  ripercussioni sui rapporti tra Roma e Mosca. Questi sono fatti che  accadono da sempre. Forse loro ci manderanno indietro uno o due  diplomatici, ma si fa così per prassi. Il caso non inciderà su quelli  che sono i fondamenti del rapporto tra i due Stati. Poteva avere  un'altra dimensione un caso di attività spionistica fra Russia e Stati Uniti, o fra Cina e Stati Uniti, perché siamo fra i livelli massimi e  avrebbe avuto un valore di livello strategico, ma non nel nostro caso.I nostri segreti, insomma, sono molto relativi". Mori, sempre all'Adnkronos, spiega di non vedere differenze fra lo  spionaggio di un tempo e l`attuale: "In base alle notizie emerse, il  comportamento dei russi mi pare uguale a quello dei miei tempi. Ma  proprio uguale uguale: la scelta dell`ufficiale, la sua collocazione  in un determinato ambiente, l`approccio, le sue condizioni economiche.E la tecnica del Gru. Non è cambiato nulla". Quanto, infine,  all`efficacia della nostra intelligence, Mori conclude: "Noi sul  terreno siamo bravi, il problema è che il governo ci dia gli indirizzi giusti e le autorizzazioni giuste. Poi sul terreno non ci insegna  nulla nessuno, non ci ha mai insegnato nulla nessuno".    

Da liberoquotidiano.it l'1 aprile 2021. Tengono banco da giorni le polemiche su Laura Boldrini e la sua ex collaboratrice, che sarebbe stata trattata come assistente personale e colf. Si è parlato del fatto che la dipendente non avrebbe ricevuto la liquidazione, ma anche delle vessazioni e umiliazioni che avrebbe subito da parte dell'ex presidente della Camera. In realtà, però, l'intera vicenda era già nota da anni. Lo dimostrano le esilaranti imitazioni che il comico Paolo Kessisoglu faceva della Boldrini a Giass, lo show condotto da Luca e Paolo su Canale 5 nel 2014. In una delle clip, per esempio, si vede la fake Boldrini che dice: "Ho passato tanti anni a viaggiare per il mondo con la delegazione dell’Onu, ho visto tanta sofferenza e tanto dolore". Alla domanda sul momento più difficile vissuto, la deputata interpretata da Paolo risponde: "Sicuramente a Belgrado, ma non per la guerra. Dov’ero io, al Four season, dopo le 9 e 30 non davano più la colazione, una grave e sessista mancanza di rispetto". Ma non è tutto. In un altro video ironico, la Boldrini fake dichiara: "Che questo Paese sia alla rovina si evince dagli spot pubblicitari in tv. Non si può concepire come normale uno spot in cui i bambini e il papà sono tutti seduti ed è solo la mamma a servire a tavola. Cosa vuol dire questo? Che non hanno la filippina". Insomma, una serie di video ironici e caricaturali che sembrano aver previsto da tempo gli atteggiamenti oggi sotto accusa della Boldrini.

Michela Allegri per "Il Messaggero" l'1 aprile 2021. Pagamenti per materiale mai consegnato, ordini raddoppiati e, soprattutto, la rivelazione di segreti commerciali. Per la procura di Roma era un'associazione a delinquere quella che avrebbe agito ai danni di Alitalia, inserendosi nei sistemi informatici, carpendo anche notizie riservate e disponendo pagamenti indebiti. Episodi che si sono ripetuti nel tempo. La denuncia della società, già in amministrazione straordinaria, è stata depositata nel 2018 e adesso in tre rischiano il processo con accuse molto pesanti l'organizzazione, secondo il pm Maurizio Arcuri, che ha chiesto il rinvio a giudizio, avrebbe commesso oltre una ventina di reati, che vanno dalla truffa alla frode, alla rivelazione di segreti commerciali, sempre attraverso ingressi abusivi al sistema informatico. Fatti che si sarebbero ripetuti dal 2014 al 2017, fino a quando Mirko Neri, all'epoca buyer di materiali tecnici aeronautici di Alitalia, non sarebbe stato scoperto. Con lui rischiano di finire a processo anche Orlando Camejo e John Nespola della East Air Corporation, una società del New Jersey che si avvantaggiava di informazioni e pagamenti indebiti. Tra il 20 e il 27 ottobre del 2014, Neri avrebbe mandato sette email a Camejo per rivelare alcuni aspetti riservati della negoziazione per l'acquisto di materiali dalla società Meridiana. In particolare, in parallelo con le attività di contrattazione, trasmetteva la lista dei materiali oggetto di trattativa, specificando le componenti di interesse per Alitalia. Notizie di cui disponeva proprio per il suo ruolo. Sarebbe accaduto anche nel 2015, per l'acquisto di materiali dalla società AeroDirect, una commessa di 340 mila dollari. Neri avrebbe trasmesso ai suoi complici la lista dei materiali oggetto della negoziazione, e alla fine l'accordo si sarebbe chiuso con la East Air Corporation, ma per 378 mila dollari. Un altro dei tanti episodi contestati risale al 2016, quando con tre email Nespola avrebbe ricevuto il report relativo agli acquisti di materiale aeronautico effettuato da Alitalia, con il volume di affari stratificato per ciascun fornitore. Il 21 febbraio 2017, invece, Camejo e Nespola avrebbero ottenuto, sempre da Neri, la quotazione di alcune componenti aereonautiche, trasmesse alla compagnia da un altro fornitore e anche l'esortazione per East Air di proporre un altro prezzo prima dell'apertura di una pubblica offerta. Le contestazioni riguardano alcune migliaia di euro, soldi accreditati sempre alla East Air, per materiali mai consegnati. Neri avrebbe agito sempre attraverso l'ingresso abusivo nel sistema informatico della compagnia aerea e l'accesso ai programmi di gestione degli acquisti e della contabilità di Alitalia. Così la fattura del 22 settembre 2017 di 7.784 dollari sarebbe stata mandata in pagamento, anche se i materiali non erano mai stati consegnati. E riguarda sempre merce mai arrivata un'altra fattura di 4,600 del luglio 2017. Poi un altro ordine, ma questa volta il pagamento era di oltre 33 mila dollari. Saldato senza un corrispettivo. Il 16 ottobre del 2017, invece, Neri avrebbe variato la quantità dell'ordine raddoppiando così il pagamento a favore della compagnia americana. «Attraverso la rielaborazione del documento di interfaccia - si legge nel capo di imputazione - faceva figurare come consegnata la fornitura di materiali item 8, in realtà mai avvenuta e variava la quantità oggetto dell'ordine, incrementandola da 1 a 10 unità, circostanza che comportava il rilascio al pagamento: 7.784 dollari».

Emanuele Rossi per formiche.net il 2 aprile 2021. L’Italia non è un covo di spie (non più di altri Paesi), non un ventre molle da penetrare, non un paese facilmente disallineabile dalla sua connotazione geopolitica atlantista, ma la Russia ha interessi in sovrapposizione con Roma e per questo le attenzioni di Mosca sono ancora alte sulla Penisola. La vicenda di spionaggio per la Russia che ha coinvolto un alto ufficiale della Marina è una testimonianza sull’attualità: dalla Libia al ruolo nella Nato, dall’Ue alle missioni militari italiane, ci sono molti ambiti interessanti per il Cremlino. In Libia, l’Italia ha acquisito centralità mantenendo una presa forte dietro al governo onusiano di Tripoli ma senza perdere completamente contatto con i ribelli della Cirenaica, lato su cui è schierata la Russia — con dispiegamento militare a responsible deniability tramite contractor privati. Conoscere i segreti di Roma sulla Libia è importante anche per la coopetition con la Turchia, inoltre, e perché la Russia è interessata un affaccio nel Mediterraneo centrale (da aggiungere a Tartus, sulla sponda siriana). Dalla Libia infatti si avrebbe un posto di osservazione importante sul Canale di Sicilia, sul Muos e sulle basi di Augusta e Sigonella. Ambiti Nato di alto valore strategico, con i movimenti dell’Alleanza che sono una costante delle attenzioni (quasi esistenziali) russe. Come nel caso degli F-35, molto più di un caccia, ma simbolo della catena di cooperazione occidentale guidata dagli Usa. O come si vede sul Baltico e sui Balcani, altri due teatri in cui l’Italia è attiva — sempre nel quadro alleato — e su cui Mosca rivendica spazi. Al Nord, con un occhio evidente al passaggio artico, i russi compiono attività continue, compresi gli sconfinamenti controllati sui cieli baltici con bombardieri strategici. Missioni che servono a sottolineare una presenza per costruire influenza e che spesso finisco oggetto di scrambling da parte degli Eurofighter italiani inglobati nelle operazioni della Nato Air Policing. Nei Balcani l’Italia c’è per disposizione geografica e dunque geopolitica, altra sponda naturale dell’Adriatico in cui la Russia cerca di preservare (con vari mezzi) ciò che resta della sfera di influenza sovietica. Su tutto si somma la situazione attuale. L’aumento delle attenzioni è frutto anche di un cambiamento di paradigma a Washington, con il presidente Biden che ha deciso di ingaggiare la Russia come rivale sistemico del presente (guadando alla Cina come potenza futura), e di farlo chiedendo alle democrazie di compattarsi in un fronte unico a tutela di diritti umani e dei valori liberali. Di più: la pandemia, con il vaccino Sputnik V che la Russia usa per solleticare l’Europa, rimasta a secco di vaccini — e il messaggio diventa un contro canto a quello che Washington vorrebbe costruire, incalzando sulla necessità attuale, vaccinarsi, e sostituirsi nella supply chain ideale e non solo in quella sanitaria (d’altronde il profilo Twitter del farmaco russo d’altronde definisce “ribellione europea” la volontà pubblica di alcuni presidenti di Regione italiani di approvvigionarsi con Sputnik V). E allora, possibile che l’uscita della storia di spionaggio (simile a una come tante, di solito tenute segrete per prassi e utilità) arrivi in un momento in cui il neonato governo Draghi voglia segnare una linea rossa, una demarcazione netta tra ciò che è consentito (il rapporto business) da quello che diventa problematico per l’allineamento strategico italo-atlantico? Tant’è che, per quanto noto, non è stato il fatto in sé, ma la pubblicità ricevuta a colpire Mosca.

Emanuele Rossi per formiche.net il 2 aprile 2021. L’Italia non è un covo di spie (non più di altri Paesi), non un ventre molle da penetrare, non un paese facilmente disallineabile dalla sua connotazione geopolitica atlantista, ma la Russia ha interessi in sovrapposizione con Roma e per questo le attenzioni di Mosca sono ancora alte sulla Penisola. La vicenda di spionaggio per la Russia che ha coinvolto un alto ufficiale della Marina è una testimonianza sull’attualità: dalla Libia al ruolo nella Nato, dall’Ue alle missioni militari italiane, ci sono molti ambiti interessanti per il Cremlino. In Libia, l’Italia ha acquisito centralità mantenendo una presa forte dietro al governo onusiano di Tripoli ma senza perdere completamente contatto con i ribelli della Cirenaica, lato su cui è schierata la Russia — con dispiegamento militare a responsible deniability tramite contractor privati. Conoscere i segreti di Roma sulla Libia è importante anche per la coopetition con la Turchia, inoltre, e perché la Russia è interessata un affaccio nel Mediterraneo centrale (da aggiungere a Tartus, sulla sponda siriana). Dalla Libia infatti si avrebbe un posto di osservazione importante sul Canale di Sicilia, sul Muos e sulle basi di Augusta e Sigonella. Ambiti Nato di alto valore strategico, con i movimenti dell’Alleanza che sono una costante delle attenzioni (quasi esistenziali) russe. Come nel caso degli F-35, molto più di un caccia, ma simbolo della catena di cooperazione occidentale guidata dagli Usa. O come si vede sul Baltico e sui Balcani, altri due teatri in cui l’Italia è attiva — sempre nel quadro alleato — e su cui Mosca rivendica spazi. Al Nord, con un occhio evidente al passaggio artico, i russi compiono attività continue, compresi gli sconfinamenti controllati sui cieli baltici con bombardieri strategici. Missioni che servono a sottolineare una presenza per costruire influenza e che spesso finisco oggetto di scrambling da parte degli Eurofighter italiani inglobati nelle operazioni della Nato Air Policing. Nei Balcani l’Italia c’è per disposizione geografica e dunque geopolitica, altra sponda naturale dell’Adriatico in cui la Russia cerca di preservare (con vari mezzi) ciò che resta della sfera di influenza sovietica. Su tutto si somma la situazione attuale. L’aumento delle attenzioni è frutto anche di un cambiamento di paradigma a Washington, con il presidente Biden che ha deciso di ingaggiare la Russia come rivale sistemico del presente (guadando alla Cina come potenza futura), e di farlo chiedendo alle democrazie di compattarsi in un fronte unico a tutela di diritti umani e dei valori liberali. Di più: la pandemia, con il vaccino Sputnik V che la Russia usa per solleticare l’Europa, rimasta a secco di vaccini — e il messaggio diventa un contro canto a quello che Washington vorrebbe costruire, incalzando sulla necessità attuale, vaccinarsi, e sostituirsi nella supply chain ideale e non solo in quella sanitaria (d’altronde il profilo Twitter del farmaco russo d’altronde definisce “ribellione europea” la volontà pubblica di alcuni presidenti di Regione italiani di approvvigionarsi con Sputnik V). E allora, possibile che l’uscita della storia di spionaggio (simile a una come tante, di solito tenute segrete per prassi e utilità) arrivi in un momento in cui il neonato governo Draghi voglia segnare una linea rossa, una demarcazione netta tra ciò che è consentito (il rapporto business) da quello che diventa problematico per l’allineamento strategico italo-atlantico? Tant’è che, per quanto noto, non è stato il fatto in sé, ma la pubblicità ricevuta a colpire Mosca. 

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 2 aprile 2021. Nella lista diplomatica del personale accreditato presso il ministero degli esteri italiano, alla voce "Ambasciata della Russia", Alexey Nemudrov e Dmitri Ostroukhov - i due russi che ieri mattina sono stati espulsi dall'Italia, coinvolti in un grave caso di spionaggio ai danni del nostro Paese e della Nato - figurano rispettivamente come «addetto navale e aeronautico», e «addetto alla Difesa aggiunto».  Due dizioni che non vogliono dire molto, diluite in un elenco di 63 nomi, a partire dall'ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, in giù. In realtà le notizie che abbiamo sulla loro formazione consentono di affermare che entrambi siano non solo militari, ma provenienti dalle file del GRU, il servizio segreto militare di Mosca. E non è affatto detto che questi siano i loro due veri nomi. Grazie ai database consultati da Christo Grozev di Bellingcat - il collettivo di reporter investigativi fondato da Eliot Higgins, che ha scoperto e svelato l'identità del commando di avvelenatori di Sergey Skripal nel Regno Unito (due operativi del GRU, più un capo), e di Alexey Navalny in Siberia (una squadra del FSB, il successore del KGB) - si scopre che entrambi i russi espulsi da Roma figurano negli elenchi di allievi che si perfezionarono nelle più importanti accademie militari dello spionaggio russo. In particolare una: il leggendario "Conservatorio" del GRU (niente a che fare con la musica). «Sia Alexey Nemudrov (nato nel 1967), attachè militare, sia il suo aiutante Dmitriy Ostroukhov (nato nel 1977) sono diplomati alla cosiddetta "Accademia diplomatica militare" della Russia, conosciuta come "il Conservatorio" del GRU. In precedenza Ostroukhov si era laureato presso l'Istituto del Comando militare di Mosca», ha ricostruito Grozev. Dietro l'apparenza di un quarantenne giovanile e gentile (Ostroukhov) e quella di uno stagionato e sovrappeso capitano di marina russo, siamo davanti a due militari che hanno avuto un training specifico per operazioni particolari. Il "Conservatorio", in Narodnoe Opolchenie Street 50 a Mosca, non lontano dall'area in cui si trova il quartier generale del GRU e dagli istituti di ricerca affiliati all'intelligence militare russa, consta di tre dipartimenti: il primo forma agenti sotto copertura che operano sotto protezione diplomatica. Il secondo forma gli attachè militari, ossia rappresentanti delle forze armate russe in servizio in missioni diplomatiche. Il terzo dipartimento istruisce gli ufficiali che guideranno le operazioni speciali all'estero (compresi, come sappiamo oggi, assassinii, avvelenamenti, sovversione). Nel terzo dipartimento, per capirci, è stato formato Anatoly Chepiga, l'autore materiale dell'avvelenamento di Skripal e sua figlia a Salisbury con il novichok, o il suo capo, Denis Sergeev (nome sotto copertura: Sergey Fedotov. Anche lui ha transitato da aeroporti italiani, in questi anni). Ma anche il secondo dipartimento alleva ufficiali pericolosi: per esempio viene dal secondo dipartimento Eduard Shishmakov, che guidò le operazioni per organizzare un colpo di stato in Montenegro nel 2016. Shishmakov nel 2014 aveva lavorato come addetto militare in Polonia, e poi era stato espulso. Spesso, all'ingresso in Conservatorio - specialmente per ufficiali che fanno il perfezionamento - si danno identità nuove e false (Chepiga divenne "Ruslan Boshirov"), cosa a cui fa pensare il fatto che i due nomi "Nemudrov" e "Ostroukhov" abbiano significati bizzarri ("non saggio", "orecchie affilate"). In ogni caso il Conservatorio è una delle scuole di élite a cui Vladimir Putin tiene di più in assoluto. Non di rado, è vero, le ops delle spie russe sono fallite maldestramente, in questi anni: ma è anche vero che noi conosciamo solo le operazioni fallite, e è possibile che molte altre sfuggano. Nemudrov in Italia aveva una rete di relazioni che lo portava a presenziare a celebrazioni della battaglia di Stalingrado, a eventi in diversi comuni d'Italia, e soprattutto ad accogliere fisicamente lui gli invitati dei ricevimenti a Villa Abamelek, la sede dell'ambasciata russa a Roma. Difficile che chi sia passato da quegli eventi non gli abbia stretto la mano. Per dire, nel febbraio del 2020, tre giorni dopo la visita a Roma dei ministri della Difesa e degli Esteri Sergey Shoigu e Sergey Lavrov dagli omologhi ministri italiani, al ricevimento dato a Villa Abamelek per la "Giornata del difensore della Patria", proprio Nemudrov accolse gli invitati con un discorso di questo tenore: i colloqui italo-russi sono una «solida base» per lo sviluppo della cooperazione tra l'Italia e la Russia per lo sviluppo di una politica di sicurezza che garantisca la pace. Guerra e pace, non solo nella letteratura russa, si toccano.

Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Andrea Ossino e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 2 aprile 2021. Mosca non è generosa con chi sbaglia. E non lo sarà, dunque, con chi, alle 18 di martedì scorso, ha messo a repentaglio la rete di spionaggio che in questi anni le tre agenzie della Federazione - SVR, GRU, FSB - hanno steso in Italia. Almeno un'ottantina di operativi, un terzo della forza diplomatica russa accreditata nel nostro Paese. Disseminata tra l'ambasciata e i consolati, se si deve stare alle stime del lavoro di controspionaggio dell'Aisi. Parliamo dei due ufficiali del GRU (l'intelligence militare estera) che ieri, alle 12.30, si sono imbarcati su un volo Aeroflot a Fiumicino. Aleksej Nemudrov, addetto militare dell'ambasciata, e Dmitrij Ostroukhov, addetto per l'esercito. I responsabili della catastrofe che porta il nome del capitano di fregata Walter Biot. Figlia del peggiore degli errori che una spia possa commettere. L'eccesso di confidenza. Aleksej e Dmitrij pensavano di fare fessi gli italiani. Di muoversi in un contesto non ostile. E di aver fatto, per giunta, anche un affare reclutando quel marinaio di mezza età a 5 mila euro a consegna, quando il loro tariffario ne prevede 40 mila. L'errore dei due ufficiali del GRU è dell'inverno scorso. E ha un set: le ovattate sale di Palazzo Esercito, sede dello Stato Maggiore Difesa, dove, ogni mattina, Walter Biot, sedendosi alla scrivania dell'ufficio Pianificazione, deposita il suo zaino scuro in cui trasporta l'armamentario da talpa che gli hanno consegnato i russi a cui si è venduto. Uno smartphone Samsung S9, una microscheda Sd Hc Kingston e, ormai lo sappiamo, una confezione di medicinali in cui nascondere i segreti che gratta. Una scatola da 60 compresse di "Crestor", un farmaco contro il colesterolo che certo non può insospettire nelle mani di un uomo di mezza età, che avrà pure fatto la seconda guerra del Golfo e l'Iraq, ma che ora combatte contro un solo nemico: il sovrappeso. Dmitrij Ostroukhov, 44 anni, arrivato a Roma nel 2018, da inizio anno ha preso infatti a visitare quegli uffici con eccessiva frequenza. È vero, come tutti gli addetti militari dei Paesi accreditati in Italia, ne ha facoltà in nome del galateo della diplomazia militare. Nondimeno, l'apparire e il riapparire di Dmitrij mette in allarme il capo dell'Ufficio analisi per la minaccia asimmetrica (Uama) dello Stato Maggiore Difesa. È un segreto di Pulcinella, nella comunità dell'intelligence, che quando l'addetto militare di un Paese non alleato supera la soglia della cortesia nelle visite, questo vuol dire che è cominciato un "casting", una selezione di fonti da reclutare. O, come nel caso di Walter Biot, di fonti da coltivare. Quel nome - Dmitrij Ostroukhov - fa scopa con il lavoro che dell'Aisi ha cominciato da tempo su di lui. La conclusione è ovvia: il russo può portare dritto dritto a una talpa. Il 16 marzo scorso - come documentano le otto pagine del decreto di convalida del fermo del capitano di fregata firmato ieri dalla Gip Antonella Minunni - nell'ufficio di Biot vengono dunque installate delle telecamere nascoste. E la vita del marinaio diventa un reality. Non è un ufficiale qualunque, Biot. È il responsabile di tutta la documentazione classificata relativa alle missioni internazionali e agli schieramenti dei nostri reparti nei teatri di conflitto. Le informazioni e le carte cui può attingere sono parte della linfa che alimenta il processo decisionale del Capo di Stato Maggiore della Difesa. E infatti, il 25 marzo, le telecamere lo riprendono nella scena madre che lo condanna. Biot estrae dallo zaino la scheda Kingston e con lei il suo Samsung S9 ricevuto dai russi. Afferra la confezione di "Crestor" da cui estrae due blister di pillole. Scatta le foto allo schermo del suo computer e a uno scartafaccio che ha sulla scrivania. Sono 181 documenti, richiamati al terminale dall'archivio dello Stato Maggiore Difesa. Nove hanno la classifica "riservatissimo" e hanno natura militare. Hanno a che fare con le comunicazioni dei nostri contingenti militari all'estero, con la loro dislocazione sul terreno, con le loro richieste di dotazioni, con la tecnologia e la logistica. Quarantesette documenti, classificati "segreti", portano invece la matrice Nato e hanno a che fare con analisi di scenario, con l'evoluzione del modello di difesa europeo, ma, anche, con la pianificazione delle esercitazioni delle forze alleate. Lui, Walter, dirà, la prima notte dopo l'arresto e di nuovo ieri al suo avvocato Roberto De Vita durante l'udienza di convalida dove pure si è avvalso della facoltà di non rispondere, che "sono informazioni di bassissimo valore che non hanno mai messo a repentaglio, in alcun modo, la sicurezza nazionale". Che "tutto verrà ridimensionato" quando avrà riordinato le idee nella cella di isolamento di Regina Coeli dove resterà per le prossime due settimane. Perché, in fondo, anche l'avvocato De Vita la pensa così: "E' una questione che impressiona per la materia trattata, ma i fatti sono di minima rilevanza". È un ottimista, il capitano di fregata Walter Biot. O, forse, più probabilmente, nello stato catatonico in cui è piombato dalla sera di martedì, è convinto, per parafrasare Flaiano, di poter scolorire la sua tragedia in farsa. Quella di un uomo disperato, non più in grado di mettere insieme il pranzo con la cena e di dare un futuro a una famiglia numerosa in quel di Pomezia. "Quello che ho fatto - ha ripetuto ancora ieri - non ha alcuna proiezione politica, ideologica o di arricchimento. Cercavo solo di fare fronte alle condizioni disastrose della mia famiglia in un momento di grande difficoltà anche a causa delle gravi condizioni di salute di mia figlia". Non ne è affatto convinta la Gip, che lo censura con il disonore riservato ai traditori. "Un soggetto estremamente pericoloso e professionale nell'agire". "Capace, ad esempio, di inserire la scheda Sd nel bugiardino dei medicinali, sintomo di uno spessore criminale tipico di chi non si pone alcuno scrupolo nel tradire la fiducia dell'istituzione cui appartiene". Non ne sono soprattutto convinti la procura di Roma e i carabinieri del Ros, che ieri sera, sono tornati a Palazzo Esercito per sequestrare e svuotare un armadio chiuso a chiave dal capitano, in cui (come le immagini delle telecamere nascoste hanno osservato) affastellava carte destinate ad essere esfiltrate. E altre diavolerie ricevute dai russi del GRU (solo nella sua casa di Pomezia gli sono stati sequestrati quattro smartphone diversi). Chi lo avrebbe mai detto ad Aleksej Nemudrov che tutto sarebbe finito in vacca. Si fidava della sua esperienza, perché non si scala il vertice del GRU in un'ambasciata importante come Roma se si è dei faciloni. Cosa che lui non era mai stato. Lo aveva agganciato lui, Walter Biot, complice l'eccellente italiano che era ed è in grado di parlare. E non era stato difficile. Aleksej è un marinaio. Walter è un marinaio. Aleksej ha 54 anni, Water ne ha 55. Aleksej ha una famiglia, che lo ha seguito nei suoi 19 anni da spia in Europa, una moglie e due figli. Walter ha la famiglia che sappiamo. Soprattutto, Aleksej in Italia ormai ci stava come il topo nel formaggio. A Roma era stato, dal 2002 al 2005, come addetto di marina, il primo gradino di un ufficiale GRU. Poi era partito per Copenaghen dove aveva salito il secondo di quei gradini, tra il 2007 e il 2010, come vice addetto militare, prima di tornare a Roma il giorno della Befana del 2017. Questa volta con i galloni di capo addetto militare. Doveva andare tutto liscio, perché tutto era stato fatto come da manuale. Le modalità dello scambio, a cominciare dal capolavoro di ripiegare cento banconote da cinquanta euro dentro una scatola gemella di "Crestor", per proseguire con il luogo scelto per gli incontri (i parcheggi tra viale Ande e viale Africa a pochi passi dalla fermata Eur Palasport del metro, dove Biot arriva con il suo scassato Nissan Patrol verde tragato ZA576AE) e le tecniche di contropedinamento di Dmitrij: arrivare ad impiegare anche quattro ore, toccando i quattro punti cardinali della città, in un apparente e insensato girovagare prima di raggiungere l'appuntamento. Per non dire delle istruzioni date a Biot. Non pescare singoli documenti, ma affondare, come una rete a strascico, nel mare magnum di carte dello Stato Maggiore Difesa a patto che avessero lo stampo visibile della classifica. Non necessariamente qualità, ma quantità. La sola cosa che a Mosca importava e che Mosca avrebbe capito. La cosa che ha reso ingordo Dmitrij, bulimico Biot, e perso il GRU. Non fosse altro per la chiosa con cui il decreto di convalida di fermo del capitano si chiude: "Le indagini proseguono per capire chi fossero i reali destinatari del materiale e se vi siano ulteriori soggetti responsabili". Una brutta notizia per le spie di Mosca che passeggiano nelle nostre città. E, soprattutto, per i loro tanti capitani Biot.

Grazia Longo per “la Stampa” il 2 aprile 2021. «Pericoloso, traditore del Paese, senza scrupoli». E ancora: «Interessato a conseguire profitti di natura economica». Il ritratto dell'ufficiale di Marina Walter Biot viene delineato nelle 7 pagine dell'ordinanza per la convalida d'arresto firmata ieri pomeriggio dalla gip Antonella Minunni. Nel delineare la figura del capitano di fregata e la sua spregiudicatezza nel vendere «documenti coperti da segreto preordinati alla sicurezza della Stato», la gip ne descrive anche l'astuzia, per non essere scoperto, nel suo relazionarsi con il militare russo Dmitri Ostroukhov, addetto militare all'ambasciata della Federazione russa a cui ha ceduto documentazione segreta per 5 mila euro. Il russo aveva fornito all'italiano 4 smartphone Samsung da utilizzare solo per fotografare i documenti. I due uomini, infatti, non si sono mai parlati al telefono né si sono mandati messaggi. «Dai telefoni in possesso di Biot - scrive la gip - non emergono appuntamenti o contatti con l'agente russo». L'accordo, preso di persona, era infatti quello di vedersi sempre l'ultimo martedì del mese alle ore 18. Nel caso uno dei due non si fosse presentato all'appuntamento, questo sarebbe stato automaticamente rinviato prima di una settimana, poi di due. Biot, insomma, era molto attento a non tradirsi. Ha usato il cellulare solo per fotografare «documenti coperti da segreto preordinati alla sicurezza dello Stato». Questo in virtù del fatto che al Terzo Reparto di politica militare dello Stato maggiore della difesa si occupava, tra l'altro, «della proiezione degli assetti italiani della Difesa in teatri operativi esteri e anche di operazioni Nato, Ue e Onu». Nella scheda di memoria che ha venduto a Ostroukhov sono state trovate 181 foto di documenti cartacei classificati. In particolare, si tratta di 9 documenti di natura militare classificati come riservatissimi e 47 di tipo «Nato Secret». Per questo motivo si sostiene che «gli elementi sono sintomatici dello spessore criminale dell'indagato che non si è posto alcuno scrupolo nel tradire la fiducia dell'istituzione di appartenenza al solo fine di conseguire guadagni economici». La compravendita di informazioni altamente sensibili avveniva attraverso scatole di medicinali allo scopo di non destare sospetti: «Tali accurate modalità nell'agire, quali ad esempio l'inserimento della scheda Sd all'interno del bugiardino dei medicinali mostrano l'estrema pericolosità del soggetto stante la professionalità dimostrata nel compimento delle azioni desumibile dai numerosi apparecchi utilizzati (4 smartphone), dalle tempistiche e dagli accorgimenti adottati». A rendere tutto ancora più grave, c'è poi il fatto che «non è stata una attività isolata e sporadica». La gip, inoltre, condivide in pieno la considerazione della Pm Gianfederica Dito la quale aveva contestato «inquinamento probatorio e rischio di reiterazione del reato». L'avvocato difensore, Roberto De Vita, si è opposto sostenendo che con gli arresti domiciliari i due pericoli non sarebbero comunque sussistiti. Ma la gip non ha accolto la sua richiesta, ritenendo valida la tesi per cui «ci sono esigenze di tutela della comunità per pericolosità soggetti. Tanto più i fatti contestati costituiscono sicuro indice di gravi e allarmanti attitudini di natura criminale e pericolo di reiterazione». Intanto, nelle prossime settimane i vertici della procura militare e di quella ordinaria faranno un summit per fare il punto dell'indagine. In quell'occasione i pm dovranno valutare il tema della competenza, che può, in un caso come questo, avere carattere concorrente o esclusivo. A parte il fatto che anche per il «Codice penale militare di pace» Walter Biot rischia non meno di 15 anni di carcere, come per la giustizia ordinaria, indiscrezioni dal Palazzo di giustizia della capitale fanno pensare a una competenza esclusiva della giustizia originaria.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 10 aprile 2021. Passaporti, bancomat, tessere sanitarie, abbonamenti degli autobus e membership di club privati intestati ad altre persone. Così come alcuni biglietti aerei con destinazione Israele, aeroporto di Tel Aviv-Ben-Gurion del dicembre 2019, in cui il nome del passeggero coincide con uno dei diversi documenti trovati nel cassetto della scrivania del capitano di fregata Walter Biot, nell' ufficio 248 del III Reparto direzione strategica e politica delle operazioni. Si tratta dell' ufficiale di marina, detenuto a Regina Coeli, accusato di aver consegnato materiale classificato Nato a una spia russa. Per quale motivo il militare italiano custodisse nel suo ufficio documenti con nominativi riconducibili ad altri soggetti è un mistero. Che utilizzo ne faceva? Un vero rompicapo per i carabinieri del Ros che stanno ricostruendo pezzo per pezzo la vita del 56enne. Ma le novità su Biot non si limitano al solo materiale trovato all' interno del suo ufficio che rimanda all' ipotesi di una identità parallela da utilizzare all' occorrenza. A casa dell' ufficiale di marina gli investigatori, coordinati dal pm Gina Federica Dito, hanno trovato altri documenti ritenuti sensibili. Una cartella con otto fogli con impressa sopra la dicitura Riservato dal titolo: «Problematiche relative alla formazione e l' impiego del personale controllore d' intercettazione». Inoltre l' uomo disponeva di diversi cellulari. Uno su tutti però desta l' interesse degli investigatori. Un Huawei modello p10 lite trovato occultato all' interno della macchina impiegata dal capitano di fregata per incontrare l' agente di Mosca. Quando il Ros ha messo sottosopra il Nissan Patrol di Biot i militari hanno trovato, nascosto dietro un lembo di stoffa, tra il sedile posteriore e quello del passeggero, non solo la famosa scatola di farmaci Crestol con all' interno i 5000 euro donati dal russo per ottenere la documentazione classificata, ma anche l' ennesimo smartphone, un Huawei modello p10 lite. Anche in questo caso, perché custodire un telefonino in quel modo? Altri dettagli emergono in merito a ciò che è accaduto il 30 marzo, il giorno in cui Biot viene arrestato insieme al 43enne Dmitry Ostroukhov, lo 007 di Mosca. Gli investigatori, infatti, non fermano subito Biot assieme a Ostroukhov, come era emerso nelle prime ricostruzioni giornalistiche. Quel giorno, infatti, dalle 17.48 fino alle 18.10 la coppia italo - russa trascorre 22 minuti a bordo del Nissan Patrol andando in giro per Roma. Salvo poi fermarsi in un posteggio, alle 18.10, in via delle Ande angolo viale Africa, di fronte ai laghetti dell' Eur, dove di fatto scatta il blitz dei militari dell' Arma. Prima l' ufficiale di marina aveva prelevato, con l' auto intestata alla moglie, il 43enne, originario di Lipetsk in via dei Caduti della Resistenza a Spinaceto, quartiere a sud di Roma. A bordo del Patrol, con i carabinieri che li seguono di nascosto, percorrono una decina di chilometri: via Albert Cozzi, viale degli Eroi di Rodi, via Pontina, viale dell' Oceano Atlantico, via Rhodesia, piazzale dell' Umanesimo, viale dell' Umanesimo, viale degli Urali, viale del Poggio Fiorito, viale delle Ande e poi, appunto, il parcheggio all' angolo con viale Africa, di fronte ai laghetti dell' Eur dove il Ros ferma i due uomini. Infine il comportamento della spia russa Dmitry Ostroukhov di fronte agli inquirenti è reticente. Il 43enne agente dei servizi russi rifiuta con sdegno di firmare tutti i verbali che i carabinieri del Ros gli sventolano sotto il naso. Non dice una parola se non che è un agente diplomatico accreditato presso il ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale della Repubblica Italiana. Quando il Ros lo perquisisce non trova solo la famosa memory card con dentro i 181 documenti riservati ma anche annotano i militari un involucro di carta stagnola sigillato in tutte le parti nel cui interno è custodita la sua carta d' identità. Anche qui l' interrogativo, perchè conservare un documento in questo modo? Il 43enne non risponde. Alle 22.30 dopo 4 ore in caserma la spia russa viene prelevata dal connazionale Victor Vorobey. Adesso dell' inchiesta si occuperanno sia la procura ordinaria che quella militare. A breve Biot verrà interrogato dal pm Dito mentre è attesa per il 15 aprile la decisione del Riesame.

Da corriere.it il 26 aprile 2021. «Abbiamo appreso con profondo rammarico della decisione della Federazione Russa di espellere l’Addetto navale aggiunto dell’Ambasciata d’Italia a Mosca con un preavviso di 24 ore» si legge in una nota rilasciata oggi dal ministero degli Esteri. «Consideriamo la decisione infondata e ingiusta perché in ritorsione ad una legittima misura presa dalle Autorità italiane a difesa della propria sicurezza» conclude la nota. La misura a cui si fa riferimento è l’arresto, un mese fa, dell’ufficiale di Marina Walter Biot per spionaggio. Per la stessa vicenda due funzionari russi sono stati invitati a lasciare il territorio italiano subito dopo. Il funzionario italiano espulso sarebbe stato definito in un documento ufficiale consegnato all’ambasciatore italiano a Mosca Pasquale Terracciano «Persona non grata» e pertanto invitato a lasciare il Paese.

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per repubblica.it il 28 aprile 2021. L’ultimo atto della spy story che incrina i rapporti tra Roma e Mosca passa attraverso due registri che dimostrano come il capitano di fregata Walter Biot abbia avuto a disposizione documenti importanti, almeno secondo gli inquirenti che indagano sull’ufficiale di Marina che ha venduto atti riservati alle spie russe in cambio di 5.000 euro. I documenti in entrata e quelli in uscita. Ogni atto che transita dalle stanze del terzo reparto dello Stato maggiore della Marina e dall’ufficio Politica militare e pianificazione viene annotato nei registri. E chi riceve o consegna quei documenti è tenuto a firmare in quei fascicoli. Per questo motivo la procura di Roma ha disposto il sequestro di quei registri. E sfogliandolo si nota che la firma di Walter Biot è presente più volte. “Nell’anno in corso Walter Biot ha prelevato e riconsegnato documentazione come anche risulta dal registro di output del sistema”, si legge negli atti. Del resto il capitano arrestato lo scorso 30 marzo in un parcheggio della periferia romana, dove stava per consegnare una Microscheda Sd Hc Kingston che conteneva fotografie di atti segreti, lavorava come ufficiale alla sicurezza. E secondo gli inquirenti l’indagato, adesso trasferito nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, avrebbe anche goduto di un nulla osta di sicurezza che permetterebbe di accedere ai documenti più rilevanti che sono transitati sulla sua scrivania, all’interno dell’ufficio pianificazioni dello Stato Maggiore della Marina. (...)

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci e Giuliano Foschini per la Repubblica il 30 maggio 2021. Dietro lo stallo del Copasir, si intravedono due faccende di non poco conto. Una è di natura politica, tutta interna al centrodestra, e che contrappone Fratelli d' Italia (a cui spetta la presidenza in quanto unico partito di opposizione) e la Lega di Salvini (che ha il presidente uscente) per la scelta del nuovo vertice. La seconda, invece, attiene a motivi di opportunità e di rapporti diplomatici, e riguarda il senatore Adolfo Urso, esponente di Fdi, attuale vice presidente del Copasir e candidato a ricoprire la carica di presidente dopo le dimissioni dei componenti leghisti. Urso però è anche un imprenditore che, per anni, è stato in affari con l' Iran. Non esattamente un Paese neutro e neutrale. Il fatturato estero della società è crollato a marzo del 2018 quando è stata chiusa la sede di Teheran. Dunque: senza Urso e senza Iran, gli incassi si riducono quasi a zero. Com' è possibile? «Con Israele sotto attacco - dice Salvini - la Lega non darà mai il suo consenso a qualcuno che è amico del regime iraniano». Il senatore di Fratelli d' Italia si difende sostendo Che l' Iran era solo parte del business. E che lui ha sempre avuto ottimi rapporti anche con Israele…

Annamaria Gravino per ilsecoloditalia.it il 30 maggio 2021. Sembrava un passaggio risolutivo. Invece, dopo le attese dimissioni di Raffaele Volpi dalla presidenza del Copasir, che spetta a FdI, la Lega si è di nuovo messa di traverso. Prima lo ha fatto puntando i piedi sulla composizione del Comitato, poi scagliando un attacco frontale nei confronti di Adolfo Urso, candidato naturale alla guida dell’organismo che, per legge, spetta all’opposizione. Entrambe le prese di posizione, però, appaiono quanto mai strumentali e assumono il sapore di un dispetto politico, che mette a rischio i positivi risvolti che le dimissioni di Volpi promettevano sia dal punto di vista della credibilità delle istituzioni sia da quello politico dei rapporti interni al centrodestra.

La ricerca di un pretesto. La prima impuntatura della Lega è arrivata sul tema della composizione del Copasir, per bocca proprio del presidente dimissionario Volpi, secondo il quale, stando a quanto riferito da La Stampa, FdI si “accontenterebbe” di avere il presidente, senza curarsi di sciogliere il Comitato. L’attacco ruota intorno al fatto che, in teoria, anche la composizione del Copasir andrebbe rivista alla luce dei nuovi equilibri tra maggioranza e opposizione: i membri dovrebbero essere equamente divisi tra l’una e l’altra. Ma, poiché all’opposizione c’è solo FdI, la questione pone un problema serio di rappresentanza. Per questo, praticamente tutti – attori politici di destra e sinistra, presidenti delle Camere e illustri costituzionalisti – si sono trovati concordi nel dire che con un accordo politico la questione della composizione si può scavallare senza detrimento istituzionale. Dunque, il puntiglio della Lega sulla questione appare del tutto strumentale. Altra cosa è il presidente, sul quale nessuno ha dubbi: spetta all’opposizione, quindi nel caso di specie a FdI. Alla fine anche la Lega, che pure si è ostinata per oltre tre mesi a non mollare la poltrona, si è dovuta arrendere. Così le dimissioni di ieri sembravano offrire il punto di svolta per restituire dignità a un organismo centrale per il funzionamento della democrazia nel Paese. Invece, poi, il colpo di scena su composizione e su presidenza. Quest’ultimo con un attacco a Urso arrivato direttamente da Matteo Salvini e che appare davvero come un fuor d’opera. «Sicuramente, in un momento come questo, con Israele sotto attacco, la Lega non darà mai il suo consenso a qualcuno che è amico del regime iraniano che vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della terra. Quindi, il Copasir deve essere guidato da qualcuno al di sopra di ogni sospetto e lontano da certe amicizie», ha detto il leader della Lega, riferendosi ad antiche consulenze di Urso alle imprese italiane che volevano approdare in Iran, quando il Paese, in vista di una fine dell’embargo, prometteva opportunità per la nostra economia.

Fazzolari: «Amici dell’Iran? Pensate al Qatar». Nel cercare di fare lo sgambetto a Urso, che per inciso del Copasir è stato vicepresidente proprio di Volpi, Salvini però ha finito per segnare un autogol. «Salvini dice che il Copasir non può andare “agli amici dell’Iran e ai nemici di Israele”. Giustissimo. Forse gli sfugge però che tra questi c’è oggi il Qatar, al quale lui e la Lega hanno più volte espresso amicizia. Anche recentemente votando l’accordo bilaterale Italia-Qatar», ha avuto gioco facile a ricordare il senatore di FdI, Giovanbattista Fazzolari.

Tutta una questione di poltrone? Salvini, però, ha aggiunto un ulteriore elemento di riflessione sulla posizione della Lega. «Io non ho problemi con nessuno aspetto le dimissioni di tutti gli altri membri del Copasir. Ignazio La Russa è membro del Copasir? No, quindi qualcun altro si deve dimettere», ha detto, invitando a trovare «nuovi componenti che poi eleggeranno un nuovo presidente». Perché quel riferimento a La Russa? Il senatore di FdI ha ricordato come stavano le cose sulla composizione del Copasir, ma, soprattutto, è dato da diversi osservatori come nome che auspicherebbe la Lega. Ma perché, se nel Copasir nemmeno ci sta? Perché, hanno sottolineato quegli osservatori, se lo andasse a guidare, libererebbe la poltrona di vicepresidente del Senato, sulla quale si potrebbe accomodare Volpi. Con buona pace del distacco della Lega dalle seggiole.

L’attivismo di Benassi mette in guardia il Copasir. Andrea Muratore su Inside Over il 6 febbraio 2021. Pietro Benassi è un diplomatico con alle spalle una lunga e prestigiosa carriera nella rappresentanza della politica estera italiana, a cui la nomina ad autorità delegata alla sicurezza della Repubblica da parte di Giuseppe Conte poche settimane fa sembrava aver dato definitivo coronamento. Il profilo personale e lo spessore della figura di Benassi non si mettono in discussione, questo è assodato, ma certamente nell’interpretazione del suo ruolo nelle ultime giornate l’ambasciatore chiamato a coordinare le attività dei servizi segreti sta creando non pochi imbarazzi nelle istituzioni. Benassi ha ricevuto le deleghe tra il 21 e il 22 gennaio, pochi giorni prima che Conte, di fronte al rischio di uno schianto del suo governo in Parlamento nel voto sulla relazione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, rassegnasse le sue dimissioni a Sergio Mattarella. L’ex consigliere diplomatico, senza neanche aver avuto modo di abituarsi al ruolo, è stato chiamato dunque subito al ruolo di gestore degli affari correnti coerentemente con le prescrizioni costituzionali per un governo dimissionario. Certo, quando si tratta di servizi concreti la distinzione tra “affari correnti” e atti di portata strategica è ben labile, se non impossibile da determinare. Ma da più parti è emerso palese che Benassi stia interpretando con grande decisione e profondità il suo ruolo. Benassi, nota Repubblica, da diversi giorni si muove con grande dinamismo tra i diversi apparati dell’intelligence: “Nell’imbarazzo dei suoi interlocutori, fissa incontri con i vertici degli apparati, chiede conto di dossier concernenti la sicurezza nazionale, visita di persona siti in costruzione destinati a ospitare centri di spionaggio e controspionaggio”. Un civil servant di così lunga esperienza, con quattro decenni di carriera nella diplomazia alle spalle, non può non essere ignaro della rilevanza politica e strategica di un atteggiamento tanto irrituale. Tanto che anche il Copasir ci vuole vedere chiaro e ha deciso di convocare Benassi per chiedergli conto e ragione di un atteggiamento estremamente dinamico che segue di poco il tentativo di Giuseppe Conte di blindare, nel momento finale del suo secondo esecutivo, l’intelligence come un feudo personale. Tanto che nel breve intermezzo tra la nomina di Benassi e le dimissioni di Conte il governo aveva proceduto a un’infornata di nomine gradite a Palazzo Chigi. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha tra le sue prerogative garantite ex lege quella di chiedere ai decisori deputati alla guida dell’intelligence conto e ragione delle loro attività. E perciò il comitato di Palazzo San Macuto guidato dal leghista Raffaele Volpi si sta domandando per che motivo Benassi si stia muovendo e agitando con tanta foga. Non escludiamo, chiaramente, che Benassi interpreti come avulso dai limiti operativi del governo dimissionario il suo ruolo di coordinamento su una centrale di potere come l’intelligence e voglia capirne il più possibile sul suo funzionamento. Ma anche che ci siano motivazioni più profonde. Su che piste potrà indagare il Copasir? Senz’altro, su quella dei legami stretti tra il premier uscente, di cui Benassi è stato a lungo consigliere diplomatico, e i gangli di potere dei servizi: Benassi vuole tenere attivo e operativo il “partito” interno ai servizi costruito da Conte per evitare che l’era Draghi porti con sé la fine del sistema in cui era abituato a muoversi? Oppure persegue una manovra destinata a permettergli di succedere a sé stesso? Ci sembra plausibile pensare che l’ex governatore Bce, qualora formasse un governo, possa cedere la delega che Conte ha mantenuto per due anni e mezzo al coordinamento delle attività di spionaggio. Benassi, nel mostrare il massimo attivismo, si sta documentando a dovere su diverse questioni coperte da segreto e di valenza fondamentale per la sicurezza della nazione. Se, per intermezza coalizione giallorossa, il partito personale di Conte (fatto per ora da soli pezzi delle istituzioni) dovesse pesare nella definizione dei ruoli del governo Draghi, queste manovre potrebbero contribuire ad alzare le quotazioni della riconferma dell’ambasciatore al fianco del nuovo premier. Il Copasir dovrà ascoltare con attenzione Benassi e le sue motivazioni per capire se le sue mosse giocheranno un peso nella costituzione del nuovo governo e trarre gli opportuni suggerimenti legislativi. Appare opportuno che un’autorità delegata su un tema tanto di confine come i servizi possa essere soggetta alla caducità dei governi dimissionari senza la presenza di opportuni contrappesi? O forse appare preferibile, in fasi tanto critiche, trasferire ad autorità di vigilanza come il Copasir tali responsabilità? In che misura transizione politica e segreti di Stato possono coesistere? L’affaire Benassi e la questione della sua possibile riconferma dovranno portare a un ragionamento di prospettiva su tematiche tanto importanti. L’intelligence è patrimonio comune del sistema-Paese. Fare di essa uno strumento di potere partigiano o, peggio, di scambio negoziale ne ridimensionerebbe enormemente la valenza strategica.

Da "la Repubblica" il 6 febbraio 2021. L'ambasciatore Pietro Benassi, nominato autorità delegata ai Servizi, sarà convocato per essere audito dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. A renderlo noto è il presidente del Copasir, Raffaele Volpi. Benassi era stato nominato dal presidente del consiglio Giuseppe Conte proprio ventiquattr'ore prima delle sue dimissioni. Nei giorni scorsi però, dopo la crisi le conseguenti dimissioni del ministro degli Esteri, Benassi pare abbia continuato a svolgere i suoi compiti come fosse nel pieno delle proprie funzioni. E, tra gli imbarazzi dei suoi interlocutori, come ha scritto ieri Repubblica, ha continuato a fissare incontri e a chiedere conto di dossier concernenti la sicurezza nazionale. Ha visitato siti in costruzione destinati a ospitare centri di spionaggio e controspionaggio. Come se il suo incarico non fosse stato toccato dalle dimissioni del Governo.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 5 febbraio 2021. Raccontano che l' ambasciatore Pietro Benassi, nominato autorità delegata ai Servizi segreti da Giuseppe Conte appena ventiquattro ore prima di dimettersi da presidente del Consiglio, non trovi pace. Al pari dei ministri e dei sottosegretari di un gabinetto che non c' è più, che pacificamente non risorgerà dalle sue ceneri e dunque incaricato del solo disbrigo degli affari correnti, avrebbe dovuto celermente sgomberare una scrivania appena occupata. Prendere commiato da ciò che fu soltanto per lo spazio di un giorno e conservare il decreto di nomina pubblicato in Gazzetta Ufficiale come un "Gronchi rosa". Per attendere, in un composto sonno dell' agire rispettoso del galateo istituzionale, che un nuovo governo assuma la pienezza dei suoi poteri e gli comunichi il suo destino. Al contrario, così non è stato. Come tarantolato, Benassi si muove da giorni con il passo, la verve e la bulimia da vis a vis propria di un plenipotenziario politico dell' Intelligence nel pieno delle proprie funzioni e all' inizio di un duraturo mandato fiduciario. Nell' imbarazzo dei suoi interlocutori, fissa incontri con i vertici degli apparati, chiede conto di dossier concernenti la sicurezza nazionale, visita di persona (è accaduto ieri) siti in costruzione destinati a ospitare centri di spionaggio e controspionaggio e non per verificare lo stato di avanzamento dei cantieri. Come se le dimissioni di chi lo ha delegato (Conte) non fossero faccenda che lo riguardi e non lo ponessero, per proprietà transitiva, in una identica condizione. Come se il suo incarico che è politico e fiduciario, equivalesse alla nomina in un' ambasciata di prima fascia afferrata in zona Cesarini prima delle dimissioni di un ministro degli Esteri. Ora, poiché è difficile pensare che a un diplomatico colto e preparato come Benassi sfugga la sgrammaticatura istituzionale del suo agitarsi, proporsi, suggerire, chiedere, e per giunta dalla plancia di un' articolazione delicatissima (l' autorità delegata della Presidenza del Consiglio sui Servizi, appunto) di un esecutivo dimissionario, le domande sono semplici. Perché? Per zelo da civil servant? E soprattutto: a nome di chi Benassi sta definendo un' agenda e acquisendo notizie coperte da segreto di Stato? Glielo ha forse chiesto il suo (ex) dante causa ed ex premier Conte, magari garantendogli una permanenza nell' incarico che non ha il potere di garantire? O, più semplicemente, l' ambasciatore scommette sulla vecchia regola che farsi trovare occupato su una sedia (e che sedia) lo aiuti a non lasciarla o a transitare più facilmente a un' altra?

Michele Esposito per ANSA 22 gennaio 2021- Ambasciatore di livello. Capo di gabinetto dei ministri degli Esteri Emma Bonino e Federica Mogherini. Braccio destro di Giuseppe Conte sui delicatissimi dossier affrontati dall'"avvocato del Popolo" nei due governi da lui guidati. E' Pietro Benassi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega ai Servizi scelto dal Cdm. Una scelta che va quindi a cadere su un uomo di massima fiducia del capo del governo ma anche su un profilo che, al Pd, non può dispiacere. La cessione della delega concretizza la "mano tesa" di Conte al dialogo sul nodo dell'intelligence proprio mentre Matteo Renzi sta riunendo i gruppi Iv. E' una scelta "politica" che arriva in una giornata di sostanziale impasse nelle trattative per il gruppo di costruttori. Una scelta con cui, tuttavia, Conte non cede su un punto: destinare la delega ad una personalità di massima fiducia. Una fiducia costruita nei due anni e mezzo di lavoro a Palazzo Chigi di Conte con il suo consigliere diplomatico. Ed è nel governo M5S-Lega che Benassi fa valere il suo curriculum europeista e merkeliano. Forte dell'esperienza da ambasciatore italiano a Berlino, Benassi fa infatti da primo collegamento tra il premier di un governo (quello giallo-verde) non certo ben visto a Bruxelles e la cancelliera tedesca. E da lì in poi il sodalizio con Conte non si è mai affievolito. Un sodalizio fatto anche di una collaborazione strettissima coltivata in questi trenta mesi, ma di certo non di legami politici. Il link fra l'ormai ex consigliere diplomatico di Palazzo Chigi e il M5S è pressoché inesistente, infatti. E la carriera di Benassi, 62 anni, romano d'origine e romanista di fede calcistica, è stata tutta nella diplomazia. Prima di essere ambasciatore a Berlino (dal 2014 al 2018) e di fungere da capo di gabinetto alla Farnesina, Benassi è stato ambasciatore a Tunisi, dal 2009 al 2013, ovvero nei turbolenti mesi della Primavera araba. La sua carriera inizia al dipartimento affari economici della Farnesina, per poi fare tappa a Cuba e a Varsavia. Con Conte, invece, è a Bruxelles che Benassi affronta i dossier più delicati, da quello dell'immigrazione, alla manovra - invisa dai falchi - in cui furono varati reddito di cittadinanza e quota 100. Fino all'ultima sfida del Next Generation Ue. A lui, ora, spetterà guidare uno dei rami del governo finito più nel mirino dell'opposizione e di Iv. A cominciare dal caso della missione segreta in Italia del General Attorney dell'amministrazione Trump William Barr per il caso Russiagate.

I progetti di Conte. Servizi segreti, la nomina di Benassi diventa un boomerang su M5S e PD. Nicola Biondo su Il Riformista il  23 Gennaio 2021. Negli scacchi si definisce “arrocco”: una mossa prettamente difensiva che mira a preservare la pedina più importante, il Re. È esattamente questo il senso della nomina, fatta da Palazzo Chigi, dell’ambasciatore Piero Benassi come autorità delegata di sicurezza, ossia sottosegretario con la delega ai Servizi segreti. Dopo mesi di frizioni con gli alleati di governo (eufemismo) Conte lascia quindi la delega ma la nomina di Benassi spiega molto del periodo convulso e apre scenari nuovi. È la prima volta che una “feluca” ricopre un ruolo politico così rivelante. La narrazione di Palazzo Chigi, che lo presenta come una replica di William Burns (ambasciatore Usa) appena nominato da Joe Biden al vertice della Cia è fuorviante. Se in passato i diplomatici anche in Italia accedevano ai piani alti dei Servizi, come l’ambasciatore Massolo che fu direttore del Dis e molti anni prima l’ambasciatore Fulci capo del Cesis, a Benassi invece è riservato uno slot politico. E non potrebbe essere diversamente nella concezione “privatistica” che Conte ha dei Servizi. Lo ha sillabato con rara precisione nell’aula del Senato martedì scorso nel corso del voto di fiducia: «Mi avvarrò della facoltà di assegnare un’autorità delegata di Intelligence sui Servizi, una persona di mia fiducia». Se qualcuno si aspettava un cambio, una gestione più “sistemica” e meno personale degli apparati di sicurezza oggi mastica amaro. Perché Benassi, al di là della lunga carriera tra Berlino, Cuba e Bruxelles, è insieme il testimone e l’esecutore dello scarto “sovranista” dell’avvocato del Popolo in politica estera. Ma andiamo con ordine. I diplomatici in casa Benassi sono due. Il secondo è Andrea, fratello di Piero, oggi a capo delle relazioni esterne di Iccrea, il più grande gruppo bancario cooperativo, erede delle casse rurali e artigiane italiane. Andrea, dopo una lunga permanenza a Bruxelles, non disdegna visite a Chigi da quando il germano siede alla destra del Presidente. I “superpoteri” affidati a Benassi creano un precedente non gradito alla struttura della Farnesina dove negli ultimi tempi l’ambasciatore aveva espresso il desiderio di tornare come segretario generale al posto dell’attuale ambasciatrice Elisabetta Belloni. La nomina crea nei fatti, spiegano fonti ben informate, una sorta di doppia diplomazia dipendente direttamente dall’inquilino di Chigi. Ma la vera questione politica che spiega l’arrocco di Conte è presto detta. Non c’è dossier diplomatico in cui Benassi non abbia lasciato le sue impronte: nei rapporti, altalenanti con la Libia tra i due signori della guerra, Al Serraj e Haftar, sulla Cina, la Via della Seta e il colosso Huawei, nel rapporto con il regime di Putin con l’indimenticabile parata propagandistica russa in pieno lockdown, fino all’irrituale e ancora misteriosa visita di William Barr, inviato di Trump a Roma per raccogliere chissà quali dossier che gli avrebbero potuto dare un vantaggio sugli sfidanti democratici. Benassi, dicono fonti ben informate di Palazzo Chigi, ha gestito ogni aspetto di quella missione rimasta rigorosamente top secret. E sulla quale il Copasir ha deciso un supplemento di inchiesta. Detto poco diplomaticamente, la domanda che galleggia come una mina su questa crisi di governo è la seguente: cosa ha chiesto (e in caso ottenuto) Donald Trump da Giuseppe Conte nell’estate del 2019? Informazioni riservate, leggasi spazzatura, su Joe Biden e la sua famiglia? Un interrogativo lecito visto che nelle stesse settimane, tra luglio e agosto, l’inviato di Trump, William Barr, girava come una trottola dall’Ucraina all’Australia all’Italia alla ricerca di dossier per fare a pezzi il candidato democratico. “Fammi un favore”, disse l’ex-inquilino della Casa Bianca al Presidente ucraino Voldymyr Zelinski. Quel favore era fornire a Barr prove di corruzione contro Biden e il figlio Hunter. Zelinski si sottrasse, quelle telefonate furono rese note e l’intera vicenda costò a Trump l’avvio della procedura di impeachment. La tempistica suggerisce una pista che se confermata aprirebbe un baratro nei rapporti tra Palazzo Chigi e la Casa Bianca di Biden. A questa domanda Benassi potrebbe dover rispondere al Copasir che ha convocato il vertice di Palazzo Chigi. Un battesimo del fuoco per il neo-zar dell’intelligence, la cui audizione potrebbe scivolare in un atto unico degno di Zelig: l’autorità delegata di sicurezza, Benassi, dovrebbe rispondere su un’attività svolta dall’ambasciatore Benassi. Ecco spiegato l’arrocco di Conte. Una nomina fatta per blindare se stesso. Intanto proprio sul versante intelligence ieri l’Italia è stata declassata dalla nuova amministrazione Biden. Il neo-consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha reso noto di aver fatto un giro di telefonate tra le varie capitali alleate: Francia, Germania, Regno Unito e Giappone. Nelle stesse ore, con un piede nella palude del Senato dove di “responsabili costruttori” non pare esserci nemmeno l’ombra, Palazzo Chigi chiudeva il cerchio delle nuove nomine dei vice-direttori degli 007. Che disastro, Mr. Conte!

Diplomatico di lungo corso e regista del Recovery Plan. Chi è Piero Benassi, l’uomo di fiducia di Conte nominato sottosegretario con delega ai Servizi Segreti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. E’ è Piero Benassi a ricevere la delega ai servizi segreti. La decisione durante il Consiglio dei ministri al via in serata dopo le 22:00. Il Presidente del Consiglio Giuseppe conte aveva anticipato che avrebbe dato la delega a un uomo “di mia fiducia”. Benassi ha avuto la meglio sugli altri uomini circolati nelle ultime ore, come Roberto Chieppa, Giampiero Massolo, l’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Benassi è un diplomatico di lungo corso, considerato vicino alla sinistra e al Movimento 5 Stelle. Benassi, classe, 1958, romano. Si è laureato in scienze politiche all’Università di Padova. La sua carriera diplomatica è cominciata nel 1984. Il suo primo incarico alla Direzione generale Affari economici del Ministero degli Esteri. A L’Avana, Cuba, nel 1986, ha assunto l’incarico di secondo Segretario commerciale. Una carica che ricopre fino al 1990, quando è nominato Primo segretario a Varsavia. Nel 1994 è rientrato alla Farnesina prima di assumere l’incarico di primo consigliere alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles. Dall’agosto 2002 è stato primo consigliere all’Ambasciata d’Italia a Berlino come responsabile dell’Ufficio Politico. Nel 2005, di nuovo in servizio alla Farnesina, ha assunto l’incarico di capo dell’Ufficio America Latina della Direzione Generale Paesi della Americhe. Nel 2006 è stato nominato Capo della Segreteria particolare del Sottosegretario di Stato con delega per l’U.E. ed i Paesi dell’Europa. Nel maggio 2008 assume le funzioni di Capo della Segreteria particolare del Sottosegretario di Stato con delega per il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Asia. E’ stato nominato ambasciatore d’Italia a Tunisi nel 2009 e capo di gabinetto del ministro degli Esteri nel 2013. Ed è stato nominato ambasciatore a Berlino nel 2014. Benassi è considerato uno dei registi della trattativa dello scorso luglio per il Recovery Plan: all’Italia 209 miliardi. E’ anche l’uomo che ha riallacciato i rapporti con la Germania e la cancelliera Angela Merkel dopo gli strappi del governo Conte 1 con Matteo Salvini. Stesso ruolo per i rapporti costanti con l’amministrazione statunitense. Benassi ha costruito un rapporto di fiducia con i 5 Stelle, in particolare con il ministro degli Esteri Di Maio. E’ stato anche capo di gabinetto di Emma Bonino alla Farnesina. Ancora da stabilire chi lo sostituirà nel ruolo di consigliere diplomatico e sherpa per la presidenza italiana del G20.

·        I Senatori a Vita.

Riformare le istituzioni. Abolire carica di senatore a vita, retaggio di una concezione ereditaria del potere. Gianluca Passarelli su Il Riformista il 4 Marzo 2021. Arturo Toscanini non rimase in carica neppure un solo giorno (del resto, il Maestro non ripeteva). Rifiutò garbatamente, ma senza esitazione la nomina a senatore a vita avanzata da Luigi Einaudi. Preferiva rimanere sobrio e appartato anche in vecchiaia. Dal 1948 in Italia si sono avuti 47 senatori a vita: 38 nominati dal Capo dello Stato e 11 per diritto, in quanto ex presidenti della Repubblica, di cui due già senatori a vita al momento dell’elezione presidenziale (Giorgio Napolitano e Giovanni Leone). La carica di senatore a vita è un istituto varie volte oggetto di attenzioni riformatrici, mai compiute tuttavia. La ratio del potere presidenziale previsto dall’art. 59 della Costituzione mira a conferire un solenne riconoscimento istituzionale a quanti abbiano dato lustro alla patria per «altissimi» meriti in ambito «sociale, scientifico, artistico e letterario». Il profilo dei nominati è tuttavia variegato. Insieme a esponenti del mondo culturale, quali Eugenio Montale, Gaetano De Sanctis, Eduardo De Filippo, Carlo Bo, Norberto Bobbio, R. Levi Montalcini, Elena Cattaneo, Liliana Segre, hanno ricevuto la carica senatoriale a vita anche figure politiche, nominalmente non ascrivibili nelle fattispecie indicate nella Carta. Insieme a Luigi Sturzo, Leo Valiani, Giovanni Spadolini e Meuccio Ruini, che avevano anche un profilo extra politico, troviamo esponenti di primo rango dei partiti politici: Ferruccio Parri, il citato Leone, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, fino a Giorgio Napolitano. Ultimo, questi, in ordine di tempo, rappresentante della categoria “politici”, quasi a completare idealmente la copertura dei partiti dell’intero arco costituzionale. La permanenza in carica dei senatori a vita è stata pari in media a circa undici anni per quelli nominati e dodici per quelli di diritto. L’età media al momento della nomina è pari a 77 anni per l’intero gruppo. Dei 47 senatori a vita solo 4 sono donne e nessuna ovviamente, ancora, per diritto. Tra gli ex presidenti, che assumono la carica senatoriale “salvo rinunzia”, soltanto Francesco Cossiga presentò le dimissioni, in due occasioni, una volta ritirandole e una seconda allorché l’Aula del Senato le respinse. Ma faceva parte del carattere “egocentrico” e provocatorio dell’ex ministro dell’Interno. Tra i nominati, invece Indro Montanelli rifiutò cortesemente proprio la proposta di Cossiga per ragioni deontologiche, per rimanere, in quanto giornalista, distinto dal potere politico. Se guardiamo alle legislature, rileviamo che in media si sono avvicendati dieci senatori (di diritto e di nomina) per legislatura (sette considerando solo quelli nominati), con il picco delle legislature 1987-92 e 2001-06 (undici). Nel complesso, come da indicazione costituzionale, e con ampio consenso giurisprudenziale, il Capo dello Stato può nominare “fino a” cinque senatori a vita purché quelli in carica per nomina presidenziale non siano in quantità superiore a tale numero. Einaudi ne nominò otto, Cossiga cinque, Leone uno, Saragat, Ciampi e Napolitano quattro, al pari di Pertini che con le sue scelte fece salire il numero di nominati oltre la soglia. Ragion per cui Oscar Luigi Scalfaro non procedette a nessuna nomina durante il suo settennato, motivando per tabula la sua interpretazione della Carta. E da allora sempre rispettato come orientamento quirinalizio. La presenza dei senatori a vita nell’ordinamento e nel sistema parlamentare non ha generato problemi di tipo politico ché rimandava alle eredità ottocento e novecentesche delle cariche ereditarie e/o per diritto, per coniugare la rappresentanza popolare che irrompeva sul proscenio e l’animo “culturale” profondo della nazione. La prima fase del sistema politico e partitico italiano non è stata dunque condizionata da questa componente non elettiva fintanto che i partiti erano in grado di esprimere delle coalizioni a sostegno del governo. L’apertura della fase cosiddetta “bipolare” dal 1994 ha però posto alla ribalta il gruppo senatoriale: ad esempio, furono cruciali e a volte determinanti per la formazione del governo Berlusconi I, Prodi II, Conte II in taluni frangenti. Con tanto di epiteti nei confronti degli anziani senatori quasi non fossero legittimati a esprimere le loro opinioni, il loro voto, a esercitare le loro prerogative; come non ricordare gli epiteti nazi-razzisti rivolti dai banchi dell’estrema destra nei confronti delle senatrici Segre, Levi Montalcini, tra gli altri. Il “problema” comunque permane e una riforma dell’articolo 59 pare dunque non rinviabile. Discussioni e proposte sono state avanzate in varie occasioni, e più recentemente durante la Commissione bicamerale guidata da Massimo D’Alema nonché nel quadro della riforma costituzionale “Renzi”, entrambe non approvate. Sintetizzando per ragioni editoriali, possiamo restringere a due le opzioni principali. L’abolizione della carica senatoriale a vita oppure lasciare in carica soltanto la figura dell’ex Presidente. Per la cui elezione sarebbe probabilmente il caso di riconsiderare, livellandola verso il basso, l’età per l’eleggibilità. In subordine si potrebbe espungere dalle prerogative dei senatori a vita il rapporto fiduciario nella dinamica Parlamento/Governo. L’esiguità delle maggioranze parlamentari (il caso Draghi essendo, sperabilmente, l’eccezione), anche derivante dall’assegnazione su base territoriale/regionale dei seggi senatoriali elettivi, riporta in evidenza la necessità di discutere un istituto che rimanda a un altro periodo storico. Sei senatori, quelli attualmente in carica, possono pesantemente incidere sul rapporto rappresentante/rappresentato in una logica che però prescinde dal legame elettorale. Nelle more stuoli di personaggi che pensano di avere dato lustro alla Patria, covano una speranza. Fioca tuttavia.

·        La Terza Repubblica (o la Quarta?).

Rifare l’Italia. Perché bisogna rivalutare la Prima Repubblica. Stefano Passigli su L'Inkiesta il 16 Dicembre 2021. Secondo il libro di Stefano Passigli (pubblicato da La Nave di Teseo) si è trattato di un periodo di ripresa, ricostruzione e di sviluppo mai visto nel nostro Paese. Cruciale, a suo avviso, è modificare la periodizzazione: la sua fine andrebbe anticipata di dieci anni, dal 1992 al 1984, con la morte di Enrico Berlinguer archivio storico Umberto Elia Terracini.  

La Prima repubblica non ha mai goduto nella pubblicistica, ma anche tra larga parte degli studiosi, di buona fama. Anzi, possiamo dire che mai periodo della nostra storia – eccezion fatta per gli anni del regime fascista o per il tentativo di involuzione autoritaria di fine Ottocento, culminato con la repressione dei moti di Milano e le cannonate di Bava Beccaris – è stato giudicato così negativamente, e in maniera così lontana dai suoi effettivi meriti. A un più attento esame la vituperata Prima repubblica si rivela infatti un momento straordinario di buon governo senza eguali nella nostra storia, salvo forse gli anni migliori dell’età giolittiana.

In un trentennio, in un paese distrutto e comunque poverissimo, una classe politica di grande valore seppe infatti promuovere non solo la ricostruzione delle fondamentali infrastrutture e rilanciare le attività produttive, aumentando in maniera molto elevata PIL e reddito pro capite, ma anche promuovere una maggiore integrazione del paese con alcune fondamentali misure di giustizia sociale che hanno permesso a un sempre maggior numero di cittadini di accedere all’istruzione, alla previdenza e alla assistenza sanitaria. 

Il compito che la classe politica si era trovata ad affrontare era immane. Il paese aveva subìto immense distruzioni materiali, era stato sconvolto nella sua coesione sociale dalla guerra civile ed era profondamente diviso dalla questione istituzionale.

Le distruzioni causate dalla guerra avevano interessato tutti i paesi che erano stati teatro dei combattimenti. Le città tedesche, e alcune regioni della Francia, erano state distrutte ben più delle città italiane. Ma nel caso italiano le distruzioni si erano aggiunte a uno stato di preesistente estrema miseria ben documentato dalle grandi inchieste parlamentari dell’Ottocento.

Pochi dati tratti dalle comunicazioni alla Costituente del ministero per la Ricostruzione, dal censimento del 1951, e dall’Inchiesta parlamentare sulla miseria del 1953 sono sufficienti a illustrare le condizioni che il governo Parri prima e i governi De Gasperi poi si trovarono a fronteggiare. La guerra aveva infatti colpito pesantemente persino l’agricoltura: la produzione agricola complessiva era solo il 63% di quella dell’anteguerra; ma quella del grano era, rispetto al 1938, poco più del 50%, e quella del granturco, vitale nella dieta di alcune regioni e per l’allevamento degli animali, meno del 50%. In ampie zone del paese, malattie come il gozzo o la pellagra indicavano la scarsità alimentare.

Nel caso italiano non è azzardato affermare che solo gli aiuti dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), deliberati fin dalla sua istituzione nel novembre 1943 e iniziati ad arrivare nel 1945, salvarono l’Italia dalla carestia assicurando letteralmente il pane ad alcuni milioni di persone. L’UNRRA fornì alla Europa 5 milioni di tonnellate di cereali, di cui 1,3 in Italia. L’UNRRA dispensò non solo aiuti alimentari ma anche materie prime, in particolare carbone e prodotti necessari all’industria, finanziando anche programmi di ricostruzione di case e di sostegno alla maternità e infanzia in difficoltà. Dopo un iniziale periodo, gli aiuti furono estesi anche ai paesi europei vinti, e l’Italia su 3.653 milioni di dollari di contributi ne ricevette 421 milioni, seconda solo alla Cina.

Gli aiuti dell’UNRRA si affiancavano a quelli degli eserciti americano e inglese presenti in Italia, e a quelli direttamente forniti dallo stesso governo americano, e vennero infine sostituiti dagli aiuti del Piano Marshall, nell’evidente sforzo dell’amministrazione americana di sostenere i governi democratici dei paesi occidentali nei confronti dell’espansionismo sovietico.

La proposta di Giorgetti e il semipresidenzialismo di fatto. Draghi al Quirinale, cosa è il presidenzialismo di fatto: la "proposta scandalo" di Giorgetti. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 4 Novembre 2021. Fanno scandalo, soprattutto negli ambienti che per lo scandalo rivelano una particolare inclinazione, le dichiarazioni del ministro Giorgetti. Questi ha parlato di “semipresidenzialismo di fatto” alludendo all’ipotesi di un’elezione di Draghi alla Presidenza della Repubblica e alla nomina di un presidente del Consiglio disponibile a proseguire nell’indirizzo politico dell’attuale governo. Al di là dei tanti possibili messaggi in codice, che le dichiarazioni degli esponenti politici in genere contengono, e la cui interpretazione lascio volentieri ai retroscenisti per manifesta incapacità del sottoscritto, mi pare che, dal punto di vista costituzionale, strapparsi teatralmente le vesti sia assolutamente fuori luogo. In buona sostanza, Giorgetti ha invocato un patto politico per affrontare la prossima scadenza dell’elezione del Capo dello Stato. Un patto politico che, muovendo dalla premessa dell’improbabilità di una ricandidatura del presidente Mattarella (che molti invece auspicherebbero), collochi la convergenza parlamentare per un’elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica nel solco della continuità politica con il Governo da lui presieduto. Il che, in un mondo non ancora totalmente schizoide, mi sembrerebbe scontato. Tale continuità sarebbe poi rafforzata dalla circostanza che, sempre con un patto politico, non con i carri armati, i partiti, in sede di consultazioni, e il Parlamento, in sede di votazione della fiducia, scelgano un presidente del Consiglio (ovviamente consenziente) che gode del sostegno di una maggioranza omogenea a quella che ha eletto il presidente della Repubblica. Strategie per l’elezione del capo dello Stato si son sempre imbastite dall’inizio della Repubblica. Semmai in questo caso – atteso l’intrico di caselle in gioco – si tratterebbe di vigilare attentamente sui passaggi istituzionali che hanno una loro delicatezza e che, inevitabilmente, coinvolgono anche il presidente della Repubblica uscente, cui va riconosciuto il massimo rispetto. Insomma Giorgetti lancia, mi pare, una proposta politica, che ovviamente si può senz’altro contestare e osteggiare duramente, ma pur sempre di un disegno politico si tratta. Non c’è nessuna eversione dell’ordine costituito. Quanto alla provocazione del “semipresidenzialismo di fatto”, anche qui sembra difficile rintracciare una notizia quale che sia. Innanzitutto perché solo chi non conosce la logica delle istituzioni parlamentari può ignorare la circostanza che tra presidente del Consiglio e presidente della Repubblica ci dev’essere (e c’è sempre stato) un confronto costante. A volte più armonico, altre più dialettico. Un confronto nel quale le personalità dei protagonisti contano, con prevalenza dell’uno o dell’altro a seconda dei caratteri, dei momenti e delle circostanze (fin dalla coppia Einaudi-De Gasperi). Che tali personalità si possano e debbano confrontare è testimoniato anche icasticamente da quell’articolo della Costituzione (l’89) il quale prevede che “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai Ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”. Più collaborazione di così. Più in generale, il modello del governo parlamentare è per sua stessa costituzione strutturato sulla possibilità che il presidente della Repubblica, in situazioni di crisi del sistema, possa esercitare un legittimo ruolo di supplenza rispetto allo stallo delle forze politiche. Si tratta di un’eventualità assolutamente coerente e rispettosa del sistema costituzionale. Tant’è che di momenti di “semipresidenzialismo di fatto”, cioè – fuor di provocazione – di supplenza necessitata del Capo dello Stato, l’Italia ne ha conosciuti a decine soprattutto negli ultimi trent’anni. La stessa Presidenza Draghi è frutto di uno di questi momenti di stallo, nel quale le forze politiche si sono dimostrate incapaci di esprimere una proposta condivisa al presidente della Repubblica, che si è visto costretto a farsi maieuta di una soluzione che sbloccasse l’impasse. La cosa che, invece, dovrebbe scandalizzare, ma a quanto pare non scandalizza nessuno, è che malgrado le istituzioni italiane versino in questa situazione di stallo semi-permanente, malgrado l’instabilità cronica abbia reso la necessità degli interventi presidenziali di soluzione della crisi ormai una costante, e malgrado le numerose invocazioni, anche degli stessi Presidenti della Repubblica, nulla è stato fatto per affrontare il male oscuro della nostra democrazia. Nulla è accaduto. Ma soprattutto ci si è ormai rassegnati al fatto che nulla accadrà e che dovremo tenerci queste istituzioni pericolanti per un tempo indefinito. La vera novità non è un “semipresidenzialismo di fatto”. La vera novità sarebbe una vera riforma “di diritto” che prenda atto, una volta per tutte, che non si può andare avanti così se si vuole far cambiare passo al paese. Anche i Draghi purtroppo passeranno, ma senza riforme che mettano in sicurezza il futuro, nulla, proprio nulla, consente di sperare che il dopo sia qualcosa di meglio di un ineluttabile ritorno al passato. Magari ci fosse un patto politico tra le forze politiche per riforme istituzionali profonde ed efficaci e che tale patto avesse in una personalità come Draghi il garante che vigila alla loro attuazione. Altro che semipresidenzialismo di fatto, questa sarebbe una svolta epocale. Con buona pace dei farisei annidati sugli spalti. Giovanni Guzzetta

Tagadà, Sorgi spiazza tutti: "Giorgetti? Il presidenzialismo in Italia c'è da 20 anni". Cosa ammette su Berlusconi. Il Tempo il 05 novembre 2021. Tanto rumore per nulla. Il confronto in casa Lega dopo le uscite del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti e il consiglio di partito in cui è stata ribadita l'"obbedienza" al segretario Matteo Salvini venerdì 5 novembre è tra i temi caldi della giornata politica a Tagadà, il programma condotto su La7 da Tiziana Panella. In studio Marcello Sorgi, editorialista de La Stampa che ammette di "averci capito poco, anche se ho studiato" sulla polemica sollevata dalle parole di Giorgetti, che nell'intervista contenuta nell'ultimo libro di Bruno Vespa ha detto che se andasse Mario Draghi al Quirinale saremmo davanti a un semipresidenzialismo de facto perché l'attuale premier potrebbe tranquillamente "guidare il convoglio" del governo dal Colle. "Il presidenzialismo in Italia c'è da 20 anni, dai tempi di Oscar Luigi Scalfaro" che non esitò "a mandare a casa Silvio Berlusconi" dice il giornalista. La conduttrice gli fa notare che Giorgetti aveva detto anche altro, come le critiche sulla politica europea della Lega di Salvini e i paragoni cinematografici con Bud Spencer e Terence Hill citati nell'intervista. "Ma secondo te fanno un consiglio federale per Bud Spencer?" sbotta Sorgi. Il fatto è che il presidenzialismo c'è anche adesso, rimarca Sorgi, "Sergio Mattarella ha dovuto mettere Mario Draghi perché la situazione era ingovernabile" col secondo governo di Giuseppe Conte. "Cosa ha detto di tanto grave Giorgetti? Una ovvietà. Se c'è uno che non può fare il congiurato è lui. L'unica notizia uscita nel consiglio federale" della Lega di giovedì 4 novembre "è stata indetta l'assemblea programmatica del partito per l'11 e il 12 dicembre". A cosa serve?  "A non fare i congressi,,. Quando un segretario vuole un 'o con me o contro di me' fa il congresso. L'assemblea, in concomitanza con la piena discussione della legge di bilancio, servirà a mettere alla prova i ministri sulla linea Salvini". 

Laura Cesaretti per "il Giornale" il 9 novembre 2021. Oggi Claudio Velardi è presidente della Fondazione Ottimisti e Razionali, che ha appena compiuto cinque anni e che «nacque nel momento più oscuro della politica italiana, con il populismo, il sovranismo, la guerra alla competenza sulla cresta dell'onda, per cercare di riportare un po' di ragionevolezza nel discorso pubblico». Il tempo (e l'arrivo di Draghi) «ci hanno dato ragione». Ma Velardi, nella sua prima vita da «quadro politico» di alto livello e consigliere di Massimo D'Alema ai tempi d'oro, ha vissuto da dentro molte elezioni per il Colle, e conosce trucchi, regole e segreti di una partita che negli ultimi decenni, ricorda, «la sinistra è riuscita sempre a gestire, pur senza avere la maggioranza». 

Quando iniziò questa egemonia della sinistra?

«Con l'elezione, paradossalmente, del Dc più di destra, in un momento di crisi drammatica: Oscar Luigi Scalfaro. Una candidatura inventata in modo estemporaneo e apparentemente folle da Marco Pannella, che non aveva truppe in Parlamento, e che risultò la carta vincente grazie alle lotte interne alla Dc e all'opportunismo della sinistra, che ottenne in cambio la presidenza della Camera per Giorgio Napolitano». 

Il successore di Scalfaro fu Ciampi, e a quell'epoca lei era dentro tutti i giochi, al fianco di D'Alema premier. Come andò?

«Andò che D'Alema, e con lui Silvio Berlusconi con cui c'era un accordo sul nome di Giuliano Amato, furono fottuti da Walter Veltroni che si mise d'accordo con Gianfranco Fini e propose Ciampi, poi eletto al primo scrutinio. Ricordo che ancora il giorno prima, mentre passavo in Transatlantico, Berlusconi mi prese da parte e mi chiese: "siete sicuri che i vostri non faranno scherzi su Amato?". Lo rassicurai. E poi il giorno dopo Veltroni tirò fuori il nome di Ciampi».

Una mossa abile?

«Da manuale: la carta Ciampi era forte, prestigiosa, era impossibile a D'Alema dirgli di no, e aveva un'allure di modernità e novità che faceva apparire più antichi gli altri aspiranti, da Amato a Marini o Jervolino. E, quel che più conta, venne tenuta coperta fino all'ultimo». 

Una regola aurea, no?

«Certo: quando si deve eleggere un presidente, i primi nomi sono sempre quelli che poi vengono tagliati fuori. Così come vengono impallinati quelli che provano a mettersi in prima fila a fare i registi: da questo punto di vista, l'operazione fatta da Matteo Renzi nel 2015 per eleggere Mattarella fu magistrale. Anche se non gli portò fortuna. In genere comunque le cose si decidono a pochissime ore dal voto, su una carta coperta, mentre la principale attività nelle settimane precedenti è quella di creare cortine di fumo e fake news per occultare le mosse e bruciare le carte altrui». 

Nel 2006 toccò a Napolitano.

«Anche lì ci fu la manina di Veltroni per fregare D’Alema, che ci sperava tanto da essersi messo a fare i conti dei suoi voti potenziali: un errore madornale, nessuno può vincere quella partita in modo muscolare. Il nome venne tenuto fuori fino all'ultimo: ricordo di aver incontrato Napolitano, che all'epoca era un pensionato del Parlamento europeo, ad un matrimonio ad Anacapri. Ero a un tavolo con D'Alema, Bassolino, le nostre mogli e lui si avvicinò sorridendo: "Vedo che avete fatto il tavolo dei potenti". Poche settimane dopo era al Quirinale». 

Nel 2013 fu rieletto dopo il tonfo dei 101 di Prodi. Come andò?

«Sui 101 fu fatta una letteratura ex post: la realtà è che l'elezione di Prodi non era nel novero delle possibilità. Troppo ingombrante, troppo divisivo, troppe antipatie personali maturate negli anni: i numeri non c'erano, e D'Alema avvertì lealmente sia Prodi sia l'allora segretario Bersani che sarebbero andati a sbattere. Poi tutto venne messo in conto al solito uomo nero di Rignano, Matteo Renzi, ma è una leggenda di comodo costruita dopo». 

Generoso Picone per “Il Mattino” il 12 novembre 2021. Ciriaco De Mita quasi si schermisce quando sente parlare del metodo da lui sperimentato nell’elezione del presidente della Repubblica. Il metodo De Mita: che portò al Quirinale il 24 giugno 1985 Francesco Cossiga al primo scrutinio con ben 752 schede a favore su 977, percentuale del 76 e molto superiore alla barriera dei due terzi richiesti per i primi quattro turni. Un esempio di strategia meticolosa sapiente tanto da meritarsi un capitolo di rilievo nella invece tormentata storia delle votazioni per il Quirinale. Soltanto 14 anni dopo si sarebbe ripetuto un esito del genere, Carlo Azeglio Ciampi salì al Colle con l’immediato consenso di 707 adesioni su 1010. Insomma, un brevetto che ha fatto scuola nella letteratura parlamentare. «Usai soltanto il metodo della condivisione delle scelte», dice l’ex premier e segretario della Dc, oggi novantatreenne sindaco della sua Nusco. Dipendesse da lui, si limiterebbe a rievocare la lezione di don Luigi Sturzo, di Alcide De Gasperi e di Aldo Moro per spiegare che è nella tradizione del popolarismo operare una netta distinzione tra la figura del capo dello Stato, «che rappresenta l’unità politica del Paese», e quella della guida dell’esecutivo, «che rappresenta la maggioranza che governa». Ma non sempre, anzi: quasi mai, questo principio si è affermato e allora il racconto di quei giorni può tornare utile a rivisitare un’esperienza di mediazione e una pratica di affermazione politica.

De Mita, come si delineò?

«Nel 1985 ero da tre anni segretario della Dc e, affrontando la questione della successione a Sandro Pertini, recuperai la memoria del 1971, delle elezioni che il 24 dicembre avevano visto prevalere Giovanni Leone». 

Eletto presidente con il sostegno determinante del Msi e dei monarchici?

«Si assistette a un durissimo scontro all’interno della Dc. Arnaldo Forlani, segretario del partito, indicò la candidatura di Amintore Fanfani. Io, che ero vicesegretario, mi opposi non al nome, ma al metodo adottato: sostenni che la forza politica che intende far eleggere presidente della Repubblica un suo esponente non doveva chiedere alle altre di aderire alla sua proposta. Aveva l’obbligo, invece, di creare le condizioni di una scelta condivisa e per la Dc ciò significava porsi come quasi di riferimento tutti i partiti che avevano elaborato e approvato la Costituzione. L’elezione del capo dello Stato non può che essere, sempre e comunque, un momento alto di legittimazione della Repubblica». 

Il Patto costituzionale declinato per il Quirinale?

«Certo. L’avevo teorizzato fin dal 1969 e il Patto non poteva ridursi a una pura enunciazione, bensì doveva diventare il risultato di una riflessione profonda che, senza discriminare il Msi, affidava alle forze politiche artefici della Carta costituzionale il compito della riforma e del riordino delle Istituzioni. In quel periodo il tema cominciava a conquistarsi una sua urgenza: l’avessimo affrontato a tempo debito non ci troveremo dove ora siamo». 

Dunque, il metodo della condivisione democratica.

«Nel 1971 non ero stato ascoltato e ciò che ho definito la fregola dell’intrigo personale prevalse sulla sostanza del pensiero». 

Lei già il 25 dicembre 1964 era stato protagonista di un gesto di dissidenza nei confronti della Dc: si votava per il successore di Antonio Segni e senza un accordo su Giovanni Leone il partito aveva deciso di astenersi per neutralizzare i franchi tiratori. Piazza del Gesù usò il pugno duro contro lei e Carlo Donat-Cattin, franchi tiratori rei confessi e sospesi per due anni.

«Manifestammo la nostra opinione. In realtà ci liberarono subito. Fu la sola volta in cui io e Donat-Cattin ci trovammo d’accordo». 

Nel 1964 prevalse Giuseppe Saragat.

«Nel 1971 a farne le spese fu la candidatura di Aldo Moro, l’interprete delle larghe intese e il fautore del dialogo tra i grandi partiti popolari, la Dc e il Pci. Se proprio vogliamo parlare di metodo De Mita esso consisteva esattamente nel diretto coinvolgimento delle forze politiche più rappresentative, la Dc, il Pci, il Psi, nella scelta del nome da votare». 

E lei indicò quello di Francesco Cossiga.

«Gli altri partiti avevano riconosciuto alla Dc la priorità dell’indicazione. Io presentai una lista di nomi, tra cui quello di Cossiga, sul quale registrai la maggiore convergenza». 

I segretari del Pci e del Psi erano rispettivamente Alessandro Natta e Bettino Craxi. Si dice che per convincere Natta lei gli avrebbe utilizzato questo argomento: il Pci ha già votato Cossiga alla presidenza del Senato, un no per il Quirinale farebbe eleggere Forlani con i voti dei socialisti. Natta voleva evitare che dopo la vittoria al referendum sulla scala mobile Craxi potesse ottenere una nuova affermazione.

«Mah, non faticai molto a promuovere Cossiga. La verità è che su di lui ci fu una larga convergenza. Semmai si trattò di convincere i partiti laici e ciò avvenne facendo immaginare che uno dei loro leader sarebbe stato nominato senatore a vita. Poi Cossiga non lo fece. Fu un gioco di furbizie».

Francesco Cossiga veniva da un periodo assai complicato, era stato ministro dell’Interno quando Moro era stato rapito dalle Br.

«Il Cossiga che io indicai era il mio antico amico dai tempi dell’Azione cattolica, con lui avevo una proficua frequentazione e niente poteva far ipotizzare l’atteggiamento che lui avrebbe mostrato dopo anche nei miei confronti. Non ebbe grande riconoscenza, diciamo così».

Oggi le sembra riproponibile il metodo De Mita?

«C’è una distanza di tre secoli da quegli anni». 

Le farebbe piacere una conferma del suo amico Sergio Mattarella?

«Io ci penso. Eravamo e siamo amici, è il garante della Costituzione e sarebbe la soluzione migliore. Però in politica le operazioni di qualità diventano possibili quando c’è un fondamento comune».

Tommaso Labate per corriere.it il 18 novembre 2021. «Quanto poco ci vuole a far saltare l’elezione di un presidente della Repubblica. Un dettaglio, una fesseria, e la storia del Paese cambia». 

Tipo?

«Ha presente quella specie di catafalco, quella sorta di cabina con le tende scure che viene montata a Montecitorio, in cui i parlamentari si infilano per votare a scrutinio segreto? Ecco, quel coso ha cambiato la storia d’Italia in un giorno di maggio del 1992. Arnaldo Forlani stava per diventare presidente della Repubblica. Al quinto scrutinio aveva preso 469 voti, al sesto era salito a 479, una o massimo altre due votazioni e ce la avrebbe fatta». 

Ma che c’entra la cabina?

«L’accordo era che si procedesse senza usarla. L’accordo era che i parlamentari votassero a scheda aperta, così li vedevi in faccia. Il voto era segreto, certo; ma si poteva intuire quanto era lungo il cognome che scrivevano, capire se avrebbero rispettato gli accordi. Se sulla scheda scrivi “Forlani” o “Spadolini” c’è una differenza che l’occhio attento sa cogliere. Non solo, qualcuno sospettato di essere un libero pensatore poteva discolparsi mostrando la scheda». 

Un franco tiratore intende?

«Io li chiamo liberi pensatori». 

Comunque sia…

«Seguivamo i lavori dell’Aula nella stanza del governo. A un certo punto, dalla tv, Forlani sente che Oscar Luigi Scalfaro e l’ufficio di presidenza hanno appena accolto la proposta di Pannella di continuare le votazioni usando quel confessionale. Arnaldo teme la trappola e ritira la sua candidatura. Una settimana più tardi, dopo la strage di Capaci, il suo biglietto per il Colle l’avrebbe preso proprio Scalfaro». 

Di quell’elezione del presidente della Repubblica, anno 1992, Paolo Cirino Pomicino fu forse il miglior attore non protagonista. Era stato lui, andreottiano di ferro, ad aprire le danze qualche settimana prima, mettendo a sedere allo stesso tavolo i due pretendenti, Andreotti e Forlani. 

La scena che si vede nel Divo di Sorrentino.

«La raccontai io a Sorrentino. “Se c’è la candidatura di Andreotti, la mia non esiste”, disse Forlani; “se c’è la candidatura di Forlani, la mia non esiste”, rispose Andreotti; e io che concludevo dicendo “ho capito, sono candidati tutti e due”». 

Oggi sembra più semplice di allora.

«Al contrario, è molto più difficile. Quando mollano l’ancoraggio alle tradizioni culturali, i partiti perdono il loro peso nella società e questo si riverbera nei gruppi parlamentari, oggi impossibili da controllare. Guardi la Germania: socialisti, popolari, liberali, ambientalisti, destra, tutto molto definito. Solo da noi non lo è».

Lei come si muoverebbe?

«Gli accordi trovati troppo presto o troppo tardi non reggono. Bisogna muoversi otto-dieci giorni prima dell’inizio delle votazioni. Enrico Letta, Matteo Salvini e Luigi di Maio chiusi in una stanza: si potrebbe partire da lì per poi allargare. Sono gli unici tre che hanno l’interesse a non far finire la partita nelle mani di Renzi».

La candidatura di Berlusconi?

«Aritmeticamente adesso è forte. Ma l’aritmetica, sa...».

Draghi?

«Penso che ci sia l’interesse nazionale e internazionale che rimanga a Palazzo Chigi, soprattutto ora che in Europa non ci sarà più la Merkel. Per il Quirinale bisogna cercare una personalità che abbia tanti anni di attività politica, un’importante esperienza di governo alle spalle, un grande prestigio internazionale. Nomi non ne faccio ma non è impossibile».

Nel 1992, con un partito ancora forte, Andreotti e Forlani arrivarono al «game over» prima del traguardo.

«La corsa di Andreotti durò due ore. Dalle 5 alle 7 del pomeriggio. Il giorno prima della riunione decisiva dei gruppi dc, Forlani va da Giulio e gli dice che avrebbe proposto il suo nome. Mi telefona da Palazzo Chigi Nino Cristofori, mi dice “Paolo, è fatta, muoviamoci per trovare altri voti fuori dalla maggioranza”. Andreotti era in Parlamento fin dalla Costituente, di rapporti ne aveva a destra e a sinistra». 

E poi?

«Mi fiondo nello studio di Andreotti e incrocio Mino Martinazzoli. Gli chiedo che cosa ci facesse lì e lui mi risponde che era andato a smentire l’ipotesi di una sua candidatura, a garantire che anche il suo voto sarebbe andato a Giulio». 

Sembra fatta.

«Sono da Andreotti quando ricevo una telefonata da Enzo Scotti, che mi dice che per il gruppo dei dorotei il candidato della Dc deve essere Forlani. “Ma chi ha deciso?”, urlo al telefono. C’era stata una riunione, presenti Gava, Silvio Lega, Leccisi, Prandini, lo stesso Scotti. A quel punto, dico ad Andreotti che deve telefonare a Forlani. E Arnaldo gli conferma che, tornando al partito, aveva trovato la rivoluzione... Si erano fatte le 7 di sera. Due ore prima era un altro mondo».

L’avrebbe spuntata Scalfaro.

«Dopo l’uccisione di Falcone, si trovano tutti a casa di Ciarrapico: Forlani, Andreotti, Gava, Craxi. È Craxi che spinge su Scalfaro, presidente della Camera, convinto che avrebbe potuto “garantirlo” dal Colle, Mani Pulite era già iniziata... Un altro calcolo sbagliato, la storia che cambia. Per dire a quelli di oggi che, alle volte, basta un niente».

Da “La Stampa” il 18 novembre 2021. Esce oggi per La nave di Teseo il nuovo libro di Marco Damilano, Il presidente (pp.352, € 10). In vista delle elezioni per il successore di Sergio Mattarella, il prossimo febbraio, il direttore dell’Espresso racconta i retroscena, gli intrighi e le congiure che hanno segnato la storia dei diversi Capi dello Stato. Nel brano che qui anticipiamo sono riconosciute, con le confidenze di un grande elettore del Pd, le manovre interne al partito tra il 18 e il 19 aprile 2013, quando nel giro di poche ore Romano Prodi (che si trovava in Mali, inviato del segretario generale dell’Onu), vide sfumare la propria ascesa al Colle.

"Mio padre Andreotti, il Colle e Draghi: vi dico tutto". Francesco Boezi il 5 Dicembre 2021 su Il Giornale. Stefano Andreotti ci racconta del rapporto tra il padre Giulio e la presidenza della Repubblica. C'è spazio pure per qualche aneddoto su Mario Draghi. Giulio Andreotti non è mai stato presidente della Repubblica. Eppure, in almeno una circostanza, il principale esponente della Prima Repubblica ci è andato vicino. Attraverso questa intervista, il figlio Stefano racconta il rapporto che il padre ha avuto con l'istituto del capo di Stato ma non solo. Tra "diari segreti", ultime battaglie politiche e retroscena su Mario Draghi, viene fuori un ritratto completo di un uomo che ha fatto la storia d'Italia.

Come mai suo padre non è mai riuscito a diventare presidente della Repubblica?

"Ci sono due aspetti. Una volta - da quello che mi ha raccontato lui e da quello che mi hanno raccontato le persone che gli stavano vicino - il suo staff, per qualche ora, ha pensato che stesse per essere eletto. Era sera: l'entourage di mio padre era convinto che Andreotti stesse per diventare capo di Stato. Un convincimento che non ha avuto la durata di una giornata. Lei saprà della rivalità dell'epoca con Forlani. Le cose poi cambiarono: i socialisti avrebbero deciso di non appoggiarlo. Mi riferisco al 1992, l'anno in cui è stato eletto Oscar Luigi Scalfaro ed in cui c'è stato il tragico attentato al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie ed alla sua scorta. Però c'è un'altra questione: il ruolo di presidente della Repubblica, per mio padre, non rappresentava la massima aspirazione di lavoro. Mio padre ha sempre amato il contatto quotidiano con la gente, oltre che un lavoro che lo portasse spessissimo all'estero. Chiudersi in una sorta di casa dorata non era il massimo delle sue aspirazioni. Le volte in cui mio padre si è sentito gratificato combaciano con quelle in cui ha potuto occuparsi di Esteri".

Nel 2006, però, ha tentato un'altra cavalcata: quella per la presidenza del Senato.

"Sì, poi venne eletto Franco Marini. Credo abbia influito un po' di vanità. Aveva già aderito a Democrazia europea di Sergio D'Antoni, un movimento che poi non avrebbe portato da nessuna parte o quasi. Lui voleva sentirsi giovane. Pure perché veniva da un lunghissimo periodo processuale. Dopo tutte le gratificazioni e cariche ottenute nel corso della vita, credo che non abbia pianto per non essere diventato presidente del Senato nel 2006. E lo stesso vale per non essere diventato presidente della Repubblica".

Le faccio quattro nomi: Andreotti, Craxi, Berlusconi e Renzi. Ogni volta che si avvicina l'elezione del capo di Stato, partono i "veleni". Un modus operandi che continua ai giorni nostri.

"Si tratta di una modalità che l'Italia ha imparato a conoscere all'inizio degli anni novanta, con Craxi come esponente maggiore ma, insieme a lui, tutta la schiera delle persone coinvolte in Tangentopoli. E, nello stesso periodo, con mio padre ed i suoi tanti processi. Abbiamo iniziato ai tempi. E mi pare che quel modo di procedere stia continuando anche adesso, con un massacro terribile. Per carità: in alcuni casi ci sarà stato anche qualcosa dietro ma, per la maggior parte delle volte, mi pare che dopo non si sia scoperto niente di che. Vale anche per Berlusconi, con tutta quella storia delle olgettine: mi sembra che la questione sia davvero tirata per i capelli. E mi pare che lo stesso trattamento stiano subendo Renzi e famiglia".

Qual è stato il presidente della Repubblica con cui suo padre ha avuto un rapporto migliore?

"Le dirò... . Il presidente della Repubblica con cui mio padre ha avuto un rapporto migliore è stato Sandro Pertini, nonostante quest'ultimo non fosse democristiano. Pertini era anche di una generazione precedente ma, mentre questi era presidente della Camera, alla fine degli anni sessanta, mio padre era capogruppo a Montecitorio della Dc. Quindi mio padre aveva avuto occasione quotidiana d'interfacciarsi con Pertini. Un rapporto che si è poi cementato negli anni. Quando mio padre, all'inizio degli anni ottanta, è divenuto ministro degli Esteri, Pertini era il capo di Stato. E in quel periodo hanno condiviso tantissime scelte: qualcosa di straordinario. Le sottolineo l'affetto reciproco che provavano queste due figure. Poi mio padre ha avuto rapporti con più o meno tutti gli altri presidenti. Tenga conto che la famiglia è sempre rimasta fuori dalla politica: mio padre voleva che fosse così. Ma tra i pochi politici che ho conosciuto perché veniva a trovarci a casa, anche in quella dove andavamo in montagna, è stato Francesco Cossiga. Poi mio padre aveva una grandissima stima di Mario Segni. Ma Pertini su tutti".

E con il presidente Sergio Mattarella?

"Sa, mio padre aveva avuto rapporti più intensi con il padre e con il fratello: prima con Bernardo e poi con Piersanti. Con il Mattarella presidente della Repubblica ha avuto rapporti normali, buoni. Anche se - lei sa - Mattarella ha fatto parte del novero dei ministri che si dimise per l'approvazione della Mammì. Certo non ha avuto i rapporti intensi che ha avuto con Pertini e con Cossiga".

Insomma, non esistono questi "diari segreti" per cui la Repubblica avrebbe tremato.

"Noi abbiamo pubblicato, io e mia sorella, i "Diari segreti" ed i "Diari degli anni di piombo". Il titolo del primo libro lo avevamo immaginato in un modo molto diverso. Doveva essere tipo: "Mi voglio togliere un sassolino dalla scarpa". Una delle frasi presenti nel testo. Ma l'editore ha scelto "Diari segreti". La cosa giusta sarebbe stata "Diari inediti", perché questo è vero. Bisogna anche pensare che non sono memorie: questi - mi creda - sono le note che mio padre prendeva giorno dopo giorno, perché ha iniziato durante la guerra. Quei diari non sono rielaborazioni, bensì le annotazioni e le impressioni quotidiani. Poi sui "diari segreti": mio padre ha sempre detto che, nel Paese della dietrologia su tutto, il più grande segreto è che questi grandissimi segreti non esistono. Se si leggono i diari senza essere prevenuti, di sicuro si ha una versione molto diversa rispetto a tante storie sono state raccontate. Una questione su tutti: quella dei 55 giorni di Aldo Moro, della strage di via Fani e dunque di tutte le persone che sono cadute in quel modo terribile".

Ci racconti qualcosa

"Io e mia sorella ricordiamo le preoccupazioni, l'angoscia ed il dolore di quel periodo: possiamo testimoniarli anche noi".

Lei ha detto che suo padre ha provato a salvare Aldo Moro sino all'ultimo giorno...

"Gran parte dei partiti, a cominciare dalla Dc, ma pure dal Pci e dal Partito Repubblicano, e anche da Pertini, erano tutti dell'idea che non si dovesse cedere in nulla. Questo non significa che non sia stata cercata una strada. Una strada che non significava riconoscere qualcosa di pubblico ai terroristi: negli anni, mio padre ha preso molte annotazioni, che non erano mai state rese pubbliche. Forse per rispetto di papa Paolo VI e del segretario Don Macchi. Quest'ultimo, verso le 23.30, veniva spesso da mio padre a parlare, a nome pure del pontefice, di quelle che erano le possibilità e di quello che si poteva fare in merito a Moro. C'era una strada, che è stata successivamente resa nota: il rapporto con un cappellano di un carcere milanese. Il cappellano conosceva qualcuno che a sua volta era in contatto con qualcuno tra i brigatisti. Si sarebbe trattato di un pagamento di denaro: dieci miliardi di lire che all'epoca era una cifra considerevole. E mio padre diceva: "O noi o il Vaticano, in qualche modo, li riusciremo a tirare fuori". Quindi il fatto che il Vaticano avesse tirato fuori quei soldi non è del tutto esatto. E poi c'è la descrizione di questi rapporti e di una, non dico certezza perché sarebbe stata una follia, ma di una vena di ottimismo che Aldo Moro potesse essere liberato. Quando il corpo di Moro è stato ritrovato in via Caetani, parlando con don Macchi, si dedusse - c'è la notazione - che tra i brigatisti fossero nati due partiti: uno di Moretti, che avrebbe voluto uccidere Moro in ogni caso, e uno, quello di Morucci e della Faranda, che sarebbero stati per liberarlo. E prevalse quello di Moretti. Altrimenti loro erano quasi sicuri che quella mattina o comunque in quei giorni sarebbe stato liberato. Ci sono notazioni quotidiane in merito e c'è il grande dolore con cui poi mio padre è morto. Questo posso testimoniarlo io, con i miei occhi. Mio padre ha pianto due volte: quando è morta sua mamma, mia nonna, e quando è morto Moro. Io, quel giorno, l'ho visto distrutto".

Senta, se Andreotti fosse vivo e facesse politica, cosa combatterebbe?

"(Ride, ndr). Consideri che sono passati trent'anni. Ma penso che, rispetto alla politica di oggi, due aspetti non gli sarebbero piaciuti. Uno è la violenza verbale tra avversari. Questo elemento, nella prima Repubblica, non c'era. Mio padre ha avuto rapporti di grande cortesia e correttezza con tanti comunisti. Non dico di amicizia, ma quasi: con Pajetta aveva una frequentazione quasi quotidiana. Abbiamo delle lettere in cui sembrano degli amici veri. Si scambiavano di tutto. Con Berlinguer pure ha avuto un rapporto notevole. L'altra cosa che sicuramente non sarebbe piaciuta a mio padre sarebbe stata l'impreparazione: sia la regola del doppio mandato sia "l'uno vale uno" ormai sono naufragati. Forse qualcosa hanno capito. Mio padre studiava ogni giorno e ha iniziato con la gavetta, attaccando i manifesti di notte. Provi a dire oggi ad un giovane politico di attaccare i manifesti... ".

L'ex ministro Mannino ha associato la realpolitik di Mario Draghi a quella di suo padre. Sono due figure accostabili?

"Pensi che Mario Draghi ha avuto il primo incarico in un governo mentre mio padre era presidente del Consiglio. Noi abbiamo una lettera in cui si parla benissimo di Draghi, che poi viene nominato direttore del ministero del Tesoro. E c'è anche una fotografia che abbiamo trovato. Ne abbiamo una valanga d'immagini. Ce n'è una di un Draghi giovanissimo appoggiato alla porta, mentre mio padre incontra Carlo Azeglio Ciampi. Si tratta di una persona che ha dato tanta serenità ad un ambiente pieno di polemiche. Rispetto a mio padre, viene da un mondo molto diverso: mio padre con la finanza non andava proprio d'accordo. Di certo Draghi sta dimostrando di risolvere le cose giorno dopo giorno. Come mio padre, che non volava mai altissimo: era abituato a non fare voli straordinari per affrontare i problemi. Ecco, sotto questo aspetto, vedo delle similitudini. E Draghi si trova a gestire una situazione non facile: da mediatore. Un po' come Giulio Andreotti".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Estratto da “Il presidente”, di Marco Damilano (ed. La nave di Teseo), pubblicato da “La Stampa” il 18 novembre 2021. Alle otto di sera del 18 aprile 2013, nel Transatlantico, che sembra il campo della battaglia dopo che morti e feriti sono stati trascinati via, scivola Enrico Letta, sussurra a chi gli chiede: «Sto lavorando per Romano». Nel divanetto accanto alcuni deputati ex Ds si dicono sicuri che invece il giorno dopo i grandi elettori del Pd saranno riconvocati per scegliere tra i candidati forti: Prodi, D'Alema, qualcuno aggiunge la Finocchiaro, qualcun altro vorrebbe inserire nella partita anche Marini che non si è mai ritirato. In serata l'ipotesi prende corpo, viene convocata una nuova assemblea al Teatro Capranica, alle otto del mattino. I renziani si muovono come un partito nel partito, come una corrente democristiana di una volta. Si danno appuntamento a Eataly, il megaristorante di cucina italiana ideato dall'imprenditore Oscar Farinetti, amico del sindaco di Firenze. E lì, tra ascensori avveniristici e prosciutti appesi alle pareti, il sindaco di Firenze annuncia che domani si dovrà votare per Prodi: è stato lui il primo a farne il nome, se passa è la sua prima vittoria nel partito, una prova da leader. E se non passa? Avrà perso il leader, Bersani. Che, come recitano le sacre regole delle elezioni quirinalizie, è sempre il vero obiettivo dei franchi tiratori. Nella notte ci sono altre consultazioni, tra l'Italia, il Mali, la segreteria di Bersani, gli uomini di Prodi e lo staff di D'Alema, prende forma la primaria interna: all'inizio è l'idea di un semplice foglio bianco su cui ogni elettore potrà scrivere il suo nome, poi passa la proposta del ballottaggio tra i due ex premier del centrosinistra. I capigruppo relazioneranno sullo stato dell'arte, poi chiederà la parola Bersani, per candidare Prodi al Quirinale, non da segretario del partito, ma da parlamentare semplice. A quel punto si alzerà Anna Finocchiaro, anche lei da parlamentare semplice parlerà per candidare D'Alema. Come previsto dal copione, il primo a parlare è Bersani, ma lo fa da segretario del Pd e la sua è una proposta secca: c'è un solo candidato per il Quirinale, Romano Prodi. Un cambio di linea improvviso che viene accolto da un lungo applauso. Così riporta la notizia l'Ansa alle 8,54: «Bersani propone Prodi, lungo applauso e standing ovation». «Non è vero che quella mattina tutti applaudirono Prodi, nessuno si è dato pena di sapere cosa è successo quella mattina», dirà in seguito D'Alema. «Non c'ero, ma me l'hanno raccontato in tanti: i parlamentari si sono trovati di fronte a quella che è stata da molti vissuta come una scelta imposta, come una decisione contraddittoria, non discussa. In sala c'era la metà di chi avrebbe dovuto partecipare, c'è stato l'applauso di alcuni, c'è stato l'errore grave di chi non era d'accordo, avrebbe dovuto parlare e non lo ha fatto». Il grande elettore anonimo del Pd è impietoso: «Nella prima votazione c'erano state 104 schede bianche, almeno 40 erano gli emiliani che avevano ricevuto l'ordine di Bonaccini. Bersani ed Errani erano diventati minoranza anche nella loro regione, per recuperarli si sono buttati su Prodi. Nella notte tra il 18 e il 19 i capi concordano che i grandi elettori saranno chiamati a esprimersi su un nuovo candidato. Le quattrocento schede erano già pronte. Bersani avrebbe dovuto parlare per Prodi, la Finocchiaro per D'Alema. Il primo a intervenire è Bersani, dice: "Io propendo per Prodi...", a quel punto non si capisce più nulla, le prime due file si alzano in piedi per applaudire. Presiedevano l'assemblea Luigi Zanda, capogruppo al Senato, e il giovane Roberto Speranza della Camera, avrebbero dovuto calmare gli entusiasmi e far proseguire l'assemblea come previsto. Ma non l'hanno fatto. Perché? Mi sono interrogato a lungo e non so darmi una risposta...Cosa sarebbe successo se si fosse votato in assemblea? Si sarebbe aperto il confronto tra Prodi e D'Alema, diciamo che avrebbero preso almeno 150-170 voti a testa, su cui aprire una trattativa vera con le altre forze politiche, anche con il PdL. In ogni caso, i perdenti sarebbero stati vincolati a votare per il candidato vincente. Invece quell'applauso ha trasferito il voto segreto dall'assemblea degli elettori all'aula, dal Capranica a Montecitorio. Il primo ad accorgersi che le cose stanno andando male è proprio il diretto interessato, ancora in Mali, Romano Prodi. A Bamako è metà mattinata, in Italia sono quasi le due del pomeriggio, a quell'ora la sua candidatura è già tramontata. Anche il grande elettore del Pd va all'urna: «Nel primo pomeriggio avevamo tutti capito che Prodi era morto, finito. Non lo votavano i dalemiani, incazzatissimi, i franceschiniani, i mariniani, quelli che volevano insistere su Rodotà eletto con i grillini...È stata una forzatura priva di senso, organizzata da incapaci. E poi c'erano quelli che avevano tutto da perdere dall'elezione di Prodi e tutto da guadagnare da una sua sconfitta. I nomi? Giudichi lei, dopo, chi ci ha perso e chi ci ha guadagnato. Per esempio, chi è andato al governo Io quando mi sono trovato lì, sotto il catafalco, con la scheda in mano, non ho provato nessuna particolare emozione. Non ho neanche troppo pensato alle conseguenze. Era saltato tutto, non esisteva più un vincolo di partito. Il Pd non è un ordine religioso, un'associazione ecclesiastica, non esiste un giuramento di obbedienza assoluta a una linea dissennata. L'unica legge che ho osservato è stata la mia coscienza. E la Costituzione, che prevede espressamente la regola del voto segreto per eleggere il Presidente della Repubblica. Perché è consentita la possibilità di scegliere in modo diverso da quello imposto dall'esterno, senza poi essere costretti a dichiararlo, è tutelata la libertà dell'elettore. Non dirò a lei come ho votato, non lo dirò mai a nessuno».

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 26 novembre 2021. «Intrighi, rivalità, ambizioni personali, lotte intestine allo stesso partito, tutto vero, ma sempre nelle elezioni del capo dello Stato c'è anche la politica». Achille Occhetto, era nella cabina di regia del Pci in diverse votazioni del presidente e da segretario del Pds è stato tra i protagonisti dell'elezione di Oscar Luigi Scalfaro. 

Occhetto, furono giorni complicati convulsi e drammatici, quelli.

«Al centro delle prime votazioni c'erano le ambizioni contrapposte di Forlani e di Andreotti in cui cercò di insinuarsi senza molto successo lo stesso Craxi».

Anche l'allora segretario socialista mirava al Colle?

«Partecipai a molte riunioni con Craxi, quando vide che né Andreotti né Forlani ce l'avrebbero fatta pensò di poterci provare lui anche se continuava a fare nomi di altri socialisti, ma erano tutti ballon d'essai». 

Furono votazioni interminabili: finivano tutte a vuoto.

«Fu un braccio di ferro estenuante dominato dalle schede bianche e dai franchi tiratori. Scalfaro non era assolutamente all'orizzonte, io avevo cominciato ad apprezzarlo per un vibrante discorso che aveva fatto pochi giorni prima alla Camera sulla questione morale: si era all'alba di Mani Pulite. A un certo punto però Scalfaro fu candidato dal più laico dei laici, cioè Pannella, ma nelle prime elezioni prese soltanto sei voti». 

E voi a chi pensavate?

«In questo caos noi non potevamo assolutamente votare per Andreotti ma nemmeno per Forlani che era la personificazione del pentapartito, cioè la cittadella mummificata che si fondava sull'esclusione teorizzata dei comunisti dall'area di governo, e quindi il mio obiettivo era prima di tutto quello di scardinare quella cittadella. Volevo trovare un outsider. Ma ci fu un fatto decisivo, un fatto drammatico, la strage di Capaci. Un giornale intitolò «la Repubblica è finita». Non potevamo continuare a dare lo spettacolo di un Parlamento impotente che non riusciva a eleggere il presidente. Le lotte contrapposte furono archiviate e vennero fuori due ipotesi: quella di votare per il presidente della Camera, cioè Scalfaro, o per il presidente del Senato Giovanni Spadolini. Noi eravamo divisi. Io alla vigilia del voto ebbi forti pressioni da importantissimi personaggi dell'editoria e dell'imprenditorialità italiana perché scegliessi per Spadolini». 

Lei invece...

«Io parlai con Spadolini, gli dissi che sarebbe stato un ottimo presidente, ma aggiunsi: "Temo che se noi puntiamo su di te siamo sconfitti e se siamo sconfitti rafforziamo Andreotti, Forlani e Craxi". Poi la sera delle elezioni, era già buio, mi presentai nello studio di Scalfaro, mi sedetti accanto a lui sul divano e gli dissi senza preamboli: "Sono venuto a dirti che domani noi voteremo per te". Lui mi ringraziò calorosamente pensando che i nostri voti gli garantissero il successo. "Però..",continuai io con un certo imbarazzo. "Però?", mi interruppe Scalfaro preoccupato. Io proseguii: "Devi sapere che nel nostro gruppo c'è una grossa riserva per la tua forte inclinazione religiosa e qualcuno teme che tu possa entrare in conflitto con la necessaria connotazione laica del capo dello Stato". Ma prima che io continuassi, lui alzò la mano destra a mo' di giuramento e disse: "Capisco, ma di' ai tuoi che io sono serenamente degasperiano, la Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato, non ci deve essere e non ci sarà nessuna commistione". Io gli credetti, lo riferii ai gruppi del Pds e per rafforzare la mia posizione riportai anche un altro mio colloquio, quello con Pannella, che aveva avuto da Scalfaro le stesse garanzie». 

E Scalfaro venne eletto.

«Il che dimostra l'imprevedibilità di queste elezioni. Il super cattolico Scalfaro divenne presidente con il sostegno di due super laici, me e Pannella. Già, non è vero quello che leggo in questi giorni che nelle elezioni del presidente c'è una regia unica: ci sono molte regie che si intrecciano e si elidono a vicenda. Direi che l'elezione del capo dello Stato è più simile alla morra cinese: io metto la pietra per spuntare le forbici, poi c'è un altro che mette la carta per coprire la pietra Ci sono elementi imponderabili dentro i quali però c'è sempre il filo rosso della politica».

Occhetto riscrive la storia: "Ecco come andò l'elezione di Scalfaro". Orlando Sacchelli il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex segretario del Pds racconta alcuni retroscena sull'elezione di Scalfaro al Quirinale nel 1992. Nel 1992 Craxi voleva tornare nella stanza dei bottoni, dove era stato dal 1983 al 1987, lasciando poi spazio alla Dc in virtù del famoso "patto della staffetta" deciso con il segretario della Dc Ciriaco De Mita. La maggioranza di governo in quegli anni si reggeva sull'asse Dc-Psi, con il sostegno di altre forze minori (Psdi, Pli e fino al 1991 anche il Pri), dunque a muovere le danze erano i due azionisti principali. Le elezioni del 5 aprile segnarono una lieve battuta di arresto per la maggioranza, che ottenne il 48,85% alla Camera (331 deputati) e il 46,22% al Senato (163). I numeri per governare c'erano ma lo scoppio di Tangentopoli minava le fondamenta della vecchia classe politica, mettendo tutto in discussione, un avviso di garanzia dopo l'altro. E da lì a poco sarebbe partita la "caccia alle streghe" con il refrain del "parlamento delegittimato dalla questione morale". Alle nuove camere appena insediatesi toccò il compito di scegliere il Presidente della Repubblica, dopo le dimissioni di Cossiga. Si venne a creare una grave situazione di stallo tra le forze politiche, che non riuscivano a decidere come sbloccare la situazione individuando l'uomo da far salire sul Colle. Alla fine la spuntò il presidente della Camera, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro. Oggi, a distanza di quasi trent'anni, Achille Occhetto, all'epoca segretario del Pds (nato dalle ceneri del Pci), ci tiene a far sapere la propria versione dei fatti. Dalle colonne del Corriere della sera racconta che Craxi avrebbe voluto accomodarsi sullo scranno più alto del Paese. Nella sua ricostruzione parte da dettaglio letto e riletto migliaia di volte: "Al centro delle prime votazioni c'erano le ambizioni contrapposte di Forlani e di Andreotti in cui cercò di insinuarsi senza molto successo lo stesso Craxi". Che i due leader della Dc avessero quella mira è risaputo. Che l'avesse anche Craxi fino ad ora non era emerso, anche se potrebbe essere vero. Si è sempre saputo che tra i piani del leader del Psi ci fosse il ritorno a Palazzo Chigi. Occhetto dopo quasi trent'anni prova a scrivere un'altra storia, insinuandosi tra i desideri (legittimi) altrui e il normale gioco della politica. "Partecipai a molte riunioni con Craxi - racconta l'ex segretario Pds - quando vide che né Andreotti né Forlani ce l'avrebbero fatta pensò di poterci provare lui, anche se continuava a fare nomi di altri socialisti, ma erano tutti ballon d'essai... Fu un braccio di ferro estenuante dominato dalle scheda bianche e dai franchi tiratori. Scalfaro non era assolutamente all'orizzonte, io avevo cominciato ad apprezzarlo per un vibrante discorso che aveva fatto pochi giorni prima alla Camera sulla questione morale: si era all'alba di Mani Pulite. A un certo punto però Scalfaro fu candidato dal più laico dei laici, cioè Pannella, ma nelle prime elezioni prese soltanto sei voti". Occhetto ha il buon gusto di fare il nome del vero 'king maker' dell'elezione di Scalfaro: il leader dei radicali Marco Pannella, che avrà avuto molti difetti ma sapeva avere grandi intuizioni politiche. L'ex leader della Quercia (simbolo del Pds, ndr) non perde troppo tempo prima di riprendersi il merito di aver sbloccato l'impasse:"In questo caos noi non potevamo assolutamente votare per Andreotti ma nemmeno per Forlani che era la personificazione del pentapartito, cioè la cittadella mummificata che si fondava sull'esclusione teorizzata dei comunisti dall'area di governo, e quindi il mio obiettivo era prima di tutto quello di scardinare quella cittadella. Volevo trovare un outsider". L'attentato al giudice Falcone (23 maggio 1992) accelerò le votazioni. "Fu un fatto decisivo", spiega Occhetto. "Non potevamo continuare a dare lo spettacolo di un Parlamento impotente che non riusciva a eleggere il presidente. Le lotte contrapposte furono archiviate e vennero fuori due ipotesi: quella di votare per il presidente della Camera, cioè Scalfaro, o per il presidente del Senato Giovanni Spadolini". Il Pds pur essendo diviso al proprio interno scelse di convergere sul dc Scalfaro. Occhetto spiega come andarono le cose: "Parlai con Spadolini, gli dissi che sarebbe stato un ottimo presidente, ma aggiunsi: 'Temo che se noi puntiamo su di te siamo sconfitti e se siamo sconfitti rafforziamo Andreotti, Forlani e Craxi'". Il grande pericolo da scongiurare, dunque, manco a dirlo era il Caf (l'asse Craxi, Andreotti, Forlani), che da un decennio decideva le sorti politiche dell'Italia. La scelta cadde sul "supercattolico" Scalfaro, che per farsi sostenere dai post comunisti assicurò a Occhetto di essere fermamente degasperiano: "La Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato, non ci deve essere e non ci sarà nessuna commistione". "L'elezione del Capo dello Stato - conclude Occhetto nel suo racconto - è simile alla morra cinese: io metto la pietra per spuntare le forbici, poi c'è un altro che mette la carta per coprire la pietra. Ci sono elementi imponderabili dentro i quali però c'è sempre il filo rosso della politica". Già, la politica è alla base di tutto. E va persino oltre agli ideali. Altrimenti non si spiegherebbe per quale ragione il Pds appena nato chiese di aderire all'Internazionale Socialista, cosa che avvenne nel settembre 1992 con il beneplacito di Bettino Craxi. Due mesi dopo il Pds partecipò alla costituzione del Partito del Socialismo Europeo. Liquidati i socialisti in Italia, con l'inchiesta che avrebbe spazzato via tutti i partiti della maggioranza, l'obiettivo degli ex comunisti era occupare il loro posto nella storia.

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Le ultime tornate presidenziali. Intervista a Margherita Boniver: “Occhetto dice il falso, Craxi non si è mai autocandidato al Quirinale”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Margherita Boniver, socialista transitata dal Psi a Forza Italia, è stata tre volte deputata e due senatrice. Ha preso parte a tre voti presidenziali e dopo aver letto la ricostruzione di Achille Occhetto sulla brama quirinalizia di Craxi, puntualizza il suo ricordo delle ultime tornate presidenziali.

Boniver protesta: Occhetto confonderebbe. Ci racconta?

Occhetto, mosso da non so quale risentimento, vuole far passare l’idea che i socialisti erano loschi e scorretti mestatori. E che alle elezioni ponte tra prima e seconda Repubblica, quando venne eletto Scalfaro, Bettino Craxi provò fino all’ultimo a far votare il suo nome. Tutto falso. Craxi non si è mai autocandidato.

E come andò?

Era il 1992, il candidato concordato dal pentapartito era Arnaldo Forlani. Venne impallinato dai veti incrociati dei democristiani. E i socialisti capirono. Dopodiché era estremamente difficile trovare un nome autorevole: quello di Andreotti fu abbandonato sul nascere. Il clima era particolarissimo, c’era l’eco della strage di Capaci. Si votò per una settimana intera, Scalfaro venne eletto al sedicesimo scrutinio.

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Chi lo propose?

Il più laico di tutti: Marco Pannella. Non so per quale ispirazione iniziò a proporre a Bettino Craxi, con una telefonata, di votare il cattolico Scalfaro. Con motivazioni tali da convincere Craxi che mettere un giurista come Scalfaro sullo scranno del massimo garante della Costituzione avrebbe garantito le istituzioni, le avrebbe messe in sicurezza davanti a quel terremoto che avanzava.

E Craxi accettò.

Era stato un valido ministro degli Interni nel governo Craxi. Poi si rivelò terrificante dal punto di vista politico.

Addirittura terrificante?

Furono due anni in cui si concessero alla magistratura tutti gli eccessi che oggi conosciamo, si visse in uno stato di eccezione permanente. Fino allo scioglimento delle Camere nel 1994, benché la maggioranza avesse tutti i numeri. Una forzatura che aprì le porte del Parlamento a quella deriva giudiziaria che portò alla ghigliottina italiana: vennero decapitati tutti i partiti. Con Scalfaro avviene la presa di potere delle toghe che per la prima volta si sostituiscono al potere democraticamente eletto.

C’erano altri candidati nello schieramento laico?

Valiani e Spadolini, tra i grandi nomi di cui si parlava. Ma ci fu una chiusura soprattutto da parte del Pds che aveva capito una cosa: cavalcando sapientemente una certa corrente, si poteva far fuori il pentapartito in blocco. E l’operazione sarebbe meglio riuscita se a far calare il sipario sulla storia fosse stato un democristiano. Naturalmente il più amico dei magistrati tra i democristiani.

Saltiamo Ciampi per andare a Napolitano. Un voto che la vide protagonista di una ribellione.

Sì, perché io votai Napolitano dall’inizio andando contro le indicazioni del mio partito. Perché ero stata responsabile esteri del Psi e lui del Pci. Ci eravamo conosciuti ed avevamo collaborato in tante di quelle occasioni, con un clima di fiducia e di stima reciproche, che non avrei potuto non votarlo. Anche schierandomi apertamente contro l’indicazione di Berlusconi.

Che oggi è ufficialmente candidato.

Penso che alle prime tre chiame gli si rivolgerà un tributo, un omaggio che gli è dovuto. Dalla quarta in poi si cercherà la convergenza su altri nomi. Lui è l’unico candidato ufficiale, ma conosco personalmente una cinquantina di aspiranti quirinalizi. Nei salotti romani, all’ombra dei convegni, è tutto un giocare sul toto nomi, come mai avevo visto fare prima. Un gioco grottesco, destinato più a confondere le acque che a determinare una soluzione. Certo è che non avevo mai visto nel dibattito pubblico una tale attenzione al Quirinale.

Tanto da dare quasi ragione a Giorgetti, siamo al presidenzialismo di fatto?

Può esserci una spinta in questo senso. Ma i riflettori puntati sul Colle sono dovuti all’incertezza, viviamo in un momento emergenziale. Non ci si illuda che il nome che uscirà significherà una chiamata al voto. Io non lo penso, non è così automatico. Chi è che va al Colle e come primo atto scioglie la legislatura?

E l’ipotesi Draghi al Quirinale, magari in ticket con Franco a Palazzo Chigi?

Draghi sta facendo un lavoro prezioso, preciso e puntuale sul Pnrr. E su dossier e riforme cruciali. Chiunque andrà al Quirinale dovrebbe piuttosto chiedergli di rimanere fino a fine legislatura.

E poi dall’anomalia del governo tecnico bisogna tornare alla politica…

Siamo l’unica democrazia commissariata dalla banca centrale: Dini, Ciampi, Draghi. Tutto bene ma adesso si torni alla politica e al gioco democratico, per favore. Oppure si decida di spostare a via Nazionale la sede del governo, direttamente.

Ci vuole quindi al Quirinale un Presidente che sappia consolidare l’asse con Mario Draghi e con l’Europa?

Io un nome ce l’ho. Quello della seconda carica dello Stato, la presidente del Senato Elisabetta Casellati che raccoglie grande stima super partes, ha una grande esperienza ed è una donna di grande equilibrio, una avvocata garantista. E come si vede dai numeri, tocca al centrodestra esprimere un nome su cui convergere.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Retorica e furbizie. Augusto Minzolini il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. In quel festival della retorica e della furbizia in cui si trasforma spesso la corsa al Quirinale, c'è un concetto che specie a sinistra viene utilizzato quando fa comodo. In quel festival della retorica e della furbizia in cui si trasforma spesso la corsa al Quirinale, c'è un concetto che specie a sinistra viene utilizzato quando fa comodo: il presidente della Repubblica deve essere espressione di una vasta maggioranza, deve essere un nome condiviso. Naturalmente sarebbe auspicabile che si verificasse una condizione del genere, ci mancherebbe altro. Un capo dello Stato che fosse eletto da almeno tre quarti del Parlamento sarebbe un segnale di unità per il Paese. Solo che poche volte è successo nella storia patria: su 13 presidenti appena 5 hanno avuto più del 70% dei voti dei grandi elettori. Altri sono andati poco sopra il 50% (Antonio Segni, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano). Poi com'è giusto, ed è qui il vero messaggio che una classe dirigente dovrebbe offrire alla nazione, il capo dello Stato votato da una parte del Parlamento o da un ampio schieramento, è diventato comunque il presidente di tutti. Senza pregiudizi o condizioni. Ecco perché l'ultima ingegnosa trovata di un Pd senza candidati è nei fatti più strumentale di quanto appaia. Specie se condita da un corollario che rasenta il ridicolo: se il presidente non fosse espressione di una scelta condivisa potrebbe cadere il governo. Ma chi l'ha detto? Quale Pico della Mirandola della politica si è inventato un teorema del genere, indimostrabile quanto campato in aria? Semmai l'unica ipotesi che potrebbe mettere in discussione l'equilibrio emergenziale di oggi è proprio quella di un Mario Draghi che salisse al Quirinale. A quel punto bisognerebbe rimettere in piedi un governo nei primi mesi dell'anno elettorale. Impresa improba se non impossibile: Matteo Salvini, per fare un nome, un attimo dopo uscirebbe dalla maggioranza spiegando che - venuto meno un premier di prestigio e autorevole come Draghi - non sussisterebbero più le condizioni per proseguire in questa esperienza. Ma a parte ciò, quello che più colpisce sul piano del costume è il comportamento della sinistra: il nome condiviso Pd e alleati lo predicano solo quando sono in difficoltà. Nel 2006 il vertice del centrosinistra non ci pensò due volte ad imporre Napolitano, eletto con una manciata di voti in più di quelli che portarono sul Colle Leone (il presidente meno votato). Ma anche Mattarella nel 2015 è arrivato al Quirinale sull'onda di uno scontro tra la sinistra e il centrodestra che portò alla rottura del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Motivo per cui se anche in questo caso il presidente fosse eletto a maggioranza non ci sarebbe da far drammi. Sarebbe poi suo compito dimostrare che è il garante di tutti. A meno che agitando la tesi preventiva del presidente «condiviso», il Pd o l'intera sinistra non accampino una sorta di potere di veto su qualcuno, arrogandosi il diritto di giudicare chi è presentabile e chi no. Questo sì che in democrazia sarebbe inaccettabile. Per tutti. Augusto Minzolini

Quirinale, Claudio Martelli: «Dalla cena di Gava alla strage di Capaci. Così fallirono i candidati del ’92». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 3 dicembre 2021. «Andreotti cominciò a parlare e disse: “Davanti alla candidatura di Forlani io mi sono fatto doverosamente da parte, ma ora che è tramontata non credo sia ingiustificata la mia”. Io pensai tra me: Ma la candidatura di Forlani l’hai fatta tramontare tu, con i tuoi franchi tiratori…». Fu un dialogo franco ma pieno di «non detti» quello tra Giulio Andreotti e Claudio Martelli, il pomeriggio del 23 maggio 1992, in una stanza del gruppo democristiano a Montecitorio; il primo capo del governo con l’aspirazione di diventare presidente della Repubblica, l’altro vicepresidente del Consiglio e ministro della Giustizia, nonché — in quei giorni — ambasciatore del segretario socialista nelle trattative per l’elezione del nuovo capo dello Stato.

Qualche cecchino contro Forlani c’era stato anche . «È vero, la sinistra di Claudio Signorile e, in misura minore, gli amici di Rino Formica; ma il ruolo preponderante per affossare il segretario della Dc l’avevano giocato proprio gli andreottiani, con la regia di Palo Cirino Pomicino».

Nemmeno questo disse ad Andreotti? «No, andai al merito della questione. Gli spiegai che non eravamo in grado di garantirgli la compattezza dei socialisti, per via di vecchie frizioni risalenti al periodo dell’unità nazionale e al caso Moro».

E Andreotti? «Rispose che non vedeva il motivo di tanta contrarietà, i tempi erano cambiati e lui era stato sempre leale con noi, anche da ministro degli esteri nel governo Craxi, durante la crisi di Sigonella con gli americani e in tante altre occasioni. Fu in quel momento che squillò il telefono, e lui s’interruppe per rispondere».

Chi era? «Non lo so, ma dopo qualche attimo coprì il microfono della cornetta con la mano e mi disse “C’è stato un attentato a Falcone, ma sembra sia incolume”. Io mi alzai immediatamente e lui con lo sguardo mi chiese: “Dove vai?”. Vado a vedere, risposi e Andreotti, dopo un attimo di esitazione, disse “vai, vai”. Cercai il ministro dell’Interno Scotti, e con Gerardo Chiaromonte presidente dell’Antimafia raggiungemmo Palermo».

Il suo ruolo nelle trattative per il Quirinale finì il quel momento? «Sì, come la candidatura di Andreotti che in realtà non aveva sbocchi indipendentemente dalla strage di Capaci».

Aveva inciso l’omicidio del suo referente in Sicilia, , ucciso dalla mafia due mesi prima? «In parte sì, la mafia colpì Lima anche per colpire Andreotti. Ma quando uccisero Falcone i mafiosi erano concentrati su di lui, non su Andreotti; avevano tolto di mezzo l’uomo della mediazione e in campo erano rimasti loro e lo Stato, rappresentato da Falcone, da me che lo avevo chiamato al ministero della Giustizia e da Scotti ministro degli Interni».

Quindi sulla scelta di Scalfaro eletto capo dello Stato all’indomani della lei non mise bocca? «No, ma bocciati Forlani e Andreotti e scartati i laici, restavano due nomi, il suo e quello di Martinazzoli. Scalfaro era appena stato eletto presidente della Camera, dunque aveva già una potenziale maggioranza».

E la precedente bocciatura di Forlani come andò? «La sua candidatura fu decisa in una cena a casa di Antonio Gava (in quel momento senza incarichi ufficiali, ma leader della maggioritaria corrente dorotea, ndr), alla vigilia delle votazioni. Alla cena partecipammo Craxi, Forlani e io. La tv trasmetteva una regata del “Moro di Venezia”, Forlani seguitò a guardarla finché non ci chiamarono per mangiare le orecchiette pugliesi. Forlani era riluttante ad andare al Quirinale, non è mai stato un uomo ambizioso, e disse “Andreotti ci tiene, perché non votiamo lui?”. Gava e Craxi mi invitarono a rispondere e io spiegai che non potevano garantirne l’elezione. Gava fu soddisfatto, e a quel punto Forlani si lasciò convincere. Poi è andata com’è andata».

Non avevate calcolato i franchi tiratori? «Il rischio c’era, ma contavamo di riuscire comunque a raggiungere la maggioranza».

E Craxi? Non voleva salire lui sul Colle? «Questa speranza l’avevo nutrita io quando sembrava si potesse aprire col Pds di Occhetto un “ciclo nuovo”, ma poi D’Alema, che a me aveva detto il contrario in un pranzo al ristorante Antica pesa, sotto casa mia, si mise di traverso. A quel punto Bettino voleva tornare premier con la Dc dunque doveva cedere il Quirinale».

Che non ci fu. «Nella decisione di Scalfaro di non dargli l’incarico ha influito l’inchiesta Mani Pulite che stava montando proprio in quelle settimane e si arrivò a Giuliano Amato».

Si narra che fu lei a proporsi col neo-presidente, insieme al ministro dell’Interno Scotti. «È un falso smentito cento volte. La verità è che sul decreto antimafia varato all’indomani della strage di Capaci erano trapelate perplessità del Quirinale, così con Scotti chiedemmo udienza per chiarirne il contenuto al presidente. Era la prima volta che lo vedevo, e nell’incontro Scalfaro non affrontò proprio l’argomento; parlò solo del governo da affidare ai socialisti, della “campagna diabolica contro Craxi» poi parlò di Amato, di quel simpatico “capellone” di De Michelis e di Martelli. Al momento dei saluti ribadì la sua angoscia e io feci la battuta: “Presidente se proprio non riesce a farlo, lo facciamo noi un governo”. Pochi minuti dopo mi chiama Marco Pannella: “Guarda che Scalfaro ti sta facendo uno scherzo da prete dice che ti sei candidato al posto di Craxi”. Cercai Craxi che se la prese con me, senza capire che la Dc aveva già deciso di non mandarlo a palazzo Chigi e che Scalfaro mi aveva usato come alibi per non dirglielo in faccia».

Piazzapulita, Alessandro Sallusti contro "il comunista Napolitano" al Quirinale: perché non lo hanno mai indagato". Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. Basta balle sul Silvio Berlusconi "divisivo" al Quirinale. "Sarà anche divisivo - commenta Alessandro Sallusti in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7 - ma per la sinistra sarebbe divisivo qualsiasi presidente del centrodestra". Come dire, spiega il direttore di Libero: a sinistra contano di mantenere ostinatamente la "golden share" sul Colle, la possibilità cioè di decidere in ultima istanza chi far diventare presidente della Repubblica, nonostante i numeri in Parlamento dicano chiaramente che Pd e Movimento 5 Stelle non hanno la matematica dalla loro parte. "La sinistra e i 5 Stelle ritengono divisivo chiunque non sia della loro parte", sottolinea ancora Sallusti. "Era divisivo anche Mattarella, è stato divisivo Scalfaro, è stato divisivo Giorgio Napoliano...".  "Napolitano è stato un comunista che ha votato a favore della invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati sovietici". "Non aveva dei precedenti giudiziari...", ribatte Antonio Padellaro, che con il Fatto quotidiano ha lanciato una petizione contro il Cav al Quirinale. E Sallusti, che ha fatto una petizione di segno opposto, "Non rubateci il Quirinale", gli fa notare un semplice dato di fatto: "Perché non era considerato reato stare dalla parte dell'Urss". "Nei prossimi giorni - ha ricordato Sallusti su LiberoTv - potete aderire alla nostra campagna andando sul sito Change.org o passando attraverso il link sul sito di Libero o mandando una mail all’indirizzo nonrubateilquirinale@gmail.com. Credo che valga la pena non farci mettere i piedi in testa dal Fatto Quotidiano".

Da Un Giorno da Pecora il 3 dicembre 2021. Clemente Mastella, sindaco di Benevento ed ex ministro, oggi a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, ha svelato un retroscena riguardo le sue dimissioni da titolare della Giustizia anni fa, nel 2008. “Molti in questi giorni mi hanno chiesto perché allora mi dimisi. Lo feci perché me lo chiese il capo dello Stato Napolitano, il quale mi disse che non potevo più restare”. Come andò? “Fui chiamato dal segretario generale - ha raccontato Mastella a Rai Radio1 - mentre tornava a casa e mia moglie era agli arresti domiciliari, il quale mi disse che per il capo dello Stato sarebbe stato opportuno che mi dimettessi”. Lei come gli rispose? “Che stava parlando con una persona seria - ha concluso a Un Giorno da Pecora l'ex ministro - avevo detto che mi sarei dimesso e lo avrei fatto”.

 Fabio Martini per “La Stampa” il 9 dicembre 2021. Marco Follini, che da vicepresidente del Consiglio è stato protagonista (assai critico) della fase più acuta del "berlusconismo", è chiaro nel descrivere il rischio col quale il Paese si sta avvicinando all'appuntamento del Quirinale: «C'è un'attenzione spasmodica in queste settimane e si capisce perché: siamo dentro una crisi di sistema e la postazione del Quirinale è diventata cruciale. O si capisce che per il Paese è un'occasione per risalire la china o non resta che incrociare le dita». Eppure, Mario Draghi si ostina a non scoprirsi: troppo coperto? «Ma non si può pensare che lui sia il banditore di se stesso e della sua campagna presidenziale! La scelta spetta ai partiti». Classe 1954, parlamentare per quattro legislature, componente per diversi anni dell'"onnipotente" Direzione della Dc, Marco Follini è stato segretario dell'Udc e vice di Berlusconi a palazzo Chigi tra il 2004 e il 2005, prima di dimettersi per le difficoltà di rinnovare la coalizione di centro-destra. 

Una costante delle scalate al Quirinale: mai nessun cavallo di razza, Fanfani, Moro, Andreotti, ma neppure D'Alema, Prodi e Berlusconi, è mai diventato Presidente. Perché?

«La storia della Repubblica è fondata sulla diffidenza verso un'eccessiva concentrazione di potere. Questo ha fatto sì che per il Quirinale venissero scelte figure non troppo ingombranti. Da questo punto di vista la nostra è una Repubblica preterintenzionale!».

Cioè i Presidenti finiscono per fare cose diverse da quelle per le quali sono stati eletti? Anche le chiacchiere di questi giorni sul profilo del prossimo presidente rischiano di finire in fumo?

«Nel 1985 il nome di Francesco Cossiga come possibile, futuro presidente della Repubblica venne fatto durante una cena a casa Agnes alla quale erano presenti il segretario della Dc Ciriaco De Mita e il segretario del Pci Alessandro Natta. Due forze politiche che nella fase finale della presidenza Cossiga avevano maturato un'altra opinione sul capo dello Stato. La maggior parte dei presidenti, eletti sulla base del loro basso profilo, ne hanno acquisito uno molto più marcato. E alcuni grandi elettori si sono poi pentiti del candidato sul quale avevano scommesso. Fu così anche per Craxi con Scalfaro, così probabilmente è stato per Renzi con Mattarella. Il Quirinale si anima e vive di vita propria: non è la conseguenza delle manovre del giorno prima». 

Stavolta partiti deboli e un solo cavallo di razza: rischia di non farcela neppure Draghi?

«Jorge Luis Borges diceva che avrebbe voluto essere cittadino svizzero perché lì non si conosceva il nome del Presidente. Se dessimo retta a Borges, si potrebbe eleggere chiunque, ma il Quirinale non è la Svizzera: dobbiamo avere la cura di scegliere la personalità che riverbera il maggior credito sul Paese. Dal mio punto di vista, Mario Draghi». 

Berlusconi è stato determinante solo nel 1999: contribuendo ad eleggere Ciampi, non esitò a dividersi dalla Lega. Bis in vista?

«Ricordo che nel maggio 1999 Berlusconi convocò i capigruppo del centrodestra e si disse convinto che Ciampi fosse la scelta giusta, rammaricandosi che la Lega non l'avesse condivisa. Ma allora Bossi era ancora sulla trincea delle elezioni del 1996: contro gli uni e contro gli altri». 

Quel precedente dice qualcosa all'oggi?

«Il grande dilemma politico che abbiamo davanti è questo: se i partiti della maggioranza di governo vanno in ordine sparso all'appuntamento del Quirinale, è difficile che la loro unità si ricomponga il giorno dopo. Allora Berlusconi e Bossi si divisero, ma stavano entrambi all'opposizione. Oggi per Forza Italia e Lega dividersi, stando nello stesso Consiglio dei ministri, è più complicato che allora». 

Mattarella, a dispetto delle standing ovation, è fermo nel no al bis, ma diversi Presidenti hanno brigato per restare. Ricordi personali?

«Premesso che i pensieri di Cossiga non erano chiodi fissi, quando venne eletto, riunì a palazzo Giustiniani la Direzione Dc e lesse una dichiarazione commossa con la quale restituiva la tessera. Ai margini della riunione mi disse: "Ho pensato che quando finirò di fare il presidente della Repubblica avrò 63 anni. . " . Come a dire che in lui c'era un'ansia che aveva cominciato a divorarlo già da prima. Forse il picconatore era nascosto tra le pieghe della sua compostezza istituzionale». 

Nel 1970 uno sciopero generale accelerò la caduta del governo Rumor: Draghi coglierà il segnale per orientare le sue scelte verso il Quirinale?

«Per la verità gli storici non sono concordi nell'attribuire le dimissioni del governo Rumor allo sciopero generale e tuttavia se ogni fattore di instabilità lo vogliamo filtrare alla luce della contesa per il Quirinale, non ne usciamo più. La saggezza di una classe dirigente sta nel concentrarsi sull'ordine del giorno». 

De Nicola, Cossiga, Ciampi, Napolitano 2: tutti eletti al primo scrutinio: non serve un "pacchetto" che tenga assieme Quirinale, palazzo Chigi e durata della legislatura?

«Io non metterei troppe cose assieme. Si tratta di scegliere il capo dello Stato, non di ipotecare il prossimo governo né la data del voto. Si fa un passo alla volta. Se si decide tutto assieme, sa cosa accade? Si amplia lo spettro delle differenze». 

Lei vede Draghi al Quirinale come riscatto per partiti in crisi di identità?

«Una presidenza Draghi non sarebbe l'espressione della marginalità dei partiti. Potrebbero interpretarla come la possibilità della loro risalita».

Uomini grigi. Augusto Minzolini il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. È quasi una costante, un elemento che caratterizza non dico tutti ma la maggior parte dei personaggi che sono saliti sull'alto Colle. È quasi una costante, un elemento che caratterizza non dico tutti ma la maggior parte dei personaggi che sono saliti sull'alto Colle. Non sono uomini in grigio, cioè non indossano - si fa per dire - l'uniforme che spesso contraddistingue la competenza e l'autorevolezza, ma per lo più, soprattutto recentemente, sono arrivati al Quirinale per l'immagine, con tutto il rispetto, di uomini grigi. Prima di diventare presidenti della Repubblica, infatti, non spiccavano per le loro idee, né tantomeno erano dotati di una leadership carismastica. Tutt'altro. Furono scelti perché erano personalità che non suscitavano gelosie, odi, passioni. Detto in altro modo, perché erano politicamente dei navigatori spesso con personalità incolori. E qui vale la pena introdurre una riflessione che ad alcuni potrà apparire anche una provocazione. Molto spesso i presidenti che ebbero questa caratteristica delusero chi li propose, perché tentarono di legittimarsi in tutti i modi con gli altri. O furono dei pedissequi esecutori dell'area che li aveva portati al Quirinale. Ad esempio, Oscar Luigi Scalfaro che fu scelto da Bettino Craxi, fu lo stesso che aprì la strada alla sua fine. Come pure, sempre Scalfaro, si appoggiò sulla sinistra per arrivare alle elezioni anticipate nel '94 che decretarono la morte del suo partito, la Dc. Mentre un anno dopo si comportò in modo totalmente opposto: manovrò per decretare la fine del primo governo Berlusconi, e poi si inventò un calendario tutto suo per impedirgli di andare alle elezioni. Esempi del genere non sono mancati anche in tempi recenti. Diversi leader hanno visto le loro parabole politiche puntare verso il basso per un presidente che ha negato le urne (Berlusconi, Renzi) o il mandato di formare un governo (Salvini). Su un altro versante, ed è un dato di fatto, mentre la sinistra che li ha espressi è stata salvaguardata, il centrodestra è sempre stato penalizzato. È il racconto degli ultimi venti anni. Questo per dire che l'«uomo grigio» è di per sé manovriero. Al discorso pubblico, diretto al Paese dei vari Pertini o Cossiga, preferisce i corridoi. Ma una Nazione che ha bisogno di ripartire, di risorgere, che ha un'esigenza vitale di pacificazione e un desiderio estremo di empatia, ha bisogno di uomini grigi o di leader? Necessita di capi che possano siglare o garantire una pace, si chiamino Draghi, Berlusconi o paradossalmente financo Prodi, o di «uomini grigi» che hanno fatto carriera magari all'ombra dei leader? La maggior parte delle volte nella storia della Repubblica gli «uomini grigi» hanno avuto la meglio e il Quirinale è diventato un deposito di segreti. Alcuni inconfessabili. Visto il momento che può essere paragonato all'indomani di una guerra, lo dico sottovoce, magari è arrivata l'ora di seguire un'altra strada.

Carlo Donat-Cattin l’anima sociale della Dc. Marco Patucchi La Repubblica il 26 ottobre 2021. Esce un saggio di Giorgio Aimetti su uno dei padri dello Statuto dei Lavoratori. "Senza dubbio lo Statuto non è altro che una legge democratica, l'affermazione del pieno diritto dei lavoratori ad essere cittadini italiani in ogni parte del territorio nazionale ed in ogni loro funzione". Carlo Donat-Cattin lo ha sempre raccontato così lo Statuto dei Lavoratori, rivendicando i meriti del "faticoso arco quindicennale della politica di centro-sinistra, periodo senza eguali nella storia italiana come dislocazione del potere sovrano".

Trent’anni dopo. Il duello tra il Cavaliere e il Professore, eterna condanna di un sistema malato. Francesco Cundari su L'Inkiesta 25 Ottobre 2021. Berlusconi assicura, senz’ombra di ironia, che il bipolarismo «ha garantito il ricambio della classe dirigente» e «una competizione sana», Prodi ripete da tempo lo stesso. Entrambi sognano il Quirinale, ma dimostrano che è ora di voltare pagina. Intervenendo a un convegno di irriducibili nostalgici della Democrazia cristiana capitanati da Gianfranco Rotondi, l’ottantacinquenne Silvio Berlusconi ha dichiarato ieri che, grazie alla sua famosa “discesa in campo”, dal 1994 l’Italia ha un sistema bipolare, in cui l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra «ha garantito il ricambio della classe dirigente e una competizione sana sui programmi». E già qui bisognerebbe fermarsi un attimo, come fanno i bravi comici quando vogliono dare al pubblico il tempo di capire la battuta. Se non fosse che è tutto tragicamente vero. E in pratica è anche lo stesso discorso – questo intorno al ruolo fondamentale avuto negli ultimi tre decenni dal bipolarismo di coalizione nel garantirci un sistema politico ben funzionante e un sano ricambio della classe dirigente – che da qualche settimana va ripetendo l’ottantaduenne Romano Prodi, mentre presenta la sua autobiografia fresca di stampa, in una sequenza mozzafiato di interviste a giornali e televisioni coincisa millimetricamente con l’inizio del semestre bianco (come conferma il fatto che in ogni intervista non manchi mai la domanda su una sua possibile candidatura al Quirinale, puntualmente smentita dall’interessato). Sta di fatto che al centro del dibattito ci sono ancora loro, Berlusconi e Prodi, fermamente decisi a difendere fino all’ultimo quel bipolarismo di coalizione che ha garantito così bene il ricambio della classe dirigente da lasciarli ancora lì al centro dell’arena, pronti a sfidarsi per la presidenza della Repubblica, dopo essersi sfidati per due volte per Palazzo Chigi, a ben venticinque anni dalla prima volta. Non credo esista un solo Paese al mondo, oltre l’Italia, in cui l’alternanza, il confronto sui programmi e il ricambio della classe dirigente abbiano prodotto un simile rinnovamento, con gli stessi due personaggi a contendersi la guida del Paese per quasi un trentennio, a intervalli di circa dieci anni. Al tempo della loro prima sfida, nel 1996, il cancelliere tedesco si chiamava ancora Helmut Kohl, a Downing Street c’era John Major, mentre il primo ministro spagnolo era Felipe González. Figure che i ventenni di oggi hanno più probabilità di trovare nei libri di storia che sui giornali dei rispettivi Paesi. Quanto gli altri leader politici e gli osservatori più o meno di parte credano davvero alle manovre berlusconiane o alle chance del Professore per il Quirinale, magari dopo la centoquarantesima votazione andata a vuoto, conta relativamente. Quello che fa impressione è che siamo ancora qui a parlare di loro, delle loro aspirazioni e delle loro rivalse, nel pieno di una pandemia e dinanzi a una crisi economica mondiale, come se non avessimo altro di cui preoccuparci. Negli stessi retroscena in cui oggi si tracciano scenari sulla scelta del prossimo capo dello Stato, si dice che l’eventuale cambiamento della legge elettorale sarà possibile solo dopo l’elezione del nuovo presidente, e sarà verosimilmente parte dello stesso accordo politico. Tra tante altre ragioni per spezzare il vincolo del bipolarismo di coalizione e tornare al proporzionale, forse dovrebbe bastare proprio questa, che tutte in fondo le riassume e le rappresenta: lo spettacolo d’arte varia dei due antichi duellanti – sceneggiatura di Joseph Conrad, regia di Pier Francesco Pingitore – che vanno avanti a dispetto del mondo e della sorte, mentre l’intramontabile Clemente Mastella torna ad alzare la voce dalla sua Benevento appena riconquistata, già pregustando le future trattative a doppio taglio, ovviamente con entrambi i poli. Non so voi, ma io di tutto questo rinnovamento della politica e delle classi dirigenti direi che ne abbiamo avuto abbastanza.

Alcide De Gasperi. "Mussolini, le lacrime, la fede: vi racconto papà De Gasperi". Federico Bini il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. L’eredità (morale e politica) paterna da preservare, il fascismo, l’America bella e grande, Togliatti, la fede e la speranza. Nonostante i 97 anni splendidamente portati, la figlia dello statista trentino continua a sorprendere per l’amore e la devozione con cui racconta l’autorevole servizio a fianco del padre che ha ricostruito un paese distrutto dalla guerra.

Come si sente ad essere la figlia del più grande statista italiano?

"Molto attenti e molto responsabili a quello che si fa perché la gente non giudica la mia persona ma quello che dico in base a quello che avrebbe detto o fatto mio padre. Quindi non è molto facile".

La vostra è stata una vita di enormi sacrifici (il carcere, la guerra, le ristrettezze economiche) eppure alla fine avete superato tutto questo. Quanto è stata importante la fede?

"Nella vita di mio padre è stato l’inizio di qualunque sua attività. Nella famiglia naturalmente vedevamo il suo esempio e ognuno di noi ha fatto secondo le proprie capacità".

I giovani di oggi – messi alla dura prova del Covid19 – saprebbero affrontare le dure sfide che voi avete vissuto in passato?

"Io penso che i giovani hanno molto coraggio e molte capacità che noi adulti non riusciamo a comprendere. Vede quanti di loro si sono offerti quando c’è bisogno di aiuto per particolari pulizie, aiuto dei poveri e ammalati. I giovani non si possono giudicare a seconda delle nostre capacità, bisogna cercare di giudicarli a seconda delle loro attitudini, dei lavori che fanno. Sono sempre molto meglio di quello che noi pensiamo".

Mussolini in maniera sprezzante definì suo padre “l’austriacante”…

"Lo diceva perché mio padre era nato in un posto dove c’era l’Austria e quindi c’era poco da dire. Poi il lavoro che lui ha svolto nella camera austriaca era sempre fatto per la difesa dei suoi concittadini trentini. Poi certo, questa sua definizione era molto sprezzante per la sua persona".

L’uscita di scena di don Luigi Sturzo – che portò suo padre alla segreteria del PPI - fu molto spinta dalle alte gerarchie ecclesiastiche?

"Certamente il fatto di avere un prete capo di un partito era una cosa eccezionale e difficile da mantenere. La Chiesa evidentemente ha immaginato che chiedendo a questo prete di andarsene via, di lasciare questo lavoro, poteva forse portare più facilità, più pace tra il partito di allora e quelle forze del fascismo che stavano salendo al potere".

Suo padre era un uomo legatissimo alla religione cattolica eppure nella sua condotta governativa cercò sempre di muoversi con totale autonomia e indipendenza.

"Mio padre era cristiano personalmente, cristiano nel suo lavoro politico ma non suddito della Chiesa. Era libero di se stesso e la stessa libertà cercò di lasciarla al popolo italiano. Ha sempre cercato di aiutare i suoi amici, anche quelli non cristiani, ad essere possibilmente vicini alla Chiesa dal punto di vista ideale, ma dal punto di vista politico ognuno poteva avere le proprie idee".

L’operazione Sturzo (1952) è un esempio della condotta politica di De Gasperi nonostante sapesse di mettersi contro Pio XII.

"Fu un momento molto, molto difficile per mio padre. Era addirittura disposto a lasciare il suo posto se il Papa avesse insistito che la DC prendesse con sé il partito fascista che era assolutamente fuori dal governo italiano. Aveva offerto le sue dimissioni, per fortuna il fatto non era così grave a Roma e ci fu invece una vittoria della DC".

In occasione del trentesimo anniversario del matrimonio dei suoi genitori, il Papa rifiutò l’udienza privata e De Gasperi rispose: “Come cristiano accetto l’umiliazione, ma come capo del governo la dignità e l’autorità che rappresento mi impongono di esprimere stupore e di provocare un chiarimento”.

"Questa vicenda fu un grande dolore per lui, quando chiese l’udienza non era più in una situazione politica tale da immaginare che sarebbe andato a chiedere chissà che cosa per la politica. Lo ha chiesto soltanto perché una figlia aveva preso l’abito da suora e poi mia madre non era mai stata vista dal Papa e mio padre desiderava semplicemente una benedizione. Ma non fu capito dal Pontefice che gli negò questo incontro".

Di Togliatti cosa pensava suo padre?

"Se vedessimo i primi articoli che mio padre scriveva su Togliatti potremmo dire che ne pensava bene. Cioè la collaborazione necessaria che c’era allora tra i comunisti, i democristiani e gli altri partiti, era tale che bisognava trovare qualcosa di comune perlomeno per il futuro politico dell’Italia. Ma che cosa ne pensasse poi mio padre di Togliatti è difficile poterlo dire perché tutta la sua politica dell’uno e dell’altro era assolutamente contraria. Non c’era questione personale, questo no".

Però Togliatti tolse il saluto a De Gasperi.

"Dopo la vittoria delle elezioni del 1948, quando vinse la DC. Togliatti quando lo incontrava alla buvette non lo salutava".

Andreotti racconta nel suo libro su De Gasperi che quando nel ’47 ci fu la rottura con i comunisti decisa da suo padre, lo vide in lacrime.

"Mio padre in lacrime per chiudere con i comunisti non l’ho mai visto e non credo che lo abbia fatto. Io ho visto solo due lacrime negli ultimi anni della sua vita quando non riusciva a ottenere dall’Italia di poter essere accolta in Francia la sicurezza di poter fare una unità europea".

Cosa ricorda dell’importantissimo viaggio in America del ’47?

"Io ricordo l’impressione di una ragazza che vissuta in una famiglia molto modesta, con poche possibilità, viene mandata assieme al presidente del Consiglio, in un paese dove tutto era bello, possibile, grandioso ed esagerato. Fu bellissimo quando ci svegliammo la mattina all’albergo dove ci arrivò un vassoio con una colazione ricca di cibo. Un tipo di colazione che noi allora non conoscevamo neppure. In Italia quando andava bene si prendeva un caffè".

Quanto furono importanti nei successi governativi di suo padre figure come Tarchiani, Einaudi, Sforza…

"Furono gente già pronta, non politicamente ma pronta dal punto di vista della conoscenza, dell’educazione, dello studio e quindi gente che aveva già dentro di sé una ricchezza di pensiero e di volontà di fare".

Con quali leader europei ebbe maggiori relazioni?

"Schuman soprattutto e naturalmente Adenauer. Però anche con gli altri, quelli che venivano a parlare con lui, alla fine non parlava quasi mai solo come politico. La sua politica aveva sempre un fondo umanitario. Si parlava sempre del bene dei propri popoli".

Come era nella vita privata suo padre?

"Nella vita privata non raccontava quasi niente di quello che riguardava la sua politica. Io avevo preso la parte di una piccola segretaria perché lui mi aveva educato da quando facevo il ginnasio a studiare il francese, l’inglese, la dattilografia, la stenografia e io quasi quasi non capivo il motivo. Però siccome lo seguivo in ogni modo, in ogni suo desiderio, lo facevo. Quindi con la libertà mi trovai come segretaria particolare abbastanza preparata per chi volesse andare da mio padre".

E come lo vedeva con gli occhi di una bambina?

"Io amavo mio padre da quanto ero bambina. Era un uomo straordinario. Tanto è vero che litigavo sempre per avere la sua mano destra che secondo me era la più giusta quando uscivamo per andare a comperare le paste la domenica. Quindi ancora da piccola seguivo le idee, i desideri, tutto quello che poteva riguardarlo. Seguirlo poi nella politica, seguirlo nel periodo fascista dal punto di vista di portargli le carte, gli scritti che dovevano andare nei vari giornali liberi, per me pur essendo un pericolo - perché andavo in bicicletta e potevo essere seguita dalla polizia - era la dimostrazione che avrei fatto ogni cosa per poterlo aiutare".

È ancora possibile “una federazione europea” di stampo degasperiano?

"Io penso di sì, penso che la federazione europea anche se forse dovrà essere diversa (non dico rimpicciolita) ma comunque con delle situazioni differenti, deve arrivare a compimento. Noi siamo ormai popoli che non possiamo spararci l’uno contro l’altro".

In occasione della morte di suo padre, un manifestante disse dinanzi ai maggiorenti della DC: “De Gasperi è nostro, non vostro”.

"Questo episodio avvenne a Borgo Valsugana dove la bara veniva portata a spalla dagli amici, da chi poteva fino alla chiesa. In effetti questa frase fu pronunciata dall’On. Pacciardi il quale non era democristiano però amava molto mio padre".

Suo padre tra i tanti messaggi ha lasciato una frase straordinaria: “Il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione”.

"Indubbiamente è rimasta una delle frasi più belle. La sua vita era stata consumata, pagata e vissuta proprio per la bontà degli altri, la bellezza della sua terra e dell’umanità della gente che lui praticamente considerava fratelli".

È vero che negli ultimi momenti di vita si fece spostare il letto per vedere le amate montagne?

"No, voleva vedere un Cristo in legno che stava in cima alla collina e che lui aveva fatto mettere tanti anni fa e che vedeva soltanto dalla finestra vicino al suo letto".

Ha paura della morte?

"No, assolutamente. So che è una cosa normale e quando verrà andrà bene così".

Cosa direbbe a suo padre qualora avesse l’occasione di rivederlo?

"Mio caro papà, in certe cose bisogna ricominciare da capo".

Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè. 

Generoso Picone per "il Mattino" il 10 novembre 2021. «Senza Andreotti non si va da nessuna parte» ripetono i commensali durante la cena all’aperto organizzata dai fedelissimi per lanciare la sua candidatura alla presidenza della Repubblica. La sequenza è presa dal «Divo», il film che Paolo Sorrentino nel 2008 dedicò alla vita di Giulio Andreotti, decisamente smentita dal protagonista e tratta da una delle poche rappresentazioni di sé che l’abbia fatto arrabbiare da arrivare a definirla «una mascalzonata»: valga quindi come riferimento puramente simbolico, giusto avviare da quest’immagine la narrazione del romanzo del Quirinale, cioè il racconto delle strategie che una volta segnavano settimane e mesi precedenti l’elezione del Capo dello Stato. Nella realtà, andò a finire che nella Dc prevalse il nome di Arnaldo Forlani, Andreotti scelse di compiere il passo indietro «visto che c’è la candidatura del segretario, la mia non esiste più. E chi lavora a sfavore pecca contro lo Spirito Santo». I franchi tiratori peccarono il 16 maggio 1992. Forlani commentò: «Meglio lasciar fare lo Spirito che muove il creato». Al Colle andò il 25 maggio al sedicesimo scrutinio Oscar Luigi Scalfaro. Stefano Andreotti, il secondogenito di Giulio, già manager di lungo corso che assieme alla sorella Serena si sta dedicando alla cura dei diari segreti del padre – editi da Solferino, dopo il primo volume pubblicato l’anno scorso ora è uscito «I diari degli anni di piombo» e altri ne verranno – ricorda bene quell’episodio.

Costituì una delusione?

«Vuole la verità? In fondo non è che mio padre ci tenesse più di tanto ad andare al Quirinale. Uno come lui considerava il Parlamento il centro dell’attività politica che amava vivere in maniera decisamente attiva. La figura del presidente della Repubblica gli doveva apparire più rivestita da una funzione istituzionale e quindi tale da sottrarlo alla partecipazione diretta attraverso incarichi che lo portavano ad avere frequentazioni e contatti costanti a livello anche internazionale. Ecco: preferiva svolgere il ruolo di capo del governo e meglio ancora di ministro per gli Esteri. Esercitato, per altro, con qualità riconosciute da chiunque e in ogni parte del mondo. Del resto, lui aveva cominciato da sottosegretario al fianco di Alcide De Gasperi, misurandosi con questioni e problemi di rilevante importanza. Ha sempre coltivato, fino al 1989, questa passione, consolidando il suo credito. Quante volte grandi esponenti della sinistra europea e sudamericana hanno interrogato i corrispettivi italiani chiedendo: ma perché ce l’avete con Andreotti?». 

Ciò non toglie che abbia svolto funzioni importanti e determinanti nell’individuazione dei capi dello Stato.

«Certo, si può ben dire che abbia impresso il suo segno in tutte le elezioni. Lui è stato un uomo che ha mediato sempre, all’interno della Dc e con gli altri partiti. Ma i suoi anni sono stati caratterizzati da una idea di politica che oggi è lontana e perduta». 

Mediazioni che potevano portare pure a esclusioni e veti.

«Se lei intende dire degli sgambetti, beh, è vero. Se ne facevano, alcuni erano clamorosi, e anche di questo materiale era composta l’azione politica. Ma c’era anche altro, il quadro politico non era formato da blocchi monolitici e in ogni schieramento si potevano individuare interlocutori con i quali confrontarsi, discutere e magari trovare utili intese».

Ora?

«Non mi faccia parlare del presente. La situazione è sotto gli occhi di tutti e a volte verrebbe voglia di consigliare se non la lettura di qualche buon libro di Storia almeno di un buon manuale di Diritto costituzionale». 

Ricorda una elezione per la quale suo padre abbia avuto un ruolo maggiormente decisivo?

«Per l’elezione di Giovanni Leone, avvenuta al ventiduesimo scrutinio il 29 dicembre 1971. Ci furono contrasti duri all’interno della Dc». 

Non passò il nome di Aldo Moro.

«Il vero sconfitto, l’uomo che subì lo sgambetto, fu Amintore Fanfani. Alla fine, comunque, si riusciva a trovare una soluzione». 

Il metodo Andreotti?

«Mio padre ripeteva che “non c’è nessun metodo che garantisca la vittoria, ci sono solo errori da non commettere”. Aggiungeva quindi che “il vero grande segreto è che non esistono grandi segreti”. Era la lotta politica, magari dura e crudele, ma che portava pure ad alimentare rapporti di stima personale, se non di amicizia».

Ne rammenta uno?

«Quello tra mio padre e Sandro Pertini. Fu uno straordinario legame di solidarietà e rispetto. Avevano caratteri diversi, se non proprio opposti, ma ciò non incrinò mai la loro relazione: Pertini da capo dello Stato e mio padre da presidente del Consiglio». 

Neanche quando Sandro Pertini lanciò le sue accuse dopo il terremoto dell’Irpinia?

«Pertini aveva il suo temperamento, all’istante sbottava e poi recuperava l’equilibrio. Ci sono state tante occasioni in cui si può verificare reciprocità di sostegno». 

Oggi l’aria che si respira è un po’ diversa. Come si muoverebbe suo padre in vista dell’elezione al Quirinale?

«Intanto i tempi sono profondamente mutati. Rimane il rischio delle trappole e dei tranelli: l’esperienza suggerisce di aspettare e valutare tutte le circostanze. All’epoca della Dc non si mettevano in campo i grandi nomi che, a parte qualche eccezione, al Colle non ci sono mai andati né forse hanno davvero pensato di puntarci. Alla fine sa come si dice in Vaticano? Al Conclave chi entra da Papa spesso esce cardinale».

LA MEMORIA STORICA. Quando il primo governo di Giulio Andreotti non vide la luce per scelta degli Stati Uniti. Miguel Gotor su L'Espresso il 26 agosto 2021. Nell’estate 1970 Saragat dà l’incarico ad Andreotti, ma il tentativo fallisce. Fu la Cia a decretare il no degli Usa ma, dopo che il leader Dc fece visita a Washington, cadde la riserva su di lui aprendogli le porte di Palazzo Chigi. L’11 luglio 1970 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat diede l’incarico di formare un nuovo «governo organico quadripartito di centrosinistra» a Giulio Andreotti, che allora rivestiva l’incarico di capogruppo della Dc a Montecitorio. Andreotti aveva già alle spalle una lunga carriera parlamentare e come ministro, ma quella era la prima volta che, all’età di 51 anni, aveva la possibilità di diventare presidente del Consiglio. Secondo la prassi accettò l’incarico con riserva, tentando di varare una maggioranza organica di centrosinistra con un programma riguardante la riforma dell’amministrazione pubblica, il problema abitativo e l’abbassamento del voto a 18 anni di età. Nel giro di consultazioni, però, incontrò su questi temi dei problemi apparentemente insormontabili con i socialdemocratici del Partito socialista unitario, ossia proprio con la forza politica del presidente Saragat che, in cambio del loro sostegno al governo, avanzarono ai socialisti la richiesta impossibile di rompere con i comunisti nelle giunte locali. Andreotti, dunque, fu costretto a rinunciare e, il 25 luglio 1970, Saragat affidò un nuovo incarico a Emilio Colombo, il quale riuscì a diventare facilmente presidente del Consiglio dal momento che i socialdemocratici, questa volta, approvarono il documento programmatico senza battere ciglio. Colombo era stato indicato al secondo posto dopo Andreotti nelle preferenze dello Scudocrociato e apparteneva alla stessa corrente di Andreotti. Secondo la testimonianza diretta del diplomatico Manlio Brosio, allora segretario generale della Nato, il presidente Saragat gli aveva riferito di avere «una certa fiducia in Colombo: “È un prete di provincia, Andreotti è un prete di curia ed è peggio. Il primo crede a qualche cosa, il secondo a nulla”». La soluzione di questa crisi di governo, se ci limitiamo a osservare il proscenio pubblico, aveva offerto una soluzione così enigmatica che pareva fatta apposta per alimentare la solita retorica sull’incomprensibilità della politica italiana e i suoi insopportabili bizantinismi che tanto piaceva agli osservatori esteri e agli “stranieri in patria” nostrani. Anche se, in questa circostanza, il passaggio di consegna tra le due candidature democristiane era stato accompagnato da un tragico fatto di sangue: il 22 luglio 1970, sullo sfondo della cosiddetta rivolta di Reggio Calabria, una bomba di matrice neofascista aveva fatto deragliare un treno a Gioia Tauro provocando sei morti e oltre una sessantina di feriti. Tuttavia, se spostiamo la tenda quanto basta per sbirciare dietro le quinte, la situazione si complica all’improvviso, anche se, per compiere questo semplice atto, è stato necessario attendere quasi cinquant’anni e le ricerche degli storici Umberto Gentiloni Silveri, Lucrezia Cominelli e Luigi Guarna. Rispetto al luglio 1970, bisogna però fare un passo avanti di sei anni. Nell’agosto 1976, infatti, in occasione del dibattito parlamentare sul voto di fiducia al terzo governo Andreotti, che nasceva grazie all’astensione dei comunisti, l’ex capo del Sid Vito Miceli, nel frattempo divenuto deputato missino, gettò una nuova luce sugli autentici motivi che avevano portato al fallimento della candidatura di Andreotti nel luglio 1970. Il generale dichiarò, tra lo stupore generale, di avere espresso in passato un parere negativo sulla sua nomina a presidente del Consiglio in risposta a una sollecitazione ricevuta da Saragat in persona. Nel suo discorso Miceli definì il dirigente democristiano «un maestro di trame» e gli rimproverò una «disinvoltura eccessiva» con i comunisti, ergendosi a megafono di un’ideale società italiana finalmente stanca di essere gestita da «professionisti della politica» come lui. Miceli aveva fondati motivi per essere risentito con Andreotti che, quando era ministro della Difesa, nel luglio 1974, lo aveva rimosso dal suo ruolo di capo del Sid, al quale lo aveva nominato, nell’ottobre 1970, il socialdemocratico Mario Tanassi. Con questa decisione Andreotti aveva costituito le premesse perché Miceli, non più ai vertici del servizio segreto militare, fosse tratto in arresto, già nell’ottobre 1974, con le accuse di falso ideologico e di avere cospirato contro lo Stato e, in seguito, venisse coinvolto anche nell’inchiesta sul golpe dell’Immacolata, ossia un tentativo di colpo di Stato promosso l’8 dicembre 1970 dall’aristocratico fascista Junio Valerio Borghese. Nelle intenzioni dei congiurati quel «colpo d’ordine» avrebbe dovuto prevedere persino la cattura del presidente della Repubblica Saragat, ormai giunto a fine mandato. Miceli finì sotto processo con l’accusa di favoreggiamento da cui sarebbe stato assolto nel luglio 1978, ma occorre notare che in quell’inchiesta l’accusa era stata esercitata dal Pubblico ministero Claudio Vitalone, notoriamente sodale di Andreotti. Il riferimento polemico che Miceli aveva pronunciato in aula rimandava al tentativo abortito di Andreotti del luglio 1970: la sua denuncia suscitò ampie polemiche perché l’ex presidente Saragat si affrettò a negare di avergli mai richiesto un parere sul politico romano, ma l’ex capo del Sid tenne il punto invocando una commissione d’inchiesta. Anche gli uffici del Quirinale lo smentirono, ma Miceli, intervistato dal giornalista Luigi Bisignani, rispose di essere disposto a leggere in aula il suo «testo in nove righe del veto nei confronti dell’onorevole Andreotti» che si trovava conservato «in fascicoli segretissimi degli archivi del Sid». Saragat in una intervista a Massimo Caprara sul Tempo illustrato, poi disconosciuta dall’interessato ma confermata dal giornale, si sarebbe spinto a dire che per «silurare Andreotti non aveva bisogno delle sollecitazioni dei servizi segreti, né del generale Miceli, del resto non ancora capo del Sid, che io dichiaro di non avere mai conosciuto, bastò la mia personale avversione». La precisazione difensiva di Saragat che Miceli allora non fosse ancora a capo del Sid è utile per datare l’episodio al 1970 perché nel luglio di quell’anno il generale rivestiva l’incarico di responsabile del servizio informativo dell’esercito (Sios) e sarebbe asceso alla direzione dei servizi militari soltanto nell’ottobre di quell’anno. Alla luce di queste esplosive dichiarazioni, che rivelavano quanto Saragat avesse ancora il dente avvelenato per i fatti del luglio 1970 e per i rischi personali corsi con il tentato golpe Borghese nel dicembre successivo, la stampa si gettò sulla vicenda. Ad esempio, il giornalista Paolo Guzzanti scrisse sul quotidiano La Repubblica, il 26 agosto 1976, un informato articolo, “La vera storia del veto”, in cui raccontò che, in quel luglio 1970, la candidatura di Andreotti aveva suscitato l’ostilità di una parte della Cia. Infatti, il fascicolo preparato dal generale Miceli per Saragat sarebbe stato consegnato anche a James D. Clavio, “Army attaché” dell’ambasciata americana a Roma, che lo avrebbe integrato per poi passarlo a William Broe, incaricato della Cia in quegli anni per gli affari in Cile e in America meridionale e “Chief of the western hemisphere division” dal 1965 al 1972. Infine, sarebbe ritornato nelle mani dell’italo-americano Carmel Offie, specialista sin dal 1944 di affari italiani, sodale e protettore del socialdemocratico Tanassi e patrocinatore, nell’ottobre 1970, della nomina di Miceli ai vertici del Sid, evidentemente promosso sul campo per i meriti acquisiti agli occhi degli statunitensi nel corso di quei delicati frangenti. Nell’articolo, Guzzanti sottolineava anche che, durante le sue prime consultazioni nel luglio 1970, Andreotti aveva compiuto un gesto che aveva «mandato in bestia tutto il fronte dell’anticomunismo italiano» perché si era intrattenuto per un’ora con la delegazione del Pci, dopo avere incontrato quella dei quattro partiti di governo del centrosinistra organico, come Saragat gli aveva prescritto di fare. È utile rilevare che la versione ricostruita nell’inchiesta giornalistica del 1976 è risultata confermata dopo l’avvenuta desecretazione di un’importante informativa dell’ambasciatore statunitense a Roma Graham Martin, inviata al dipartimento di Stato il 7 agosto 1970, significativamente il giorno dopo l’insediamento del governo Colombo. Logicamente quel documento non poteva che tenere conto delle azioni e dei movimenti di intelligence avvenuti in Italia a luglio, quando la crisi di governo era ancora aperta e Andreotti in predicato di diventare presidente del Consiglio. Nel dispaccio, l’ambasciatore Martin faceva cenno proprio «agli inusuali sforzi» compiuti negli ultimi tempi dal generale Miceli «per entrare in confidenza» con l’addetto militare a Roma Clavio, cui aveva mostrato tre lettere in cui si faceva riferimento a un colpo di Stato imminente promosso dal principe Borghese e previsto già per la seconda settimana di agosto. Nella circostanza, Miceli aveva voluto rassicurare Clavio sulla tenuta democratica delle Forze armate, garantita da lui e dal generale Enzo Marchesi, capo di Stato maggiore della Difesa, e aveva fatto ascoltare un nastro registrato, che gli aveva consegnato un collaboratore del deputato Antonio Cariglia, anche lui come Tanassi e Saragat socialdemocratico, in cui un politico italiano non meglio identificato parlava di un golpe da realizzarsi già nelle prime settimane di agosto. Il dipartimento di Stato americano rispose il 10 agosto 1970 affermando di rimanere scettico «sui reali mezzi di sostentamento di un tentativo di colpo di Stato questa settimana», come se il rischio fosse ancora all’ordine del giorno e meritevole di essere seguito, affinché fosse scongiurato, day by day, come i fatti dell’8 dicembre seguente avrebbero ampiamente dimostrato. Questo secondo documento si concludeva affermando che il ministro della Difesa Tanassi e, tramite lui, il presidente Saragat, erano già stati informati di quanto stava accadendo in Italia nel luglio 1970, facendo dunque riferimento proprio alle due personalità che pochi giorni prima avevano bloccato il tentativo di Andreotti. Secondo questa ricostruzione, dunque, il candidato Andreotti era stato sconfitto nel luglio 1970 su suggerimento di Tanassi che, intervenendo su Saragat, gli aveva fatto mancare improvvisamente il consenso dei socialdemocratici per rispondere alle pressioni giunte oltreoceano su indicazione del generale Miceli, come da egli stesso rivendicato in Parlamento nell’agosto 1976, come già il 27 agosto era anticipato dal quotidiano La Repubblica in un secondo articolo a firma di Guzzanti intitolato “Fu Nixon a bocciare Andreotti”. Agli occhi del fronte interno politico-militare più fedele agli americani, formato dal trio Tanassi-Miceli-Saragat, la figura di Andreotti non era ancora in grado di garantire appieno la parte più oltranzista del fronte atlantico per due ragioni, solo apparentemente opposte: da un lato, a causa della sua precoce disponibilità ad aprire ai comunisti, dall’altro per i suoi rapporti troppo stretti, in virtù del lungo passato al ministero della Difesa, con quelle frange militari reazionarie mobilitate dal principe Borghese e con quegli ambienti della destra extraparlamentare neofascista che si erano messi in movimento proprio nel mese di luglio 1970 come denunciato dal generale Miceli nei suoi incontri con gli americani. Nello stretto passaggio che lo aveva visto sconfitto, in cui si erano scontrati due «atlantismi concorrenti» meritevoli di ulteriori indagini, Andreotti dovette fare tesoro della lezione ricevuta. Prova ne sia che, per non sbagliare di nuovo, nell’agosto 1971, si recò in visita privata negli Stati Uniti chiedendo di potere rendere visita alle più alte cariche dell’amministrazione Nixon, tramite i canali ufficiali delle ambasciate. Gli incontri richiesti non ebbero luogo, ma dagli incartamenti preparatori dei diplomatici affiorava una rinnovata attenzione nei riguardi di Andreotti, destinato a ricoprire «un ruolo di primo piano nella Dc e nella politica nazionale», e considerato «un politico da tenere in considerazione per il domani». In tutta evidenza, infatti, l’oggi italiano era rappresentato da Colombo, visto dagli stessi statunitensi come «l’ultima possibilità» per salvaguardare una formula di centrosinistra ormai agonizzante, anche se, come notato dalla preveggente nota dell’ambasciatore Martin del 7 agosto 1970, «c’era una buona possibilità che un movimento verso il centro potesse comunque essere prodotto all’interno del processo democratico». Se Andreotti fosse riuscito a interpretare questa nuova linea di ritorno al centrismo entro un contesto democratico, il futuro sarebbe stato suo. In effetti, avvenne proprio così perché quell’agognato domani per lui sarebbe giunto prima del previsto, soltanto sei mesi dopo il viaggio americano, quando, per la prima volta, divenne presidente del Consiglio.

"La Dc, Berlinguer e Craxi. Il potere è una fatica". Federico Bini il 21 Novembre 2021 su Il Giornale. Da Nusco (AV) Lo storico leader della Democrazia Cristiana, all’età di quasi 94 anni racconta la sua ascesa politica iniziata da ragazzo e non ancora terminata. Ciriaco De Mita è sindaco di Nusco dal 2014. 

Presidente, intanto come si sente?

“L’età è lunga, qualche menomazione, ma non mi lamento, anzi mi lamento positivamente. La testa c’è”.

La storia di Nusco, di cui è ancora sindaco è strettamente legata a quella della sua famiglia.

“Mio padre è stato segretario della DC e sindaco di Nusco, ma la sua professione era quella di sarto. Nel paese cinque abitanti su dieci venivano nella sua bottega, chiudevano la porta e si regolavano sul futuro”.

Quando ha iniziato a fare politica?

“A tredici, quattordici anni. Ero bambino e grande insieme. Io leggevo già i giornali, i pochi libri che arrivavano in paese. A Nusco c’erano due o tre radio e io dopo un attento ascolto, nel primo pomeriggio andavo a passeggio con mio nonno che aveva le cataratte inoperabili. E quindi io lo accompagnavo e quello in un certo senso ha determinato la mia qualità politica. Un giorno tutto contento arrivo da mio nonno e gli dico: “Abbiamo conquistato l’Amba Alagi… è una ricchezza”, e lui: “Io non lo so, però con la guerra tutto si perde, con la pace tutto va bene”.

Come si schierò nel ’46 in occasione del referendum tra Monarchia o Repubblica?

“Io ero repubblicano insieme a parecchi ragazzi di questo paese, dove c’era una forte Azione Cattolica. A Nusco vinse la Monarchia per circa trecento voti. La cosa divertente fu la chiusura della campagna elettorale perché mio padre era schierato con la Monarchia e io con una quantità di ragazzi di Nusco e di Bagnoli a favore della Repubblica”.

L’altra dura battaglia si ebbe invece nel ’48.

“I comunisti erano molto forti ma noi facemmo una campagna elettorale casa per casa e avemmo la sensazione di essere quelli condivisi. Facemmo una campagna elettorale seria perché nelle zone di campagna non c’erano le strade, la luce e l’acqua. E noi ci impegnammo a fare queste tre cose. E uno degli avversari disse: “Sì, ma per fare queste cose ci vorrebbero 200 mila lire. Dove li pigliano?”. Insomma la credenza era molto forte e passò. Solo che le cose le facemmo alcuni anni dopo”.

Nella sua zona era molto influente il democristiano Fiorentino Sullo.

“Io ho cominciato a fare un giornale ad Avellino intorno al 1940. Eravamo un gruppo di sei o sette giovani. Io mi ero appena imbarcato nell’attività democratica cristiana e per pubblicare il giornale Sullo ci diede 500 lire. Con il patto che noi scrivevamo il giornale, ma lui lo poteva leggere solo dopo che lo avevamo pubblicato. Prima mai! I miei rapporti con lui sono stati singolari e ho avuto occasione di dirglielo. Una cosa caratterizzava Sullo, non faceva propaganda ma ragionava. E io nella mia vita politica lunghissima ho sempre e solo ragionato”.

Alla parete vedo una bella immagine di don Luigi Sturzo. Padre del Partito Popolare Italiano.

“Lui ha fatto l’Italia, non gli altri. All’inizio del secolo fu invitato dai socialisti. Il suo rapporto era con i socialisti - i comunisti ancora non c’erano – e lui dice ai socialisti che mentre loro volevano togliere la terra agli agrari per conservarla, lui voleva invece darla ai braccianti in proprietà”.

E De Gasperi?

“Lui è stato il genio della politica estera”.

Con ‘il Patto di San Ginesio’ (1969) Lei e Forlani cercaste di dare una svolta generazionale alla DC?

“La DC non era un partito di vecchi ma delle diverse età. E c’erano parecchi giovani dell’Azione Cattolica che si iscrivevano”.

Il suo rapporto con i comunisti? Tra i democristiani è stato considerato quello più aperto al dialogo.

“Il Partito Comunista era fortissimo, io però ho fatto la lotta al comunismo fino al 1948, quando si aveva la sensazione della sconfitta o della vittoria. Dal ’50 in poi io parlavo con il segretario dei comunisti, o meglio lui parlava con me, lo facevamo insieme. Berlinguer ad esempio aveva con me un rapporto di una delicatezza infinita. Ricordo che una volta ho usato un’espressione e lui mi ha interrotto dicendo: “Ringrazi Dio che noi siamo amici… altrimenti le cose sarebbero andate diversamente”. Ancora oggi non riesco a capire che cosa ho detto! Anche con Natta ero molto amico, una volta mi disse che Berlinguer voleva fare il governo con me”

Anche Moro era favorevole all’apertura ai comunisti nella DC. Cosa vi differenziava?

“La differenza tra me e Moro è stata che io progressivamente pensavo qualcosa, lui non pensava progressivamente qualcosa, pensava la cosa che stava facendo”.

Un cattivo rapporto lo ha avuto con Bettino Craxi.

“Mi ha fregato una volta, la seconda si è fregato da solo. Io i socialisti non li conoscevo, erano un po’ saccenti e superbi… se dovessi dire che lavoravo per l’alleanza con loro direi una bugia. Io ho avuto buoni rapporti con i vecchi socialisti appena eletto parlamentare, personaggi di grande saggezza poi fatti fuori da Craxi. Ma c’è un episodio. Io Craxi non lo conoscevo, ero a Roma e uscivo dall’albergo accompagnato da Marcora. Lui e Craxi erano amici politici, entrambi di Milano, Marcora lo saluta e lui risponde con una volgarità. Io rimasi un po’ così…”.

Con ‘il Patto della staffetta’ cercaste però un equilibrio.

“La sua condizione di salute mi apparve già incerta e mi propose di dividere i cinque anni a metà, però prima lui e dopo io. All’inizio lui assunse un atteggiamento da capo e io lo snobbai. Mentre il vicepresidente democristiano lo sosteneva. Dopo lui venne da me parlando, pensando di fare altre cose, e quando stavamo per arrivare al traguardo non voleva andare via”.

Com’è stata la sua esperienza da segretario della DC?

“L’ho fatto per sette anni e credo bene”.

Da presidente del Consiglio si dice che ebbe un buon rapporto con Gorbaciov.

“Ottimo rapporto. Una sera a cena gli chiesi di spiegarmi una cosa e lui la spiegò troppo bene. La moglie lo rimproverò, allora lui la guardò e disse: “Deve sapere che mia moglie è comunista. Io cosa dovrei fare?”.

Si sente ancora democristiano?

“Io sono rimasto sempre democristiano. La sola cultura che rimane è quella democristiana”.

Il presidente della Repubblica Mattarella viene appunto dalla DC. Come giudica il suo mandato?

“Ottimo presidente. Secondo me il miglior presidente della Repubblica. Il nostro è un rapporto amichevole e antico”.

Per la presidenza della Repubblica punta su Draghi?

“No, spero rimanga a Palazzo Chigi?”.

Cosa serve per arrivare al Quirinale?

“I voti”.

E lui sulla carta li avrebbe…

“Lo mandano al Quirinale perché ognuno pensa di fare il presidente del Consiglio”.

Renzi e Calenda puntano a rifare un grande centro anche se partono già divisi.

“Sono nomi di persone che stanno da una parte o dall’altra purché siano presenti”.

Dimenticavo Mastella, appena rieletto sindaco di Benevento. Altra sua vecchia conoscenza democristiana.

“Mastella… Mastella è tutto. Centro, destra, sinistra”.

Chi sono stati i suoi maestri politici?

“Io”.

Cos’è il potere per De Mita?

“Il potere è una fatica e qualche volta una soddisfazione”.

Come si definisce De Mita in una parola?

“Ciriaco De Mita, anche se mi chiamerei Luigi Ciriaco De Mita”.

Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè. 

Mino Martinazzoli, il ricordo di Vittorio Feltri: "Odiava i politici, ecco perché lo ammiro". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 settembre 2021. In questi giorni quotidiani e tivù hanno ricordato Mino Martinazzoli, morto a 80 anni nella sua Brescia, dopo una vita piena come avvocato di grido e politico illustre. Di lui sono state scritte molte pagine intense, tutte meritate. Egli è stato un esponente democristiano di primo livello, fu ministro di Grazia e Giustizia. I suoi discorsi erano mirabili, incantavano esattamente come le arringhe che pronunciava in tribunale. Ma ci sono aspetti della sua personalità che i biografi improvvisati hanno taciuto. Provo io a colmare la lacuna.

Il quesito. All'inizio degli anni Novanta, quando imperversava l'inchiesta giudiziaria denominata Mani Pulite, lo Scudo Crociato cominciò a vacillare, perdeva consensi, mentre gli ex comunisti si rafforzavano sotto la guida di Achille Occhetto, ultimo segretario della Falce e martello. A quel punto Silvio Berlusconi ebbe l'idea di fondare un partito nuovo in grado di raccogliere i voti scaricati dal gruppo democristiano in crisi. Ma non sapeva a chi affidarne il timone. Interpellò anche me per avere un parere. Il Cavaliere mi domandò: lei sceglierebbe come capo Mariotto Segni oppure Mino Martinazzoli? La mia risposta fu secca: nessuno dei due. Perché, mi chiese il padrone delle emittenti private? Argomentai così la mia idea: Segni è bravo ma fragile, ha vinto il referendum sulle preferenze, un merito non trascurabile, però poi è sparito, mi rammenta quei tipi che trionfano alla lotteria di Capodanno, e poi smarriscono il biglietto fortunato. Lo lascerei alle sue elucubrazioni di ideologo stanco. E veniamo a Martinazzoli. Il quale è un genio, un principe del foro, un oratore mirabile, tuttavia non è popolare. Ama se stesso, giustamente, ma la politica non è il suo forte. Fisicamente sembra un cipresso che si trova a suo agio nel cimitero, il suo nome è Mino che è l'abbreviativo di Lumino, altro oggetto cimiteriale, esattamente come il fiore dei morti, cioè Crisantemino. Ovviamente scherzavo, ma Berlusconi pur ridendo mi prese sul serio, e mi interrogò di nuovo: Feltri, chi ci metterebbe lei a guidare il partito che ho in mente di organizzare? Non esitai. Quando dirigevo l'Europeo, settimanale storico, ordinai un sondaggio con questo quesito: qual è il personaggio più noto d'Italia? L'esito fu: il Cavaliere di Milano due. Pertanto, caro Silvio, faccia lei il leader e non se ne pentirà. Mi ascoltò e si mise alla testa di Forza Italia che poi, nel 1994, vinse inaspettatamente le elezioni. Nel frattempo scrissi sull'Indipendente, quotidiano scapigliato che all'epoca dirigevo con sommo divertimento, una serie di articoli comici nei quali sfottevo bonariamente Martinazzoli, che stava seppellendo la Dc, definendolo appunto Cipresso, Lumino e Crisantemino. Evidentemente i miei scherzi giornalistici non gli facevano piacere, cosicché un bel dì mi telefonò dicendomi che ne aveva piene le palle di leggerli.

Risposte evasive. Mi offrì la possibilità di fargli una intervista a Roma. Accettai, e un pomeriggio mi presentai nella sede democristiana (lui era segretario degli eredi di don Sturzo) armato di penna e taccuino. Lo interrogai a lungo ma le sue risposte erano evasive, retoriche; insistetti senza cavare un ragno dal buco. Alla fine, esausto, me ne andai. Il giorno appresso scrissi su Mino una mezza paginata a mio modo di vedere abbastanza brillante. Verso le 12 ricevetti una sua telefonata garbata, secondo il suo stile elegante e signorile. Ridendo mi disse: articolo interessante, peccato che lei non abbia intervistato me, bensì se stesso. Aveva ragione. Adesso che non c'è più, ammiro Martinazzoli perché la politica gli faceva schifo, tutta, tranne la sua. 

Se ne andava 60 anni fa il Presidente della Repubblica. Chi era Luigi Einaudi, il secondo presidente della Repubblica primo nemico del sovranismo. Michele Prospero su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Ci sono dei momenti nella storia repubblicana nei quali viene convocato d’urgenza il rappresentante di quello che De Gasperi chiamava il “quarto partito”. Privo dei voti, allora accaparrati dai tre grandi partiti di massa, il quarto partito nel dopoguerra non era presente nelle schede e controllava però le risorse economiche. L’impresa, il capitale, la proprietà, che sono i componenti del quarto partito, non disponevano in Italia di un rappresentante politico in grado di gestire con coerenza le politiche richieste per la crescita. Il tramonto delle vecchie élite liberali, peraltro nostalgiche dei valori etici del Risorgimento e poco attrezzate nel ricoprire con una legislazione efficace le nuove funzioni produttive della modernità, privava le forze della ricchezza dei referenti politici. E quindi le ragioni della accumulazione capitalistica erano incerte e vulnerabili parevano anche le radici del profitto. Toccò a De Gasperi, nella ostilità del cattolicesimo sociale molto forte nel suo stesso partito con Dossetti, Gronchi e Fanfani, appellarsi a una tipica figura di emergenza che governava la moneta da via Nazionale. Affidò a Luigi Einaudi la gestione delle risorse che l’America aveva concesso all’Italia per la ricostruzione dell’apparato materiale e industriale. Lo fece proprio trattandolo come il leader riconosciuto dal quarto partito senza di cui la modernizzazione del sistema produttivo sarebbe stata impossibile. Con un irrituale cumulo di cariche, il governatore della Banca d’Italia diventava anche titolare del dicastero del bilancio. Una sorta di commissario dell’economia. In un’Italia attraversata da duri scontri di piazza, con prefetture occupate e venti caldi di insurrezione, la decisione sul volto dell’autentico sovrano in campo economico non era molto diversa dalla constatazione circa i limiti obiettivi, per l’azione dei partiti, collegati alla forma dell’ordine politico internazionale disegnato dopo Yalta. Non c’era però da ratificare solo un quadro geopolitico scaturito dalla divisione del mondo in distinte aree di influenza, esisteva anche un ordine economico legato alla struttura capitalistica che andava assunto come un dato ineludibile per le politiche. Nel 1946 l’adesione dell’Italia ai vincoli di Bretton Woods del 1944 (liberazione degli scambi e poi a seguire Fondo monetario internazionale, Banca mondiale) non era meno cogente dell’accettazione realistica delle condizioni imposte dagli accordi di Yalta. Quando Togliatti nel 1947 delineò la strategia della “razionalizzazione produttiva” si mostrò anche lui consapevole dell’esistenza di questo vincolo economico-materiale che sollecitava ogni politica di governo (anche di quello che con l’adozione degasperiana della linea Einaudi lo cancellava dalla maggioranza) a soddisfare le ineludibili esigenze della accumulazione (o “restaurazione”) capitalistica. I conflitti distributivi, le occupazioni delle terre, l’attenzione ai problemi dei ceti medi e la rappresentazione della microfisica delle rivendicazioni popolari erano visti dalle sinistre come fenomeni di una forte mobilitazione politica da conciliare, tra inevitabili contraddizioni, con le compatibilità della crescita (“razionalizzazione dell’industria”, “risanamento dell’economia”), con la condivisione di un qualche interesse generale. La figura di Einaudi indica la prima forma di influenza riconosciuta al potere privato appannaggio di quel “quarto partito” che è scarso nei voti ma si conferma cruciale per la gestione di un ciclo liberista nel governo dell’economia. Oltre ai partiti di massa che competono, mobilitano, si organizzano esiste un qualcosa di operante nelle roccaforti dell’élite che in fasi delicate garantisce la suprema ragione dell’accumulazione. L’inquilino di via Nazionale è apparso in varie occasioni come il titolare, nelle fasi di crisi di sistema, della sovranità economica. Quando la strategia della “democrazia progressiva” (ma anche la programmazione perseguita dal centro sinistra) ha sottovalutato il peso del vincolo esterno, ossia la funzione direttiva del capitalismo americano nella fornitura di risorse, e quindi nella costruzione di fitte reti di interdipendenza, è andata incontro a gravi ripiegamenti. Nessuno più di Einaudi, anche lui come De Nicola un monarchico che vedeva nella corona da assegnare a Maria José un prezioso fattore di unità e di equilibrio ed è per paradosso diventato il primo presidente della Repubblica, ha incarnato il volto di un motore di riserva che, oltre una narrazione ufficiale del costituzionalismo provvisto di un catalogo di diritti sociali estraneo ai paradigmi liberali, si mette in movimento nelle situazioni di emergenza. Sebbene sia espressione di un filone culturale e politico assai minoritario, questo potere neutro ma interveniente nei processi incide nella risoluzione dei nodi strutturali dell’economia e definisce i contorni di più lungo periodo del meccanismo produttivo. A questo liberale che vedeva con il fumo negli occhi la costituente eletta con una “votazione plebiscitaria immediata”, e quindi veicolo di sovversione perché, succube “della demagogia più sbracata”, si presta “a rimettere tutto in discussione dall’a alla z”, si deve la delimitazione dei pilastri della costituzione economica della Repubblica. Il suo modello giuridico-istituzionale non sfondò nel dopoguerra: era contro il proporzionale e per i piccoli collegi uninominali (“la proporzionale favorisce il dominio dei comitati elettorali e toglie all’elettore ogni effettiva libertà di scelta dei propri rappresentanti”), reputava una “tirannia spaventevole” il governo parlamentare-assembleare, considerava uno “sciagurato errore” la Corte costituzionale, combatteva il centralismo prefettizio o “sovrastruttura napoleonica”. E soprattutto Einaudi non apprezzava i partiti-macchina che dominavano con leader venerati dalla moltitudine («la macchina dei partiti tiene salda in pugno la massa degli elettori fedeli la quale non desidera formarsi una opinione propria ma accetta bell’e fatta l’opinione dei gruppi e dei loro capi»). La sua simpatia andava al partito debole capace di raccoglie il voto di una opinione che non si lasciava inquadrare entro strutture organizzative («Il pendolo elettorale oscilla esclusivamente per merito della gente indipendente la quale regola la sua opinione non sulle parole, ma sui fatti. Essa sola consente alla pubblica opinione di farsi valere»). Perse sicuramente lo scontro sulla forma della Repubblica (“con la proporzionale non si governa”) ma Einaudi incise dal governo e poi dal Quirinale (il presunto presidente notaio scelse Pella, al di fuori e contro i partiti e gli assegnò un esplicito mandato di politica economica) sulla effettiva costituzione materiale-economica. Nemico della “finanza in disordine” per via di richieste insostenibili come la terra ai contadini, i sussidi a poggia, le pensioni senza contributi, le nazionalizzazioni di banche, il controllo operaio delle fabbriche e dei profitti, Einaudi fu “lo specialista più politico” che, al di là del credo ideologico dei partiti di massa, seppe gestire la transizione dal regime autarchico-protezionistico del fascismo alla economia di mercato integrata su scala occidentale con i paradigmi di Bretton Woods sottoscritti dall’Italia già nel 1946. La lezione di Einaudi è stata quella di tenere aperta una sensibilità liberale-produttiva contro i rischi involutivi del sovranismo («Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso») e del populismo etnocentrico chiuso verso i processi di mondializzazione («In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati, che un giorno parevano grandi, come l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali»). Per questo bersaglio fisso e sempre ritornante non fu un teorico tutto fuori del tempo, un politico minoritario estraneo ai miti fondativi della Repubblica e quindi ininfluente. Nemico delle seduzioni “per le ollapotride di programmi ispirati alle più opposte ideologie” (i miti di giustizia e libertà) rigettava l’appellativo di socialista liberale (e non lo fece per una riluttanza verso i contenuti sociali: («Io dico che la politica del liberalismo non è affatto contraria a tutti quelli che si usano chiamare i problemi della legislazione del lavoro»). A muoverlo era soprattutto una esigenza di rifiuto dell’eclettismo in teoria. Il suo credo liberale non assumeva, come si crede, quale invariante un volto liberista. Riecheggiando antiche dispute con Croce, egli precisava che «non esiste, è vero, legame diretto fra liberalismo e struttura economica». La sua prospettiva intendeva connettere pubblico e privato («Come siamo contrari allo Stato leviatano, siamo altresì contrari ai Leviathan privati») e ciò richiedeva un governo autorevole e saldamente presente nella vita economica a fianco di un vitale spettro di attori del mercato in concorrenza. «I liberali non sono, non debbono essere opposti sempre a qualsiasi intervento dello Stato nelle cose economiche, perché se così fosse, vorrebbe dire che i liberali sono semplicemente degli anarchici». Il campione del liberismo non respingeva affatto i capisaldi di una economia mista. «Nelle società moderne complesse, a base di complicatissima divisione del lavoro e di interdipendenza necessaria fra impresa ed impresa, fra regione e regione, fra stato e stato, è vano immaginare che la libera iniziativa degli imprenditori singoli possa manifestarsi e crescere senza danno altrui ove nel tempo stesso non sorga e non cresca una altrettanta intensa attività pubblica. Incremento di ricchezza privata presuppone incremento almeno uguale della ricchezza pubblica». Alle superiori esigenze della crescita egli connetteva le politiche sociali e ridistributive necessarie per riconoscere la dignità della persona. Come liberale non condivideva il cedimento degli industriali, del clero, di settori della Dc ai qualunquisti. Contro i populisti affermava che le semplificazioni di Giannini “repugnano profondamente” una cultura liberale. E in tal senso sbagliato era per lui ogni dialogo: “il qualunquismo va rigettato” perché incompatibile con l’integrazione europea assunta con coerenza come un destino. Il sovranismo populista andava respinto con forza in quanto «per quella via non solo non si giungerà mai agli Stati Uniti di Europa, che pare sia la meta comune, ma rovineremo sino in fondo all’abisso dove si prepara la distruzione dell’Europa». Quando queste minacce populiste alla crescita e alla integrazione europea prendono quota si attiva sempre in Italia il potere di riserva che difende “la razionalizzazione produttiva”. Einaudi è stato solo il primo interprete, Ciampi e Draghi seguono lo stesso spartito. Michele Prospero

Il ritratto. Luigi Einaudi tra competenza merito e mediazione: un vero antigrillino. Corrado Ocone su Il Riformista il 31 Ottobre 2021. Luigi Einaudi, di cui sabato prossimo ricorre il sessantesimo anniversario della morte, fu il primo presidente effettivo della Repubblica Italiana, pur avendo votato per la monarchia nel referendum del 1946. Anche Croce, l’altro grande padre del liberalismo italiano, aveva fatto lo stesso, ma per motivi diversi: mentre il filosofo napoletano era un uomo del Risorgimento, e quindi il re per lui rappresentava la Patria e l’unità e indipendenza (nonché la libertà) della nazione; nell’economista piemontese rifulgeva l’esempio della monarchia costituzionale inglese, con le sue libertà e i suoi usi e costumi, con l’ideale di una vita pubblica sobria e misurata. Era il più anglofilo dei politici, degli economisti e dei giornalisti italiani (fu per tanti anni corrispondente dall’Italia per l’Economist). E ciò forse spiega anche la lunga discussione che sul liberalismo ebbe con Croce: mentre l’uno rimase sempre attaccato al dato reale, concreto, effettuale della libertà; l’altro cercava di essa sempre più, con il passare degli anni, un concetto speculativo, trascendentale, meta-fisico nel senso buono del termine (metapolitico egli diceva). Due strade diverse che spesso convergevano nei risultati, e se non nei risultati almeno nell’amicizia e nella stima reciproca che fu la cifra del loro rapporto. Quando il regime fascista, su iniziativa di Giovanni Gentile, chiese ai professori universitari il giuramento di fedeltà, nel 1931, Einaudi, perplesso e lacerato sul da farsi, prese un treno e andò a Napoli a chieder consiglio a Croce, che professore non era. E costui lo invitò a firmare: il regime aveva un consenso così forte nel Paese, in quel momento, che fare l’eroe e il martire non conveniva; meglio lavorare sulla formazione e la coscienza dei giovani e preparare il terreno alla futura “riscossa”. Come giornalista, Einaudi, che era nato nel 1874, aveva iniziato a La Stampa di Torino, ove si era segnalato per alcune inchieste sociali e per aver seguito le lotte operaie di fine secolo, per poi passare al Corriere della sera di Luigi Albertini, in cui poté esercitare ciò che meglio sapeva fare: chiarire a un largo pubblico le più complesse teorie economiche (era professore di Scienza delle Finanze a Torino); svolgere una funzione di “moralista”, nel senso classico e positivo del termine (non a caso i suoi editoriali furono poi raccolti, nel secondo dopoguerra, col titolo di Prediche inutili). A cavallo dei due secoli, Einaudi collaborò anche alla Critica sociale di Filippo Turati, ove perorò le sue idee sul libero mercato, quasi a suggello di quel che poteva essere il socialismo italiano se non si fosse poi stretto nella morsa del marxismo terzo internazionalista. Coerentemente antimarxista, da liberale egli apprezzò il ruolo di emancipazione e crescita civile e morale compiuto dal movimento operaio. Al socialismo dottrinario e ideologico, egli oppose «il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del biellese e del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere». Questo socialismo, aggiunse, «fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia». Einaudi oggi sarebbe stato un feroce critico dei populismi ai quali avrebbe opposto il suo ideale epistocratico, ben formulato nell’espressione: “conoscere per deliberare”. La parte più interessante e vitale del suo pensiero però a me sembra quella che lega in modo essenziale il liberalismo all’idea di conflitto. Contro gli ideali perfezionistici e quietisti in cui a volte sembrano indulgere gli stessi liberali (per non dire i liberisti dottrinari), egli, sulla scia dell’amato John Stuart Mill, mostrò come solo attraverso il confronto, regolato ma anche aspro, cioè attraverso la competizione (che in una società non deve essere solo economica), è possibile crescere individualmente e socialmente. La bellezza della lotta era significativamente il titolo che fu dato a una sua raccolta di saggi pubblicata nelle edizioni del suo vecchio allievo universitario Piero Gobetti. «Il liberalismo – scrive Einaudi – non esiste come entità a se stante da realizzare, ma solo come sempre cangiante lotta per conquistare nuovi spazi di libertà». Questa lotta avviene non solo fra gli uomini ma anche internamente a ciascun individuo. Di qui «lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé, in questo sforzo lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi». D’altronde, contro ogni standardizzazione e contro ogni conformismo, Einaudi aveva già detto in modo incontrovertibile la sua nel 1920 in Verso la città divina: «il bello, il perfetto, non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto» Il suo ideale era quello dell’“anarchia degli spiriti sotto l’imperio della legge”. E nelle Lezioni di politica sociale tenute nell’esilio svizzero poco prima della Liberazione, simboleggiò l’idea con l’immagine di un mercato rionale o di paese: ove tutti negoziano e contrattano, litigano sul prezzo per poi addivenire un accordo, ma sotto l’occhio discreto di un carabiniere che da lontano vigila che il tutto non degeneri. Corrado Ocone

Andrea Cangini per huffingtonpost.it il 7 novembre 2021. Il 18 agosto del 1970, Ennio Flaiano raccontò sul Corriere della Sera un insolito siparietto di cui fu involontario protagonista quasi vent’anni prima durante una colazione al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Scrisse, tra l’altro, Flaiano: «Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: “Io – disse - prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che ne vuole dividere una con me?”. Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istintivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sentito una proposta simile, ad una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia lo battei di volata: “Io Presidente”, dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista...». Un piccolo aneddoto, ispirato dal quale ci fu chi ipotizzò, allora, la nascita di una “Repubblica della mezza pera”. Un piccolo aneddoto da cui risulta un presidente della Repubblica forte ma semplice, empatico ma parsimonioso, e perfettamente inserito in quella genia di uomini di Stato che, come Marco Minghetti, che prima di lasciare il suo ufficio al ministero delle Finanze ogni sera segnava il livello del petrolio nella lampada per prevenirne il furto, hanno a cuore i conti pubblici prima di ogni altra cosa. (…)

Pierluigi battista per huffingtonpost.it il 7 novembre 2021. Dal discorso di investitura di Luigi Einaudi alla presidenza della Repubblica, ecco un brano letto da Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, durante una commemorazione einaudiana: “Nelle vostre discussioni, signori del Parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che ci siamo liberamente date. E se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi per vostra volontà da voi è questa: di non poter più partecipare ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune, e di non poter più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a sé stessi di avere in tutto o in parte torto. E di accettare, facendola propria, l’opinione di uomini più saggi di noi”. E’ un brano meraviglioso, un reperto della civiltà liberale oramai in via di estinzione, schiacciato dalla nuova intolleranza, dall’incapacità di discutere, dalla refrattarietà al metodo del libero conflitto delle idee. La grandezza dell’”essere costretti dalle argomentazioni altrui a confessare a sé stessi di avere in tutto o in parte torto” è letteralmente incomprensibile nella nuova stagione fanatica e ignorante del twittarolismo aggressivo surrogato della discussione, nell’insofferenza per il dissenso, per il pensiero divergente, per l’opinione anche terribilmente sgradevole, per l’integralismo che sostituisce il confronto delle idee con il coro dell’indignazione e che demonizza chi non la pensa come noi e ne teme l’infezione morale. Ecco perché bisogna essere orgogliosi del grande liberale che Einaudi è stato. E perché non possiamo non dirci einaudiani. Nel senso di Luigi.

GUIDO STAZI per MF – Milano Finanza il 7 novembre 2021. Il primo novembre del 1961 il feretro di Luigi Einaudi, poggiato su un affusto di cannone e scortato a piedi da quattro corazzieri, attraversò Roma tra due ali di folla. Era scomparso il 30 ottobre, esattamente sessanta anni fa. Già da sei anni aveva lasciato il Quirinale, poco dopo la morte di Alcide De Gasperi, con cui aveva formato un binomio che, dal dopoguerra, aveva impresso all'economia e alla politica italiana un indirizzo preciso e non modificabile per molti anni a seguire. Questo sodalizio umano e politico, reso autentico dai comuni convincimenti in ordine alla necessità di mantenere gli assetti e le garanzie della democrazia liberale, dell'economia di mercato, di solidi e condivisi legami atlantici, informò il dopoguerra e pose le basi per la rinascita dell'economia italiana e per il boom degli anni 50 e 60. E collocò stabilmente l'Italia in Europa e nella parte occidentale del mondo. Einaudi è ricordato come un grande economista accademico. Ma fu anche un politico di razza; nominato nel 1919 Senatore del Regno, fu tra quelli che denunciarono le responsabilità fasciste nel delitto Matteotti, contestando in uno scritto del 1924 la cecità degli industriali che continuavano ad appoggiare Mussolini. Il primo maggio del 1925 firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel 1928 fu tra i pochi senatori che si opposero all'approvazione della nuova legge elettorale a lista unica formata dal Gran Consiglio del fascismo. Non votò i Patti Lateranensi e si oppose alla campagna di Etiopia. Nel 1938 votò contro le leggi razziali con altri tre senatori. Da sempre fu liberale, spesso aderendo alle formazioni politiche che si ispiravano a quei principi; già nel 1899, poco più che ventenne, in un articolo pubblicato su La Stampa tracciava le linee del programma economico di un partito liberale, basato su una politica antitrust diremmo oggi, affermando che per accrescere la ricchezza prodotta nel Paese andavano eliminati gli ostacoli posti dallo Stato e dai monopolisti allo sviluppo economico; e quindi smantellare tutte le bardature protezionistiche e instaurare una politica commerciale di libero scambio. E nel 1919, all'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, scriveva che i comunisti russi «sono come i bambini, vogliono scomporre e fare a pezzi la macchina produttrice, per vedere come è fatta dentro, nell'illusione di poterne rimettere a posto i pezzi meglio. Ma il mercato è opera lenta e secolare della collaborazione di milioni di uomini pazienti, previdenti, geniali e lavoratori». Non cambiò mai idea, e soprattutto per questo fu chiamato nel 1944 dal governo Bonomi, su indicazione degli alleati angloamericani, nella Roma liberata per assumere la carica di governatore della Banca d'Italia, lasciando l'esilio svizzero. Dove aveva intessuto stretti rapporti con due alti funzionari delle ambasciate americana e inglese a Berna, rispettivamente Allen Dulles e John Mc Caffery, spesso citati da Einaudi nel suo Diario dell'esilio; che in verità erano i capi dei servizi segreti in Europa di Stati Uniti e Regno Unito, responsabili del teatro di guerra e delle scelte atte a limitare nel dopoguerra l'influenza degli alleati sovietici nell'Europa liberata. Dulles fu poi nominato a capo della Cia dal presidente Eisenhower. Il 15 gennaio 1945, alla presenza del governo e del Comando delle forze alleate, Einaudi a 71 anni si insediò alla Banca d'Italia. Ma la guida della banca centrale fu solo la premessa di una serie di alti incarichi politici: nel settembre 1945 entrò a far parte della Consulta Nazionale, nel giugno 1946 venne eletto come esponente del partito liberale all'Assemblea Costituente; il 31 maggio del 1947, nel IV governo De Gasperi, divenne vice presidente del Consiglio e ministro del Bilancio, in corrispondenza dell'uscita dal governo del partito comunista di Palmiro Togliatti. Poche mesi prima, nel gennaio del 1947 il presidente del Consiglio De Gasperi era andato Washington, accompagnato da due collaboratori di Einaudi, Donato Menichella e Guido Carli (divenuti poi entrambi governatori della Banca d'Italia); in quel viaggio si stabilirono le condizioni, anche politiche, dell'accesso dell'Italia agli aiuti americani, il Piano Marshall, poi varato nel successivo giugno col nome di European Recovery Plan (Erp); il giorno prima della partenza di De Gasperi, Einaudi annotava nel suo Diario di una cena a casa dell'Ambasciatore d'Italia in Unione Sovietica Quaroni, in cui si conveniva che gli Stati Uniti gli aiuti veri non li avrebbero concessi con i comunisti ancora al governo. L'Italia avrebbe poi ottenuto circa 1,2 miliardi di dollari a fondo perduto dall'Erp. Risultò quindi naturale il pieno coinvolgimento di Einaudi nel governo, una volta sciolto il nodo politico della presenza dei comunisti nell'esecutivo. Einaudi pose anche la condizione di poter governare in modo effettivo la politica economica; il 31 maggio del 1947, poco prima del giuramento del governo, De Gasperi metteva per iscritto l'accordo che conferiva a Einaudi le deleghe di politica economica mantenendo il governatorato della Banca d'Italia. Un anno dopo, l'11 maggio del 1948 Luigi Einaudi fu eletto dal parlamento in seduta comune presidente della Repubblica, al quarto scrutinio con 518 voti. Il presidente Einaudi, al centro del suo breve (due pagine) ma intenso discorso alle Camere, pose i principi fondamentali che a suo parere informavano la Costituzione della Repubblica Italiana (la libertà e l'uguaglianza) ed espresse tutto il suo sostegno alla ricostruzione nazionale, economica e politica, in una prospettiva occidentale ed europea. La nomina a presidente Repubblica chiude idealmente un triennio, dal 1945 al 1948, in cui le iniziative politiche (nazionali e internazionali), le idee e le azioni di governo dell'economia di Einaudi furono determinanti per la ricostruzione della Nazione su basi liberali e democratiche. 

A sessant’anni dalla scomparsa. Ricordare Luigi Einaudi come pensatore politico. Alberto Giordano su L'Inkiesta l'1 Novembre 2021. Per commemorare l’ex presidente della Repubblica in un’antologia da lui curata per l’Istituto Bruno Leoni, Alberto Giordano si sofferma su un aspetto meno frequentato del personaggio ed eppure importante quanto il suo profilo di uomo delle istituzioni e di economista. Per commemorare i sessant’anni dalla scomparsa di Luigi Einaudi (1874-1961) l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un’antologia, a cura di Alberto Giordano, che raccoglie una selezione sintetica ma completa degli scritti politici dell’economista e statista piemontese. Pubblichiamo di seguito un brano tratto dal saggio introduttivo di Alberto Giordano a “Luigi Einaudi e la politica” (IBL Libri, 2021, 156 pp., 12 euro).

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Il 30 ottobre 1961 si spegneva Luigi Einaudi. Solitamente siamo abituati a ricordarlo e celebrarlo nella duplice veste di economista e uomo delle istituzioni; talvolta qualcuno rievoca la sua lunga collaborazione ai principali quotidiani italiani mentre in altri casi, sebbene non troppo spesso, se ne rammenta l’impegno europeista. Ma quasi mai ci viene presentato come uno dei più originali pensatori politici che il nostro Paese abbia potuto vantare. Eppure la riflessione politica ha accompagnato, e spesso segnato, tutte le fasi della sua vita, privata e professionale. Il che contribuisce pure a rendere maggiormente comprensibile l’eco suscitata a livello globale dalla sua scomparsa, e non solo all’interno della galassia liberale cui appartenne. Negli ultimi anni, poi, Einaudi ha via via assunto il ruolo di “padre della Patria” nel nostro immaginario collettivo, rievocato dalle più alte cariche dello Stato in quanto co-fondatore della Repubblica italiana dopo l’orrore fascista – quale in effetti fu, partecipando direttamente alla stesura della Carta costituzionale e alle più alte funzioni esecutive. E tuttavia, al medesimo tempo, la concezione einaudiana della politica, ricca di riflessioni stimolanti e tutt’altro che antiquata, non è ancora adeguatamente conosciuta dal grande pubblico, sebbene negli ultimi anni sia fortunatamente tornata al centro del dibattito intellettuale. Il suo approccio alla politica va inserito entro una cornice concettuale che si riallacciava alla tradizione liberale autentica – quella composta da giganti del pensiero e della politica quali Adam Smith, James Madison, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carlo Cattaneo, Camillo Benso di Cavour, John Stuart Mill, Walter Lippmann e Wilhelm Röpke, solo per citare i più cari a Einaudi – rielaborata però alla luce di una singolare prospettiva culturale non scevra da alcuni tratti di eclettismo, già a partire da quello che riteneva il tratto distintivo della tradizione liberale. Scrivendo dall’esilio svizzero, al quale fu costretto per sfuggire ai nazifascisti dopo l’armistizio, ne diede una definizione perspicua e letterariamente felice: il liberalismo è «la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana, una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo». Se ciò, economicamente parlando, si incarnava nella difesa della libertà di iniziativa e di scelta della propria professione, sotto il profilo politico, «il liberalismo è una dottrina di limiti; e la democrazia diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla persona». Einaudi muoveva da una concezione antagonistica della natura umana: gli individui, cellula primaria di qualsiasi organizzazione sociale, erano sempre tesi a dare il meglio di sé quando potevano esprimersi liberamente e autonomamente. Da qui la convinzione che il dibattito, il contrasto, la lotta tra ideali e stili di vita diversi costituissero il presupposto del progresso e del miglioramento delle condizioni morali e materiali degli individui. Una visione che, sebbene diffusa all’interno del panorama liberale – Einaudi stesso l’aveva tratta soprattutto da Mill – egli declinò però con indubbia originalità. In un saggio composto nel primo dopoguerra e dedicato all’esame critico del collettivismo propugnato da socialisti e comunisti, Einaudi dichiarava che «il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto» e sosteneva, di conseguenza, che la tendenza verso l’uniformità denotasse un processo di decadenza in atto. «L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera – scriveva – è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea». Alla base di tutto si trovava la sua riprovazione del principio secondo il quale «dovrebbe essere un ideale pensare ed agire allo stesso modo», da cui discendeva che le istituzioni avrebbero dovuto limitarsi a imporre «limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri», fornire «agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime» e insomma costruire gradualmente una cornice progettata per consentire agli individui di sviluppare convinzioni e percorsi vari e tra loro contrastanti, nel rispetto dell’eguale diritto altrui e degli insegnamenti tramandati dalle generazioni precedenti. Volendo riassumere tale posizione con le sue stesse parole: «l’impero della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti». Il punto venne ribadito da Einaudi in un celebre articolo pubblicato alcuni anni dopo per La Rivoluzione Liberale, la rivista fondata e diretta da Piero Gobetti, nel quale ribadiva di provare «simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere e a perfezionarsi». Proprio qui risiedeva lo spirito del liberalismo, perché per Einaudi «liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri». E d’altra parte la natura umana gli pareva «cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo». Una delle principali funzioni attribuite allo Stato liberale era precisamente la tutela del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento. Una logica analoga valeva anche nell’ambito della politica economica: dalla sua impostazione discende una particolare visione della concorrenza secondo cui il mercato, certo, è uno spazio entro il quale solitamente vengono soddisfatte le preferenze dei consumatori alle condizioni più favorevoli, cosa da tenere in grande considerazione. Ma il sistema basato sulla libertà di iniziativa consente soprattutto agli individui di accedere il più autonomamente possibile a qualsiasi professione essi desiderino intraprendere come strumento di autodeterminazione economica ed elevazione morale. Al cuore del suo liberalismo economico, dunque, si collocava la difesa del pluralismo, che non si traduceva meramente nella tutela della molteplicità di attori presenti sul mercato, ma anche nella promozione di un variegato bouquet di professioni intraprese secondo le inclinazioni personali. Un’impostazione che dava origine a una teoria normativa segnata dall’interconnessione tra libertà civili, politiche ed economiche; tanto che persino «la libertà del pensare» gli pareva legata a «una certa dose di liberismo economico». Questo perché «lo spirito libero crea un’economia a sé medesimo consona» e pertanto «crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita». Un’economia nella quale le tendenze monopolistiche – che, secondo Einaudi, rappresentano la peggiore distorsione del mercato – vengono combattute garantendo la presenza della massima quantità di partecipanti al processo di produzione e di scambio di beni e servizi, tenendo a mente che «senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo». Lo Stato liberale, per Einaudi, deve muovere «dalla premessa, la quale è sua fede e sua ragion d’essere, che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni di sviluppare la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, morali e materiali, se medesimo e la collettività». La funzione primaria di una Carta costituzionale si riassume perciò nel garantire le libertà e i diritti dei cittadini, a partire da quella «libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri a partecipare alla vita pubblica». Un risultato che si poteva ottenere solo sottraendo il dettato costituzionale a troppo frequenti revisioni, così da impedire a maggioranze e governanti poco accorti, o ispirati da idee antiliberali e antidemocratiche, l’imposizione di una soffocante tirannia. Di qui l’importanza di un ordinamento contrassegnato dalla separazione dei poteri – tanto in senso orizzontale (legislativo-esecutivo-giudiziario) che verticale (centro-periferia) – e dalla presenza di vincoli giuridici tali da scongiurare, o da rendere estremamente improbabili, gli abusi di potere. Questo perché, sosteneva in uno dei suoi saggi più celebri, «ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi intesi a procacciare potenza, onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza». Simili “freni” sarebbero serviti a «limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori», ad esempio prevedendo – come prevede la Costituzione italiana – che alla revisione costituzionale si procedesse esclusivamente in presenza di una maggioranza qualificata. Ma non si tratterebbe forse di una disposizione che contrasta con l’idea stessa di democrazia? No, rispondeva Einaudi: solo «in apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza». Ciò non voleva significare, beninteso, che poco o nulla valesse il volere della maggioranza. Al contrario, Einaudi era pronto a riconoscere che «la fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale», e ad assegnare al Parlamento e al governo i poteri necessari per poter operare con successo e incisività – sotto lo sguardo vigile e imparziale della magistratura. Ma una società retta da un regime nel quale la maggioranza, elettorale e parlamentare, conservasse il potere di mutare radicalmente e interamente l’ordinamento statuale, per Einaudi non equivaleva affatto a un modello da imitare. Avversario delle riforme strutturali ed estimatore del gradualismo, egli apprezzava la lenta ma costante evoluzione delle istituzioni politiche, economiche e sociali che aveva osservato in Paesi quali la Gran Bretagna e la Svizzera.

11 ANNI FA CI LASCIAVA IL PRESIDENTE FRANCESCO COSSIGA “IL PICCONATORE”. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 17 Agosto 2021. Nel 2009 a Cossiga capitò di commentare il periodo delle continue stoccate al sistema politico. Disse: “Se potessi tornare indietro, me ne sta­rei zitto e buono. Se allora mi fossi com­portato così, probabilmente mi avrebbe­ro rieletto, e c’era una quota di mondo po­litico che lo voleva. Ma ero incazzato co­me una belva e non potevo tacere”. Era il 17 agosto del 2010 quando ricevetti una telefonata che non avrei mai voluto ricevere, il presidente della Repubblica emerito Francesco Cossiga, esponente politico di razza, arrivato ai massimi livelli del cursus honorum senza mai dimenticare la sua terra e le sue radici, si era addormentato per sempre. Non avrei più ricevuto le sue divertenti telefonate in cui parlavamo delle ultime tecnologie telefoniche ed informatiche che ci appassionavano reciprocamente, e non avrei mai più ricevuto le sue lezioni di politica ed “intelligence” a casa del comune amico Vittorio Sgarbi, mentre lavoravano alla fondazione di un movimento politico. Cossiga veniva da un’importante famiglia sassarese, diversi componenti della quale ricoprivano alte cariche nella magistratura. Anche lui aveva studiato legge e già allora dimostrò una certa precocità, laureandosi a 19 anni e mezzo dopo essersi diplomato a 16 anni. Da quando aveva 17 anni fu iscritto alla Democrazia Cristiana e a 20 anni, nel 1948, entrò a far parte di una struttura clandestina anti-comunista che si formò a Sassari sotto la guida di Antonio Segni, futuro presidente della Repubblica nei primi anni Sessanta. A rivelarne l’esistenza diversi anni più tardi fu lo stesso Cossiga: “Segni mi mandò a prendere le armi in previsione di un possibile tentativo comunista di golpe dopo l’attentato a Togliatti e come risposta alla vittoria elettorale della DC”, che lo raccontò nel 1992 a Marzio Breda giornalista quirinalista del Corriere della Sera , in una delle sue memorabili interviste in cui si esprimeva su fatti storici sensibili e controversi. Deputato dal 1958 al 1983, poi senatore nella Democrazia Cristiana; sottosegretario, ministro dell’Interno durante i drammatici giorni del sequestro Moro; presidente del Consiglio, del Senato, fino a ricoprire il più alto incarico istituzionale, quello di Presidente della Repubblica (venne eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977), Cossiga si era guadagnò l’appellativo di “picconatore” negli ultimi due anni al Quirinale, quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, intuì grazie alla sua non comune intelligenza che la Dc ed il Pci avrebbero subito gravi conseguenze dal mutamento radicale del quadro politico internazionale, e, convinto che i partiti e le stesse istituzioni si rifiutassero di riconoscerlo, iniziò una fase di conflitto e polemica politica, spesso provocatoria, che portò a fare di lui il “grande esternatore” della politica italiana. Era il 25 aprile del 1992 quando Francesco Cossiga alle 18.40 iniziò il discorso con cui annunciava le sue dimissioni da presidente della Repubblica. Lo fece in diretta e a reti unificate, confermando la notizia che era stata anticipata quella mattina dal Corriere della Sera. Per la precisione iniziò a parlare alle 18.38. Rivolgendosi ai giornalisti “quirinalisti” (quelli cioè accreditati al Quirinale) annunciò le sue dimissioni e insistendo su un punto: i grandi cambiamenti che aveva avuto il “privilegio di osservare” a livello internazionale. Poi all’improvviso si rivolse “ai giovani”, disse che voleva dire loro qualcosa, si fermò e, visibilmente commosso, bevve un bicchiere d’acqua. Cossiga chiese ai giovani “di amare la patria, di onorare la nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro paese”, e mentre lo diceva scandiva ogni richiesta con le dita. Ai giornalisti presenti e agli altri spettatori chiese infine di “avere fiducia in voi stessi”. Me lo aveva fatto conoscere un personaggio del giornalismo italiano, Pippo Marra, fondatore e direttore dell’ agenzia di stampa nazionale ADNKRONOS, che nei primi anni in cui lavoravo come addetto stampa per il presidente Bettino Craxi ed il vicesegretario del PSI Claudio Martelli. Pippo era per me in quel periodo un “mentore” , una guida professionale, un amico a cui chiedere aiuto e consiglio per imparare più velocemente il mio mestiere. Quando mi presentò il presidente Cossiga gli disse “ti presento un giovane collega che tutto è fuorchè socialista” ed i due scoppiarono a ridere facendomi diventare rosso di vergogna e piccolo piccolo davanti a due personalità come loro. Cossiga si è sempre dichiarato un appassionato – o meglio “esperto” – di servizi segreti e di spionaggio, passione che mi ha “passato”, ed io conservo gelosamente due libri sull’intelligence che mi regalò: “leggili bene amico mio ti aiuteranno a capire tante cose…”. In un’intervista  rilasciata poco prima di morire a Piergiorgio Odifreddi così il presidente Cossiga spiegò questo suo interesse: “Io mi sono sempre occupato di queste cose, ne ho sempre avuto la curiosità. E poi me l’ha chiesto il mio partito, Moro in particolare. La Democrazia Cristiana, per motivi storico-ideologici, non ha mai avuto un grosso interesse per gli arcana imperia: per il potere sì, ma per l’informazione no, a causa della cultura cattolica, verso la quale io ho un atteggiamento di opposizione dialettica. In Italia non esiste un ambiente non militare che si occupi di questioni strategiche”. Nel 2009 a Cossiga capitò di commentare il periodo delle continue stoccate al sistema politico. Disse: “Se potessi tornare indietro, me ne sta­rei zitto e buono. Se allora mi fossi com­portato così, probabilmente mi avrebbero rieletto, e c’era una quota di mondo politico che lo voleva. Ma ero incazzato co­me una belva e non potevo tacere”. Oggi 11 anni dopo la sua morte il mondo politico e la “sua” amata Sardegna lo ricordano e commemorano. “Esponente Dc e già ministro e Presidente del consiglio, a 57 anni è il più giovane Presidente della Repubblica italiana”, così lo ricorda oggi la Camera dei Deputati su Twitter, pubblicando una foto che lo ritrae assieme a Nilde Iotti e ricordando che i suoi interventi alla Camera sono consultabili online. “Undici anni fa moriva Cossiga picconatore ed ex presidente della #repubblica. Si era fatto tanti nemici soprattutto perché aveva messo in chiaro i grandi problemi della Giustizia e individuato le soluzioni”, scrive su Twitter Enzo Carra notista politico ed ex- portavoce del segretario nazionale della DC Arnaldo Forlani. Il presidente del Consiglio regionale della Sardegna, Michele Pais, per ricordare Cossiga ha scelto uno dei momenti più emblematici della vita politica del “Picconatore” : quando, il 28 aprile del 1992, Francesco Cossiga si dimise dalla Presidenza della Repubblica, per evitare all’inizio dell’undicesima legislatura l’ingorgo istituzionale, legato all’elezione del suo successore e alla nascita del nuovo governo. L’annuncio in un discorso televisivo di 45 minuti, pronunciato simbolicamente il 25 aprile, Festa della Liberazione. “Si rivolse ai giovani – scrive Pais sui social – e chiese loro di amare la Patria, di onorare la Nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese. Sono parole attualissime che meritano di essere riscoperte e apprezzate”. L’ultima volta che ci vedemmo è una data indelebile. Fu la sera successiva alla prima perquisizione che subii nella mia vita ad opera dei finanzieri mandati da Milano a casa mia dal solito “ufficialetto” da quattro soldi in cerca di protagonismo, che ubbidì al volere dell’ex on. Marco Milanese braccio destro dell’ex ministro delle Finanze Giulio Tremonti, che temeva delle mie rivelazioni su una sua liason con una giornalista rampante ( o meglio “arrampicatrice”) di origine pugliese, finita ormai nel dimenticatoio della professione, passata ad occuparsi di feste e festicciole in Puglia dove la invitano per farsi citare nella sua rubrichetta ! Qualche tempo dopo Milanese è stato arrestato e Tremonti ha dovuto lasciare la politica…. Quando il presidente Cossiga mi vide arrivare sconvolto a casa di Vittorio Sgarbi, che all’epoca abitava a piazza Navona a Roma, mi chiese “ma cosa ti è successo amico mio, ti vedo spento...” . Gli spiegai l’accaduto e lui scoppiò a ridere, e rivolgendosi a Sgarbi disse: “Vittorio apriamo una bottiglia di champagne. Dobbiamo festeggiare il nostro amico, che stasera è diventato un giornalista importante!”. Tutti scoppiarono a ridere (comprese le scorte) e Cossiga mi venne ad abbracciare dicendomi: “Non ti fermare mai, amico mio, sei un giornalista di razza”. Sono parole scolpite nei miei ricordi indelebili, che porto nel mio cuore. Grazie Presidente, non ti dimenticherò mai.

DAGO l'1 maggio 2021: GRONCHI, MINISTRO DEI TRASBORDI. Gronchi aveva un’amante a Livorno e, con l’auto del Quirinale era solito partire per Antignano, trecento chilometri a nord di Roma, dove balzava sulla berlina del ministro dei Trasporti, suo amico, per raggiungere la signora in incognito. Per questo Montanelli aveva coniato il nomignolo di «ministro dei Trasbordi» per il complice del capo dello Stato.

Bruno Vespa e Dagospia, bomba piccante sul Quirinale: "Il presidente aveva un'amante, chi gli prestava l'auto". Libero Quotidiano il 02 maggio 2021. Bruno Vespa è uscito con un nuovo libro che racconta i dodici presidenti della Repubblica. Tra le pagine si possono trovare svariati aneddoti e curiosità, ma anche riflessioni importanti su quello che rappresenta il Quirinale e come si è evoluto nel corso degli anni. “Secondo un vecchio luogo comune - ha scritto il volto storico della Rai - il presidente della Repubblica è un signore che se ne sta tranquillo al Quirinale, firma ogni tanto qualche carta e non interviene nella vita politica. In realtà il Quirinale è il centro di un autentico potere che molti capi dello Stato hanno esercitato nella storia italiana”. Nell’introduzione Vespa ci ha tenuto a sottolineare subito che nessuno dei dodici presidenti italiani è stato un “docile passacarte”. In più ha proposto immediatamente un suo giudizio istituzionale, riferendosi soprattutto all’ultimo ventennio: “Il potere del Quirinale è aumentato nella misura in cui è diminuito quello di Palazzo Chigi. Non è un bene”. Dopo queste prime riflessioni, è partito il viaggio di Vespa, da Enrico De Nicola fino a Sergio Mattarella. Dagospia ha approfittato dell’occasione per aggiungere un retroscena piccante su Giovanni Gronchi: “Aveva un’amante a Livorno e, con l’auto del Quirinale, era solito partire per Antignano. Trecento chilometri a nord di Roma, dove balzava sulla berlina del ministro dei Trasporti, suo amico, per raggiungere la signora in incognito. Per questo Montanelli aveva coniato il nomignolo di ‘ministro dei Trasbordi’ per il complice del capo dello Stato”. 

Paolo Conti per il "Corriere della Sera" l'1 maggio 2021. «Secondo un vecchio luogo comune, il presidente della Repubblica è un signore che se ne sta tranquillo al Quirinale, firma ogni tanto qualche carta e non interviene nella vita politica. In realtà il Quirinale è il centro di un autentico potere che molti capi dello Stato hanno esercitato nella storia italiana». Bruno Vespa stavolta si occupa della massima carica della Repubblica nel suo nuovo libro Quirinale. Dodici presidenti tra pubblico e privato (RaiLibri) uscito oggi. «Nessuno dei dodici presidenti è stato un docile passacarte», scrive Vespa nell' introduzione. E propone subito un suo giudizio istituzionale, parlando degli ultimi vent' anni: «Il potere del Quirinale è aumentato nella misura in cui è diminuito quello di Palazzo Chigi. Non è un bene». Si parte da Enrico De Nicola («Un monarchico per la Repubblica») e si arriva a Sergio Mattarella, un viaggio col tipico ritmo dei libri di Vespa: nessun linguaggio da addetti ai lavori, gusto dell'aneddoto, della scoperta di chi dirige i veri giochi dietro le quinte, delle debolezze e delle virtù dei protagonisti. Dice ironicamente Vespa: «Per conquistare quella poltrona abbiamo visto episodi da guerra civile. E, con l'eccezione di Cossiga, non ha mai vinto il candidato dato per sicuro in partenza». Ogni ritratto ha un'appendice femminile: le Prime Signore, le mogli o le figlie dei presidenti. Da Ida Einaudi a Carla Gronchi, da Laura Segni a Tina Santacatterina Saragat, da Vittoria Leone a Carla Voltolina Pertini, Da Peppa Cossiga («moglie invisibile») a Marianna Scalfaro, da Franca Ciampi a Clio Napolitano e a Laura Mattarella. Altri ritratti di altre protagoniste, anche qui mai figure scialbe o banali. Vespa si diverte a ricostruire le eterne incertezze di De Nicola quando gli chiesero una sua disponibilità per l'elezione: «La riposta fu un no. Ma un no alla De Nicola. Cioè un nì, meglio ancora un sì mascherato da no». Poi Luigi Einaudi, fortemente interventista, mite e parsimonioso col celeberrimo episodio della pera divisa a metà in un pranzo con Ennio Flaiano. Giovanni Gronchi, altro uomo «di pasta interventista», come quando impose al Viminale il suo protetto Fernando Tambroni. E il complesso capitolo di Antonio Segni, «l'enigma del golpe fantasma», cioè il ruolo del generale Giovanni de Lorenzo nella rovente crisi del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro nel luglio 1964. Anche dopo l'uscita del libro del figlio Mario Segni (Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news, Rubbettino) Vespa ritiene ancora «la più convincente» la ricostruzione firmata da Paolo Mieli sul Corriere il 17 gennaio 2004 che si conclude con un «io ho qualche dubbio» sulla versione di Lino Jannuzzi del maggio 1967 su l'Espresso («l'Italia è stata sull' orlo di un colpo di Stato»). C' è Giuseppe Saragat («Un padreterno al Quirinale»), per Vespa «il contrario di un mediocre». Sandro Pertini è «Giamburrasca al Quirinale» con le sue popolarissime intemperanze. Il «Picconatore» Francesco Cossiga, che per il Vespa privato è «il presidente del cuore, con lui ebbi da direttore del Tg1 scontri oggi inimmaginabili, poi nacque una profonda amicizia con mia moglie e con me». Oscar Luigi Scalfaro, protagonista di storici scontri con Silvio Berlusconi. Carlo Azeglio Ciampi, l'uomo dell'Euro e «lo sdoganatore della parola Patria». Giorgio Napolitano, un «comunista al Quirinale», «molto interventista», unico ad essere rieletto. Infine Sergio Mattarella, alle prese con «tre crisi bizzarre», capo di Stato «esempio di solidarietà nel momento più duro dell'ultima fase dell'epidemia» col suo vaccino allo Spallanzani. Nel gennaio 2022 si vota. Vespa, è tempo di una presidente donna? «Nel sentimento diffuso degli italiani sarebbe un avvenimento normale. Ma non so se ci saranno le condizioni politiche. Però il grande giallo del Quirinale è già cominciato, c' è chi sta scrivendo i primi capitoli».

Stefano Lorenzetto per L'Arena l'1 maggio 2021. Si schermisce: «Non mi faccia passare per il Pippo Baudo del giornalismo». Eppure ha introdotto nel panorama dell’informazione una figura che prima non esisteva, quella del quirinalista, tant’è che lo Zingarelli fissa al 1991 la datazione di questo vocabolo. Marzio Breda è da 30 anni l’ombra del presidente della Repubblica. Cominciò sul Corriere della Sera con Francesco Cossiga. Da allora sono subentrati altri quattro capi dello Stato (Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella), ma lui è sempre rimasto sul Colle, nel palazzo dove fino a Pio IX abitarono 23 papi, la reggia più sfarzosa d’Europa, come scrisse ne La guerra del Quirinale (Garzanti): «Ha oltre 2.000 stanze e tre chiese». Il Corriere ha confermato Breda nell’incarico di quirinalista persino dopo averlo collocato in pensione nel 2016. È ritenuto inamovibile quanto l’istituzione che racconta. Nel frattempo ha visto aggiungersi una pattuglia di colleghi della Rai, delle agenzie di stampa e dei quotidiani, 25 in tutto, accreditati a svolgere il suo stesso lavoro. Breda è nato a Conegliano il 15 luglio 1951. Abita a Verona da mezzo secolo, da quando il padre Romano fu nominato direttore per città e provincia della Banca Cattolica del Veneto, dopo che aveva diretto le filiali di Vazzola, San Bonifacio, Legnago, Portogruaro e Venezia. È cresciuto a Palazzo Mosconi, in Corte Farina, dove c’era la sede dell’istituto di credito. Lì sua madre Mariangela preparò la cena per Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, il quale con la benedizione dello Ior aveva da poco messo le mani sulla cassaforte dei cattolici nordestini. «Allora non si sapeva che dietro di lui ci fosse la P2. Voleva cooptare mio padre nella direzione generale. Ne ignorava il passato. Quand’era in Marina, papà fu fatto prigioniero dai tedeschi l’8 settembre 1943 e deportato in un lager in Germania. Riuscì a evadere, tornò in Veneto e si unì alla Resistenza con i partigiani cattolici della brigata Piave». Trascorsi pochi mesi dall’incontro con Calvi, Romano Breda rassegnò le dimissioni, nonostante avesse appena 55 anni e quattro figli a carico. Ai familiari disse solo: «Quei mascalzoni avrebbero preteso che imbrogliassi i clienti con gli investimenti in Borsa». Anche a Cristina Rubinelli, detta Titti, nipote dell’ingegnere che progettò la diga del Chievo, sposata dal 1978 con Marzio Breda, per lunghi anni docente di lettere al liceo Messedaglia e ottima cuoca, è capitato di dover improvvisare qualche ricevimento inatteso, con l’aiuto della signora Irma, scesa da Montecchia di Crosara a farle da spalla ai fornelli. È accaduto con i presidenti Cossiga e Scalfaro, quest’ultimo accompagnato dalla figlia Marianna, che le si presentarono nella casa di via Ponte Rofiolo, dove a quel tempo la coppia abitava con i figli Alvise e Giuseppe. Gli illustri ospiti trovarono un menu all’altezza delle tradizioni quirinalizie: ravioli di spinaci, arrosto al marsala con patate, fondi di carciofo e piselli, bavarese con frutti di bosco e torta di mele. Suggellato da Amarone e Recioto.

Come arrivò al giornalismo?

Conoscevo Nin Guarienti dell’Arena. Nel 1973 cominciò a pubblicarmi qualche intervista. La prima fu con il poeta Diego Valeri. Poi vennero quelle con Emilio Vedova, Fulvio Roiter e Andrea Zanzotto, con il quale il rapporto è continuato fino alla morte. Abbiamo scritto a quattro mani In questo progresso scorsoio per Garzanti, che è un po’ il suo testamento civile.

È partito puntando in alto.

Esco dal liceo Cavanis di Venezia, vicino alle Zattere, dove passeggiava Ezra Pound, l’Omero del Novecento. Mi autografò una copia dei Canti pisani. Un’altra volta lo incrociai in una calle e gli chiesi: «Come va, maestro?». Rispose: «La morte mi corre dietro, ma io non le do confidenza».

Grande.

Sono rimasto in contatto con la figlia Mary de Rachewiltz, che vive in Alto Adige. Volevo laurearmi in lettere moderne, ma mio padre mi dirottò nello studio dell’avvocato Eugenio Caponi, che mi convinse a scegliere giurisprudenza. Alla fine ho svoltato: scienze politiche. Credevo che il giornalismo fosse elzeviri e svolazzi.

Quando capì che non lo era?

La sera del terremoto in Friuli, 6 maggio 1976. Ero nella nostra casa di campagna a Refrontolo, 70 chilometri in linea d’aria. Telefonai a Gilberto Formenti, direttore dell’Arena, offrendomi come volontario. «Corra, e ci detti qualcosa prima di mezzanotte», rispose. Manco mi conosceva. Pubblicò il mio pezzo da Osoppo. Lì capii che il giornalismo non è pettinare gli articoli ma andare sui fatti. Decisi che sarebbe stato il mio mestiere.

Fu assunto?

Magari. Nemmeno mi pagavano. Solo quando me ne andai, il caporedattore Jean Pierre Jouvet mi fece liquidare l’elenco di tutte le collaborazioni.

E dove andò?

Da Gino Colombo, il direttore veronese che stava per aprire L’Eco di Padova, edito da Angelo Rizzoli. Mi assunse all’istante in cronaca. Palestra straordinaria: terrorismo, attentati, ferimenti, Toni Negri, processo 7 aprile.

Ma dopo tre anni L’Eco chiuse.

Non per mancanza di lettori. Davamo fastidio a Carlo Caracciolo e Giorgio Mondadori, che avevano lanciato Il Mattino di Padova. La nostra chiusura fu barattata con l’apertura dell’Occhio di Maurizio Costanzo: gli editori accettarono che fosse venduto a un prezzo inferiore a quello amministrato stabilito per i tutti quotidiani dell’epoca. La copia dell’accordo fu trovata fra le carte di Licio Gelli a Villa Wanda.

E lei che fece?

Mi fu offerto di traslocare a Oggi. Invece mi ritrovai parcheggiato al Corriere Medico. Walter Tobagi parlò di me a Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera. Era il 1980. Mi prese per la redazione interni, allora alloggiata nella Sala Albertini. Dall’altra parte del tavolone c’era la redazione politica, guidata da Carlo Galimberti, che aveva come vice Vittorio Feltri. Al quale, nel fare un titolo, chiedevo: «Dammi un sinonimo di comunisti». E lui: «Assassini!».

Riconosco in pieno l’uomo.

Un giorno Roberto Martinelli e Antonio Padellaro ci spedirono da Roma la lista degli iscritti alla loggia P2. Fui incaricato di passarla in tipografia. C’erano dentro tutti: Angelo Rizzoli, Silvio Berlusconi, lo stesso Di Bella. A ogni nome mi rivolgevo al capo: che faccio? «Va’ a chiederlo al direttore». E questi: «Apri parentesi e scrivi: “Ha smentito”».

Di Bella dovette dimettersi.

Aveva un tumore. Era una pasta d’uomo. Gli subentrò Alberto Cavallari. Fu Pertini a imporlo. Ho trovato la conferma nell’archivio storico del Quirinale, che custodisce le agende dei presidenti. Cavallari, lunatico e ombrosissimo, sciolse la redazione politica, ritenendola a torto inquinata dalla P2. Ci trovammo in due, io e Andrea Bonanni, a gestire da soli le pagine del Palazzo.

Cavallari la stimava.

Per tre anni ho pranzato e cenato con lui, spesso con amici come Leonardo Sciascia, Goffredo Parise e Claudio Magris, che insieme a Zanzotto considero i miei maestri. Sono stato l’unico che è andato a trovarlo fino al giorno della morte.

Come diventò quirinalista?

Nell’estate 1990, reduce dal Giro d’Italia, Ugo Stille e il suo vice Giulio Anselmi mi ordinarono di seguire Cossiga in vacanza. Il direttore era stato a cena da lui e lo aveva trovato sovreccitato. Non lo mollai per 40 giorni filati. A Courmayeur annunciò: «Voglio dare la grazia al dottor Renato Curcio». Il fondatore delle Brigate rosse perdonato? Una bomba. Kossiga, come lo chiamavano gli estremisti, aveva deciso di chiudere i conti con il passato. Lo inseguii con altri giornalisti fino in Cansiglio. Lì nell’ultimo giorno di ferie sbottò: «Vi nomino tutti cavalieri». Notò il mio stupore: «Ma come, Breda, non le va bene?». E io, con una battuta scema: mi sarei aspettato almeno prefetto. Lui: «D’accordo. Prefetto di Reggio Calabria». Io: eh no, o Venezia o niente. «Allora niente». Continuai a corrergli appresso con i neocavalieri. Più di 30 voli all’estero in pochi mesi. I colleghi ci ribattezzarono Feccia alata, su imitazione del club Freccia alata di Alitalia. Cossiga mi svegliava in hotel alle 6 perché scendessi a fare colazione con lui.

Si fingeva matto o lo era?

Per me fu il profeta della catastrofe. Come dice Bernardo Valli, il più grande inviato, il giornalismo è la verità del momento. Mentre lo pratichi, non sai di scrivere la storia. Cossiga avvertì, inascoltato, che il sistema dei partiti stava per crollare, così com’era appena caduto il Muro di Berlino. Lucidissimo, nonostante un disturbo bipolare che non nascose mai, faceva il pazzo, e non lo era, per poter dire la verità. Lo seguiva lo psichiatra Giovanni Battista Cassano, lo stesso che curava la depressione di Indro Montanelli.

Con Scalfaro si tornò nei ranghi.

Fu l’ultimo dinosauro della Dc, al potere mentre Tangentopoli faceva tabula rasa di tutti i partiti. Si trovò a duellare con Berlusconi, che per lui era un marziano. Il suo portavoce Tanino Scelba, nipote dell’ex premier Mario Scelba, chiese due volte per iscritto al Corriere la mia rimozione. Poi, anche grazie alla figlia Marianna, con Scalfaro instaurai un buon rapporto. Una sera alle 22, a fine dicembre, mi cercò al telefono: «Questo governo mi tratta come un cameriere. Mi ha mandato la legge finanziaria un’ora fa, mi costringe a firmarla senza darmi neppure il tempo di leggerla». Capii che mi parlava di Berlusconi affinché lo scrivessi, cosa che feci. Era molto diverso da come lo avevo immaginato.

Lo riteneva un vecchio parroco?

Già. Invece era ironico, curioso, buongustaio. I miei colleghi lo descrivevano intento a sorbire il brodino serale. Macché minestrina! Metteva il peperoncino su ogni pietanza, intonava canzoni napoletane, suonava il pianoforte.

Tramò o no contro Berlusconi?

Ne registrò con gioia la caduta. L’artefice del complotto fu Umberto Bossi: Forza Italia gli stava portando via un mucchio di parlamentari. Certo, Scalfaro e Bossi si trovarono in perfetta sintonia. Nella sua casa di Gemonio il Senatùr teneva appesa al muro una foto con dedica del presidente. Per un cattolico d’altri tempi, qual era Scalfaro, abituato ad andare segretamente in ritiro spirituale ad Assisi ogni mese, il Cavaliere rappresentava le ballerine che sculettavano in tv, la corruzione dei costumi.

Di Ciampi che mi dice?

L’ho molto amato. Mi ricordava mio padre, anche per via dei trascorsi in Bankitalia. Fu il defibrillatore istituzionale che cercò di dare un accettabile assestamento al bipolarismo che intanto si era affermato. Ha rinverdito il patriottismo, ha restituito l’autostima agli italiani. Appena eletto, disse ai suoi consiglieri: «Badate, voglio pesare le parole come se fossero grammi d’oro». E così fu.

Poi venne il doppio mandato di Napolitano.

Un aristocratico. Fin da ragazzo si autodefiniva «atarassico» per la capacità di dominare le passioni. S’impose d’imparare l’inglese a 50 anni e ci riuscì. S’era dato l’impegno di favorire, attraverso le riforme, il traghettamento verso una democrazia più matura, diciamo pure meno barbarica. Tentativo fallito, anche se lo aveva posto come condizione per la sua rielezione.

Con Mattarella come va?

Per indole è il meno loquace dei presidenti. Insegue l’idea di Stato-comunità che fu cara ad Aldo Moro, maestro politico del fratello Piersanti, assassinato dalla mafia, e anche suo. È un mediatore paziente, ma nei momenti critici sa imporsi. La sua forza risiede nella mitezza, la trasmette con lo sguardo.

Per Dagospia è «la mummia sicula». Un nomignolo azzeccato?

In visita a Zagabria, fu avvicinato da una scolaresca di Messina. Più tardi, lo provocai: presidente, voi siciliani dite che quella è la provincia babba, cioè talmente arretrata che lì non hanno neppure la mafia. Rispose in latino, una sola parola: «Olim». Un tempo.

Chi dopo di lui?

Nei miei sogni c’è Mario Draghi. Ma il Quirinale è il baricentro del potere. I partiti non lo lasceranno a chi non sia dei loro. Salterà fuori uno sconosciuto di secondo piano.

Romano Prodi è un papabile?

Dopo le due bastonate che ha preso? Sarebbe una follia. È percepito come divisivo.

Si parla di Walter Veltroni.

Ha lasciato la politica. È un nome spendibile.

Berlusconi si vede già lassù.

Non ha più il fisico, mi pare.

Rieleggeranno Mattarella.

Lo ha escluso già due volte. Però se glielo chiedessero in coro, non si tirerebbe indietro.

C’è mai stato un veronese che sarebbe potuto diventare presidente?

Per caratura e reputazione, solo il dc Guido Gonella.

Che cosa pensa della politica?

Tutto il male possibile.

Ma un quirinalista non stacca mai?

Mai. Al momento di andare in pensione avevo 390 giorni di ferie non godute e 100 di riposi settimanali arretrati.

Perché chiamava «parón» il corrierista Giulio Nascimbeni?

C’entra un aneddoto. Adriana Mulassano, che con Giulia Borgese in quegli anni era l’unica donna assunta in via Solferino, un giorno cercò il giornalista veronese nella sua casa di Sanguinetto. Rispose al telefono l’anziana domestica: «El parón no’l ghe. L’è a l’ostarìa». Era un uomo di grande cultura e di grande semplicità. Gli volevo un bene dell’anima.

Per quanti anni ancora conta di restare quirinalista?

Fino a quando mi terranno. In passato La Repubblica voleva assumermi. E Luigi Righetti, presidente dell’Arena, 20 anni fa mi propose di diventare direttore. Rifiutai. È difficilissimo lasciare il Corriere. È una bandiera. Gli devo tutto ciò che sono.

Antonio Fazio. Protagonista della vita istituzionale italiana ed europea. Chi è Antonio Fazio: l’ex governatore della Banca d’Italia tra storia, vissuto ed economia. Giuseppe De Lucia Lumeno su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. Antonio Fazio è stato un protagonista indiscusso della vita istituzionale italiana ed europea. Da Governatore della Banca d’Italia è stato tra i principali artefici del complesso percorso di unificazione monetaria che ha portato, non senza sofferenze per l’Italia, all’Euro. Dopo anni di silenzio, nei quali l’ex Governatore si è ritagliato per sua scelta un ruolo di studioso, esce ora per Treves L’inflazione in Germania nel 1918-1923 e la crisi mondiale del 1929. Il libro è stato presentato solo qualche giorno fa a Palazzo Altieri a Roma in un convegno che ha visto la partecipazione del Presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, del professore Giuseppe Di Taranto, dell’editorialista Angelo De Mattia, dell’Ad di Rete Ferroviaria Italiana, Vera Fiorani, di Roberto Tomasi, Ad Autostrade per l’Italia, e di Fabrizio Palenzona, presidente di Prelios. Se il titolo rimanda a una ricostruzione storica ed economica, il parterre della presentazione ci dice, al contrario, dell’attualità del libro. Non si tratta, infatti, solo di una lunga e articolata ricerca su una precisa fase del Novecento che va dal ‘18 al ‘23 in Germania e che preannuncia la crisi mondiale del ‘29. In realtà è molto di più. È l’idea originale del suo autore di raccontare la storia della moneta anche ripercorrendo, in una lunga “Prefazione e Giustificazione Autobiografica”, parte della propria vita. Ma neanche questo basta a darne pienamente conto perché non si tratta né di un’autobiografia né di un libro di storia. Chi sa leggere tra le righe può trovare un’analisi di grande attualità che prova a indagare problemi all’ordine del giorno alla ricerca di soluzione da oltre vent’anni. Una domanda su tutte: quale futuro per l’Euro e per l’Europa? Nel palcoscenico della politica le risposte quasi sempre strumentali si rincorrono quotidianamente ma quasi nessuno affronta il tema con la necessaria cautela e perizia di chi, come Fazio, ha grande dimestichezza e la cui capacità critica non è ideologicamente offuscata. L’autore, con grande sottigliezza, senza affrontare direttamente la questione fornisce una memoria storica e una “cassetta degli attrezzi” di grande utilità. Fazio parte da alcuni interrogativi apparentemente ingenui ma di grande complessità che nascono nella testa di un bambino nato ad Alvito, un piccolo centro vicino Frosinone, destinato a fare il geometra in una realtà agricola. Quel bambino che aveva dieci anni quando finiva la seconda guerra mondiale e per il quale la ricchezza era una cosa molto concreta – i campi e le case – si domandava come fosse possibile che un biglietto con la scritta “Banca d’Italia, Cinquecento lire pagabili a vista al portatore” e con due firme, una di un signore che aveva il titolo di Governatore e si chiamava Luigi Einaudi e un’altra di un Cassiere, comunque un semplice pezzo di carta, potesse valere quanto un appezzamento di terreno. E allora, «il signor Einaudi non potrebbe, a suo piacimento, arricchire gli italiani aumentando il numero di biglietti?». Evidentemente non era così facile. Ma capire il perché non è altrettanto evidente e immediato. Questi interrogativi hanno segnato l’intera vita di quel bambino che, divenuto Governatore, è finito a firmarli lui quei biglietti. Il suo percorso, nei quarant’anni che seguirono quelle prime ingenue domande, è lungo e quando, all’inizio degli anni ’80, ha chiara l’origine della moneta e con questa consapevolezza affronta da Governatore lo «scontro finale con l’inflazione» gli resta ancora insoddisfatta la «curiosità su cosa fosse la moneta, sulla sua essenza, come si integrasse una moneta di carta nell’equilibrio generale walrasiano». Uscito da via Nazionale non abbandona il suo interesse né per la politica monetaria né per le sorti del Paese così, da un diverso punto di vista, continua a studiare concentrandosi sulle analogie tra la “Grande Recessione”, la crisi iniziata nel 2008, e l’altra Grande Recessione Mondiale, quella iniziata nel ‘29 con una ricostruzione puntuale di ciò che è accaduto in quegli anni nelle quattro grandi economie occidentali Germania, Regno Unito, Francia e Stati Uniti e di come la caduta congiunturale del 1929 si tramuta in una lunga depressione, con conseguenze drammatiche che portarono la Germania nelle braccia del Nazismo. Historia Magistra Vitae? Oggi in Europa bisogna essere attenti a non ripetere gli errori del passato. Per questo, superata l’emergenza sanitaria e ristabilita una situazione di normalità, è necessario che torni a esserci una politica economica perché, se la stabilità dei prezzi è garantita dalla politica monetaria, c’è un altro obiettivo, ancora più importante, che bisogna rimettere al centro: l’occupazione. Sono poi urgenti interventi strutturali che puntino alla competitività della nostra economia in Europa, che affrontino il problema del costo del lavoro e della differenziazione dei salari, che ripropongano la questione della collaborazione dei lavoratori nella gestione delle aziende come previsto dall’articolo 46 della Costituzione. Ma serve anche ridiscutere il ruolo della Commissione Europea affinché ritrovi, nella sua originaria formulazione, quella sussidiarietà perduta per strada. Insomma, la crisi del 1929 è lì a insegnarcelo e il predecessore di Mario Draghi e Ignazio Visco a Palazzo Koch ce lo ricorda: nessuna politica monetaria è autonoma o può supplire alla politica economica. Bisogna puntare alla piena occupazione non dimenticando che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro e non sulla moneta. Ognuno deve fare la propria parte. Giuseppe De Lucia Lumeno

Il lessico delle formule di governo. Germano Palmieri e Luca Tentoni il 7 novembre 2010 su La Stampa. Riportiamo il significato di alcune espressioni del linguaggio politico, particolarmente ricorrenti  in occasione di crisi di Governo: quando, cioè, si pone il problema di mettere a punto la nuova compagine governativa (per comodità di consultazione riproponiamo anche quelle chiarite nel testo). Nei casi in cui la crisi di Governo si apre con le forze politiche già d'accordo sulle caratteristiche del nuovo Esecutivo si parla di crisi pilotata; quando, invece, la crisi viene aperta senza che le forze politiche abbiano concordato la fisionomia del nuovo Governo, si parla di crisi al buio.

LARGHE INTESE  E’ una via di mezzo fra il Governo tradizionale, ossia formato da politici, e il Governo tecnico(v.). Si tratta quindi di un Esecutivo formato sia da politici che da tecnici, di diversa estrazione (sia politica che professionale), che si prefiggono una durata limitata nel tempo (da pochi mesi a un anno, a seconda dei problemi da risolvere), per poi passare a nuove elezioni.

APPOGGIO ESTERNO - Si ha quando un partito sostiene in Parlamento un Governo del quale non fanno parte suoi esponenti.

BICOLORE - E' il Governo formato dai rappresentanti di due partiti (lett. che ha due colori). Trova un sinonimo in bipartito.

CENTRODESTRA    E’ un Governo formato da partiti orientati prevalentemente su posizioni liberali e conservatrici. Le coalizioni di centrodestra italiane degli ultimi anni sono state composte da Forza Italia, Alleanza Nazionale, UDC (questi tre partiti componevano il Polo delle libertà) e dalla Lega Nord (i quattro partiti hanno dato vita, nel 2000, alla CDL - Casa delle libertà). Le coalizioni di centrodestra hanno governato il Paese nel 1994 (governo Berlusconi I), fra il 2001 e il 2006 (governi Berlusconi II e III) e – senza l’Udc – dal 2008 (Pdl, Lega, Futuro e libertà-Mpa, governo Berlusconi IV).

CENTROSINISTRA  E’ un Governo formato da partiti orientati prevalentemente su posizioni progressiste e riformiste. Attualmente l'accezione di centrosinistra individua una coalizione che include principalmente i seguenti partiti: Democratici di sinistra, Margherita, Repubblicani europei (questi tre partiti hanno danno vita alla lista dell'Ulivo), Italia dei Valori (Di Pietro), Udeur (Mastella), Verdi, PDCI (Comunisti italiani), PRC (Rifondazione comunista), Rosa nel Pugno (Radicali e socialisti). Il centrosinistra ha governato il Paese fra il 1996 e il 2001 (governo Prodi I: dal '96 al '98 con l'appoggio esterno del PRC e senza Udeur e PDCI, partiti non ancora costituiti; dal '98 al 2001, governi D'Alema I e II, Amato II, senza il PRC ma con PDCI e centristi di Mastella) e dal 2006 al 2008 (governo Prodi II).

ESAPARTITO - E' il Governo formato dagli esponenti di sei partiti.

GOVERNO BALNEARE - Si dice del Governo destinato a cadere entro breve tempo, a causa  della fragilità delle basi politiche sulle quali poggia; di conseguenza esso limita la sua attività al disbrigo degli affari di ordinaria amministrazione. L'espressione, che ha dei sinonimi in Governo d'affari e Governo ponte, deriva dal fatto che in passato molti Governi durarono in carica lo spazio di un'estate.

GOVERNO DELLA NON SFIDUCIA – Nel 1976, il terzo governo Andreotti, formato da ministri della Democrazia Cristiana, restò in carica per 536 giorni (più 55 per gli affari correnti). Mentre la DC e la SVP votavano a favore, gli altri partiti della maggioranza (PCI, PSI, PRI, PSDI, PLI) si astenevano. Al momento di votare la fiducia, si ebbe il seguente esito: in Senato, 136 sì (DC, SVP), 17 no (MSI) e gli altri partiti costretti a far uscire dall'aula i propri senatori, perchè a Palazzo Madama l'astensione vale come voto contrario; alla Camera, i sì furono 258, i no 44, gli astenuti (presenti in aula, perchè a Montecitorio il quorum non li comprende) furono 303, più dei favorevoli. La “solidarietà nazionale” fra DC, PCI, PSI e partiti laici si realizzò, in questa prima fase, grazie alla “non sfiducia”.

GOVERNO DI COALIZIONE - E', genericamente, un Governo formato dagli esponenti di più partiti. Trova un sinonimo in Governo misto.

GOVERNO DI GARANZIA - E' sinonimo di Governo istituzionale (v.).

GOVERNO DI RAFFREDDAMENTO - Può essere formato in presenza di una situazione  particolarmente difficile, con le forze politiche in acceso contrasto; ha lo scopo di gestire l'ordinaria amministrazione, in attesa che i partiti si accordino per dar vita a un Governo più stabile. Si differenzia dal Governo balneare (v.) per una maggiore animosità del clima politico che precede la sua formazione e ha un sinonimo il Governo di tregua.

GOVERNO DI SOLIDARIETA' NAZIONALE - E' il Governo al quale partecipano esponenti di tutti (o quasi) i partiti, anche in questo caso per fronteggiare una situazione politica travagliata. Ha un sinonimo in Governo di unità nazionale e Governissimo. Si rifà ad esperienze straniere come la Grosse Koalition tedesca (democristiani-socialisti, 1966-'69 e dal 2005).

GOVERNO ISTITUZIONALE - Altra formula di Governo alla quale si può ricorrere in presenza di una situazione politica difficile. Ne fanno parte esponenti dei partiti più rappresentativi, sotto la presidenza di un uomo politico proveniente da un incarico di prestigio: per es. il Presidente del Senato. Scopo di esso, come l'espressione lascia intendere, è salvaguardare le Istituzioni in attesa che la situazione si normalizzi.

GOVERNO PARLAMENTARE - Conosciuto anche come Governo di programma, è un Governo caratterizzato dal fatto di non avere una base parlamentare compatta, ma di realizzare il proprio programma giovandosi, a seconda delle circostanze, dell'appoggio di questo o quel partito dell'opposizione,  in cambio di favori politici più o meno consistenti.

GOVERNO TECNICO - E' un Governo balneare (v.) caratterizzato dalla presenza di ministri scelti fra tecnici ai massimi livelli (per es. economisti, avvocati, dirigenti di azienda), non necessariamente legati a un partito.

GOVERNO TRAGHETTO - E' quello che viene formato in presenza di una svolta istituzionale molto importante, allo scopo di "traghettare" il Paese verso il nuovo corso, per poi cedere il posto a un Governo con compiti più ampi.

MANDATO ESPLORATIVO o PREINCARICO - Si ha quando, nella formazione del Governo, il Presidente della Repubblica affida alla persona prescelta non il compito di formare il nuovo Governo, ma quello di verificare se e a quali condizioni sia possibile raggiungere questo obiettivo, salvo ad affidare in un secondo tempo un vero e proprio incarico, alla stessa o a un'altra persona.

MONOCOLORE - E' il Governo formato dagli esponenti di un solo partito.

PARTECIPAZIONE ORGANICA AL GOVERNO – Si ha quando un partito della maggioranza “invia” propri rappresentanti nel Governo, in qualità di ministri o sottosegretari. Se la partecipazione del partito non è organica, vuol dire che il gruppo politico in questione (come il PRC nel '96-'98 col governo Prodi I) si limita a sostenere dall'esterno l'Esecutivo, oppure ad astenersi (vedi Governo della non sfiducia).

PATTO DI LEGISLATURA - E' l'intesa con la quale i partiti che appoggiano il Governo s'impegnano a sostenerlo fino a quando non scadrà il mandato delle Camere, cioè per tutta la durata della legislatura.

PENTAPARTITO - E' il Governo formato dagli esponenti di cinque partiti.

QUADRIPARTITO - E il Governo formato dagli esponenti di quattro partiti.

TRIPARTITO - E' il Governo formato dagli esponenti di tre partiti.

VERIFICA - E' un incontro fra i maggiori esponenti dei partiti che concorrono a formare il Governo, incontro che si tiene periodicamente o comunque dopo un evento politico di un certo rilievo (per es. elezioni in alcuni Comuni e/o Province), allo scopo di verificare (da ciò il termine) se permangono le condizioni affinché il Governo possa continuare a operare. 

Governo, quando partiti avversari hanno fatto squadra per formare un esecutivo. Da tg24.sky.it l'8 feb 2021. Dopo il primo turno di consultazioni sembra forte l'appoggio a Mario Draghi da parte dei vari partiti italiani. Ma nella storia della Repubblica Italiana ci sono state varie occasioni in cui componenti politiche diverse hanno collaborato: ecco i casi principali.

Mario Draghi è il premier incaricato da Sergio Mattarella per formare un nuovo esecutivo in grado di affrontare la difficile situazione causata dalla pandemia di Covid-19 e di tenere unite le varie forze politiche. "Avverto il dovere di rivolgere alle forze politiche un appello per un governo di alto profilo per far fronte con tempestività alle gravi emergenze in corso", ha detto il presidente della Repubblica nell'annunciare la scelta di affidare l'incarico all'ex presidente della Bce. La figura di Mario Draghi sembra mettere d'accordo i differenti partiti. Nel primo giro di consultazioni con i gruppi parlamentari, il premier incaricato ha incassato un forte sostegno. M5s, Pd, Iv e LeU sono favorevoli a un esecutivo guidato dall'ex presidente della Bce e un via libera è arrivato anche da Forza Italia e dalla Lega, con Salvini che ritiene ci sia "convergenza su diversi temi". Contrario, per il momento, Fratelli d'Italia.

Nella storia dell'Italia repubblicana è già successo che parti politiche diverse si siano unite per collaborare alla formazione di un esecutivo. A partire dal Governo De Gasperi II, che rimase in carica dal 14 luglio 1946 al 2 febbraio 1947, formato da esponenti della Dc, del Pci, del Partito socialista italiano di unità proletaria e, per la prima volta, del Pri. Il Governo De Gasperi II diede le dimissioni andando in crisi il 20 gennaio 1947, in seguito alla scissione del PSI che aveva dato origine al Partito socialista democratico italiano. Seguì il Governo De Gasperi III e poi IV che ottennero entrambi la fiducia dall'Assemblea Costituente. Nonostante le ostilità, le varie parti che formavano gli esecutivi di quegli anni riuscirono a collaborare per guidando il Paese durante la ricostruzione e portando alla stesura della Costituzione dopo la fine della Seconda Guerra mondiale e al passaggio da monarchia a Repubblica.

Nel 1976 è il turno del Governo Moro V che rimase in carica dal 12 febbraio 1976 al 30 luglio 1976. L'esecutivo ottenne la fiducia alla Camera con le astensioni di Psi e Pri e con l'uscita dall'aula al Senato sempre da parte dei socialisti e dei repubblicani (Nella foto: Giulio Andreotti firma come ministro del Bilancio del Governo Moro V).

Dal 30 luglio 1976 al 13 marzo 1978, rimase in carica il Governo Andreotti III, chiamato anche "Governo di solidarietà nazionale", perché superò la votazione di fiducia in parlamento grazie all'astensione del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer.

Il Governo Ciampi fu l'ultimo esecutivo della cosiddetta Prima Repubblica, rimase in carica dal 29 aprile 1993 all'11 maggio 1994 e fu il primo guidato da un non parlamentare. La maggioranza del governo di Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d'Italia, era composta da Dc, Pds, Psi, Pri, Pli, Psdi, Verdi e Lista Marco Pannella.

Nel biennio 1995-1996 si ha il primo governo "tecnico" in Italia, il Governo Dini, presieduto da personalità fuori dalla politica attiva. In realtà già il Governo Ciampi, come detto sopra, fu guidato da un non parlamentare. L'esecutivo Lamberto Dini rimase in carica dal 17 gennaio 1995 al 18 maggio 1996. La maggioranza del Governo Dini era formata da Pds, Lega Nord, Ppi e i Democratici.

Dopo l’addio di Rifondazione e la caduta di Prodi, nel 1998 forze politiche diverse si unirono per portare alla formazione del Governo D'Alema I che rimase  in carica dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999. La maggioranza del Governo D'Alema I era formata da Democratici di Sinistra, Partito Popolare Italiano, Unione Democratica, Verdi, Rinnovamento italiano, Comunisti Italiani, Socialisti Democratici Italiani.

Si arriva infine a un altro governo "tecnico", il Governo Monti, che rimase in carica dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013. Le uniche forze che si sono dissociate dal sostegno all'esecutivo formato da Mario Monti furono Italia dei Valori e Lega. Formato, per lo più, da persone estranee all'ambiente politico, fu presentato come un governo tecnico d'emergenza nell'ambito della forte crisi economica del 2008. Il presidente del Consiglio Mario Monti lo definì "governo di impegno nazionale". L'esecutivo viene ricordato in particolare per le numerose misure di austerità

Da liberoquotidiano.it l'11 giugno 2021. "Loro chiamano complotto la propria incapacità di gestire il Paese": Matteo Renzi, ospite di Barbara Palombelli a Stasera Italia su Rete 4, smonta la teoria di Marco Travaglio. Teoria secondo cui il leader di Italia viva sarebbe stato uno dei protagonisti del complotto che ha portato alla caduta dell'ex premier Giuseppe Conte. In questo scenario rientrerebbe anche l'incontro - documentato da Report - tra Renzi e Marco Mancini, il cosiddetto 007 del Dis, il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza. I due sono stati avvistati insieme all'Autogrill di Fiano Romano l'anno scorso, prima della fine dell'era Conte. "Ho incontrato Mancini all'Autogrill, non ho niente da nascondere. Se uno ha qualcosa da nascondere, non incontra una persona a Fiano Romano, dove c'è l'Autogrill più trafficato di Italia, è la barriera di Roma Nord. Io stavo semplicemente tornando a casa. L'accusa invece è che io stessi complottando", ha spiegato il leader di Italia viva alla conduttrice. Che poi gli ha chiesto: "Lei è stato accusato di Conticidio no?" "Perché invece di parlare di Conticidio non spiegano dove hanno messo i soldi dei banchi a rotelle o perché hanno deciso di fare le primule?", ha risposto immediatamente Renzi. Parlando dei 5 Stelle, poi, si è detto convinto che presto spariranno: "Sono finiti, prima hanno raccontato alcune cose e poi hanno fatto esattamente l'opposto sulle Olimpiadi, sulla Tap, sulla Tav, sulle infrastrutture. Adesso Luigi Di Maio si è accorto dopo 5 anni che sulla giustizia ha sbagliato e ha chiesto scusa".

Estratto del libro “I segreti del Conticidio” di Marco Travaglio il 30 maggio 2021. 21 ottobre 2019, interno giorno. Siamo a Milano, nella Sala Commissioni del "Pirellone", sede del Consiglio regionale della Lombardia. Paolo Grimoldi, deputato della Lega, segretario della Lega Lombarda e fedelissimo di Salvini, riunisce un gruppo di consiglieri regionali del partito e li aggiorna sulla situazione politica nazionale. Non sa che in quella sala tutte le conversazioni sono registrate. Il Carroccio ha perso il potere da due mesi e mezzo, dopo la crisi del Papeete e la nascita del Conte-2, propiziata paradossalmente proprio da Renzi. Il governo giallorosa ha giurato il 5 settembre. Ma già il 17, dodici giorni dopo, il Rignanese ha mollato il Pd con una quarantina di parlamentari e si è fatto un partitino tutto suo, per ricominciare a manovrare contro il suo governo. Vuole rovesciarlo a fine anno, subito dopo la legge di Bilancio. E con chi fa sponda? Proprio con il Matteo leghista, grazie anche alla mediazione del paraninfo Denis Verdini, il plurimputato ex capatàz forzista in procinto di finire in galera, direttore editoriale del gruppo Angelucci, quasi suocero di Salvini (la figlia Francesca è la fidanzata di Matteo), nonché conterraneo e amico di Renzi fin dai tempi in cui questi era sindaco di Firenze, nonché coimputato di Tiziano Renzi nel processo Consip per traffico di influenze e turbativa d' asta. I due Matteo s' incontrano, si parlano in gran segreto e mettono a punto il timing dell'agguato a Conte per l'inizio del 2020, mentre in pubblico fingono di attaccarsi un giorno sì e l'altro pure. Il 15 ottobre Renzi sfida addirittura Salvini a Porta a Porta e l'altro accetta: 90 minuti di botte da orbi arbitrati da Bruno Vespa. Ma è tutta scena. Che cosa bolle davvero nel loro pentolone lo rivela l'onorevole Grimoldi ai consiglieri leghisti esattamente sei giorni dopo: "Che cosa volevo dirvi di politicamente rilevante? Che riteniamo che Conte abbia i giorni contati. Questo non vuol dire che riusciremo ad andare a votare come vogliamo. Ma molto probabilmente, dopo la legge di Stabilità, Renzi in testa ma non solo Renzi andranno a batter cassa per avere ulteriori spazi politici". Sono informazioni riservate, di cui non c' è traccia sui giornali. Il governo è nato da un mese e mezzo e nessuno immagina che, al netto di qualche scaramuccia fra 5 Stelle e Pd da una parte e Iv dall' altra sulle tasse "green", sia già agli sgoccioli. Evidentemente Grimoldi ha saputo tutto da Salvini o dai pochi altri ammessi al suo inner circle. Il deputato spiega il movente che spinge Renzi a liberarsi del premier: "Molto probabilmente Conte verrà sacrificato sull' altare degli interessi di chi tiene in piedi questo governo e vuole avere spazio politico, cosa che non mi dispiace assolutamente, anzi, però tant' è". In pratica Renzi - forte del controllo ferreo sui gruppi parlamentari del Pd, dove il neosegretario Nicola Zingaretti è in minoranza - prima sventa le elezioni anticipate con il Conte-2; e poi lavora per affossarlo e creare un altro governo, con un premier diverso (meno popolare e meno "grillino") e una coalizione di larghe intese che gli consenta di giocare di sponda con gli amici di Forza Italia e della Lega. Un disegno che ha subito condiviso con Salvini: altrimenti Grimoldi non lo conoscerebbe fin nei minimi dettagli. Eccoli. "Che cosa vogliono fare? È ovvio che Renzi, dall' alto del suo 3, 4 o 5 per cento, nonostante riesca a occupare mediaticamente ampi spazi, vuole rappresentare quell' area di persone normali (mormorii in sala: qualcuno fa notare che a fregare la Lega è stato proprio Renzi, ndr). Sì, Renzi nemico numero 1! Però all' interno di questa maggioranza non gli riesce difficile cercare di apparire come quello più normale. Se gli altri parlano dei pesci rossi, di dare il carcere se sbagli una fattura, di mettere la tassa sulle merendine o sulle bibite zuccherate, nel momento in cui lui fa una battaglia normale per dire che vuole difendere le partite Iva e non vuole aumentare le tasse, sembra un genio all' interno di questa maggioranza". Altro che nemico numero 1: Renzi è la sponda ideale per la Lega, per esempio contro le tasse "green" che tanto allarmano Confindustria e i padroni padani. Lui sì che, nell' ottica leghista, è "normale". E poi è un ottimo piede di porco per scardinare il governo. La Lega non otterrà le elezioni anticipate, ma il taxi Rignano-1 lo riporterà al potere. Ancora Grimoldi: "Zingaretti è in seria difficoltà, perché i gruppi parlamentari del Pd sono rimasti tali semplicemente perché Renzi gli ha detto di rimanere nel Pd. A cominciare dal capogruppo al Senato (Andrea Marcucci , ndr), ma anche alla Camera ne abbiamo diversi. Questi lui l'ha già detto, lo abbiamo sentito ieri (incomprensibile, ndr) non fa segreto che da qui alla fine dell'anno i gruppi di Italia Viva aumenteranno ampiamente: lui adesso sta cercando di fare campagna acquisti in Forza Italia e nei 5 Stelle. Col nuovo anno ne farà tornare all' ovile non pochi invece dal Pd, che sono li momentaneamente congelati". Quindi Renzi ha detto a Salvini di tenersi pronto, perché a gennaio richiamerà le sue quinte colonne parcheggiate nel Pd, a partire dal capogruppo al Senato Marcucci, e sferrerà l'offensiva finale: "Si giocherà la partita per mettere un presidente del Consiglio quantomeno che a lui vada bene, e ovviamente si giocherà la partita per il presidente della Repubblica". Così la Lega non solo potrà rimettere piede al governo, uscendo dall' astinenza da potere cui l'ha condannata l'improvvida crisi del Papeete, ma parteciperà anche alla scelta del nuovo capo dello Stato. Che, grazie a Renzi, non sarà più appannaggio della maggioranza giallorosa a trazione 5 Stelle. Ma di una grande ammucchiata a trazione centrodestra. Poi ci si mette di mezzo il Covid-19, il piano dei due Matteo viene congelato e il Conticidio accantonato per cause di forza maggiore. Ma è solo rinviato di un anno. Voi capite, cari lettori, quanto è difficile credere che il Conte-2 sia caduto da solo perché aveva fallito, visto che i due Matteo avevano già deciso di pugnalarlo appena nato nella culla?

Ilario Lombardo per la Stampa il 30 maggio 2021. C' è un fatto che è tale al di là delle interpretazioni: un incontro tra un ex e un futuro premier che avviene alla vigilia della crisi del secondo governo di Giuseppe Conte. Mario Draghi telefona a Massimo D' Alema e lo invita nella sua casa romana, ai Parioli. Siamo agli inizi del dicembre 2020. Il rumore di fondo della politica sta diventando un'onda che travolgerà la maggioranza Pd-M5S-Leu. Matteo Renzi ha un disegno in testa: Conte cadrà. Draghi è un ex banchiere in pensione che da mesi viene evocato per sostituire l'avvocato a Palazzo Chigi. D' Alema non ha alcun incarico istituzionale ma è uno degli uomini più ascoltati da Conte. Draghi lo invita per sondare quanto fragile sia il destino del premier. O almeno è la versione che dà D' Alema dell'episodio svelato da Marco Travaglio nel suo ultimo libro «I segreti del Conticidio», dedicato alla fine del Conte II. «Le versioni dei due protagonisti divergono», scrive il direttore del Fatto. Secondo l'ex leader Ds, Draghi gli parla male del governo dell'avvocato, e non ha gradito che nel 2019 lo abbia candidato a commissario europeo. «È convinto - scrive Travaglio riportando il pensiero di D' Alema affidato a pochi amici - che l'esecutivo sia destinato a fallire e che occorra pensare a un'alternativa». D' Alema intuisce dove Draghi voglia andare a parare, gli consiglia di sostenere Conte e di attendere la candidatura al Quirinale. L'ex presidente Bce gli risponde: al Colle non ci si candida. Una risposta che agli occhi di D' Alema conferma l'intuizione iniziale: Draghi pensa di succedere non a Sergio Mattarella ma a Conte. Secondo la versione dell'ex banchiere - più «sfumata» secondo Travaglio -, affidata anch' essa a pochi fedelissimi, i due invece avrebbero parlato soprattutto di Cina, sfiorando di sfuggita la politica. Di certo, di Draghi a Palazzo Chigi si parlava e se ne sarebbe parlato fino alla notizia, pubblicata da «La Stampa» il 31 gennaio 2021, della telefonata nel pieno della crisi tra Mattarella e il banchiere. Quarantott' ore dopo la notizia, Mattarella chiama Draghi per l'incarico. Il tempismo avvalora la versione di D' Alema. E nonostante più volte l'ex Bce avesse detto di non essere interessato, è almeno da un anno che da più parti si faceva il suo nome. Complici anche i frequenti colloqui organizzati dal banchiere con i leader politici. Con Renzi e con Giancarlo Giorgetti, già prima della pandemia. Ma anche dopo, con Luigi Di Maio. Persino nel M5S si discuteva del probabile arrivo di Draghi. Travaglio racconta un altro episodio, che risale al 21 ottobre 2019. Al Pirellone, a Milano, Paolo Grimoldi, deputato della Lega, riunisce i consiglieri regionali. Non sa che quello che sta per dire verrà registrato. In quei giorni Italia Viva di Renzi è una creatura in fasce e non promette niente di buono per il neonato governo giallorosso. «Ha i giorni contati»: Grimoldi dice che se ne occuperà Renzi dopo la legge di Stabilità, facendo leva sui gruppi parlamentari dem ancora a lui fedeli, e lavorando di sponda con Salvini e Forza Italia per portare a una coalizione di larghe intese. Grimoldi è un fedelissimo di Giorgetti. Quattro giorni dopo, «La Stampa» scrive: «La profezia di Giorgetti: Governo tecnico e Draghi premier». È il 25 ottobre 2019. Tre mesi dopo la pandemia congelerà tutto per un anno.

Nyt, ecco come Draghi ha reso l’Italia un pezzo grosso in Eu. Otto Lanzavecchia per formiche.net il 15 aprile 2021. Oltreoceano si sono accorti del cambio di carattere della leadership italiana. Un pezzo a firma di Jason Horowitz uscito giovedì mattina sul New York Times incapsula l’approccio del primo ministro Mario Draghi alla questione vaccini in una frase, concisa ma potente: grazie ai “suoi rapporti europei e alla sua solida reputazione è riuscito a fare dell’Italia una potenza sul continente [europeo] come non lo è stata per decenni”. L’articolo si sofferma sulla “scossa” data all’Unione da Draghi a inizio marzo, quando quest’ultimo ha deciso di bloccare l’export di una partita di vaccini verso l’Australia. Un doppio movente: arginare la scarsità di fiale nell’Ue e soprattutto lanciare un segnale, volto a immaginarsi un’Europa più “muscolare” sul piano negoziale. L’azione del premier ha galvanizzato la leadership a Bruxelles che sembrava “addormentata sull’interruttore”, scrive Horowitz, rea di esserci andata troppo piano sulla strategia di ottenimento e distribuzione delle fiale. Nel giro di poche settimane, effettivamente, l’Ue ha autorizzato l’utilizzo di misure più stringenti per limitare l’export di vaccini. Quella storia si è svolta nel proscenio del Consiglio europeo, formato da tutti i leader delle varie nazioni. Nella prima riunione a cui ha partecipato, il 25 febbraio, Draghi ha criticato la presentazione ottimista della strategia vaccinale della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, chiamandola “poco rassicurante” ed esprimendo i suoi dubbi sui numeri di fornitura dati da AstraZeneca. Il premier ha poi implorato Bruxelles di alzare il tiro. Angela Merkel ed Emmanuel Macron lo hanno seguito a ruota. Dietro le quinte, intanto, Draghi chiamava i leader personalmente, scrive Horowitz. Tra tutte le personalità in campo von der Leyen era quella che lui conosceva meno, così si è premunito di mettersi in contatto e non lasciarla fuori dal giro. La scoperta di un lotto in Italia con destinazione Australia è stata per Draghi un’opportunità per complementare le sue critiche con un assist. “[Il blocco dell’export] è stata apprezzato a Bruxelles, secondo ufficiali nella Commissione, perché ha rimosso l’onere da von der Leyen e le ha dato una copertura politica, permettendole al contempo di sembrare dura per averla approvata”, scrive Horowitz, secondo cui l’episodio è un chiaro esempio di come Draghi costruisca relazioni di mutuo beneficio. In una successiva riunione del Consiglio, svoltasi il 25 marzo, ha mostrato i risultati. Von der Leyen ha autorizzato una limitazione di sei settimane sull’export di vaccini dall’Europa e Draghi è tornato a un ruolo di sostegno, ringraziandola per “tutto il lavoro svolto”. Secondo il corrispondente a Roma del NYT “l’esperimento australiano, come lo chiamano gli ufficiali a Bruxelles e in Italia, è stato un punto di svolta sia per l’Europa che per l’Italia. Ha anche dimostrato che Draghi, noto come l’ex presidente della Banca Centrale Europea che ha aiutato a salvare l’euro, era pronto a guidare l’Europa dalle retrovie, dove l’Italia si è trovata per anni, in ritardo rispetto ai suoi partner europei sul dinamismo economico e sulle indispensabili riforme”. La strategia Draghi è ravvisabile anche nella missione in Libia, scrive Horowitz, e nel duello verbale con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Un nuovo protagonismo che contraddistingue un Paese che sta ritrovando la sua statura internazionale sia fuori che dentro l’Europa. Come scrive l’ANSA, oggi a Bruxelles si è appreso che l’Italia è appena rientrata dopo anni nelle riunioni tra le quattro grandi potenze occidentali (Usa, Germania, Francia e Gran Bretagna) attraverso la partecipazione del ministro Luigi Di Maio.

Il dittatore e il Drago. Piccole Note il 15 aprile 2021 su Il Giornale. La battuta di Draghi su Erdogan “dittatore” ha fatto il giro del mondo. Tanto da essere riportata sul New York Times, in un pezzo agiografico per il nostro presidente del Consiglio, che si appresta a “fare dell’Italia una forza nel continente come non lo era da decenni”. Nell’articolo viene magnificata la nuova verve che incarnerebbe il nostro Presidente del Consiglio, al quale si dovrebbe anche la svolta dell’approccio europeo ai vaccini. Draghi avrebbe infatti convinto la Ue a non esportare i vaccini Astrazeneca, che avrebbero dovuto essere spediti in Australia, per soddisfare prima i bisogni nostrani. Una determinazione che avrebbe convinto le traballanti autorità di Bruxelles a una posa più muscolare nei confronti delle case farmaceutiche e quanto concerne. Vero o falso che sia, in realtà la nota su Draghi sembra più un salvagente per evitare al nostro, le ovvie ritorsioni turche e per evitargli i rimbrotti della Ue, che con Erdogan sta trattando, al solito, per la questione migranti (soldi in cambio di restrizioni degli stessi in campi di detenzione, o come si voglia chiamarli). Che è poi quel che Draghi è andato a trattare in Libia, hub di smistamento dei migranti in arrivo nel nostro Paese, oltre che a cercare di ripristinare il ruolo dell’Italia nel Paese, che abbisogna dell’energia prodotta in loco (una missione già in agenda, programmata dal precedente governo, non una immaginifica iniziativa del nostro…). In realtà Draghi in Europa sta facendo quel che sta facendo per l’Italia, poco o nulla, come è ormai evidente dai tanti provvedimenti che ricalcano, con poche migliorie, favorite dallo stemperamento della situazione emergenziale (non ha dovuto gestire l’impatto iniziale), e da una coesione governativa assente nel precedente governo. Non si tratta di sminuire la statura del presidente del Consiglio, quanto di riportare l’agiografia alla cronaca, e di prendere atto che Draghi, più che da dictator, come poteva legittimamente temersi per le modalità della sua ascesa, si sta muovendo con gesuitica flemma, privilegiando la gestione alla rivoluzione. Ha dalla sua i media, tanto impietosi sul passato governo quanto pronti all’indulgenza, e al silenzio, con questo. La clemenza dei media, mai tanto fautori di un governo, con fervore che si riverbera evidentemente oltreoceano, offre a Supermario carte mai godute da un Primo ministro d’Italia. Ma finora che la sfruttate pochino, come dimostra anche la campagna vaccinale, sempre precaria, nonostante gli annunci di una prossima vittoria. Patria di santi, eroi e navigatori, Draghi finora, più che eroe o santo, si è dimostrato un discreto navigatore, con navigazione che avrebbe potuto incontrare il primo scoglio con la battuta su Erdogan. Si è voluto porre sulla scia di Biden, che ha dato dell’assassinio a Putin, e allinearsi al nuovo vento che soffia da Washington, che parla di diritti umani, da cui quel “dittatore” affibbiato a Erdogan. Si può dire finalmente…Non tanto. Può dirlo l’America, che è Impero e, nonostante questo, peraltro non l’ha mai detto, perché la Turchia la teme, anche per il ruolo di nazione guida dei Fratelli musulmani. No, l’Italia non può permettersi certe libertà, né coi turchi né con altri. Mettersi contro Erdogan è rischioso, come ben sanno in Siria che le sue bande hanno straziato; o in Armenia, contro la quale ha appoggiato l’aggressore azero; o quelli del Donbass, in Ucraina, che nella guerra contro Kiev si sono trovati ad affrontare battaglioni di jihadisti inviati da Ankara; o gli stessi tedeschi, che, avendolo contrariato, si son visti piovere addosso milioni di rifugiati e altro. Certo, c’era da puntellare la missione in Libia, dove Draghi sta tentando di riguadagnare all’Italia spazi rubati dai turchi, ma metterseli contro non è poi una grande trovata. Il rischio di vedersi trascinati in scontri locali non va trascurato (morire per Tripoli?). Quando l’Italia era davvero grande, quando poteva interloquire con tutti quasi da pari a pari, evitava con cura certe pose muscolari, semplicemente perché non possiamo permettercele. Né Draghi può sperare che basti un articolo del New York Times o una pacca sulla spalla di qualche amico americano a evitargli ed evitarci guai, che se arriveranno, semmai attireranno addolorata partecipazione e null’altro. O davvero qualcuno spera che, in caso di scontri in Libia, gli Usa verranno a difenderci? O in caso si aprissero i rubinetti dei migranti, oggi sigillati dal Covid, qualcuno aprirà le porte di casa per impedire che ne veniamo sommersi? O ci sosterrà in caso di rappresaglie altre e più oscure? Il banchiere prestato alla politica deve ancora imparare l’arte della diplomazia. L’indulgenza diffusa l’aiuta, ma deve anche aiutarsi da sé. Anzitutto evitando di proporsi e proporre l’Italia come quel gigante politico che non è (se non per qualche giornalista da riporto). Il rischio di incappare in grane è alto, come accadde per la vicenda dei “marò”, che l’Italia approcciò con piglio da potenza, per poi risolversi a pietirne la scarcerazione dalle autorità indiane, che ovviamente nicchiarono. Draghi può imparare, speriamo lo faccia in fretta. A meno che non immagini la sua missione “atlantista” più importante di quella affidatagli dall’Italia. In tal caso, siamo nei guai. Si crede e si spera che non sia così.

Il falso parallelo. Draghi non è come Andreotti: l’unità nazionale si basava sui partiti, oggi sul loro fallimento. Claudio Martinelli su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. La formazione del governo Draghi è stata accompagnata dall’evocazione di un termine tanto impegnativo quanto sfuggente: unità nazionale. È stato scritto che le forze politiche, consapevoli del momento drammatico che sta vivendo il Paese, si sono convinte a mettere da parte divisioni e asperità per corrispondere all’appello del capo dello Stato e dare finalmente un contributo decisivo per uscire dalla pandemia e impostare la ripresa economica. È lecito chiedersi se le cose stiano realmente in questi termini e quali siano i precisi contorni di questa operazione. Poiché nella tradizione politico-parlamentare italiana il termine non è affatto nuovo, può essere utile tracciare un parallelismo storico per provare a soddisfare questi interrogativi. Come è noto, la mattina del 16 marzo 1978, il tragico giorno in cui venne rapito Aldo Moro e trucidata la sua scorta, il nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti si presentava in Parlamento per chiedere la fiducia. Di fronte a questo drammatico evento le procedure parlamentari subirono una brusca accelerazione e l’Esecutivo ottenne rapidamente la fiducia di entrambe le Camere. Era un monocolore Dc, che si reggeva su un’amplissima maggioranza assicurata dal voto favorevole di Pci, Psi, Psdi e Pri. Si insediava così il primo governo di unità nazionale dai tempi dei governi Parri e De Gasperi, in carica tra il 1945 e il 1947. Le peculiari circostanze in cui prese avvio il governo Andreotti IV non devono farci dimenticare quanto quella stagione politica fosse stata lungamente preparata e favorita, in particolare per opera di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Il primo fin dal 1973 aveva avviato una riflessione sulla necessità di un incontro tra le masse cattoliche e comuniste, in nome dei comuni valori della resistenza antifascista, per dare una risposta democratica alle nuove istanze che emergevano dai mutamenti della società italiana e soprattutto per assicurare alcuni efficaci rimedi ai principali problemi che la prima parte degli anni Settanta aveva portato all’attenzione del Paese: un’economia pericolosamente in procinto di entrare nel tunnel della stagflazione e un rischio di involuzioni autoritarie pretestuosamente favorite dal moltiplicarsi di continui disordini di piazza. Questa riflessione, ulteriormente alimentata dal golpe di Pinochet in Cile, si manifestò con tre articoli pubblicati nell’autunno di quell’anno su Rinascita, la rivista culturale del Pci, con cui Berlinguer lanciò la proposta del “Compromesso storico”: appunto, un inserimento nell’area di governo del Partito comunista, compartecipe delle maggioranze parlamentari e delle compagini governative. Una proposta dirompente, dentro e fuori il partito, che ovviamente aveva bisogno di tempo per maturare. Il punto di svolta furono le elezioni politiche del 1976. L’elettorato si polarizzò fortemente sui due partiti maggiori, a scapito del Partito socialista e dei Laici. La mera riproposizione di una classica maggioranza di Centro-sinistra apparve subito difficile, ma non meno arduo sarebbe stato far accettare ai rispettivi elettorati una fattiva collaborazione tra Dc e Pci, che ovviamente si erano presentati come alternativi alle elezioni. In quel momento il sistema politico uscì dall’impasse facendo leva sulla flessibilità istituzionale consentita dalla Costituzione, ovvero con il governo della “non sfiducia”: un monocolore Dc, presieduto da Andreotti, che in Parlamento si reggeva sui voti favorevoli del solo partito di maggioranza relativa e sull’astensione di un amplissimo spettro di forze che andava dai Comunisti ai Liberali. Questo delicato equilibrio durò circa un anno e mezzo, un periodo di tempo che venne utilizzato dal presidente della Dc Aldo Moro, che più di tutti nel suo partito aveva prestato attenzione alla proposta di Berlinguer, per far decantare la situazione e per preparare il passaggio ulteriore: l’esplicito ingresso dei Comunisti nella maggioranza. Così, all’inizio del 1978 il governo della “non sfiducia” entra in crisi. Moro e Berlinguer guidano i rispettivi partiti, e le opinioni pubbliche di riferimento, verso la formazione di un nuovo governo, senza ministri del Pci ma con i Comunisti organicamente inseriti nella maggioranza parlamentare. Un nuovo monocolore democristiano, che proprio Moro volle presieduto ancora da Andreotti per dare un segno di continuità di fronte a un’operazione così innovativa e guardata con legittimo sospetto da ampi settori della società italiana, del suo partito e dal sistema di alleanze internazionali in cui eravamo collocati. Nasceva così il governo di “unità nazionale” che si presentò alle Camere quella fatidica mattina del 16 marzo 1978. Ebbene, al di là delle più articolate opinioni che chiunque può avere su quella stagione, le sue premesse concettuali, i risultati ottenuti o mancati, la brevità che la caratterizzò (si dissolse con le elezioni anticipate del 1979), non vi è dubbio che si trattò di un esempio di alta politica, un momento in cui i partiti sentivano di avere un rapporto di rappresentanza con l’opinione pubblica ancora talmente radicato da potersi permettere di proporre formule politiche ardite e non facilmente gestibili, ma di prepararle con una semina intellettuale che avrebbe potuto dare frutti solo a medio termine. Insomma, un’assunzione di responsabilità da parte del ceto politico, un farsi carico dei problemi per cercare soluzioni nuove, equilibri più avanzati, consensi trasversali. Dunque, una stagione certamente non esente da aspetti discutibili ma in cui le élite politiche esercitavano un ruolo di traino, di vera leadership, tutt’altro che meramente mediatica, anzi quanto mai concreta e riconosciuta. Una politica in cui era ancora possibile distinguere tra posizionamenti tattici contingenti e visioni strategiche di ampio respiro che riflettevano una visione dell’Italia e dell’indirizzo che le si voleva imprimere. Tornando ai nostri giorni, non si può non rilevare come invece il governo Draghi nasca sulle macerie di una legislatura alquanto bizzarra, in cui il sistema dei partiti ha ripetutamente cercato soluzioni spregiudicate e di pronto utilizzo, fondate più su calcoli di convenienza immediata che sulla condivisione di progetti strategici, fallendo nel tentativo di assicurare stabilità e continuità, nonostante la sperimentazione di una strada mai battuta prima forse in nessun Paese a democrazia stabilizzata: affidare la guida dell’Esecutivo alla stessa persona pur mutando indirizzi programmatici, maggioranze parlamentari e compagini ministeriali. Un capolavoro di trasformismo che fin troppo scopertamente mostrava di avere il respiro corto. Alla fine proprio questa propensione a non attribuire alcuna valenza reale alle prese di posizione ha finito per inghiottire se stessa. L’ultimo giro di valzer in Parlamento è fallito e ha causato un capitombolo dei ballerini. Il discorso del presidente Mattarella al Quirinale, la sera del conferimento dell’incarico a Draghi, ha posto la parola fine su questi giochi di potere e ha chiamato in campo le “riserve della Repubblica”, basti pensare al nuovo presidente del Consiglio o alla ex presidente della Corte Costituzionale. Un’extrema ratio cui nella recente storia politica italiana si fa ricorso quando il sistema dei partiti fallisce ai suoi compiti essenziali. Il fatto che nella compagine governativa siano presenti un gran numero di esponenti politici dimostra semmai che i “due Presidenti” hanno ritenuto opportuno battere la strada della corresponsabilizzazione diretta delle forze politiche, per evitare lo sgradevole spettacolo dello scarico di responsabilità che i partiti misero in atto con il governo Monti. Dunque, è corretto affermare che oggi ci troviamo di fronte a un governo di unità nazionale, che addirittura vede rappresentate contemporaneamente in Consiglio dei ministri forze politiche talmente antitetiche da giurare fino a pochi giorni fa che mai e poi mai avrebbero governato insieme, e tuttavia si deve tenere presente che con questa espressione si possono intendere operazioni politiche dai caratteri opposti: la politica che guida e la politica che subisce; i partiti che rappresentano e interpretano i bisogni della società e i partiti che non riescono a dare una prospettiva. Credo che questa sia una chiave da tenere ben presente nei prossimi mesi per dare una lettura realistica della vita del governo Draghi.

Perché la Lega per Salvini Premier non può stare al governo. Alberto Veronesi, Direttore d'orchestra, su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Abbiamo sentito la presentazione del programma del presidente Draghi. Egli dice: “noi abbiamo la responsabilità di avviare una nuova ricostruzione. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale….. Alla ricostruzione del dopoguerra collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte…. questa é la nostra missione di italiani, consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.” Dice anche: “Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Condividere questo governo significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. …Gli Stati nazionali nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa”. Cerchiamo di chiarire il riferimento al secondo dopoguerra. Nel dopoguerra, da un punto di vista sociale ed economico , vi era certamente una situazione simile a quella odierna: erano state rase al suolo 2 milioni di abitazioni e 5 milioni di esse avevano bisogno di urgenti ristrutturazioni, quasi il 10% di tutte le attività produttive erano cancellate, e ben il 25% nel settore metallurgico. Il Pil era caduto del 45%, le comunicazioni e i trasporti erano in condizioni drammatiche con il 50% dei binari e dei ponti inagibili. Mentre, come disse Ferruccio Parri nel ‘45 gli italiani erano “impegnati a sbarcare il lunario”, vi erano 2 milioni di nuovi disoccupati, oltre alla tragedia dei soldati morti o mutilati o invalidi, e gli oltre un milione di soldati prigionieri o deportati in Africa, Germania, Russia e Estremo Oriente, di cui si erano perse le tracce, e che sarebbero tornati anche dopo anni. In una tale devastazione, allora come oggi, nacque un governo di unità nazionale, frutto della riunione di tutti i partiti avversi al fascismo. Vi era la Dc, nata in clandestinità nel ‘42, che aveva una doppia anima: antifascista e interclassista la prima, che si rifaceva alla dottrina sociale della chiesa del Codice di Camaldoli, rivolta al bene comune, alla solidarietà, alla dignità della persona umana, all’uguaglianza dei diritti; e conservatrice e clericale la seconda, formata da tutti coloro che avevano costituito la base del consenso fascista: l’esercito, la magistratura, il pubblico impiego, i ceti urbani e rurali. Vi era il Partito Comunista, costituito dalla classe operaia e dal ceto artigiano, basato sulla dottrina di Gramsci e di Togliatti di un “partito nuovo”, che pur avendo un legame con l’Unione Sovietica di Stalin e con il movimento comunista internazionale, promuoveva la cosiddetta “via italiana al socialismo”, attraverso la democrazia e il rifiuto della violenza. Vi era poi il partito socialista di Pietro Nenni, radicato nel proletariato urbano e delle campagne, anch’esso diviso tra i “fusionisti” di Basso che volevano una maggiore vicinanza al PCI e gli “autonomisti” di Saragat e Pertini. Vi era inoltre il Partito d’Azione di Parri, Lussu, La Malfa e Salvatorelli, un partito fortemente antifascista, basato sull’ideologia liberal democratica e liberal socialista di Piero Gobetti, dei fratelli Rosselli e del filone risorgimentale di Mazzini. Questo partito, di centro ma progressista, non tardò a scindersi in una parte maggioritaria confluita nel PSI e in una minoritaria nel Partito Repubblicano, tra cui lo stesso Parri e La Malfa, infine una parte ancora più piccola, guidata da Calamandrei, confluì nel PSDI di Saragat. Vi era poi il partito di Benedetto Croce, di Einaudi e De Nicola, il partito liberale, un partito monarchico parlamentare che dava l’appoggio alle politiche liberiste e che guardava con simpatia alla continuità con la storia dell’Italia pre bellica. Vi erano infine sia il Partito del MSI di Giorgio Almirante, di ispirazione nazionalista, antidemocratica, bellicista, antiparlamentare e razzista, che raccoglieva dichiaratamente parte di quei milioni di fascisti che non sparirono da un giorno all’altro, sia il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, il cui giornale nel 1945 vendette 850.000 copie e il cui motto era “non ci rompete le scatole”. Questi due partiti raccoglievano sia i fascisti nostalgici sia i cosiddetti “attendisti”, cioè coloro che non si erano mai schierati né con il fascismo né con l’antifascismo, la cosiddetta maggioranza silenziosa.

Alle prime elezioni del giugno 1946 il corpo sociale e politico degli italiani risultava dunque così diviso: Dc, partito di centro, con il 35,2%, PSI e PCI, il cosiddetto “blocco del popolo” che, sommati tra loro, raggiunsero quasi il 40%, e un restante fronte antifascista formato da PLI, PRI e partito d’Azione che raggruppati davano circa un ulteriore 13%. Si era quindi formato un vastissimo fronte progressista e democratico, un vasto spazio per dare corpo alle istanze più prettamente antifasciste, e potremmo scommettere che se si fosse saldato il fronte repubblicano, liberale con il blocco del popolo, raggiungendo il 53% dei consensi si sarebbe lasciata fuori la Democrazia cristiana e si sarebbe avuta una storia ben diversa dell’Italia. Ma Pci e Psi erano divisi, la maggioranza relativa spettava dunque alla Dc, così come l’onere di formare il governo. La rottura del fronte popolare aveva dato il bel risultato di consegnare il paese alla Democrazia Cristiana. Va però detto che la Dc, con il primo e il secondo governo De Gasperi, dopo la breve esperienza di Parri, operò con equilibrio creando il governo cosiddetto “della Resistenza”, cioè un governo formato da tutto il fronte antifascista -Dc, Pci, Psi, Pri- governo che nei due anni dal ‘45 al ‘47 diede un contributo a defascistizzare l’alta burocrazia, a epurare dalla direzione del Paese quegli elementi che si erano macchiati di crimini razzisti e fascisti, a creare e istituzionalizzare i primi “comitati di fabbrica”, a introdurre la cosiddetta “scala mobile” e avviare il progresso economico nazionale verso una certa unità delle forze del lavoro e del capitale. Ma nel ‘47 gli Stati Uniti diedero un aut aut a De Gasperi: la “dottrina Truman” prevedeva che potessero essere finanziati con il piano Marshall esclusivamente quei paesi che non accogliessero partiti socialisti o comunisti al governo e che operassero fortemente per la difesa degli accordi di Jalta. Nel maggio ‘47 inizió quindi il lungo esilio dalla direzione politica del paese dei partiti del socialismo italiano, dei partiti espressione dei lavoratori e delle classi subalterne. Cinquant’anni di vera e propria dittatura della Democrazia Cristiana che, facendosi forte della pregiudiziale comunista, si permise qualsiasi abuso, qualsiasi corruzione, qualsiasi degenerazione, finanche, la saldatura con le correnti dei siciliani Lima e Ciancimino, che agivano in accordo con l’organizzazione mafiosa, in un’epoca in cui la magistratura, sempre in nome dell’anticomunismo pregiudiziale, ha sempre operato verso questo partito con una innegabile indulgenza (non é un caso che Mani Pulite sia scoppiata appena dopo la caduta del muro….). Oggi che la pandemia ci ha riportato alla situazione tragica di quegli anni, con i terribili numeri citati dal presidente Draghi, 93.000 morti, 2.800.000 cittadini colpiti dal virus, la diminuzione della aspettativa di vita di due anni su tutta la popolazione italiana, la incidenza dei “ nuovi poveri” che passa dal 31% al 45% nelle rilevazioni della Caritas, 450.000 nuovi disoccupati, soprattutto giovani e donne, e con l’aumento in solo un anno del 4% nelle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, e con la prospettiva di non riprendere i ritmi economici pre pandemia non prima della fine del 2022, oggi, in questa tragedia, si diceva, ci si pone di fronte ad una situazione simile. È stato infatti proprio il Presidente Draghi a rifarsi idealmente, nel descrivere il proprio governo, ad un governo “della Ricostruzione”, richiamando proprio la composizione del primo e secondo governo De Gasperi, composto da forze contrapposte: “alla ricostruzione del dopoguerra collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte”. L’operazione Draghi ha quindi portato, esattamente come nel primo governo De Gasperi, esponenti di fronti opposti in un unico governo, riunendo ora sotto un unico ombrello europeista e atlantista quel fronte vasto che allora si riunì sotto l’ombrello antifascista. Ma così come dopo solo due anni di governo, Truman mise una pregiudiziale sui fondi Marshall, oggi, l’Europa dovrebbe mettere una pregiudiziale sui fondi Recovery: essi non dovrebbero andare a quei governi che presentino nella propria compagine partiti che si rifanno all’antieuropeismo e alla sovranità della nazione e del popolo. Si applichi la stessa misura, la stessa discriminazione che fu operata nel ‘47, la stessa dottrina ad excludendum, allora contro la partecipazione al potere dei comunisti, oggi contro la partecipazione al potere dei sovranisti.

Lo Statuto della “Lega per Salvini Premier” esprime all’articolo 1 due soli principi: “Italia repubblica federale” e “sovranità del popolo italiano a livello europeo”. La Lega per Salvini Premier aderisce al partito “Identità e Democrazia” che all’art.2 riporta espressamente: “rifiutare qualsiasi politica volta a creare un Super Stato o qualsiasi modello sovranazionale”, nella “opposizione a qualsiasi trasferimento della sovranità nazionale a organi sovranazionali e/o istituzioni europee”. All’art.3 si legge che: “obbiettivo della azione politica è la conservazione dell’identità dei popoli e delle nazioni d’Europa, in conformità con le caratteristiche specifiche di ogni popolo. Il diritto di controllare e regolare l’immigrazione è conseguentemente un principio fondamentale”. Ora, questi principi sono in contraddizione con le parole di Draghi. La Lega è un partito, per Statuto, anti europeista. Non si cambia la identità di un partito in una settimana. Così come gli Stati Uniti nel ‘47 imposero all’Italia di impedire la condivisione del governo italiano con il partito comunista e il partito socialista, oggi l’Europa deve imporre all’Italia di escludere dal governo la Lega per Salvini Premier. Nel ‘47 non bastò a Togliatti promuovere la via italiana e democratica al socialismo per essere riammesso al governo, oggi non può bastare a Salvini una battuta “Draghi ha sempre ragione” per essere ammesso ad un governo sostenuto dall’Europa. Il Pd e gli altri partiti della maggioranza Ursula, almeno quelli di sinistra, dovrebbero pretendere dall’Europa che la Lega sia bandita dal governo italiano: non possono essere gestiti i fondi europei da chi ha votato contro il Next Generation. È appena il caso di ricordare che la Costituzione italiana non é ancora realizzata in Italia. È ora il momento di far finalmente valere quella Costituzione nata dal confronto di quei partiti fortemente antifascisti eletti nella Assemblea Costituente, una Costituzione avanzata e progressista che prevede specifici obbiettivi di partecipazione dei lavoratori alla vita economica e politica del paese, che prevede una pacificazione, finalmente, tra le forze produttrici in Italia, da sempre tenute ostaggio di un capitalismo speculativo e monopolistico, spesso di carattere parassitario, che di fatto, ha ostacolato anche la crescita economica e il progresso civile e sociale del paese. Sta alle forze democratiche, non esclusa la sinistra cosiddetta “populista”, essere capaci di esprimere una direzione del paese, pretendendo immediatamente un nuovo protagonismo dei lavoratori organizzati, dei giovani, degli imprenditori innovativi e di tutta la comunità produttiva. Il Pd deve essere, se vuole dimostrarsi all’altezza della propria storia, protagonista di questa fase. Deve saper lanciare un forte appello unitario a tutto il mondo del lavoro, agli operai, agli artigiani, agli impiegati dei servizi, ai liberi professionisti, alle partite iva, ai tecnici, al pubblico impiego, a tutti coloro che creano valore ma non gestiscono valore, quindi anche ai piccoli imprenditori, agli imprenditori illuminati e ai neo imprenditori, ai giovani in cerca di occupazione, all’immenso potenziale inespresso delle donne italiane, ai ricercatori, agli intellettuali, ai precari, agli sfruttati, ai senza diritti, per creare un grande movimento unitario che esprima una unica idea: la svolta europea deve essere anche una svolta democratica, legata ad una nuova partecipazione dei lavoratori, dei giovani, degli imprenditori innovativi, alla direzione economica e politica del paese, e queste premesse non possono essere realizzate con la Lega che siede nello stesso governo. La Lega é altro, oggi non può governare l’Italia, e le forze democratiche, riformiste e di sinistra hanno dimostrato eccessiva generosità nel permettere questo passaggio. Appena passata l’emergenza, il paese deve insorgere contro le capriole e i salti mortali di un partito che vota contro l’Europa e poi ne vuole gestire i fondi, che esalta il più becero sovranismo e poi appoggia un governo che vuole cedere quote della propria sovranità, che vuole sparare sui migranti e poi appoggia un governo che vuole risolvere con l’Europa i flussi di immigrati. È troppo facile fare politica in questa maniera e non è giusto permettere e tollerare tutto questo. Il presidente Draghi ci ha detto che “l’unità é un dovere guidato dall’amore per l’Italia”. Siamo certamente d’accordo con il presidente, ma nel dopoguerra, e fino al 1990, l’atlantismo della Democrazia cristiana non si pose il problema dell’”unità”, nell’escludere dalla partecipazione al governo 12 milioni di elettori italiani rappresentati dal Partito comunista.

Il governo Draghi è il sessantasettesimo esecutivo della Repubblica Italiana e il terzo della XVIII legislatura, in carica dal 13 febbraio 2021. Una legislatura in cui sono state sperimentate tutte le formule politiche possibili. Prima il governo giallo-verde, tra la Lega ed i 5 Stelle. Quindi il governo giallo-rosso, con alla guida sempre lo stesso Giuseppe Conte. Poi il Governoi Draghi: tutti insieme appasionatamente. Rimane fuori solo la Meloni de Fratelli D'Italia, perdendo l'occasione di legittimarsi ali occhi della storia e di scrollarsi dalle spalle quella diceria di eterni eredi del fascismo totalitario.

Una terza repubblica diversa dalle precedenti. Carlo Valentini su Italiaoggi - numero 032 - pag.2 del 9 febbraio 2021. È certamente una missione decisiva quella affidata a Mario Draghi di estrarre il Paese dalle sabbie mobili e dargli una prospettiva di sviluppo economico. C'è però un obiettivo almeno altrettanto importante che è auspicabile egli raggiunga, quello della svolta in senso liberista della politica italiana, con destra e sinistra capaci di confrontarsi avendo una comune matrice, quella di riconoscere il merito e facilitare chi vuole intraprendere o sviluppare un'attività, abbandonando la più facile ma inconcludente declinazione dei contributi e dei sussidi. Perché il liberismo? Perché si propone di sostenere le potenzialità di ogni individuo, ovviamente nel rispetto dei doveri nei confronti di uno Stato che deve tendere a ridurre le differenze economiche ma senza imporre un'uguaglianza artificiale che umilia la diversità. È quello che è mancato finora e che si sta pagando con l'arretramento del sistema economico e quindi del livello di benessere. La caduta del pil italiano è drammatica e le colpe vanno al di là della pandemia. Le capacità di Draghi non solo dovranno respingere le spinte a mantenere lo status quo in modo da rinvigorire una società esausta ma anche portarla alla maturità di un liberismo condiviso, in grado di non deprimerne le potenzialità. L'exploit elettorale di Silvio Berlusconi quando decise il suo impegno politico fu determinato dalle speranze che accese presentandosi come fautore di un liberismo che avrebbe dovuto cancellare le reminiscenze ideologiche di ogni colore e riportare l'Italia entro l'alveo europeo. Per molte ragioni quell'obiettivo non è stato raggiunto, le energie migliori non sono state valorizzate ma al contrario è continuato il loro imbrigliamento in lacci e lacciuoli da parte di anacronistiche rendite di posizione, mentre la politica ha continuato ad essere incartata su se stessa e a proporre un populismo spendaccione e l'assalto ai fondi pubblici. Ecco perché sono senza dubbio importanti gli uomini e i programmi che il neopresidente del consiglio metterà in campo ma lo vorremmo statista in grado di gettare i semi (e farli crescere) di una Terza repubblica sostanzialmente diversa da quelle che l'hanno preceduta. Le aperture al dialogo di Lega e M5s, che guardavano con sospetto all'Europa e al liberismo, fanno ben sperare per un futuro ordinato dialogo politico, con l'Italia finalmente catapultata a co-guidare l'Europa e a riscoprire il proprio valore.

La morte della Terza Repubblica. Felice Saulino il 12 febbraio 2021 su avantionline.it. L’immagine dei rappresentanti politici seduti al lungo tavolo rettangolare della sala di Montecitorio di fronte al presidente incaricato Mario Draghi, che se ne sta da solo e riempie pagine di appunti, fotografa perfettamente il personaggio. Niente social, nessuno staff per la comunicazione, pochissime parole. Un marziano. Freddo, gentile, riservato. Il volto immobile di una sfinge, che lo rende impenetrabile, non lo fa nemmeno assomigliare a un italiano nato e cresciuto a Roma. Il nuovo governo guidato dall’ex presidente della Bce è previsto per fine settimana, ma la sua composizione resterà top secret fino alla presentazione della lista dei ministri al Quirinale. Ricevuto l’incarico, SuperMario ha fatto una dichiarazione nella sala stampa del Quirinale. Due minuti e mezzo in tutto. Un record. Ma sufficienti per definire subito il perimetro: governo di “emergenza nazionale”. Giustificato dalla pandemia, certo, ma anche dal fallimento dei partiti politici. Con buona pace di chi a botta calda invocava ancora una “maggioranza politica”. Nel giro di 48 ore, la morte della Terza Repubblica veniva certificata dall’azzeramento del quadro politico nazionale e dalla resa senza condizioni dei leader politici. Tutti, a destra e a sinistra. Seduto di fronte al “marziano”, che continuava a prendere appunti, ogni rappresentante di partito, ha dovuto bere il suo amaro calice. Salvini, la fine del sovranismo e il no alla flat tax. Grillo, il governo con Berlusconi e non solo. Zingaretti, la fine della “centralità” del Pd che si era impiccato da solo, puntando tutto su Conte e sulla maggioranza giallo-rossa. Anche sui ministri, non c’è stato niente da fare. A chi gli chiedeva con quale criterio avrebbe scelto i responsabili dei dicasteri, il “marziano” rispondeva invariabilmente: «Con un solo criterio, quello della competenza». Anche al momento del congedo il saluto agli ospiti era sempre lo stesso: «Ci vediamo in Parlamento…».

Con Mario Draghi muore la Terza Repubblica. Gian Franco Bottini il 04/02/2021 su Malpensa24. In queste caotiche giornate nelle quali le tre crisi in atto (politica, sanitaria , economica) si sono aggrovigliate e sovrapposte, si sta accentuando nel Paese uno stato di tensione e preoccupazione entro il quale si rischia di far esplodere una quarta criticità: quella sociale. Il Presidente Mattarella ha colto l’emergenza del momento e affidando a Mario Draghi l’incarico di formare un Governo, ha praticamente decretato il de profundis della Terza Repubblica. Semplificando, per chi non si ricorda, la Seconda Repubblica iniziò intorno al 1994 sotto i colpi di Tangentopoli, la Terza all’incirca intorno al 2013 con l’esplosione dei 5 Stelle e la trasformazione del contesto politico da bipolare in tripolare, la Quarta ha da venire sulle macerie della precedente e avrà sicuramente grandi difficoltà di parto. Una vita travagliata quella della Terza Repubblica, durante la quale Renzi premier, con un referendum costituzionale, provò a dare un assetto istituzionale più moderno, ma il tentativo, andato a vuoto, fu seguito da fatti e tribolazioni ben note. Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando dire che il sistema partitico si è “ sfarinato” ci pare di non dir nulla che sia fuori dalla realtà. Altro non si può aggiungere di fronte ad un Presidente della Repubblica costretto alla creazione di  un Governo la cui natura , parlando di uno stato in regime democratico come il nostro, significa una sorta di commissariamento della politica, oramai incapace di trovare in se stessa le sue ragion d’ essere ed a un livello di conflittualità partitica , anche sul piano personale, degno di un Consiglio Comunale di uno delle nostre valli. Il Presidente Mattarella , rivolgendosi direttamente alla gente, ha spiegato chiaramente i rischi e le difficoltà nelle quali il Paese incorrerebbe nell’andare in questo momento alle elezioni e rivolgendosi ai Partiti, con una espressione facciale inequivocabile, ha chiesto, in parole povere, di pensare alle difficoltà della gente e non alle loro convenienze (aggiungiamo noi!) anche personali. Non sappiamo come finirà questa amara e pericolosa vicenda; essa comunque ci consente, già fin da ora, alcune evidenti considerazioni. Renzi , rispetto all’opinione pubblica, ha la responsabilità di aver “fatto casino” e creata la crisi e di questo, a breve termine, pagherà probabilmente lo scotto in termini di consenso. Non si può comunque negare che alcuni punti da lui sollevati hanno dimostrato di avere una loro credibilità e consistenza, se è vero come è vero che hanno messo a nudo la debolezza di un Governo che non ha retto al primo urto e non ha saputo, o peggio voluto, dare delle risposte. La figura di Draghi, l’”uomo che ha salvato l’euro”, dovrebbe essere il simbolo di tutte quelle forze che nel corso della crisi hanno alzato come faro di riferimento l’Europa. Per questo, a destra o a sinistra che siano, sarebbe per loro sicuramente imbarazzante dirgli ora di no! Ma non solo. La situazione sta creando motivi di divaricazione nell’ambito dello schieramento giallo-rosso e di spaccature nell’ambito dei singoli partiti; un po’ meno nel PD, molto di più nell’ambito dei 5 Stelle, che sul consenso a Draghi rischiamo di esplodere. Meglio non avviene però nel centro destra , dove la presunta compattezza rischia di andare a funghi, come del resto già avvenne ai tempi del governo Salvini-Di Maio. FdI infatti vuole monetizzare subito il suo presunto consenso con una chiamata al voto che ignora cinicamente le preoccupazioni del Presidente; F.I., di contro, vede in Draghi un terreno a essa molto congegnale; la Lega di Giorgetti ha da tempo espresso il suo gradimento su una ipotesi Draghi, scelta che toglierebbe il partito dall’isolamento europeo, mentre la Lega di Salvini deve gestire le residue idee di un sovranismo da Papete, oramai in disuso. Questo confuso scenario avrà delle ricadute anche in sede locale, dove già sono sotto gli occhi di tutti le difficoltà e l’impotenza dei partiti ad uscire dalla nebbia di un reciproco “arroccarsi”; così si spiega il loro affannoso richiamo di aiuto a quel “laico civismo” estraneo alle decrepite liturgie dei partiti stessi.

Vedo ancora ossessioni nella Repubblica di Molinari. Gianfranco Polillo su startmag.it l'11 febbraio 2021. Perché toni e titoli del quotidiano la Repubblica diretto da Maurizio Molinari ieri hanno deluso Gianfranco Polillo. Chi si aspettava una ventata di aria nuova nella redazione de La Repubblica, con l’avvento di Maurizio Molinari, avrà, almeno finora, subito una cocente delusione. Le premesse c’erano tutte. Il neo direttore, nella sua precedente vita professionale alla direzione de La Stampa, aveva dato prova di un grande equilibrio. Toni sommessi. Ragionamenti invece di invettive. Profonda conoscenza dei temi. Insomma: un giornalismo professionale e non la dépendance di un qualche partito politico. L’edizione di ieri del quotidiano, fondato da Eugenio Scalfari, ha fatto impressione. A partire dallo strillo in prima pagina: “Governo, Draghi detta le condizioni a Salvini”. In quelle interne, dedicate alla politica, il seguito, a firma di Tommaso Ciriaco: “Dal fisco ai diritti umani i paletti di Draghi a Salvini”. Subito dopo Carmelo Lopapa: “Il leghista si piega al diktat ‘Noi ci saremo comunque’ E in Ue vota sì al Recovery”. Quindi l’intervista ad Antonio Misiani (Pd): “Un rischio la coabitazione con Salvini ma ci fidiamo del premier”. Senza contare l’apertura, sempre in prima di Francesco Bei: “La maschera del sovranista”. Articolo sempre rivolto all’incubo Salvini. Se non vi fosse stata la voce rassicurante di Stefano Folli, saremmo ad uno dei numeri peggiori della vecchia Pravda, di comunista memoria. Da dove nasce quest’ossessione? Da quel settarismo congenito che ha sempre caratterizzato la sinistra italiana. Con un’accentuazione maggiore per i vecchi comunisti. Settarismo, declinato in modo diverso: il destino salvifico della classe operaia, la diversità comunista rivendicata da Enrico Berlinguer e la sua separatezza, una visione del mondo, come dicevano le teste d’uova del Partito, che aveva come base il superamento della filosofia classica tedesca. Tante parole, necessarie per tener unito un esercito che, a volte, rischiava di sbandare. Di subire le sirene di quel riformismo, di cui oggi il Pd si riempie la bocca, ma che, fino ad un recente passato, era considerato una bestemmia. Nella cultura del ‘900 queste forme, nonostante il loro parossismo, potevano avere una qualche giustificazione nelle temperie di quei tempi. Due guerre mondiali, costate milioni di morti, avevano legittimato forme di condanna, senza possibilità d’appello, delle vecchie classi dirigenti. Non si dimentichi la genesi della rivoluzione d’ottobre. La parola d’ordine di Lenin “guerra alla guerra”, in pieno conflitto mondiale, cementò una storia destinata a durare per oltre ottant’anni. Una storia, per altro, tutt’altro che esente da colpe e contraddizioni. Una legislatura in cui sono state sperimentate tutte le formule politiche possibili. Prima il governo giallo-verde, tra la Lega ed i 5 Stelle. Quindi il governo giallo-rosso, con alla guida sempre lo stesso Giuseppe Conte. Ma oggi? Che senso ha mantenere inalterate quelle pregiudiziali? Specie se riferite al travaglio che l’Italia sta vivendo. Siamo reduci da una legislatura in cui sono state sperimentate tutte le formule politiche possibili. Prima il governo giallo-verde, tra la Lega ed i 5 Stelle. Esperienza oggi, a quanto sembra, rinnegata dallo stesso Beppe Grillo, che allora la volle fermamente. Mentre ora esclude ogni possibilità d’accordo. Quindi il governo giallo-rosso, con alla guida sempre lo stesso Giuseppe Conte. Il “migliore” nella retorica grillina, salvo poi dover convenire sui limiti della politica seguita. Altrimenti, se avessero mantenuto il punto, non sarebbe rimasta altra via che le elezioni anticipate. Per i giornalisti di Repubblica sembra che queste cose, in Italia, non siano mai accadute. Contano, solo le giravolte di Matteo Salvini, da inchiodare sulla croce dell’incoerenza. Del tutto indifferenti di fronte a quel drammatico contesto che sta mettendo in gioco le sorti dell’intero Paese. E che giustifica, in qualche modo, le nuove posizioni assunte dallo stesso Salvini. Ma a chi volete che importi se alla fine la Lega, insieme ad altri, sarà azionista del governo Draghi? L’importante è che l’ex governatore della Bce possa dare il suo contributo per risollevare il Paese dalla palude in cui si è infilato. Se godrà di una maggioranza più ampia tanto meglio. Altrimenti: tutti necessari, nessuno indispensabile. Se questa maggioranza, per le continue bizze dei partiti che hanno soprattuto un problema identitario, non vi sarà, non rimarrà che il ricorso alle urna. Ed ognuno si assumerà le proprie responsabilità. Gli elettori, a quanto sembra, hanno già fatto conoscere le loro preferenze. Vedono in Draghi l’uomo giusto al posto giusto. Quindi non capirebbero veti, rifiuti pregiudiziali, recriminazioni o qualsiasi altra cosa, che possa determinare un suo preventivo fallimento. Il che spiega perché gli articoli citati fanno impressione. Il loro stile è ancora quello del bel tempo antico. Quando le baruffe in casa democristiana o comunista facevano notizia. Anche se duravano lo spazio di un mattino. E così è stato: a distanza di poche ore il problema del perimetro della maggioranza è divenuto un ricordo del passato. E gli allarmi di Repubblica solo una brutta pagina di giornalismo militante.

IL DISCORSO INTEGRALE DEL PREMIER MARIO DRAGHI AL SENATO il 17 Febbraio 2021. Il discorso integrale pronunciato in Aula del Senato dal presidente del Consiglio Mario Draghi per chiedere la fiducia dell’Aula nel suo Governo.

"Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti. Ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno. Prima di illustrarvi il mio programma, vorrei rivolgere un altro pensiero, partecipato e solidale, a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari. Conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio e li ringraziamo. Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni. Ci impegniamo a informare i cittadini di con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole. Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour: "… le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività. Nel ringraziare, ancora una volta il presidente della Repubblica per l’onore dell’incarico che mi è stato assegnato, vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia. Ringrazio altresì il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia. Si è discusso molto sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dispensato una varietà infinita di formule. Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un Governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato. La crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un Paese. Si è detto e scritto che questo Governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità, ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità. Nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza. Siamo cittadini di un Paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato. 

Questo è lo spirito repubblicano del mio governo. La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo. Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione. L’Italia si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale con orgoglio e determinazione e mise le basi del miracolo economico grazie a investimenti e lavoro. Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale. A quella Ricostruzione collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte. Sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare, nella distinzione di ruoli e identità, il proprio apporto. Questa è la nostra missione di italiani: consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti. Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Una domanda che non possiamo eludere quando  aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l’auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo. Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori.  Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere. Siamo una grande potenza economica e culturale. Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato in questi anni, nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro. Dobbiamo essere più orgogliosi, più giusti e più generosi nei confronti del nostro Paese. E riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano.  

Lo stato del Paese dopo un anno di pandemia. Da quando è esplosa l’epidemia, ci sono stati ― i dati ufficiali sottostimano il fenomeno ― 92.522 morti, 2.725.106 cittadini colpiti dal virus, in questo momento 2.074 sono i ricoverati in terapia intensiva. Ci sono 259 morti tra gli operatori sanitari e 118.856 sono quelli contagiati, a dimostrazione di un enorme sacrificio sostenuto con generosità e impegno. Cifre che hanno messo a dura prova il sistema sanitario nazionale, sottraendo personale e risorse alla prevenzione e alla cura di altre patologie, con conseguenze pesanti sulla salute di tanti italiani. L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali. La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento. Si è anche aggravata la povertà. I dati dei centri di ascolto Caritas, che confrontano il periodo maggio-settembre del 2019 con lo stesso periodo del 2020, mostrano che da un anno all’altro l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che oggi si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Tra i nuovi poveri aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, degli italiani, che sono oggi la maggioranza (52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e delle persone in età lavorativa, di fasce di cittadini finora mai sfiorati dall’indigenza. Il numero totale di ore di Cassa integrazione per emergenza sanitaria dal 1 aprile al 31 dicembre dello scorso anno supera i 4 milioni. Nel 2020 gli occupati sono scesi di 444 mila unità ma il calo si è accentrato su contratti a termine (-393 mila) e lavoratori autonomi (-209). La pandemia ha finora ha colpito soprattutto giovani e donne, una disoccupazione selettiva ma che presto potrebbe iniziare a colpire anche i lavoratori con contratti  a tempo indeterminato. Gravi e con pochi precedenti storici gli effetti sulla diseguaglianza. In assenza di interventi pubblici il coefficiente di Gini, una misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, sarebbe aumentato, nel primo semestre del 2020 (secondo una recente stima), di 4 punti percentuali, rispetto al 34.8% del 2019. Questo aumento sarebbe stato maggiore di quello cumulato durante le due recenti recessioni. L’aumento nella diseguaglianza è stato tuttavia attenuato dalle reti di protezione presenti nel nostro sistema di sicurezza sociale, in particolare dai provvedimenti che dall’inizio della pandemia li hanno rafforzati. Rimane però il fatto che il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi. Le previsioni pubblicate la scorsa settimana dalla Commissione europea indicano che sebbene nel 2020 la recessione europea sia stata meno grave di quanto ci si aspettasse ― e che quindi già fra poco più di un anno si dovrebbero recuperare i livelli di attività economica pre-pandemia – in Italia questo non accadrà prima della fine del 2022, in un contesto in cui, prima della pandemia, non avevamo ancora recuperato pienamente gli effetti delle crisi del 2008-09 e del 2011-13. La diffusione del Covid ha provocato ferite profonde nelle nostre comunità, non solo sul piano sanitario ed economico, ma anche su quello culturale ed educativo. Le ragazze e i ragazzi hanno avuto, soprattutto quelli nelle scuole secondarie di secondo grado, il servizio scolastico attraverso la Didattica a Distanza che, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare diseguaglianze. Un dato chiarisce meglio la dinamica attuale: a fronte di 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, nella prima settimana di febbraio solo 1.039.372 studenti (il 61,2% del totale) ha avuto assicurato il servizio attraverso la Didattica a Distanza. 

Le priorità per ripartire. Questa situazione di emergenza senza precedenti impone di imboccare, con decisione e rapidità, una strada di unità e di impegno comune. Il piano di vaccinazione. Gli scienziati in soli 12 mesi hanno fatto un miracolo: non era mai accaduto che si riuscisse a produrre un nuovo vaccino in meno di un anno. La nostra prima sfida è, ottenutene le quantità sufficienti, distribuirlo rapidamente ed efficientemente. Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private. Facendo tesoro dell’esperienza fatta con i tamponi che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati. E soprattutto imparando da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi disponendo subito di quantità di vaccini adeguate. La velocità è essenziale non solo per proteggere gli individui e le loro comunità sociali, ma ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus.

Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). È questa la strada per rendere realmente esigibili i “Livelli essenziali di assistenza” e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La “casa come principale luogo di cura” è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata. La scuola: non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà. Occorre rivedere il disegno del percorso scolastico annuale. Allineare il calendario scolastico alle esigenze derivanti dall’esperienza vissuta dall’inizio della pandemia. Il ritorno a scuola deve avvenire in sicurezza. È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo. Infine è necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni. In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli ITIS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. E’ stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 md agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate. La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici. Occorre infine costruire sull’esperienza di didattica a distanza maturata nello scorso anno sviluppandone le potenzialità con l’impiego di strumenti digitali che potranno essere utilizzati nella didattica in presenza.

Oltre la pandemia. Quando usciremo, e usciremo, dalla pandemia, che mondo troveremo? Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di 12 mesi sia stata simile ad una lunga interruzione di corrente. Prima o poi la luce ritorna, e tutto ricomincia come prima. La scienza, ma semplicemente il buon senso, suggeriscono che potrebbe non essere così. Il riscaldamento del pianeta ha effetti diretti sulle nostre vite e sulla nostra salute, dall’inquinamento, alla fragilità idrogeologica, all’innalzamento del livelllo dei mari che potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili. Lo spazio che alcune megalopoli hanno sottratto alla natura potrebbe essere stata una delle cause della trasmissione del virus dagli animali all’uomo. Come ha detto papa Francesco “Le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore”. Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione,  agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori , biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane. Anche nel nostro Paese alcuni modelli di crescita dovranno cambiare. Ad esempio il modello di turismo, un’attività  che prima della pandemia rappresentava il 14 per cento del totale delle nostre attività economiche. Imprese e lavoratori in quel settore vanno aiutati ad uscire dal disastro creato dalla pandemia. Ma senza scordare che il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, cioè almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni attraverso molti secoli hanno saputo preservare e ci hanno tramandato. Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce. Questa osservazione, che gli scienziati non smettono di ripeterci, ha una conseguenza importante. Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi. La capacità di adattamento del nostro sistema produttivo e interventi senza precedenti hanno permesso di preservare la forza lavoro in un anno drammatico: sono stati sette milioni i lavoratori che hanno fruito di strumenti di integrazione salariale per un totale di 4 miliardi di ore. Grazie a tali misure, supportate anche dalla Commissione Europea mediante il programma SURE, è stato possibile limitare gli effetti negativi sull’occupazione. A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro, strategia che dovrà coordinare la sequenza degli interventi sul lavoro, sul credito e sul capitale. Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito. Il cambiamento climatico, come la pandemia, penalizza alcuni settori produttivi senza che vi sia un’espansione in altri settori che possa compensare. Dobbiamo quindi essere noi ad assicurare questa espansione e lo dobbiamo fare subito. La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create. Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta.

Parità di genere. La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro. Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese.

Il Mezzogiorno. Aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno. Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, investire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite. Vi sono poi strumenti specifici quali il credito d’imposta e altri interventi da concordare in sede europea. Per riuscire a spendere e spendere bene, utilizzando gli investimenti dedicati dal Next Generation EU occorre irrobustire le amministrazioni meridionali, anche guardando con attenzione all’esperienza di un passato che spesso ha deluso la speranza.

Gli investimenti pubblici. In tema di infrastrutture occorre investire sulla preparazione tecnica, legale ed economica dei funzionari pubblici per permettere alle amministrazioni di poter pianificare, progettare ed accelerare gli investimenti con certezza dei tempi, dei costi e in piena compatibilità con gli indirizzi di sostenibilità e crescita indicati nel Programma nazionale di Ripresa e Resilienza. Particolare attenzione va posta agli investimenti in manutenzione delle opere e nella tutela del territorio, incoraggiando l’utilizzo di tecniche predittive basate sui più recenti sviluppi in tema di Intelligenza artificiale e tecnologie digitali. Il settore privato deve essere invitato a partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.

Next Generation EU. La strategia per i progetti del Next Generation EU non può che essere trasversale e sinergica, basata sul principio dei co-benefici, cioè con la capacità di impattare simultaneamente più settori, in maniera coordinata. Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare,  non solo  dispiegando tutte le  tecnologie a nostra disposizione ma anche investendo sulla consapevolezza  delle nuove generazioni che “ogni azione ha una conseguenza”. Come si è ripetuto più volte, avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni. Queste risorse dovranno essere spese puntando a migliorare il potenziale di crescita della nostra economia. La quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo tramite la principale componente del programma, lo Strumento per la ripresa e resilienza, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica. Il precedente Governo ha già svolto una grande mole di lavoro sul Programma di ripresa e resilienza (PNRR). Dobbiamo approfondire e completare quel lavoro che, includendo le necessarie interlocuzioni con la Commissione Europea, avrebbe una scadenza molto ravvicinata, la fine di aprile. Gli orientamenti che il Parlamento esprimerà nei prossimi giorni a commento della bozza di Programma presentata dal Governo uscente saranno di importanza fondamentale nella preparazione della sua versione finale. Voglio qui riassumere l’orientamento del nuovo Governo. Le Missioni del Programma potranno essere rimodulate e riaccorpate, ma resteranno quelle enunciate nei precedenti documenti del Governo uscente, ovvero l’innovazione, la digitalizzazione, la competitività e la cultura; la transizione ecologica; le infrastrutture per la mobilità sostenibile; la formazione e la ricerca; l’equità sociale, di genere, generazionale e territoriale; la salute e la relativa filiera produttiva. Dovremo rafforzare il Programma prima di tutto per quanto riguarda gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano.

Obiettivi strategici: Il Programma è finora stato costruito in base ad obiettivi di alto livello e aggregando proposte progettuali in missioni, componenti e linee progettuali. Nelle prossime settimane rafforzeremo la dimensione strategica del Programma, in particolare con riguardo agli obiettivi riguardanti la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G. Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione. In base a tale visione strategica, il Programma nazionale di Ripresa e Resilienza indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next Generation EU, il 2026. Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni. Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti. Selezioneremo progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi strategici del Programma, prestando grande attenzione alla loro fattibilità nell’arco dei sei anni del programma. Assicureremo inoltre che l’impulso occupazionale del Programma sia sufficientemente elevato in ciascuno dei sei anni, compreso il 2021. Chiariremo il ruolo del terzo settore e del contributo dei privati al Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza attraverso i meccanismi di finanziamento a leva (fondo dei fondi). Sottolineeremo il ruolo della scuola che tanta parte ha negli obiettivi di coesione sociale e territoriale e quella dedicata all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro. Nella sanità dovremo usare questi progetti per porre le basi, come indicato sopra, per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina. La governance del Programma di ripresa e resilienza è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti che definiscono le politiche e i progetti di settore. Il Parlamento verrà costantemente informato sia sull’impianto complessivo, sia sulle politiche di settore. Infine il capitolo delle riforme che affronterò ora separatamente.

Le riforme. Il Next generation EU prevede riforme. Alcune riguardano problemi aperti da decenni ma che non per questo vanno dimenticati. Fra questi la certezza delle norme e dei piani di investimento pubblico, fattori che limitano gli investimenti, sia italiani che esteri. inoltre la concorrenza: chiederò all’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, di produrre in tempi brevi come previsto dalla Legge Annuale sulla Concorrenza (Legge 23 luglio 2009, n. 99) le sue proposte in questo campo. Negli anni recenti i nostri tentativi di riformare il Paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza. Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli. Inoltre, le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata. Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò ad una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio. In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi ambiziosi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale. L’altra riforma che non si può procrastinare è quella della pubblica amministrazione. Nell’emergenza l’azione amministrativa, a livello centrale e nelle strutture locali e periferiche, ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza e a un uso intelligente delle tecnologie a sua disposizione. La fragilità del sistema delle pubbliche amministrazioni e dei servizi di interesse collettivo è, tuttavia, una realtà che deve essere rapidamente affrontata. Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia. Agli uffici verrà chiesto di predisporre un piano di smaltimento dell’arretrato e comunicarlo ai cittadini. La riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati. Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea. Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione. Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite. Ancoraggi che abbiamo scelto fin dal dopoguerra, in un percorso che ha portato benessere, sicurezza e prestigio internazionale. Profonda è la nostra vocazione a favore di un multilateralismo efficace, fondato sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite. Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa. Gli anni più recenti hanno visto una spinta crescente alla costruzione in Europa di reti di rapporti bilaterali e plurilaterali privilegiati. Proprio la pandemia ha rivelato la necessità di perseguire uno scambio più intenso con i partner con i quali la nostra economia è più integrata. Per l’Italia ciò comporterà la necessità di meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania. Ma occorrerà anche consolidare la collaborazione con Stati con i quali siamo accomunati da una specifica sensibilità mediterranea e dalla condivisione di problematiche come quella ambientale e migratoria: Spagna, Grecia, Malta e Cipro. Continueremo anche a operare affinché si avvii un dialogo più virtuoso tra l’Unione europea e la Turchia, partner e alleato NATO. L’Italia si adopererà per alimentare meccanismi di dialogo con la Federazione Russa. Seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati. Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina. Altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei Paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati. L’avvento della nuova Amministrazione USA prospetta un cambiamento di metodo, più cooperativo nei confronti dell’Europa e degli alleati tradizionali. Sono fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intensificarsi. Dal dicembre scorso e fino alla fine del 2021, l’Italia esercita per la prima volta la Presidenza del G20. Il programma, che coinvolgerà l’intera compagine governativa, ruota intorno a tre pilastri: People, Planet, Prosperity. L’Italia avrà la responsabilità di guidare il Gruppo verso l’uscita dalla pandemia, e di rilanciare una crescita verde e sostenibile a beneficio di tutti. Si tratterà di ricostruire e di ricostruire meglio. Insieme al Regno Unito – con cui quest’anno abbiamo le Presidenze parallele del G7 e del G20 – punteremo sulla sostenibilità e la “transizione verde” nella prospettiva della prossima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico (Cop 26), con una particolare attenzione a coinvolgere attivamente le giovani generazioni, attraverso l’evento “Youth4Climate”. Questo è il terzo governo della legislatura. Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. E’ un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un paese capace di realizzare i loro sogni. Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere. Ma è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia.

Il presidente del Consiglio ha iniziato alle 10,15 il suo discorso in Senato per incassare quella che si annuncia come la fiducia più ampia della storia della Repubblica. Il voto è previsto in serata, dalle 22, mentre giovedì sarà la volta della Camera. 

Così è nata la Terza Repubblica. Aldo Varano su Il Dubbio il 18 Febbraio 2021. Solo dopo aver letto 7107 battute (spazi inclusi) delle sue dichiarazioni programmatiche al Senato, Mario Draghi ha scandito le 87 battute (spazi inclusi) che illuminano l’intero tragitto che s’è snodato nel nostro paese a partire dalla scelta di Mattarella di convocare l’ex presidente della Bce al Quirinale per affidare, proprio a lui, con una decisione che è apparsa ed è stata presentata subito assolutamente priva di alternative, la formazione di un “nuovo” governo.

«Sostenere questo Governo – ha scandito Draghi – significa condividere la irreversibilità della scelta dell’euro». Una frase dura, mai esibita in passato con tanta nettezza e determinazione perché i governi che si sono succeduti da quando Ciampi (che di Draghi fu uno dei Maestri) e l’europeista Prodi, forzando i tempi e con una decisione improvvisa, agganciarono l’Italia alla moneta europea per non perdere l’unico treno capace di impedire un ridimensionamento drastico del nostro paese nel tempo della globalizzazione e, insieme, per costringere l’Italia, gli italiani, la politica del Belpaese, a fare i conti con le proprie arretratezze e contraddizioni mai affrontate fino in fondo. Dichiarare tanto solennemente l’irreversibilità dell’euro nell’aula del Senato della Repubblica per l’Italia significa, è questo il fatto nuovo e di rottura, che i governi, a partire da quello di Draghi in avanti, dovranno operare con la consapevolezza che ad essere irreversibile è prima di tutto il processo che spinge verso l’unità, o ancor meglio, verso gli Stati Uniti d’Europa. È così da un bel po’ di anni. Ma tutti i governi del paese, fin da quando questo aspetto è diventato evidente, si sono sempre ben guardati, dal dichiarare e accettare il contesto in cui abbiamo liberamente accettato di collocarci, e soprattutto di operare, tenendone conto. Un atteggiamento figlio della debolezza politica degli assetti istituzionali e della politica italiani negli ultimi decenni, ma soprattutto dovuto alle nostre difficoltà mai affrontate – fisco, occupazione, assetti istituzionali, Nord/ Sud, modernizzazione infrastrutturale, necessità di una giustizia rapida e insieme garantista. È mancata inoltre la consapevolezza che verso l’Unità europea si può avanzare nella salvaguardia di culture e orientamenti politici diversi e anche alternativi con l’unica eccezione delle culture di arrogante nazionalismo ed esasperato sovranismo. Ecco perché con Mattarella e Draghi siamo entrati in una nuova Repubblica, la Terza.

Supermario dribbla la giustizia penale: sarà la dark room della maggioranza. Errico Novi su Il Dubbio il 18 Febbraio 2021. L’ex governatore della Bce chiede unità contro la pandemia e annuncia interventi immediati (solo) sulla giustizia civile. Poche parole. Poche rispetto alla portata del problema. Mario Draghi parla sì di giustizia, ma solo a proposito del settore civile. Cita l’efficienza dei tribunali, lo «smaltimento dell’arretrato», i «posti vacanti del personale amministrativo» che vanno coperti. Insomma, la scossa che ci chiede «l’Unione europea». Ma non la soluzione al rebus del penale. Né la formula magica per risvegliare la prescrizione dall’incantesimo di Bonafede. Solo un accenno fugacissimo, alla fine, sulla necessità di rafforzare la lotta alla corruzione. Siamo sempre e solo ai titoli delle «Country Specific Recommendations» rivolte dalla Commissione Ue all’Italia sulla giustizia. Nient’altro. Scelta strategica, che si rivela in tutta la sua necessaria prudenza poco dopo, nel dibattito in Aula. La senatrice cinquestelle Agnese Gallicchio così risponde all’eleganza del premier: «Voglio essere molto chiara, quella di oggi non è una fiducia in bianco: il Movimento non è disposto a fare passi indietro su reddito di cittadinanza e riforma della prescrizione da noi varata». Ecco il tono: non ti azzardare. Draghi lo ha fiutato e ha evitato, forse con saggezza, forse con un po’ d’astuzia, di farsi impallinare al primo colpo.

IL DISARMO TEMPORANEO SULLA PRESCRIZIONE. Però il vuoto resta. È pesante come un non detto. Un’omissione fatale, cioè necessaria. Il punto è capire quanto potrà reggere. Quanto l’elusione del conflitto potrà essere adottata da Marta Cartabia, guardasigilli accolta con grande fiducia innanzitutto dall’avvocatura e, nelle ultime ore, dal Parlamento. In mattinata il capogruppo di Italia viva Ettore Rosato, prima ancora che parli Draghi, conferma in un’intervista ad Affaritaliani. it la disponibilità a ritirare il “Lodo Annibali”, l’emendamento al Milleproroghe che avrebbe congelato la prescrizione di Bonafede. Giuseppe Brescia, presidente grillino della commissione Affari costituzionali, dove quelle proposte avrebbero dovuto essere discusse domani, conferma la tregua: «Il Movimento andrà avanti compatto sulla riforma della prescrizione: la sede per discuterla sarà la commissione Giustizia della Camera, l’hanno capito anche i nemici più ostili». Dunque «non ci saranno sorprese nel Milleproroghe». Se ne parlerà a inizio marzo, al più tardi, con l’esame del ddl penale. A quel punto Enrico Costa di Azione, gli stessi renziani, Forza Italia, la Lega tenteranno di nuovo di congelare la legge pentastellata. Anzi, il responsabile Giustizia degli azzurri, Francesco Paolo Sisto, conferma al Tg1 quanto anticipato al Dubbio: «Non ritiriamo il nostro emendamento , ma sarà l’interlocuzione con Marta Cartabia, ministro di serie A, a dirci quale sarà la migliore soluzione».

LA TERZA VIA DI PERANTONI: SI DISCUTA SENZA FORZATURE. In commissione Giustizia c’è un altro presidente pentastellato, Mario Perantoni, avvocato penalista di Sassari, considerato rigido su alcune posizioni ma corretto e disponibile al dialogo persino dai “nemici” di Italia viva. Traccia una linea che sulla giustizia penale può essere un grande assist per Cartabia: «Draghi ha fatto bene a inserire tra le priorità la riforma della giustizia civile, da lì passa la ripresa del sistema- Italia, è un obiettivo condiviso e già perseguito dal precedente governo». È la premessa. Riguardo la «non meno importante riforma penale», aggiunge Perantoni, «interpreto il silenzio di Draghi come una precisa scelta di investire pienamente il Parlamento». Cioè la sua commissione. E quindi, «per costruire un percorso veloce e virtuoso, occorre senz’altro uno spirito collaborativo, senza polemiche e attacchi strumentali, nel rispetto dei ruoli di ciascuno: conterà la responsabilità di tutte le forze politiche. A questo punto non si tratta di vincere o perdere una partita ma di farne uscire vincente il Paese. Mi auguro che tutti i protagonisti saranno all’altezza del compito». Discorso da uomo delle istituzioni. Appello che sembrerebbe lasciar intravedere una disponibilità a mettere in gioco qualcosa, sulla giustizia penale, persino da parte dei 5s. Certo un tono assai meno da duello western rispetto quello pre- minatorio della senatrice Gallichio. Ci sono le diplomazie al lavoro. C’è una ministra che evita di confondere, e che forse interverrà dopo la fiducia di oggi alla Camera, in tempo per sminare del tutto l’esame del Milleproroghe ( che lunedì mattina dovrà essere pronto per l’Aula). C’è un Draghi che non sfiora l’ordigno e qualche parlamentare di buona volontà che dà esempio di virtù diplomatica. Ma la sensazione resta: la giustizia penale potrebbe anche non essere un “fight club”, uno sfogatoio, ma rischia di restare comunque una dark room, un luogo virtuale di cui non si parla, o si parla poco e con toni allusivi. Non il massimo, ma è un esercizio dialettico forse inevitabile.

I PENALISTI DI ROMA: I PROBLEMI RESTANO. Anche se l’avvocatura non farà finta di nulla. Lo lascia intendere il presidente della Camera penale di Roma Vincenzo Comi, leader dei penalisti nell’ufficio giudiziario più grande e congestionata d’Europa: «Tra i molti temi toccati la grande assente è la giustizia penale. Il primo ministro ha ritenuto di non affrontare la questione nel richiedere la fiducia alle Camere. Tema divisivo che comunque si impone in tutta la sua attualità con i problemi e le contraddizioni vissuti tanto da operatori del diritto e cittadini» Comi fa un breve elenco: «Il nodo sulla prescrizione, i tribunali in tilt dall’inizio della pandemia, il processo penale telematico adottato più per necessità che per coscienza, udienze rinviate e processi infiniti, la situazione emergenziale in cui versano le carceri, la riforma dell’ordinamento giudiziario, l’accesso alle professioni legali». Sono «problemi sotto gli occhi di tutti», ma «Draghi rimanda l’approccio politico». Infatti.

LE SCADENZE DI CARTABIA, LE FRASI TESTUALI DI DRAGHI. È un’incognita che pesa. Che peserà cioè sulla guardasigilli Cartabia. D’altra parte il redde rationem sulla prescrizione è rimandato di poco: Forza Italia aspetta un segnale per deporre temporaneamente le armi. E sarà appunto la guardasigilli a doverlo dare. Lì si intuirà meglio la rotta. Oltretutto Cartabia, seppure si limitasse, per ora, a impegnarsi per un lavoro condiviso sul ddl penale ( basterebbe, in fondo), dovrebbe essere più specifica di qui a una decina di giorni al massimo, all’atto del suo primo passaggio istituzionale: l’esposizione delle linee programmatiche nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato. È in fondo quello il tornante che Costa, Sisto, Annibali e i leghisti aspettano per capire se possono rimettere nella fondina i revolver. Nella commissione presieduta da Perantoni e in quella del Senato che vede al vertice il leghista Andrea Ostellari, la ministra sarà necessariamente più specifica rispetto all’elegante dribbling del premier. Che poi va riportato: perché per quanto breve, per quanto silenziosa sul penale, la parte che Draghi ha riservato alla giustizia non è così priva di spunti: «Le azioni da svolgere sono quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea», ha premesso testualmente il Capo del governo nel suo discorso. «Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione». Tutto condivisibile, e qualcosa davvero è già sui binari, come i decreti sulla crisi d’impresa e sull’insolvenza. Ma c’è quella piccola frase finale: rafforzare il contrasto della corruzione. Come a dire: non tutto quanto fatto da Bonafede è da rimettere in discussione. Persino nella “spazzacorrotti” qualcosa forse va salvato. Di nuovo: la giustizia penale ci sarà. Ma se ne tratterà sottovoce. Come una dark room. Chi ha idee migliori, si faccia avanti.

Franco Bechis a Otto e Mezzo su Mario Draghi: "Discorso molto politico". Il bersaglio delle sue parole: ecco a chi ha risposto. Libero Quotidiano il 17 febbraio 2021. Come leggere le parole di Mario Draghi, al suo primo giorno in Parlamento per la fiducia al Senato? Cosa dobbiamo trarne? A ragionare sull'intervento del premier, ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo su La7, ecco Franco Bechis, il direttore de Il Tempo, che si spende in considerazioni "politiche", ma anche umane. Già, perché il discorso dell'ex governatore della Bce è stato, anche, molto politico. Ed è proprio da questa considerazione che parte Bechis. "Secondo me nella replica è stato più politico rispetto al discorso di questa mattina. Ha risposto persino a singoli senatori come Giarrusso, che gli aveva fatto un discorso di 30 secondi per dire che non aveva citato la mafia e che dunque non lo avrebbe votato. Eppure ha ripreso anche quello", premette Bechis. Nella breve replica, 15 minuti in serata, Draghi ha anche parlato di ambiente, immigrazione e rapporto con le regioni, rispondendo di fatto ad alcune obiezioni che gli erano state mosse nel corso del dibattito. "Certamente, è il suo esordio - riprende il direttore -. Devo dire che questa mattina ha esordito con una citazione che fu l'ultima che fece da governatore della Banca d'Italia, una frase di Cavour sulle riforme compiute a tempo che invece di indebolire l'autorità la rafforzano. Lo disse nel 2011 nelle sue considerazioni finali, un suggerimento alla politica: sono passati dieci anni, nessuno ha colto quel riferimento dato che, giunto oggi a fare il politico, fa propria quella citazione". Infine, da parte di Franco Bechis, delle considerazioni relative alla persone: "Quella citazione ne dava l'impronta, però Draghi è stato molto politico in tutte le risposte. Finalmente abbiamo visto un po' di pathos, di uomo, con quella battuta iniziale: scusatemi, devo ancora imparare. Lo ha un po' sciolto, questa mattina era glaciale". Il riferimento di Bechis è alla battuta con cui Draghi ha aperto le repliche, dopo aver avuto qualche problema con il microfono.

Scossa ai tribunali e alle cause civili. Ma di Csm e prescrizione non si parla. Cautela sul tema più divisivo. Solo un generico richiamo a una "maggior efficienza" e allo smaltimento dell'arretrato cronico. Massimo Malpica, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale. Poca giustizia e soprattutto indolore. Nel suo intervento al Senato prima del voto di fiducia, Mario Draghi evita con accuratezza ogni tematica divisiva per la sua variegata maggioranza. E tra pandemia e fisco, parità di genere e ambiente, la patata bollentissima della giustizia resta in pentola a raffreddarsi. L'argomento viene citato solo una volta, e declinato nel suo aspetto meno conflittuale, la riforma della giustizia civile. Poche parole, verso la fine dei suoi 50 minuti di intervento. «Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all'interno del contesto e delle aspettative dell'Unione europea», spiega il nuovo premier: «Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione prosegue Draghi - pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta ad aumentare l'efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l'applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell'arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione». Punti sui quali nella maggioranza c'è armonia e spazio di manovra, a differenza di questioni come la riforma del Csm o il braccio di ferro, già in atto, sulla riforma della prescrizione. Per ora, insomma, le rogne restano nel cassetto, accogliendo gli inviti alla tregua arrivati anche da quanti, contrari alla riforma Bonafede, hanno concesso un'apertura di credito al nuovo governo congelando, per il momento, gli emendamenti «smonta-riforma» che erano stati inseriti per la votazione nel decreto Milleproroghe e che, pur non ritirati, non verranno «segnalati» per il voto. Un gesto di cortesia verso Draghi e verso la nuova inquilina di via Arenula, Marta Cartabia, già considerata la prova di una discontinuità del nuovo esecutivo sulla giustizia rispetto al Conte II. Ma le carte che il nuovo esecutivo intende giocare in quella che forse è la partita più delicata per il neo-premier restano, al momento, ben coperte, il discorso sulle linee programmatiche del governo non era il momento giusto per lo showdown. Toccherà aspettare, insomma, ma non troppo. Sono gli stessi eventi che reclamano un intervento in tempi ragionevoli per una riforma del sistema giustizia, come il caso Palamara, e i suoi riflessi, dimostrano ogni giorno: l'ultimo caso è l'accoglimento dei ricorsi contro la nomina di Michele Prestipino a capo della Procura capitolina. L'ennesima prova che tra prescrizione, Csm, separazione delle carriere, il tema della giustizia, per divisivo che sia, non può che essere in cima all'agenda del governo Draghi.

"Sono meravigliato: neppure una parola sulla giustizia penale". Il professore emerito Giarda bacchetta il premier: "Dal carcere alla prescrizione, troppi nodi". Luca Fazzo, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale.

«Io non sono che un vecchio professore, e come tutti i professori scrivo cose che nessuno legge. Il presidente del Consiglio potrebbe dirmi: fatti i fatti tuoi».

Non lo farà, perché è una persona educata.

«Non ne dubito. E allora vorrei dirgli che sono rimasto meravigliato nel non sentirgli dire nel suo discorso di insediamento una sola parola sui problemi drammatici della giustizia penale in questo paese».

Angelo Giarda, professore emerito di procedura penale alla Cattolica, non è solo un cattedratico: conosce le aule, i processi, gli imputati, i pm. E, con i modi dovuti, al presidente Draghi vorrebbe ricordare cosa serve davvero. Draghi è un economista, pensa alle imprese, e infatti del processo civile ha parlato.

«Ho sentito, ha fatto bene. Ma ricordo che il processo civile riguarda controversie tra privati. Nel processo penale invece c'è l'individuo davanti allo Stato. Ed è qui che mi sarebbe piaciuto sentir dire al presidente: ci metteremo mano».

E come fa? La maggioranza che sostiene Draghi ha idee divergenti. Se si apre il fronte della giustizia il governo cade domattina.

«Me ne rendo conto, capisco che in questo momento non bisogna disturbare il manovratore. E non mi aspettavo che Draghi indicasse già delle soluzioni. Ma che almeno indicasse che ci sono alcune situazioni di lacune profonde, di criticità, su cui si impegnava a intervenire, magari ascoltando non solo i magistrati ma anche noi poveri professori».

Per esempio?

«Pensi alle carceri. Oggi il sistema penitenziario tratta allo stesso modo chi è in carcere a espiare una pena definitiva a chi è in custodia cautelare, negli stessi carceri ci sono colpevoli acclarati e individui che hanno diritto alla presunzione di innocenza. Le norme europee non lo consentono, ma non cambia niente».

E poi?

«Penso a temi cruciali: la vera parità tra accusa e difesa nel processo, la lealtà delle parti. Sono lacune che sono note a tutti, e che avrebbero richiesto almeno un annuncio di interesse. Penso anche alle prove in base a cui spesso si condanna: il sospetto, la presunzione, le cosiddette prove atipiche. Niente».

Poi c'è lo spettro della prescrizione, il tema più divisivo di tutti, che incombe su questa maggioranza eterogenea. A lei piace la legge Bonafede?

«Il meno che si possa dirne è che è una legge troppo restrittiva. La prescrizione andava affrontata insieme alla riduzione dei tempi del processo penale, sono due cose che vanno insieme, invece si è voluto rispondere a domande di tipo istintivo. Anche su questo mi aspettavo un segnale da Draghi».

Però il premier ha messo alla Giustizia un ministro di alto profilo.

«Marta Cartabia viene da una esperienza significativa alla Corte Costituzionale. Sono fiducioso che lei e Draghi affronteranno i problemi reali. Proprio per questo mi sarei aspettato che nel suo primo discorso al Parlamento il capo del governo dicesse al Paese: ci occuperemo della giustizia penale».

Alessandro Trocino per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2021. Il Senato concede la fiducia al presidente del Consiglio Mario Draghi. Con il sostegno di Partito democratico, Forza Italia, Italia viva, Leu, Movimento Cinque Stelle, Lega e gruppi minori, il nuovo esecutivo ottiene il via libera dell'Aula di Palazzo Madama con 262 voti a favore e 40 contrari (17 assenti e 2 astenuti). È il terzo governo più votato, anche se non viene superata la soglia dei 281 senatori, record detenuto dal governo Monti nato nel 2011 (ottenne più voti, 267 sì, anche l'esecutivo guidato da Giulio Andreotti, il suo quarto, nel 1978). Superata ampiamente, dunque, la soglia della maggioranza assoluta di 161, nonostante le defezioni annunciate. L'unico gruppo che era contrario è quello di Giorgia Meloni, Fratelli d'Italia. Ma a mancare sono stati anche alcuni voti di Sinistra italiana, componente di Leu, e soprattutto dei 5 Stelle. Qui la faglia che si è aperta è ampia. Il malcontento resta molto diffuso e alla fine a votare contro sono stati ben 15 Cinque Stelle: tra loro Barbara Lezzi, Nicola Morra, Fabrizio Ortis e Matteo Mantero. A questi 15 bisogna aggiungere anche 6 assenti. Tutti passibili di espulsione. Diventa possibile, a questo punto, un gruppo di ex M5S. Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi ha apprezzato: «Il presidente Draghi ha pronunciato un discorso di alto profilo, che guarda al futuro. Mi sono riconosciuto nel suo discorso». Il leader della Lega sceglie di puntare sui temi a lui più familiari: «Se sono convinto che i clandestini che arriveranno saranno gestiti diversamente dal nuovo governo? Assolutamente sì, un governo con la Lega, presieduto da une persona seria come Draghi, non può continuare ad avere l'Italia come punto di approdo e di non ripartenza». Sull'euro non commenta l'aggettivo usato da Draghi, «irreversibile», in netta contrapposizione alle sue parole dell'altro giorno. «Ho visto la squadra di governo e poi mi sono decisa per il voto contrario», spiega invece la Meloni, che però apre sulla possibilità di votare il Recovery plan. Il governo Draghi le pare «orientato a sinistra», con il Pd «sovrarappresentato». Da sinistra, arriva il no di Sinistra italiana. Appoggio completo dal Pd di Nicola Zingaretti, che twitta: «Bene il presidente Draghi. Dalle sue parole una conferma: l'Italia è in buone mani». Quanto all'incontro con il leader della Lega, chiarisce: «Ho incontrato Salvini, collaborare non significa annullare l'identità». Con riferimento implicito al «valeva la pena?» di Alessandro Di Battista, commenta così Matteo Renzi, artefice della caduta del Conte II: «Un discorso di speranza, di visione, di orizzonte. Ho ripensato a tutte le critiche e gli insulti che ci siamo presi in queste settimane. Ascoltando Draghi mi sono detto: ne valeva la pena, oggi l'Italia è più forte di ieri».

Monica Guerzoni per corriere.it il 18 febbraio 2021.

 Ore 17.47 - Mai visto un simile schieramento di forze dell’ordine a presidiare Montecitorio e Palazzo Chigi

Ore 17.50 - Bersani cerca una metafora delle sue per fotografare il governo Draghi ma si ferma alla botanica: «Non saranno rose e fiori»

 Ore 17.54 - Nella Galleria dei Presidenti faccia a faccia tra gli ex Guardasigilli Andrea Orlando e Alfonso Bonafede: perché Draghi ha archiviato lo scontro sulla prescrizione?

Ore 18:oo - Deputati in ansia: perché il puntualissimo Draghi ancora non si vede?

18.03 - Zitti, parla Draghi: «Buonasera».

Ore Ore 18.05 - Draghi discetta di transizione 4.0, ma i numeri che assillano giornalisti e deputati sono altri: quanti 5 Stelle voteranno no e saranno espulsi? 

Ore 18.09 - Sui cellulari di leghisti e grillini rimbalza una foto scattata nel pomeriggio nel corridoio di Montecitorio: immortala il ministro Giorgetti che, per gioco, mette ko con un ippon il bronzo olimpico di Judo Felice Mariani (M5S)

Ore 18.12 -Draghi incassa i due applausi più lunghi su ragionevole durata dei processi e condizione dei carcerati

Ore 18.13 - Draghi riabilita lo sport: «Se non ne ho parlato non vuol dire che non sia importante»...

Ore 18.15 - Draghi ha già finito, forse la replica più breve di sempre: «Spero condividiate questo sguardo costantemente rivolto al futuro...».Tutti in piedi, tranne Fratelli d’Italia e diversi 5 Stelle.

Ore 18.17 - Roberto Fico annuncia che la chiama del voto di fiducia inizierà dal deputato Pallini. Risate e buuu, come a scuola. E il presidente-prof: «Non c’è niente da commentare».

 Ore 18.24 - I commessi hanno un gran da fare per dividere i deputati che si assembrano sugli scranni.

Ore 18.20 - Arriva Vittorio Sgarbi, che tiene il naso fuori dalla mascherina azzurra e tende la mano ai colleghi.

Ore 18.35 - Al presidente Draghi portano un bicchiere d’acqua, la prova che non è un marziano.

Ore 18.36 - L’ex leader dei responsabili del mai nato Conte Ter, Bruno Tabacci, paragona il «caro presidente Draghi» ad Alcide De Gasperi.

Ore 18.38 - Un commesso solerte distanzia la sedia del ministro Bianchi, che si era avvicinato troppo al collega Colao sui banchi del governo.

Ore 18.40 - Un deputato dem ironizza con i colleghi su Di Maio che consola Azzolina in un angolo dell’Aula.

Ore 18.43 - Draghi esausto per la maratona d’aula appoggia la testa sulla mano e si concede un minuto di riposo.

Ore 18.48 - Il ministro Speranza ne approfitta per studiare un report di Agenas Sant’Anna sull’adesione della popolazione alla campagna vaccinale, con tanto di evidenziatore giallo: secchione.

Ore 18.52 - Maria Elena Boschi prova a dire una cosa definitiva: «Se lei riesce vince l’Italia, se lei fallisce perde l’Italia». 

Ore 18.58 - Boschi spietata, parla a nuora (Draghi) di parità di genere perché suocera (le donne del Pd rimaste fuori dal governo) intendano.

Ore 19:00 - Giorgia Meloni risveglia una platea assopita: se anche Fratelli d’Italia fosse entrata al governo il nostro Paese, senza una opposizione, sarebbe diventata «una Corea del Nord».

Ore 19:09 - Meloni avverte Draghi: ad agosto inizia il semestre bianco e i partiti, è il messaggio, gli faranno ballare la rumba. 

Ore 19.14 - Voce dai banchi della sinistra: «Deboluccia Giorgia, attaccare Conte le veniva più facile».

 Ore 19.32 - I pronostici dicono che 14 dissidenti 5 Stelle non voteranno la fiducia a Draghi 

LA REPLICA DI DRAGHI ALLA CAMERA. Da corriere.it il 18 febbraio 2021. Sceglie di partire dalle piccole e medie imprese, il premier Mario Draghi, nelle repliche ai deputati. Draghi ha indicato nell’internazionalizzazione delle pmi e nello sviluppo del Mezzogiorno due degli obiettivi da perseguire per il rilancio di questo comparto. Ha inoltre insistito sulla tutela del made in Italy, sulla sburocratizzazione, sul contrasto alle pratiche di concorrenza sleale e sulla lotta alla corruzione e all’ingerenza delle mafie. E questo anche in vista dell’immissione sul mercato degli ingenti fondi del Recovery Plan da cui, ha assicurato, verranno tenute lontane le organizzazioni criminali. Su tutti questi fronti, ha garantito, «l’impegno del governo sarà totale». Ha inoltre parlato di un intervento dell’esecutivo per sostenere il sistema dello sport nel suo complesso, fortemente colpito dalla pandemia. E sul nodo giustizia ha evidenziato l’importanza di arrivare ad una riforma che garantisca il «giusto processo» ma anche una «durata ragionevole dei procedimenti, come nella media delle altre nazioni europee». Così come al Senato, Draghi ha limitato la replica a pochi temi specifici e il suo intervento è durato poco meno di un quarto d’ora ed è stato interrotto da 8 applausi.

Da (ANSA il 18 febbraio 2021):

Draghi, per pmi credito d'imposta Sud e industria 4.0. Nel medio periodo, per la "ripartenza", il tema delle piccole e medie imprese "comporta e incrocia internazionalizzazione, accesso al capitale, investimenti, per rafforzare la nostra manifattura e renderla più competitiva. Sostenere l'internazionalizzazione, potenziare il credito imposta per investimenti in ricerca e sviluppo nel Mezzogiorno e consulenza per la quotazione delle pmi. Dobbiamo estendere il piano di industria 4.0 per favorire e accompagnare le imprese nel processo di transizione tecnologica e sostenibilità ambientale". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica al dibattito sulla fiducia alla Camera.

Draghi, difendersi da corruzione, deprime anche economia. "Un Paese capace di attrarre investitori deve difendersi dai fenomeni corruttivi, lo deve fare comunque intendiamoci. Questi portano a effetti depressivi sul tessuto economico e sulla libera concorrenza". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica alla Camera.

Draghi, non trascurare paura Covid in carceri sovraffollate. "Non dovrà essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, spesso sovraffollate, esposte a rischio e paura del contagio e particolarmente colpite dalla funzione necessarie a contrastare la diffusione del virus". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica al dibattito sulla fiducia alla Camera.

Draghi, durata processi sia ragionevole, in linea con Ue. Il governo si impegna a "migliorare la giustizia civile e penale" e sulla necessità di "un processo giusto e di durata ragionevole in linea con la durata degli altri Paesi europei". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica alla Camera.

Draghi, accelerare iter pubblici,in ritardi annidati illeciti. "La farraginosità degli iter è causa inaccettabile di ritardi amministrativi ma anche terreno fertile in cui si annidano e prosperano i fenomeni illeciti". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica al dibattito sulla fiducia alla Camera.

Draghi, turismo è tra settori che ripartirà certamente. Sul turismo ieri "ho detto che se c'è un settore che riparte è quello, quindi merita sostegno mentre su altri settori tecnologici non lo sappiamo". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica alla Camera.

Draghi, sguardo al futuro caretterizzerà azione governo. "Spero che condividiate questo sguardo costantemente rivolto al futuro che confido ispiri lo sforzo comune" per uscire dalla pandemia e dalla crisi economica e che "certamente caratterizzerà l'azione del mio governo". Lo dice il premier Mario Draghi nella replica alla Camera.

Draghi, sport colpito da pandemia, impegno a sostenerlo. "Il fatto che non abbia detto nulla ieri" sullo sport "non significa che non sia meno importante. È un mondo profondamente radicato nella nostra società e nell'immaginario collettivo, fortemente colpito dalla pandemia. Questo governo si impegna a preservare e sostenere sistema il sportivo italiano tenendo conto della sua peculiare struttura e dei molteplici aspetti che lo caratterizzano, non solo in relazione all'impatto economico, agli investimenti e ai posti di lavoro ma anche per il suo straordinario valore sociale, educativo, formativo, salutistico". Così il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nella replica alla Camera.

Mario Fabbroni per leggo.it il 18 febbraio 2021. Gioie e dolori. Il discorso del premier Mario Draghi al Senato è stato il primo round di una fiducia scontata che oggi passa anche alla Camera. Quasi alla mezzanotte di ieri i voti favorevoli sono stati 262, 40 i contrari e 2 i senatori astenuti sui 305 presenti. Draghi però non ha scalfito il record di Mario Monti, che per il suo governo ebbe dall'aula di Palazzo Madama ben 285 voti favorevoli.

COMPRATE ITALIA. Così gli analisti di Morgan Stanley fanno sperare davvero («L’autorità, la stabilità e la competenza del governo del primo ministro Draghi sono un grande punto di forza, che aumenta la nostra convinzione che l’Italia userà il Recovery fund in modo efficace», hanno scritto invitando i clienti della banca Usa ad «acquistare azioni italiane, specialmente delle banche, e bond». Non solo. Morgan Stanley si aspetta «uno spread di 85 punti base fino a giugno, con lo spazio per muoversi verso 55 punti nel secondo semestre».

REGIA AL MEF. Chiarito uno dei punti più importanti: la regìa sul documento e i fondi straordinati del Recovery andrà al Mef, il ministero per lo Sviluppo.

LICENZIAMENTI. Ma alle previsioni più rosee si aggiungono quelle plumbee che Draghi non nasconde affatto: «La disoccupazione è destinata ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento».

PARITÀ. «L’Italia presenta uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Ma una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge, bensì condizioni competitive tra generi».

IL DUBBIO. Draghi chiede più impegno concreto: «Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per figli e nipoti tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura».

LA SPESA. «Bisogna promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Ogni spreco fatto oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni».

IL FARO PROGRAMMATICO. Ecco allora l’idea-guida: «Come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare il proprio apporto». E sulla scuola, il premier anticipa: «Recuperare le ore perse».

NON SOLO PRIMULE. Il piano vaccini è la chiave della ripresa. E Draghi appende al chiodo le primule di Arcuri: «Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso non ancora pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture pubbliche e private».

LE TASSE. Non è una buona idea «cambiare una tassa alla volta», c’è necessità di «una revisione profonda dell’Irpef». Come ha fatto la Danimarca che nel 2008 «nominò una Commissione di esperti, che incontrò i partiti e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento».

CHI CHIEDE ALTRO. Il presidente del Forun delle Famiglie, Gigi De Palo, vorrebbe «un’attenzione ancor più peculiare ai temi legati alla famiglia e alla demografia nazionale. La natalità è la nuova questione sociale del Paese. Mentre Valter Mazzetti, Segretario Generale Fsp Polizia di Stato, nota come «non sia stata detta una parola sul tema della Sicurezza».

Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2021. E la guerra alla burocrazia? Macché, la canonica promessa di rovesciare la burocrazia, buttata lì da un po' tutti i premier da decenni in qua senza mai uno sbocco reale, non c' è. Forse perché lui stesso, Mario Draghi, ha un' idea nobile della buona burocrazia, quella che nei Paesi seri fa girare la macchina degli Stati. Forse perché sa quanto le parole, da sole, possano esser vuote. Effimere. Coriandoli. I temi, quelli contano. E la credibilità di chi li prenderà finalmente di petto. Sapendo che su quelli sarà misurato.

ATTRARRE. «Benessere, autodeterminazione, legalità e sicurezza sono strettamente legati all' aumento dell' occupazione nel Mezzogiorno. Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati, nazionali e internazionali, è essenziale per generare reddito, creare lavoro, invertire il declino demografico...».

BUON (PIANETA). «La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l' innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l' accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create. Vogliamo lasciare un buon Pianeta, non solo una buona moneta».

CONSAPEVOLEZZA. «Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare, non sono dispiegando tutte le tecnologie a nostra disposizione, ma anche investendo sulla consapevolezza delle nuove generazioni che ogni azione ha una conseguenza. Come si è ripetuto più volte, avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni. Queste risorse dovranno essere spese puntando a migliorare il potenziale di crescita della nostra economia».

DAD. «La diffusione del Covid ha provocato ferite profonde nelle nostre comunità, non solo sul piano sanitario ed economico, ma anche in quello culturale ed educativo. Le ragazze e i ragazzi hanno avuto, soprattutto quelli delle scuole secondarie di secondo grado, il servizio scolastico attraverso la didattica a distanza che, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare le diseguaglianze».

EGOISMO. «Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l' auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni, nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui, in quest' Aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo».

FRAGILITÀ. «L'altra riforma che non si può procrastinare è quella della Pubblica amministrazione. Nell' emergenza l' azione amministrativa a livello centrale e nelle strutture locali e periferiche ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza e a un uso intelligente delle tecnologie a sua disposizione, ma la fragilità del sistema delle Pubbliche amministrazioni e dei servizi di interesse collettivo è tuttavia una realtà che deve essere rapidamente affrontata».

GIUSTIZIA. «Nelle raccomandazioni specifiche per Paese indirizzate all' Italia negli anni 2019 e 2020 la Commissione (...) ci esorta ad aumentare l' efficienza del sistema giudiziario civile attuando e favorendo l' applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell' arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici...»

IRREVERSIBILITÀ. «Sostenere questo governo significa condividere l' irreversibilità della scelta dell' euro e la prospettiva di un' Unione Europea sempre più integrata».

LAVORATORI. «Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche; alcune dovranno cambiare anche radicalmente e la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi».

MODELLI. «Alcuni modelli di crescita dovranno cambiare: ad esempio il modello di turismo, un' attività che prima della pandemia rappresentava il 14% del totale delle nostre attività economiche. Imprese e lavoratori in quel settore vanno aiutati ad uscire dal disastro creato dalla pandemia. Ma senza scordare che il turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare l' ambiente, preservare cioè almeno non sciupare città d' arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni, attraverso molti secoli, hanno saputo preservare».

NORMALE. «Non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno».

ORGOGLIO. «Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell' Unione Europea. Senza l' Italia non c' è l' Europa, ma fuori dall' Europa c' è meno Italia. Non c' è sovranità nella solitudine».

POVERI. «I dati dei centri di ascolto Caritas, che confrontano il periodo maggio-settembre del 2019 con lo stesso periodo del 2020, mostrano che da un anno all' altro l' incidenza dei nuovi poveri passa dal 31 al 45 per cento. Quasi una persona su due che oggi si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta».

QUOTE ROSA. «L' Italia oggi presenta uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge, richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi».

RIFORME. «Una riforma fiscale segna, in ogni Paese, un passaggio decisivo: indica priorità; dà certezze; offre opportunità. È l' architrave della politica di bilancio. In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell' Irpef, con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività».

SQUILIBRI. «Il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi. Le previsioni pubblicate la scorsa settimana dalla Commissione europea indicano che, sebbene nel 2020 la recessione europea sia stata meno grave di quanto ci si aspettasse (quindi già fra poco più di un anno si dovrebbero recuperare i livelli di attività economica pre-pandemia), in Italia questo non accadrà prima della fine del 2022».

TORTO. «Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltremisura. (...) È una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti».

USCIREMO. «Quando usciremo, e usciremo, dalla pandemia, che mondo troveremo? Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di dodici mesi sia stata simile a una lunga interruzione di corrente: prima o poi la luce ritorna e tutto ricomincia come prima. La scienza ma semplicemente il buon senso suggeriscono che potrebbe non essere così».

VISIONE. «Negli anni recenti i nostri tentativi di riformare il Paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme, con interventi parziali, dettati dall' urgenza del momento, senza una visione a tutto campo, che richiede tempo e competenza».

ZERO. «Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni. Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l' Unione Europea intende arrivare a zero emissioni».

I.L. per “la Stampa” il 19 febbraio 2021. Mario Draghi si era dimenticato di parlare di immigrazione durante il discorso della fiducia in Senato? Giancarlo Giorgetti gli ha suggerito di fare un passaggio nella replica. Mario Draghi non ha fatto nemmeno un accenno allo sport? Giancarlo Giorgetti è corso in suo aiuto consigliandogli di parlarne nella replica alla Camera. «Ho ricevuto un sacco di telefonate della categoria e ci sono rimasti male. Con la pandemia, sono in estrema sofferenza». Giorgetti, il profeta del draghismo, colui che con grande anticipo rivelò l'avvento dell' ex Bce si è già ritagliato il ruolo di suggeritore e consigliere politico nei fatti. In fondo è un mondo nuovo per l' ex banchiere centrale, di gente, tanta, a cui dovrà risposte e lusinghe. Giorgetti è lì, pronto a soccorrerlo, come quando è inciampato sui numeri dei ricoverati per il coronavirus. Chiacchierando ieri alla Camera, il leghista neo ministro allo Sviluppo economico mostrava assoluta comprensione: «Deve prendere ancora confidenza». A partire dai discorsi, ma non solo. Giorgetti è sicuro che Draghi è capace di cavarsela nella bolgia dei partiti e dei blocchi sociali di riferimento. Più insidioso sarà magari il controcanto mediatico che farà Matteo Salvini. Ma anche su questo Giorgetti lo ha già rassicurato: «La Lega- gli ha detto - ha scelto il tuo governo». Salvini o non Salvini.

Draghi: «Tutto interessante». E dai ministri consigli sui riti del Palazzo. La fiducia alla Camera, le dichiarazioni prima del voto: il racconto da Montecitorio di Monica Guerzoni e Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 19/2/2021. Ieri alla Camera Mario Draghi ha evitato di fare ciò che l’altro ieri stava per fare al Senato. Durante il dibattito a Palazzo Madama era accaduto infatti che il presidente del Consiglio avesse trovato di suo gradimento un intervento, e fosse sul punto di battere le mani per manifestare il suo consenso. Non si saprà mai chi fosse il senatore, è certo invece che sia stato Giancarlo Giorgetti a fermare il capo dell’esecutivo un istante prima che applaudisse. «Non lo fare, non si fa mai dai banchi del governo», ha sussurrato al premier il ministro dello Sviluppo Economico che gli stava seduto a fianco. Insomma, la prima volta in Parlamento a Draghi non è servita solo per ottenere la fiducia, è stata anche una sorta di apprendistato rapido rispetto alle regole del Palazzo. Per esempio: se l’altro ieri al Senato — mentre scrosciavano gli applausi al termine del suo discorso — il capo del governo aveva chiesto «ditemi quando mi posso sedere», ieri a Montecitorio gli hanno detto quando restare seduto. Perché appena terminata la replica, il premier riteneva che il rito si fosse esaurito, aveva raccolto i suoi appunti e si accingeva a lasciare l’emiciclo. Appena Federico D’Incá ha intuito cosa stava per succedere, l’ha afferrato per la giacca. Un gesto impercettibile, che il titolare per i Rapporti con il Parlamento ha accompagnato con la spiegazione. «Presidente, deve restare ancora in Aula. Bisogna attendere le dichiarazioni di voto». Il tour de force è stato stancante e insieme un condensato di emozioni, come lo stesso Draghi ha ammesso dopo due giorni di dibattito che ha trovato «interessante». E il giudizio è quanto meno un indizio, un modo di iniziare a conoscerlo per molti dei suoi stessi ministri, che con lui ancora non sanno come comportarsi. D’altronde sono due mondi diversi, storie che hanno avuto rari incroci. Al punto che il premier — quando parla coi politici della sua squadra — si rivolge dando e ricevendo il «lei», eccezion fatta per Giorgetti che conosce da quando stava a Bankitalia e per Renato Brunetta che conosce da una vita. Se questa è la distanza dai ministri, figurarsi quella dai parlamentari: così per quarantott’ore in Parlamento lui ha ascoltato loro per capirli e loro hanno guardato lui per studiarlo. Al termine della missione i deputati, come fossero investigatori privati, di Draghi hanno scoperto che indossa un orologio con funzioni di telefono, «ma siccome non l’ha mai usato vuol dire che il suo numero ce l’hanno solo la moglie, la Merkel e Mattarella». Ed è vero che non ha mosso ciglio, nemmeno quando è accaduto ciò che aveva già messo in preventivo, «perché ci sarà chi mi insulterà». L’unica volta che si è acceso è stato quando il renziano Roberto Giachetti l’ha paragonato a Francesco Totti, e al tifo per la Roma dicono che non sappia mai resistere. Per il resto è rimasto impassibile e i parlamentari anziani, in modo bipartisan, hanno infine immaginato cosa Draghi abbia potuto commentare al termine della discussione: «Ma chi me l’ha fatta fare a venire in questa gabbia di matti». Ma è una libera interpretazione di chi in varie legislature ne ha viste tante eppure non le aveva viste tutte. È stato per via di certi interventi dadaisti, a volte surrealisti, in un caso incomprensibile. Almeno all’inizio. È stato quando il vice capogruppo dei grillini Riccardo Ricciardi ha cominciato a dire che delle riforme cinque stelle non si poteva toccare nulla e tutti immaginavano che non avrebbe dato la fiducia al governo. E invece no, cioè sì, votava sì e Draghi per una volta ha mosso il capo si è girato verso Luigi Di Maio e gli ha chiesto chi fosse il deputato. Non si conosce la risposta del ministro degli Esteri. Si sa qual è il commento di Bruno Tabacci, che ha dimestichezza e confidenza con il presidente del Consiglio e prevede che «dopo due giornate così Mario qui dentro non lo vedremo più per un bel po’. Avrà fatto il pieno». Ha fatto intanto il pieno di voti di fiducia e incassato il no di Giorgia Meloni, che al termine della sua appassionata spiegazione ha avvisato Draghi di stare attento: «Vedrà che quando inizierà il semestre bianco, molti di quelli che oggi la applaudono saranno dissidenti». Non è la prima volta, anche durante le consultazioni la leader di Fratelli d’Italia si era lasciata andare a «un consiglio non richiesto»: «Ovviamente se posso, presidente. Ecco, fossi in lei metterei dei limiti ai partiti, dei paletti da non fare oltrepassare. Altrimenti le prendono il dito, il braccio e tutto il resto».

C'ERAVAMO TANTO ODIATI. Mario Ajello per "il Messaggero" il 18 febbraio 2021. Cravatta verde, spilletta di Alberto da Giussano, ma il cuore padanista di Giorgetti batte fortemente, pragmaticamente, per Draghi. Si muove da suo vice. Gli siede affianco nel discorso del premier in aula al Senato il numero due della Lega, quando Draghi demolisce il sovranismo. Insieme, addirittura, giocano con il telefonino. Che tandem. E del resto non s' era quasi mai visto nella storia repubblicana che, accanto al premier nel giorno dell'investitura, non ci fossero il ministro degli Esteri e quello dell'Interno. Stavolta invece Giorgetti, titolare del Mise, alla destra di Draghi, e alla sinistra il grillino Patuanelli (dimagritissimo, prodigi della crisi di governo) e sembra quasi una riedizione del governo gialloverde. Anche se Draghi non è Conte e fa capire in tutti i modi (soprattutto dicendo che il potere non serve per durare ma per fare) di non volergli somigliare affatto. Questa è appunto la giornata delle stranezze. Una in particolare: i perfetti sconosciuti che diventano stranissimi partner. E al netto del fatto che ogni partito applaude la parte del discorso di Draghi che gli piace e che i ringraziamenti di Draghi a Conte suscitano un lungo buuu da parte della destra mentre Pd e M5S scattano nel battimani, ci si sforza obtorto collo a volersi bene. Il ministro Guerini fende il Transatlantico con passo marziale e dice: «Vanno superate le vecchie divisioni e i vecchi schemi, cerchiamo di capirci e di procedere insieme sennò non facciamo un buon servizio al Paese». E ha ragione il titolare della Difesa. Ma è una parola. Però tutti insieme alla fine del discorso del premier (lo vivono come un commissario della politica, e per ora devono abbozzare ma poi chissà) si uniscono in una standing ovation piuttosto moscia. Emma Bonino, alle nove del mattino già operativa a Palazzo Madama, l'aveva previsto: «Questi fino all'altro giorno, e parlo del Pd e di M5S, erano per il Conte Ter. Ora gli tocca sorbirsi il governo Draghi, ed è gustoso vederli sdraiati poco volenterosamente, ma l'importante è non darlo troppo a vedere, davanti a lui». Tra ex nemicissimi ci si sforza di farsi vicendevolmente accettare. In un angolo del Transatlantico si svolge questa scenetta. Brunetta, neo-ministro della Pubblica Amministrazione, viene fermato da un gruppo di grillini guidati dalla senatrice Maria Laura Mantovani della commissione affari costituzionali. Loro a lui: «Ministro Brunetta, non la stimiamo». Risposta: «Non vedo l'ora di lavorare con voi. Chiamatemi quando volete». «Ma non abbiamo il suo numero di telefono». «Eccolo». E il forzista Brunetta comincia a distribuire il suo biglietto da visita, dicendo: «Lo so, sembro il prete che dà l'ostia, ma vabbé. L'importante è trovare una buona sintonia sulle cose da fare. Io non sarà Superman né Nembo Kid ma sono un professore di lungo corso che conosce i problemi della nostra burocrazia e sa come risolverli». Una grillina non si trattiene: «La sua riforma della PA è stata stupenda...». Siamo al se son rose fioriranno. Ma non sarà facile la fioritura. Si sparge la notizia che, nella svolta moderata di Salvini, nel draghismo dell'ex Truce, nella Lega folgorata sulla via del Signore (inteso come SuperMario) ci abbia messo lo zampino il cardinal Ruini, che domani compie 90 anni e resta un politico sopraffino, convincendo Salvini a farsi europeisti e a rendersi in questa maniera potabile come possibile premier dopo Draghi. E i grillini che stanno bevendo un caffè alla buvette quasi si strozzano per la rabbia: «Ma Ruini è un reazionario! No il governo che bacia la pantofola del cardinal Ruini non è il nostro governo»!». Invece lo è, perché poche ore dopo lo voteranno. Quanti mal di pancia. Nel Pd si vive malissimo - ecco l'unica cosa con cui sono d'accordo con Renzi che dice: «E' una cavolata!», anche se l'ha fatta il suo amico Marcucci capogruppo dem - la creazione dell'Intergruppo, cioè una sorta di sub-governo, tra Pd, M5S e Leu, in cui alcuni vedono in luce il partito di Conte e altri vedono come un pasticcio. Luigi Zanda, davanti a una finestra di Palazzo Madama che gli serve a prendere aria e da cui spera arrivi il soffio della saggezza per i suoi colleghi, osserva: «Sono irritato, perché non sono stato avvertito della nascita dell'Intergruppo tra noi e i 5 stelle. Il coordinamento parlamentare tra i gruppi deve essere tra tutti quelli che sostengono il governo. Sennò, si generano divisioni e problemi a non finire. Se anche Forza Italia e la Lega fanno il loro Intergruppo, abbiamo raggiunto proprio un bel risultato!». C'è chi dice che neanche Zingaretti fosse stato avvertito che Marcucci - il meno grillo-dem di tutti - aveva creato questo organismo. Il che la dice tutta sulla condizione confusionale del Pd. Ma ecco Renzi in Transatlantico. Gode. Gongola. «La vedete la mia faccia?». Si abbassa la mascherina ed esplode in un sorriso. «Ecco che cosa penso del discorso di Draghi e del governo Draghi. Ora facciamolo lavorare sui vaccini, sul Recovery e su tutto il resto e noi pensiamo a rifondare il sistema dei partiti in chiave europea. Con un centro liberale, alla Macron, alla Vestager, alla Charles Michel, in cui ci sarà anche Italia Viva». Con Forza Italia? «Boh, con Berlusconi non si sa mai». La centrista Binetti ha appena raccontato ad alcuni colleghi di come la Commissione sanità del Senato, di cui fa parte, si sia appena occupata della terapia del dolore e a sorpresa l'argomenti suscita grande interesse davanti alla buvette: «Come si supera il dolore di dovere, e perfino di volere, votare un governo che vuole divorare i partiti senza neppure sputare le ossa e scrivere un messaggio di cordoglio ai parenti dei cari estinti?». Che esagerazione. Ma un po' il mood di molti questo è. L'entusiasmo del nuovo inizio a nodo suo, che è sobrio, lo vive Draghi: gli altri, no. Anche se lo stellato Patuanelli ce la mette tutta: «Io con certi leghisti ho sempre lavorato bene». E Romeo, capogruppo del Carroccio, infonde coraggio ai suoi: «Poteva andare peggio». Ossia con un governo Ursula. Quello che il Pd sognava (senza Lega) e Orlando che ora siede tra i neo-ministri (lui è al Lavoro) diceva meno di un mese fa: «Io in un governo con Salvini? Neanche se venisse Superman!». SuperMario non è Clark Kent, ma Orlando e gli altri sono con Giorgetti e gli altri. E per ora non sembrano viversela alla grande.

 (ANSA il 18 febbraio 2021) "Ci si sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati". Potrei giustificare così la scelta di Fratelli d'Italia che oggi voteranno contro la fiducia, unica forza, ma la verità è che non avevamo scelta per coerenza e serietà, esattamente come nessuno in Italia si fiderà più di chi firma un contratto e poi non lo rispetta". Così Giorgia Meloni, deputata e presidente di Fratelli d'Italia annunciando il voto contrario alla fiducia al governo Draghi, e citando "L'opera da tre soldi" di Bertolt Brecht. Meloni ha ribadito: "La nostra è una scelta ponderata ma scomoda, per dire no all'idea di un'Italia di serie B" e che "non darà la fiducia" ma farà da "stimolo e supporto per ogni scelta che riteneremmo giusta". Poi rivolgendosi al premier e ricordando una celebre frase dell'ex presidente della Bce, "Whatever it takes", ha aggiunto: "Oggi ci aspettiamo da lei che dica con la stessa determinazione che farà tutto quello che serve per difendere l'Italia, i suoi confini e la sua identità. Noi la giudicheremo su questo, solo su questo, senza pregiudizi nè sconti. E anche noi faremo tutto quello che serve per salvare questa nazione". Meloni, Draghi vedrà quanti dissidenti nel semestre bianco.. "Oggi sono tutti con lei, poi vedrà quando scatterà il semestre bianco.. vedrà quanti temerari dissidenti usciranno fuori". L'ha detto Giorgia Meloni, deputata e presidente di Fratelli d'Italia rivolgendosi al premier Mario Draghi, durante la dichiarazione di voto in Aula sulla fiducia al governo.

Stefano Bartezzaghi per "la Repubblica" il 18 febbraio 2021. Va bene mettersi a fare un governo hic et nunc; va bene tramutare i sovranisti in europeisti, i negazionisti in vaccinisti, gli apriscatole in tonno. A Mario Draghi però non si può chiedere proprio tutto, per esempio di condividere le mode lessicali correnti. Così prima di pronunciare la paroletta magica del decennio ha fatto un'aggiunta che nel testo scritto non era: «capacità di - come si dice oggi - resilienza». All'ultimo momento non l'ha usata ma più propriamente l'ha menzionata, la paroletta; l'ha offerta tenendola con la pinzetta dell'inciso. Si vede che di questa cosiddetta resilienza diffida, come succede con certe parole per esempio con i termini astratti a cui non corrisponde un verbo. Capitava di dirlo qui già nel 2012: la residenza è di chi risiede, la resistenza è di chi resiste, la resilienza di chi sarà? Dei re in esilio? L'anno dopo si aggiunse che un verbo invero esiste, ma solo in latino: "resilire", con il significato di "saltare all'indietro" e quindi con una notevole vicinanza all'accezione speciale romanesca di "rimbalzare" ("mi rimbalza" = non mi fa nulla). La parola passò così dalla fisica dei metalli alla psicologia, di qui all'economia e infine al chiacchiericcio tanto generico quanto pretenzioso. Draghi avrà magari una preoccupazione, nel promettere di battere colpi su efficienza e uso oculato delle risorse (e anche non "farisaica" parità di genere): se la resilienza è la capacità di assorbire urti e botte con indifferenza bisogna ammettere che il sistema Italia su certi temi resiliente lo è persino troppo.

Da "Libero quotidiano" il 18 febbraio 2021. Ciò che non va giù a Vittorio Sgarbi è l' inchino al pensiero dominante. «Mi sono cadute le braccia», ha detto il critico commentando il discorso di Mario Draghi. «Ha detto cose condivisibili, generiche, soprattutto rispetto a quanto pensavo della sua sofisticata dottrina, ma poi ha detto dieci volte "resilienza", che vuol dire un accomodamento alle mode insopportabile». Sgarbi già considera una «buffonata il ministero della Transizione ecologica», «ma dire 10 volte "resilienza" è inaccettabile. La fiducia non gliela do».

"IL SÌ A DRAGHI È UNA SCELTA DI LEALTÀ, CHI STA FUORI PERDE UN'OCCASIONE". (ANSA il 18 febbraio 2021) "Non è possibile che noi siamo pronti e si debba partire a rilento perché non ci sono le dosi: hanno sbagliato in Europa o a sbagliare è stato Arcuri? Ci sono stati problemi sulle mascherine, sulla scuola, sui vaccini, sull'Ilva, tutti settori in cui ha lavorato il commissario Arcuri: mi sembra evidente cosa possa pensare di lui...": è quanto ha detto il leader della Lega Matteo Salvini intervenuto su Telelombardia. "Nelle prossime ore, e non solo dai 5 Stelle, ci saranno diverse persone che cominceranno il loro cammino con la Lega, sia alla Camera che al Senato". L'ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini parlando ai cronisti fuori da Palazzo Madama. E ha aggiunto: "Oggi al Senato Lega e Forza Italia, quindi il centrodestra, sono forza di maggioranza rispetto al Pd e 5 Stelle". "Io auguro buona fortuna a tutti, la scelta fatta (sulla fiducia al governo Draghi, ndr) è una scelta di amore, coraggio, lealtà al Paese. Io ribadisco che viene prima il bene del Paese che l'interesse del partito. Ognuno farà le sue scelte, ma posso dire che nelle prossime ore ci saranno sindaci, amministratori locali e parlamentari che appoggeranno la scelta della Lega ed entreranno a far parte della famiglia della Lega". L'ha detto il segretario leghista, Matteo Salvini ai cronisti che gli chiedevano un commento sull'addio al suo partito dell'eurodeputato leghista Vincenzo Sofo, contro la fiducia espressa all'esecutivo Draghi, per aderire al gruppo dei Conservatori e riformisti guidato da Giorgia Meloni. "In questo momento l'unica mia preoccupazione è restituire salute, lavoro e libertà agli italiani, che poi torneranno a votare e io sono convinto che premieranno chi avrà voluto affrontare e risolvere i problemi". Così il leader della Lega, Matteo Salvini rispondendo a una domanda sul rischio che il partito di Giorgia Meloni possa "sottrarre" voti alla Lega alle prossime elezioni. E sull'esecutivo Draghi, ha aggiunto: "E' un governo di unità e secondo me chi sta fuori perde un'occasione". "Mi è piaciuto tutto. L'unica cosa è che tifa la Roma ma sul campo di calcio ognuno si tiene le sue bandiere". Così detto il leader della Lega, Matteo Salvini scherza con i cronisti fuori da Palazzo Madama, alla domanda su cosa ha apprezzato dell'intervento del premier Draghi, ieri al Senato. In realtà, inizialmente Salvini aveva risposto che gli era piaciuto "quasi tutto", poco dopo ha corretto, spiegando: "Mi è piaciuto il richiamo a quello che di positivo l'Europa può fare. Penso alla normativa sull'immigrazione, sui rimpatri, redistribuzioni ed espulsioni".

Cesare Zapperi per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2021. Il tono è soft, le parole misurate dopo tante battaglie anti-Euro. Ma per non smentirsi il senatore leghista Alberto Bagnai deve ricorrere a una curiosa inversione delle responsabilità. «Se abbiamo dovuto rincorrere la crisi pandemica - spiega in Aula - non è per colpa di chi è dipinto dai media come anti europeista, ma di chi si dice europeista senza esserlo». E al premier assegna il compito di «rifare» l'Europa. «Ci affidiamo a lei, c'è bisogno di lei per una riscrittura delle regole europee, che sino a ora non vediamo, e di una distorsione che se non verrà rimossa metterà a rischio il progetto europeo». L'altro esponente di punta dell'euroscetticismo leghista, Claudio Borghi, dirà la sua oggi alla Camera. Ma ieri su Twitter ha scritto: «Al netto delle prevedibili parentesi euro religiose che tanto non hanno alcun effetto pratico su quanto questo governo deve e può fare, il discorso di Draghi, se pur lontano dai deliri di Conte, lascia molti punti vaghi. Mi aspettavo aspetti assai più puntuali da chi ha poco tempo».

DAGOREPORT il 18 febbraio 2021. Come mai, dopo l’improvvisa “conversione a EU”, nelle ultime ore l’ex Truce del sovranismo si sta agitando come un tarantolato sparando dichiarazioni del tutto prive di opportunità politica (vista la sua intenzione di entrare nel PPE della Merkel) come quella sulla reversibilità della scelta dell'Euro? E Draghi, qualche ora dopo la dichiarazione di Salvini, l’ha silurato al volo, aggiungendo nel suo discorso al Senato: "sostenere questo governo significa condividere l'irreversibilità della scelta dell'Euro". All’origine di tale nervosismo c’è l’irresistibile discesa dei consensi della Lega. Durante il governo giallo-verde del Conte Uno (2018-2019), il Capitone era riuscito a portare il Carroccio, nei sondaggi, anche al 32 per cento. Da un rilevamento SWG per il TgLa7 del 16 febbraio, alla vigilia della fiducia al Senato del governo Draghi, se si votasse oggi la Lega, perdendo lo 0,5%, passerebbe dal 24 al 23,5%. In un recentissimo e riservatissimo sondaggio commissionato dalla stessa Lega, Salvini ha constatato che al nord il 60% dei simpatizzanti è contro l’euro, i cosiddetti sovranisti, contro il 40% del ‘’Partito del Pil’’, piccoli e medi imprenditori che hanno intensi affari con la Germania, capitanato da Zaia e Giorgetti e Fedriga, sono pro-Unione Europea. Scendendo lo Stivale, dall’Emilia-Romagna verso il centro, il 75% è a favore dell’euro dell’Europa contro il 35% di sovranismo. Ma il Matteo del Papeete sa benissimo che quella parte del nord è importantissima. Di qui lo stato di nervosismo del Salvini europizzato in modalità centro-tavola, tampinato dall’indiavolata Meloni che da unica oppositrice alla draghismo senza limitismo è rimasta solo a sbandierare il vessillo della destra pura e dura. Oggi, tanto per rimbalzare sulle prime notizie del web come kingmaker della politica, il leader leghista ha messo nel mirino il super commissario di Conte all’emergenza sanitaria: “Non è possibile che noi siamo pronti e si debba partire a rilento perché non ci sono le dosi: hanno sbagliato in Europa o a sbagliare è stato Arcuri? Ci sono stati problemi sulle mascherine, sulla scuola, sui vaccini, sull’Ilva, tutti settori in cui ha lavorato il commissario Arcuri: mi sembra evidente cosa possa pensare di lui...”. Contemporaneamente Salvini è alle prese con Renzi per la conquista di Forza Italia, spaccata in due tra filo-leghisti (Ronzulli-Tajani-Ghedini-Bernini) contro i filo-Italia Viva (Carfagna-Gelmini-Brunetta) che non a caso, grazie al lavoro di Gianni Letta, sono entrati nell’esecutivo di Mariopio. E subito Salvini ha incontrato nel suo ufficio il neo-coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani e la responsabile dei rapporti con gli alleati Licia Ronzulli. Sa bene che senza il viatico di Silvio Berlusconi, lo sbarco nel PPE è una chimera. Una guerra, quella dei due Matteo, per ereditare le spoglie del berlusconismo che avrà la sua battaglia definitiva la prossima estate. 

Alessandro Barbera Ilario Lombardo per "la Stampa" il 18 febbraio 2021. Mario Draghi sa che Matteo Salvini è l'anello debole della larghissima maggioranza che lo sostiene. Ne è consapevole sin dal giorno in cui ha ricevuto l'incarico al Quirinale, ma l'idea sponsorizzata dal Colle di un esecutivo di unità nazionale non poteva non passare dall'alleanza con il partito più grande della destra. Il discorso di fronte alle Camere è il sigillo del problema. «Sostenere questo governo significa condividere l'irreversibilità della scelta dell'euro, condividere la prospettiva di un'Unione europea sempre più integrata che approderà ad un bilancio pubblico comune». Il messaggio al leghista è più che esplicito. Poche ore prima, mentre il premier scriveva il discorso che avrebbe letto in aula al Senato, Salvini si era concesso un ritorno al passato: «Nulla, a parte la morte, è irreversibile». Mentre risponde alla provocazione di uno degli azionisti di maggioranza del suo governo, Draghi ha seduto a destra Giancarlo Giorgetti, il neoministro dello Sviluppo, rivale moderato dentro al partito. Per il premier la voce della Lega nel governo deve essere una, ed è la sua. Più fonti di governo sottolineano che Draghi punta a depotenziare Salvini, stringere a sé la Lega a trazione nordista, fragile nei numeri ma forte nel blocco sociale ed economico di riferimento, e infine spingerla verso una destra più moderata affiliata al Partito popolare europeo. Finora il leader leghista, stretto nella morsa dei due, ha mascherato il fastidio con sorrisi e pragmatismo. Draghi sa che questo nodo verrà al pettine, presto o tardi. Accadrà non appena Salvini avrà bisogno di spazi di manovra, di criticare il governo per raccogliere consenso. Potrebbe accadere in pochi mesi, non appena inizierà la campagna elettorale per le elezioni amministrative e si voterà nelle grandi città. I segnali di un duello sotterraneo ci sono già: Salvini preme per riavere come vice al ministero degli Interni uno fra Stefano Candiani e Nicola Molteni. A primavera, con le belle giornate, inizierà la stagione degli sbarchi dal Nord Africa, argomento perfetto per costruire consenso. Il tema nella maggioranza è tabù, e lo dimostra il fatto che nel primo intervento al Senato di Draghi non ve ne è traccia. Lo accennerà in replica, a tarda serata, scusandosi. «La risposta più efficace e duratura è la piena assunzione di responsabilità delle istituzioni europee» con «l'obbligo di redistribuzione dei migranti». Il premier ha dunque uno spazio limitato prima che la politica e la propaganda elettorale rivendichino il proprio, negando lo spirito di unità nazionale invocato da Mattarella. Nelle prime settimane la Lega non sarà in grado di condizionare la vita del governo, di certo potrà renderla complicata. I pochi e blandi applausi di Salvini durante l'intervento in aula del premier sono stati notati. Così come si è notata la controreplica sull'irreversibilità dell'euro: «Non è un tema all'ordine del giorno». D'altra parte il discorso della fiducia marca una discontinuità netta con le ambiguità in politica estera dello stesso Salvini e dei governi Conte uno e due. Tanto Draghi non ha voluto dare etichette al nuovo esecutivo in patria, quante sono quelle nei rapporti con il resto del mondo: atlantista, europeista, amico di Francia e Germania. «La pandemia ha rivelato la necessità di meglio strutturare e rafforzare con loro un rapporto strategico e imprescindibile». Braccia aperte alla nuova amministrazione Biden, meno a Russia e Cina. Con la prima dice di volersi adoperare per «meccanismi di dialogo», salvo aggiungere di essere preoccupato «per la violazione dei diritti civili». Toni che non si sentivano dai tempi della Guerra Fredda. Più o meno il trattamento riservato a Xi Jinping con «l'aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina», un riferimento nemmeno velato alle repressioni a Hong Kong. I tempi in cui il ministro degli Interni diceva di «sentirsi a casa a Mosca» e nel governo sedeva un sottosegretario con aperte amicizie nel regime cinese (il sottosegretario allo Sviluppo Michele Geraci) sembrano lontani un secolo. Sono passati appena due anni.

Governo: Camera, ok fiducia a Draghi, 535 sì, 56 no. (ANSA il 18 febbraio 2021) La Camera accorda la fiducia al governo Draghi con 535 voti a favore, 56 contrari e cinque astenuti. Il governo di Mario Draghi ha la fiducia del Parlamento italiano, ma non supera la quota record del governo Monti che nel 2011 a Montecitorio toccò la vetta 'storica' dei 556 voti favorevoli. Resta sotto anche al quarto governo Andreotti, che nel 1978 totalizzò 545 sì, mentre supera il governo di Enrico Letta che si fermò a 453. Rispetto al primo esecutivo Conte, che nel 2018 ebbe 350 sì, quello di Draghi vanta 185 consensi in più. Lo scarto con il Conte bis (votato positivamente da 343 deputati) è oggi di 192 voti in più.

 Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 19 febbraio 2021. L'unità nazionale non conosce bandiere. Ma nella stiva del maxi-bastimento di Draghi è già successo un fatto politico non di poco conto: le forze di centrodestra, al Senato, hanno sorpassato la coalizione progressista che comprende Pd, M5S e Leu e che, fra molte polemiche, dovrebbe costituirsi in un unico intergruppo. Il voto di fiducia della Camera, ieri sera, pur con numeri inferiori, ha confermato uno scivolamento verso destra dell'asse della maggioranza che sostiene Draghi. È l'effetto, in entrambi i rami del Parlamento, del dissenso manifestato da una fetta dei 5Stelle che ha eroso la forza del Movimento. Premessa: i passaggi parlamentari del debutto hanno confermato che il premier ha una coalizione larghissima e non corre rischi. Ma è la fisionomia di questa coalizione che sta subito cambiando. A Palazzo Madama le 21 defezioni targate 5S (15 voti contrari e sei non hanno partecipato al voto, non tenendo in considerazione i due in congedo o missione) fanno scendere la compagine grillina a 71 componenti, da sommare ai 35 senatori del Pd e ai 4 di Leu: la pattuglia di Liberi e Uguali conta in realtà 6 senatori, ma due iscritte ex grilline - Elena Fattori e Paola Nugnes hanno votato contro la fiducia. I calcoli sono presto fatti: i giallorossi vantano adesso 110 senatori, contro i 115 di Fi e Lega. Ciò significa che, anche senza i 19 senatori di Fratelli d'Italia schierati per il no, le due componenti della coalizione che sostengono Draghi rimangono più rappresentative rispetto al cantiere progressista. Il governo, è chiaro, può contare anche sul sostegno di altre forze minori: Italia Viva con i suoi 18 iscritti al gruppo, gli Europeisti di Tabacci e Merlo (10), le Autonomie (5), una parte del misto a lui favorevole che al netto degli esponenti di Leu conta 9 senatori. Ma un dato è certo. Se Fi e Lega non facessero parte dello schieramento extra-large di Draghi, se non avessero risposto all'appello all'unità nazionale di Mattarella, la maggioranza assoluta per il premier in Senato non ci sarebbe, stando all'esito di ieri: sarebbero 152 in tutto i sì, esclusi i senatori a vita. Questi numeri, da parte di giallorossi e "cespugli" sono addirittura inferiori a quelli che l'ex presidente Giuseppe Conte racimolò in occasione dell'ultima fiducia chiesta a Palazzo Madama: allora l'avvocato giunse a quota 156. Alla Camera i giallorossi mantengono una consistenza superiore a quella di Fi e Lega: malgrado i 30 voti venuti meno a M5S, l'asse fra Pd, Leu e grillini ha 259 seggi, una quarantina in più delle due forze del centrodestra. In ogni caso, con queste cifre sarà più facile per le forze più conservatrici far passare provvedimenti a loro graditi: Matteo Salvini, qualche giorno fa, si era detto convinto che dentro il governo Draghi non avrebbe faticato troppo per «trovare convergenze su temi caldi come giustizia, tasse, cantieri, controllo dell'immigrazione». Tutto da verificare, ovviamente, ma non è arduo immaginare che in una coalizione più spostata verso il centrodestra Lega e Fi possano utilizzare con efficacia anche la sponda offerta dai moderati, Italia Viva in primis. «È chiaro che soprattutto al Senato faremo valere la forza dei numeri - dice il forzista Andrea Cangini - imporre i nostri temi e la nostra visione. A partire da un'impostazione più garantista della riforma della prescrizione. La spaccatura dei 5S è una buona notizia per due motivi: dà maggiore forza al centrodestra e pone all'opposizione la frangia estremista dei grillini. Con gli altri, vedrete, potremo ragionare».

Fondiamo il partito degli estranei! Draghi? Il miglior amministratore di condominio possibile…Fulvio Abbate su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Che presto nasca il Partito degli estranei. Innanzitutto, estranei a ogni osservazione politica, di più, alla politica stessa; il viso girato dall’altra parte. Il suo inno ufficiale, meglio, la sua canzone, dovrebbe intitolarsi, “Estraneità spalanca le tue braccia, io sono qua…”. Così, soltanto così, unicamente queste parole, per spiegare una sensazione comune a molti davanti alla situazione data, diciamo pure, politica, forse anche epocale, esistenziale, perfino, perché negarlo, ontologica. Intendiamoci, nessuna critica sulla scelta del nuovo presidente del Consiglio, nulla da obiettare riguardo a Mario Draghi, l’uomo, il professionista. A maggior ragione assodato quel suo tratto di incredibile estraneità al cinismo romano, sebbene la persona sia nata proprio all’ombra del Cupolone e del Palazzo, ci sembra, ci appare come l’amministratore di condominio ottimale, il migliore, il più idoneo al compito che dovrà affrontare, fra tutti coloro che potessero essere scelti tra i presenti su piazza, nel quartiere, nel circondario. Soprattutto disponibile a ricevere in dote il carico di problemi che affliggono la “res publica”, così in un mondo dove, per citare le parole di un pensatore di pregio quale Aristotele, non vi sono problemi poiché non vi sono soluzioni. L’apprezzato Draghi, così sembra, saprà far quadrare i millesimi di ciascun condomino, e certamente boccerà la dissennata proposta, metti, dell’osceno e prepotente residente del settimo piano che vorrebbe trasferire la caldaia dal piano interrato al vano dell’ex stanza dei cassoni dell’acqua, con serio rischio che le chiavi della stessa finiscano in mano a chissà chi, con conseguente timore che possano, nottetempo, calarsi dal terrazzo sul nostro appartamento, giusti timori da residenti d’attico. Dimenticavo, l’aderente al Partito degli estranei è tale nella sua coscienza da rifiutarsi di salutare, come fosse una conquista di ritrovata attenzione dialettica alle cose, l’arrivo di un nuovo social che prende nome di Clubhouse, a maggior ragione respinge la pretesa che questo baracchino cieco affermi la pretesa di mostrare completezza ed eleganza nell’ascolto delle opinioni altrui. Clubhouse, infatti, a dirla tutta, ha dato subito a molti di noi, perfetti estranei, la sensazione d’essere popolato da “convinti”, un luogo dove tutti vorrebbero essere Enrico Mentana, comprese le donne che vi partecipano. Quanto a noi, aderenti al Partito degli estranei, sogniamo semmai un conduttore, un titolare di talk televisivo, che d’improvviso si alzi dalla sedia e abbandoni la sua residenza mediatica. “Estraneità, spalanca le tue braccia…”, recita appunto l’inno nostro. Così potrebbe suonare, con una parafrasi, il canto, l’unico, del nostro movimento, ma che dico del nostro, del mio, posto: perché l’estraneo aderisce a malapena a se stesso. Il Partito degli estranei, si sappia, non rimpiange la perduta pienezza ideologica, le “belle bandiere”, cui accennava Pasolini. il Partito degli estranei rinuncia perfino a interrogarsi sulle ragioni che hanno reso, metti, la sinistra così marginale in presenza tuttavia di una destra endemica, bene rifugio subculturale della nazione, una sinistra invisibile, pulviscolare. Il rasseblement degli estranei concepisce semplicemente lo stato d’animo individuale, lo sguardo interiore di chi, silenziosamente, davanti a se stesso, vi aderisce. Il Partito degli estranei non necessita neppure di tessere, di un distintivo, di una coccarda, di una sede, di una segreteria politica, di un comitato nazionale, di deleghe, di una bandiera, appunto. Il Partito degli estranei, forse l’ho lasciato intuire, discosta lo sguardo anche dalla partecipazione agli stessi social, lascia la stringa bianca, vuota, assente. Il Partito degli estranei, per statuto mai scritto, prova orrore davanti alla semplificazione del linguaggio, cominciando dal lessico giornalistico, concepito ormai come prodromico dell’imminente sua trasformazione in hashtag, in meme, in modo da soddisfare la mediocrità egemone. Il Partito degli estranei sogna di costituirsi, magari proprio nello storico Palazzo dei Congressi all’Eur, sogna una grande assise dove ci si guardi in volto senza mai pronunciare verbo: non una relazione introduttiva, non interventi, niente varie ed eventuali, non un solo contributo a sostegno d’altre mozioni. Il fondatore, nel caso presente, semmai raggiunge la tribuna e lì, rivolto alla platea, rimane in silenzio, per poi tornare a sedersi tra gli altri, nessun applauso, avendo dato appuntamento ai colleghi congressisti il mattino del giorno dopo. Questi, i congressisti, per un intero pomeriggio, hanno la possibilità di passeggiare per Roma, conquistando la sensazione del deserto, merito o colpa anche della pandemia in atto, la città infatti darà loro la sensazione d’avere fatto ritorno al tempo dell’occupazione tedesca, quando era perfino vietato l’uso dei mezzi a due ruote, e allora i romani ingegnosi attaccavano una terza rotella da triciclo alla ruota posteriore, per aggirare il bando. E intanto Giuseppe Albano, il Gobbo del Quarticciolo, combatteva, eroico, la sua battaglia contro i nazifascisti. I congressisti del Partito degli estranei vanno così in giro, come è giusto che sia faranno acquisti, souvenir: una guardia svizzera, un carabiniere e una contadina di Amatrice in pannolenci, dopodiché tornano in albergo in attesa, l’indomani, di raggiungere nuovamente l’Eur per la seconda giornata di dibattito. L’indomani mattina, il segretario del Partito degli estranei, eletto il giorno prima, riguadagna la tribuna e con un semplice gesto dichiara disciolto il partito stesso, saluta tutti con un nuovo cenno della mano, augurando alle amiche e agli amici lì convenuti buona vita, ora ogni delegato riconquista la propria località di residenza: strada facendo, o magari già sul treno, chiunque provvede a cancellare l’app di Clubhouse dal proprio iPhone. Il Partito degli estranei, al momento, è l’unica forza degna di nota di chi abbia, o comunque pretenda, un briciolo di coscienza e amor proprio da se stesso. Avanti, Partito degli estranei!

Massimo Cacciari per "La Stampa" il 4 marzo 2021. Cresce la voglia di miracoli, dilagano le cieche speranze. Intramontabile carattere del genio italico: l' arte del compromesso al ribasso, del trasformismo, del nascondersi o rimandare i problemi, fa tutt' uno con gli esercizi retorici sulle rinascite, sui rinascimenti o sulle ricostruzioni. A ogni cambio di governo, da 30 anni a questa parte, ascoltiamo il ritornello sulle irrinunciabili riforme e sulla certa promessa del loro imminente realizzarsi. Ora abbiamo un premier che sembra almeno non ripetere il gioco ed essere ben consapevole dei concretissimi fini che sono a sua portata, e tuttavia i suoi soci di maggioranza, così come le varie organizzazioni di categoria, vanno a gara nell' illudere che un governo di questa natura possa seriamente affrontare questioni su cui tutte le forze politiche, pur combinandosi e ricombinandosi nei più svariati modi, son naufragate - e per ragioni culturali, strategiche, ben prima che per fragilità organizzativa o per errori tattici. Sarebbe manna sui nostri deserti se Draghi varasse un Recovery Plan che contenga obiettivi di sviluppo e non solo di assistenza, salvataggi e incentivi a pioggia, e poi una legge di bilancio che davvero contrasti l' intollerabile aumento delle disuguaglianze che questa crisi va producendo. E già sarebbe poi un quasi-miracolo se il suo governo riuscisse a superare le contraddizioni, i ritardi, le disfunzioni incredibili che hanno segnato l' inizio della campagna-vaccini. Si sa, infatti, che questa situazione dipende anche e soprattutto dal modo in cui è organizzata la sanità, e cioè dal rapporto irrazionale tra poteri centrali e Regioni, ma, per carità, lasciamo perdere l' idea che un nodo di tale portata possa essere anche solo pensato da un "governo di guerra" come l' attuale. Il "principio di realtà" non è mai stato uno di quelli più frequentati dalle nostre parti, ma l' uomo che viene da Bruxelles e Francoforte dovrebbe averlo saldamente nelle sue corde. Certo egli non potrà contrastare l' ondata sempre meno arrestabile che emerge da sempre più vasti settori dell' opinione pubblica. Non si tratta ancora dell' appello all' Uomo Forte di fronte alla impotenza delle forze politiche in campo, appello che, nelle condizioni storiche attuali, sarebbe comunque destinato a cadere nel vuoto. Si tratta, piuttosto, di un ingenuo "decisionismo" tutto ideologico, velleitario, ampiamente diffuso, peraltro, in settori significativi delle cosiddette èlites dirigenti. Ideologia che sottovaluta o ignora, da un lato, il ruolo fondamentale che la struttura amministrativa, tecnica, burocratica svolge negli assetti istituzionali e politici del mondo contemporaneo, e, dall' altro, la funzione dei corpi intermedi nella costituzione di una democrazia progressiva( "idea regolativa" della nostra Costituzione). Ecco, allora, la pulsione al Regista, all' uomo capace finalmente di mettere in scena il dramma come si deve. Peccato che nessun regista, per quanto in teoria meraviglioso, sarà mai in grado di farlo se dispone di guitti di strada, di tecnici di luci, scenografi, costumisti da tre soldi. Il Regista funziona se coordina e combina competenze - e competenze al lavoro non solo per se stesse, per i propri legittimi interessi, ma anche per la riuscita complessiva dello spettacolo, e cioè che conoscano il dramma da rappresentare e magari pure lo amino. Tali competenze, nella loro sinergia, il Regista le potrà valorizzare, ma non sarà mai lui a produrle - dovranno formarsi da sé, organizzarsi autonomamente. Due percorsi, allora, si intrecciano, se vogliamo pensare nei fatti a una ripresa del nostro Paese: la ricostruzione del suo apparato tecnico-amministrativo, a partire dalla sua stessa formazione (e ci metto la Giustizia al suo interno, poiché non un potere, a mio giudizio, la Magistratura nella sua autonomia, ma una funzione essenziale dello Stato democratico) - la presenza di corpi intermedi vitali, attivi e propositivi, senza la cui energia la partecipazione democratica è fumo ideologico. Pensino a questo i nostri partiti e movimenti nei mesi che trascorreranno all' ombra protettiva del professor Draghi. La crisi forse un effetto positivo l' ha avuto: perfino i 5Stelle sembrano ora aver compreso che non si governa con chiacchiere movimentistiche e che, piaccia o no, la democrazia ha a che fare fisiologicamente con la presenza di forze politiche organizzate e di gruppi dirigenti non improvvisati sulla base di qualche clic. E il Pd sembra muoversi finalmente verso un congresso dove i resti dei partiti che l' hanno fin qui composto e scomposto saranno chiamati, volenti o nolenti, a ridefinirsi e non potranno più limitarsi a declinare il termine responsabilità in governabilità comunque.  Responsabilità è rispondere alle domande reali: quali progetti di riforme istituzionale si intenda ancora perseguire e con chi; quale politica dell' occupazione e del lavoro si ritenga adeguata alla rivoluzione tecnologica in atto; quale politica della formazione ne consegua. Si va al governo per rispondere a tutto questo, nell' ambito europeo, non per sopravvivere come ceto politico e allungare i tempi della decadenza del Paese. Se il congresso che si annuncia si svolgerà in forma aperta in questa direzione, lo smottamento pauroso del Pd dalle sue basi sociali potrebbe essere arrestato, e maturare, contestualmente, un' intesa di governo con il new look pentastellato, in vista dell' elezione del Presidente della Repubblica e delle prossime politiche - intesa che dovrà per forza esser messa subito alla prova a Milano, a Roma e in tanti altri centri di rilievo ben più che amministrativo. Ricordi anche il Pd di essere stato al momento della sua (presunta) nascita un fiero sostenitore del maggioritario. Lavori perciò affinché si realizzino le condizioni, con le prossime politiche, per un confronto, questo sì responsabile, tra due schieramenti e programmi contrapposti. Davvero non ci sarebbe più "salvezza" se, a quel punto, dopo vani, estenuanti pateracchi tra fantasmi politici, il Presidente di turno si vedesse di nuovo costretto a ricorrere ad altri Cincinnato e ancora le assemblee legislative, per loro colpa esclusiva, si riducessero a meri organi di ratifica di decreti del governo o della Presidenza del Consiglio.

«Nessun regista è grande abbastanza per portare al successo una compagnia di guitti». La politica naufragata si affida, per l’ennesima volta, alle riserve della Repubblica, in questo caso a Mario Draghi. Che potrà occuparsi dell’emergenza sanitaria e del Recovery Fund, ma non delle grandi riforme che hanno immobilizzato il Paese. Massimo Cacciari su L'Espresso il 12 febbraio 2021. Il Covid-19 è innocente. Ben altri colpevoli e di più lunga data ha la decadenza di questo Paese. Chi si è riletto il discorso alla Camera di Napolitano il 22 aprile 2013? Spietata analisi sulle ragioni della nostra crisi. Appello drammatico a iniziare finalmente un cammino di riforme di sistema, dall’assetto istituzionale a quello amministrativo, dalla scuola, alla sanità, alla giustizia. Durissimo richiamo alle forze politiche perché la loro competizione avvenga sulla base di progetti razionali, nel contesto di una piena consapevolezza dell’irreversibilità del processo di integrazione europea. Dopo un altro decennio o quasi di rottamazioni, di tentativi abborracciati e falliti di riforma, in un’altalena di trasformismi (oggi si dice pragmatismi) tra sovranismi e europeismi accomunati dall’essere entrambi nella sostanza puri esercizi retorici, ci troviamo punto e daccapo. Constatato il completo naufragio di ogni tentativo di trovare i numeri (lasciamo perdere la qualità) per formare una maggioranza parlamentare, il Presidente ricorre alla “protezione civile” rappresentata dai “civil servants” di Banca d’Italia. Era successo con Dini, con Ciampi e in fondo anche con Monti. Incredibile dictu, i naufragati politici, lungi dal riflettere sulla propria impotenza e iniziare a ricostruire una propria ragione d’essere, salutano ormai l’evento quasi fosse un loro successo, pronti a mettere a disposizione del neo-Presidente le proprie “forze”, tanto brillantemente già espresse. La politica, dicono, rialza il capo e, per il supremo bene della Patria, supera contrasti e conflitti, dimentica i mortali insulti con i quali i suoi protagonisti amavano apostrofarsi, e si prepara ad affrontare le sfide che ci attendono (quelle che, da trent’anni, abbiamo sempre accuratamente evitato). Fosse così, bisognerebbe ringraziare Renzi. Delle due l’una: o l’ottimo era continuare con un governo Conte-ter, e naturalmente senza Renzi, o lo è questa presidenza Draghi. Tertium datur? Se sì, solo questo: che Draghi è il meno peggio e tocca mangiarselo, ma molto, molto preferibile sarebbe stato il Conte-ter. Osano dirlo i nostri eroi? Chiedere loro discorsi coerentemente onesti è forse troppo. Ma troppo è anche fingere oggi entusiasmo intorno alla soluzione mattarelliana. Renzi non va ringraziato per il semplice motivo che è pienamente responsabile insieme a tutti i suoi colleghi del semi-collasso del ceto politico che le ultime vicende hanno messo a nudo. Ha dissestato il partito cui il destino assegna in questa fase di essere il solo punto di equilibrio del sistema. Ha impedito che si andasse a votare dopo la folle estate salviniana per tenere sotto scacco una maggioranza priva ancora di qualsiasi fondamento, e ora ne determina la fine, non credo sulla base di chissà quali mefistofeliche intenzioni, ma per motivi vari quanto confusi, ivi compresa la dichiarata allergia per la leadership contiana. Condizione, temo, molto comune: l’astuzia pragmatica così diffusa rivela sempre più una molto banale assenza di idee e di progetti. Eccoci pertanto di nuovo al Salvatore. È un’immagine che minaccia ormai di abitare il nostro senso comune. Più la crisi della politica si radicalizza, più quell’immagine diviene irresistibile. Al momento decisivo non c’è critica e auto-critica da parte delle forze politiche, non c’è rilancio della loro azione nella società civile - echeggia solo l’appello al Regista. Si inizia invocando il Capo politico, e quando questi, se anche emerge per lo spazio di un mattino, poi fallisce, allora si accoglie plaudendo il Regista che il Presidente ci dona. Sono decenni che procediamo lungo questa deriva, condivisa peraltro da larghi settori dell’opinione pubblica europea: per decidere occorre il Capo; le forze politiche vanno a caccia di chi potrebbe interpretarne la parte, almeno in tv; se lo trovano, costui fa naufragio; e allora la salvezza si invoca “da fuori”. Perché non regge il Capo? Perché tra questa idea e quella di democrazia vi è un abisso. Occorre finalmente essere gente matura e scegliere: non possono convivere i due “principi”. Il Capo si appella al popolo e non può sopportare corpi intermedi. La democrazia è fatta di partecipazione attraverso di essi. Inseguire il sogno del Capo e saper reggere e riformare un sistema democratico sono mestieri incompatibili. Per fortuna, almeno finora, gli anticorpi delle nostre democrazie, per quanto da riformare siano, hanno resistito. Ma la resistenza non produce, appunto, riforme. Produce, se va bene, i Ciampi e i Draghi. Che potrà fare Draghi durante il suo consolato - un anno, da qui all’elezione del nuovo Presidente - oltre ad affrontare l’emergenza sanitaria? Respingere l’assalto che certamente ci sarebbe stato ai fondi del Recovery, almeno alla parte “a fondo perduto”; presentare alle autorità europee, sotto l’ombrello della sua credibilità, un Piano che sia qualcosa di più concreto di un elenco “alla Greta” di dover-essere su digitalizzazione, green economy, sostenibilità, ecc.; semplificare le procedure e accelerare gli interventi infrastrutturali. Riuscirà anche a varare una spending review attendibile? Forse. Riuscirà a impostare una manovra eticamente doverosa perché i costi della pandemia siano ragionevolmente distribuiti tra tutti gli italiani? Ne dubito fortemente - già per questo ci vorrebbe una maggioranza-maggioranza. Scordiamoci pure, infine, si possa metter mano a formazione, scuola, giustizia, politiche industriali e del lavoro. Per non parlare di pubblica amministrazione o del rapporto tra poteri centrali, Regioni, Autonomie. Da anni tutti sanno che sono questi i nodi irrisolti che immobilizzano il sistema. Nessun Regista è grande abbastanza per portare al successo una compagna di guitti. E i fondi di diecimila Recovery possono andare a fondo se non vengono utilizzati nel contesto delle riforme necessarie. Quelle, d’altra parte, che chiede l’Europa. E per un’altra volta ancora non sapremo rispondere. Di ritardo in ritardo, di rimando in rimando procediamo dalla fine degli anni ’80. Prima che il gap anche con gli altri Paesi europei diventi definitivamente incolmabile, sapranno le nostre “forze” politiche utilizzare la presidenza Draghi per riorganizzarsi, comporre coerenti intese, procedere verso le prossime elezioni con uno spirito davvero costituente? Non lo so, ma temo di sapere che non vi saranno nuovi Draghi né ulteriori esami di riparazione.

Massimo Cacciari per “la Stampa” il 15 febbraio 2021. Dobbiamo proprio arrenderci? Impossibile ragionare sull' onda lunga della crisi di sistema che sta travolgendo il nostro Paese? Per quanto tempo potremo continuare a rammendare e tamponare? Ricordiamolo ai più giovani. È l' eterno ritorno dell' uguale in forme sempre più asfittiche, deboli, emergenziali. Al crollo della prima Repubblica suonò il primo appello alla Banca d' Italia, nel '94 il secondo. Da Ciampi a Dini. E il Gotha dei "tecnici-competenti" al loro interno, dai Cassese agli Elia, dai Barbera agli Spaventa, dai Bassanini ai Treu. I massimi esperti che la Patria ha generato in materia delle riforme ad essa necessarie. I frutti? Deboli vagiti in alcuni settori, profondo nulla in altri. La mano passa, allora, ai politici-politici i quali, attraverso raffazzonate maggioranze tra forze e movimenti che hanno magari un passato, ma nessuna comune destinazione, catastrofizzano di nuovo durante la grande crisi 2007-2008, e si deve ritornare al Salvatore che proviene dai grandi organismi economico-finanziari, a chi appaia innocente degli sfracelli commessi. Ora la Banca d' Italia è sostanzialmente la Banca centrale europea, e perciò Così da Monti a Draghi. E Draghi, come Monti, altro non potrà che ripetere il ritornello del piano di riforme di cui il Paese ha bisogno, senza le quali neanche un Recovery fund dieci volte maggiore servirebbe a rimetterci in sesto. Monti lo sapeva, Draghi ancora di più, e già lo sapevano benissimo i Ciampi e i Dini. Le riforme, come tutti gli atti decisivi, in tempo di pace come di guerra, che siano crisi economiche o pandemie, possono essere intraprese soltanto da forti maggioranze politiche che si sentano partecipi di una comune visione e di un comune destino. Vale la pena ripeterlo: politica è anche competenza o non è. Una politica incompetente è chiacchiera demagogica per definizione. Non si tratta affatto dell' assurda pretesa che chi fa il politico di professione abbia la competenza di un Draghi in materia finanziaria o di un Cassese in pubblica amministrazione o di una Cartabia in diritto. Ciò che è necessario è che una forza politica contenga in sé, nella sua struttura, nel modo in cui si organizza, un rapporto continuo e organico con quelle competenze che rendono possibile fondare una strategia realistica, credibile nei suoi obbiettivi e nel percorso da compiere per realizzarli. Abbiamo disfatto in questo trentennio l' idea stessa di questa forma di azione politica, l' idea stessa di una forza così strutturata. Ma lo si sappia finalmente: se la competizione politica non avviene tra partiti che compongono in se stessi tecnica-e-politica, politica-e-competenza, non solo mai si avvierà un processo reale di riforme, ma dileguerà agli occhi del "popolo sovrano" l' interesse stesso per la democrazia. A che servono, infatti, le rappresentanze politiche se nei momenti più difficili bisogna ricorrere a Autorità "da fuori"? Se per la terza volta in un decennio è capo del governo chi nessuno ha eletto? Vi pare questo un fatterello irrilevante, dal momento che, certo, la Costituzione rimane inviolata, e tutto si svolge secondo le regole del puro parlamentarismo? Gli dèi accecano coloro che vogliono perdere. E' assolutamente inevitabile che il "popolo sovrano" si chieda: perché tanto spreco di rappresentanti e assemblee se il mio destino, nei momenti decisivi, non può essere loro affidato, mentre nei momenti normali può benissimo esserlo a capaci amministratori? La domanda ha una risposta sola: perché in democrazia i governi Monti, Draghi e quelli prima citati si configurano necessariamente come "servizi di emergenza" e mai potranno realizzare riforme di assetti istituzionali, né quelle della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola. Possono fare leggi di bilancio equilibrate, permetterci di ridurre lo spread, evitare sprechi e errori di "calcolo". E sono tutte cose giuste e buone. E dobbiamo essere loro grati quando le combinano. Ma se vogliamo davvero che i "governi del Presidente" assumano, loro, la responsabilità di metter mano al sistema Paese, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di "superare" l' idea di democrazia nel cui grembo siamo stati allevati. Delle due l' una e il terzo non è dato: o i partiti sono capaci di ricostruire il loro radicamento sociale, di formare gruppi dirigenti realmente rappresentativi, di elaborare strategie sulle quali costruire alleanze operative, non dettate esclusivamente dal primum vivere, oppure si elegga un Presidente-Capo che nomina il proprio governo, al quale è lui a dettare l' agenda. Ma la si faccia finita con questo presidenzialismo surrettizio. Per quanto tempo ancora si potrà andare avanti nell' equivoco? All' ombra protettiva di Mario Draghi destre, sinistre e centri nostrani hanno un anno per rifletterci. Se, fatto il nuovo presidente della Repubblica, all' esito delle prossime elezioni politiche, dovesse ripresentarsi una situazione analoga al 2018 e ancora una volta, dopo defatiganti tentativi, l'invenzione di nuovi Conte, di altri e sempre uguali responsabili e ricostruttori, Draghi, divenuto nel frattempo capo dello Stato, dovesse ricorrere al suo collega di turno di via Nazionale o di Francoforte per salvare la baracca, non sarebbe più soltanto il crollo definitivo del nostro ceto politico, ma della fiducia stessa nella democrazia rappresentativa. E l' opera iniziata con tanta passione dai populismi, sovranismi e "vaffa" giungerebbe al suo felice coronamento.

Andrea Malaguti per "La Stampa" il 18 febbraio 2021. Bravo, ma non farà le riforme. Il giudizio di Massimo Cacciari sul primo giorno da preside della scuola Italia di Mario Draghi è benevolo, ma poco rassicurante. L'uomo non si discute, le sue possibilità di rivoltare il paese come un calzino sì. Per dirne una: «Come li metti d'accordo Forza Italia e Cinque Stelle sulla riforma della giustizia?». Non li metti d'accordo. «Appunto». Non è la paralisi (i soldi del Next Generation Eu sono nelle mani migliori possibili), ma neppure la Valle dell'Eden. Semplicemente un film diverso. Che al momento vince il premio della critica. Con una sola eccezione. Lui.

Professor Cacciari, le è piaciuto il discorso di Draghi?

«Certamente è stato un discorso più puntuale di quelli che ci eravamo abituati a sentire negli ultimi insediamenti. Ho apprezzato soprattutto la parte sulla pandemia».

Il virus come moltiplicatore delle disuguaglianze?

«La pandemia non è affatto neutrale, non colpisce tutti nello stesso modo. A pagare di più, a parte chi crepa, sonno i giovani, le donne, i lavoratori fragili. Non so se esistano dati anche da noi, ma negli Stati Uniti le statistiche dicono che i meno abbienti, le persone disagiate, sono colpite dal contagio quattro volte di più di chi sta bene».

Temo sia una statistica universale.

«Il nostro sistema di protezione è squilibrato, lo dico da mesi. Non si può affrontare la pandemia senza vedere che metà della popolazione è al sicuro mentre l'altra metà passa dai disagi gravissimi alla disperazione. Bisogna rimediare prima che salti il tappo e scoppi la rivolta sociale. Quando i licenziati usciranno da sotto il tappeto che sembra renderli invisibili avremo un problema. Non potremo ricorrere in eterno alla cassa integrazione senza mettere in crisi l'Inps e su questo tema non ho sentito dire un gran che».

Si aspettava l'emozione del gelido tecnocrate Mario Draghi?

«Ma la sua storia intellettuale e culturale - a partire dalle scuole che ha fatto e dai primi maestri che ha avuto (i gesuiti) - non è quella di un uomo gelido. Anche in Europa ha dimostrato di essere attento ai disagi e alle contraddizioni sociali».

Un tecnocrate con l'anima.

«Lasci perdere l'anima. La verità è che non esiste tecnica senza politica e chi pensa il contrario ha una visione arcaica».

Cito: "Saremo semplicemente il governo del Paese". Straordinariamente ovvio o ovviamente straordinario?

«Di sicuro questo governo non ha una maggioranza politica. E non è nemmeno tecnico anche se è Draghi a dare le carte. I partiti non avevano scelta di fronte alla posizione di Mattarella e quella del premier è una sintesi più che una fotografia. Nel governo ci sono tutti, tranne la Meloni che pure è molto ragionevole».

Uniti verso un futuro pieno di riforme?

«Figuriamoci. Draghi non lo può dire, ma io sì: con questo governo le riforme non le vedremo mai».

Non esagera?

«Draghi non è il Padreterno e non potrà fare in un giorno quello che non si fa da 30 anni. Vuole degli esempi? Lo ius culturae evocato da Zingaretti lo vedremo mai in un governo con Salvini?

E sulla giustizia è possibile trovare un punto di caduta tra 5Stelle e Forza Italia? Dubito. E così sarà per il fisco o per una vera riforma della scuola»

Eppure la frase più netta del premier è stata: "L'unità non è un'opzione, è un dovere". Come nel dopoguerra.

«I partiti hanno il dovere preciso di appoggiarlo e di non rompergli i coglioni dopo quello che hanno combinato. E Draghi è abbastanza intelligente da non chiedere cose impossibili. Ma il richiamo alla ricostruzione del dopoguerra è benevolmente ridicolo».

L'unità allora ci fu. Breve, ma ci fu.

«Sì, dal '45 alla Costituente perché non si poteva fare diversamente. Poi la ricostruzione la fece la Dc con i suoi alleati lasciando fuori il Pci. Un po' di memoria storica è necessaria. Altrimenti, citando Musil come ha fatto recentemente Donatella Di, si diventa come quelle persone che non hanno mai del tutto torto in niente perché i loro concetti sono indistinti come figure tra i vapori di una lavanderia. Comunque le parole di Draghi sono comprensibili e perdonabili».

Che scenario prevede, allora?

«Draghi interverrà sulla pandemia, organizzerà un nuovo piano vaccini e userà i soldi del Next Generation Eu anche per affrontare le gravi crisi industriali. Quelle, da Alitalia all'Ilva, sono vere gatte da pelare. In Senato ha detto una cosa su cui mi pare si siano soffermati in pochi: i soldi non andranno alle aziende decotte».

È la teoria del debito buono, che però - nell'immediato - rischia di produrre un sacco di persone a spasso.

«Mi aspetto che Draghi affronti le crisi in modo socialmente sensibile. Non so se basteranno i soldi europei, ma so che il sistema previdenziale è squilibrato e per immaginare un cambiamento servirà, in questo caso davvero, il contributo di tutti. Non ci sarà la patrimoniale, ma una manovra di bilancio decisa sì».

Professore, stavolta cito lei: il governo Draghi certifica il fallimento della politica. In Aula il premier ha sostenuto l'opposto.

«Mica poteva dire il contrario. E' ovvio che la sua presenza è il risultato di una catastrofe politica. L'affermazione del premier la prenderei per un vezzo retorico».

In questo governo ci sono 15 ministri del Nord.

«Bah, secondo me Draghi neppure lo sa. E poi non è che il Nord sia sciocco ed egoista. I problemi dell'assistenza sono noti a tutti. Piuttosto sono due i punti politici da capire, la Lega e i 5 Stelle».

Partiamo dalla Lega.

«Sarà interessante vedere se questa svolta giorgettiana è radicata e destinata a durare con Salvini comunque leader».

E i 5 Stelle?

«Vedere se esplodono o no». Per ora vogliono federarsi con Pd e Leu. «Mi pare un fatto positivo. Hanno davanti scadenze decisive (penso al voto in città come Torino, Roma e Napoli) e dunque è meglio che trovino un modo per marciare divisi e colpire uniti».

E il Pd?

«Si barcamena. Come sempre».

Nel discorso di Draghi una citazione per Cavour e una per Papa Francesco.

«Cavour lasciamolo stare. Il Papa quando si parla di ambiente ormai è un must. Per fortuna non ha citato San Francesco e il cantico delle creature».

Perché lasciamo stare Cavour?

«Perché per me che sono un federalista sarebbe stato meglio riferirsi a Spinelli, a Trentin o a don Sturzo piuttosto che evocare il centralismo autoritario sabaudo».

Vittoria Puledda per "la Repubblica" il 17 febbraio 2021. Effetto-Draghi e aspettative di rialzo dell' inflazione (legata alla ripresa economica) hanno spinto gli investitori a richiedere a piene mani i nuovi Btp in offerta: la domanda ha toccato il record di 130 miliardi nel corso della giornata, per poi ridimensionarsi (secondo fonti di mercato è scesa a circa 82 miliardi, di cui 65,5 sul decennale) quando il Mef ha ridotto i tassi, grazie alla vivacità dell' offerta. Sempre un' enormità rispetto ai valori di aggiudicazione: 10 miliardi per il nuovo Btp a 10 anni - scadenza agosto 2031 - aggiudicato ad un rendimento pari allo 0,604% (il più basso di sempre in asta). L' altro titolo - collocato per 4 miliardi - è un Btp trentennale indicizzato all' inflazione europea: in questo caso il rendimento reale è stato fissato allo 0,177%, cui va poi ad aggiungersi la maggiorazione sul capitale, legata all' inflazione. Effetto-Draghi, in larga parte: dalla convocazione al Quirinale, lo scorso 2 febbraio, lo spread - ieri a 92 punti - è sceso di 24 punti base mentre il rendimento del Btp decennale è passato dallo 0,65% allo 0,57%. Ieri si è trattato di un' emissione un po' particolare, effettuata con il sistema della sindacazione (cinque banche hanno raccolto gli ordini all' ingrosso, per il Tesoro) e riservata, in questa prima fase, agli investitori istituzionali (i privati potranno come sempre comprare poi i titoli sul secondario). Un sistema che aiuta ad ampliare la domanda degli operatori: a inizio gennaio il Btp a 15 anni aveva ricevuto richieste per 105 milioni. Domani, come da calendario, il Mef annuncerà la prossima asta, prevista per il 23 febbraio: il programma prevedeva un' asta di Ctz e una di Btp indicizzati all' inflazione europea, ma alla luce di questo collocamento ci potranno essere variazioni (non è esclusa nemmeno la cancellazione dell' asta di Btp). A questo punto l' attesa del mercato è tutta per il Btp green. Il Tesoro finora non ha modificato l' annuncio di sempre, per un' emissione entro il primo trimestre: dunque, i tempi sono maturi. Se continuerà l' effetto-Draghi, anche le condizioni di emissione dovrebbero essere favorevoli.

I poteri italiani ed internazionali puntano su Draghi. Andrea Muratore su Inside Over il 18 febbraio 2020. La legislatura parlamentare in corso si caratterizzerà, vista in futuro, come una delle più complesse della storia della Repubblica italiana. Inaugurato dallo sfondamento elettorale di formazioni come i Cinque Stelle e la Lega alle elezioni del 2018, in uno scenario fortemente mutato sul piano politico, il Parlamento oggi vigente è stato epicentro di dinamiche legate alla gestione e alla spartizione del potere e dell’autorità decisionale che hanno riguardato la politica nazionale su più piani. A un primo livello, il legittimo esito del voto popolare e delle dinamiche interne ai partiti; a un secondo livello, l’influenza sulle rotte dell’Italia delle tecnostrutture interne o vicine al potere nazionale (grand commis di Stato, impresa pubblica, servizi segreti); a un terzo livello, regista delle crisi politiche, il Quirinale, con Sergio Mattarella attento a presentarsi sia come referente dell’Italia al resto del mondo sia, parimenti, come garante di fronte alla politica italiana dell’ancoraggio euro-atlantico del nostro Paese. Le conseguenze legate alle problematiche sulla gestione della seconda ondata della pandemia, la litigiosità interna alla fragile maggioranza di governo e un’inefficace politica economica hanno fatto naufragare il tentativo di Giuseppe Conte di ricondurre a una sintesi la triplice legittimazione politica di cui, inevitabilmente, chi governa ha oggigiorno bisogno. E aperto la strada all’ipotesi Draghi, della cui fattibilità su Inside Over parlavamo già da tempo non definendola come un semplice caso di studio, ma come la specifica carta cui Mattarella sarebbe potuto ricorrere qualora la crisi politica avesse prodotto il rischio di degenerare in crisi di sistema. Il ralliement e l’ampia maggioranza prodottasi e plasmatasi in pochi giorni attorno a Draghi dimostra che il quadro politico è destinato a evolvere con forza nei mesi a venire, ma che nel frattempo il Quirinale, cuore pulsante del nostro Stato profondo non ha potuto fare a meno di incorporare nei suoi calcoli la situazione emergenziale e, soprattutto, le pressioni che erano pervenute sull’Italia per affidare a una figura di assoluta garanzia “euro-atlantica” la guida del governo. Tpi nota che le grandi istituzioni internazionali (dalla Bce al Fmi) e gli alleati europei ed atlantici dell’Italia temevano che dopo la pandemia l’Italia potesse schiantarsi sulla scia di una convergenza tra le problematiche della pandemia e una crisi economica incalzante: “La vera ‘missione’ del professor Draghi sarà quella di rilanciare il paese (altrimenti sarebbe a rischio anche la tenuta della stessa comunità europea) facendo però in modo che non saltino per aria i già delicati conti pubblici italiani onde evitare il "commissariamento" vero e proprio quando ritorneranno in vigore i parametri interni Ue”. E dato che da tempo siamo abituati a vedere nell’andamento degli spread e delle borse una maggiore rilevanza politica del reale valore finanziario che essi hanno, si può dire che la finanza internazionale vicina ai centri di potere che maggiormente hanno spinto per Draghi ha accolto con entusiasmo il cambio della guardia a Palazzo Chigi. “L’autorità, la stabilità e la competenza del governo del primo ministro Draghi sono un grande punto di forza, che aumenta la nostra convinzione che l’Italia userà il Recovery fund in modo efficace”, scrive Morgan Stanley in un report, sottolineando che presto gli spread potrebbero convergere fino a un minimo differenziale di 55 punti tra il Btp e il Bund tedesco, un valore rilevante anche nel quadro del diluvio di liquidità messo in campo dalla Bce. E non finisce qui. Il Financial Times, voce della finanza londinese, ha tributato un vero e proprio plauso al discorso di Draghi di esordio al Senato. Secondo il Ft Draghi è “l’uomo giusto” per attuare le riforme chiave di cui l’Italia necessita da tempo, ma “avrà bisogno di un alto senso di responsabilità da parte della classe politica italiana se vuole superare una crisi che ha giustamente definito la più grave dalla seconda guerra mondiale”, e nell’ottica del prestigioso quotidiano britannico l’orizzonte temporale del governo Draghi dovrebbe allungarsi fino al 2023. In sostanza, cosa potremmo trarre da questi indicatori? Sicuramente la constatazione della carenza di figure, nel quadro del sistema Paese, capaci di ricondurre a unità la triplice fiducia di cui un leader istituzionale oggigiorno ha bisogno. Draghi, “riserva della Repubblica”, può sommare al consenso di una vasta base parlamentare il sostegno dello Stato profondo e, in virtù della sua nomina di origine quirinalizia, l’appoggio esplicito di Mattarella. A cui si aggiunge quello dei poteri internazionali di cui sa capire il linguaggio e le espressioni. Il suo governo parte con un carico di aspettative secondo solo all’immanenza delle problematiche che è chiamato ad affrontare: pandemia, recessione, sfiducia nel futuro, in prospettiva la tutela stessa dell’unità della nazione. A cui si aggiunge il sostanziale affidamento nelle sue mani dell’onere di garantire ai partner internazionali del Paese un’immagine rassicurante del futuro dell’Italia. Vaste programme, si potrebbe dire, citando il generale de Gaulle: Draghi è uomo competente e capace, ma il modo migliore per rilanciare il Paese passa, in primo luogo, dall’elaborazione di un progetto per il futuro verso cui indirizzare le migliori energie della nazione. 

Magdi Cristiano Allam: con Draghi, in otto anni, fine dell'Italia come stato sovrano. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2021.

Andrea Cionci.

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Oltre i facili - e sospetti - entusiasmi per il nuovo governo Draghi, Magdi Cristiano Allam, sul suo blog, fa una previsione agghiacciante. La riportiamo integralmente affinché sia di stimolo e arricchimento nel dibattito.

"È nato il «Governo elettorale» di Draghi per consacrarlo Presidente della Repubblica nel 2022. Instaurerà un regime eurocratico e globalista che in otto anni porrà fine all’Italia come Stato nazionale indipendente e sovrano. Buona domenica amici. Sarebbe un’offesa all’intelligenza di Mario Draghi definire il Governo che ieri è entrato in carica il «Governo dei Migliori», come era stato annunciato dai dirigenti dei partiti per giustificare la loro partecipazione alla più ampia coalizione-calderone della storia d’Italia, che ha definitivamente annullato le identità ideologiche e politiche tra destra, centro e sinistra. Più realisticamente è nato il «Governo elettorale» che consacrerà nel gennaio 2022 Draghi Presidente della Repubblica con pieni poteri, avendo Sergio Mattarella chiarito che non intende candidarsi per un secondo mandato. Da oggi si inaugura di fatto un regime eurocratico e globalista autoritario, retto da un «uomo forte» che s’impone con il consenso di tutti i partiti dopo il loro fallimento a governare uno Stato allo sfacelo e le disastrose conseguenze sanitarie, economiche, sociali e psicologiche della pandemia di Covid-19. Il regime di Draghi si protrarrà per un anno come Presidente del Consiglio e per sette anni come Presidente della Repubblica, con la possibilità di ulteriori sette anni di un eventuale secondo mandato. Considerando la bancarotta economica in cui versa lo Stato, la devastazione del nostro sistema di sviluppo incentrato sulle micro, piccole e medie imprese, il crescente impoverimento degli italiani, il tracollo demografico tra i più gravi al mondo, la perdita di credibilità dell’insieme delle istituzioni pubbliche dalla politica all’istruzione e dalla Chiesa cattolica ai mezzi di comunicazione di massa, otto anni saranno sufficienti a Draghi per completare la strategia di fagocitazione dell’Italia in seno ai futuri «Stati Uniti d’Europa» e al Nuovo Ordine Mondiale, impartendo il colpo di grazia a ciò che resta della nostra sovranità. La scelta dei ministri è stata ispirata, non alla logica dei «migliori» a ricoprire l’incarico, ma al «Manuale Cencelli» di concezione democristiana o al «Metodo D’Hondt» vigente in seno all’Unione Europea, per attribuire una fetta di potere a tutti, in proporzione al proprio peso politico specifico, accontentando tutti e senza scontentare nessuno. Perché ciò che interessa a Draghi è garantirsi il più ampio consenso possibile in seno all’attuale parlamento e da parte dei poteri forti europei e globalisti per avere la certezza della sua elezione a Presidente della Repubblica. Lo scorso 2 febbraio Mattarella nel ricordare l’ex Presidente della Repubblica Antonio Segni a 130 anni dalla sua nascita, rievocò la convinzione di Segni che fosse opportuno introdurre in Costituzione il principio della «non immediata rieleggibilità» del Presidente della Repubblica. Mattarella sottolineò la convinzione di Segni che «il periodo di sette anni è sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato». Di fatto Mattarella, che il 23 luglio compirà 80 anni, ha chiarito che non intende ricandidarsi per un secondo mandato. Con il senno del poi il chiarimento di Mattarella suona come un «via libera» all’elezione di Draghi come suo successore. Siccome agli alti livelli della politica nulla accade per caso, è possibile che l’investitura di Draghi a prossimo Capo dello Stato sia parte integrante della scelta che ha portato Draghi ad accettare la guida del Governo in una fase estremamente critica per le sorti dell’Italia. Anche l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nominò Mario Monti senatore a vita il 9 novembre del 2011 prima di conferirgli una settimana dopo la carica di Presidente del Consiglio il 16 novembre. In quel caso è verosimile che si trattò di un «incentivo» politico ed economico. Ma Draghi non ha bisogno di alcun incentivo. Lui è un potere forte. La contropartita per la sua discesa in campo sono i pieni poteri in Italia per soddisfare le mire dei poteri forti europei e globalisti che lui rappresenta ai più alti vertici. Per assicurarsi il più ampio consenso politico e popolare Draghi ha in dote 260 miliardi di euro da investire per la sua campagna elettorale nei prossimi dieci mesi, di cui 210 miliardi del «Recovery Fund» e 50 miliardi del Mes o Fondo salva-Stati. Non gli mancano l’intelligenza e la competenza per dare respiro alla nostra dissestata economia e per far arrivare un po’ di soldi nelle tasche degli italiani. Nei prossimi mesi ci sarà un’apoteosi per Draghi, la maggioranza degli italiani esulterà per la tanto attesa boccata d’ossigeno, ovunque andrà verrà accolto trionfalmente come il «salvatore della Patria». Ma in un secondo tempo la maggioranza degli italiani sarà costretta a ricredersi, scoprendo che i 260 miliardi di euro non sono una manna donataci dalla Provvidenza, ma nuovi ulteriori debiti che graveranno sulle nostre spalle e che si tradurranno in tagli alle pensioni, agli stipendi e ai servizi. Ma a quel punto i giochi saranno fatti. A partire da Francesco Cossiga, che qualificò Draghi «un vile affarista», in Italia il vero potere esecutivo è di fatto nelle mani del Presidente della Repubblica. Con 260 miliardi di euro che l’Unione Europea concede a Draghi per la sua campagna elettorale per consacrarlo a prossimo Capo dello Stato, che per gli italiani corrispondono a un nuovo esorbitante debito, Draghi porrà fine all’Italia come Stato nazionale indipendente e sovrano, consentendone la fagocitazione da parte della macro-dimensione degli «Stati Uniti d’Europa» e del Nuovo Ordine Mondiale, ultimando la missione affidatagli a bordo del panfilo Britannia attraccato al porto di Civitavecchia il 2 giugno 1992, il cui Draghi da Direttore generale del Ministero del Tesoro fu il regista della svendita dei colossi industriali statali, a partire da Iri, Enel, Ina e Enel. Cari amici, chiunque fosse andato al potere dopo Giuseppe Conte, il Presidente del Consiglio più effimero della Storia d’Italia, che ha presieduto il peggior Governo della Storia d’Italia, sarebbe stato ben gradito agli italiani. Ma Draghi non è una scelta casuale e non è una presenza temporanea. Draghi è il più autorevole rappresentante dei poteri forti dei banchieri e dei burocrati che gestiscono l’Unione Europea e dei poteri forti della grande finanza speculativa globalizzata che gestiscono il Mondo. Noi abbiamo il dovere di conoscere e di diffondere questa realtà per consentire al maggior numero possibile di italiani di acquisire la certezza di ciò che sta accadendo e di promuovere il più rapidamente possibile una mobilitazione civile e pacifica per riscattare la nostra Italia indipendente e sovrana, affermare il primato del bene degli italiani, far rinascere la nostra civiltà. Noi che amiamo l’Italia andiamo avanti forti di verità e con il coraggio della libertà. Insieme ce la faremo. Magdi Cristiano Allam (14 febbraio 2021)

DIETRO LE QUINTE DEL GIURAMENTO DEL GOVERNO DRAGHI AL QUIRINALE.

Il Corriere del Giorno il 13 Febbraio 2021. Il primo a prestare giuramento è stato il premier Draghi, che ha letto la formula di rito alle 11.57 con un piccolo anticipo rispetto all’ora previsto. seguito presidente da tutti i 23 ministri che hanno giurato nelle mani del Capo dello Stato. L’esecutivo è nelle sue funzioni. Da quel momento Mario Draghi è diventato il sessantasettesimo presidente del consiglio dell’Italia repubblicana.

Tutti i Ministri del nuovo governo Draghi sono giunti anche in anticipo al Quirinale per il giuramento davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, previsto a mezzogiorno. La prime ministre ad arrivare, per il giuramento, sono Erika Stefani, (Lega) ministro per la Disabilità,  Mariastella Gelmini, (Forza Italia), alla guida del dicastero degli Affari regionali, e Mara Carfagna, (Forza Italia) titolare del dicastero del Sud. Arrivato fra i primi anche Renato Brunetta (Forza Italia), titolare della Pubblica amministrazione. Come da prassi, il primo a prestare giuramento è stato il premier Draghi, che ha letto la formula di rito alle 11.57 con un piccolo anticipo rispetto all’ora previsto. seguito presidente da tutti i 23 ministri che hanno giurato nelle mani del Capo dello Stato. L’esecutivo è nelle sue funzioni. Da quel momento Mario Draghi è diventato il sessantasettesimo presidente del consiglio dell’Italia repubblicana. La cerimonia si è svolta nel Salone delle feste del Quirinale; i giornalisti hanno dovuto seguirla in diretta streaming, per rispetto della normativa contro la diffusione del coronavirus. Come previsto dal cerimoniale, pochi minuti dopo il giuramento è avvenuto il passaggio di consegne tra Giuseppe Conte e Mario Draghi a Palazzo Chigi. Dopo la foto di rito nella sala dei Galeoni, il premier uscente Conti e quello appena entrato in carica, cioè Draghi si sono recati nello studio presidenziale. Al termine del colloquio è avvenuto un altro passaggio protocollare: quello della «campanella» tra il premier uscente e il suo successore. Completato questo rito, Draghi è ufficialmente insediato a Palazzo Chigi. Il primo Consiglio dei ministri del governo Draghi si è tenuto a Palazzo Chigi dopo il passaggio di consegne tra i due premier e la cerimonia dello scambio della campanella. L’Adnkronos ha riferito che prima del Cdm che darà inizio al nuovo corso tutti i ministri sono stati sottoposti a tamponi rapidi antigenici, potendo accedere alla sala del Consiglio dei ministri solo all’esito dei tamponi, che sono risultati tutti negativi. Pochi minuti dopo il passaggio di consegne, mentre era in corso il primo consiglio dei ministri del Governo Draghi che è durato meno di mezz’ora, l’ormai ex presidente del consiglio Giuseppe Conte ha lasciato Palazzo Chigi assieme alla compagna Olivia Palladino. Un lungo applauso da parte dei dipendenti della presidenza del consiglio, come già accaduto per alcuni governi precedenti ha salutato il momento dell’uscita di Conte dalla presidenza del consiglio. Alcuni partecipanti alla riunione del consiglio dei ministri hanno raccontato che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha aperto la seduta con un discorso sulle priorità dell’esecutivo di governo partendo da un presupposto che una di queste priorità sarà quella di “mettere in sicurezza il paese“, anche grazie al lavoro di una squadra coesa e senza “interessi di parte“.

Mario Draghi, la foto della squadra di governo: via la mascherina solo per pochi secondi. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Tutti fuori dal Salone delle Feste al Quirinale. Tutti fuori a parte i protagonisti del giuramento del nuovo governo guidato da Mario Draghi. Questa volta, a causa del coronavirus, non ci sono né parenti né giornalisti. Distanziamento e mascherine tengono banco, vietate le strette di mano: davanti a Sergio Mattarella, infatti, ci si limita a un inchino, come se fossimo diventati un paese orientale. E ancora, dopo ogni firma di ogni giurante, la penna veniva sanificata. "Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione", questo il dispositivo che, per primo, ha letto proprio Mario Draghi. Rapido, essenziale, senza tradire emozione. Il neo-premier ha scelto di leggere il dispositivo, insomma non lo ha recitato a memoria così come hanno fatto altri giuranti. Dunque la rituale foto di rito, la foto del governo Draghi: tutti i ministri, il premier ovviamente, i sottosegretari e Sergio Mattarella. Foto scattata nel Salone dei Corazzieri, quello attiguo al Salone delle Feste, unica occasione in cui è concesso sfilare la mascherina, anche se soltanto per qualche secondo, lo stretto necessario per scattare una fotografia. Già, il Covid è in agguato. La prudenza la fa da padrone. Tanto che si è appreso che per accedere al primo CdM dell'epoca Draghi, in calendario per oggi, sabato 13 settembre, alle 14, tutti i partecipanti dovranno sottoporsi a tampone rapido: solo se l'esito sarà negativo potranno prendere parte alle riunione. In CdM si insedierà Roberto Garofali, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Mercoledì ci sarà il voto di fiducia in Senato e giovedì alla Camera (anche se potrebbero svolgersi entrambi i voti nella giornata di mercoledì).

Roberto Speranza giura a memoria ma sbaglia la formula: le parole invertite, al cospetto di Mattarella. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. In tutto, 23 minuti. Tanto è durato il giuramento al Quirinale del nuovo governo. Ad aprire le danze è stato Mario Draghi, il quale serissimo e senza tradire alcun tipo di emozione, ha giurato con tre minuti di anticipo rispetto alle 12, l'orario previsto. Ma è un marchio di fabbrica di Sergio Mattarella anticipare di qualche minuto i momenti più importanti. Alle 12.20, Draghi e tutti i 23 ministri avevano giurato nelle mani del Capo dello Stato e, dunque, l'esecutivo entrava ufficialmente nelle sue funzioni. Draghi è il 67esimo presidente del Consiglio nella storia dell'Italia Repubblicana. Ma in questo giuramento c'è stato qualcosa che non ha funzionato. E riguarda Roberto Speranza, il ministro della Salute di Liberi e Uguali che è stato riconfermato nel suo dicastero, riconferma dietro la quale ci sarebbe la volontà di Sergio Mattarella che ne ha apprezzato l'operato e vuole dare continuità alla Salute al tempo del coronavirus. Il punto è che Speranza non ha voluto "sfruttare" il foglio con la formula del giuramento, insomma non la ha letta. Risultato? La ha sbagliata, invertendo i termini "interesse" ed "esclusivo". Niente di grave, sia chiaro. Comunque un pizzico imbarazzante. Ma se il buongiorno si vede dal mattino...Per inciso, gli altri ministri che hanno giurato "a memoria" sono stati Stefano Patuanelli ed Elena Bonetti. Speranza, altro piccolo particolare, è stato l'unico che dopo aver giurato è rimasto davanti a Mattarella che controfirmava il foglio. Ora, il primo Consiglio dei ministri: alle 14 infatti si riunirà per la prima volta a Palazzo Chigi la squadra di Mario Draghi, questo dopo il passaggio di consegne tra quest'ultimo e Giuseppe Conte. La AdnKronos ha fatto sapere che prima del CdM tutti i ministri verranno sottoposto a un tampone rapido antigenico: soltanto se negativo potranno accedere alla sala del Consiglio dei ministri.

Da huffingtonpost.it il 14 febbraio 2021. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sbaglia cerimoniale e non si ferma davanti alla bandiera italiana al momento di entrare nel cortile di Palazzo Chigi. L'alto ufficiale di servizio, che lo accompagna, lo ferma per farlo tornare indietro.

Mario Draghi "scorda" il tricolore: niente inchino al cerimoniale, ripreso da un addetto. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Mario Draghi si è reso protagonista di una dimenticanza che ha gettato nel panico l’addetto al cerimoniale che lo accompagnava. Il curioso siparietto non è ovviamente sfuggito alle telecamere, che erano tutte per il premier incaricato dal presidente Sergio Mattarella di formare un governo di “alto profilo” sul giusto equilibrio tra tecnici (destinati ai dicasteri chiave per la gestione del Recovery Fund) e politici. Forse a causa di una dimenticanza dettata dall’emozione, Draghi ha rischiato di saltare un passaggio cruciale del cerimoniale. Mentre riceveva gli onori militari nel cortile, il nuovo premier si è dimenticato di fermarsi davanti al tricolore, mettendo subito in allarme l’addetto al cerimoniale che era al suo fianco e che gli ha fatto notare di dover tornare indietro per chinarsi dinanzi al tricolore. Cosa che poi Draghi ha fatto, dopodiché ha potuto fare il suo ingresso ufficiale a Palazzo Chigi, dove c’è stato il passaggio di consegne con Giuseppe Conte, suggellato dal tradizionale cerimoniale della campanella. Draghi ha subito preso posizione nella stanza che fino a poche ore prima era occupata proprio dal premier uscente: si è già messo al lavoro dopo il Consiglio dei ministri introduttivo. Al momento, però, l’ex presidente della Bce non ha ancora uno staff: sono infatti vuote le stanze riservate al portavoce e all’ufficio della comunicazione. 

Da avvenire.it il 13 febbraio 2021. Il Passaggio Della Campanella. Sanificazione delle mani per Conte e Draghi, poi il passaggio della campanella. Entrambi tengono le mani sul "simbolo" del governo. Draghi si concede una brevissima "scampanellata".

Lungo applauso per il congedo di Conte. Che cos’è la cerimonia della campanella, il rito tra i premier segnato dall’amuchina. Giovanni Pisano su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Il passaggio di consegne tra il premier uscente Giuseppe Conte e il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi si è svolto nella sala dei Galeoni di palazzo Chigi con la tradizionale cerimonia della campanella. Giuseppe Conte ha così passato le consegne a Mario Draghi, che – avendo simbolicamente suonato la campanella – è entrato nel pieno delle sue funzioni. Alle 14 si riunirà il primo Consiglio dei ministri che nominerà il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli. Il passaggio della campanella, in tempi di covid, è avvenuto dopo aver che Conte e Draghi hanno provveduto a disinfettarsi le mani con l’amuchina. Un applauso finale ha salutato Conte prima che il presidente uscente lasciasse il salone d’onore. L’avvocato è stato salutato dal personale affacciato alle finestre a cui ha risposto, visibilmente commosso, con un cenno della mano. Nel settembre del 2019, a cavallo tra il primo e il secondo governo guidato da Conte, c’è stato il passaggio della campanella da una mano all’altra del premier che subentrava a se stesso.

LA CERIMONIA DELLA CAMPANELLA – Dopo aver svolto il giuramento del nuovo governo nelle mani del Presidente della Repubblica al Palazzo del Quirinale, una volta giunto a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio dei ministri entrante viene accompagnato dal consigliere militare con cui passa in rassegna la guardia d’onore schierata nel cortile interno. Salutato il segretario generale alla Presidenza del Consiglio, il neo presidente, venendo ancora accompagnato, sale attraverso lo Scalone d’Onore, giungendo dunque nella Sala delle Galere dove viene accolto dal presidente uscente. Assieme entrano nello Studio presidenziale per un incontro riservato, al termine del quale, vengono raggiunti sia dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sia entrante (Roberto Garofoli) che uscente (Riccardo Fraccaro), coi quali fanno rientro nel Salone delle Galere dove ha luogo la simbolica cerimonia di consegna della campanella. Il neo presidente del Consiglio rientra quindi nel proprio studio, mentre il presidente uscente, accompagnato dal capo dell’Ufficio del cerimoniale di Stato e per le onorificenze attraverso lo Scalone d’Onore, giunge nel cortile interno e, dopo aver ricevuto gli onori militari da parte della guardia d’onore schierata, lascia a piedi Palazzo Chigi.

IL PRIMO CDM – Dopo che il Presidente del Consiglio uscente ha lasciato Palazzo Chigi, nella Sala del Consiglio, l’Esecutivo, riunitosi, tiene il primo Consiglio dei ministri. In questa seduta viene nominato il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Segretario del Consiglio dei ministri, nella persona già annunciata dal Presidente al Quirinale insieme alla lista dei ministri. Il Segretario non deve prestare giuramento pubblicamente, bensì appunto durante il primo Consiglio dei ministri, dopo la sua nomina prima di assumere le sue funzioni. Nel primo CdM vengono anche assegnate le deleghe ai ministri senza portafoglio.

(ANSA il 13 febbraio 2021) - "Grande esperienza, grande esperienza, spero di essermi migliorato anche come persona. E' stata una giornata sobria ed efficace". Lo dice Giuseppe Conte in un video di Fanpage.it, intercettato dai cronisti dopo aver lasciato Palazzo Chigi. Rammarichi? "Mai rammarichi", replica Conte che, a chi gli chiede se bisogna guardare avanti replica: "sempre".

(Adnkronos il 13 febbraio 2021) - Si commuove Rocco Casalino, mentre i dipendenti di Palazzo Chigi tributano un applauso lunghissimo al premier uscente, che saluta con la mano alzata nel cortile della sede della presidenza, la compagna Olivia Paladino al suo fianco. Il portavoce di Conte, vestito d'ordinanza e mascherina bianca sul volto, non trattiene le lacrime. Qualche fotografo cattura l'immagine, che ora sta rimbalzando sui social.

Il portavoce: "Tributo senza precedenti". Conte, l’addio tra le lacrime di Casalino e gli applausi di palazzo Chigi: “Vado avanti”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Mentre lasciava Palazzo Chigi è stato salutato da un lungo applauso da parte dei dipendenti che ha conosciuto in questi due anni e mezzo. Applauso che ha ricambiato calorosamente. Dopo la cerimonia della campanella e il passaggio di consegne con il neo premier Mario Draghi, Giuseppe Conte lascia la sede del Governo, in compagna della compagna Olivia Paladino, visibilmente emozionato. “Ho lavorato nel “Palazzo”, occupando la “poltrona” più importante. Ma tra i corridoi e gli uffici di Palazzo Chigi, anche alla fine delle giornate più dure e dopo le scelte più gravose, ho sempre avvertito l’orgoglio, l’onore e la responsabilità di rappresentare l’Italia”. Inizia così il post di congedo pubblicato da Conte sui social e diventato virale nel giro di pochi minuti. “Sono grato a Voi cittadini per il sostegno e l’affetto, che ho avvertito forti e sinceri in questi due anni e mezzo. Ma – prosegue – vi sono grato anche per le critiche ricevute: mi hanno aiutato a migliorare, rendendo più ponderate le mie valutazioni e più efficaci le mie azioni. La forza e il coraggio dimostrati dalla intera comunità nazionale soprattutto durante quest’ultimo anno di pandemia sono stati davvero incredibili: ci hanno dimostrato che ogni ostacolo, anche il più alto e insidioso, può essere superato, scacciando via le paure e i calcoli di convenienza, fidando nel coraggio dell’azione, nella determinazione dell’impegno, nell’etica della responsabilità. Io stesso ho cercato di far tesoro di questa esperienza, pur con i miei limiti, ma – vi assicuro – con tutto il mio impegno e la mia massima dedizione”. “Da oggi non sono più Presidente del Consiglio. Torno a vestire i panni di semplice cittadino. Panni che in realtà – scrive Conte in un post pubblicato sui social – ho cercato di non dismettere mai per non perdere il contatto con una realtà fatta di grandi e piccole sofferenze, di mille sacrifici ma anche di mille speranze che scandiscono la quotidianità di ogni cittadino”. “È davvero necessario che ognuno di noi partecipi attivamente alla vita politica del nostro Paese e si impegni, in particolare, a distinguere la (buona) Politica, quella con la – P – maiuscola, che ha l’esclusivo obiettivo di migliorare la qualità di vita dei cittadini, dalla (cattiva) politica, intesa come mera gestione degli affari correnti volta ad assicurare la sopravvivenza di chi ne fa mestiere di vita. Insieme a tanti preziosi compagni di viaggio abbiamo contribuito a delineare un percorso a misura d’uomo, volto a rafforzare l’equità, la solidarietà, la piena sostenibilità ambientale. Il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere. Con l’Italia, per l’Italia. Grazie”. Lacrime per Rocco Casalino, portavoce di Conte, pizzicato dalle telecamere mentre l’ex premier lasciava Palazzo Chigi. ”Si, mi sono commosso. E’ stato un momento bellissimo perché l’applauso che il Palazzo gli ha tributato è stato sentito, lungo, credo senza precedenti” ha commentato Casalino all’Adnkronos. “E questo perché Conte è una persona vera e leale e tutti -nel palazzo dove abbiamo lavorato per anni, giorno e notte soprattutto durante l’emergenza Covid- glielo riconoscono, dal primo dei funzionari ai poliziotti, dai commessi ai segretari” aggiunge Casalino. “Tutti – conclude – lo hanno conosciuto e tutti hanno imparato a volergli bene. Credo che lascerà il segno, che non lo dimenticheranno. Piaccia o no, Conte è stato il presidente di tutti. Un gran presidente. E l’affetto che lo circonda al termine di questa avventura ne è testimonianza”.

Lo smacco di Crimi a Casalino: ecco l'ultimo sms al "portavoce". Rocco Casalino è stato prima preso di mira sui social per la lacrima di commozione che ha versato vedendo Giuseppe Conte lasciare Palazzo Chigi, poi è stato scaricato in chat anche da Vito Crimi. Francesco Curridori, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. L'ultimo giorno di Rocco Casalino a Palazzo Chigi si è concluso nel peggiore dei modi. Prima è stato preso di mira sui social per la lacrima di commozione che ha versato vedendo Giuseppe Conte lasciare tra gli applausi la sede del governo, poi è stato scaricato in modo poco elegante anche da Vito Crimi. Nelle ultime conversazioni di una chat di lavoro interna ai membri del governo che ilGiornale.it ha potuto visionare in esclusiva, Vito Crimi, il reggente del M5S, ha liquidato bruscamente i due responsabili della comunicazione dell'ormai ex premier Conte. "Carissimi, con la conclusione del governo Conte viene meno anche la funzione di questa chat. Grazie infinite per la collaborazione, buon lavoro a tutti", è il messaggio che la numero 2 dell'ufficio stampa del presidente Conte, Mariachiara Ricciuti, ha scritto a fine giornata. Segue Casalino, "il portavoce" per eccellenza, che saluta con un freddo ed eloquente "abbraccio a tutti". Subito dopo è intervenuto il reggente Crimi con una raccomandazione importante: "Mariachiara, Rocco, lasciate le consegne a qualcun altro" e, poi, ha precisato: "la mia chat più importante". Un esterrefatto Casalino, che fino a pochi giorni fa spadroneggiava a Palazzo Chigi, replica con una serie di punti interrogativi che non trovano risposta sebbene il messaggio del reggente Crimi fosse abbastanza chiaro. Proviamo a tradurre: "L'ultimo che esce, chiuda bene e mi faccia trovare le chiavi della stanza nella mia scrivania". Ebbene sì, sono finiti i tempi in cui Casalino si vantava d'essere il braccio destro del premier. Non dimentichiamo che, solo pochi giorni prima, l'ex gieffino aveva dichiarato al Foglio: “Sono sollevato. Mi riapproprio della mia vita. L’unica che soffre è mia madre, le faceva piacere poter dire che suo figlio era il portavoce del capo del governo”. Casalino, l'ideatore delle conferenze stampa-show durante il lockdown, ieri ha preso coscienza del fatto che, ora, persino Crimi conta più di lui. Gli è stato fatale non essere riuscito ad "asfaltare Renzi" in Senato. Si narra, infatti, che sia stato lui ad assicurare a Conte che non sarebbe stato difficile trovare una ventina di parlamentari "responsabili" capaci di creare un gruppo che sostituisse Italia Viva. Così non è stato, l'ipotesi di un Conte Ter è naufragata in breve tempo e Casalino è stato costretto a ritirare temporaneamente dalle librerie la sua autobiografia Il portavoce. Probabilmente anche per questo motivo ha pianto. Ufficialmente, però, l'ormai ex portavoce di Conte ha spiegato all'Adnkronos che, quello dei saluti, "è stato un momento bellissimo perché l'applauso che il Palazzo gli ha tributato (a Giuseppe Conte ndr) è stato sentito, lungo, credo senza precedenti. E questo perché Conte è una persona vera e leale e tutti". Peccato, però, che la sera prima, nel corso della trasmissione Propaganda Live avesse dato un'impressione diversa al conduttore Diego Bianchi che lo ha intervistato camminando per le vie del centro. "Sto meglio, adesso passeggio. Ho un ritmo più tranquillo perché i ritmi prima erano folli. Non hai idea, stare dietro a Conte", ha confessato l'ex spin doctor dell' 'avvocato del popolo'. E ancora: "Adesso sono libero. Possiamo stare insieme tutta la giornata. Prima dovevo seguire lui che lavorava tipo 23 ore al giorno, capito? Io non mi reggevo in piedi. Credo che l'ultima volta a Bruxelles abbia saltato totalmente una notte. Noi potevamo dormire qualche ora, lui no perché era dentro il Consiglio europeo". "Sono già ubriaco di libertà", ha ribadito più volte Casalino, aggiungendo: "Per la prima volta ho il piacere di rappresentare me stesso e non qualcun altro". Ieri glielo ha ricordato anche Crimi...

La verità sugli applausi a Conte. Ecco quello che nessuno vi dice. Il lungo applauso per Giuseppe Conte non è stato un unicum nel cerimoniale di Palazzo Chigi: tanti i precedenti di una tradizione consolidata. Francesca Galici, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Consegnata la campanella a Mario Draghi, Giuseppe Conte ha definitivamente salutato Palazzo Chigi. Ha completato l'ultima parte del cerimoniale di insediamento che spetta al presidente del Consiglio uscente e ha chiuso la sua esperienza di governo mano nella mano con la sua Olivia, reticente a prendere parte a quel momento. Dalle finestre, i commessi e gli impiegati di Palazzo Chigi hanno tributato il loro saluto all'inquilino che se ne stava andando, un po' come accade in ogni condominio quando qualcuno trasloca. In quel caso ci si vede per un caffè e ci si dà, o meglio dava, una pacca sulla spalla o una stretta di mano. A Palazzo Chigi si usa applaudire dalle finestre. D'altronde, paese che vai e usanze che trovi. Sì, perché nonostante quello sia stato fatto passare come un tributo a Giuseppe Conte e alle sue prodi gesta durante i due anni di governo, in realtà è pura, semplice e ben nota prassi, ormai facente anch'essa parte del cerimoniale, anche se in via ufficiosa. L'esperienza a Palazzo Chigi di Giuseppi si è chiusa con l'ennesima favola di Rocco Casalino, regista e narratore nemmeno troppo discreto, che fino alla fine ha voluto mettere la sua firma sul governo Conte. "L’applauso che il Palazzo gli ha tributato è stato sentito, lungo, credo senza precedenti", ha detto Rocco all'Adnkronos. E sono stati tanti i cronisti e i commentatori che, sicuramente in buona fede ma probabilmente dotati di memoria corta, ieri hanno sottolineato "l'affetto" da parte dei commessi di Palazzo Chigi. I più maliziosi hanno insinuato il dubbio che probabilmente dietro gli applausi potrebbe esserci l'aumento degli stipendi dei dipendenti di cui si parlava un anno fa prima dell'avvento dell'epidemia, che avrebbe accresciuto di 270 euro le loro buste paga, una lettura che sembra richiamare il fantozziano "com'è umano lei". Per qualcuno, forse, quello è stato uno stimolo in più ma la verità è che qualunque presidente del Consiglio uscente riceve l'omaggio da parte di Palazzo Chigi. Qualunque da almeno 10 anni. Rocco Casalino si ricorda evidentemente male, perché di precedenti ce ne sono tanti, tutti documentabili anche se, certo, con evidenti differenze. Il video di Giuseppe Conte è più curato, ci sono varie angolazioni di ripresa e Giuseppi si ferma più dei suoi predecessori a raccogliere l'applauso, come una consumata star che abbandona il palco dopo il concerto della vita. Il ricordo più fresco che rispolveriamo a Rocco Casalino è quello del saluto di Paolo Gentiloni nel 2018, che senza troppi fronzoli accoglie il rumoroso applauso e ringrazia con discrezione prima salire in auto con sua moglie e uscire da Palazzo Chigi. Ci sono poi i precedenti con Enrico Letta e Renzi, tutti presenti su Youtube e facilmente rintracciabili con una semplice ricerca. C'è anche il saluto a Silvio Berlusconi, al quale i commessi e gli impiegati di Palazzo Chigi dedicarono un lunghissimo, sentito, applauso, che lui ricambiò commosso. Era il 2011, sono passati 10 anni e questa è stata forse la prima volta per questo cerimoniale ufficioso, evidentemente nato di slancio per un ringraziamento sincero. "Roma, 16 nov. (TMNews) - Si è congedato tra gli applausi dei dipendenti di palazzo Chigi, Silvio Berlusconi. Al termine della cerimonia del passaggio di consegne con Mario Monti e dopo aver passato in rassegna il picchetto d'onore, l'ex premier è salito sulla sua auto mentre dalle finestre i dipendenti gli tributavano il loro omaggio", si legge nelle cronache dell'epoca.

L'affetto mostrato anche a Berlusconi, Letta, Gentiloni. “Applauso di Palazzo Chigi a Conte senza precedenti”, l’ultima fake di Casalino. Redazione su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. L’ultima “perla” offerta dal metodo Casalino è relativa alla dichiarazioni, successive alle lacrime, dell’ex portavoce del premier Giuseppe Conte dopo il congedo di quest’ultimo con Palazzo Chigi e tutto il personale che vi lavora. Lacrime (di Casalino), applausi scroscianti e un pizzico di commozione anche sul volto dell’ex premier hanno colpito molto nella giornata in cui il nuovo governo del premier Mario Draghi ha prestato giuramento prima della tradizionale cerimonia della campanella e del primo consiglio dei ministri. Le immagini di Conte che esce a piedi, mano nella mano con la compagna Olivia Paladino hanno fatto rapidamente il giro del web alimentate anche dalle roboanti dichiarazioni rilasciate dallo stesso Casalino all’AdnKronos. “”Si, mi sono commosso – ha detto l’ex portavoce -. E’ stato un momento bellissimo perché l’applauso che il Palazzo gli ha tributato è stato sentito, lungo, credo senza precedenti”. “E questo perché Conte è una persona vera e leale e tutti -nel palazzo dove abbiamo lavorato per anni, giorno e notte soprattutto durante l’emergenza Covid- glielo riconoscono, dal primo dei funzionari ai poliziotti, dai commessi ai segretari” aggiunge Casalino. “Tutti – conclude – lo hanno conosciuto e tutti hanno imparato a volergli bene. Credo che lascerà il segno, che non lo dimenticheranno. Piaccia o no, Conte è stato il presidente di tutti. Un gran presidente. E l’affetto che lo circonda al termine di questa avventura ne è testimonianza”. E’ qui che cade in fallo Casalino. Lo stesso trattamento è stato infatti riservato a tutti gli ex premier. Qualche esempio? Dal predecessore Paolo Gentiloni a Matteo Renzi ed Enrico Letta passando per Silvio Berlusconi.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Sul ponte sventola pochette bianca. Non è stato intonato il requiem di Mozart né di Brahms per Giuseppe Conte che è uscito di scena senza neppure l' applauso da sipario. Al suo posto è tornata la normalità, proprio nell' eccezionalità del governo del presidente, la tanto attesa normalità con gli immancabili caratteri italiani, e valga per tutti Brunetta "il fantuttone", titolo che l' allora ministro si conquistò andando a caccia di fannulloni nella pubblica amministrazione. Per questi "tipi" il tempo della commedia dell' arte non scade mai. Ci vorrebbe un governo Draghi delle anime, dei sentimenti e dei valori per liberare l' Italia dalla Cretinocrazia. Sicuramente quello di ieri non è stato un 25 luglio, non la fuga dei Savoia né la fine della Dc, né tanto meno la tragedia craxiana, nessuno ha mangiato mortadella in Parlamento come avvenne quando cadde Prodi, non c' è stato neppure l' addio ai monti di Berlusconi che era addirittura diventato una categoria dello spirito. Molto più modestamente con Giuseppe Conte è finita l' epoca della cerimoniosità, dei vezzi, del quasi, del buon ectoplasma affidabile e rassicurante, del leader ad interim, del 'provvisoriamente al posto di', del "signor nel frattempo" che, a furia di resistere al fuoco lento con la pazienza dell' arrostito, saliva la scala di seta rossiniana, quella della popolarità che in Italia è sempre effimera. Diciamo la verità: di Giuseppe Conte non rimane nulla. Il governo Draghi seppellisce infatti le divise dell' etichetta e dello scrupolo liturgico. E l' Italia ha già dimenticato le iperboli auto celebrative: "vinceremo sempre", "è stato un anno bellissimo" " i miei ministri sono i migliori del mondo", "ci è stato riconosciuto di avere indirettamente salvato vite umane in Europa", "non ci accontenteremo della normalità" e soprattutto "mai una sola giornata sarà sottratta al servizio del Paese", che è il più vecchio luogo comune della retorica italiana, di Renzi, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini: tutti lasciavano la luce sempre accesa. Quella di Conte si è spenta da sola. Tra i confermati al governo non c' è nessun "contiano" ed esce ovviamente anche Rocco Casalino, che stava sempre al suo fianco ed era il suo doppio, il portavoce che guadagnava più del presidente, cervello politico dei grillini che, per conto loro, non ne possedevano. Casalino ha già scritto il suo libro di memorie e certamente si inventerà l' ennesimo futuro, pescherà un altro coniglio dal suo cilindro. Molto più povero è il libro del suo presidente, che nel primo governo fu il vice dei suoi vice e poi ne diventò il padrone, il più strambo protagonista di questo nostro tempo instabile. Ricordate? "Non sopporto la definizione Conte - bis, preferisco Conte - due" diceva. Ed era pronto al Conte-tre, al Conte- sempre, con la presunzione di conciliare gli inconciliabili sintetizzandoli in sé, di trasformare se stesso nel leader-tavolo-rotondo, nell' uomo-piattaforma-comune. Conte è stato il luogo politico che di se stesso diceva "sono l'interlocuzione" e si autocitava, parlava in terza persona come la regina Elisabetta: "Vi prometto che il presidente Conte non si lascerà distrarre". E ancora: "Figuriamoci se il presidente Conte ha qualcosa contro qualcuno". E forse c' è stato, nei quasi tre anni di governi Conte dominati dai grillini un momento fatale che ha cambiato il "contediprima" nel "contedipoi", e non nel senso del banale trasformismo politico, ma in quello antropologico. Ecco: il momento fatale fu la tre giorni degli Stati Generali. Quel professore che dilatava i titoli e truccava il curriculum universitario si vestì infatti da uomo solo al comando, fastoso come Berlusconi, spavaldo come Renzi, sapiente nelle promesse e nel Rinvio come Andreotti, e "nazionalista" come Salvini nell' esibizione dei simboli italiani, da padre Pio al tricolore nella cravatta, dalle dichiarazioni d' amore per la Patria identificata con se stesso, sino "alla bellezza ci salverà" quando definì Villa Pamphili la sua "location", non opera d' arte, luogo della memoria, parco, ma "location", il fondale per la cerimonia del nuovo potere, il set cinematografico la scenografia rococò del populismo italiano. Insomma il suo momento fatale arrivò quando perse la modestia , la furbizia del provinciale che sapeva farsi sottovalutare. Bisogna infatti dire che era stata una parabola italiana quella del folgorante successo del presidente più popolare, una bella lezione per la politica degli spacconi e dei ganassa, dal vaffa di Grillo alla rottamazione di Renzi e ai pieni poteri di Salvini. Conte ce l' aveva fatta proprio perché nessuno lo prendeva sul serio e l' Italia aveva bisogno di un antidoto, di un contravveleno. Lo trovò in quel formalismo coltivato come un tic nervoso, con le giacche di sartoria, la colonia al limone, la lacca nera sui capelli, i gemelli ai polsi, la geometria delle pochette a quattro punte, insomma la cura di sé come ossessione psicosomatica. Conte si impose con l' aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente anche mentre al Senato picchiava Salvini. Ma dagli Stati in Generali in poi si trasformò come Teodosio che davvero credette di poter fare l' imperatore di Roma pur essendo un ispanico, un provinciale, un burino, un ciociaro Sepolto dalla sua ambizione, il protagonista è di nuovo invisibile.

Lo show di Conte con Olivia. E pensa già a tornare in scena. Il premier lascia Palazzo Chigi con la compagna tra gli applausi dei dipendenti. E i 5s lo osannano sui social. Domenico Di Sanzo, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Prima o poi doveva succedere. In quasi tre anni vissuti pericolosamente poteva capitare pure prima. Tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il Pd e Matteo Renzi. Con una pandemia mondiale nell'ultimo anno della corsa. Giuseppe Conte lascia Palazzo Chigi per il salto nel buio della politica. Intanto è già arruolato nelle riserve della Repubblica. Una squadra da cui è appena uscito Mario Draghi per far posto all'ex avvocato del popolo italiano. Proprio questa definizione ha rappresentato il battesimo mediatico di un premier la cui comunicazione è stata spesso al centro di critiche, tra alti e bassi. Così se il tavolino davanti Chigi è stata la prima apparizione del Conte politico, allora la passerella nel cortile del Palazzo, l'ultimo picchetto d'onore, è stato il passo d'addio del Conte presidente del Consiglio. In verità stavolta la clip confezionata dallo staff non è troppo diversa dalle altre preparate per i predecessori. Compresi gli applausi dei dipendenti affacciati dalle finestre. C'erano stati per Paolo Gentiloni, Matteo Renzi, Enrico Letta, Silvio Berlusconi. Una consuetudine come quella della campanella. Che però stavolta è scoppiata come una mina nel campo dei social. Il M5s schiera tutta la potenza delle sue truppe multimediali. Qualche grillino malizioso di rito «dimaiano» lancia sospetti sui tantissimi commenti pro-Conte durante la diretta Facebook del giuramento di Draghi. C'è chi parla di «troll». Intanto Rocco Casalino, il portavoce, si commuove. Le immagini immortalano gli occhi lucidi dietro la mascherina. «Si, mi sono commosso - dice - è stato un momento bellissimo». Il premier uscente fa il suo ultimo giro sul tappeto rosso. Gli impiegati battono le mani, lui guarda in alto e saluta. Mentre compare un velo di emozione sulla sua faccia Conte chiama la compagna Olivia Paladino. La prende per il braccio fino a quando lei non gli dà la mano. La telecamera stringe sulle mani intrecciate. Cala il sipario. Gli esponenti del M5s fanno partire la batteria dei ringraziamenti social. Luigi Di Maio parla di Conte come di «una persona straordinaria, con la quale ripartire per costruire un nuovo cammino». Vito Crimi lo colloca tra le riserve della Repubblica: «Grazie, Giuseppe Conte, servitore dello Stato e preziosa risorsa della Repubblica. Ci hai resi fieri di essere Italiani, nella nostra terra e in ogni parte del mondo». «Alto profilo», scrive la neo-ministra Fabiana Dadone facendo il verso a un governo di cui anche lei farà parte. Infatti già non mancano i sospetti su un Conte pronto ad armare i Cinque stelle più critici per sabotare Draghi. «Ho sempre avvertito l'orgoglio, l'onore e la responsabilità di rappresentare l'Italia», scrive lui su Facebook. Elogia «la forza e il coraggio» degli italiani durante l'emergenza Covid. Distingue «la (buona) politica» da quella cattiva. «Mai avuto rammarichi», spiega. Abbozza una visione fatta di «equità, solidarietà, piena sostenibilità ambientale». Dice di voler «proseguire questo percorso». Non è ancora chiaro come. Le strade davanti a Conte sono tre. C'è l'ambizione di federare Pd e M5s alla guida della coalizione. C'è l'ipotesi di capeggiare i grillini. Ma le convulsioni del M5s lo fanno desistere. Infine c'è l'opzione di un partito personale, scartata perché gli toglierebbe il ruolo di figura di garanzia tra gialli e rossi. Quel che è certo è che il percorso del cittadino Conte per guidare il centrosinistra non sarà semplice.

Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” il 14 dicembre 2021. Giuseppe Conte esce dal portone principale di Palazzo Chigi stringendo forte una scatola di velluto rossa. Dentro, c'è la copia di quella campanella che aveva pensato di passare ancora una volta a se stesso, come tra il Conte 1 e il Conte 2, e invece. Sale in auto, l'ex presidente del Consiglio, mentre sulla soglia il portavoce Rocco Casalino lo guarda andar via con gli occhi di chi non ha trattenuto le lacrime. Subito prima, davanti al picchetto d'onore, l'avvocato ha cercato a lungo la mano della compagna. Che gliel'ha stretta, alla fine, accompagnandolo al centro del cortile, gli occhi in su a ringraziare chi applaudiva dalle finestre. Le dita dell'ex premier puntano in alto, come allo stadio, come per dire: «Voi, siete voi che devo applaudire». Olivia Paladino tenta di restare un passo indietro, la mascherina di raso nera intonata al cappotto scuro, lo sguardo che sfugge gli obiettivi. Non è solo commosso, Conte, è anche indeciso. Quasi perso. «Nessuno ha capito cosa farà», dice chi ha lavorato al suo fianco tutti i giorni. Ha fatto il passaggio di consegne col sorriso, con la leggerezza di chi non vuole lasciare ombre, ma ci sono state cose che lo hanno fatto star male anche in queste ultime due settimane. Quando tutto era ormai consumato. Ad esempio, la reazione di un pezzo di Pd davanti all'idea - più di altri che sua, per la verità - di una candidatura alle elezioni suppletive di Siena, nel collegio dove era stato eletto Pier Carlo Padoan, ora presidente di Unicredit. Gli altolà arrivati dal territorio, come non fosse mai successo che i candidati vengano catapultati da Roma per i motivi più diversi, lo hanno colpito. In questo caso, la ragione era semplice: fornire al premier uscente un'agibilità politica all'interno del Parlamento. Permettergli di essere, alla Camera, quel collante che i vertici del Pd e del Movimento ritengono fondamentale per non soccombere - come alleanza - dopo la nascita del governo Draghi. Il Parlamento conta, e non è un caso che dopo le consultazioni il segretario dem Nicola Zingaretti abbia fatto pesare i numeri dell'intero centrosinistra, sommando deputati e senatori di Pd, M5S, Leu. È l'unica strada che - secondo molti - può consentire all'ex maggioranza di governo di non disperdere quanto fatto fin qui. Ma è una strada impervia, per le divisioni che attraversano tanto i democratici che i 5 stelle. «Torno a vestire i panni di semplice cittadino - ha scritto Conte sulla sua pagina Facebook - Insieme a tanti preziosi compagni di viaggio abbiamo contribuito a delineare un percorso a misura d'uomo, volto a rafforzare l'equità, la solidarietà, la piena sostenibilità ambientale. Il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere». Il post ottiene 758mila mi piace in quattro ore. 89mila condivisioni, oltre 200mila commenti. Scrive anche Alessandro Di Battista: «Sei stato anche troppo Signore. Buon vento Presidente», subito seguito da chi gli ribatte: «Fate un partito insieme, ripartiamo con Conte». Ma il Movimento 5 Stelle, supposto che l'ex deputato ne faccia ancora parte (Dibba ha detto «Non parlo più a suo nome», non ha mai detto «Addio»), non sa più né da chi né da cosa ripartire. L'ex premier lo ha capito quando la proposta di rinviare la nascita dell'organo collegiale prevista per la prossima settimana è stata respinta con sdegno. Beppe Grillo ha chiamato. Ha detto: «Ci vedremo, parleremo», ma non è ancora chiaro quale possa essere il ruolo dell'avvocato in un M5S balcanizzato, confuso, senza più neanche la figura del capo politico, che poteva avere un senso proprio per lui. Deciderà, Conte, cercherà di capire, ma non adesso, non subito. «Adesso deve smaltire la botta», dice chi gli ha parlato. Adesso deve capire se quelle centinaia di migliaia di like significano davvero qualcosa di più.

Dal “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2021. È rimasta sempre un passo indietro. Nessuna intervista, nessuna dichiarazione. Olivia Paladino, compagna di Giuseppe Conte, non ha mai pronunciato una parola. Classe '80, figlia di Cesare, proprietario dell'Hotel Plaza di via del Corso, e di Ewa Aulin, attrice svedese, l'ex first lady ha frequentato le migliori scuole della Capitale. Ha una figlia, Eva, nata da una precedente relazione. Ed è proprio grazie ad Eva se nel 2008 conosce l'avvocato del popolo. Raccontano le cronache che il colpo di fulmine sarebbe avvenuto in una riunione scolastica riservata ai genitori, alla quale prese parte anche Conte, padre di Niccolò. Elegante e riservata, fa poche uscite pubbliche. Prima in foto, ritratta a passeggio con le borse della spesa, al mare in bikini, al ristorante. Poi finalmente il 10 dicembre del 2019 ecco la prima uscita: Giuseppe Conte si presenta con lei al Teatro San Carlo di Napoli per un evento di beneficenza. Olivia appare e scompare. E dunque ricompare, dopo i mesi di lockdown, quando a sorpresa Conte partecipa alla prima della stagione del cinema America. Al fianco dell'allora premier c'è proprio la compagna, vestita di nero, con mascherina in pendant . Il 4 dicembre dello scorso anno Conte interviene sulla polemica che ha investito lui e la fidanzata sull'uso della scorta: «Ha ricevuto attacchi personali anche la mia compagna Olivia Paladino, mi spiace molto». Ieri, l'ultimo giorno del compagno a Palazzo Chigi.

Olivia Paladino in passerella? Incredibile a Palazzo Chigi, raid dell'intruso sul tappeto rosso: la stizza di Giuseppe Conte. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Cala il sipario su Giuseppe Conte a Palazzo Chigi: oggi, sabato 13 febbraio, dopo il giuramento di Mario Draghi e della sua squadra, l'avvocato del popolo cede il passo. E, dunque, anche la residenza. Al rituale passaggio della campanella, Conte ha sfoggiato sorrisi dietro alla mascherina bianca con tricolore. Insomma, si è mostrato tranquillo, sereno, anche se - c'è da scommetterci - dentro di sé i sentimenti saranno stati ben differenti. Ma tant'è, un'uscita con stile, bisogna riconoscerglielo. E ora, chissà: andrà avanti con la politica? Possibile, probabile. Conte, nel cortile di Palazzo Chigi, prima dello scambio della campanella e il passaggio di consegne ha ricevuto gli onori militari. Ma non solo: anche un lungo, sentito e accorato applauso dei dipendenti di Palazzo Chigi, affacciati alle finestre. Insomma, il personale sembra aver apprezzato la persona: un applauso del genere, infatti, nei giorni dell'insediamento di un nuovo governo non ha molti precedenti. Una piccola soddisfazione, per il presunto avvocato del popolo, che comunque, sondaggi alla mano, continua a godere di grande popolarità (anche se sarà difficile tenerla a simili livelli senza essere più a Palazzo Chigi). Nel cortile, Conte non era solo. C'era anche la sua compagna, Olivia Paladino, emozionata così come era emozionato Rocco Casalino, in lacrime a una finestra. Ed è quando Conte ha chiamato a sé con un gesto della mano Olivia che è accaduto un piccolo imprevisto: mentre la Paladino si avvicinava al premier uscente, ecco che un fotografo le ha tagliato la strada, mettendosi in mezzo per qualche istante. Conte, con dei gesti della mano, gli chiede di farsi velocemente da parte. Dunque, mano nella mano e sul tappeto rosso, Conte e Olivia hanno abbandonato Palazzo Chigi. Per sempre. Cala il sipario.

Olivia Paladino rifiuta la mano, poi lo sguardo di fuoco a Giuseppe Conte: il video che scatena i dubbi. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Attenzione al dettaglio. Si torna a Palazzo Chigi, al passaggio di consegne tra Giuseppe Conte e Mario Draghi, tra il presunto avvocato del popolo e il nuovo premier, che soltanto pochi minuti prima aveva prestato il suo giuramento, insieme alla squadra, di fronte a Sergio Mattarella. Nel cortile di Palazzo Chigi, Conte raccoglie gli applausi dei dipendenti, affacciati alle finestre, così come è affacciato alla finestra Rocco Casalino, in lacrime. Da par suo, il professore sfoggia sorrisi, insomma non vuole mostrarsi provato, o contrariato, per l'addio al Palazzo. E c'è anche Olivia Paladino. Ed è relativo a un suo gesto che bisogna fare attenzione. Giuseppe Conte, infatti, ad un certo punto chiama la sua compagna, le chiede di avvicinarsi. E lei fa capolino sul tappeto rosso, sbucando da uno dei lati di Palazzo Chigi (e un fotograro le taglia anche la strada, ma questo è solo un ulteriore dettaglio). E quando Olivia è di fianco all'ormai ex premier, ecco che quest'ultimo prova a darle la mano. Ma lei, semplicemente, come mostra il video che potete vedere qui sotto, non ci pensa nemmeno. E non solo: lo sguardo è serio, nemmeno l'accenno di un sorriso, sembra anche non guardi nemmeno il suo compagno. Insomma, un gelo siderale. Un gelo inspiegabile. Nonleggerlo, che ha rilanciato il curioso video su Twitter, aggiunge che Olivia Paladino "cederà dopo un lungo pressing del premier uscente". Insomma, alla fine la mano gliela ha data. Un gesto, rimarca sempre Nonleggerlo, che ricorda da vicino quello reiterato in molteplici occasioni pubbliche da Melania Trump, che la mano a Donald, all'epoca presidente degli Stati Uniti, proprio non voleva darla. Anzi, in più occasioni arrivò addirittura a scacciarlo, con un gesto secco. E insomma, ritornando a Palazzo Chigi, il sospetto sorge spontaneo: tra Olivia e Giuseppe va tutto bene?

Dagospia il 13 febbraio 2021. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. Dagovski, L’applauso tributato dai dipendenti della Presidenza del Consiglio a Giuseppe Conte è per il lavoro svolto o perché gli ha aumentato stipendio e benefit? Aigor

Giuseppe Conte, l'aumento ai funzionari prima di lasciare Palazzo Chigi (e quei sospetti maliziosi sull'applauso). Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2021. Un tributo all'uomo, un omaggio al politico, il dolore per un prematuro distacco? Macché. A spiegare il caloroso applauso con cui i funzionari della presidenza del Consiglio hanno salutato Giuseppe Conte ci pensa la Cgil. Benefici medi, si legge in un recente comunicato del sindacato sul rinnovo contrattuale 2016-2018, per 126 euro per 13 mensilità, arretrati (a partire dal 2016) per 5.387 euro medi, ulteriori 146 euro medi al mese provenienti dagli stanziamenti in legge di bilancio, 43 euro medi al mese da ripartire con la contrattazione integrativa. La partita è ancora in corso per l'opposizione di tre sigle (Snaprecom, Sipre e Ugl), che stanno cercando di spillare qualche quattrino in più, ma è praticamente chiusa. E non è tutto, perché oltre all'aumento di stipendio (quello medio oggi si aggira sui 40mila euro) dei circa 2mila dipendenti è in fase avanzata anche il tavolo sul contratto dei 300 dirigenti (stipendi tra i 100 e i 200mila euro in base alla qualifica), che prevede un aumento medio di 331 euro che, sommando tutte le voci, può arrivare fino a 1.126 euro.

A spese nostre. Insomma, di fronte a tali incrementi retributivi, e considerato che le paghe sono ferme da circa un decennio, chiunque si sarebbe spellato le mani per ringraziare il premier benefattore (ovviamente a spese dei contribuenti). Ma c'è dell'altro. Sentite cosa ha scritto l'Adnkronos il 20 ottobre del 1998: «Romano Prodi ringrazia e saluta i dipendenti di Palazzo Chigi, che rispondono con un applauso». Un caso? Un privilegio dei professori che vanno al governo? Neanche per idea. Se vi fate un giro su youtube potete agevolmente assistere allo scroscio che ha segnato l'uscita di Paolo Gentiloni e a quello che ha accompagnato l'ultimo giorno in carica, il 22 febbraio 2014, di Enrico Letta (rimasto a Palazzo Chigi appena 9 mesi), con gli applausi partiti addirittura prima che la fanfara delle forze armate concludesse il suo stacchetto d'ordinanza e durati per qualche minuto. E non si tratta di una prerogativa dei leader di sinistra. Già, persino il terribile Silvio Berlusconi fu acclamato dai dipendenti. Anche più degli altri. Il 17 novembre del 2011, infatti, qualche serioso ed austero funzionario della presidenza del Consiglio, tanto il coinvolgimento durante il commiato, si è anche azzardato a lanciare qualche «bravo!» all'indirizzo del Cavaliere. Insomma, tanta fuffa per niente. Il saluto dei dipendenti dalle finestre interne di Palazzo Chigi è da decenni una consuetudine. Qualcuno (che magari ha aperto i cordoni della borsa) becca più applausi, altri meno. Ma non c'è un premier che abbia lasciato l'edificio seguito da fischi o da imbarazzanti silenzi. L'unica vera novità dell'addio di Conte sono, probabilmente, le lacrime di Rocco Casalino. La disperazione del portavoce, quella sì, ci mancava. Qualcuno, malizioso, sostiene che il pianto sia dovuto al pensiero dei suoi 170mila euro l'anno che prendono il volo. Altri che sia stata solo una scenetta orchestrata ad arte per rubare la scena all'ex capo del governo e tirare la volata alla sua autobiografia da pochi giorni nelle librerie. Ma, ovviamente, si tratta solo di malignità senza alcun fondamento. Prima di andare via, comunque, il giornalista grillino non ha potuto fare a meno di piazzare un'ultima bufala: «L'applauso che il Palazzo ha tributato a Conte è stato sentito, lungo, credo senza precedenti».

Da corriere.it del 24 gennaio 2020. Aumenti in arrivo per i dipendenti di Palazzo Chigi, una platea di 1.900 impiegati, dagli uscieri ai funzionari, che riceveranno circa 270 euro in più in busta paga, secondo quanto apprende l’Adnkronos. Il calcolo è presto fatto: il personale della Presidenza del Consiglio per effetto del rinnovo del Ccnl 2016-2018 riceverà un aumento medio del 3,48% come per tutti gli altri comparti, che equivale a 125 euro in più, a questa cifra però, occorre aggiungere le risorse che il governo Conte ha stanziato nella legge di bilancio, pari a 5 milioni di euro in più per il salario accessorio e che significano ulteriori 145 euro mensili di aumento, a decorrere dal 2020. Il totale quindi è un incremento di 273 euro mensili, più del doppio degli altri comparti del pubblico impiego.

La trattativa. La trattativa è in corso all’Aran e la prossima settimana, mercoledì 29, è previsto un nuovo incontro con i sindacati. Dunque, i quasi 2.000 statali della Presidenza del Consiglio hanno dovuto attendere un po’ più di altri colleghi, che lavorano nei ministeri, ma ora sembra proprio che possano rifarsi.

Il trattamento per i dirigenti. Ma non è tutto per i dipendenti di Palazzo Chigi, per le posizioni più alte, i 170 dirigenti (di seconda fascia) ci sono In ballo altri 2 milioni di euro in più che il governo ha stanziato in manovra e che saranno «elargiti» con la retribuzione di risultato e di posizione, anche se la trattativa non è ancora partita. Le risorse erano state inizialmente stanziate dalla Presidenza del Consiglio in un emendamento ad hoc al decreto per il Riordino dei ministeri, ma poi depennato.

 (Adnkronos il 13 febbraio 2021) - Ampio spazio per Mario Draghi sulla stampa internazionale nel giorno del giuramento del nuovo governo. "Un gigante d'Europa si prepara a guidare il nuovo governo di unità in Italia", titola il New York Times, che ricorda il ruolo di Draghi nel salvataggio dell'euro, che "avrà il compito di guidare l'Italia attraverso una pandemia devastante e imprevedibile", ma anche di "garantirne il futuro spendendo in modo saggio ed efficiente il pacchetto senza precedenti finanziato dal debito raccolto per la prima volta collettivamente da tutti i Paesi dell'Ue". "Se ce la farà, potrebbe costituire un precedente", sintetizza il giornale, secondo cui in caso contrario "è meno probabile che i Paesi dell'Unione Europea possano approvare nuovamente un simile pacchetto". Draghi, "un'ottima notizia", ha commentato con il giornale Paolo Gentiloni, commissario europeo per l'Economia, secondo il quale l'arrivo di Draghi ha rassicurato i leader europei soprattutto per la sua reputazione di "preoccuparsi della realizzazione". Il giornale sottolinea le preoccupazioni dei Paesi del Nord Europa e aggiunge: "Dopo aver salvato l'euro come presidente della Bce, Draghi deve ora salvaguardare il sogno di un'unione più unita e fiscalmente integrata". "Se ci riuscirà - ha commentato Gentiloni - questo è un pilastro per un successo europeo". Draghi, scrive il Wall Street Journal, "è stato nominato premier dopo aver convinto quasi tutti i partiti litigiosi del Paese a sostenere il suo governo, alimentando le speranze che possa farcela dove molti altri hanno fallito: portare l'Italia fuori dal profondo malessere economico". Politico.eu sottolinea le nomine di Vittorio Colao, Roberto Cingolani, Daniele Franco e Marta Cartabia e come Draghi non abbia scelto un ministro per gli Affari europei, fatto che "suggerisce che sarà lui stesso a gestire" il dossier. Il Washington Post sottolinea: "In agenda, Covid, una crisi economica e far crescere il profilo dell'Italia nel mondo. E' un test, se un tecnico può portare a termine una missione di salvataggio politico". Anche il britannico Guardian insiste su come Draghi, "figura rispettata in patria e a livello internazionale, sia riuscito a convincere quasi tutti i principali partiti del suo governo". "Come Mario Draghi ha rovesciato lo scacchiere politico italiano", titola Le Figaro, sottolineando come "l'ex presidente della Bce" sia "riuscito in cinque giorni a mettere insieme quasi tutti i partiti". "In Italia Mario Draghi prende la guida di un governo che vuole conciliare coesione, efficacia e rappresentatività", scrive Le Monde. "Il governo Draghi: 8 tecnici e 15 politici", titola El Pais, che in prima pagina sottolinea come "Draghi sia il sesto primo ministro in Italia dal 2008 a non essere passato dalle urne" e come "però la sua nomina sia stata accolta con grande sollievo". La "segretezza" con cui Draghi "ha portato avanti in questi giorni i negoziati è insolita in Italia", osserva il giornale spagnolo. In un articolo pubblicato online ieri sera, El Mundo ha evidenziato come si tratti "del terzo esecutivo di una legislatura convulsa, un ibrido di tecnici e politici, storico per la composizione: ci sono membri di tutte le forze, tranne Fratelli d'Italia".

(ANSA il 13 febbraio 2021) - "Auguro a Mario Draghi ogni bene! Italia e Germania collaborano per un'Europa forte e unita e per un multilateralismo che offra ai nostri giovani un futuro migliore". E' il commento della cancelliera tedesca Angela Merkel, come riferisce un tweet della portavoce del governo tedesco Martina Fietz.

(ANSA il 13 febbraio 2021) - "I miei migliori auguri a Mario Draghi! Insieme, Italia e Francia hanno tanto da fare per costruire un'Europa più forte, più solidale e un nuovo multilateralismo, per offrire ai nostri giovani un futuro migliore". Lo scrive su Twitter il presidente francese Emmanuel Macron.

Nando Pagnoncelli per il “Corriere della Sera” il 13 febbraio 2021. Con il passare dei giorni aumenta il consenso per la scelta di affidare l'incarico per la formazione di un nuovo governo a Mario Draghi: oggi il 62% degli italiani esprime un giudizio positivo e la differenza tra favorevoli e contrari (38%) è cresciuta del 6% rispetto alla scorsa settimana. L' indice di gradimento, calcolato escludendo coloro che non si esprimono (14%), si attesta a 72. Nel novembre del 2011 il governo Monti riscosse un gradimento analogo (indice 73), ma allora l'esecutivo uscente presieduto da Berlusconi risultava decisamente meno apprezzato (indice 28) rispetto al Conte 2 (indice 51). Il consenso per l' incarico a Draghi raggiunge i valori più elevati tra gli elettori di Forza Italia (87%), del Pd (85%) e delle forze minori del centrosinistra (79%). Da notare che anche tra gli elettori di Fratelli d' Italia prevale nettamente il gradimento per la scelta (64%). La crescita più elevata dell' ultima settimana si è registrata tra gli elettori della Lega (+11%) e di Forza Italia (+9%). La prospettiva di una maggioranza larga, che comprenda forze politiche molto diverse tra loro e finora distanti su temi importanti, polarizza le opinioni: il 35% ritiene che questa ipotesi possa rappresentare un punto di forza, che consentirà di adottare riforme e provvedimenti importanti per il Paese, mentre il 34% è persuaso che prevarranno veti incrociati che limiteranno l' azione del nuovo esecutivo e il 31% sospende il giudizio. Gli elettori dei principali alleati del governo uscente hanno opinioni diverse: tra i dem prevalgono gli ottimisti (52%), tra i pentastellati i pessimisti (48%). Nonostante le migliori intenzioni di seppellire l' ascia di guerra, l' ingresso nel governo delle singole forze politiche che fino a ieri erano fieramente avversarie, suscita nell' insieme dell' elettorato più dissenso che consenso. Ma l' ingresso del proprio partito nel governo Draghi è sostenuto da un' approvazione elevatissima tra gli elettori del Pd (89%), di Forza Italia (86%) e della Lega (81%); meno elevata, anche se nettamente prevalente, tra i pentastellati (63%) con un valore molto vicino a quello ottenuto con la consultazione della propria base attraverso la piattaforma Rousseau. La scelta di Giorgia Meloni di non far parte della nuova maggioranza è condivisa dal 74% dei propri elettori, molti dei quali si augurano di poter convogliare su Fratelli d' Italia le preferenze degli elettori delusi dal futuro esecutivo. Prima di conoscere la composizione del governo, l' ipotesi di assegnare i ministeri chiave a personalità con un profilo «tecnico», esterne al Parlamento, e i restanti ministeri a esponenti politici delle forze della maggioranza incontrava il favore del 45% degli italiani; i più convinti tra gli elettori del Partito democratico (60%), di Forza Italia (58%) e delle forze minori del centrosinistra (57%). Al contrario, il 16% avrebbe preferito una scelta ancora più drastica, assegnando tutti i ministeri ai tecnici, mentre il 9% avrebbe voluto solo esponenti politici alla guida dei ministeri chiave (20% tra i pentastellati e 18% tra i leghisti). Quanto alla durata del nuovo esecutivo, l' auspicio del 40% degli italiani è che possa arrivare alla fine della legislatura, mentre il 18% gradirebbe la durata di un anno, fino all' elezione del nuovo presidente della Repubblica, e il 17% è del parere che debba durare solo per qualche mese per superare l' emergenza e poi andare al voto. I dem e gli altri elettori del centrosinistra sono nettamente più favorevoli ad un governo di lunga durata (75% e 71%). Decisamente più diviso l' elettorato del centrodestra, una parte del quale propende per una durata limitata, nella speranza di poter capitalizzare gli orientamenti di voto a loro favorevoli, o nel timore di vanificare nel tempo il vantaggio attuale. Insomma, nel Paese prevale una domanda di stabilità, espressa soprattutto dai ceti produttivi, da quelli impiegatizi, dagli studenti e dai pensionati. Forse non avrebbe potuto essere altrimenti, di fronte al perdurare della pandemia, al duro impatto della crisi economica e alla necessità di definire e implementare il Recovery plan. L' ipotesi di un esecutivo di qualità, sostenuto da una maggioranza larga e con una guida autorevole, ha fatto cambiare idea a molti cittadini, politici e mezzi di informazione. Qualcuno ironizzando ha detto che ci troviamo di fronte alla più imponente conversione di massa da duemila anni a questa parte. Certo, desta stupore il rapido passaggio dalla contrapposizione frontale a una sorta di armistizio, di cui peraltro si ignora l' autenticità e la durata. In ogni caso rappresenta un buon viatico e probabilmente l' ultima spiaggia.

Alessandro Barbera per “la Stampa” il 14 febbraio 2021. Per comprendere lo stile del governo Draghi val la pena partire da un dettaglio. Palazzo Chigi, ieri. La prima riunione del consiglio dei ministri - mezz' ora in tutto - sta per finire. Il premier ha appena terminato di elencare le priorità del discorso che pronuncerà in Parlamento la prossima settimana, su tutte l'emergenza sanitaria e del lavoro. Da uno dei ventitré loculi divisi dal plexiglass un ministro gli chiede quale sarà il tipo di comunicazione al quale si ispirerà. Una domanda non banale per chi, fra i tanti confermati, ha conosciuto quello vivace di Giuseppe Conte. La risposta si può riassumere così: farò parlare i fatti. Quando aprirò bocca, lo farò nel rispetto delle regole istituzionali. Un invito implicito ai colleghi a limitare la bulimia verbale. Sull'uscio di piazza Colonna non c'è un solo ministro disposto a concedersi a telecamere e taccuini. Non uno dei vecchi, non uno fra i nuovi. Si contiene persino Renato Brunetta, che ai giornalisti non si nega mai. L'ex governatore della Banca centrale europea non ha mai amato parlare più del dovuto. Dopo la convocazione del capo dello Stato al Quirinale lo ha fatto in pubblico due volte. La prima per accettare l'incarico, la seconda per elencare la lista dei ministri. La terza volta sarà al Senato per il voto di fiducia, mercoledì. La quarta alla Camera, giovedì. Dopo la riunione coi colleghi, Draghi si fa accompagnare nella stessa stanza ad angolo lasciata un'ora prima da Giuseppe Conte. Piccola, con una loggia all'angolo fra piazza Colonna e via del Corso. Gabriele D'Annunzio l'aveva ribattezzata la «prua d'Italia». Draghi è accompagnato da una sola persona, l'appena nominato sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, il più noto dei consiglieri di Stato, costretto a lasciare il ministero del Tesoro a fine 2018 per le pressioni dei Cinque Stelle e del portavoce di Conte, Rocco Casalino. Draghi ancora non ha né un capo di gabinetto, né una segreteria, né tantomeno un portavoce. Li sceglierà nei prossimi giorni, non prima di aver spiegato agli italiani cosa intende fare nei mesi che passerà alla prua del Belpaese. «Fino a mercoledì non farà altro», riferisce chi lo ha sentito nelle ultime ore. Ha chiesto contributi ai ministri vecchi e nuovi, e ne farà un sintesi nel discorso di insediamento. Dai resoconti riservati della riunione di ieri si intuiscono alcuni titoli. «Il nostro sarà un governo ambientalista, a iniziare dalla creazione di posti di lavoro». Draghi pensa a un «buon Recovery Plan», e alle risorse che andranno proprio all'ambiente, alle emergenze sanitaria ed economica. Il primo dossier sono i trentadue miliardi del decreto Ristori. Il secondo saranno i licenziamenti: il 31 marzo scade il blocco per legge. Per ora Garofoli sarà l'unico ad aiutarlo. La sua nomina, che i Cinque Stelle vivono come un affronto, per il premier è la garanzia di una navigazione senza iceberg. «Ogni volta che un mio provvedimento è capitato fra le sue mani non ha subito un intoppo o un ricorso», racconta sotto stretto anonimato uno dei ministri. Se per i grillini Garofoli rappresenta uno dei mandarini più potenti e autoreferenziali della burocrazia, per Draghi vale l'esatto opposto. Dieci anni alla direzione generale del Tesoro gli hanno insegnato che il primo alleato di chi decide devono essere i funzionari. Dai primi atti si intuirà la capacità dell'ex banchiere centrale di tenere insieme una squadra eterogenea, che attorno allo stesso tavolo siede Giorgetti e Speranza, Orlando e Brunetta, le ansie del Nord che vuole superare la crisi e i timori per le varianti del virus, la paura di chi teme per il lavoro e chi ha la garanzia che nessuna pandemia glielo sottrarrà. «Veniamo da storie diverse, mi auguro questa squadra si mostri unita e che ciascuno di noi sia capace di rinunciare a qualcosa, senza interessi di parte». Più fonti raccontano Draghi non avrebbe voluto un governo con tanti politici, quindici su ventitré. Fosse dipeso da lui, ogni partito avrebbe espresso un solo rappresentante. È stato Sergio Mattarella a consigliargli di fotografare il più possibile i rapporti di forza in Parlamento, e avere così una maggioranza più sicura. Ciò non è bastato a evitare le lamentele di chi - i Cinque Stelle soprattutto - è stato avvertito solo all'ultimo dell'alchimia scelta dal presidente e dal premier. Ora Draghi è sulla prua della nave, e ci resterà fino a che quel Parlamento glielo consentirà.

Redazione di CulturaIdentità del 4 Febbraio 2021. Oggi 5 febbraio torna in edicola CulturaIdentità, il mensile fondato da Edoardo Sylos Labini e diretto da Alessandro Sansoni: un’uscita che coincide con il secondo anniversario della nascita della rivista, che sin dall’inizio si è proposta come punto di riferimento culturale dell’area non conforme ai dettami del politicamente corretto. Il nuovo numero si intitola “Il Paese di Pulcinella” e oltre a raccontare le origini e le manifestazioni del Carnevale, sfrutta la metafora carnascialesca per smascherare il “teatrino della politica” attuale. Tante, come sempre, le firme prestigiose, fra cui la provocatoria apertura di Vittorio Sgarbi, le riflessioni sulla filosofia del “disordine programmato” di Diego Fusaro e le suggestioni storiche di Francesca Barbi Marinetti che mette a confronto le maschere della tradizione con le mascherine dell’era Covid, senza dimenticare  il caustico intervento di Paolo Guzzanti. Queste e tante altre sorprese nel numero di CulturaIdentità in edicola da domani. Grazie al Governo che se ne va possiamo ben dire che siamo il Paese di Pulcinella, il Paese dove il Ministro dell’Economia non ha la laurea in Economia, il Ministro degli Esteri ha confuso il Cile col Venezuela e il Ministro dell’Istruzione anzi della Distruzione è stato un’insegnante precaria, mentre il Commissario a Tutto Domenico Arcuri che doveva salvare gli italiani dal virus ha confuso le fiale con le dosi e per questo l’Italia avanti di questo passo raggiungerà l’immunità di gregge in sette anni. “Non sono stato io! E’ colpa di…” è la traduzione delle argomentazioni addotte da lorsignori davanti alla sfacelo. Ed è anche il refrain di Pulcinella, raffigurato da Eduardo nella poesia O’ paese e’ Pulicinella: “di tutti e mette orecchio ovunque, però guai ad accusarlo, lui non ha colpe né torti. Pulicenella sapite chi è? Perepè perepè perepè”. Come scrive Edoardo Sylos Labini nell’editoriale, “[…]Nei giorni della crisi di governo non è difficile -e credo non lo sarà mai- sentire questo Perepè perepè perepè da uno dei molti protagonisti del teatrino della politica nostrana […]. E allora per sublimare tutto ciò forse, sarebbe auspicabile che i travestimenti tornassero ad essere una tradizione del popolo e non più una cattiva usanza di certa pseudo politica”.

Nel Carnevale italiano ora è il turno di una nuova maschera: il Padrone. Redazione culturaidentita.it il 9 Febbraio 2021. Edoardo Sylos Labini, fondatore ed editore del mensile “CulturaIdentità”, ospite ieri sera di Vox Italia Tv. La copertina del numero di febbraio del mensile CulturaIdentità: chi sono i Pulcinella? I Pulcinella sono a centinaia che con travestimento carnevalesco passano da uno schieramento all’altro. Il nostro Paese è diventato un Carnevale continuo, con il teatrino della politica nella sua peggiore accezione. La nostra classe politica ha ormai gettato la maschera – o la mascherina! Arlecchino tiene in mano un manganello e fa l’occhiolino e sembra dire “Stai sereno”. Mentre Pulcinella ci volta le spalle…Ma chi sono Arlecchino e Pulcinella? Arlecchino potrebbe chiamarsi “Matteo”, il servitore di due padroni, uno americano e uno tedesco. Pulcinella invece, che rappresenta l’imbroglione, potrebbe essere Conte? Grillo? La sinistra italiana? I 5 Stelle? Forse proprio i 5 Stelle, il partito che ha imbrogliato milioni di italiani passando dalla Lega al PD a Draghi: i 5 Stelle non sono di bocca buona, sono di bocca buonissima! E il Menestrello chi è? Forse Salvini? Il sostegno di Salvini a Draghi deriva dal fatto che la Lega ha una forte base imprenditoriale. Ha una forte pressione dell’ala nordista della Lega da parte di Giorgetti. Se fallisce il Nord Est fallisce tutto il Paese: gli industriali vogliono un Governo stabile. L’alternativa? Gli appalti gestiti da Casalino e Conte.

Tornerà un Governo 5 Stelle-Lega? Al posto delle maschere è arrivato Il Commissario, Il Magnifico. Nella Commedia dell’arte c’erano le due maschere, Il Servo, Lo Zanni e Il Magnifico, cioè il Padrone. Nel Carnevale italiano ora è il turno di questa nuova maschera: un Padrone che, questi servi di scena, ascolterà molto poco. Il Menestrello ha il capo in giù, non suona più e non canta più: rappresenta anche il mondo dello Spettacolo e della Cultura. Quello della Cultura e dello Spettacolo è un settore che dà lavoro a 2 milioni di persone: a un anno da questa psicosi di massa la situazione è drammatica. Sull’orlo del fallimento. I ristori sono ridicoli (mille euro in un anno se arrivano). Tante promesse e milioni di euro dati ai soliti noti dello Spettacolo italiano. Sempre schierati a sinistra. Del resto, per il Governo – che per fortuna se n’è andato – gli artisti erano solo dei saltimbanchi che dovevano farci ridere. Ma dietro al mondo della Cultura in Italia ci sono tante imprese e tanti lavoratori che non sono tutelati, proprio da quella sinistra per cui votano. Speriamo che qualcuno apra gli occhi e che non voti più per certi nemici della cultura italiana. Cambiano un Papa e cambiano un Presidente del Consiglio. Durante la conferenza stampa improvvisata davanti a Montecitorio Conte se n’è andato con un tavolino che sembrava il tavolino della frutta, il giusto epilogo del Governo giallo rosso: infatti Casalino aveva detto: siamo alla frutta. Conte è sparito in 24 ore senza dire una parola: ma se pensiamo a come Papa Ratzinger venne mandato via, con la stessa velocità con cui Conte è stato allontanato non possiamo non pensare ai poteri forti e all’alta finanza mondiale, che oltre all’economia ha in mano la comunicazione. Far riprendere l’economia italiana rientra negli interessi di alcuni poteri forti europei. Ci sarà un passo in avanti economico, ma dopo seguirà un bagno di sangue: tasse. Draghi è la maschera ufficiale del Padrone: non serve più la recita. Ma allora a cosa serve la democrazia? Giorgia Meloni fa una scelta come sempre di coerenza ed il futuro prossimo ci dirà se sarà premiata per questo. Monti si è infastidito? Lui il cattivo e Draghi il buono? Del resto Mario Monti non ha il phisique du role, ha la maschera un po’ triste del contabile. Non può fare il primo attore, al massimo il caratterista! Draghi invece si presenta in un altro modo, sembra più “sgamato”.

Tra tante maschere, un volto vero: quello di Giorgia Meloni. Edoardo Sylos Labini il 13 Febbraio 2021 su  culturaidentita.it.. Nessun titolo fu più indovinato come quello del nostro mensile CulturaIdentità, da giorni in edicola: Il Paese dei Pulcinella. Proprio nel periodo di Carnevale i cittadini italiani assistono all’ennesimo travestimento della maggior parte della classe politica italiana. Si cambia abito e maschera con una velocità così incredibile che anche il grande Arturo Brachetti si sente oramai un principiante. Tra Arlecchini servitori di più padroni e Pulcinella imbroglioni, sempre pronti a dar la colpa al prossimo senza prendersi le proprie responsabilità, le maschere della Commedia dell’Arte hanno preso il posto dei volti anonimi delle mascherine. Un teatrino indegno culminato con l’esilarante votazione per il nuovo governo Draghi sulla piattaforma Rousseau. Pirandello ci lascia in questa direzione, in uno dei suoi romanzi più importanti, Uno nessuno e centomila, una delle frasi più significative della sua poetica: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Ecco, tra tante maschere, uno dei pochi volti che ho incontrato nella politica del nostro Paese è senza ombra di dubbio quello di Giorgia Meloni: una donna sincera, schietta, da sempre abituata a farsi largo in un mondo maschile e spesso maschilista. La scelta del suo partito di restare fuori dalla grande ammucchiata – perché sembra più quella, che un governo di unità nazionale – è segno di una coerenza che nell’Italietta (appunto dei Pulcinella) viene quasi derisa. Eppure sono certo che Draghi apprezzerà più la sua posizione chiara e leale che quella dei tanti yes men nostrani che frequentano le segreterie di partito come se la legge Merlin non fosse mai entrata in vigore. Per votare un decreto che fa gli interessi degli italiani non c’è bisogno per forza di sedere accanto a chi ti considerava il diavolo in persona fino a cinque minuti prima. E’ vero che noi italiani tendiamo a salire sul carro dei vincitori, ma sono certo che questa scelta della Meloni sarà apprezzata quando si tornerà al voto. Starà poi ai leader del centrodestra non cadere nel tranello di Renzi, che proverà a spaccare anche questa coalizione dopo esserci riuscito nel centrosinistra. Vedremo cosa uscirà nelle prossime ore dal cilindro del demiurgo Mario Draghi. Sicuramente quando la sua posizione non sarà più quella di forza, spunterà fuori il solito coniglio pronto a scappare verso nuovi maghi che non lo facciano sparire mai.

Dritto e Rovescio, ovazione per Giorgia Meloni da autori e tecnici: cosa è successo dietro le quinte da Paolo Del Debbio. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. "Vuoi fare una festa il 12 giugno?". Giorgia Meloni deride i Cinque Stelle e dal dietro le quinte di Dritto e Rovescio parte un coro di applausi tra autori e tecnici. Succede nella puntata dell'11 febbraio su Rete Quattro. Ospite di Paolo Del Debbio l'unica leader all'opposizione. Ed ecco che ancora una volta non si smentisce. Irremovibile sulle sue posizioni.  "Ma cosa vuole da me, io non ho nulla a che fare con la Le Pen, sono Presidente dei conservatori europei. Io ho una identità ben definita in Europa", replica al conduttore. Tradotto - spiega il Tempo - della Le Pen chiedete a Matteo Salvini. La Meloni non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro a favore di un governo di unità nazionale: "Difficile far stare in natura ciò che in natura non ci può stare". Non a caso la numero uno di Fratelli d'Italia, vista la lista dei nuovi ministri, non ci è andata per il sottile. "Le grandi aspettative degli italiani sull'ipotesi di un Governo dei "migliori", in risposta all'appello del Capo dello Stato per fare fronte alla drammatica situazione dell'Italia, si infrangono in un Esecutivo di compromesso che rispolvera buona parte dei Ministri di Conte", ha cinguettato più puntuale che mai. E ancora, sempre da Del Debbio: "Come posso ricostruire l'Italia insieme a coloro che l'hanno proditoriamente distrutta. Se una compagine viene lodata dagli avversari di sempre, qualcosa non funziona. Non sta facendo bene il suo lavoro". FdI sarà dunque l'unico partito dall'altra parte della barricata. Ma a riguardo la Meloni non è affatto preoccupata: "È necessario farlo. Sarebbe un regime totalitario altrimenti. Dove tutti direbbero che va tutto bene, anche se non è così". 

Giorgia Meloni contro il governo di Mario Draghi: "Grandi aspettative infrante con un esecutivo così". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Un commento non a caldo, a caldissimo. Giorgia Meloni non ci va per il sottile e, scoperta la lista dei ministri del governo di Mario Draghi, cinguetta. "Le grandi aspettative degli italiani sull'ipotesi di un Governo dei "migliori", in risposta all'appello del Capo dello Stato per fare fronte alla drammatica situazione dell'Italia, si infrangono in un Esecutivo di compromesso che rispolvera buona parte dei Ministri di Conte". Una batosta che somiglia a un rimprovero agli alleati di centrodestra. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi hanno infatti deciso di appoggiare l'esecutivo dell'ex presidente della Banca centrale europea. Anche se con l'unico obiettivo di salvare il Paese dalla crisi economica e sanitaria. E ancora al vetriolo la leader di Fratelli d'Italia: "Mi chiedo se i cittadini, gli imprenditori, i lavoratori e tutte le persone in difficoltà si sentano rassicurate dall'immagine che vedono. Sono convinta più che mai che all'Italia serva un'opposizione libera e responsabile". Un po' come FdI che ha sempre tifato per il voto. Unico modo per concedere agli italiani un esecutivo scelto da loro. Una posizione, come detto in precedenza, in contrapposizione con la Lega e Forza Italia. La stessa Meloni ha però rassicurato che all'interno della coalizione nulla cambia. I tre leader sono pronti a presentarsi uniti alle amministrative, con un unico candidato che rappresenti il centrodestra in toto.

Fabrizio De Feo per “il Giornale” il 13 febbraio 2021. «Il nuovo governo? Un compromesso che non rassicura». Mario Draghi si arma di ago e di filo e realizza una tessitura politica che tiene insieme vecchie e nuove anime governative. Un esercizio di rinnovamento certamente meno deciso rispetto alle previsioni per un esperimento di coabitazione tra diversi che ha pochi precedenti. La lettura della squadra di governo segna il fischio d' inizio di una partita che Fratelli d' Italia giocherà fuori dal campo di gioco, ma alla quale il partito di Giorgia Meloni spera di poter partecipare con un contributo «esterno» e una opposizione responsabile. Di certo la prima impressione è che si sia badato più alla sostanza - vedi governabilità - che sul bel gioco. Il giudizio sui nomi scelti per il nuovo governo, comunque, non è positivo. «Ci aspettavamo scelte di alto livello» dicono dal partito. «Così non è stato, il rischio di aver prodotto un minestrone mediocre c' è tutto. Un banchetto dei partiti sul ponte del Titanic». Il focus nei commenti si concentra inevitabilmente proprio sullo iato troppo ampio tra premesse, speranze e risultato finale della composizione della squadra. «Le grandi aspettative degli italiani sull' ipotesi di un governo dei migliori in risposta all' appello del capo dello Stato per fare fronte alla drammatica situazione dell' Italia si infrangono nella fotografia di un esecutivo di compromesso che rispolvera buona parte dei ministri di Giuseppe Conte», commenta Giorgia Meloni (nel tondo). «Come dimostra la casella strategica del ministero del Lavoro affidata al Pd, i nostri timori di un governo ostaggio della sinistra vengono confermati. Sono convinta più che mai che all' Italia serva un' opposizione libera e responsabile». Diversi esponenti si affidano all' ironia. Francesco Lollobrigida, ad esempio, definisce gli ingredienti del cocktail Draghi ed enuncia la ricetta per la sua preparazione. «Prendi i 2/3 del Conte I, aggiungi metà del Conte II, un pizzico di governo Berlusconi, spolverata di Governo Renzi e un pugno di tecnici a coprire il tutto. Qualche trasformista q.b. (quanto basta, ndr). Frullare tutto e versare in faccia agli italiani che hanno votato tutt' altro». C'è chi lancia un richiamo all' identità e alla scelta in controtendenza. «Orgogliosi di stare fuori da questo governo» dice Chiara Colosimo. E chi mutua le parole di Totò come Carlo Fidanza. «Lo chiamavano il governo dei migliori. Ma mi faccia il piacere». E poi c' è chi punta il dito sulle inattese conferme. «Governo dei migliori? Con Speranza a completare la lista della spartizione partitocratica con manuale Cencelli alla mano? Inizia a disvelarsi il vero volto di un governo che, secondo i fondati timori di Fdi, nasce più dalla bulimia di potere dei partiti che per fronteggiare la pandemia» dice Andrea Delmastro. «La presenza di Speranza segna la più incredibile e infausta continuità con tutti gli errori del precedente governo che ha tentato di essere il termometro della crisi e mai la medicina».

Parla Cencelli: «Il mio manuale ha vinto ancora». Draghi si è attenuto al sistema come Andreotti…Mia Fenice sabato 13 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. «Il manuale Cencelli è stato applicato alla lettera». Massimiliano Cencelli, democristiano doc, è il padre del vademecum sul come dividere nomine e poltrone ad esponenti di vari partiti o correnti in proporzione al loro peso. Cencelli, intervistato dal Giornale, mostra tutta la sua delusione: «Questa volta non me l’aspettavo, le premesse erano altre; ma anche Draghi si è attenuto in maniera precisa al sistema». Cencelli poi spiega che il sistema è nato «nel 1968. Discutevamo ormai da ore su come assegnare i ministeri, quando a un certo punto, per risolvere lo stallo, dissi: scusate, facciamo finta di essere una società per azioni. Chi ha il 12% di seggi in Parlamento, otterrà il 12% delle nomine e così via… questo metodo mise subito tutti d’accordo». Il giornalista gli chiede chi è stato il più bravo a mettere in pratica il manuale. E la risposta è lapidaria: «Senza dubbio Andreotti, un fenomeno». Il giornalista lo incalza: Draghi come Andreotti quindi? «Non scherziamo, la Democrazia Cristiana non esiste più». Ma il sistema continua ad esistere  «perché è il modo migliore per tenere tutti buoni. Soprattutto in questo momento, ma d’altronde con questa classe dirigente non si poteva fare altrimenti». Cencelli poi puntualizza che si aspettava «da parte di Draghi una maggiore autonomia. Non ha inserito nella squadra i leader di partito, ma ha riesumato politici navigati che erano ormai nel dimenticatoio». E sul fatto che però nel governo ci sono molti tecnici, ha puntualizzato che «anche questa scelta fa parte della spartizione. Intendiamoci però, considero Draghi un uomo molto capace. Deve solo sorridere di più». E infine la stoccata finale: «Viste proprio le capacità di Draghi, mi aspettavo qualcosa in più. Evidentemente il detto romano vale sempre: meglio comandare che fottere… Io vedo qual è il risultato. E il risultato è che il manuale Cencelli ha vinto ancora».

Nella lista dei ministri c’è Brunetta con Di Maio: il governo Draghi è un’insalata mista immangiabile. Giovanni Pasero venerdì 12 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il commento di Massimiliano Cencelli, padre del famoso Manuale della lottizzazione della prima Repubblica, fotografa i ministri del governo Draghi in una frase icastica. “Nasce il governo del Vorrei ma non posso…”. In effetti, Super Mario, come uno chef stellato è stato costretto a cucinare col cibo in dispensa. Ma sono pietanze avanzate, che agli italiani già sono risultate indigeste. Tanto per capire il menu, restano al loro posto Luigi Di Maio, Luciana Lamorgese, Dario Franceschini, Roberto Speranza. E questo potrebbe bastare per capire che i superpoteri di Draghi hanno potuto poco contro l’avidità di Pd e M5s. Alla fine, il presidente del Consiglio incaricato ha consegnato a Mattarella una lista dei ministri che è una insalata mista bizzarra. Cibo di qualità, come i tecnici di primo piano che ha inserito. In tutto sono 23 i ministri della squadra Draghi: 15 politici e 8 tecnici. La delegazione più numerosa è quella dei 5 Stelle, partito che ha i gruppi parlamentari più consistenti a Camera e Senato. Nella squadra Draghi entrano infatti 4 ministri pentastellati e sono tutte riconferme (anche se in alcuni casi in ruoli diversi) del Conte 2: Federico D’Incà torna ai Rapporti con il Parlamento e Di Maio viene appunto confermato alla Farnesina. Mentre Stefano Patuanelli migra dal Mise all’Agricoltura e Fabiana Dadone dalla pubblica amministrazione alle Politiche giovanili. Tre i ministri dem. Due conferme con Lorenzo Guerini alla Difesa e Dario Franceschini alla Cultura (ma “perde” il Turismo). New entry Andrea Orlando, vicesegretario del Pd, come ministro del Lavoro. Tre anche i ministri in quota Lega: Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo Economico, Erika Stefani al ministero per le politiche della disabilità e Massimo Garavaglia al Turismo. Anche per Forza Italia la delegazione è composta da tre ministri: Renato Brunetta alla Pubblica Amministrazione, Mara Carfagna al Sud e Maria Stella Gelmini agli Affari regionali. Leu vede invece confermato Roberto Speranza alla Salute. Per i renziani di Italia Viva torna al governo Elena Bonetti nello stesso ruolo del Conte 2 ovvero Pari opportunità e Famiglia.

La lista completa dei ministri del governo Draghi. Ecco, nel dettaglio, i ministri del governo guidato dal presidente del Consiglio Mario Draghi: Luciana Lamorgese ministro dell’Interno; Luigi Di Maio ministro degli Esteri; Daniele Franco ministro dell’Economia; Giancarlo Giorgetti ministro dello Sviluppo Economico; Marta Cartabia ministro della Giustizia; Roberto Cingolani ministro della Transizione ecologica; Stefano Patuanelli ministro per le Politiche agricole; Roberto Speranza ministro della Salute; Lorenzo Guerini ministro della Difesa; Andrea Orlando ministro del Lavoro; Vittorio Colao ministro della Transizione digitale; Enrico Giovannini ministro dei Trasporti; Patrizio Bianchi ministro dell’Istruzione; Dario Franceschini ministro della Cultura; Elena Bonetti ministro della Famiglia; Federico D’Incà ministro per i Rapporti con il Parlamento; Maria Cristina Messa ministro dell’Università; Renato Brunetta ministro della Pubblica Amministrazione; Maria Elena Gelmini ministro per le Autonomie; Mara Carfagna per il Sud e la coesione territoriale; Fabiana Dadone ministro per le politiche giovanili; Erika Stefani, ministro per le Disabilità; Massimo Garavaglia ministro per il Turismo.

Il nuovo ministro dell’Economia è un nemico del reddito di cittadinanza. Molto atteso era il tecnico all’Economia. Come preventivato, Draghi ha scelto Daniele Franco. Il direttore generale della Banca d’Italia è anche presidente dell’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni-IVASS dall’1 gennaio 2020. Vanta una lunga conoscenza con Mario Draghi nata certamente negli uffici di Palazzo Koch, dove il premier ha ricoperto il ruolo di governatore dal 2005 al 2011. Ricordato non solo per la sua lunga carriera ma anche per essere stato considerato uno dei “nemici” dai Pentastellati ai tempi del governo gialloverde quando, a loro dire, ha tentato di intralciare la partenza del Reddito di Cittadinanza facendo continui richiami sulle coperture quando era al Tesoro.

DAGOREPORT il 12 febbraio 2021. D’accordo ai tecnici vanno tutti i ministeri chiave: quelli economici. E fin qui, c’è la mano di Draghi. Dopodiché la scelta dei ministri politici appartiene tutta a Mattarella. Pressato dai partiti, la Mummia Sicula non ha avuto il coraggio di dir loro: prendere o lasciare. E se l’è fatta addosso come un vecchietto senza pannolone. Tutti i partiti sono contenti del bilancino del Manuale Cencelli ripescato dal Don Abbondio del Quirinale, eccetto i berlusconiani capeggiati da Licia Ronzulli che hanno rischiato il coccolone al nome di Mara Carfagna ministro, premiata da Draghi per l’opposizione al Conte Ter a favore del  governo di Mariopio. La scelta al dicastero della Giustizia della Cartabia, la giurista preferita di Sabino Cassese con contorno di Bernardo Mattarella e Giulio Napolitano, è uno schiaffo al giustizialismo manettaro di Bonafede. Come Colao ministro è una porta in faccia al Conte degli Stati Generali. Su-Dario Franceschini è stato declassato: via il Turismo, gli rimangono i Beni Culturali. Andrea Orlando è entrato nell’esecutivo per Zingaretti, Franceschini per la sua corrente, Guerini per Base Riformista di Marcucci e Lotti. Enrico Giovannini, Infrastrutture e Trasporti, è un grigliato misto di Pd, 5Stelle e Mattarella. Per quanto riguarda la Lega, Massimo Garavaglia è in quota Salvini, Erika Stefani per Zaia, Giorgetti per Draghi/Salvini. Di Maio per la sua corrente, D’Incà per Fico, Patuanelli per Conte. Con Draghi, Giggino ministro degli Esteri non conta un cazzo: i rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea li gestirà direttamente Draghi, tant’è che è scomparso il ministero per gli Affari Europei di Amendola. Patrizio Bianchi all’Istruzione è un professore prodiano, cattolico di sinistra come Mattarella. Renzi incassa solo la riconferma di Elena Bonetti ma Roberto Cingolani, ministro  dell’Ambiente e Transizione Ecologica, è un tecnico che ha calcato il palcoscenico della Leopolda. La Bellanova è fuori ma farà la capogruppo alla Camera di Italia Viva quando Maria Elena Boschi si dimetterà.

L'esecutivo. Draghi applica alla perfezione il manuale Cencelli per il suo governo. Vito Califano su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Dicevano: Draghi non applicherà il Manuale Cencelli. D’altronde non è un politico, non viene da quel mondo, non appartiene e certe dinamiche e strategie. E invece Mario Draghi ha annunciato la sua lista di ministri dimostrando di aver tenuto conto eccome delle forze in Parlamento, del bilanciamento degli schieramenti, della lottizzazione dei partiti. Massimiliano Cencelli infatti ha approvato. Innanzitutto cos’è questo proverbiale Manuale: una sorta di vademecum della prima Repubblica, una guida per dirimere la spartizione di nomine e cariche all’interno della maggioranza e nel sistema politico. “Come nel consiglio di amministrazione di una società gli incarichi vengono divisi in base alle azioni possedute, lo stesso deve avvenire per gli incarichi di partito e di governo in base alle tessere”, spiegava in un’intervista ad Avvenire l’ex funzionario della Democrazia Cristiana. L’effettiva esistenza di questo vademecum si perde nei meandri delle voci e dei corridoi tra Palazzo Madama, Palazzo Chigi e Montecitorio. Questo meccanismo dotato, a quanto tramandato, di precisione algebrica, sarebbe anche esistito perfino fisicamente. Una sorta di pamphlet che circolava tra i politici della Prima Repubblica. Un mistero che non è mai stato svelato. Comunque: la squadra di Draghi è composta da 23 ministri. Di cui otto ministri tecnici, più il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, quindici quelli politici: quattro in quota al Movimento 5 Stelle, tre al Partito Democratico, tre alla Lega, tre a Forza Italia, uno Italia Viva, uno Leu. Sette dei tecnici nei ministeri con portafoglio. Il solo Vittorio Colao all’Innovazione Tecnologica e Transizione Digitale senza portafoglio. L’equilibrio tra le forze è sottile: quattro ministeri al M5s in virtù del 32,7% ottenuto alle politiche del 2018; tre a Partito Democratico, Lega e Forza Italia che si piazzarono rispettivamente al 18,7%, 17,4%, 14%; un dicastero ciascuno Leu (3,4%) e a Italia Viva che ancora non esisteva alle ultime politiche. Uno squilibrio che si giustifica in virtù della stessa esistenza del governo; senza contare che ci sono ancora numerose altre cariche tra sottosegretari e funzionari da assegnare. I grillini contrari al governo agitano la presunta truffa sul ministero della Transizione Ecologica pretesto da Beppe Grillo, piazzato nel quesito sulla piattaforma Rousseau, e accorpato da Draghi al ministero dell’Ambiente e affidato al fisico Roberto Cingolani. L’ex Presidente della Banca Centrale Europea, che domani alle 12:00 presenterà l’esecutivo al Quirinale dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha così ricevuto la benedizione del nume tutelare del manuale. “La lista dei ministri del governo Draghi in linea di massima rispecchia il mio manuale … Sono 3 del Movimento 5 stelle, 3 del Pd, tre di Forza Italia… – ha detto Cencelli contattato da AdnKronos – Non è questa la ‘divisione’ che ho inventato io?”. E poi alcune considerazioni specifiche. “Non mi aspettavo la ricostituzione di alcuni ministeri come quello del Turismo, allora le Regioni che ci fanno a stare? Draghi ha applicato al 50% il manuale Cencelli e al 50% ha riesumato tutti i ministeri che erano stato chiusi”. E, come si accennava, ha piazzato i suoi tecnici in ministeri con portafoglio e di peso. D’altronde le sue scelte – una per tutte, quel “whatever it takes” diventato emblematico – sono spesso se non sempre state politiche.

Il governo Draghi da manuale Cencelli: molto equilibrio, poche donne. Il premier stila una squadra con bilancino perfetto tra i partiti, ma non tra i generi. In M5S spopola l'area Di Maio, di Conte non v'è più traccia. Torna Renato Brunetta. Andrea Orlando agguanta il terzo ministero. La sinistra riesce a esprimere solo maschi. Susanna Turco su L'Espresso il 12 febbraio 2021. Massimiliano Cencelli detto «Il Manuale» gli aveva sconsigliato del tutto di seguire le sue orme: «Per carità», ammoniva il democristiano che cinquant'anni fa normò i criteri di suddivisione tra partiti dei pesi in un esecutivo. Mario Draghi non deve averlo ascoltato perché, con il capo dello Stato Sergio Mattarella, ha stilato un governo d'equilibrio aureo, da prima Repubblica: otto tecnici, tutti in aree fondamentali, e quindici politici, cioè il doppio meno uno rispetto ai non-politici. Quattro ministeri per i Cinque stelle, partito con il maggior peso parlamentare, tre a testa per Pd, Lega, Forza Italia. Uno a Italia Viva e uno a Leu. Un bilancino perfetto. Con significativi ritorni e contromisure, come vedremo. Da prima Repubblica, vi è da dire, è l'equilibrio di genere. Sono donne solo otto su ventitré ministri, e solo due saranno di peso: Luciana Lamorgese, riconfermata all'Interno, Marta Cartabia, alla Giustizia. Oltre a Cristina Messa, all'Università, le altre cinque sono titolari di ministeri senza portafogli, come si conviene alla solida tradizione italica, inscalfita anche stavolta. Apoteosi per la sinistra: incapaci di esprimere nomi femminili Pd e Leu, alla faccia della parità; per somma ironia, l'unica donna diciamo d'area è la tecno-renziana Elena Bonetti, già ministra dimissionaria del Conte due. L'apoteosi del cencellismo, tuttavia, si raggiunge nel rispetto degli equilibri interni ai vari partiti. Splendido dal punto di vista della nitidezza ciò che accade nei Cinque stelle, che da partito di lotta e di governo diviene in toto partito dei ministeri, vale a dire feudo di Luigi Di Maio: riconfermato l'ex capo M5S agli Esteri, con Federico D'Incà ai rapporti col Parlamento, Fabiana Dadone alle politiche giovanili, Stefano Patuanelli all'Agricoltura, sparisce qualsiasi segno non solo di personaggi d'area per così dire ribelle, ma persino d'area contiana – di Giuseppe Conte si può dire non vi sia più traccia, a proposito. Aureo bilanciamento nel Pd, dove ci sono due esponenti della maggioranza, e uno della minoranza. Due riconferme: l'ex margheritino Dario Franceschini alla Cultura, l'ex renziano Lorenzo Guerini alla Difesa. Una new entry: l'ex diessino Andrea Orlando, che dopo aver guidato l'Ambiente nel governo Letta, la Giustizia con Renzi e con Gentiloni, adesso andrà al Lavoro, raggiungendo così una varietà di esperienza ministeriale che possono vantare pochi altri, tra cui per dire Angelino Alfano, che fu ministro della Giustizia con Berlusconi, e poi degli Interni con Letta e Renzi, degli Esteri con Gentiloni. Il terzetto di Forza Italia si potrebbe intitolare grandi ritorni, che è in fondo ciò che meglio può riuscire a un partito in sé arrivato al tramonto: torna (di nuovo) alla pubblica amministrazione Renato Brunetta, l'uomo che tra gli azzurri fu il più strenuo avversario dell'ultimo governo tecnico, quello di Mario Monti, e soprattutto dell’Europa che aveva voluto la fine dell'Era Berlusconi; torna Mara Carfagna, stavolta a guidare il Sud; torna Maria Stella Gelmini, alle Autonomie. Nessuna sorpresa dalle parti della Lega: c'è l'osannato e trasversale Giancarlo Giorgetti al Mise, torna il ministero del Turismo con Massimo Garavaglia e torna, stavolta alle Disabilità, Erika Stefani che già fu nel Conte uno. Al contrario, saltano all'occhio alcune eloquenti contromisure, per lo più antigrilline. Sottosegretario alla presidenza del consiglio, cioè braccio destro del premier, è Roberto Garofoli, protagonista di scontri durante il governo gialloverde che culminarono con il famoso audio in cui il portavoce di Conte, Rocco Casalino, furioso con chi a suo dire non trovava i soldi per il reddito di cittadinanza, spiegava: « Nel M5s è pronta una mega vendetta. Tutto il 2019 ci dedicheremo a far fuori tutti questi pezzi di merda del MEF». Uno era appunto Garofoli, capo di gabinetto del ministro Tria. L'altro era Daniele Franco, allora ragioniere generale dello Stato, oggi ministro dell'Economia, fedelissimo di Draghi. Marta Cartabia arriva alla Giustizia, ministero da de-contaminare dopo i lunghi anni in cui a guidare il ministero c'era Alfonso Bonafede, il Guardasigilli che faticava a distinguere il 41 bis dal 416 bis. E non sfugge che all'Istruzione, al posto di Lucia Azzollina, vada oggi Patrizio Bianchi, coordinatore della task force per gestire la scuola a inizio della pandemia, poi dimissionario proprio in polemica con la ministra grillina. A tutto ciò possiamo aggiungere che il famoso ministero per la transizione Ecologica, cui tanto teneva Beppe Grillo, non è andato a un pentastellato ma a un tecnico, Roberto Cingolani. Altrettanto dicasi per un altro ministero assai importante per i Cinque stelle, l'innovazione tecnologica, dove siederà Vittorio Colao. Da questo punto di vista, in effetti, se il 2019 doveva essere l'anno della «mega vendetta», il 2021 pare quasi da ritorno dello Jedi.

Concita De Gregorio umilia il Pd e Zingaretti: "La più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna, le donne le porta Silvio". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno. 

Da liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno.

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. Nemmeno la promessa di «rimediare» allo sgarbo con i posti da sottosegretario placa la rivolta delle donne del Pd, escluse dai tre ministeri che Draghi ha assegnato ai democratici. E la proposta di Nicola Zingaretti accontenta forse solo chi è in odore di nomina. «Nel partito esiste un problema di leadership, non di riconoscimento di ruoli, incarichi o di competenze specifiche non valorizzate, lettura questa che sconta un principio di subalternità», arringa l' onorevole dem Marianna Madia. «Il problema del partito è un correntismo esasperato che condiziona le scelte e riduce ogni passaggio alla ricerca di un equilibrio burocratico».

Concorda la collega Lia Quartapelle: «Ha ragione, il problema che emerge è la leadership. E anche la politica, aggiungo».

Realista Lucia Bongarzone, responsabile Pari opportunità del Pd: «Le aspettative stavolta erano alte, per questo il tonfo è ancora più pesante. La domanda è una: nel partito c' è una cultura di genere o no? Perché altrimenti le belle proposte restano carta straccia».

Indignata Simona Bonafè, eurodeputata e segretaria regionale Pd Toscana: «La scelta del gruppo dirigente del Pd di indicare solo figure maschili è una ferita aperta, uno sfregio alla storia della sinistra».

Sostiene Cecilia D' Elia, coordinatrice nazionale Donne democratiche, che «il tema non è un risarcimento per la scelta di aver nominato ministri uomini, ma è a monte: bisogna chiedersi perché le figure apicali del Partito democratico sono tutte maschili». E rilancia: «Se Andrea Orlando lascerà la vicesegreteria, spero possa esserci una donna al suo posto».

La senatrice Francesca Puglisi sposta la prospettiva: «Tra noi donne del Pd c' è poca capacità di promuovere una leadership femminile e molta timidezza a mettersi in gioco per cariche di primo piano, anche perché è difficile raccogliere il sostegno delle altre intorno ad una candidatura». Con inevitabili conseguenze: «Spesso il rinnovamento è stato fatto sulla pelle delle donne, tant' è che è difficile trovare in Parlamento politiche di lungo corso». Per lei, che nel Conte 2 era sottosegretario al Lavoro - ministero dove adesso è approdato Orlando, esaurendo la quota dem - sarebbe pronta la nomina a sottosegretario con delega allo Sport.

«Il problema bisognava porselo prima», ragiona l' onorevole Alessia Morani, sottosegretaria uscente allo Sviluppo economico. «Ci sono tre ministri per il Pd? E allora discutiamone, pretendiamo che uno sia donna, non che stiamo zitte e poi ci stupiamo se gli uomini si sistemano tra loro».

La ferita nei dem. Niente ministre e il Pd si spacca, la protesta: “Nessuna sottosegretaria”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Non era – a quanto pare – un capriccio, una nuvola passeggera, un malumore temporaneo: le donne del Partito Democratico stanno agitando il Partito Democratico. Una ferita partita venerdì sera, quando il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato la squadra di governo. Otto ministri su 23 donne, due di Forza Italia, una della Lega, una di Italia Viva, una del Movimento 5 Stelle, tre tecniche (le uniche con portafoglio). E nessuna del Pd. Una “ferita” l’hanno definita in tante. Ormai si parla di rivolta. E quindi è partito l’hashtag #graziemaNOgrazie, a indicare il probabile rifiuto, una specie di scintilla rivoluzionaria, a ricoprire incarichi da sottosegretarie o viceministre, un rimedio che a quanto trapelato il segretario dem Nicola Zingaretti aveva pensato di adoperare per placare la rivolta. “E se tutte le donne di centrosinistra cui verrà chiesto di fare da sottosegretarie, o viceministre, dicessero: ‘No, grazie, come se avessi accettato’, e cominciassero a costruire qualcosa per uscire dall’angolo davvero?”, aveva scritto sui social la giornalista Annalisa Cuzzocrea. Una proposta che non è passata inosservata. Dei problemi della leadership femminile nella politica ne aveva parlato in un’intervista a questo giornale la scrittrice Giulia Blasi. Il tema è scottante, e anima il Partito in queste ore. La portavoce della conferenza delle donne democratiche si riunisce oggi. La portavoce Cecilia D’Elia parla di “ferita”, l’ex Presidente della Camera Laura Boldrini sposa la campagna: “Non può bastare qualche posto da sottosegretaria”; l’ex ministro Livia Turco definisce la mancanza di donne dem “frutto di una logica maschilista e correntizia”; Debora Serracchiani fa notare come si tratti della prima volta “in cui nella delegazione di governo del Pd non c’è una rappresentanza femminile”; l’ex ministra Roberta Pinotti parla di una “sconfitta per tutti”; “un’assenza che stride molto” per Rosy Bindi; un “problema di coerenza per la presidente della commissione femminicidio Valeria Valente, Lia Quartapelle parla di occasione mancata per dare un “esempio sulla parità”, caustica Giuditta Pini: “Per il women new deal c’è tempo compagne, oggi no, domani neanche, dopodomani sicuramente, lo metteremo in un odg”. La sollevazione insomma è quasi unanime. Dal Nazareno si sforzano a far sapere che le scelte sui ministri dem – Dario Franceschini alla Cultura, Andra Orlando al Lavoro, Lorenzo Guerini alla Difesa – sono state di Palazzo Chigi e Quirinale. Zingaretti “si è speso moltissimo per le donne”, ha detto Valentina Cuppi, presidente del Partito dal febbraio 2020. Niente da fare: la crepa è partita. La protesta potrebbe esaudirsi nel rifiuto ai sottosegretariati – nel dibattito non manca chi fa notare che si tratti comunque di ruoli rilevanti. La questione centrale della polemica è il ruolo di leadership delle donne nel partito, non quote rosa ma argomento di subalternità complicato dal correntismo esasperato, come ha scritto l’ex ministra Marianna Madia su Huffington Post. Tutto un paradosso per chi promuove e si erge a paladino di diritti e parità mentre il centrodestra porta nell’esecutivo tre donne e sempre nella destra, in Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni siede sullo scranno più alto ed è la politica più influente in Italia. Matteo Renzi, l’ex segretario e fuoriuscito dal partito, che ha fondato Italia Viva, nel governo rappresentato alle Pari Opportunità da Elena Bonetti, gira il coltello nella piaga del Pd che “non riesce a proferire una parola credibile sul tema femminile”.

Concita De Gregorio umilia il Pd e Zingaretti: "La più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna, le donne le porta Silvio". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno. 

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Una ferita che brucia, e non solo alle donne del Pd. Ascoltando la lista dei ministri, è stato Zingaretti per primo a rendersi conto che a sinistra erano tutti maschi. Lasciato al buio da Draghi, il segretario dem sperava che - al netto delle manovre dei capicorrente - la sua richiesta di rispettare «il valore della differenza di genere» avanzata in Direzione, avrebbe trovato orecchie più attente. E invece lo spettacolo offerto al Paese di una destra che premia le donne (due su tre Fi, una su tre la Lega) e di un centrosinistra che le mortifica (quattro uomini su quattro, Leu inclusa) è stato devastante. Una valanga rosa s' è staccata dal Nazareno, obbligando Zingaretti alla contromossa: se sui sottosegretari il premier darà libertà ai partiti, lui indicherà solo donne. E pazienza per i delusi: citofonassero ai capibastone, nel frattempo diventati ministri. «Non credo accadrà, ci sono troppi aspiranti. Se però lo facesse, sarebbe un bel segnale: la prova che Nicola vuol finalmente far saltare gli equilibri di corrente», reagisce Lia Quartapelle, una delle deputate più infuriate. «Il nostro statuto prevede metà delle cariche per le donne », spiega. «Se ci fossimo comportati come Forza Italia oggi avremmo un governo con dieci ministre e tredici ministri, in linea con la rappresentanza di genere a livello europeo ». Perciò «Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti». Concorda Laura Boldrini: «Occorre scardinare l' assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento». Ma per Marianna Madia la questione è un' altra: «Le donne del Pd hanno un problema di leadership, che non si ottiene per concessione, ma si esercita con battaglie sulla linea politica. Se la risposta sarà la spartizione di qualche posto da sottosegretario resteremo al punto di partenza. Forse peggio », taglia corto l' ex ministra, criticando la gestione "machista" della crisi. È questo il nodo da sciogliere: le donne dem che vanno avanti solo per cooptazione, sperando di arrivare prima e meglio. «Si sono illuse che funzionasse essere "in quota" a capicorrente o inserite per prossimità, anziché per competenza o consenso », annuisce Debora Serracchiani. E guarda adesso: «Per la prima volta il Pd al governo non ha una rappresentanza femminile». E la colpa «non è semplicemente degli uomini, anzi», spiega Anna Ascani: «Spesso ci siamo relegate in correnti a guida maschile per comodità. Abbiamo lasciato che fossero gli uomini a "indicarci" in ruoli di responsabilità secondari. Abbiamo schernito chi di noi provava ad emanciparsi. Forse quanto è successo ci permetterà di cambiare passo». Brutalizza Monica Nardi, ex portavoce di Enrico Letta, segnalando «la corsa al tweet sdegnato delle donne pd, tutte inquadrate in correnti rette da uomini, cooptate senza un voto che è uno. Fatela la politica, scalateli i partiti, prendeteli i voti». Eccolo il punto: è arrivato il momento di esporsi, di lanciare la sfida alla segreteria, quando sarà. Prendendosi nel frattempo il posto di vice-leader che Andrea Orlando dovrà lasciare e poi uno dei due capigruppo in Parlamento. La controffensiva verrà lanciata già domani, alla Conferenza delle democratiche convocata «per decidere come agire». Perché «la misura è colma», sbotta la presidente Valentina Cuppi, scagionando però Zingaretti: «Il più scontento è lui, la scelta dei ministri l' ha fatta Draghi». Che ha pure suscitato «la profonda delusione » della rete "Donne per la salvezza". Mentre nel Pd resta l' amarezza per un' esclusione che, segnala Orfini, «non è un problema solo delle donne, ma di tutto il partito».

Zingaretti, su "Repubblica" sinistra elitaria e radical chic. (ANSA il 30 gennaio 2021) "Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo". Così il segretario del Pd Nicola Zingaretti su Facebook critica duramente l'articolo dal titolo "La sinistra timida pilotata dagli eredi della Dc". "Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale - prosegue Zingaretti riferendosi ai giudizi su Matteo Renzi - è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta".

Fulvio Abbate per Dagospia il 4 febbraio 2021. Alla fine, è stato un “uomo senza qualità”, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, a spezzare le brame di un piccino mondo di sinistra convinto d’essere intoccabile. In possesso dell’occorrente completo di ciò che altrove, dove esserlo è invece possibile, consente una dimensione da veri “radical chic”. Il medesimo mondo che nel corso dell’ultimo ventennio, svanito il Pci, ha ritenuto necessario dare a se stesso un proprio seguito professionale invidiabile e benefit ulteriori, forte dell’applauso perfino di signore acefale, ma in ogni caso di buone letture, sicure che Veronica Lario fosse “una compagna” e, più recentemente, che Melania nutra in cuor suo politico disprezzo per Trump. Dunque, anche lei una femminista quasi come, un tempo, Carla Lonzi. Che imbarazzante candore, supportato, s’intende, dall’Invece di Concita De Gregorio. Invece, con un semplice tweet, Zingaretti, amorfo ex quadro cittadino della Fgci di via dei Frentani, così ai loro occhi, ha abbattuto un castello di carta profumata d’Eritrea che nel tempo, anche grazie all'amico Walter, era convinto della propria esistenza, meglio, della propria invidiabile persistenza. Un’enclave forte dei propri riti: serate a sgranocchiare cipster davanti al Festival di Sanremo in case di edificanti narratori, ad applaudire recital letterari alla Basilica di Massenzio, a mostrarsi ai vernissage del MaXXI, anche questo affidato a una signora del medesimo contesto, Giovanna Melandri, a pronunciare frasi da anime belle, davvero ispirate, dagli studi di Radiotre di Marino Sinibaldi, un altro cooptato ancora nel circoletto. Con la sua reazione a calco, nel cupio dissolvi della sinistra romana (dunque, italiana) il negletto (sempre ai loro occhi) segretario Pd ha preso di fatto a calci un mondo che, sempre nel tempo, era convinto della proprio inscalfibile invincibilità. E dei propri benefit. Che pena e imbarazzo per l'autore stesso, la difesa d’ufficio di Michele Serra corso a supporto morale della collega di “Repubblica”. Chissà quante persone dovrà consolare in questi giorni Veltroni, che di quel mondo è stato garante e principe dispensatore di opportunità. La verità? Magari, si potesse vivere nei lussi da radical chic nel desolante mondo della sinistra italiana, dove, nel migliore dei casi, è concessa una dimensione da condomini.  Resta però che grazie a Zingaretti da oggi siamo tutti finalmente liberi!

Boldrini attacca: "Nel Pd potere a uomini". L'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, fa autocritica: "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini". Rosa Scognamiglio, Lunedì 15/02/2021 su Il Giornale. "Girl power", direbbero agli inglesi. Uno slogan che ben si addice alla ex presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, che in questi anni ha condotto fior fior battaglie femministe - o presunte tali - nell'aula parlamentare di Palazzo Chigi. Ma stavolta lo fa, con un pizzico di inaspettata autocritica, nei confronti del partito democratico dove è approdata appena 2 anni fa, nel 2019, dopo esser passata da SI (2017) e Futura (2018) nel giro di un biennio. "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini", dichiara in un'intervista all'agenzia stampa Adnkronos. Tira già aria di burrasca? Chissà. Le "rappresaglie di genere" della Boldrini, di certo, non sono una novità. Tuttavia, stupisce che "si armi" proprio contro il PD, di cui ha sempre tessuto le lodi. "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini e in questa occasione il partito si è dimostrato per quello che è: un partito che non mette l'uguaglianza di genere tra le sue priorità. - dice ai microfoni di Adnkronos - Non fa parte della cultura di questo partito. Basta vedere i candidati alle regionali. Ora vedremo come andrà con le amministrative...". Che non abbia mai digerito l'assenza di una "quota rosa" consistente ai piani alti di Palazzo Chigi, era noto già da tempo. Lo conferma l'idea di adibire una "sala delle donne" in quel di Montecitorio dove ci sono "specchi appesi al posto dei ritratti mancanti di donne nei ruoli di presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio". Ma adesso sembra avere tutta l'intenzione di dare seguito concreto ai suoi nobili propositi. La ex-presidente della Camera ha seguito oggi la riunione via remoto delle donne dem - dopo la rivolta per la delegazione dem di governo tutta al maschile - che è stata riaggiornata a domani. "specchi appesi al posto dei ritratti mancanti di donne nei ruoli di presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio - ha spiegato - Qui noi siamo di fronte a uno scollamento dalla realtà: da una parte i documenti, gli odg, le iniziative, i materiali e poi niente di tutto questo si concretizza. E questo stride se messo a confronto con i partiti progressisti degli altri Paesi europei. Prendiamo la Spagna, paese latino come il nostro: al governo ci sono 6 ministri uomini e 11 donne. In Francia sono pari. Ma in Italia ancora il Pd non ha capito che questo è un tema imprescindibile anche in termini di consenso". E quindi, che cosa si propone? "Intanto occorre la compattezza delle donne, innanzitutto. I posti si devono ottenere combattendo e non per cooptazione. Ma serve anche uno sforzo culturale di questo partito: l'uguaglianza di genere deve essere una priorità. A partire dal vicesegretario. Ma sarebbe bene che" una dualità di genere "ci fosse per ogni incarico: un uomo e una donna per ogni incarico sul modello dei Verdi europei. Le proposte ci sono. Il punto è che così non si può andare avanti e quello che è accaduto non può essere derubricato come una cosa marginale".

Annalisa Cuzzocrea per "la Repubblica" il 16 febbraio 2021. Neanche lo shock di ritrovarsi tutti maschi al governo riesce a suscitare nelle donne Pd un moto d'orgoglio, la voglia di far pagare a caro prezzo l'onta subita. Dal partito tutto, non solo da loro: ostaggio di capicorrente che hanno azzerato la rappresentanza femminile, restituendo l'immagine di una forza retrograda e antistorica. «Un gravissimo problema a cui troveremo una soluzione», ha promesso ieri Zingaretti. Aggiornata a oggi per le conclusioni, il primo round della Conferenza delle democratiche finisce con un nulla di fatto. Consolidando la spaccatura tra chi, per fare un favore al segretario, preferisce annacquare il dibattito, buttandola sui posti di sottogoverno che vanno presi per attutire il colpo; e chi invece spinge per allargarlo, convocando subito la Direzione: il danno prodotto è troppo grave, non si può far finta di niente. Appartiene alla prima scuola la portavoce Cecilia D'Elia, zingarettiana di ferro. Dopo aver spiegato che «il pluralismo delle correnti ha prevalso, mettendo tra parentesi la questione di genere: una terribile sottovalutazione, una ferita, una battuta d'arresto», D'Elia ha incalzato sulle compensazioni. «Bisogna che qualcosa succeda subito. Non per risanare la ferita, o compensare l'assenza. Il tema della sottosegretarie o viceministre non è questione di risarcimento, non ci accontentiamo delle retrovie. È un dato di fatto, ci sono donne competenti, il Pd dia un segnale subito e netto su questo». Senza dimenticare gli incarichi di partito, dove però, attenzione, i maschi non devono fare un passo indietro, sono le donne che devono affiancarsi. «Non ho chiesto le dimissioni di Orlando, a cui rinnovo la mia stima», precisa infatti D'Elia, reduce da una ramanzina dei vertici. «Però penso che ci possa essere una vice donna, come aveva fatto Zingaretti all'inizio con la vicesegreteria duale di Orlando e De Micheli». E comunque se ne potrà parlare, propone, alla prossima assemblea. Parole che però fanno indignare Titti Di Salvo, numero 2 della Consulta che - come pure Marta Leonori e tante altre lì dentro - pensa che «quanto è accaduto è una sconfitta e un errore», altro che battuta d'arresto. «In un partito che ha tre luoghi per le donne - Conferenza, Dipartimento pari opportunità, Women new Deal - e zero ministre qualcosa non torna. Si dimostra l'inefficacia di questo assetto». Specchietti per le allodole, mentre i maschi si prendono tutto. «Noi abbiamo bisogno di ingaggiare una battaglia politica negli organismi di vertice per riaffermare l'idea di un Pd contemporaneo fatto di donne e uomini», che devono vedersi entrambi. Perciò va convocata la Direzione. Per parlarne tutti, guardandosi in faccia. Come ha fatto ieri, sfogandosi, l'ex ministra De Micheli. «Io al Mit ho sempre lavorato a testa bassa, senza preoccuparmi di intessere rapporti che potessero proteggermi», ha raccontato. «E forse è stato uno sbaglio. Quando mi hanno attaccato, anche nel mio partito, nessuna di voi mi ha difesa. Mi sono sentita sola». Perché nel Pd non è solo la leadership femminile che manca, come denuncia Anna Ascani. A mancare, fra le donne dem, è innanzitutto la sorellanza.

Annalisa Cuzzocrea per "la Repubblica" il 16 febbraio 2021. Marisa Rodano ha compiuto 100 anni e crede ancora nella lotta. Nei simboli, anche, lei che è nata nello stesso giorno del Partito comunista italiano, il 21 gennaio del 1921. Lei che - l'8 marzo 1946 - scelse la mimosa per festeggiare la festa internazionale della donna, un fiore povero, ma una pianta robusta, tenace. Risponde al telefono a ora di cena, l'ex dirigente del Pci, del Pds, dell'Unione donne italiane. Antifascista, partigiana, parlamentare, prima donna a ricoprire l'incarico di vicepresidente della Camera, Rodano ha 5 figli, 11 nipoti e un'idea precisa del perché il Pd non abbia nominato neanche una ministra: «Io penso che ci sia, anche a sinistra, per lo meno in una parte della sinistra, l'idea che in realtà più donne ci sono, meno posti ci sono per gli uomini».

Ancora? E soprattutto, perché?

«Perché malgrado tutto resiste quella vecchia convinzione per cui le donne debbano occuparsi della famiglia, dei bambini, di un'area solo parapolitica».

Siamo rimasti agli anni '50?

«Stupisce anche me, ma devo dire che l'impressione di chi vede le cose da fuori - attraverso i giornali, la televisione, stando chiusa in casa come devo fare io ora - è questa».

Ma non crede ci sia stata una regressione? Lei ha rivestito ruoli importanti, in Parlamento, nel partito ...

«Non tanto importanti, mi sono sempre occupata delle donne». ( Dalla cornetta arriva un sorriso, un cenno di ironia).

Ci sono state per anni troppe riserve indiane, a sinistra, luoghi specifici dove confinare il pensiero femminile?

«Per parecchio tempo gli uomini hanno pensato che le donne potessero occuparsi solo di materie particolari, relative ai bambini, alla famiglia, alla cura, non delle stesse cose di cui si occupavano loro».

Hanno paura?

«Non è che hanno paura, hanno la convinzione che spetti a loro».

Cosa bisogna fare, quindi?

«Continuare a battersi per una equilibrata presenza delle donne in tutti i luoghi in cui si decide. Una presenza paritaria».

Per anni si è affidata questa missione alle quote rosa.

«È una parola che non mi è mai piaciuta. Non vorrei si continuasse a parlare di quote, bisognerebbe concentrarsi sul fatto che le donne devono avere gli stessi diritti, le stesse opportunità. In tutti questi anni mi sono battuta per questo. E penso anch' io che le donne del Pd dovrebbero rinunciare a tutti i posti di sottogoverno che saranno loro offerti, fare un gesto simbolico forte che rimetta tutto in gioco».

Non pensa che questa situazione sia anche generata da una sorta di timidezza delle donne in politica. Dalla certezza di poter ottenere qualcosa solo mettendosi dietro al capo - uomo - di turno?

«Non credo questo. Penso che le donne siano state negli anni troppo occupate, impegnate a sostenere la loro attività sia dentro che fuori dalla famiglia. Una vita faticosa, difficile».

I tempi in cui si riteneva che il loro unico dovere fosse fare figli sono finiti, o no?

«C'è stato un avanzamento dal punto di vista intellettuale, ma da quello pratico, se guardiamo alle misure concrete per la vita quotidiana, che consentano di conciliare lavoro e famiglia, non è stato fatto quasi niente».

È una sconfitta della sinistra?

«Oggettivamente lo è. E non credo dipenda dalle debolezze delle donne, ma dal tipo di politica che i dirigenti del Pd hanno condotto negli ultimi anni e nelle ultime settimane».

Che consiglio darebbe alle donne che fanno politica nel Pd?

«Di continuare a battersi per avere il ruolo che spetta loro e per ottenere quelle misure che rendono possibile la conciliazione lavoro-famiglia. Perché se non vanno avanti le politiche che servono a tutte le donne, non vanno avanti neanche le donne in politica».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 15 febbraio 2021. Donne si, donne no. Poche, troppo poche in questo governo. E la pezza dei vertici del Pd che ora, giurano, le indicheranno in massa per il ruolo di numeri due non copre il buco, anzi. C' è sconcerto a sinistra, gode la destra di Giorgia Meloni. Un loop da cui non si esce, ammette la scrittrice Lidia Ravera, nume tutelare di una sinistra femminista rispetto a cui, pure, ha preso posizioni scomode, scandalizzando i perbenisti e anticipando i tempi. E chi ricorda solo il romanzo di formazione «Porci con le ali» si è perso una vita di battaglie in prima linea, compresa l' ultima, quella, fino al 2018, di assessore alla Cultura e alla Politiche giovanili nella Regione Lazio guidata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti.

Signora Ravera, cosa pensa della componente femminile nel nuovo governo Draghi?

«In questo sono radicale. Ho postato su Facebook il mio pensiero in proposito: le donne in politica dovrebbero imporre la loro diversità, le loro differenze. Invece vengono assunte per cooptazione e per somiglianza agli uomini. "Le uome" , le chiamo io».

Sarebbero, esattamente?

«Parlano la lingua maschile e non impongono mai la visione femminile del potere e della politica».

Vuol dire che anche stavolta dovevamo aspettarcelo un governo con poche donne?

«Personalmente vado oltre il contingente, mi pongo al di là delle scelte di questo Governo. Le donne del Pd sono state usate e poi emarginate. Non è neppure una interpretazione politica del famoso tetto di cristallo. E non si illudano di rappresentano le altre donne, non è così. Sono invece omogenee, fanno gli stessi giochi maschili che peraltro sono giochi che le vedono perdenti. Dovrebbero imporre un modello capace di aprire uno spazio diverso sul mondo. Non è che io voglia estirpare il maschile ma non credo in un nostro ruolo subalterno, non credo che ci dovremmo accontentare. Dovremmo essere equipollenti. Vado oltre le logiche della destra e della sinistra».

L' attualità è un luogo angusto?

«L'attualità è figlia di una mancata rivoluzione che ci poteva far raggranellare qualche briciola di dignità politica ma non è riuscita, perché queste geometrie seguono regole di una professione che non è delle donne. Non esiste una storia che possa raccontare le donne in politica».

Come siamo arrivate a questo punto?

«Le donne non hanno fatto irruzione nel Palazzo imponendo la loro diversità. Sono entrate e basta».

Un quadro senza speranze?

«No credo invece che la speranza ci sia, prima o poi l' irruzione ci sarà, rispettando altri tempi, altre lingue, altri riguardi. Imparare il gioco maschile è impossibile e masochistico».

Forse, se all' epoca del femminismo si fosse osato di più?

«Sull' onda del femminismo montante, forse sbagliando, non ci siamo mai misurate con la politica parlamentare del Palazzo, tranne sparuti casi. Negli anni Settanta la politica si combatteva fuori, mai affrontata come impegno professionale della rappresentanza. Esistevano altre parole d' ordine. Ora siamo in stallo».

E la speranza?

«La rivoluzione femminista è un fiume carsico, s' interrompe, s' inabissa, torna. Le donne che non hanno più coscienza di loro stesse devono passare il testimone ai movimenti che non tornano indietro, movimenti lontani da giochi lobbistici e narcisisti».

In che cosa sbagliano le donne in questo gioco?

«Gli uomini fanno rete e le donne no. Ogni posto dato a un uomo è una vittoria della specie perché si tratta di un posto tolto a una donna. Dunque non cedono nulla con cavalleria».

Questo in politica ma in altri ambiti la situazione è differente?

«La percentuale di peso è la stessa anche in mondi diversi. Prendiamo i premi letterari. Lo Strega, contiamo quante donne l' hanno preso rispetto agli uomini...»

Eppure era un premio inventato da una donna, condotto da una donna e per decenni tenuto in mano da un' altra donna.

«Appunto, le donne non fanno rete e non si proteggono a vicenda. A parte questo, esistono due soggetti non uno solo e non uno inferiore all' altro. Un principio che nella sua semplicità viene coniugato con emancipazione».

E si torna così alla rivoluzione di cui sopra?

«Se le donne si arrabbiassero e decidessero veramente forse la politica italiana potrebbe cambiare, addirittura si riuscirebbe a colmare la distanza che separa la politica dai cittadini comuni. La lingua delle donne, i loro tempi, la loro complessità potrebbe veramente travolgere le regole del gioco. Come vede è tutto molto più complesso di questo governo e della situazione interna al Pd».

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 febbraio 2021.

Luciana Castellina, perché la sinistra non ha portato nessuna donna al governo?

«La deluderò, ma non sono mai stata una grande appassionata delle quote femminili: non è che cambia la società se una donna s' infila nei ruoli maschili».

Cosa intende dire?

«Potremmo anche occupare più posti in un governo, e ovviamente sono favorevole, ma se non modificheremo leggi, codici e orari, abbattendo il modello maschile che ci viene spacciato come neutro, non ne verremo a capo».

La politica non è fatta anche di simboli?

«Il 70 per cento delle donne manager non fa figli. Il problema quindi è fare in modo che tutte le donne che assumono responsabilità possano anche fare i figli e gestire una famiglia».

Come definirebbe la sua posizione?

«Semplicemente non m' interessa essere uguale all' uomo, l' ho capito tardi».

Non la pensava così da giovane?

«All' epoca tendevo a nascondermi le tette pur di non fare capire che ero una donna».

Come lo spiegherebbe oggi a una giovane?

«Con il fatto che una bella era spesso considerata anche stupida».

Quando ha cambiato idea?

«Grazie alla generazione di mia figlia, che ha fatto una battaglia per il femminismo della differenza. Loro hanno capito che serviva portare la nostra diversità al potere».

Il fatto che ci siano solo 8 donne su 23 come lo valuta?

«Non è bello, perché non ci hanno pensato, nemmeno Draghi. Ma non lo ritengo decisivo. Vantiamo un credito storico. E quindi allora bisognerebbe stabilire il 75 per cento della presenza femminile per risarcire la discriminazione millenaria, come affermava il codice della Repubblica popolare cinese, anche se poi se lo sono dimenticati».

È un' Italia più maschilista di un tempo?

«Al contrario. Gli uomini sono molto in crisi, anche perché le donne hanno imparato a pretendere che la comunità porti il segno della loro presenza».

Non ci sono troppi femminicidi?

«Non c' è dubbio, ma sono la prova della crisi di cui le parlavo, e infatti muoiono le donne che hanno osato fare una scelta di autonomia».

L' uomo ha perso potere?

«Ha perso autorità, non potere. Pensi al Me too, un tempo nessuno avrebbe creduto alla donna. I manager di Hollywood invece sono stati tutti condannati per molestie».

Lei è la prova che una donna di valore può arrivare in alto.

«In tante ce l' hanno fatta, anche meglio di me. A tutte è costata fatica, dolore, lotta, e infatti ne portiamo le cicatrici. Guardi la von der Leyen, fa un lavoro pesantissimo e ha sette figli, perciò l' ammiro».

La destra le donne però le ha nominate ministre.

«È una cosa che mi lascia freddina».

Le piace il governo Draghi?

« Sono molto scontenta. Alla transizione ecologica c' è uno che approva la politica dell' Eni, siamo al greenwashing, alla vanteria ambientale. Un fisico che si occupa di nanotecnologie, poi, non un ecologo».

Non va giudicato con i fatti?

«Mi fa impressione che ci sia Giorgetti allo sviluppo economico, un uomo vicino alla Confindustria, che vuole lo sblocca-cantieri: costruzioni e produzioni anche se nocive».

Draghi voleva pure sua figlia Lucrezia Reichlin nel governo.

«È candidata ogni volta e poi non accade mai».

Perché?

«Forse perché vive a Londra».

Insomma, boccia Draghi?

«È un uomo intelligente, e in Europa conduce le mie stesse battaglie. Ma mi sarei aspettata di più».

Su Dagospia il 15 febbraio 2021. Luciano Capone 14 feb: Molte donne di centrodestra si fanno strada e si affermano perché sono abituate a dover lottare per vincere stereotipi e pregiudizi, spesso alimentati anche da donne di sinistra. Un esempio è questo confronto dialettico tra Mara Carfagna e la Costamagna.

Selvaggia Lucarelli per "Libero" il 15 febbraio 2021. I momenti tv Eva contro Eva sono sempre imperdibili. E memorabile è stato anche lo scontro tra la conduttrice disperata Eva Longoria Costamagna e la sexy maliarda ex ministra Eva Mendes Carfagna. Ne è uscita, a pezzi, la Costamagna. Che ha sbagliato tutto. E più precisamente, punto per punto:

a) Le argomentazioni tipo "perchè dopo che lei è diventato ministro ha cambiato immagine?" non sono materiale con cui incalzare l'avversario Carfagna. Ovvio che ‘sta donna non poteva fare il ministro conciata come quando regalava il vaso cinese ai telespettatori. Era argomento da battuta, che andava detto per prenderla amorevolmente per i fondelli, non per costruirci un'accusa.

b) Io fossi stata la Costamagna, avrei applicato il metodo Carfagna. Un po' di trucco in meno, il boccolo più floscio, la gonna più lunga. Se sei lì a mettere i puntini sulle i in stile maestrina e l'argomento principe è che Mara è una showgirl promossa a ministro, l'abito fa il monaco. E alla prima occhiata, non devi sembrare tu, la showgirl che parlava col comitato e cantava "O sole mio" con Magalli.

c) La mimica facciale non è un'opinione. E la comunicazione non verbale neppure. La Costamagna faceva più smorfie di Jim Carrey in Ace Ventura-l'acchiappanimali tradendo un certo nervosismo, mentre la sfinge Carfagna incassava impassibile, sorrideva, deglutiva e poi lanciava il missile.

d) Di fronte a una che dice con piglio sicuro: "Non ho mai rinnegato il mio passato", c'è poco da stare a inzigare ulteriormente. L'avesse detto la Melandri, quando Briatore giurava di averla avuta ospite a casa sua a Capodanno a Malindi, l'avesse ammesso che faceva i trenini con Fede e la Zardo a suon di Brigitte Bardot Bardot, sarebbe stata più simpatica a tutti, la sora Giovanna.

e) Perchè dire calendario sexy se non era calendario sexy? Perchè andare a cercare lo stereotipo da camionista per svilire l'avversario? Cioè, aveva scheletri nell'armadio ben peggiori ‘sta Carfagna. Poteva dirle "Lei ha condotto un programma con Davide Mengacci!" e l'annichiliva. Altro che calendario sexy.

f) Che razza di domanda è "È più simpatico Berlusconi o è più simpatico Santoro?". Che minchia di domanda è "Berlusconi è brutto e vecchio?"? E perché non "preferisci mamma o papà" allora? "Meglio Branko o Paolo Fox"? o "Come nascono i bambini? o "Meglio al latte o fondente"? Ma chi gliele ha scritte le domande? Moccia?

g) Diciamocelo. La battuta sui pettegolezzi riguardanti la Costamagna e Santoro è stata un piccolo capolavoro di strategia bellica. Qui l'abilità della Carfagna è stata memorabile. La sensazione è questa: il modo in cui Mara l'ha appoggiata, buttata lì, quasi sussurrata ad occhi bassi, lascia intendere che era il suo asso nella manica. Che tutto sommato se la sarebbe anche risparmiata, se l'altra non fosse ricorsa ai colpi bassi. Della serie: io non la uso, ma se mi costringe, so' cazzi della bionda.

h) Che razza di difesa è : "Quando sono andata a lavorare con Santoro io ero già giornalista"?. Allora l'altra quando è stata nominata ministro era già consigliere regionale, se la vogliamo mettere su questo piano. Anzi, se la vogliamo mettere su questo piano, la Toffanin è giornalista, Iva Zanicchi ha scritto un romanzo e Sara Tommasi è laureata alla Bocconi.

i) Sempre a proposito di espressioni facciali. La vera notizia è che la Carfagna non ha più l'occhio sgranato di chi ha appena visto Boateng senza mutande. S'è ammorbidita. La Costamagna, invece, ha la faccia di quella che ha visto Telese, senza mutande. Della serie: meglio zitella.

E comunque, io una spiegazione sull'accaduto ce l'ho. Il programma su Rai 3 è una copertura. Luisella Costamagna è in realtà il nuovo ufficio stampa di Mara Carfagna. Neanche Lucherini, dopo tutto quello che s'è detto di lei, sarebbe riuscito a trasformarla, dopo sei minuti di intervista su Rai 3, in una gradevole, pacata, ragazza normale. Manco se l'avesse intervistata Mollica, ne sarebbe uscito un ritratto migliore. E come ha scritto qualcuno sul mio twitter: la Costamagna è alla deriva, come tutte le Costa, di questi tempi.

 Francesco Borgonovo per "la Verità" il 16 febbraio 2021. Fuori, nel mondo reale, deflagra la rabbia dei gestori degli impianti sciistici, dei ristoratori, degli albergatori, di gente che, nell'arco di una notte, si è vista letteralmente togliere il pane di bocca dai sedicenti esperti del governo. Ma dentro, nella bolla ideologico-mediatica in cui abita la gran parte dei politici e degli intellettuali italiani, il problema è uno solo: l'esclusione delle donne del Pd dai ministeri. La senatrice Monica Cirrinnà, ieri, ha avuto un accesso d'ira: «Siamo un partito che predica bene sui temi femministi ma poi razzola male, un partito falsamente femminista», ha detto a Un giorno da pecora. «Perché? Per debolezza assoluta e per egemonia degli uomini. Questo è un partito di correnti al cui capo ci sono tutti maschi». Pure le Signorine Grandi Firme progressiste della carta stampata sono sul piedino di guerra. Invocano addirittura una sorta di sciopero delle donne, come nella Lisistrata di Aristofane. Invitano cioè le esponenti del Pd a rifiutare il ruolo di sottosegretario qualora venisse loro offerto come compensazione. L'idea del contentino l'ha avuta Nicola Zingaretti: per ovviare al tremendo problema della sottorappresentanza femminile nell'esecutivo, ha proposto di indicare «solo donne» per i posti da sottosegretari. Una trovata che non si sa se sia più ridicola o più triste (del resto l'ha escogitata il segretario dem), che le intellettuali sinistre hanno respinto al mittente. «C'è da augurarsi che le donne del Pd, ammesso e non concesso che si offra davvero loro l'occasione per farlo, non si prestino ancora una volta a interpretare il più sessista dei modi di dire, accontentandosi di essere grandi sottosegretarie dietro a grandi ministri», tuona Michela Murgia dalle colonne della Stampa, «perché preferire la mediazione alla lotta è un lusso che si può permettere solo chi ha già voce in capitolo». Su Repubblica, invece, Concita De Gregorio ringhia non solo all'indirizzo degli uomini oppressori, ma perfino contro le donne che sono rimaste in «silenzio alla vigilia delle decisioni prese dai maschi bianchi che governano la specie» (perché, fossero neri cambierebbe qualcosa?). Secondo Concita, lo stesso termine sottosegretarie, in quanto composto da «sotto» e «segretarie», dovrebbe «di per sé suscitare diniego». Vedremo poi quante esponenti piddine saranno pronte a rinunciare a incarichi e prebende pur di tenere il punto e dare battaglia, ma che accettino o meno ci interessa relativamente. A irritare è, piuttosto, l'arroganza con cui la questione delle «democratiche al potere» sta rubando tempo ed energie, nonché spazio nel dibattito. Sul tema si è sentito in dovere di intervenire il sindaco di Milano, Beppe Sala, che manco a dirlo si è schierato sul lato delle vestali. A suo dire, le donne «hanno ragione. Arrabbiarsi è giusto. E una delusione». Il primo cittadino ha colto l'occasione per dire che lavorerà affinché «Milano diventi la città della parità». Certo, come no. La prima cosa di cui la capitale morale ha bisogno è più parità. Bar e ristoranti fanno la fame, il traffico è una catastrofe grazie alle innovazioni «verdi» del sindaco. Ma una bella spolverata di «diritti» renderà senz' altro la vita migliore a tutti. L'idea delle quote rosa ha raccolto anche un'altra adesione importante. Quella di Elena Bonetti di Italia viva, appena riconfermata ministro delle Pari opportunità e della Famiglia. Per la sua prima uscita ufficiale ha scelto proprio la questione femminile: «Sulle donne va fatto un passo avanti e vinta l'arretratezza italiana», dichiara a Repubblica. E annuncia «un pacchetto di misure per la parità, una sorta di Women act». A suo dire, «affrontare la questione femminile è prioritario». Ah, davvero? Viene il sospetto che forse una bella fetta di donne italiane, invece del Women act, preferirebbero la riapertura totale delle scuole, in modo da non dover farsi carico ogni santo giorno dei figli snervati dalla didattica a distanza e dei loro compiti. Supponiamo pure che molte donne - come del resto molti uomini - ritengano prioritaria la fine delle restrizioni, o l'arrivo di ristori decenti. O, ancora, un investimento una volta tanto efficace sull'occupazione. Tutto questo, però, passa in secondo piano, perché a dominare la scena è la «rappresentanza femminile». Il ministro Bonetti, già nel governo precedente, sembra essersi dimenticata di avere la delega alla Famiglia. Al di là di qualche parolina dolce, ripetuta anche ieri, per le famiglie italiane non ha fatto praticamente nulla di concreto. Non si capisce, poi, in che modo abbia portato a frutto la sua appartenenza al mondo cattolico (cosa di cui si vanta ogni volta, ribadendo di essersi formata negli scout). Se n'è stata tranquilla e beata nel governo più arcobaleno di ogni tempo, non ha fiatato per le iniziative di Roberto Speranza a favore dell'aborto facile, non ha certo protestato per la mordacchia che si vuole imporre tramite il ddl Zan. Però eccola qui, fulminea, a intervenire sul dramma delle donne piddine rimaste senza ministero. Intendiamoci: anche a noi dispiace che ci siano tre uomini del Pd al governo. Ma ci dispiace perché sono del Pd, non perché sono maschi. Il punto, infatti, sono le posizioni politiche che i ministri rappresentano, non gli interessi di genere. Soprattutto, non è garantendo posti di potere a qualche donna già potente e privilegiata che si risolveranno i guai delle donne comuni, quelle che - proprio come i maschi - devono faticosamente sopravvivere fra le macerie lasciate dai giallorossi. Se le donne del Pd vogliono maggiore rappresentanza, se la prendano. Facciano come Giorgia Meloni, smettano di lagnarsi e creino un partito, tanto per dire. Ma, sinceramente, dubitiamo abbiano l'umiltà di mettere da parte la superiorità morale che da sempre le caratterizza e di prendere esempio dalla destra. No, loro preferiscono restare dove sono, e fare le vittime allo scopo di ottenere qualche strapuntino. E mentre ministri, sindaci e segretari cianciano di quote rosa, le piste da sci restano chiuse, gli alberghi e i ristoranti vanno in malora, le partite Iva arrancano. E la crisi galoppa, fregandosene allegramente del sesso di chicchessia.

Da liberoquotidiano.it il 18 febbraio 2021. Vittorio Feltri affronta con i telespettatori di LiberoTv un tema prettamente femminile: "Oggi le donne sono in subbuglio perché sono state trascurate da Draghi in quanto il governo è composto prevalentemente da uomini. Io credo che le donne siano mediamente migliori degli uomini, lo dico per esperienza diretta. Per esempio nel mio giornale ci sono 7-8 donne che se la cavano molto meglio dei maschi: hanno più volontà, probabilmente hanno studiato meglio, e sono più tenaci e hanno e persino un fisico più forte. Questo lo devo dire perché l’ho sperimentato". "Ma questo concetto non riguarda solo il mondo del giornalismo, per esempio, alle università si iscrivono in prevalenza donne. Gli uomini sono meno numerosi e ottengono risultati più scadenti. Questo è un dato di fatto è statistico". "Poi se andiamo a vedere nelle professioni, nella professione medica, per esempio, le donne stanno eccellendo. Io per esempio ho una cardiologa che è primario al Niguarda, che è il maggiore ospedale di Milano, ed è un autentico fenomeno, forse anche perché non ho niente al cuore, ma con lei mi sono trovato bene e ho trovato un equilibrio che prima non avevo". "Anche mia moglie è in cura da lei ed è una donna di altissimo livello. Non solo, il suo reparto è costituito in prevalenza da donne che hanno imparato da lei che sono bravissime. Qualche anno fa soffrivo di diverticoli e mi sono rivolto a una donna che si chiama Perrone che nel giro di 15-20 giorni mi ha guarito, sono passati due lustri e non ho più neanche un sintomo. Dico queste cose perché servono a titolo di esempio". "Ma come mai in politica le donne non riescono ad eccellere? Il motivo è molto semplice: il mondo della politica è un mondo stupido, motivo per il quale gli stupidi fanno più carriera. Devo anche dire che le politiche italiane non svettano. Giorgia Meloni a parte non mi pare che ci siano altre fuoriclasse. Non mi sembra che ce ne siano molte che sono in grado di assumere posti di responsabilità". "Nel caso del governo Draghi c’è la Cartabia che è il ministro della Giustizia che è sicuramente una donna capace, una donna bravissima. Ma siamo a livello di eccezioni mentre tutte le altre donne che fanno la politica, la fanno senza avere attitudini particolari. Peraltro in politica vincono spesso i cretini e si vede che le donne non sono abbastanza cretine". 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 febbraio 2021. Le donne del Parlamento sono molto seccate poiché nella formazione del governo sono state trascurate. Non è falso che esse sono state snobbate da Draghi e anche dai partiti, e questo dimostra che il genere è ancora una questione d' attualità: favorisce i maschi mentre penalizza le femmine. Le quali nel mondo scientifico e della produzione in realtà eccellono e occupano giustamente posti importanti. Da quando l'istruzione universitaria è accessibile alle signore si sono aperti per queste orizzonti fino al secolo scorso impensabili. Tanto è vero che oggi le laureate e le laureande sono più copiose dei maschi, il che non può non avere ripercussioni sulla vita nazionale. Esemplifico. A Libero, il nostro giornale, lavorano parecchie ragazze (un tempo nelle redazioni erano eccezioni sopportate) e devo testimoniare che mediamente sono più brave (tenaci e talentuose) dei colleghi. Forse perché hanno studiato meglio, sono più fantasiose e dispongono altresì di un fisico forte. Non mi invento nulla, descrivo la realtà che ho sotto gli occhi ogni dì. Volendo essere generoso, affermo che, a parte le ovvie diversità anatomiche, tra un lui e una lei non vi sono differenze sostanziali. Un altro esempio che vi propongo. Negli ospedali le donne primeggiano per numero e perfino per capacità. Io, grazie al cielo, godo di discreta salute nonostante la non verde età. Tuttavia qualche volta ho bisogno di un "tagliando", come le auto vecchie. Ebbene, anni orsono soffrivo di diverticolosi. Un mio amico, pediatra insigne, mi consigliò di farmi visitare dalla dottoressa Perrone. La quale mi curò (non vi racconto il mio imbarazzo) e nel giro di un mese mi guarì. A distanza di un paio di lustri non patisco neanche un sintomo. Ancora. La mia cardiologa si chiama Giannattasio, primaria al Niguarda. Un fenomeno. È talmente capace da farmi impressione. Non sbaglia un colpo, come il mio cuore. Da notare che fumo quanto un assassino. A questo punto nelle discussioni con gli amici sostengo senza temere smentite che le dame sono più preparate e attente dei loro pari grado. Un' estrema annotazione riguardante il ramo ospedaliero: allorché qualcosa non funziona alla perfezione nel mio organismo, telefono alla mia amica Melania Rizzoli e lei mi fa la diagnosi a distanza azzeccandoci sempre. Un mostro. Ho scritto tutto questo allo scopo di fornire le prove che stimo le femmine senza riserve. E ciò spero mi consenta di dire che in politica, invece, tranne alcune eccezioni lodevoli (Giorgia Meloni si segnala la migliore), non svettano affatto. Certune sono autentiche asinelle e non sono in grado di aspirare a ruoli di rilievo. Sono cretine come gli uomini. Per cui vincono costoro che sono più abituati a gestire la loro stupidità.

Paolo Becchi, frecciata al governo di Mario Draghi: "C'erano tante speranze e invece ci ritroviamo Speranza". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Tutti delusi dai nuovi ministri decisi da Mario Draghi. Quello che meno di tutti va giù è però Roberto Speranza. Un boccone amarissimo, quello della conferma del ministro della Salute già del Conte bis, anche per Paolo Becchi. "C’erano tante speranze e invece ci ritroviamo Speranza, applicato Manuale Cencelli", ha cinguettato l'editorialista di Libero vista la lista. D'altronde il flop del ministro impegnato nella gestione dell'emergenza coronavirus è sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Massimiliano Cencelli è intervenuto per dire la sua. Dato pienamente ragione a Becchi. "La lista dei ministri del governo Draghi in linea di massima rispecchia il mio manuale... Sono 3 del Movimento 5 stelle, 3 del Pd, tre di Forza Italia. Draghi ha applicato al 50% il manuale Cencelli e al 50% ha riesumato tutti i ministeri che erano stato chiusi''. Il riferimento non può che essere al famoso metodo che disciplina l'assegnazione di incarichi politici ad esponenti di vari partiti o correnti in base al loro peso. Becchi ha lanciato poi un monito al Partito democratico. Quest'ultimo deve infatti guardarsi le spalle da Giuseppe Conte. "Occhio - è il suo ragionamento - che se Conte si fa un suo partito il primo a pagarne le conseguenze sarà il Pd. Il vero partito oggi allo sbando non è il M5S, come molti scrivono, ma il Pd, e questo non lo scrive nessuno".

Vittorio Sgarbi critica il governo di Mario Draghi: "Spudorato, ha cercato solo di accontentare". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Sul nuovo governo di Mario Draghi picchia duro anche Vittorio Sgarbi. Il critico d'arte commenta a caldo la lista dei "nuovi" ministri. "Nuovo Governo? - cinguetta al vetriolo - Una terribile delusione. Un Governo malato. La conferma di Di Maio, Speranza e Franceschini, rende questo Governo una malinconica fotocopia del Governo Conte, cercando solo di accontentare, in modo spudorato, tutte le componenti politiche". Una chiara frecciatina all'ex presidente della Banca centrale europea. E proprio lui Sgarbi vuole avvertire: "Per quanto mi riguarda non potrò mai votare il Governo Draghi-Di Maio: un Governo senza speranza nonostante Speranza". Insomma, Draghi dovrà fare i conti con molta più opposizione di quanto avesse previsto. La stessa Giorgia Meloni non ci è andata per il sottile:  "Le grandi aspettative degli italiani sull'ipotesi di un Governo dei "migliori", in risposta all'appello del Capo dello Stato per fare fronte alla drammatica situazione dell'Italia, si infrangono in un Esecutivo di compromesso che rispolvera buona parte dei Ministri di Conte". È d'accordo anche Massimiliano Cencelli che, con una battuta, torna al passato: "La lista dei ministri del governo Draghi in linea di massima rispecchia il mio manuale... Sono 3 del Movimento 5 stelle, 3 del Pd, tre di Forza Italia. Draghi ha applicato al 50% il manuale Cencelli e al 50% ha riesumato tutti i ministeri che erano stato chiusi''. Il riferimento non può che essere al famoso metodo che disciplina l'assegnazione di incarichi politici ad esponenti di vari partiti o correnti in base al loro peso. 

Niente cultura, poco coraggio. Così SuperMario cede agli zombie. "Illustre presidente, le parlerò con i versi di Kavafis: Cosa aspettiamo qui riuniti? Oggi devono arrivare i barbari. E perché i deputati non si muovono? Cosa aspettano per legiferare? Oggi arrivano i barbari." Vittorio Sgarbi Venerdì 19/02/2021 su Il Giornale. «Illustre presidente, le parlerò con i versi di Kavafis: Cosa aspettiamo qui riuniti? Oggi devono arrivare i barbari. E perché i deputati non si muovono? Cosa aspettano per legiferare? Oggi arrivano i barbari. Che leggi possono fare i deputati? Venendo i barbari le faranno loro. Perché il presidente si è alzato di buon'ora e sta alla porta grande della città, in attesa? È che arrivano i barbari con il loro capo; anzi, è già pronta la pergamena con gli incarichi e gli onori. Perché i nostri due ambasciatori stamane sono usciti in toga rossa ricamata e portano bracciali con ametiste e anelli con smeraldi? Oggi arrivano i barbari e queste cose ai barbari fan colpo. E perché i relatori non sono qui, come sempre, a parlare, a esprimere pareri? Oggi arrivano i barbari e non vogliono sentire tante chiacchiere. Perché ora sono tutti nervosi (i volti si fanno scuri)? Perché si vuotano le strade e ognuno torna a casa? Perché è già notte, e i barbari non vengono. È arrivato qualcuno dalla frontiera a dire che di barbari non ce ne sono più. Come faremo adesso senza i barbari? Dopotutto, quella gente era una soluzione. Ora lei è qui, barbaro mancato, in cattiva compagnia. Per la considerazione che ho per lei, con sofferenza, mi asterrò. Paesaggio, natura, arte, città, bellezza, civiltà: parole che lei ha ignorato per essere resiliente nella transizione ecologica. Non transiti, resti. Sia audace. Non sia vile, non si conceda ai paurosi e agli ignoranti. Memento audere semper». Questo è il mio secco intervento alla Camera per negare la fiducia al governo Draghi. Non in particolare a lui, ma ai ministri da lui non scelti, per concessione a partiti deboli e non corrispondenti alla loro reale rappresentanza parlamentare. Triste è la conferma di capibastone per i partiti maggiori 5 Stelle e Pd, compiaciuti con l'indicazione di Di Maio e Franceschini. È confermato perfino Speranza, espresso da un partito del 2%, diviso in due, con la metà dei suoi deputati all'opposizione. In compenso, per non creare turbamenti, dei partiti di destra sono presenti le seconde file. Salvini e Berlusconi, pregati di fare un passo indietro per favorire i concilianti Giorgetti e Brunetta. Dunque: Di Maio sì, Salvini no. Altri zombie con e senza baffi sono stati pescati dai partiti o in quello che ne resta. È vero che i sondaggi non sono sempre affidabili. Ma è un dato certo che, al di là della riduzione dei parlamentari, il «peso» dei partiti in Aula è anacronistico rispetto alla realtà dei fatti, con 5 Stelle divisi, Pd senza Italia viva e Calenda, Fdi in crescita. Con questi dati reali Draghi non ha neppure pensato di misurarsi. Si è tenuto i numeri del Parlamento del 2018, confermando i peggiori di M5s, Pd e Leu, i quali oggi si sono riuniti in un intergruppo per essere maggioranza nella maggioranza, pur essendo evidente minoranza nel Paese. Draghi ha scelto il compromesso con gli zombie, ignorando l'Italia reale. Per questo mi ha deluso. Aspettavamo i barbari per uscire dall'incubo dei fantasmi del governo Conte; e li ritroviamo tutti negli stessi posti, con gli stessi pesi, circondati da una spruzzata di tecnici nei ministeri dove non servono. Non, per esempio, alla Sanità e ai Beni culturali. Che Draghi abbia tradito le aspettative, lasciando intatti i ministeri principali, con le stesse persone all'Interno, agli Esteri e alla Difesa, perfino ai Rapporti con il Parlamento, con la sola eccezione della Giustizia, sotto il diretto controllo di Mattarella, è del tutto evidente. Come per dire: lasciamo la politica ai politici; io mi occupo, con i miei sodali Giorgetti e Brunetta, di economia. Chi non avrebbe avuto bisogno dei partiti, come Draghi, mentre i partiti avevano bisogno di lui per sopravvivere, poteva porre le condizioni, non subirle.

Maria Giovanna Maglie contro il governo di Mario Draghi: "Disdicevole. Roberto Speranza? Meglio un altro ministro". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Anche Maria Giovanna Maglie sul nuovo governo di Mario Draghi ha qualcosa da ridire. Ufficializzata la lista dei ministri appare il nome di Roberto Speranza. Il ministro della Salute è stato riconfermato. Una vera e propria sorpresa visto il flop nella gestione dell'emergenza coronavirus.  Da qui il commento al vetriolo che la giornalista affida a Twitter: "A caldo quello che penso io: una continuità disdicevole per alcuni settori chiave. Cito solo Roberto Speranza non avrebbe dovuto essere riconfermato". E ancora: "Perché ce l'ho con Speranza? Perché siamo distrutti da un eccesso di lockdown; perché non ha vigilato sul piano vaccinale, dai contratti all'organizzazione Perché puntare tutto sui vaccini è miope. Perché...Ci voleva un altro ministro con altre idee". Non è stato da meno Vittorio Sgarbi. Il critico d'arte ha già messo le mani avanti: niente fiducia al governo "Di Maio-Draghi". Nuovo Governo? - cinguettava -. Una terribile delusione. Un Governo malato. La conferma di Di Maio, Speranza e Franceschini, rende questo Governo una malinconica fotocopia del Governo Conte, cercando solo di accontentare, in modo spudorato, tutte le componenti politiche". Altrettanto delusa l'unica leader all'opposizione, Giorgia Meloni. "Le grandi aspettative degli italiani sull'ipotesi di un Governo dei "migliori", in risposta all'appello del Capo dello Stato per fare fronte alla drammatica situazione dell'Italia, si infrangono in un Esecutivo di compromesso che rispolvera buona parte dei Ministri di Conte". E già per il nuovo premier si preannuncia una strada in salita.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 13 febbraio 2021. I Cinque Stelle barcollano paurosamente. L' ombra della scissione diventa più concreta dopo l' annuncio della lista dei ministri del governo Draghi. I senatori protestano e chiedono una riunione d' urgenza a Vito Crimi (che la stoppa in prima battuta) per valutare la fiducia Draghi. La squadra di governo spacca il M5S. Il Movimento conferma Luigi Di Maio e Federico D'Incà agli Esteri e ai Rapporti con il Parlamento, vede ancora nell' esecutivo la presenza di Fabiana Dadone (che va alle Politiche giovanili) e di Stefano Patuanelli (all' Agricoltura) e il tecnico Roberto Cingolani strappa il ministero della Transizione ecologica (c'è chi considera nel novero Enrico Giovannini, ora ai Trasporti e già ministro con Letta). In chat scorre il veleno. C' è chi mette in bilico la fiducia: «Tutti convinti di votare questo governo?». Chi mastica amaro: «Siamo stati asfaltati». «La Lega e Forza Italia tra poco contano più di noi». «Ci hanno trattato come la Grecia». E in effetti sono due i sentimenti che attraversano la truppa M5S: anzitutto «un senso di umiliazione», come commenta un big, e poi la delusione per alcune conferme. In primis quelle di D'Incà (che è considerato vicino a Roberto Fico) e Patuanelli (che rappresenta i contiani). «Sono due caselle in più per il Pd», c'è chi commenta sarcastico. «Situazione vomitevole», c' è chi si sfoga. «Non abbiamo più ministeri di peso, ma solo di facciata», dice chi insiste. «Avevamo basse aspettative, ma così ci stiamo sotterrando». L'ala sudista si lamenta della poca rappresentanza (3 ministri su 4 sono del Nord). In serata la protesta monta. Diverse decine di senatori, si dice una trentina, sono sul piede di guerra. Nel mirino finiscono l'immancabile Crimi (che plaude il governo: «Il Movimento garantirà il suo sostegno all' esecutivo con lealtà e correttezza»), ma anche Beppe Grillo per le trattative condotte. Proprio il garante - rivela l'Adnkronos - ha chiamato i big per festeggiare il varo del ministero della Transizione ecologica. Il nome di Cingolani (che ha fondato nel 2005 l'Istituto italiano di Tecnologia di Genova), ha ricordato Grillo, è stato fatto proprio da lui al premier incaricato. Ma mentre il garante festeggia, i ribelli insorgono. Barbara Lezzi attacca: «Il super ministero chiesto da Beppe Grillo non c'è. Il ministero dell' Ambiente non sarà fuso con il ministero dello Sviluppo economico». E dice: «Non abbiamo votato per questo sulla piattaforma Rousseau». Sulla stessa linea si muovono anche i senatori Nicola Morra e Elio Lannutti. La senatrice salentina potrebbe presentare richiesta formale per contestare il voto online, proprio perché quanto realizzato da Draghi è diverso da quanto scritto nel quesito. Una mossa per potere votare no alla fiducia senza incorrere nel rischio di espulsione. I critici riflettono sul da farsi. Sono 2-3 senatori e 8-10 deputati pronti a passare all' opposizione, ma in realtà la fronda è più ampia. E si confronterà. Nel weekend è previsto un incontro online che vedrà la partecipazione di 11 senatori e 25 deputati. Oggetto del vertice: il no in Aula a Draghi e le eventuali conseguenze. Insomma, la scissione diventa più di un' ombra. Max Bugani con «Qualcuno era 5 Stelle» fa il verso a Giorgio Gaber per commentare il momento amaro. Chi invece ha appena lasciato, ossia Alessandro Di Battista commenta la squadra con un laconico: «Ne valeva la pena?». Prima picconata ai suoi ex colleghi. Di Battista, raccontano i ben informati è «tranquillo». Nei giorni scorsi l'ex deputato avrebbe avuto - serpeggiano le indiscrezioni tra i Cinque Stelle - un duro confronto con Grillo per le diverse posizioni dei due in merito al sostegno a Draghi. Dopo il video dello strappo dal Movimento - raccontano le stesse fonti - tra il garante e quello che veniva bollato come il suo erede nel Movimento non ci sarebbero stati contatti. L'ex deputato - intercettato dai cronisti - invece dichiara di apprezzare le dichiarazioni al Corriere di Davide Casaleggio nei suoi confronti e parla della telefonata con Di Maio: «Ho sentito Luigi, i rapporti sono sereni. Nell' eventualità il governo Draghi dovesse fare delle cose buone, io le sosterrò». Poi commenta l' esito della consultazione su Rousseau: «I 30 mila che hanno votato no? Non sono mica patrimonio mio, ma iscritti raziocinanti che hanno fatto le loro scelte. Io sono uno di loro, non sono il capo di nessuno». Intanto la socia della piattaforma, Enrica Sabatini, prefigura un futuro politico con l' ex deputato: «Chi ha la stessa missione, troverà il modo di camminare insieme». Il futuro, insomma, è un' incognita con varie opzioni.

Dal “Corriere della Sera” il 13 febbraio 2021. Adriano Celentano giudica positivamente il «doppio triplo salto mortale» del leader della Lega Matteo Salvini, passato dall' opposizione al sostegno al governo presieduto dall' ex governatore della Banca centrale europea Mario Draghi. Il cantautore e showman in un post sui social ha scritto: «"Solo gli sciocchi non cambiano idea" ha detto Pier Ferdinando Casini a cui faccio i miei più sinceri auguri di pronta guarigione dal Covid. Un Covid meno aggressivo a giudicare da un Casini più in forma del solito. E io sono pienamente d'accordo con lui quando, riferendosi a Salvini, dice che solo gli sciocchi non cambiano idea. Per cui non ci si deve meravigliare se il doppio triplo salto mortale di Salvini abbia tramortito, non solo i suoi antagonisti ma lui stesso, dal quale pare non essersi ancora ripreso. È vero, solo gli sciocchi non cambiano idea, e io che sono un Grillino della prima ora, a differenza di quei grillini che per fortuna sono la minoranza, giudico positivo il gesto di Salvini. Se non altro - ha continuato nel suo post il Molleggiato - per non perdere il TRENO di quelle larghe intese che il presidente Mattarella ha battezzato come il governo di unità nazionale. Il quale, solo se è veramente di unità nazionale può avere qualche probabilità di vincere sul carceriere che sta imprigionando il mondo intero».

Adriano Celentano e l'elogio inaspettato: "Governo Draghi? Giudico positivo il gesto di Salvini". Adriano Celentano, che si definisce "grillino della prima ora" va controcorrente e approva l'appoggio di Salvini a Mario Draghi. Francesca Galici, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. L'endorsement che non ti aspetti è quello di Adriano Celentano a Matteo Salvini. Il Molleggiato ha apprezzato la scelta del leader della Lega di passare dall'opposizione al governo e lo ha espresso con un post sui social. "'Solo gli sciocchi non cambiano idea', ha detto Pier Ferdinando Casini a cui faccio i miei più sinceri auguri di pronta guarigione dal Covid", ha scritto Adriano Celentano, che poi continua: "Un Covid meno aggressivo a giudicare da un Casini più in forma del solito. E io sono pienamente d'accordo con lui quando, riferendosi a Salvini, dice che solo gli sciocchi non cambiano idea". Quello di Adriano Celentano è un post molto lungo, nel quale il cantautore ci cimenta in un'analisi della situazione politica attuale e soprattutto si concentra sulla figura di Matteo Salvini, che da quando ha comunicato che avrebbe offerto il suo appoggio al governo di Mario Draghi è sotto il fuoco incrociato. "Non ci si deve meravigliare se il doppio triplo salto mortale di Salvini abbia tramortito, non solo i suoi antagonisti ma lui stesso, dal quale pare non essersi ancora ripreso", scrive ancora Adriano Celentano, fiero sostenitore del Movimento 5 Stelle: "È vero, solo gli sciocchi non cambiano idea, e io che sono un Grillino della prima ora, a differenza di quei grillini che per fortuna sono la minoranza, giudico positivo il gesto di Salvini". Le parole del Molleggiato arrivano a sorpresa nel giorno del giuramento di Mario Draghi e dei suoi ministri e dell'addio di Giuseppe Conte. Le lacrime di Rocco Casalino e il saluto commosso di Giuseppe Conte ai commessi di Palazzo Chigi, che per molti è solo un gesto di riconoscenza per l'aumento dei salari, fanno oggi il paio con il post di Adriano Celentano. Il cantautore ha anche spiegato perché oggi apprezza la decisione di Matteo Salvini, letta nell'ottica della salvezza del Paese, ossia "per non perdere il TRENO di quelle larghe intese che il presidente Mattarella ha battezzato come il governo di unità nazionale. Il quale, solo se è veramente di unità nazionale può avere qualche probabilità di vincere sul carceriere che sta imprigionando il mondo intero". Adriano Celentano non è mai stato tenero con Matteo Salvini, di cui ha sempre criticato l'operato e stupisce i più questo repentino cambio di considerazione. Ma, come dice lo stesso Molleggiato riprendendo Pier Ferdinando Casini "solo gli sciocchi non cambiano idea".

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2021. Dopo giorni di tensione con un braccio di ferro che rischia di spaccare in due il Movimento, in tarda serata arriva la proposta di mediazione per il fronte del no portata avanti da Davide Casaleggio che punta ad «aprire» al voto di astensione. Il presidente dell'Associazione Rousseau spiega su Facebook che dagli attivisti «è arrivata in media una email al minuto sulla mancata costituzione del Superministero che sarebbe dovuto nascere dalla fusione di Mise e Ambiente, come previsto dal quesito a garanzia dell'avvio del governo (come sostenuto da Barbara Lezzi, ndr )». «Se non sarà possibile sottoporre un nuovo quesito agli iscritti credo sia comunque importante non creare una divisione nel gruppo parlamentare - prosegue Casaleggio, mettendo uno scudo ai ribelli contro eventuali espulsioni -. Molti parlamentari mi segnalano che vorrebbero votare contro non essendo passibili di sanzioni disciplinari sulla base dei precedenti e delle regole attuali». E conclude: «Per questo motivo, auspico che chi senta il disagio nel sostenere questo governo percorra la scelta della astensione». Il post dell'imprenditore ha subito fomentato gli animi di chi lo vede come un intruso nei 5 Stelle: «A nome di chi parla il nostro fornitore di servizi?», attacca un pentastellato. «Ma non aveva dichiarato di lasciare le valutazioni politiche agli organi del Movimento?», sottolinea un altro. C'è chi legge l'intervento di Casaleggio come una replica a Beppe Grillo, che poco prima era intervenuto con un post a perorare la causa del sì al governo, citando Draghi («Ora l'ambiente, ad ogni costo»). Ma anche il garante a sua volta è finito nel fuoco incrociato delle tensioni. Diversi parlamentari lo attaccano. Qualcuno anche pubblicamente, come Rosa Menga. «Sono un po' perplessa, ve lo confesso. Non vorrei che qualcuno avesse dimenticato che, in fisica, il termine "transizione" indica il passaggio di stato della materia. E non vorrei che, da democrazia "liquida", ci stesse conducendo verso il consenso "gassoso"... evaporato», scrive la deputata su Facebook. La truppa degli scontenti, intanto, si allarga: oltre ai trenta senatori ribelli, si contano anche quaranta deputati. E proprio tra le file di Montecitorio i critici si iniziano a organizzare. Una novità quasi assoluta, un tassello che si aggiunge a un quadro già complesso. Nella serata di domenica è la deputata siciliana Angela Raffa a organizzare un incontro su Zoom per i malpancisti. Il fronte in realtà è più composito di quanto possa sembrare: ne fanno parte non solo i contrari al governo Draghi, ma anche i critici verso i vertici e anche chi spera di ottenere un vantaggio politico personale (magari in chiave di sottogoverno). Nel mirino di tutti c'è sempre Vito Crimi (Gianluca Castaldi ha chiesto in assemblea dei senatori le dimissioni da capo politico). Ma la partita si sta già spostando sulle prossime mosse, le prime del governo nascente. Alessandro Di Battista inizia a pungere su Facebook: «Il nuovo fantasmagorico "Governo dei Migliori" riporterà a casa i nostri militari che si trovano in Afghanistan?». Anche Nicola Morra inizia a mettere dei paletti (politici) legati alla battaglia del Movimento sulla giustizia e ai prossimi scenari: «Ricordo che anche la conclusione del governo Conte I fu da molti addebitata all'approssimarsi della riforma della prescrizione. Non so perché, ma questa cosa qua fa paura a tanti. Chissà perché?». Intanto in quella che si preannuncia come una settimana decisiva per le sorti del Movimento, torna al centro della scena il voto su Rousseau: il giorno prima della fiducia ci sarà la votazione per la modifica dello statuto e l'inizio dell'era della nuova governance. Con il fronte degli scontenti che si allarga per i big attuali si preannuncia una sfida difficile riuscire a tenere le redini dei 5 Stelle. «La partita sta per iniziare», chiosa sibillino un pentastellato.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 14 febbraio 2021. «Tredici febbraio 2021. Vi ricorderete questa data. Perché da oggi si deve scegliere. O di qua, o di là». Così ieri pomeriggio, poche ore dopo il giuramento del nuovo governo Draghi, Beppe Grillo sul suo blog ha provato a dettare la linea ad un Movimento ancora in piena crisi di nervi. Un partito sull' orlo della scissione in cui la fronda di chi pare disposto a stare solo «di là» sembra aumentare di ora in ora. A bocce ormai ferme infatti, la delusione per il ritrovarsi al governo con i due nemici di sempre Mario Draghi e Silvio Berlusconi sta sconquassando i parlamentari. Al punto che in serata, quando c'è già il primo deputato che annuncia di lasciare i 5s (Giuseppe D'Ambrosio), si improvvisano due riunioni, una con i senatori ed una, infuocata, con i deputati. In questa il reggente politico Vito Crimi prova a compattare la squadra spiegando come si sono evolute le consultazioni (senza conoscere la spartizione dei ministeri fino all' ultimo, un «governo alla cieca», un esecutivo «di Draghi e del Quirinale), come Grillo non fosse del tutto convinto delle promesse di Draghi e come Roberto Cingolani, neo-ministro della Transizione ecologica, sia un nome venuto fuori dal M5s. Spiegazioni sulla correttezza dei vertici grillini che però non pare abbiano convinto molti parlamentari. Ma le chat sono in realtà state roventi per tutto il giorno, incendiate proprio dalla composizione del governo. Indigeribili per molti non solo l'assenza del «super ministero della Transizione ecologica» reclamato da Grillo nel corso delle consultazioni quanto il ridimensionamento dell' influenza grillina. «Di Maio agli Esteri peserà poco con uno come Draghi - chiosa un senatore 5s - E perdiamo non solo Giustizia, MISE, Lavoro, Istruzione ma pure palazzo Chigi, per prenderci soprattutto ministeri senza portafoglio». «Ci hanno trattati da deficienti» attacca in chat il deputato Luigi Iovino che fino a 24 ore prima parlava di «senso di responsabilità» e di «difendere quanto di buono abbiamo costruito». Una buona parte del Movimento, compresi coloro che si erano lasciati convincere da Crimi, Conte e Di Maio, ora vorrebbe tornare indietro. Lo stesso vale per Valentina Corneli che bolla l'esecutivo come un «governicchio di mezze cartucce», quando venerdì mattina predicava calma: «Nessuno è migliore, né si deve sentire migliore degli altri». Così dopo la fuori uscita dal partito del più importante tra i grillini non eletti Alessandro Di Battista (il cui hashtag #nevalevalapena? domina i social network), nei 5stelle continuano a volare stracci. «È quasi una sassaiola ormai» dice amaro un parlamentare «A momenti facciamo prima a contare i non dissidenti» aggiunge se gli si chiede dell' ampiezza della fronda. Ad aprire le danze è stata in mattinata la deputata Barbara Lezzi che su Facebook annuncia di aver inviato «insieme ad alcuni colleghi» una mail ai vertici 5s per chiedere un nuovo voto della base. «La previsione del quesito posta nella consultazione dell' 11 febbraio 2021 non ha trovato riscontro nella formazione del Governo - ha scritto la Lezzi - Chiediamo che venga immediatamente indetta nuova consultazione con un quesito in cui sia chiara l' effettiva portata del ministero e che riporti la composizione del Governo». In pratica la votazione degli iscritti di giovedì sarebbe nulla e, quindi, non solo se ne rende necessaria una nuova ma la settimana prossima bisognerà anche votare no alla fiducia. Una presa di posizione a cui sarebbero già giunti ieri sera 7 senatori, tra cui Emanuele Dessì e Nicola Morra, scagliatosi contro la presenza di Forza Italia nell' alleanza. Un punto su cui peraltro ieri è tornato, rinfocolando la polemica in attesa di capire in quanti lo raggiungeranno, anche Dibba. «Trovo immorale che politici che hanno speso tempo (e dunque denaro pubblico) non per occuparsi del Paese ma per risolvere le grane giudiziarie del loro leader, possano avere ancora ruoli così apicali» ha scritto su Fb riferendosi ai ministri Brunetta, Carfagna e Gelmini. Un punto su cui anche Crimi, ai Deputati ha detto la sua, precisando come si fosse già consapevoli della presenza del centrodestra nella maggioranza: «Da Lega e Fi sicuramente io non mi aspettavo che proponessero Gandhi o Martin Luther King... questi sono i nomi».

Grillo: «Abbiamo bisogno di una “transizione cerebrale”». Il fondatore del M5S: «Da oggi si deve scegliere. O di qua, o di là». Il Dubbio il 13 febbraio 2021. «13 febbraio 2021. Ti ricorderai questa data. Perché da oggi si deve scegliere. O di qua, o di là. Scegliere le idee del secolo che è finito nel 1999 oppure quelle del secolo che finirà nel 2099». A scriverlo sul suo blog, nel giorno del giuramento del nuovo governo, è il fondatore del M5S, Beppe Grillo.  Che pare mandare messaggi tra le righe ai ribelli, che in queste ore si schierano contro il sì su Rousseau che ha consacrato l’entrata del Movimento nel governo guidato da Mario Draghi e studiano come sganciarsi dagli altri grillini per tenere ancora in vita, altrove, le idee fondanti del M5s. «Se il 2099 è un’astrazione, allora prova così. Metti lo smartphone in modalità aereo e vola con la fantasia. Chiudi gli occhi. Visualizza il tuo nipotino. Visualizzalo nonno. Coi capelli bianchi, i denti rifatti, la prostata così così. Commuoviti. Ecco, se sei capace di commuoverti per il futuro, allora sei un “ragazzo del ‘99”. O una “ragazza del ‘99”. Del 2099. Ma se non riesci a spegnere lo smartphone, non riesci a volare, non riesci a commuoverti per il futuro, allora a sei un “ragazzo del 1999” – afferma Grillo -. Forse sei studente alla Bocconi. Puoi essere giovane negli anni. Ma potresti essere vecchio nei pensieri. I “ragazzi del 1999”, infatti, credono ancora che spostare avanti e indietro sempre più soldi crei più prosperità. Pensano che tutta la ricchezza creata e quella distrutta vadano sommate insieme. E chiamano questo Pil. E chiamano il Pil benessere», continua. Tutti gli altri sono i lungimiranti, i ragazzi del futuro. E viene da pensare che in questa categoria il fondatore ci inserisca tutti quelli che hanno detto sì a Draghi. «Se invece riesci a commuoverti per il futuro, allora sei un “ragazzo del 2099”. Allora credi che il benessere non voglia dire produrre di più, ma vivere meglio. Credi che le persone contino più delle cose, nel cielo vuoi più rondini e meno satelliti, nei parchi vuoi più lucciole e meno display. Se hai capito questo, è perché hai sentito. Perché per capire col cervello bisogna prima sentire col cuore. È di una transizione cerebrale ciò di cui abbiamo bisogno».

Emanuele Buzzi per corriere.it il 13 febbraio 2021. I gruppi parlamentari del Movimento — dopo l'annuncio della composizione del governo Draghi, e la richiesta di un secondo voto su Rousseau stoppata da Grillo — sono sempre più spaccati. Dopo la richiesta urgente di una assemblea dei senatori respinta nella serata di venerdì da parte di Vito Crimi, oggi gli eletti M5S si vedranno per una congiunta. Il capogruppo Ettore Licheri scrive in chat: «Ragazzi il momento che stiamo attraversando è difficilissimo. C’è delusione, frustrazione ed incertezza e comprendo le ragioni di tutti. Ma il momento impone di mantenere la calma». E prosegue: «Sapete dell’ordine del capo politico di non fare riunioni a camere separate prima della fine di questa fase per evitare asimmetrie comunicative. Si può anche discutere sulle ragioni ma queste sono le disposizioni alle quali io mi sono attenuto». Poi l’annuncio: «Nel pomeriggio di quest’oggi ci sarà una riunione congiunta in cui ascolteremo il nostro capo politico e ciascuno di noi potrà esprimere il proprio pensiero. Il direttivo comunicherà l’orario ed intanto cerchiamo di restare uniti e non dividerci proprio ora». «Non c’è niente di irreversibile e per tutto c’è sempre una soluzione. Se restiamo uniti senza litigare la troveremo», conclude Licheri. L’annuncio di Licheri provoca però la reazione rabbiosa dei senatori, che non ci stanno a essere confinati all’angolo. «Non partecipiamo alla congiunta. Lì ci vogliono mettere in mezzo. Fanno parlare 30 Di Maio boys per primi per annacquare», c’è chi si sfoga. In chat partono le polemiche. «Ettore, con tutto il rispetto che posso avere nei tuoi riguardi come persona, ma abbiamo toccato il fondo. Ci avete lasciati ad attendere notizie che non fossero l'ennesimo " stiamo uniti" " vogliamoci bene" e training motivazionali del cavolo. Adesso anche basta. Abbiamo chiesto una riunione di gruppo Senato già tante volte, negare questa richiesta è stato un atto deplorevole», scrive un eletto. E altri a ruota: «Ettore con tutto il rispetto : non parteciperò alla congiunta e aspetto con ansia la riunione delle 18 con il gruppo senato. Perdonami ma da questo momento non sei più, politicamente parlando, il mio capogruppo». «Ettore se chiediamo una riunione faccela fare, è una questione di rapporti umani prima che politica».

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. Lo scontro e gli equilibri. I vertici del Movimento sono nel mirino della base e dei ribelli che vogliono votare no. Due giorni, tre round. Vito Crimi torna ad affrontare i senatori: una nuova riunione di quattro ore dopo le due di sabato con i parlamentari (prima con gli eletti a Palazzo Madama e poi con quelli di Montecitorio). Il confronto è duro e finisce con un nulla di fatto. Il capo politico prova a spiegare le ragioni del sì. «Appoggiateci e poi vediamo, potremmo rompere le scatole su tutto», è il ragionamento che il capo politico fa ai senatori. Cita una parabola del pugile che odia la violenza e resta fuori dal ring senza vincere mai. Dice che è stato Beppe Grillo a indicare i dicasteri di interesse (sono stati citati i temi sul suo blog). Si difende dicendo che i forzisti da soli non potranno decidere nulla. (Già la sera prima con i deputati aveva detto: «Se qualcuno abbatte la prescrizione noi ci ritiriamo dal governo»). Poi tocca un altro tasto: «Continuare con il no indebolirà il Movimento al governo». Crimi parla del sottogoverno. In ballo ci sono i numeri: quindici sottosegretari e tre viceministri che rischiano di saltare. Ma l'ala critica ribatte: «Il Recovery lo controlliamo dagli Esteri? O dall'Agricoltura?». «Asteniamoci così non perdiamo la faccia», replicano. Il finale è un nulla di fatto con Crimi che se ne va e poi interviene in chat: «Da domani cominceremmo a spingere per avere un numero adeguato e anche superiore di sottosegretari alle dimensioni del gruppo. Se siamo meno di 282 a votare la fiducia ovviamente cambiano le percentuali e il numero di sottosegretari spettanti. Quello che cercavo di farvi capire sul potere contrattuale». E proprio sui sottosegretari inizia ad aprirsi una sfida interna, anche tra i lealisti al nuovo governo. «Dovranno scegliere uno tra Crimi e Sibilia e voglio vedere come possono tenere il gruppo se scelgono il capo politico», dice una parlamentare. «Chi ci ha portato fin qui si dovrebbe fare da parte», sottolinea un Cinque Stelle. Il riferimento è agli ex ministri uscenti, che però non dovrebbero rientrare nel novero, mentre per l'ex sottosegretario a Palazzo Chigi Riccardo Fraccaro ci sono delle possibilità. «Vediamo quali brillanti ruoli riusciamo a strappare», ironizza un altro Cinque Stelle. I vertici cercano di gettare acqua sul fuoco. Non arriva nessuna presa di posizione forte nonostante le polemiche. C'è chi è sicuro: «La fronda al momento del voto si ridurrà. E drasticamente». Già al Senato si dice che i no convinti siano una ventina, che dieci eletti a Palazzo Madama possano rientrare nell'alveo. E c'è chi si lamenta: «I critici dovrebbero comprendere che la strada ormai è tracciata e che cambiarla ora danneggia solo ulteriormente il Movimento». «Qui nessuno vuole spaccare il gruppo, ma ci siamo trovati di fronte a una situazione a cui era impossibile sottrarsi». I contiani, sostengono i ben informati, dopo la nomina di Patuanelli all'Agricoltura, si schiereranno per il sì. Tuttavia i tentativi di trovare una soluzione alla crisi interna al Movimento per il momento non trovano sbocchi. La stessa idea proposta da Davide Casaleggio di tollerare l'astensione viene vista come una ingerenza. «Abbiamo ancora tre giorni per salvare la faccia e rimanere compatti: è il momento di provare ad ascoltarci l'un l'altro», commenta un pentastellato moderato. Ma proprio qui viene il difficile.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. «Fai un favore al mondo e al Movimento, sparisci». Povero Vito Crimi. Come se fosse solo colpa sua. Si richiudono i suoi account social con lo stesso spirito di quando si passa davanti a un incidente stradale, una rapida sbirciata e poi subentra l'impulso di distogliere subito lo sguardo. Al suo post del 12 febbraio, «M5S ha sempre messo al centro i temi e gli obiettivi», si contano almeno una dozzina di militanti che hanno scelto la stessa, breve risposta. Un pernacchio, declinato con grafie assortite. «Non facciamo finta che tutto va bene, vi siete fatti infinocchiare dalla vecchia politica marcia. Quella che detestavate...». «Non avete sostenuto Giuseppe Conte e siete saliti subito sul carro del burocrate per un governo che doveva essere di alto profilo». «È più digeribile la peperonata fatta a cena da mia suocera». E questi sono tra i commenti più gentili, ricopiati quasi uno in fila all'altro. Così tanto per rendere l'idea. Il viaggio negli umori della base pentastellata è un compito facile e improbo al tempo stesso. Il sottogenere giornalistico risale ai tempi del Pci-Pds, o della Democrazia cristiana, quando ancora esistevano le sezioni e i circoli. Peccato che non sia mai esistito un luogo fisico della discussione per il M5S, a ben vedere neppure virtuale, ma questa è un'altra storia. Non che ne abbondino gli altri partiti, anzi. Ma per i Cinque Stelle l'immaterialità è sempre stata un segno distintivo, rivendicato con un certo orgoglio. In questo frangente si rivela un limite per i molti, diciamo otto su dieci a essere generosi, che contestano, e uno scudo per chi ha imposto decisioni alquanto indigeste a chi sta sul territorio e ancora ha una visione idealizzata del M5S. Al reggente di lunga scadenza Crimi tocca al solito la parte del punching ball , forse in virtù del suo scarso carisma. Andando alla fonte principale, ovvero il Blog delle Stelle, come è noto il blog di Beppe Grillo è chiuso ai commenti, la sostanza del malessere si attenua ma non cambia. Chiamiamola pure spaccatura, perché ci sono anche commenti di incoraggiamento, di comprensione della difficoltà attuale. Ma le due parti della frattura non sono certo eguali. Risalire per i rami del post dell'undici febbraio che annunciava i risultati della consultazione sul governo Draghi è abbastanza istruttivo. Ad esempio, si capisce che le perplessità sul modo in cui era stato formulato il quesito non erano esclusiva dei giornalisti cattivi. «Ma perché non scrivete che "le altre forze politiche" comprendono Salvini e Berlusconi? Il quesito assomiglia molto al quesito referendario di Renzi, ve lo ricordate vero...». Molto spesso veniva citato l'immortale Conte Mascetti di Amici miei , sempre con noi. «Tarapia tapioco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?». «Chi ci ha fatto sorpassare nei sondaggi da FdI , ridotto a fare un governo con quelli che sapete bene, chi ha bandito Conte, deve essere cambiato con portavoce fedeli al movimento. Questo è il momento. Poi penseremo al governuccio e a Salvini, che ricomincia con la guerriglia mediatica». Ecco, l'Avvocato del popolo. Nella disillusione generale, Giuseppe Conte viene percepito come l'unico o l'ultimo appiglio, al quale viene perdonato molto, se non tutto. «In tv vi stanno massacrando scientificamente voi gli date fiato con le esternazioni personali improprie e ingenue. Fermatevi, datevi una struttura ed organizzazione, centrale e locale, seria e rigorosa, se volete un leader c'è ed è Conte, ridimensionate i vostri capi politici, attuali ed ex, troppo filo-ministeriali, e ricominciate». Alessandro Di Battista rimane una ipotesi lontana, così distante da infastidire alcuni per le sue critiche al nuovo esecutivo, definito il «Governo dei migliori». «Adesso che sei fuori, spari a zero?» si legge spesso tra i molti elogi che comunque prevalgono sulle critiche. Neppure Luigi Di Maio si salva dalla fustigazione collettiva. La sua pagina Facebook, da tempo rimpolpata da commenti di account ricorrenti e osannanti a ogni post del vecchio e nuovo ministro degli Esteri, questa volta non scampa al sarcasmo dei militanti. L'ultimo messaggio, che presenta la squadra di governo pentastellata, è un florilegio di improperi. «Una squadra che ha lottato per i propri interessi e tu per primo. Venduti». Al punto che qualcuno interviene per mitigare la pioggia di «Vaffa», chiedendo ai partecipanti di non essere troppo severi. Quando si dice la nemesi.

Finti liberali contro finti ribelli. Ma nei 5s la scissione è vera. Fico: "Capisco i malumori ma si cambi passo". E c'è chi giura: "Col semestre bianco grillini fuori dal governo". Pasquale Napolitano, Martedì 16/02/2021 su Il Giornale. La scissione è ormai nei fatti. Nel M5S convivono (non si sa fino a quando) due partiti: uno liberale, che insegue Forza Italia e Lega su tutto, l'altro rivoluzionario, che spinge per mollare Draghi. Due volti che troveranno una forma ufficiale nella nuova struttura di vertice del Movimento, che oggi sarà sottoposta al voto degli iscritti: ecco l'organo collegiale (con le varie anime). Addio al leader unico. La nascita dell'esecutivo guidato da Mario Draghi sta facendo cadere tutti i freni inibitori. Ormai le due (e più) anime del Movimento stanno uscendo allo scoperto. La spaccatura è così evidente che ieri si è scomodato il presidente della Camera Roberto Fico per calmare gli animi: «So che molti dei nostri attivisti e parlamentari sono delusi. Comprendo il malumore di chi non digerisce certe scelte e di chi nutre perplessità rispetto a decisioni che appaiono in contrasto con il nostro percorso. Ma dobbiamo adottare un cambio di prospettiva drastico, perché il momento lo richiede». Fico rilancia le battaglie storiche del Movimento: acqua pubblica, ambiente, transizione energetica. E prova a tenere dentro Giuseppe Conte: «Abbiamo fatto tanta strada insieme, e sono certo che continueremo a farne ancora». Ma lo scontro non si arresta. La senatrice Barbara Lezzi si ribella: «Mi deludi». C'è chi insegue il centrodestra, chiedendo ristori e fondi sovrani. E chi picchia duro contro Draghi, auspicando una nuova consultazione su Rousseau in vista del voto di fiducia al governo Draghi. La richiesta di un voto bis sulla piattaforma raccoglie 5mila adesioni. In Parlamento i due partiti grillini continuano a picchiarsi. Il leader dell'ala liberale è Luigi Di Maio che ieri dal profilo Facebook si è rifatto vivo: «Ci aspettano mesi duri e complessi. Dobbiamo sconfiggere definitivamente il virus. Sarà possibile farlo solo lavorando sodo, con umiltà e senso delle istituzioni». Un'altra giravolta arriva con la proposta di costituzione di un Fondo sovrano italiano: idea la cui paternità appartiene a Sestino Giacomoni di Fi. Nella faida grillina si fa largo la terza via: «Staremo nella maggioranza con spirito critico. Se restiamo uniti potremo essere efficaci. Il che vuol dire sì alla la fiducia ma con riserva, se vengono toccate le nostre pietre miliari, ad esempio il reddito di cittadinanza, allora toglieremo la fiducia» spiega Giuseppe Brescia, deputato grillino e presidente della commissione Affari istituzionale. Contro la fiducia c'è un pezzo di Movimento, che continua a mantenere un profilo ortodosso e di opposizione al governo Draghi. «Mi auguro che il buonsenso prevalga e che i nostri ministri si ritirino», avverte la senatrice Bianca Laura Granato. Sulla linea del no il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra: «Escludo di votare a favore». La fronda del no a Draghi si allarga: «Sono nel panico, non dormo da qualche giorno. In tempi normali non avrei avuto dubbi nel votare contro», annuncia Emanuele Dessì, senatore del M5S ai microfoni della trasmissione «L'Italia s'è desta» su Radio Cusano Campus. E sul voto di fiducia al governo Draghi, il senatore ammette: «Sicuramente non voterò sì». L'ala rivoluzionaria, fronda che ha in Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio i due leader, chiede una nuova consultazione su Rousseau o l'astensione sulla fiducia a Draghi. I pontieri non stanno fermi. Sono al lavoro per trovare un punto di caduta: un compromesso. Una fonte di primo piano rivela: «Con l'ingresso nel semestre bianco, il M5S uscirà dal governo Draghi. È il punto di equilibrio trovato tra Conte, Di Maio, Grillo e Di Battista». Per evitare una scissione che nei fatti esiste già.

C'eravamo tanto amati. Movimento 5 Stelle sull’orlo della spaccatura tra poltronisti e "dibattisti": Travaglio il più deluso. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Dadone, D’Incà, Di Maio e Patuanelli tornano al governo. Le conferme arrivano al termine di un tunnel lungo e buio. Ma non ci sono solo i ministeri, in ballo. Ci sono anche i viceministri, i sottosegretari, le nomine dei nuovi direttori generali e capi di gabinetto: il M5S è diventato, involontariamente ma inesorabilmente, negli ultimi due anni, un poltronificio di grande richiamo. Dove a gestire il traffico sono le figure più aderenti agli ingranaggi della macchina istituzionale. Il transiction team che rappresenta gli interessi – anche di pianta organica – del Movimento è formato da un quadrifoglio: Luigi Di Maio, Vito Crimi, Roberto Fico e Vincenzo Spadafora. Tutti tenuti debitamente a distanza negli ultimi giorni. Tutti tenuti al buio da Mario Draghi, fino all’ultimo. La testa bendata del Movimento procede a tentoni ed è oggi come quella del dio Giano: bifronte. Per un verso governista, proiettata alla ricerca di un nuovo equilibrio, di un nuovo patto frontista con Pd e Leu e una rendita di posizione nel cantuccio assegnato loro da Draghi; per un altro verso lealista verso Conte, con Alessandro Di Battista che sbatte la porta, non senza seguito interno. Dibba non si dimette da nulla, perché non aveva incarichi. Agli atti è un militante, anche se di grande presa sulla base. E per arginare il rischio della scissione, parola che rimbomba sulle chat interne, ieri mattina Di Maio lo ha chiamato. Telefonata cordiale, viene reso noto. Ma Di Battista non cambia idea: «È finita una bella storia d’amore», fa sapere agli ex partner all’antivigilia di San Valentino. Non è solo. Lo seguono perfino più di quelli che è lui a cercare. Barbara Lezzi, Danilo Toninelli e Nicola Morra non sono nomi di secondo piano, e sembrano pronti a seguirlo. Riccardo Fraccaro, attento tessitore, si incarica di una ambasciata: dichiara ai quattro venti che Di Battista è una risorsa preziosa per il Movimento, che nessuno lo deve attaccare, perché è auspicabile un ripensamento. Ma la canizza è aizzata. I militanti, abituati negli anni a procedere per mitragliate, si trovano Di Battista nel mirino e non sapendo cosa altro si può fare, sparano. «Un partito leninista», si lascia sfuggire Marco Travaglio a La7. La polarizzazione dello scontro interno rischia di sfuggire di mano ai vertici. La stessa tv di Urbano Cairo diffonde un sondaggio: per il Sì a Draghi appena più della metà degli elettori M5S, mentre contrari al governo sarebbero l’8-9% in più di quanti hanno votato No sulla piattaforma Rousseau. Che comunque si schiera, con la sua proprietà: Davide Casaleggio tira fuori il suo endorsement: «Niente arroganza o altri potrebbero seguire Dibba». Dunque dietro al capo dei ribelli si contano quindici senatori, almeno il doppio dei deputati, Casaleggio, Travaglio e dunque la brigata del Fatto Quotidiano. Una compagine vasta, roboante, ma disorganizzata. Destrutturata. Una fonte parla con Il Riformista: «Con il 40% del partito dovrebbero avere la forza di fare un gruppo, ma le uscite per ora sono centellinate». Pino Cabras, deputato No Draghi senza incertezze, suona tamburi di guerra: «Abbiamo segnali molto forti, chi ha preso posizione in questo periodo ha ricevuto tante telefonate di attivisti, intellettuali e gruppi che vogliono reagire». Al momento non c’è una componente organizzata «ma con gli strumenti tecnologici nuovi ci sono grandi possibilità di aggregazione rapida, vedi il V Day di pochi giorni fa, nel giro di 24 ore raccolte 1000 adesioni all’iniziativa on line». La rottura, o scissione che dir si voglia, precisa comunque Cabras, «è solo il piano B se non ci vengono dati spazi per cambiare il M5S». Ma agli spazi per cambiare, l’opposizione interna al M5S crede poco. Bianca Laura Granato, ad esempio, è tra i senatori che potrebbero far mancare il loro voto: «A coloro che hanno votato Sì – accusa, commentando l’esito della consultazione on line degli iscritti al Movimento sulla fiducia al governo Draghi – va il merito di aver provocato l’esodo di persone come Alessandro Di Battista. Non è con la violenza di una votazione collettiva abilmente e sapientemente manipolata che tieni unito un gruppo. L’esodo è iniziato e purtroppo non si arresterà». Il suo collega a palazzo Madama Mattia Crucioli di fatto annuncia l’addio promettendo fedeltà solo «al mandato elettorale. Voterò no a questo governo e continuerò ad informare, da questa mia pagina, chi ricerca un punto di vista libero ed imparziale». Grava su tutto l’ombra di un convitato di pietra, Giuseppe Conte. Il suo nome, perfino abusato fino a pochissimi giorni fa, diventa oggi scomodo per i governisti e ancora troppo ambizioso per la pattuglia dissidente. Casalino invece compare e parla, straparla. «Sono ubriaco di libertà, finalmente rappresento solo me stesso». E forse anche i futuri ex Cinque Stelle.

Quei due poltronisti per tutte le stagioni: Di Maio e Franceschini sempre in sella. Cambiano i premier, ma riescono ogni volta a ottenere un posto in squadra. Fabrizio Boschi, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Diciamoci la verità. Molti da Mario Draghi si sarebbero aspettati un governo più tecnico. Ed invece esce fuori, a sorpresa (alcuni ministri non erano neppure stati avvertiti), un governo molto politico che racchiude in sé un lato positivo e uno negativo. Quello positivo è che Draghi, in questo modo, avrà in pugno il Parlamento. Aver nominato tanti politici produce il vantaggio di garantire una maggiore tenuta delle varie forze di partito, le quali, avendo ottenuto uno o più poltrone, avranno tutto l'interesse di assicurargli la fiducia. Il lato negativo è che ci ritroviamo ad avere a che fare ancora coi soliti noti. Almeno due tra tutti: Luigi Di Maio e Dario Franceschini. Veri poltronisti di carriera, geni del trasformismo. Farebbero di tutto per garantirsi un posto ed, infatti, fanno di tutto. Come passare da un governo all'altro senza alcuna vergogna. Di Maio. Prima di arrivare a Palazzo, nell'ordine fa il giornalista (pubblicista), l'informatico, l'assistente alla regia, l'agente di commercio, il cameriere, lo steward allo stadio e il manovale. Nel 2007 apre il meetup grillino di Pomigliano d'Arco e 6 anni dopo diventa vicepresidente della Camera dei deputati. Sebbene Grillo preferisse Alessandro Di Battista a lui come suo successore, il cauto Di Maio riesce a suon di sgomitate a mettere nell'angolo l'esuberante Dibba. Nel 2017 diventa capo politico del Movimento e nel 2018 viene rieletto alla Camera e da allora macina un governo dietro l'altro. A lui vanno bene tutti, basta non tornare a Pomigliano. Prima vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico e poi del Lavoro nel governo Conte I (con Salvini). Nel 2019 ministro degli Esteri nel Conte II (contro Salvini). E oggi, incredibilmente, riconfermato agli Esteri. Chissà Draghi che promesse ha fatto a Grillo. Franceschini. Un vero maestro del poltronismo. Di Maio in confronto è un novellino anche se è suo degno allievo. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi D'Alema II e Amato II, ministro per i rapporti con il Parlamento nel governo Letta e dal 2014 al 2018 tripletta come ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, prima con Renzi, poi con Gentiloni e, infine, nel Conte II. Un vero record di trasformismo. Praticamente gli sono mancati solo i governi Craxi e Berlusconi e poi li ha fatti tutti. Più democristiano di Zaccagnini, al quale si ispira senza successo, più doroteo di Rumor, dopo essersi fatto crescere la barba, ottiene più successi di D'Alema o Bersani. Tant'è che Draghi se lo riprende alla Cultura. Infine, risbuca Andrea Orlando al Lavoro. Da assessore comunista della Spezia a ministro dell'Ambiente nel governo Letta e della Giustizia nei governi Renzi e Gentiloni. Rieccolo. E ancora, Lorenzo Guerini alla Difesa, democristiano ex sindaco di Lodi, creatura inventata da Renzi ed Elena Bonetti di Italia viva ripiazzata alle Pari opportunità dopo essersi dimessa aprendo la crisi.

Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 13 febbraio 2021. Matteo Salvini è contento a metà. Intanto per il metodo: «Sono stato avvisato 10 minuti prima». Draghi ha preso dalla Lega due esponenti dal profilo politico ed economico a lui più congeniali, più moderati, i meno sovranisti, i due che hanno sperato più di tutti nel governo di unità nazionale e nello stesso ex presidente della Bce. Massimo Garavaglia, ex ministro dell' Economia e ora ministro con una delega pesante, quella del Turismo che in un Paese come il nostro vale doppio. È una delega che nel Conte 1 teneva dentro il dicastero dell' Agricoltura Gian Marco Centinaio, molto vicino al leader e che forse Salvini avrebbe preferito di gran lunga a Garavaglia. Che invece è di rito giorgettiano. Già, Giancarlo Giorgetti, il nuovo ministro dello Sviluppo economico, senza la delega all' energia che passa all' Ambiente: è l' eterno Richelieu del Carroccio che ha tenuto i rapporti con il governatore di Bankitalia Draghi quando il leghista era presidente della commissione Bilancio della Camera. Giorgetti negli ultimi mesi si è esposto, anche entrando in rotta di collisione con Salvini, per una linea sempre più europeista, con uno sguardo al Ppe. Rappresenta, insieme al presidente veneto Zaia, la Lega più legata al mondo economico del Nord, a quel partito del Pil fatto di toni bassi e poco incline alla flat tax. Insomma, sono due che garantiscono stabilità a Draghi. Certo, Salvini può dire di entrare nel governo di unità nazionale in maniera robusta, di essere soddisfatto di avere chiesto e ottenuto il dicastero per la politica della disabilità che aveva già voluto nel Conte 1. Comunque i due pezzi forti, Giorgetti e Garavaglia, non sono proprio salviniani di ferro. Anche la veneta Stefani è molto vicina a Zaia. Non un caso che il segretario abbia lanciato un avvertimento: «Io sono orgoglioso se la Lega mette a disposizione uomini e donne. Dopodiché io ascolto tutti ma l' ultima parola in casa Lega è la mia». Come dire: se e quando deciderò di staccare la spina al governo lo deciderò io. Ma ieri era il giorno dell' orgoglio leghista. «Devo dire - ha affermato l' ex ministro dell' Interno - che occuparsi di settori strategici per l' Italia come lo Sviluppo economico, il sostegno alle imprese, il turismo, che è uno dei settori più colpiti di questa emergenza ed è una ricchezza incredibile per il nostro Paese, e poi il ministero per le disabilità, ecco per noi è motivo di orgoglio, impegno ed enorme responsabilità». C'è una grande amarezza per Salvini: la riconferma di Speranza e della Lamorgese, la quale ha smontato i suoi decreti sicurezza e ha impresso discontinuità con il predecessore leghista «O c' è un cambio di passo, di squadra, di risultati - avverte Salvini - oppure ci sarà bisogno di aiuto e sostegno da quelle parti». Significa che nei ministeri della Salute e dell' Interno Salvini vuole ora piazzare come viceministri e sottosegretari suoi uomini e donne. Si parla di Molteni o di Candiani che già stavano con lui al Viminale. Ma questa è la prossima partita. «Mi sembra chiaro - insiste Salvini - che occorra accelerare nella lotta al Covid, nel piano vaccinale e quello che si è fatto con Speranza e Arcuri non mi sembra sia sufficiente. E sul fronte sicurezza, lotta alla droga, immigrazione clandestina e lotta alla mafia si deve fare di più. Vedremo di fare gioco di squadra mantenendo ognuno la sua diversità».

Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 13 febbraio 2021. La dichiarazione di Berlusconi arriva in tarda serata e non è proprio entusiasta. «Forza Italia farà la sua parte: è' quello che avevo dichiarato l'altro giorno al termine dell'incontro con il presidente Draghi, e che ripeto volentieri stasera». Ha poi aggiunto di accogliere «con soddisfazione la nomina a ministri della Repubblica di Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, sicuro che si impegneranno con l'abituale dedizione portando un contributo di competenza e di esperienza all'azione dell'intera compagine governativa. Al presidente Draghi e a tutto il governo il più vivo augurio di buon lavoro». Raccontano che in effetti l’ex premier sia deluso, non è contento della scelta fatta da Mario Draghi. Non erano, a quanto pare, i nomi che aveva suggerito, tranne quello della Gelmini. Brunetta, Carfagna e la stessa Gelmini sono considerati le tre punte anti-sovraniste che più di ogni altro hanno criticato, in maniera più evidente e pubblica i primi due, la linea accondiscendente nei confronti di Matteo Salvini. Carfagna è stata tentata di seguire Giovanni Toti fuori da FI, ma non lo ha fatto per lealtà: è rimasta in attesa di capire se il Cavaliere lavorasse per l’unità nazionale e sul nome dell’ex presidente della Bce. Brunetta è stato il più eretico negli ultimi tempi: era arrivato pure ad elogiare le capacità politiche di Luigi Di Maio. Anche la Gelmini condivideva la linea moderata, centrista, europeista ma avendo l’incarico di capogruppo rimaneva più coperta nelle sue critiche. Ma quello che accomuna i tre ministro di Forza Italia è Gianni Letta. Li ha voluti lui, ha trattato lui direttamente con il presidente incaricato, tagliando fuori i nomi che lo stesso Berlusconi aveva fatto traverso lo stesso Gianni Letta e Antonio Tajani, sacrificato anche lui sull’altare della trattativa quasi privata dell’eminenza grigia azzurrina. Quindi quando da casa Arcore viene fuori che l’inquilino della villa è «molto sorpreso», ed è un semplice eufemismo che nasconde un disappunto che il Cavaliere nasconde in pubblica. È arrabbiato come una pantera», dicono coloro che hanno dovuto subire le scelte di Draghi, in tandem con Letta, facendo fuori il resto del partito e optando per ministri più in sintonia con il profilo del suo governo. Come del resto ha tatto con i ministri della Lega. Di fatto sta provando a depotenziare questo pezzo di centrodestra che ha scelto di far parte del gioco. Nella squadra di governo non c’è Tajani o la capogruppo del Senato Anna Maria Bernini. Sono loro due i nomi, insieme alla Gelmini, che il Cavaliere aveva chiesto a Gianni di riferire a Draghi. La delusione è dovuta inoltre al fatto che FI ottiene tre ministeri senza portafoglio. L’esclusione di Tajani, ex Parlamento Europeo, è quella più clamorosa. Berlusconi ci teneva molto. La motivazione è stata che nessun leader di partito fa parte del governo. La risposta è stata: infatti il leader di FI è Berlusconi, Tajani è il numero due, come lo sono Orlando per il Pd e Giorgetti per la Lega. Che però sono entrati nel governo. Un altro aspetto che Berlusconi non ha gradito è la nomina di Cartabia alla Giustizia, non perchè non sia un nome prestigioso quanto per il fatto che, a suo avviso, non avrà la volontà per incidere in un settore dove comandano ancora i magistrati. C’è una parte di FI sulle barricate, quella che sperava nell’asse saldato a Villa Grande l’altro giorno tra Salvini e Berlusconi per bilanciare la sinistra. E proprio su questo lato la Meloni ha avuto gioco facile per affondare il coltello, dicendo che questo governo, soprattutto con Orlando al Lavoro, è «ostaggio della sinistra».

RETROSCENA. Così Mario Draghi ha ammansito i suoi critici prima di salire al Quirinale: i contatti nei mesi scorsi con Di Maio, Salvini e Meloni. Con il ministro dei Cinque Stelle si è visto più volte, con il leghista ci ha parlato la prima volta tre settimane fa. Soltanto la leader di Fdi ha respinto l’invito per un incontro. Carlo Tecce su L'Espresso il 12 febbraio 2021. Mario Draghi era già qui, in mezzo a noi, prima di apparire al Quirinale. Aveva già ammansito i partiti più sovranisti e populisti d’Italia. Aveva già ricevuto una telefonata di Matteo Salvini alla fine di gennaio. Aveva già incontrato una, un’altra e un’altra volta ancora Luigi Di Maio. Aveva già recapitato un cortese invito a Giorgia Meloni. Questo è successo mentre si pensava che Draghi non ci fosse, un pensionato assorto fra gli ulivi umbri col suo cane bracco ungherese. Invece Draghi era pronto alla chiamata di Sergio Mattarella. No, nessun complotto ordito dalla plutocrazia. No, nessuna visione mistica di fantozziana memoria. Draghi era pronto perché Draghi non si fa trovare impreparato e fa sempre le cose che dice e non dice sempre le cose che fa. E fra le cose che non ha detto c’è un intenso lavoro sui partiti più distanti - Lega, Cinque Stelle, Fratelli d’Italia - da quell’Europa che ha protetto per otto anni alla Banca centrale europea, una dozzina di mesi di contatti discreti, di presentazioni, di conoscenze. Draghi è meticoloso, strategico, riservato: è politico. Non era nella misericordia di dio come l’uomo prima della creazione, «secondo il benevolo disegno della sua volontà», per dirla con la lettera di san Paolo agli Efesini. Dopo il 31 ottobre 2019, l’ultimo giorno di servizio alla Bce, usato, evocato e soprattutto temuto dalla politica, Draghi si è preparato a qualsiasi evenienza. Per non fallire aveva soltanto una possibilità: trasformare il Parlamento più antieuropeista nel Parlamento che più velocemente si è convertito all’europeismo. Si è trattato di folgorazione o disperazione. Pazienza. Pure san Paolo ci è passato. Il leghista Giancarlo Giorgetti è un amico di Draghi, ne ha un rispetto sacrale, è un tipo pragmatico, un tifoso del Southampton che il sabato e la domenica stacca col mondo e si guarda il campionato inglese. Se risponde, non spegne mica il televisore e si ammutolisce appena segna una squadra. Per quasi due anni, dopo la sbandata del Papeete che ha ammazzato l’esecutivo gialloverde e l’alleanza con i Cinque Stelle, ha spiegato a Salvini un paio di concetti banali: i consensi non bastano per governare, è ferale inseguire Fratelli d’Italia a destra. Per Giorgetti la pandemia era l’occasione per rifare daccapo la Lega con un governo di tutti aggrappato a uno: a Draghi. Salvini ha esitato a lungo, smentire sé stessi è più complicato che chiudere i porti sbraitando in televisione, poi l’ha sentito al telefono durante la caduta del governo di Giuseppe Conte, subito dopo il ritiro dei ministri di Italia Viva, in quegli attimi di deliquio quando fermo, con la testa nel guardaroba, la luce troppo fioca, le pile di pantaloni che vacillano, non sai che felpa metterti addosso perché non sai più chi sei. Per le consultazioni Salvini era già stirato dal verso giusto, non più o voto o morte, non più feroce con i migranti e dialogante con Mosca, anzi ha rinnovato il giuramento agli Stati Uniti, come se fosse la formula magica per accedere di nuovo ai palazzi del potere, e si è mostrato ai giornalisti con Giorgetti accanto che, infagottato in un giaccone con cappuccio, annuiva soddisfatto a ogni parola di Matteo. Draghi si è affidato a Giorgetti per avvicinare Salvini, con Meloni e Di Maio ha utilizzato un metodo diverso. Premessa. Draghi ha trascorso un decennio da direttore generale al ministero del Tesoro, da lì ha attraversato l’ultimo decennio del Novecento, ha imparato il galateo istituzionale. Draghi non si offre, non trama, si rende disponibile per rendersi utile. Così un intermediario, non un politico, la scorsa estate si è rivolto a Meloni e Di Maio con una sorta di consiglio: perché non vi fate una chiacchierata con l’ex capo Bce? Di Maio ha accettato presto, il suo istinto di sopravvivenza, di antico e inconsapevole lignaggio democristiano, si è rivelato come spesso gli capita e il 24 giugno l’ha raggiunto in un ufficio appartato lontano dal ministero degli Esteri. Matteo Renzi l’ha saputo, e un po’ si è ingelosito. Il premier Conte l’ha sospettato, e ha reagito assai male. Finché il segreto, che a Roma è tutt’altro che eterno, il tempo di un aperitivo, è diventato la notizia che Di Maio ha confermato in modo infelice: «Mi ha fatto una buona impressione». Da quel giorno Conte ha visto Draghi in ogni angolo buio di Palazzo Chigi, anziché costruire un rapporto ha tentato di abbatterlo persino col pubblico dileggio: «Volevo candidarlo alla guida della Commissione europea, mi ha risposto che era stanco». Invece Di Maio non ha citato più Draghi, ma l’ha frequentato con cautela. Meloni ci ha riflettuto, settimane, ne era lusingata, però ha declinato la proposta, non ha stretto la mano, pardon non ha dato il gomito all’ex banchiere, non per presunzione, non era sicura, ci tiene alla coerenza, ai simboli, alle fiamme. Come fai a discutere con uno che, in pratica, l’Europa l’ha salvata dopo che hai ospitato con gli onori Steve Bannon, uno che, in teoria, l’Europa l’ha sfasciata. Mario Monti atterrò in Italia e fu accolto come un signore compìto che veste in maniera straniante. Il loden affascinò gli italiani esausti dalle cronache anatomiche sulle “cene eleganti” nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Monti pensò di governare senza la politica, Draghi non ha commesso lo stesso errore. Era in cammino verso il Quirinale, per la successione a Mattarella, poi l’hanno fermato per dirottarlo a Palazzo Chigi. La politica è un passaggio obbligato per ambire alla presidenza della Repubblica. Appena ha ricevuto l’incarico da Mattarella, nonostante le prime ingenue reazioni di Riccardo Fraccaro e Vito Crimi, Draghi ha raccolto il sostegno di Salvini e Di Maio e un rifiuto, non polemico, di Meloni. Forza Italia ha esultato, Berlusconi è sbucato dalle palme in Costa Azzurra dove si è trasferito, di colpo Gianni Letta è tornato a vent’anni fa. Come previsto. Quello che non era previsto è accaduto nel Pd di Nicola Zingaretti, il partito di riferimento culturale di Draghi. Più di Rocco Casalino, Zingaretti ha creduto che Conte fosse indispensabile, si è impallato sulle elezioni anticipate, si è opposto ai leghisti e al solito si è corretto e si è adeguato. Zingaretti non ha aiutato l’ingresso in politica di Draghi, uno che all’epoca della Bce viaggiava spesso in aereo col premier Paolo Gentiloni per andare a Bruxelles. Il Pd ha dato segni di delirio cominciando a litigare sul congresso per rimuovere Zingaretti con un presidente del Consiglio dimissionario e un altro ancora non insediato. I 5S hanno scoperto quant’è sfiancante essere un partito e non si capisce chi comanda fra Beppe Grillo, le piattaforme di Casaleggio, il multiforme Di Maio, la ficcante tattica di Crimi. Allora Salvini si è ingolosito e ha provato a intestarsi l’operazione Draghi. Non si stava male tra gli ulivi umbri con il cane bracco ungherese. Ormai l’apparizione è avvenuta e san Paolo è irreperibile.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 13 febbraio 2021. Confesso: conoscendo da lunga data Mario Draghi ho sperato che avesse il coraggio di cambiare e di mandare a casa una maggioranza di incompetenti che da oltre un anno occupa le istituzioni. Pensavo che con la sua esperienza, come direttore del ministero del Tesoro prima e come governatore di Banca d'Italia e della Bce dopo, fosse sufficientemente scafato da sapere di essere forte solo all'inizio, se fosse riuscito a tenere alla larga i partiti dalle leve di comando del convoglio che si appresta a pilotare. Da quel che mi pare, leggendo la lista dei ministri che è stata presentata ieri sera, non mi sembra che ci sia riuscito. Anzi, mi pare che, usciti dalla porta, alcuni personaggi siano rientrati dalla finestra, al punto che il Draghi uno somiglia molto al Conte ter, con qualche spruzzata leghista e forzista a coprire la vergogna. Quando la scorsa settimana annunciò il fallimento della mediazione affidata al presidente della Camera, anticipando di avere intenzione di tentare la formazione di un governo istituzionale che evitasse lo scioglimento della legislatura, il presidente della Repubblica parlò di un esecutivo composto da figure di alto profilo. E dove è possibile rintracciare questo alto profilo se Luigi Di Maio rimane ministro degli Esteri? Davvero è pensabile che in Italia, dal punto di vista culturale, non ci fosse nessuno meglio di Dario Franceschini? E che dire del ministro che ha debellato il coronavirus, ma solo a parole, scrivendo un libro che è stato costretto a ritirare a seguito della seconda ondata dell'epidemia? Spiace dirlo, ma rivedere le stesse facce che hanno fallito e hanno dato pessima prova nei mesi precedenti non è di alcuna rassicurazione, nonostante l'autorevolezza del presidente del Consiglio. È difficile poter digerire che la ministra alle Politiche giovanili sia Fabiana Dadone, la stessa persona che ha ricoperto a nome dei 5 stelle l'incarico di ministro della Pubblica amministrazione: per 17 mesi gli italiani hanno ignorato la sua esistenza ai vertici di uno dei dicasteri più importanti per il Paese, perché da esso dipende l'efficienza della macchina burocratica. Ma non avendo dimostrato di essere in grado di migliorare il servizio pubblico al servizio dei cittadini, Dadone è stata spostata alle Politiche giovanili come nella prima Repubblica facevano i democristiani per sistemare qualcuno che per ragioni di corrente non potevano lasciar fuori dalla rosa dei ministri. Ma se a Fabiana Dadone, ministro trasparente (nel senso che come un vetro nessuno si è accorto di lei), è toccato di dover traslocare a un dicastero senza portafoglio e senza peso, a Elena Bonetti è andata meglio. In quota Italia viva, alla professoressa che si era dimessa su ordine di Matteo Renzi per mettere in crisi Giuseppe Conte è toccato in premio la riconferma alle Pari opportunità. Meno bene è andata a Teresa Bellanova, pasionaria renziana, anch' ella indotta alle dimissioni con promessa di ritornare più forte di prima: il suo posto all'Agricoltura è stato preso da Stefano Patuanelli, un grillino che ha già dato ampia prova di incompetenza ai Trasporti.Ci sono poi dei ritorni, non del Conte bis, ma dei governi che furono. Torna Andrea Orlando, da tempo in astinenza da ministero dopo essere stato Guardasigilli: a lui è stato assegnato il Lavoro. Torna un triumvirato di Forza Italia, ossia Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Il primo riconquista il suo vecchio ministero, quello dei dipendenti pubblici, alla seconda vanno le Autonomie e gli affari generali, alla terza il Sud. C'è spazio naturalmente per i leghisti e anche in questo caso si tratta di ritorni: Erika Stefani, che in passato aveva ricoperto la casella ora affidata a Carfagna, finisce alla disabilità; a Massimo Garavaglia, già viceministro all'Economia, tocca il turismo; a Giancarlo Giorgetti, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, spetta il Mise, ministero per lo Sviluppo economico. Al netto di Federico D'Incà, grillino, che rimane saldamente ancorato ai rapporti con il Parlamento, e di Enrico Giovannini, già ministro del Lavoro con Enrico Letta e ora destinato a Trasporti e Infrastrutture, gli altri sono new entry. Tra di loro figurano Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale in quota Mattarella, Vittorio Colao, sempre quota Mattarella, Daniele Franco, direttore generale di Bankitalia, Roberto Cingolani e Patrizio Bianchi, quota Prodi. Le novità sono i loro nomi, tutto il resto è già visto e somiglia tristemente a quello che non avremmo più voluto vedere, ossia a un governo che non è né carne né pesce, non è di destra, di sinistra, di centro o grillino e non pare soprattutto di Draghi, ma frutto di una mediazione per contentare un po' tutti e così legare le mani a chiunque, in modo che non si possa tirar fuori. Spiace dirlo, ma le premesse non paiono affatto buone. Il governo non è di Mario Draghi, ma più verosimilmente di Sergio Mattarella, il quale consente il varo di un esecutivo che pare un ircocervo, roba buona per le favole. C'è stato un tempo in cui in questo Paese, per fermare il degrado e soprattutto il voto, qualcuno si inventò il pentapartito e non finì bene. In questo caso hanno messo insieme l'esapartito e noi incrociamo le dita.

Marzio Breda per il “Corriere della Sera” il 13 febbraio 2021. Nessuna euforia, non è da loro. In due hanno semmai l'atteggiamento composto di quella che i romani chiamavano gravitas e che tiene insieme dignità, serietà e senso del dovere così come gli uomini responsabili sanno viverli nei passaggi importanti. E quello che hanno imboccato ieri sera Sergio Mattarella e Mario Draghi è davvero un passaggio difficile, nell' infinita crisi italiana. Così, quando è il momento di congedarsi, all'ora di cena, si stringono la mano con mezzi sorrisi. E poche parole. «Ti ho messo sulle spalle un impegno molto gravoso... Auguri», lo saluta il presidente. «Grazie, di auguri ho bisogno», replica il neopremier con un sospiro. Per il capo dello Stato è un successo. Ha reso possibile una svolta che non aveva alternative, se non lo scioglimento delle Camere e un vuoto di potere di qui all' estate. Invece, in nome della triplice emergenza da cui siamo schiacciati, è riuscito a costruire intorno all' ex banchiere centrale dell' euro un larghissimo equilibrio politico dato per utopico. Almeno fino a una quindicina di giorni fa. Al Quirinale non piace che si evochino mediazioni di Mattarella. Ma ci sono state, com' era fatale per un governo di questa natura. Specie sul fronte politico, perché doveva convincere a mettersi insieme partiti nemici fra loro, chiedendo ciò che Albert Camus suggeriva in tempi di catastrofi: «Lo sforzo di dominare i propri risentimenti». Ci è riuscito, nel solco di quanto sosteneva Labriola quando identificò nel capo dello Stato «un inter-potere, un punto d' incontro» e, sì, anche «di supplenza», quando il sistema rischia di entrare in torsione. Com' è accaduto stavolta. Certo, se metti in campo un player come Supermario, sai che la partita la gioca da solo. Almeno in attacco. E il capo dello Stato lo ha verificato subito nelle scelte di coloro che sono destinati a gestire il Recovery plan, tecnici tutti di «area Draghi», e con un ruolo assai importante per Colao. Pure sul resto della squadra, l' incaricato ha lavorato in solitudine, studiandosi i curriculum di chi gli era segnalato dai partiti e confrontandosi poi con Mattarella, com' è scontato visto che la nomina di una squadra di governo è un potere duale, ripartito tra Palazzo Chigi e Colle. Su due dicasteri in particolare il presidente della Repubblica ha insistito per garantire «continuità»: con Guerini alla Difesa (il capo dello Stato è anche capo delle Forze armate) e con Lamorgese all' Interno (sovrintendere alla sicurezza confina con le sue prerogative). Tuttavia si possono considerare in «quota Quirinale» pure la Cartabia alla Giustizia (perché lui, presiedendo il Csm, è il primo magistrato d' Italia) e gli Esteri. Ministero delicato, la Farnesina, dove Di Maio si è fatto le ossa nell' ultimo anno e senza produrre strappi rispetto alla strategia di rappresentanza dell' Italia. Nessuna obiezione a riconfermarlo.

Ugo Magri per “la Stampa” il 13 febbraio 2021. A Sergio Mattarella è riuscita un' impresa ai limiti dell' impensabile: mettere insieme un governo di persone stimate e rispettabili, con un tasso di competenza del tutto inusuale, guidato dall'unico vero fuoriclasse che all'estero ci viene riconosciuto, e con il sostegno dell' intero Parlamento (tranne i Fratelli d' Italia, che però non vedono l' ora di dare anche loro una mano). Per trovare un altro governo così largamente supportato bisogna risalire addirittura alla «solidarietà nazionale», quarto governo Andreotti, in piena emergenza terrorismo. Il primo a dubitare di riuscirci era Mattarella medesimo. È arrivato a dare forse il meglio del suo settennato quasi controvoglia, con lo stato d' animo di chi avrebbe mille volte preferito che i partiti si fossero messi d' accordo tra loro. Le circostanze hanno costretto il capo dello Stato a spogliarsi della veste arbitrale e a scendere personalmente in campo, insomma a mettersi in gioco correndo i rischi del caso. A cose fatte, può sembrare l'uovo di Colombo: ma le prime reazioni dei partiti alla scelta di Mario Draghi furono quasi tutte negative. L'azzardo del governo presidenziale sembrava destinato a un drammatico fallimento. Dieci giorni di diplomazia quirinalizia, accompagnata dalla paura di tornare alle urne, hanno reso possibile ciò che all' inizio scontato non era. In questo governo, l'impronta di Mattarella è incontestabile. Alcune scelte sono espressamente sue. Sul Colle non si fa mistero che le conferme di due ministri, Luciana Lamorgese all'Interno e Lorenzo Guerini alla Difesa, garantiscono continuità in posizioni chiave per la sicurezza nazionale. Il Quirinale le ha tolte immediatamente dal mazzo, prima ancora che potesse scatenarsi qualche appetito politico. Né ci vuole chissà quale immaginazione per scoprire che la scelta di Marta Cartabia ha radici lontane, risale agli anni in cui l'attuale presidente della Repubblica e la neo-ministra della Giustizia sedevano insieme alla Corte costituzionale. Tutte le altre designazioni sono arrivate da Draghi, il quale ha puntato su una squadra dove alle donne (8 su un totale di 23 dicasteri) è garantita un' appena dignitosa presenza, e ai cosiddetti tecnici viene affidata l' intera gestione del Recovery Fund: scelta palesemente finalizzata a garantire che i grandi investimenti sul futuro del Paese vengano definiti da persone capaci, senza essere piegati a finalità politico-clientelari. Rispetto all' impostazione del Conte bis, si tratta di una svolta per nulla disprezzabile. Chi è stato testimone del parto governativo assicura che Mattarella ha dedicato gran parte delle sue energie non a soppesare col bilancino il dosaggio di poltrone tra i partiti, bensì ad approfondire personalmente gli aspetti di ingegneria giuridica dei due nuovi dicasteri, quello caro a Beppe Grillo per la Transizione ecologica e l'altro del Turismo, destinato a tornare autonomo dai Beni culturali. Eppure non c'è dubbio che il mix tra gli esponenti dei vari partiti corrisponda a un certo meditato equilibrio, cui difficilmente il Colle potrebbe essere considerato estraneo. Anzi, pure in questo caso la mano del presidente si vede eccome. Sono state scelte, in totale intesa con Draghi, figure dal tratto comune di moderazione e concretezza, seconde file capaci di dialogare e potenzialmente fare squadra anche coi vecchi avversari ma, nello stesso tempo, rappresentative: cioè in grado di tenere i collegamenti con i rispettivi leader. «Il difficile inizia adesso», non si fanno illusioni al Quirinale. Dove sanno perfettamente che, come sempre è accaduto in Italia, la «luna di miele» finirà in fretta; né Draghi resterà al riparo dalle critiche più velenose. Tuttavia, ci sono le premesse per bene iniziare e, magari, anche per percorrere un lungo tratto di strada. Quanto lungo? I governi non nascono con una data fissa di scadenza, come se fossero yogurt; a maggior ragione questo, che porta l' etichetta «del presidente». Fino a quando resterà al Quirinale, Mattarella farà di tutto per facilitarne il cammino. È consapevole che il giudizio sulla sua presidenza sarà inscindibile dal successo (o dal fallimento) dell' operazione Draghi. Semmai viene da domandarsi che ne sarà di Super Mario tra un anno, quando l' attuale presidente terminerà il suo mandato. Ecco perché nei palazzi della politica già circola l' ipotesi che, pur di non lasciare il governo dell' emergenza senza uno scudo, Mattarella possa accettare una breve proroga, fino a fine legislatura. L' uomo è contrario, ma chissà...

Da lastampa.it il 12 febbraio 2021. Alle 19 in punto Mario Draghi arriva nel piazzale del Quirinale. L’ingresso, il colloquio  di quaranta minuti con il Capo dello Stato, Sergio Mattarella e l’annuncio che accetta il mandato di formare il nuovo governo che gli aveva affidato lo scorso 3 febbraio il Presidente Sergio Mattarella. Nove giorni di intenso lavoro, doppie consultazioni con i partiti da parte dell’ex presidente della Bce, il confronto con le parti sociali, poi, infine, la lista dei ministri. Una lista concertata con il Colle: un mix tra politici e tecnici. Domani alle 12 il nuovo governo giurerà al Quirinale. Alle 19. 46 Mario Draghi legge saluta con un semplice buonasera e legge la lista dei ministri senza portafoglio: Federico d’Inca (Rapporti parlamento), Vittorio Colao (Innovazione tecnologica), Renato Brunetta (P.a), Maria Stella Gelmini (Affari generali e autonomie), Mara Carfagna (Sud e coesione ter), Fabiana Dadone (Politiche giovanili) Elena Bonetti (Pari opportunità e famiglia) Erika Stefani (disabilità). Massimo Garavaglia (coordinamento turismo), Ministero Esteri Luigi Di Maio, Interno, Luciana Lamorgese, Giustizia Marta Cartabia, Difesa (Lorenzo Guerini, Economia Daniele Franco, Sviluppo Giorgetti, Ministero politiche agricole Stefano Patuanelli, Ambiente (transizione tecnologica),  Roberto Cingolani, Enrico Giovannini (Trasporti) Andrea Orlando Lavoro, Patrizio Bianchi (istruzione) ricerca Cristian Messa, Beni culturali Dario Franceschini, Salute Roberto Speranza, sottosegretario di stato, Roberto Garofoli.

L'ira di Giorgia Meloni: "Il governo Draghi è in mano al Pd". Il timore della leader di Fratelli d'Italia: "L'esecutivo avrà una fortissima impronta di sinistra. Il Pd ha preso il 18% alle elezioni e ora domina ancora più di prima". Luca Sablone, Lunedì 15/02/2021 su Il Giornale. Un "no" annunciato e proposto alla Direzione del partito: Giorgia Meloni non vuole dare sostegno al governo guidato da Mario Draghi, ma si impegnerà a valutare ogni singolo provvedimento per poi decidere se votarlo oppure no. Una linea che, piaccia o non piaccia, trova perfetta coerenza con quanto detto dal principio della crisi di governo: per Fratelli d'Italia l'unica via possibile per dare un esecutivo solido al Paese era quello di sottoporsi al giudizio del popolo. Tuttavia dal discorso del presidente Sergio Mattarella era emerso che il ritorno anticipato alle urne avrebbe presentato più di qualche insidia, e perciò l'ex governatore della Bce ha avviato due giri di consultazioni per incassare l'ok delle delegazioni. La prova del nove è attesa per mercoledì al Senato e giovedì alla Camera: anche se il Movimento 5 Stelle è alle prese con una spaccatura netta al suo interno, i numeri non dovrebbero mancare e - salvo imprevisti - otterrà la fiducia da entrambi i rami del Parlamento. Qui però troverà il mancato appoggio del partito della Meloni che denuncia la mancata discontinuità con il governo precedente, considerato invece l'elemento di maggiore importanza: "Sembra che abbiamo chiamato Mario Draghi per farci dire che i ministri del governo Conte erano i migliori. Sfido chiunque a dire che Lamorgese, Speranza o Di Maio siano il meglio che questa Nazione ha da offrire". Forse il "problema a monte" potrebbe essere l'influenza esercitata dal capo dello Stato al momento della scelta dei ministri: "Se Draghi, come si dice e come continuo a sperare, non è l'uomo del Pd, mi pare l'unica spiegazione plausibile". La leader di Fratelli d'Italia si è detta inoltre "spaventata" di vedere "un esponente della sinistra dem come Andrea Orlando" al Ministero del Lavoro. A suo giudizio questa scelta rappresenta un campanello d'allarme soprattutto sulle materie economiche: "Chi si aspettava un governo che, almeno sulle materie proprie di Draghi, cioè quelle economiche, rompesse con gli schemi della sinistra, non può non essere deluso". Sul fronte del lavoro ha proposto la sospensione del decreto Dignità e la reintroduzione dei voucher ovunque possibile: "Il fatto che tali questioni finiscano in mano alla corrente più nostalgica del Pd non mi fa ben sperare per quei milioni di imprenditori che attendevano un governo amico". La Meloni infine, nell'intervista rilasciata a La Verità, ha sottolineato come sia "irrispettoso della volontà popolare" il fatto che "questo è un governo in mano al Partito democratico", considerando che alle elezioni Politiche ha ottenuto il 18% delle preferenze degli italiani "e ora si trova a dominare ancora più di prima, tra ministri politici e tecnici". "Se Draghi, gli piaccia o no, accetta o condivide questa impostazione (come farebbe pensare la composizione dell'esecutivo), temo che il governo avrà una fortissima impronta di sinistra. A me questa pare la questione principale", è il timore della presidente di FdI.

L'esecutivo Draghi riporta gli anni Novanta. E tecnici tutti di centrosinistra.  Lorenzo Castellani su Panorama il 15/2/2021. Visto in filigrana il governo Draghi ci mostra scommesse, regolarità ed incrinature del sistema politico italiano. Il fatto politico più rilevante di questa fase è senza dubbio l'ingresso della Lega in maggioranza e al governo. Quella della dirigenza leghista è una scommessa sulla possibilità di essere riconosciuti come forza di governo stabile e non pericolosa per la vita della moneta unica. L'obiettivo di lungo periodo è quello di diventare un partito di destra di sistema facendo da contraltare al Partito democratico sia nei tavoli internazionali che nelle profondità dello Stato. Questo è quello che tutti hanno notato e che ha gettato nello scompiglio gran parte della sinistra, costretta ad allearsi con l'odiata destra per mantenere il governo e a rinunciare al principale strumento di delegittimazione dell'avversario, ossia l'accusa di estremismo. Tuttavia, il partito di Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti esprime anche una rappresentatività dell'Italia settentrionale che era stata negata dal Conte bis. La Lega, e Draghi lo ha palesemente riconosciuto nella assegnazione dei ministeri, ha il compito di rappresentare le piccole-medie imprese ed il settore del turismo nel governo. Poter provare a difendere concretamente i piccoli produttori e gli esercenti in un momento così difficile non è ruolo di poco conto. La Lega deve avere sostanzialmente tre priorità: ristori adeguati nella quantità e nella qualità; riduzione del carico fiscale sulle imprese, oltre ad evitare che gli imprenditori vengano stritolati nel nome della lotta all'evasione; e progetti infrastrutturali che possano essere sfruttati dai Comuni e dalle Regioni dove governa. Tutto questo si può fare, senza bagni di sangue sul piano del consenso, ma in un orizzonte di tempo limitato. L'inizio del 2022 è quasi certamente il punto dove fermarsi. Anche perché, e qui passiamo alle regolarità, il centrodestra di governo difetta dell'alleanza dei tecnici, strategici per questo governo. Anche quelli scelti da Mario Draghi, molto probabilmente con la compartecipazione del Quirinale, sono tutti riconducibili politicamente alla vecchia maggioranza giallorossa. Non c'è nessun ministro tecnico dall'area di centrodestra. Una debolezza che avvalora ancor di più la tesi che l'esperimento debba essere di scopo e limitato nell'orizzonte temporale. Questo stato di minorità del centrodestra, tuttavia, dipende da due fattori. Da un lato c'è l'egemonia culturale del centrosinistra sui gangli dello Stato, che rallenta la circolazione delle élite, aumenta il conformismo, diminuisce la capacità di adattamento a nuovi scenari e, soprattutto, mina la legittimazione delle istituzioni del governo centrale, spesso percepite dalla maggioranza degli italiani come partigiane ed indegne di un pieno riconoscimento. Dall'altra c'è l'incapacità del centrodestra di avvicinare quei gruppi sociali (magistrati, funzionari, manager, alti burocrati, diplomatici) per renderli meno avversi alla propria parte e l'ingenuità nel credere che il consenso si traduca automaticamente in governo. Draghi, spinto da Silvio Berlusconi alla Bce, è stato per certi versi l'eccezione che conferma la regola. Ed è infatti l'unico tecnico capace di riunire centrodestra e centrosinistra. In questa ottica, l'elezione al Quirinale tra un anno di questo podestà che ha pacificato trasversalmente la classe politica potrebbe essere la migliore soluzione per il Paese seppure vi è da scommettere che il percorso di successione a Mattarella non sarà così automatico e lineare. Da ultimo, la composizione della maggioranza e dell'esecutivo mostra anche le incrinature del sistema politico italiano. Alcune molto evidenti come il perenne stato di emergenza della politica, l'auto-commissariamento dei partiti, l'ascesa di tecnici per rimpiazzare l'irresponsabilità politica, l'incapacità assoluta di riformare le istituzioni, altri invece che si muovono più in profondità. Tra questi ultimi c'è lo scarto generazionale del partito trasversale delle istituzioni. Da Giorgetti, Berlusconi e Brunetta, da Franceschini, Gentiloni e Bianchi fino allo stesso Draghi, al suo braccio destro Garofoli e al ministro dell'economia Daniele Franco traspare come l'ossatura della Repubblica poggi ancora su quella classe dirigente formatasi negli anni Novanta. I trenta-quarantenni emergenti allora sono i tessitori dell'accordo di oggi. Ciò nonostante lo straordinario ricambio politico degli ultimi anni, che invece tanti trenta-quarantenni di oggi ha portato al vertice della politica. Questo stato di cose dovrebbe far riflettere sullo scenario desolante che abbiamo di fronte e cioè che la cosiddetta seconda Repubblica ed i suoi strascichi antipolitici sono stati incapaci di formare una classe dirigente variegata e in grado di farsi carico delle sfide del Paese. Sono stati generati nuovi politici mediocri, ma non una nobiltà di governo. È questo un grosso motivo di preoccupazione per il futuro perché chiunque conosca un po' di storia sa quanto conti la continuità nel gestire la Ragion di Stato. Un segno che i filtri funzionali per selezionare la classe dirigente italiana funzionano sempre peggio e che un pezzo consistente dei giovani migliori preferisce altre attività alla politica o addirittura emigrare altrove. Viene da chiedersi cosa succederà, vista la consunzione del sistema politico e la già persistente debolezza dello Stato, tra qualche anno quando la vecchia ossatura andrà fisiologicamente all'esaurimento. O forse sarebbe meglio evitare di farsi certe domande, considerate le avvilenti prospettive di risposta, e sperare che almeno questo ennesimo stato di eccezione possa fornire una proroga per rigenerare la classe dirigente.

DAGOREPORT il 14 febbraio 2021. Governo "Dragarella" (copy Travaglio), il giorno dopo. Gran casino nel Partito Democratico. In un primo tempo, quel marzullo di Zingaretti aveva pensato (si fa per dire) di portare una femminuccia nell’esecutivo, la vispa Debora Serracchiani che, come Presidente della commissione Lavoro della Camera, era perfetta al dicastero del Lavoro. Ma visto il bordello tra le varie correnti, per pararsi il culo ha indicato a Draghi uno dei capetti dell’Armata Brancaleone dem, l’irresistibile Andrea Orlando con la sua boccuccia a culo di gallina. Smorfia di dolore anche sul volto accidentato di Su-Dario Franceschini, altro potente capocorrente, confermato sì alla Cultura ma "demansionato" con lo scippo del ministero del Turismo finito nelle mani del leghista “giorgettiano” Massimo Garavaglia. L’esponente di punta di Base Riformista, il pio Lorenzo Guerini, è rimasto alla Difesa anche se Mattarella aveva condiviso con Draghi una perplessità: il fatto che l’ambasciatore americano in Italia, Lewis Einsenberg, in un rapporto indirizzato a Washington aveva scritto che Guerini era uno dei ministri più fedeli al pensiero (eufemismo) di Donald Trump. Ma era solo un equivoco a causa del vezzo di tutti i nostri ministri che quando ottengono udienza dagli ambasciatori Usa in Italia, di solito ricchi imprenditori che vengono ricompensati per aver finanziato la campagna elettorale del presidente in carica a Washington, si presentano da perfetti provinciali sempre in ginocchio e supersalivati. Solo Cossiga e Craxi se ne sono sempre fregati sapendo benissimo che a comandare a Villa Taverna sono sempre i numero 2 perché tradizionalmente Washington inviava diplomatici di alto rango solo nelle capitali che contano (Mosca, Berlino, Parigi, Londra) riservando ai paesi di serie B (Italia, Spagna, Portogallo) imprenditori milionari in vacanza come premio della loro generosità. Deluse anche le aspettative di Delrio, che però non fa parte integrale alla corrente Base Riformista di Marcucci-Guerini-Lotti, ma ricoprendo il ruolo di capogruppo alla Camera, quel semolino di Zinga ha avuto paura di smuovere la palude dem, essendo votato dai parlamentari. A pezzi anche l’autostima del super contiano Boccia che, dopo aver sbirciato l’oroscopo, era certo di essere riconfermato ministro degli Affari Regionali ed è stato messo da parte per far posto addirittura a quel genio di Maria ‘Strega’ Gelmini. E il marito (per mancanza di prove) di Nunzia Di Girolamo è un pezzo importante per Zinga in quanto controlla la Puglia di Michelone Emiliano. Altra anima in pena è Robertino Gualtieri che ha ballato un sol governo e nel Pd lo consolano perfidamente dicendogli che ha pagato la sua sudditanza alla Pochette con le unghie (spuntate). Comunque l’ex inutile ministro dell’Economia avrebbe rifiutato la proposta di Zinga di candidarsi alle comunali di Roma. Con l’arrivo di Daniele Franco a Via XX Settembre, traslocherà anche il potente capo gabinetto di Gualtieri, il jazzista Luigi Carbone, detto “Carboncino”. E Bettini, l’ideologo del Conte Ter, che fa? Fa le valigie per la Thailandia? Dalla padella dei Dem alla brace dei 5Stelle. La fronda sta crescendo a dismisura. I puri e duri alla Lezzi e Dibba non vogliono far felice Di Maio e Grillo rompendo con il movimento ma vogliono far casino, tanto casino. Dicono i "ribelli": ma come, eravamo riusciti a cacciare Daniele Franco, che conti alla mano da Ragioniere Generale aveva bocciato il Reddito di Cittadinanza, e l’enricolettiano Roberto Garofoli alla presidenza del del Consiglio, ed ora sono i due uomini più vicini a Draghi. Si sbracciano gli "scappati di casa": è stata silurata la mito-illogica Azzolina che la scorsa estate si sollazzava scontrandosi con i banchi a rotelle con Arcuri e al suo posto c’è un suo ‘’dipendente’’ al ministero dell’Istruzione Patrizio Bianchi, un prodiano in modalità Enrico Letta, già pluri-assessore con Bonaccini. Che appena ha aperto bocca si è subito imballato con il congiuntivo: e questo lo chiamano tecnico! Ancora: avevamo Bonafede alla Giustizia, Spadafora allo Sport, Fraccaro sottosegretario alla presidenza del Consiglio; ora abbiamo quattro dicasteri che contano poco o niente, perché con Draghi la politica estera sarà cosa sua e Di Maio ancora deve terminare il corso per corrispondenza di inglese; l’esangue Patuanelli è irrilevanti perché è da un pezzo in quota Conte Casalino; D’Incà ai rapporti con il Parlamento e la Dadone alle Politiche Giovanili? Servono ma non apparecchiano. Mentre l’Elevato li manda a quel paese (“Serve la transizione cerebrale”), gli descaminados vogliono convincere Casaleggio di “rifare la votazione su Draghi sulla piattaforma Rousseau”) ma soprattutto votare subito per il Direttorio e per il nuovo capo politico. Da parte sua, in camera caritatis, un Beppe Grillo con le orecchie abbassate ha già detto ai fedelissimi Fico e Di Maio che l’obiettivo futuro dei 5Stelle sarà di racimolare alle prossime elezioni il 10%: col sistema proporzionale è sufficiente per essere determinanti. Amen. Gran baraonda anche in Forza Italia. Su tre dicasteri, irrilevanti perché senza portafoglio (cioè di spesa), due sono andati a Mara Carfagna, Maria Stella Gelmini e Renatino Brunetta, tre esponenti da sempre in conflitto con l’ala filo-salviniana di Ghedini-Ronzulli-Tajani. Infatti i nomi suggeriti erano appunto Tajani (che aspirava agli Esteri!), Bernini con le sue parrucche preferite e l’indomabile Licia Ronzulli. Ma i poverini non avevano fatto i conti con l’eminenza azzurrina Gianni Letta, da sempre in buoni rapporti con Draghi e Mattarella, e l’ala “sovranista” di Forza Italia è restata a bocca asciutta. Anche per il rottamatore di Conte ora iniziano i mal di pancia. L’inversione a EU di Salvini ha sparigliato il quadro politico ma soprattutto ha messo in crisi il piano di espansione di Renzi, convinto di essere l’unico erede centrista ed europeista di Berlusconi. Ora l’ex Truce ha un anno davanti di tirocinio per ritornare vergine in Europa divorziando dal sovranismo d’antan di Marine Le Pen e dei tedeschi di AFD, cosa che porterà a compimento una volta che la CDU di Angela Merkel accetterà la Lega nel Partito Popolare Europeo. Dato il precario stato fisico dell’ottuagenario Banana, Renzi ha i giorni contati, prima che scatti il semestre bianco, per riuscire a ottenere dal patriarca di Arcore la corona di Forza Italia. Anche perché una volta messo in sicurezza il Recovery Plan e fatta la finanziaria del 2021, Draghi potrebbe girare i tacchi. Anche in casa Lega serpeggia nervosismo. Salvini ha dovuto accettare la bocciatura dei suoi fedeli Montanari e Romeo a favore di due esponenti del “Partito del Pil”: Massimo Garavaglia al Turismo, nemico giurato dei Borghi e dei Bagnai, Erika Stefani in quota Zaia e Giancarlo Giorgetti, in quota Draghi. Quando Super Mario ha parlato di un ministero importante con portafoglio di spesa (il ministero dello Sviluppo), Salvini ha chiesto un "atto di fedeltà" a Giorgetti. Salvini deve anche risolvere qualche problema con Attilio Fontana, incazzatissimo per come è stato silurato l’assessore alla Sanità Gallera: con un secco comunicato partito da via Bellerio. Non solo: Fontana non si sente difesa dal suo partito; anzi, ha già l’impressione di essere stato "commissariato" dallo sbarco in pompa magna di Mestizia Moratti, sicura candidata alla presidenza della Regione Lombardia. 

Concita De Gregorio per "la Repubblica" l'11 febbraio 2021. Alla voce "coerenza" quello che segue è un dettaglio, mi rendo conto, e d' altra parte in politica la coerenza è una palla al piede che impedisce i virtuosismi a cui stiamo assistendo in cinemascope. Comunque. Siccome succede di incagliarsi nelle minuzie, mentre Grillo garantisce che Draghi è «uno di noi» e Salvini cita il Financial Time , mi sono concentrata sulle elezioni suppletive di Siena. Una piccola cosa, l'ho detto. Pare che "da Roma" qualcuno abbia pensato di candidare Giuseppe Conte per il seggio lasciato vacante da Pier Carlo Padoan, chiamato alla guida di Unicredit. Conte, nel frattempo indicato come prossimo leader del M5S - o almeno di una parte, vedremo in quante comete si articolerà la galassia - sarebbe il "suggello" dell'alleanza fra Pd e grillini. Apriti cielo.

Zingaretti: le alleanze «si decidono nei territori». Simona Bonafè, segretaria del Pd toscano: «Una candidatura calata dall' alto» offenderebbe i talenti del Pd senese. Luca Lotti propone per esempio Caterina Orlandi, figlia dell' ex compagna di David Rossi, capo della comunicazione Monte dei Paschi morto in circostanze misteriose assai. Non lo vogliono, un romano nato pugliese. Vogliono uno del posto. Ora andiamo a Pier Carlo Padoan, che lascia il seggio. Nato a Roma da famiglia piemontese, cresciuto a Milano e poi nel mondo, già consigliere economico di D' Alema e Amato, in seguito ministro dell' Economia con Renzi e Gentiloni. Quando Renzi lo chiamò al governo era a Sidney per lavoro. Non fu, mi pare, candidato a Siena come espressione della Val d' Orcia. Ma va bene, torniamo al voto sulla piattaforma Rousseau. Era tanto per dire.

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Una ferita che brucia, e non solo alle donne del Pd. Ascoltando la lista dei ministri, è stato Zingaretti per primo a rendersi conto che a sinistra erano tutti maschi. Lasciato al buio da Draghi, il segretario dem sperava che - al netto delle manovre dei capicorrente - la sua richiesta di rispettare «il valore della differenza di genere» avanzata in Direzione, avrebbe trovato orecchie più attente. E invece lo spettacolo offerto al Paese di una destra che premia le donne (due su tre Fi, una su tre la Lega) e di un centrosinistra che le mortifica (quattro uomini su quattro, Leu inclusa) è stato devastante. Una valanga rosa s' è staccata dal Nazareno, obbligando Zingaretti alla contromossa: se sui sottosegretari il premier darà libertà ai partiti, lui indicherà solo donne. E pazienza per i delusi: citofonassero ai capibastone, nel frattempo diventati ministri. «Non credo accadrà, ci sono troppi aspiranti. Se però lo facesse, sarebbe un bel segnale: la prova che Nicola vuol finalmente far saltare gli equilibri di corrente», reagisce Lia Quartapelle, una delle deputate più infuriate. «Il nostro statuto prevede metà delle cariche per le donne », spiega. «Se ci fossimo comportati come Forza Italia oggi avremmo un governo con dieci ministre e tredici ministri, in linea con la rappresentanza di genere a livello europeo ». Perciò «Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti». Concorda Laura Boldrini: «Occorre scardinare l' assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento». Ma per Marianna Madia la questione è un' altra: «Le donne del Pd hanno un problema di leadership, che non si ottiene per concessione, ma si esercita con battaglie sulla linea politica. Se la risposta sarà la spartizione di qualche posto da sottosegretario resteremo al punto di partenza. Forse peggio », taglia corto l' ex ministra, criticando la gestione "machista" della crisi. È questo il nodo da sciogliere: le donne dem che vanno avanti solo per cooptazione, sperando di arrivare prima e meglio. «Si sono illuse che funzionasse essere "in quota" a capicorrente o inserite per prossimità, anziché per competenza o consenso », annuisce Debora Serracchiani. E guarda adesso: «Per la prima volta il Pd al governo non ha una rappresentanza femminile». E la colpa «non è semplicemente degli uomini, anzi», spiega Anna Ascani: «Spesso ci siamo relegate in correnti a guida maschile per comodità. Abbiamo lasciato che fossero gli uomini a "indicarci" in ruoli di responsabilità secondari. Abbiamo schernito chi di noi provava ad emanciparsi. Forse quanto è successo ci permetterà di cambiare passo». Brutalizza Monica Nardi, ex portavoce di Enrico Letta, segnalando «la corsa al tweet sdegnato delle donne pd, tutte inquadrate in correnti rette da uomini, cooptate senza un voto che è uno. Fatela la politica, scalateli i partiti, prendeteli i voti». Eccolo il punto: è arrivato il momento di esporsi, di lanciare la sfida alla segreteria, quando sarà. Prendendosi nel frattempo il posto di vice-leader che Andrea Orlando dovrà lasciare e poi uno dei due capigruppo in Parlamento. La controffensiva verrà lanciata già domani, alla Conferenza delle democratiche convocata «per decidere come agire». Perché «la misura è colma», sbotta la presidente Valentina Cuppi, scagionando però Zingaretti: «Il più scontento è lui, la scelta dei ministri l' ha fatta Draghi». Che ha pure suscitato «la profonda delusione » della rete "Donne per la salvezza". Mentre nel Pd resta l' amarezza per un' esclusione che, segnala Orfini, «non è un problema solo delle donne, ma di tutto il partito».

Mario Ajello per “il Messaggero” il 15 febbraio 2021. Tocca purtroppo citare ancora una volta Marx e la sua frase sulla storia che si ripete come farsa. Ma proprio a cento anni dalla scissione del 1921, che diede inizio al Pci, ora al posto di Gramsci nell' ennesima scissione della sinistra c' è Nicola Fratoianni. Leader vendolista o svendolato di un micro partito (come si chiama? qualcuno lo ricorda? ah, Sinistra Italiana) che nacque da una mini scissione da una forza politica già nata da una scissione e risalendo lungo le scissioni a catena e scissioni si arriva a Bertinotti ma anche al pre-bertinottismo e al post-bertinottismo con il rischio del giramento di testa. Insomma Fratoianni molla Leu con cui aveva fatto capanna perché i giudizi sul governo Draghi non combaciano. Le percentuali del partito lasciato e del partito lasciante sono minuscole (ma Leu ha Speranza, e un ministro conta) e però il tic sinistrese della scissione dell' atomo è quello che conta nel fallimento di ogni altra cosa. E resta solo questo: il duecentomilionesimo ciaone tra compagni.

Il governo Draghi ha già spaccato la sinistra. Ecco come il nuovo esecutivo stravolge tutto. Leu si divice tra chi voterà la fiducia (Articolo 1) e chi invece voterà contro (Sinistra Italiana). E si velocizza la creazione di un movimento con ex 5 Stelle e De Magistris. Carmine Fotia su L’Espresso il 15 febbraio 2021. Non è un big bang,  ma neppure un innocuo petardo. Diciamo che si tratta di un piccolo ordigno che però lancia schegge e frammenti in tutte le direzioni. Parliamo dell’esplosione di Leu: Roberto Speranza (Articolo 1)  vota sì al governo Draghi e punta a rientrare nel Pd ; Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana), con il suo piccolo bacino di voti, fa invece rotta verso una neo-galassia radicale che potrebbe comprendere fuoriusciti grillini, il movimento di De Magistris e altre micro-formazioni. Una sorta di Rivoluzione Civile 2.0 senza la zavorra di un leader come Antonio Ingroia e sotto la leadership di un Masaniello populista che sa conquistare il consenso, come Luigi De Magistris (tutti sanno che lì si finirà ma non lo ammettono neppure sotto tortura). L’obiettivo non sarà quello di costruire “un quarto polo, ma una presenza più forte in una coalizione con Pd e M5S”, dice Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Che motiva il suo no a Draghi: “È un governo più spostato a destra e verso il nord. Sarebbe insano lasciare alla destra di Giorgia Meloni il monopolio dell’opposizione, anche in termini di equilibri parlamentari. Certo, quanto accaduto sembra accelerare una spinta presente da tempo in Art.1 al ritorno nel Pd. Però noi, a differenza di altri, non prenderemo provvedimenti disciplinari verso chi, contravvenendo al voto massiccio della nostra assemblea nazionale, ha deciso di  votare sì”. “Dobbiamo ragionare  in una logica diversa – argomenta invece Sandro Ruotolo, giornalista sotto scorta, già candidato con Antonio Ingroia nel 2013, nel 2020 eletto senatore nel collegio di Napoli 7 con una coalizione larghissima dal M5S a Italia Viva, che non è di Leu, ma con Loredana De Petris, capogruppo del Misto, ha partecipato alle consultazioni al Quirinale -  e rispondere al drammatico appello del capo dello Stato. È un governo di emergenza, per affrontare pandemia, vaccini, recovery. Sono stato eletto come indipendente di centrosinistra e quindi cerco di rappresentare tutti. Non è il momento di pensare alle forze politiche”. Forse non sarà il momento, ma è un fatto che lo Tsunami Draghi ha prodotto effetti concatenati, per cui anche il destino di micro-partiti può assumere un senso se si  collega a processi più vasti. Una calamita (o una calamità, dipende dai punti di vista) può essere proprio l’ex-sindaco di Napoli che si candida a guidare la Calabria. Qui, dopo la scomparsa della presidente Jole Santelli e la decapitazione per via giudiziaria dell’ex-presidente dem Mario Oliverio (prosciolto da ogni accusa ma fuori dai giochi) la partita sarà tra recordman di consenso: Natale Irto per il Pd, Mario Occhiuto del centrodestra e Luigi De Magistris che ha già attratto nella sua orbita l’icona della sinistra radicale, l’ex-sindaco di Riace, Mimmo Lucano e l’ex-capo della protezione civile Mario Tansi. Sarà dunque una battaglia casa per casa, voto per voto e la lista di De Magistris sarà certamente competitiva: “Il Pd candida Irto senza aver consultato nessuno. Noi decideremo insieme alla rete di Calabria Aperta, ma a me sembra che la candidatura di De Magistris sia più vitale e in grado di determinare una nuova dinamica”, dice Fratoianni. Massimiliano Smeriglio, europarlamentare, ex vice-presidente della regione Lazio con Zingaretti, esponente di spicco dell’area civica della sinistra romana è contrario al governo Draghi e molto critico sulla conduzione della crisi da parte del Pd: ”Che la Calabria diventi o no un laboratorio non so. Quel che è certo è che c’è un’area di sinistra che starà fuori da un governo che mette insieme europeisti e sovranisti di destra (impensabile nella Germania della Merkel) e che dovrà trovare il modo di coordinarsi e aggregarsi, per rilanciare la coalizione. E quindi con persone come De Magistris bisogna parlare”.  Tutti dichiarano che comunque resteranno nell’ambito della fantomatica Alleanza per lo Sviluppo sostenibile guidata da Giuseppe Conte: “Per noi va bene, ma bisogna chiedere al Pd che non l’ha voluto candidare a Siena”, dice Fratoianni. “Conte? Candidatura stravalida, mi fido di lui”, aggiunge Ruotolo. Il fatto è che, per adesso, nel principale bacino elettorale dell’alleanza che è il Sud convergono fattori di crisi e divisione, diversi tra di loro, ma tutti letali perché estranei a tale prospettiva come De Magistris in Calabria e Antonio Bassolino a Napoli. In aggiunta,  il ministero per il Sud  che in tempi elettorali è una straordinaria risorsa di potere da mettere sul piatto, passa dalle mani di Peppe Provenzano (Pd) a quelle di Mara Carfagna (Forza Italia).

I due partiti già sconfitti da Draghi. Corrado Ocone, 13 febbraio 2021 su Nicolaporro.it. Nella partita del governo Draghi perdono un po’ tutti, e quindi forse nessuno. O meglio, si spera che vinca l’Italia. Ci conforta però che due sicuri e netti perdenti ci siano già: uno forse ancora da verificare, e cioè in prospettiva, ed è il cosiddetto “partito dei giudici”, i giustizialisti alla Travaglio-Bonafede per intenderci; l’altro, già sicuro ed evidente, è il partito degli intellettuali di sinistra, quelli che fanno tendenza e piacciono alla gente che piace. Diciamo che in genere, sulla lunga distanza (magra consolazione!), non ne hanno mai azzeccato o vinta una. Questa volta però il ko sembra definitivo. E il silenzio assordante dei Saviano, Murgia, Urbinati, Di Cesare (ma parleranno presto statene certi!), è a dir poco significativo. L’intellettuale tipo, come è noto, non può vivere senza un nemico da additare al pubblico ludibrio e rispetto al quale ergersi a “moralmente superiore”. Con esso non vuole confrontarsi sulle idee, o con gli interessi concreti che maturano nella storia e nella lotta politica, ma vuole semplicemente eliminarlo dall’agone pubblico, non dargli nemmeno le credenziali per accedervi. Egli chiama questo nemico “fascista”, dimenticando che quel fenomeno storico è bello e sepolto da più di settanta anni e che quella dell’“emergenza democratica” in Italia è stata una favola bella e buona su cui loro hanno campato per tanti anni. A forza di gridare contro i “pieni poteri”, o l’”uomo solo al comando”, a forza di esaltare acriticamente la “Costituzione più bella del mondo”, questi intellettuali, tranne poche eccezioni (penso a Giorgio Agamben), si sono non solo trovati impreparati e silenti ma hanno addirittura avallato quei poteri e quella insensibilità per le forme democratiche quando si sono appalesate davvero e dalle loro parti. Emblematico il manifesto che molti di loro firmarono a difesa del premier uscente Giuseppe Conte e che uscì il primo maggio dell’anno scorso su Il Manifesto. Che la gestione della pandemia fosse fatta al limite e probabilmente oltre la costituzionalità, per loro, per queste vestali della Costituzione, per la prima volta non era un problema. L’importante era che il governo Conte tenesse a freno il “fascista” di turno, che era diventato Matteo Salvini. Ora, il “razzista” Salvini è nella maggioranza di governo, a cui dà quell’impronta di pragmatismo e sviluppismo che è proprio della sua Lega. E nel governo Draghi c’è anche l’altro “fascista”, quello precedente, Silvio Berlusconi. Che marca la sua presenza con due donne ministro su tre, mentre i “compagni” presentano una squadra tutta al maschile. Chi si ricorda più delle infamanti accuse di “sessismo” rivoltegli da Sabina Guzzanti in Piazza Navona venti anni fa? Fra l’altro, certe accuse non si sono mai fatte scrupoli a sinistra ad offendere le donne, se sono di destra. E lo stesso forse capiterà, anzi ce ne è stata già qualche avvisaglia, ora che è all’opposizione, alla “fascista” Giorgia Meloni (fra l’altro unica leader donna di un grande partito in Italia e leader del suo gruppo in Europa). Dopo questa botta, gli intellettuali di sinistra probabilmente se ne inventeranno di nuove. Sarebbe più opportuno invece che si rinchiudessero nelle loro stanze a studiare, e producessero libri più di sostanza e meno banali rispetto a quelli che hanno pubblicato in tutti questi anni. Con la compiacenza dei media e con l’irriflessività diffusa nel “ceto riflessivo”. Sempre, il che è da vedere, che ne siano capaci. Corrado Ocone, 13 febbraio 2021

Mario Draghi e Nostradamus: le centurie avevano previsto tutto? Notizie.it il 13/02/2021. Nostradamus aveva davvero previsto l’arrivo di Mario Draghi, il Coronavirus e la guerra? Le centurie ci svelano dettagli sorprendenti. A distanza di secoli Nostradamus continua a far parlare di sé grazie alle innumerevoli profezie che ci raccontano gli eventi salienti che hanno sconvolto il mondo di oggi. Non solo il Coronavirus che ha lasciato nella nostra società un segno indelebile, ma anche la guerra e soprattutto l’avvento di Mario Draghi grazie ad una profezia relativa alla Madonna di Garabandal conosciuta come la Fatima spagnola. A riportare le centurie Matteo Ciuffreda che in un’esclusiva a MeteoWeb ha analizzato punto per punto le profezie relative a Draghi in questo senso. Nostradamus aveva davvero previsto il Coronavirus, la guerra e Mario Draghi? Cosa ci dice il noto profeta sull’avvento dell’ex presidente della BCE e nuovo premier italiano? Alcune centurie interpretate da Matteo Ciuffreda a MeteoWeb ci svelano diversi retroscena relativi ad alcuni dei più importanti eventi che hanno scosso il mondo negli ultimi anni. Non solo guerra e Coronavirus, ma persino alcune centurie farebbero “riferimenti all’attuale nomina del professor Draghi a Presidente del Consiglio dei Ministri“. In particolare Ciuffreda ha analizzato delle quartine relative alle apparizioni della Madonna di Garabandal avvenute tra il 1961 e il 1965. Tali profezie parlano di un evento che sarebbe durato per circa 600 giorni: “Garabandal è detta anche la Fatima spagnola, e collegata secondo mie ricerche a Medjugorjie. La mia attenzione durante questo mese è partita dall’analisi del termine “Dragon” in francese, e Draco in latino, lingua usata anche dal veggente provenzale Michel de Notredame”. L’esperto ha poi aggiunto: “Il Drago è presente in tantissimi racconti mitologici medievali, da Ladone in Grecia, il Dio serpente Maya Quetzalcoatl, Niohogge nella mitologia norrena, Drag-ayami nell’indiano antico. Lo troviamo anche come il Serpente Uroboro, dalla lingua copta “Ouro” uguale Re, e “Ob” uguale “Serpente/Drago”.

Governo Draghi, il Mezzogiorno non pianga: pochi ministri del Sud? Perché la polemica è sterile. Pietro Mancini su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2021. "Governo, la questione Sud", ha titolato, ieri, Il Mattino, per sottolineare la netta prevalenza, nel governo Draghi, dei ministri del Nord : bel 18, solo 6 da Firenze in giù, 2 campani, Mara Carfagna e Gigino Di Maio. Insomma, l'Italia di Mario Draghi si è fermata a Potenza. E, dal governo con più siciliani della storia della Seconda Repubblica, si è passati a quello con zero. Con la programmazione del Recovery Fund, e l'intenzione dell'Ue di destinare molti soldi alle regioni meridionali tale elemento potrebbe contribuire ad allargare, ancora di più, il gap tra Nord e Sud. Da non sottovalutare, tuttavia, la nomina di Antonio Funiciello a capo di gabinetto di Draghi. È di Caserta, ha 45 anni, è pubblicista, si è laureato in Filosofia, all'Università Federico II di Napoli. Nella Lega, stavolta, ha subito una frenata l'intenzione di Salvini di trasformare il Carroccio in un partito nazionale e ha prevalso la linea nordista di Giorgetti. Ma, per far ripartire il Mezzogiorno, gli imprenditori, i politici, la società civile del Sud non devono limitarsi a postulare con i cappelli in mano, nuovi fondi. Ma dimostrasi oculati, e non dissipatori, nella spesa. Sinora, la politica è stata troppo lontana dalle strade e dai vicoli, dai problemi concreti della gente. La protesta per i pochi ministri meridionali è sterile se il Mezzogiorno si rassegna a convivere con i propri vizi e non riesce a liberarsi di una classe dirigente, non solo politica, modesta, parolaia e non credibile. E non archivia il clientelismo, liberandosi dagli inquinamenti dei poteri criminali. Purtroppo, a Napoli, ma anche a Reggio Calabria e in altre grandi e piccole città del Sud, il popolo non ha reagito, sinora, con efficacia, alla malapolitica e alla malasanità. Nelle campagne elettorali, si sentono annunci di storiche trasformazioni, mai attuate, anche a causa dell'indifferenza e della rassegnazione dei cittadini. A Napoli, alle ultime amministrative, ha votato meno della metà degli elettori...

Il leader del Carroccio vuole dotarsi di spessore “nazionale” avvalorando alcune specifiche problematiche del Sud. E punta su Ilva e Ponte sullo Stretto. Carlo Fusi su Il Quotidiano del Sud il 16 febbraio 2021. La “conversione” europeista fa più scena. E difatti è su quella che si sono fiondati giornali e tv per sottolineare una giravolta in grado di suscitare diffidenza e scetticismo. Può essere. Ma grattando la vernice della propaganda (di tutti) c’è anche un’altra dimensione che Matteo Salvini, nell’aderire al tentativo di Mario Draghi di mettere insieme una nuova maggioranza e un nuovo governo accogliendo l’invito di Sergio Mattarella, ha messo in campo. Ed è la prosecuzione della mission di dotarsi di un profilo e di uno spessore non più legato – ma nemmeno ripudiandolo, perchè sarebbe autolesionistico – solo al profondo Nord, alle sue esigenze, alle sue necessità, alla sua rappresentanza. Cercando in questo modo di continuare nello sforzo di dotarsi di uno spessore “nazionale”, che dunque tenga conto e anzi avvalori anche alcune specifiche problematiche del Mezzogiorno. Di conseguenza la casualità non c’entra nulla se, nel mentre contestava l’annuncio di chiusura degli impianti sciistici e il lockdown prospettato da Walter Riccardi, il leader leghista è andato da Lucia Annunziata per spiegare che uno dei dossier più caldi e delicati, nonché irrisolti, del governo Conte, ossia l’Ilva, può essere affrontato e condotto in porto col via libera al Ponte sullo Stretto. Che potrà assorbire la produzione di acciaio dell’azienda siderurgica tarantina, continuare a garantire l’occupazione e dotare l’Italia di una infrastruttura potenzialmente finanziata per intero dal Recovery plan. Non è solo una mossa mediatica, di sapore propagandistico. Già all’uscita dalle consultazioni con Draghi, infatti, Salvini aveva voluto sottolineare l’accento messo nel faccia a faccia col presidente incaricato sui cantieri, sull’importanza del loro sblocco, sulla potenzialità della ripartenza industriale: ossigeno puro per un Paese che ha visto il Pil tagliato di 10 punti. E a lista dei ministri ufficializzata, considerare un successo frutto della sua insistenza, il fatto che il presidente del Consiglio abbia acconsentito a dare uno spessore specifico e più concreto al ministero del Turismo. Comparto che assicura qualcosa intorno al 12-15 per cento del Pil e che, per forza di cose, non può essere ristretto solo agli impianti del Nord. Turismo significa per milioni di turisti le spiagge e le attrattive del meridione d’Italia. Significa anche qui favorire la rete infrastrutturale con porti e ferrovie, vuol dire far riprendere a correre un volano decisivo per lo sviluppo e la crescita di tutto il Paese. Ovviamente la cautela e la prudenza rispetto alle “conversioni” è obbligata. Tuttavia non c’è dubbio che nella crisi di governo Lega e FI abbiano giocato con meno pesi e più scatto dei partiti che sostenevano la maggioranza giallorossa. Compito facilitato dal fatto di essere all’opposizione, di non dover difendere assetti precostituiti. Però aver compreso che l’arroccamento stile Meloni non funzionava è un valore aggiunto, una mossa politica da non trascurare. Ma appunto. Mentre “l’europeismo” salviniano è oggettivamente una novità, la voglia di sfondamento al Sud si inserisce nel solco della conferma di un percorso obbligatorio se il Capitano intende sul serio far diventare il Carroccio forza di governo e lui aspirare a palazzo Chigi. Senza l’Europa è un disegno temerario; senza il Mezzogiorno pura chimera. Certo non è facile. I tempi del trionfo alle europee sono lontani, l’ombra del Papeete ha oscurato la marcia impetuosa nelle urne. Quando, per intenderci, la Lega passò dall’impalpabile 0,8 delle Europee precedenti al 6,2 delle Politiche 2018, per toccare il Paradiso del 20 per cento o giù di lì nel 2019. Un travaso di consensi provenienti soprattutto dal M5S, prosciugato dall’alleanza gialloverde. Idem per le isole. Anche in questo caso la Lega crebbe incontenibile: dall’1% scarso delle Europee 2014 al 6,6 delle Politiche 2018 fino al 22 e oltre per cento del 2919. Il cielo si è offuscato con le successive amministrative, anche a causa dei rapporti non proprio idilliaci con gli alleati Fdi e forzisti che nel Sud hanno la cassaforte elettorale e che hanno dimostrato di non gradire una competition così agguerrita. Però Salvini non molla. Il core business dei voti leghisti sta al Nord, nel tessuto di fabbriche e fabbrichette devastate dalla concorrenza dell’Est e della Cina; nel pianeta della partite Iva che non hanno garanzie né sicurezze; nei quartieri delle metropoli più a contatto con l’immigrazione clandestina che fa paura e produce insofferenze. Però sono fenomeni non esclusivi del Settentrione: al contrario. L’imprenditoria nordista ha bisogno del Sud per avere commesse e campi d’azione. Il Sud per risollevarsi ha bisogno dei capitali del Recovery e della pari dignità con il Nord: certo industrializzato, ma in crisi. Il riferimento al Ponte sullo stretto è l’occasione per mettere il cappello su un’opera strategica sgomberando il campo dal pressing renziano. La partita dell’Ilva, dove in tanti hanno sbattuto la testa e continuano a farlo, se ben giocata può diventare il prestigioso biglietto da visita di una forza politica capace di farsi carico di una situazione giudicata un buco nero sociale, politico e industriale. Il consenso si forma anche così. Forse soprattutto così.

Pacco, doppio pacco e contropaccotto: la lezione per (alcuni) sovranisti. L'ingenuità di pensare che gli avversari seguano i propri modelli di pensiero e comportamentali. Libero Quotidiano il 15 febbraio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

E’ inutile, in una certa parte del centrodestra non ce la si fa: un continuo farsi fregare da politici ben più furbi e più abili che non seguono criteri prevedibili con i paradigmi tradizionalmente “propri”. Immaginiamo un esercito napoleonico che marcia inquadrato, con alti colbacchi, aggredito da bande di mujahidin armati di bazooka che sparano dai tetti travestiti da crocerossine. L’immagine è audace, ma plastica. Come si fa ad accettare di partecipare a un governo al buio, senza sapere né il programma, né la lista dei ministri? Errori blu, soprattutto commessi con coloro che non sono esattamente spuntati fuori nella nottata, come funghi porcini o deputati grillini, ma personaggi di alte capacità che vantano esperienza pluridecennale ed espliciti legami con poteri sovranazionali. Adesso la Lega potrà bearsi di ministeri per il Turismo e lo Sviluppo economico, due settori  la cui ripartenza – dettaglio - dipende in gran parte dal Ministero della Salute, rimasto in ostaggio del Pd. Ottimo lavoro. La Lega doveva pretendere – minimo - Salute e Interno, non solo perché sono queste le effettive emergenze, ma anche per non sconcertare il proprio elettorato. Cosa ci si fa con un turismo che non c’è e non ci sarà finché l’emergenza Covid continuerà ad essere gestita in questo modo? Il governo di salvezza nazionale, come anticipavamo qui non è altro che un’ammucchiata gattopardesca, dove “tutto è cambiato per far sì che nulla cambi”. E infatti, la Trimurti sacra Di Maio-Lamorgese-Speranza è sempre lì, avvolta in un nimbo dorato, al di fuori del tempo e dello spazio. L’agenda di Ursula proseguirà anche meglio, continuando a tenere la nazione bloccata nelle sue attività produttive, ma rimpinzata di migranti come un’oca da foie gras, e legata saldamente all’America dell’equivoco Biden e alla Via di una Seta che ricorda tanto quella delle calze usate dallo strangolatore di Boston. Non era bastato a Salvini infilarsi nel Vietnam di un governo coi Cinque stelle, che lo hanno subito tradito e lasciato in pasto ai giudici; non gli è bastato fidarsi delle promesse di Zingaretti – a quanto si dice – per far cadere il primo governo Conte nell’illusoria prospettiva di andare alle elezioni: ci voleva anche quest’altra. Come mettersi il cappio al collo e perdere  una buona fetta di elettorato per un piatto di lenticchie. Eppure, di cartine al tornasole per individuare la trappola ce ne erano fin troppe: l’appoggio ultra-dichiarato di Bergoglio, che già sei mesi fa aveva promosso Draghi a membro della Pontificia Accademia di Scienze sociali (allarme rosso), i flabelli della von der Leyen, dei media conformisti e, soprattutto, l’ombra di mistero su un TEMA CHIAVE come quello dell’immigrazione. Bastava una breve ricerca sul web per scoprire quanto affermava Draghi nel 2016: “Integrare i migranti può aiutare il calo demografico”, una frase che sembra provenire dalle labbra sottili del conte austro-giapponese Richard von Kalergi, il pianificatore – un filino massonico - della demolizione demoetnoantropologica dell’Europa, il padre nobile del Nuovo Ordine Mondiale. Sul tema dell’immigrazione si vede subito chi è pro o contro l’Italia, non c’è storia, anche perché è l’argomento meno politicamente corretto e che richiede maggior forza morale. Si tratta di opporsi al più accettato, invasivo e dinamico sistema di sostituzione etnica del nostro popolo ed è uno dei grimaldelli più efficienti dei servitori del NOM. Se non si capisce l’ovvietà secondo cui per aiutare il calo demografico si deve INVESTIRE SULLA FAMIGLIA ITALIANA, basta: si è già in fuori gioco, si lavora già per altri padroni. E’ un tema assolutamente divisivo che marca quella doppia direzionalità, centrifuga o centripeta, verso gli interessi dell’Italia di cui già scrivevamo. E non è neanche una garanzia totale, basti pensare alle posizioni iniziali di Grillo sul tema  e constatare a quale livello di voltafaccia il comico – riconfermato -  sia giunto. Il punto è che a destra si seguono  ingenuamente modelli di pensiero logico-razionali: “Se quelli hanno detto così, faranno così”; “Tizio mi ha promesso questo”; “in campagna elettorale hanno dichiarato di voler agire in tal modo”…Ma allora non avete capito niente: bisogna essere dei "professionisti" per competere con loro. Diceva bene San Tommaso d’Aquino: “Peccat quicumque audit missam haereticorum”: sbaglia chi va anche solo alla messa degli eretici, perché si verrà inevitabilmente contaminati, manipolati, turlupinati. Non si firmano patti col diavolo perché, fra la pentola e il coperchio, sicuramente ci si rimette le penne. Non ci si gioca a scacchi, perché si perde: il futuro della sapienza politica sarà non accettare la partita, sarà l’ARTE DEL NON-COMPROMESSO. Bisogna ammettere ancora, che la Meloni, con intuito femminile ed esperienza politica di lungo corso, ha sentito subito l’odore di bruciaticcio e che non ce l’avrebbe fatta con i “dottor Sottile” amici di Ursula, gli stessi che vedono come la peste le elezioni, ovvero la base del sistema democratico. Altro che “micro-tattica, come sostiene Cacciari: qui siamo alla “strategia escatologica”. La coerenza è infatti una strada dura da perseguire, ma, attenti, è anche molto RIPOSANTE. Basta evitare di agire in modo non consono ai propri valori, alla propria storia e  si sa sempre qual è la soluzione giusta per ottenere almeno, rispetto. Questo richiede pazienza e sacrificio, potrebbe premiare al momento giusto, ma è  un atteggiamento che, alla lunga, tende a IMPIGRIRE e a rendere vulnerabili alle truffe. E la Meloni lo sa, per cui ha detto: “O elezioni, o ciccia”. Se Forza Italia consapevolmente - e da tempo - si scambia sguardi complici e amorosi con gli euro-liberal-progressisti, la Lega pecca indubbiamente di ingenuità. Sarà quell’anima nordica che, portata su terreni estranei ed assolati, si fa fare il “pacco, doppio pacco e contropaccotto”, come raccontava lo spassoso film di Nanni Loy. Quindi, l’unico modo di trattare, per i sovranisti, con forze che non siano apertamente e da lungo tempo orgogliosamente sovraniste,  è semplicemente quello di NON TRATTARE. Per intenderci: lo stesso atteggiamento di quando si riceve un’email che vi annuncia di aver vinto un Iphone 17, oppure una richiesta di amicizia da una bionda procace e svestita, oppure quando si risponde alla classica telefonata: “Buongiorno Signore, sono Carla, vorrei parlarle della sua bolletta gas e luce”. Si  cestina, si blocca, si chiude il telefono senza rispondere o, al massimo, si saluta con una frase dialogica del tipo: ”Non dovete disturbarmi mai più, altrimenti vi denuncio”. Non avete ancora capito con chi avete a che fare.

Alessandro Rico per “la Verità” il 15 febbraio 2021. Giulio Sapelli è tornato in libreria con Nella storia mondiale. Stati, mercati, guerre (Guerini e associati). Una guida per interpretare questi tempi complicati. Con una piccola profezia...

Professore, Mario Draghi è stato chiamato per salvare l' Italia, o per agganciarla definitivamente al treno europeo, con il piano di riforme legato al Recovery fund?

«La chiamata di Draghi non ha ragioni nella lotta politica europea, bensì nel processo di centralizzazione capitalistica».

Si spieghi.

«C'è un cambiamento che le élite economiche tedesche hanno imposto alla politica».

Cambiamento di che tipo?

«La conversione di Wolfgang Schäuble e soci alla mutualizzazione del debito, frutto delle pressioni della Confindustria tedesca».

L'Europa è davvero cambiata?

«Rimangono in piedi tutti i trattati, ovviamente. Ma il Next generation Eu è un tentativo di passare dalla mutualizzazione del debito a un processo d'investimento diretto per la creazione di capitale fisso, occupazione e aumento del tasso di profitto».

L'operazione Draghi è interna a questo meccanismo?

«Mettiamola così: il processo di centralizzazione capitalistica se ne fa un baffo, della politica».

Ma perché proprio Draghi?

«Lo spiega l'ex segretario al Tesoro, Timothy Geithner, nella sua autobiografia del 2014, Stress test, che purtroppo nessuno legge».

Che dice Geithner?

«Fu l'uomo inviato prima dal suo predecessore, Henry Paulson, poi direttamente da Barack Obama, a negoziare con i tedeschi la nomina di Draghi alla testa della Bce».

Perché?

«Perché Draghi si opponeva alla deflazione secolare in cui i tedeschi avrebbero voluto continuare a trascinare il continente».

Dunque, c'è sempre stato lo «zampino» di Washington?

«Chiariamoci: sono le culture a fare la storia economica».

E allora?

«La cultura della Federal reserve e del capitalismo nordamericano punta più alla crescita che alla stabilità dei prezzi. Altrimenti, dove andrebbe a finire Wall Street, che vive permanentemente a debito?».

Collasserebbe?

«Ecco. Ancora una volta, la cultura del capitalismo nordamericano ha vinto sulla cultura dell'ordoliberalismo tedesco».

Grazie a Draghi?

«Si ricordi che Draghi, prima che un tecnico, è un fine politico».

Un fine politico?

«Certo. E gode di forte credibilità sia nei confronti dei nuovi Stati Uniti di Joe Biden, sia nei confronti dei tedeschi, che hanno imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo come negoziatore implacabile. E ormai si sono convinti a fare i conti con la realtà che lui rappresenta, spinti dalle necessità della loro stessa macchina produttiva».

In che senso?

«Torniamo alla centralizzazione capitalistica: il punto è non far crollare la fornitura, la supply chain del Veneto, dell' Emilia...».

Bisogna salvare l'industria del Nord Italia?

(Sorride) «Non esattamente. Bisogna salvare l' industria tedesca».

Di cui quella italiana è fornitrice.

«Esatto. Bisogna salvare una catena industriale di grandissima qualità, rodata da 40 anni di interconnessione, che non si può sostituire».

Non si può sostituire nemmeno con la Cina?

«I tedeschi ci hanno provato».

Ma?

«La Cina non può fornire ciò che forniamo noi. E il mercato cinese è meno stabile e affidabile».

Da che punto di vista?

«Il regime di Xi Jinping si è messo a giustiziare i capitalisti, i tycoon, di recente persino le loro mogli, accusate di adulterio».

Addirittura?

«E infatti, se legge i giornali tedeschi, si rende conto che pure loro iniziano ad aver paura dei cinesi. Molte imprese si stanno ritirando dalla Cina».

Il quadro è più chiaro.

«Non a caso, del governo Draghi si è fatto interprete Sergio Mattarella. Rifletta sulle sue parole».

Quali?

«Il presidente aveva parlato di un governo che non deve avere una "formula politica"».

Allora?

«L'espressione "formula politica" è stata coniata da Gaetano Mosca, il fondatore della scienza politica. Che in Italia, cosa molto grave, abbiamo smesso di studiare».

E cos'è, per Mosca, la «formula politica»?

«La base morale delle classi dirigenti. Quindi, Mattarella ha fatto una dichiarazione disarmante: sostanzialmente ha detto che questo deve essere un governo politico, senza base politica».

Con dentro i politici, ma senza la politica?

«E difatti Draghi cos'ha fatto? Per distribuire i ministeri, ha applicato il manuale Cencelli».

Ma la politica tornerà?

«Sì, certo. Anzitutto, sul dossier per la transizione ecologica ed energetica».

Perché?

«Un ministro come Giancarlo Giorgetti e la Lega, unico partito ancora dotato di un insediamento territoriale, vogliono una transizione rispettosa dello sviluppo economico. Dall'altro lato, c'è la credenza magica nella decrescita infelice di 5 stelle e e Pd. Stabilire quale strada intraprendere sarà una decisione politica».

A proposito di transizione verde. Cito una frase tratta dal suo ultimo saggio: «L'economia mondiale [] è appesa al filo della follia. Uno di questi fili è la tendenza ormai incancrenitasi in progetti istituzionali mondiali, a risolvere i grandi problemi delle distorsioni prodotte dal tardo capitalismo a debito oggi imperante con regole transnazionali a direzione tecnocratica. Uno di questi esempi, il più preclaro, è la distruttrice utopia di poter risolvere i problemi energetici attraverso una "transizione" sovradeterminata tecnocraticamente».

Ha vaticinato il ministero verde, preteso da Beppe Grillo?

«I grillini credono che tutto debba scendere dall'alto. Ma Draghi sa benissimo che bisogna "mettere a terra" questa transizione ecologica. Bisognerebbe seguire l' esempio francese».

Cioè? Lì, in realtà, le vicende del ministero green sono state molto burrascose.

«Penso a un dettaglio preciso. Quando viene creato, i tecnocrati Ue e gli spagnoli, che sono al loro traino molto più di noi, chiedono che quel ministero sia chiuso».

Per quale motivo?

«Perché volevano che tutto fosse in mano a Bruxelles. Insomma, questo ministero non è un favore all'Europa, bensì una sfida alla tecnocrazia europea».

Davvero?

«Certo, perché c' è la possibilità di lavorare dal basso, dal mercato, dall' auto organizzazione delle imprese e della società civile, per creare questa transizione. Dalle nebbie di Bruxelles si passa ai corridoi dei ministeri italiani. È già un passo avanti».

Insomma, lei è ottimista.

«Questo non è un governo Monti. Non è un governo di austerità, ma di spesa e rifondazione dello Stato. Unico appunto: loro pensano di poterci riuscire senza politica, invece la politica tornerà».

Ma se c'è un rinnovato interesse degli Usa per Roma, perché tenere Luigi Di Maio alla Farnesina, dopo le sbandate filocinesi?

«La risposta è negli scritti di Antonio Gramsci sulla crisi organica dei partiti».

Oddio. Che sta per dire?

«Che i 5 stelle sono una "mucillagine peristaltica"».

Cosa significa?

«Non hanno base territoriale. Dunque, dipendono da chiunque eserciti una pressione su di loro. E su Di Maio, tramite Grillo, i cinesi hanno sempre esercitato una forte pressione. Perciò l' hanno tenuto alla Farnesina».

Cioè?

«L' unico modo per monitorare quelle pressioni è sottoporre Di Maio, come ministro, al controllo dell' opinione pubblica. Molto dipenderà, poi, dal soft power americano, affinché anche lui segua la strada di Lorenzo Guerini, che è un ottimo ministro della Difesa, filoatlantico».

In un suo recente articolo, lei ha notato che tra gli elementi che hanno contribuito a portare Draghi a Palazzo Chigi, c'è pure la «prossima nuova corsa allo spazio». A cosa si riferiva?

«Io penso che la chiave della transizione verso la crescita capitalista, la fuoriuscita dalla deflazione secolare, verrà solo da una nuova rivoluzione tecnologica».

Dunque?

«A differenza della tecnocrazia europea, credo che questa rivoluzione non possa venire dalle macchine elettriche. (Fragorosa risata). Verrà dalla corsa allo spazio».

Dice?

«Le grandi tecnologie che abbiamo a disposizione oggi derivano ancora dalla conquista della luna. Non a caso il capitalismo americano, ora, ha intrapreso la conquista di Marte. Mica è folklore».

No?

«È allo spazio che guardano americani e cinesi».

La corsa allo spazio è caratteristica di una guerra fredda, no?

«Verissimo. Perché conquistare lo spazio significa ottenere un'arma militare di rollback. E perché di lì derivano tutte le tecnologie più rivoluzionarie: Internet, Gps, smartphone... E noi qui parliamo di macchine elettriche? Di frigoriferi viaggianti?».

Magari: in realtà, qui s'è parlato dei monopattini...

«Ma che tecnologia vuole che ci sia lì sopra? Eppure, in Italia, abbia Avio spa:è l' unica azienda al mondo capace di produrre propellenti solidi per i razzi».

Addirittura?

«Abbiamo un' enorme potenzialità. Speriamo solo che Draghi e il buon Giorgetti trasformino la potenza in atto».

Con il Mezzogiorno il matrimonio a convenienza di capitan Salvini.

Valentina Mericio. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.

Tutti i ministri, tra conferme e novità. Davide Casati - Paolo Foschi su La Repubblica il 12 febbraio 2021. La composizione del governo di Mario Draghi al termine del colloquio con il capo dello Stato: 23 ministri e un sottosegretario.

Daniele Franco è il nuovo ministro dell'Economia: la "diga" per i conti pubblici di quattro governi. Roberto Petrini su La Repubblica il 13 febbraio 2021. Il nuovo titolare del Tesoro è il direttore generale di Bankitalia. È stato capo del Servizio studi e poi Ragioniere generale dello Stato. Se ci fosse un Oscar dei conti pubblici il migliore italiano in lizza sarebbe lui: Daniele Franco, nuovo ministro del Tesoro del governo Draghi. Almeno due posizioni hanno caratterizzato la sua carriera sempre segnata dall'occhio vigile e competente sul bilancio dello Stato. La prima in Banca d'Italia quando è stato a lungo al Servizio studi, fino a diventarne il capo, e dove da sempre ha seguito la finanza pubblica, esprimendo la linea e le osservazioni di Via Nazionale durante le audizioni parlamentari ad ogni Finanziaria e ogni provvedimento di bilancio. La seconda esperienza, di ben sette anni, è stata a Via Venti Settembre nella posizione cruciale di Ragioniere generale dello Stato. Qui ha avuto a che fare con quattro governi: Letta (che lo nominò), Renzi e Gentiloni e poi dal 2018 con il gialloverde Conte 1. Cortese, riservato, ma senza rinunciare all'ironia e alla battuta, Daniele Franco in quei sette anni è stato una diga per i conti pubblici. Ha dovuto contenere Matteo Renzi che batteva i pugni sul tavolo a Bruxelles e si ricorda anche di un provvedimento di Gentiloni che dovette essere rivotato dal Senato perché le cifre non tornavano. Ma fin qui era normale amministrazione e i rapporti con il governo e con Pier Carlo Padoan erano ottimi. È stato l'arrivo dei gialloverdi a costringerlo a sfoderare la forza e la pazienza di chi è abituato a salire per ore le cenge e i sentieri dolomitici che gli sono familiari (è nato a Trichiana in provincia di Belluno). In quei luoghi torna quando può. Anzi c'è chi giura che quando Casalino lo attaccò, con un volgare fuori onda, perché non voleva cedere sul rispetto dell'articolo 81 della Costituzione, minacciò proprio di tornarsene sulle sue montagne senza problemi. La marcia fu dura perché i gialloverdi volevano sfondare il bilancio, fare la flat tax, reddito di cittadinanza, quota 100 e quant'altro. Daniele Franco, servitore dello Stato, non boicottò ma rese possibile la manovra solo imponendo una serie di condizioni: pretese l'introduzione di un "catenaccio" che avrebbe consentito di monitorare le spese e inserire clausole anti-sforamento. E in quel periodo, quando Bruxelles ci teneva particolarmente sotto tiro, la sua esperienza di lavoro alla fine degli Anni Novanta alla Commissione europea, ci fu utile per mantenere almeno il funzionamento dei canali di comunicazione. Bankitalia e il governatore Visco lo riaccolsero a braccia aperte nel maggio del 2019, con la carica di vice direttore generale. Poco meno di un anno dopo è diventato direttore generale, il numero due della struttura, che deve avere uno sguardo a 360 gradi sulla banca. Era entrato nel 1979, dopo la laurea in Scienze politiche a Padova e gli studi all'Università di York in Gran Bretagna. Oggi a 68 anni non ancora compiuti torna da ministro a quella che forse è la sua passione principale: la finanza pubblica. "Debito e crescita", senza drammatizzare ma con rigore sono i suoi punti focali che ha espresso in recenti interventi. Ispirandosi a colui che ritiene il suo punto di riferimento, Sergio Steve, maestro della Scienza delle Finanze italiana, anche lui amico di Federico Caffè, ed esponente di quella tradizione italiana da De Viti de Marco a Einaudi che aveva ben presenti i limiti del mercato e anche quelli dello Stato. Lo aspetta la scrivania di Quintino Sella, instancabile controllore dei conti pubblici e grande camminatore nei sentieri montani. E il rapporto diretto con Mario Draghi di cui è amico da sempre.

Nicola Mirenzi per “il Venerdì di Repubblica” il 3 novembre 2021. Fuori dai palazzi, nessuno lo conosce. Eppure, nel governo, c'è chi pensa che, se Draghi fosse eletto a capo dello Stato, il suo successore ideale a Palazzo Chigi sarebbe Daniele Franco. L'attuale ministro dell'Economia e delle Finanze (questo credono i suoi sostenitori) sarebbe la garanzia che il lavoro fatto finora continuerebbe nella stessa direzione. La prosecuzione del draghismo con altri mezzi. Per di più, sotto la vigilanza dello stesso Draghi al Quirinale. L'inconveniente è che, dopo otto mesi da ministro, la direzione generale della Banca d'Italia, sei anni a capo della Ragioneria dello Stato, Franco, 68 anni, ha un curriculum impeccabile ma nessun profilo politico. Pochi sanno cosa pensi quest'uomo di cui non si registra una dichiarazione che abbia fatto discutere, una parola fuori misura, una smorfia traditrice di un'approvazione o di una stizza, nulla che sporga dalla sua immagine equilibrata e severa di servitore dello Stato. Anche gli ex compagni di classe del liceo Galileo Galilei di Belluno, sezione A, faticano a individuarne un segno particolare, un connotato decisivo. «Daniele», racconta Domenico Bisinella, che oggi fa l'ingegnere, «non era lo studente più brillante del corso, ma nemmeno un disastro, o un ragazzo irrequieto, o un campione dell'umorismo. Non aveva nulla che lo facesse notare in mezzo agli altri». Passare inosservato è una qualità essenziale del (daniele) franchismo, dottrina del lavoro che rifugge il clamore, sebbene produca, a volte, effetti clamorosi. Indimenticabile la stagione dello Spread, iniziata con lettera della Banca centrale Europea all'allora presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. La lettera, firmata da Jean Claude Trichet e Mario Draghi a Francoforte, fu preparata, a Roma, da Franco. La storia è poco nota, anche se Renato Brunetta l'ha raccontata in un libro, Berlusconi deve cadere. Brunetta era ministro della Pubblica amministrazione e Franco direttore centrale dell'Area ricerca della Banca d'Italia. Brunetta apprese che c'era una lettera tremenda in arrivo dall'Europa e si precipitò a Palazzo Chigi per informare Berlusconi del pericolo. Berlusconi gli chiese di aspettare, perché era rapito da un filmato che Altero Matteoli aveva preparato sul Ponte sullo Stretto. Ma quando lo fece parlare, e capì il rischio, chiamò immediatamente Mario Draghi. Il quale confermò l'esistenza della lettera e disse che a lavorarci su, alla Banca d'Italia, era Daniele Franco. «Lo chiami», disse a Brunetta, che era accanto a Berlusconi. E, meno di un'ora dopo, Franco era nell'ufficio del ministro, «con delle carte in inglese in mano». Era la bozza della lettera che sarebbe stata inviata il 5 agosto del 2011. E inizia così: "Strettamente confidenziale". Oggi Franco, Brunetta e Draghi siedono insieme in un governo che ha la missione di gestire i fondi in arrivo dall'Unione europea, attraverso il Pnnr. Dettaglio che i maliziosi sottolineano per alimentare le teorie delle manovre internazionali o buttar lì il sospetto. Indubitabile che a differenza di parecchi suoi predecessori al ministero dell'Economia, Franco si trovi in una situazione eccezionale: anziché risparmiare, tagliare, limare, dovrà spendere, spendere e ancora spendere. Situazione paradossale per uno che ha dedicato buona parte della vita a far tornare i conti. Soprattutto, sottraendo. Entrato a ventisette anni nel Servizio studi di Banca d'Italia, dopo un master a York, Franco costruisce nella banca centrale il rapporto con Draghi quando Draghi ne divenne il Governatore. Specializzato in finanza pubblica, conosce alla perfezione la materia pensionistica e i guai del debito italiano, questioni che declina in vista di un fine preciso: l'equilibrio di bilancio. «Quando Franco è diventato Ragioniere dello Stato», racconta Natale D'Amico, giudice della Corte dei Conti, «le previsioni dell'istituto sono diventate estrema-mente attendibili. Prima di Franco, la forbice delle stime oscillava spesso di qualche punto, mentre, sotto la sua direzione, gli scostamenti si sono ridotti agli zero virgola». Una precisione che ha pesato, politicamente. La Finanziaria del 2014, scritta dal governo di Matteo Renzi, e che incluse il bonus bebè, ebbe la bollinatura della Ragioneria dello Stato una settimana dopo l'approvazione del governo. Franco contestò le previsioni, indicò le mancate coperture, costrinse il governo a correggere il testo. Sotto Gentiloni, il Senato dovette rivotare un provvedimento poiché Franco ritenne che mancassero le coperture. Gli attacchi più feroci, però, li ha ricevuti dal Movimento 5 Stelle, durante il governo gialloverde, a causa del reddito di cittadinanza. «Alzai un argine intorno a Franco e a tutta la struttura del mini-stero», racconta al Venerdì l'ex ministro dell'Economia di quel governo, Giovanni 'Tria. «Ritenevo vergognosi gli attacchi che gli rivolse il portavoce del presidente Giuseppe Conte». Rocco Casalino aveva detto in un messaggio audio, su WhatsApp, che «...se, all'ultimo ci dicono che i soldi per il reddito non li hanno trovati, nel Movimento 5 Stelle è pronta una mega vendetta. Nel 2019, ci concentreremo soltanto a far fuori quei pezzi di merda del Mef!». Daniele Franco era in cima all'elenco. Eppure, rimase imperturbabile nella bufera. Mentre Tria intervenne in difesa. «Dissi al presidente Conte», racconta, «che doveva prendere dei provvedimenti, perché quanto successo era intollerabile. Conte mi rispose: "Giovanni, ma Casalino è la vittima di questa storia: è sua la privacy che è stata violate...». Sposato, un figlio maschio e una femmina, padre impiegato del catasto, amante della montagna e dello sci di fondo, una passione per la storia, talvolta anche per le visite archeologiche: difficile sapere di più della sua vita privata, custodita dietro quattro strati di riservatezza. Carattere schivo, indole di uomo di montagna, etica alto burocratica, amici che sembrano scelti sulla base del fatto che non riveleranno mai nulla di lui. Chi è riuscito a trascinarlo in un salotto romano ha notato che neanche davanti a una bottiglia di vino è uscito dalla parte del funzionario dello Stato. La severità che i 5 Stelle credevano fosse diretta contro di loro è in realtà l'abito dentro cui Franco si è abbottonato. Al punto che, per trovare una spettinatura, bisogna tornare al tempo in cui, da studente, faceva volontariato durante le vacanze estive. «Andammo a Badia Polesine a costruire una casa di riposo per anziani» racconta Michele Reolon. «Avevamo tutti un sacco a pelo per la notte, tranne lui, che, per non aver freddo, dormì in mezzo a due materassi: un materasso come giaciglio, e l'altro come lenzuolo». Franco è nato a Trichiana, un tempo comune della provincia di Belluno, oggi frazione di Borgo Valbelluna. Ha studiato Scienze politiche a Padova, quando in facoltà insegnava Toni Negri che l'aveva resa l'accademia dell'Autonorma operaia, teoria e pratica della sollevazione. Ogni giorno, le camionette della polizia erano fisse in piazza Garibaldi. C'erano manifestazioni, scontri. Daniele Franco frequentava gli Universitari Costruttori, un'organizzazione di volontari fondata da padre Mario Ciman, un gesuita. (L'incontro con i gesuiti è un altro tratto che Franco ha in comune con Draghi). E, con loro, partecipò alla ricostruzione del Friuli dopo il terremoto. Da quando è ministro, non ha rilasciato nessuna intervista. In una delle poche concesse nella sua vita, quella a Enrico Cisnetto su War Roon parla di un atteggiamento che gli è proprio, «l'umiltà intellettuale». Il suo dramma è che, oggi, è costretto anche a uscire dall'ombra. Nelle conferenze stampa se la cava dirottando ogni questione dal terreno della politica a quello della tecnica amministrativa. Dove c'è il rischio del conflitto, impone subito la no fly zone della scienza delle finanze. Per l'incubo di dir qualcosa che possa farlo finire nella mischia, strattonato dalla destra, oppure dalla sinistra, premedita ogni parola e la consegna ai cronisti leggendola diligentemente dai suoi fogli d'appunti. Appena un briciolo d'immediatezza rischia di farsi largo nell'argomentazione - un commento, una battuta una considerazione a braccio - torna immediatamente dietro lo scudo della rassicurante, familiare, pila di carte. Il pensiero economico di Franco non ha la rotondità di una filosofia. Il suo contributo è piuttosto circostanziato, pratico. Quando Draghi ha deciso le nomine delle partecipate pubbliche non era d'accordo, in particolare sulla sostituzione di Fabrizio Palermo a Cassa depositi e prestiti. Eppure, dicono che a Palazzo Chigi c'è chi lo chiama Alexa, dal nome dell'assistente virtuale di Amazon. «Alexa fammi questo decreto». «Alexa fammi questa nomina». È in sintesi il cuore del rapporto tra lui e Draghi, secondo le cattiverie, di cui Franco - ed ecco infine spuntare un sentimento - soffre. Forse anche per questo coronerebbe più volentieri la sua carriera alla presidenza della Banca d'Italia. Ma, se gli chiedessero davvero di fare un altro passo avanti nel governo, risponderebbe certo come impone lo spirito di servizio. «Sono a vostra disposizione, Signori».

Franco i labirinti del bilancio statale non hanno segreti. Nino Sunseri su Il Quotidiano del Sud il 13 febbraio 2021. Una carriera passata a sorvegliare i conti pubblici. Ora ne diventerà il custode. Daniele Franco 68 anni bellunese di Tirchiana è il nuovo ministro dell’Economia dopo essere stato per sei anni Ragioniere generale dello Stato e prima ancora capo della finanza pubblica al servizio studi di Banca d’Italia. Nessuno in Italia conosce i labirinti del bilancio statale come lui. Sicuramente un super-tecnico. La nomina è arrivata direttamente da Mario Draghi che lo aveva apprezzato negli anni trascorsi come governatore della Banca d’Italia. Saranno loro a gestire l’assegnazione dei 209 miliardi del Recovery Fund in arrivo da Bruxelles (i primi venti forse già in estate). Sicuramente una sorveglianza di ferro considerata l’esperienza e la capacità dimostrata sul campo. Entrambi custodi della cultura di Banca d’Italia cui la politica ha fatto ricorso quando ha dovuto rispondere all’emergenza. Prima Lamberto Dini. Poi Ciampi. Adesso l’accoppiata di Draghi e Daniele Franco. Il neo ministro dell’Economia dovrà lasciare per la seconda volta il palazzo di via Nazionale dov’era entrato nel 1979 in forza all’ufficio studi. La divisione che per decenni ha preparato i governatori. Franco ha scalato tutte le tappe fino alla direzione generale con la nomina avvenuta lo scorso anno. Nel 2013 aveva lasciato per la prima volta Palazzo Koch per assumere la direzione della Ragioneria generale dello Stato. Una carica che nel 2018 l’aveva portato allo scontro con il governo gialloverde. Il culmine era stato toccato nel volgare fuori onda in cui Rocco Casalino lo attaccava perché cercava di difendere l’integrità del bilancio pubblico. Erano i giorni in cui i gialloverdi volevano sfondare i conti pubblici (il famoso 2,4% poi diventato 2,04%), fare la flat tax, il reddito di cittadinanza, quota 100. Daniele Franco, servitore dello Stato, non boicottò ma pretese un “catenaccio” per monitorare le spese e inserire clausole anti-sforamento. E in quel periodo, mentre Bruxelles teneva l’Italia sotto tiro, la sua frequentazione con gli uffici della Commissione europea, fu utile per mantenere aperti i canali di comunicazione. I contatti con il governo, però erano stati aspri. Nel 2019 con grande soddisfazione aveva accolto l’invito del Governatore Visco a tornare a Palazzo Koch. Dapprima come vice direttore generale e poi come direttore generale e presidente dell’Ivass. Probabilmente l’incontro più felice di Daniele Franco nei messi in cui dovette fronteggiare l’arroganza del governo gialloverde fu quello con Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario alla presidenza del consiglio e oggi ministro dello Sviluppo economico. Due anni fa Giorgetti aveva il compito di tenere sotto sorveglianza l’inesperienza di Conte e di tutti i grillini appena arrivati al potere. Le cronache dell’epoca raccontano la progressiva insofferenza verso le strambate dei grillini. Era stato il primo a sostenere la necessità che la Lega rompesse l’alleanza con i grillini. Le sue antenne ben radicate nel mondo della finanza e dell’imprenditoria (è stato a lungo presidente della commissione bilancio della Camera) gli facevano cogliere la progressiva insofferenza verso le scelte del governo gialloverde. Oggi è stato il regista della conversione di Salvini che ha rinnegato l’antico sovranismo. La poltrona di ministro dello Sviluppo Economico è il premio.

Daniele Franco, fedelissimo di Draghi al ministero dell'Economia: quando Casalino lo chiamava "pezzo di merda". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Daniele Franco è uno dei nomi più gettonati per il Ministero dell’Economia, dove dovrebbe essere piazzato un uomo di fiducia di Mario Draghi, probabilmente proveniente dalla scuola di Bankitalia. Premettendo che sbilanciarsi sui nomi è quantomai difficile, dato che neanche uno spiffero arriva dal premier incaricato, a differenza del suo predecessore Giuseppe Conte le cui veline si sprecano, quello di Franco è comunque plausibile. Inoltre evoca retroscena piuttosto gustosi, che fanno riferimento proprio all’ex presidente del Consiglio e al suo portavoce Rocco Casalino. Era infatti proprio Franco - come ricorda Il Tempo - colui il quale frenò sulla manovra che doveva varare il reddito di cittadinanza a fine 2018, dicendo da ragioniere generale che non c’erano le risorse. In un audio divenuto celebre perché reso pubblico, Casalino chiedeva la sua testa e quella di tutti i suoi collaboratori, chiamati in maniera poco istituzionale “pezzi di merda”. La diffusione di quell’audio aveva messo in profondo imbarazzo Palazzo Chigi e tutto il governo, con tanto di “promessa” registrata da Casalino in un messaggio su WhatsApp di una “mega vendetta” contro i tecnici del Mef qualora fosse arrivato uno stop al reddito di cittadinanza. “Tutto il 2019 ci concentreremmo a far fuori tutti questi pezzi di merda del Mef”, esclamava il portavoce di Conte, con quest’ultimo che però aveva respinto le richieste di dimissioni provenienti da più parti. 

Paolo Baroni per “La Stampa”  il 9 febbraio 2021. Ai tempi del Conte II era entrato solo all'ultimo nel totoministri. Adesso che però a decidere è Mario Draghi, Daniele Franco si trova concretamente in pole position per guidare il ministero dell'Economia, la casella più importante nell'era del Recovery plan che occorre riempire. A favore dell'attuale direttore generale della Banca d'Italia giocano essenzialmente due fattori: gode della fiducia dell'ex presidente della Bce, con cui ha collaborato per anni in Banca d'Italia, e soprattutto Franco è certamente il massimo esperto italiano di finanza pubblica. L'uomo ideale, insomma, per tener dietro ai conti del Tesoro e alla gestione dei 209 miliardi di fondi europei. Perché prima in via Nazionale e poi nei sei anni in cui ha guidato la Ragioneria generale dello Stato (maggio 2013/maggio 2019) la sua missione, la sua specialità, è stata esattamente questa: fare le pulci ai conti pubblici, controllare le copertura e l'efficacia dei provvedimenti. Ai tempi del governo giallo-verde proprio per questo è entrato nel mirino dell'esecutivo: Di Maio, addirittura, era arrivato a dichiarare pubblicamente di «non fidarsi» della Ragioneria, mentre Rocco Casalino aveva sostenuto che lo stesso Franco, assieme all'allora capo di gabinetto del Mef Roberto Garofoli e al direttore generale del ministero Alessandro Rivera, erano «due pezzi di m...» da rimuovere, perché intralciavano l'azione di governo coi continui richiami al rispetto delle regole di bilancio. Non solo Franco non è diventato ministro, ma poi ha lasciato la Ragioneria per tornare in via Nazionale, dove dal 1979 in poi ha svolto quasi tutta la sua carriera a partire dal centro studi di cui è stato capo dal 2007 al 2011, per poi salire di grado e diventare direttore centrale area ricerca economica ed infine, dal metà 2019, prima vice e poi direttore generale. Franco, classe 1953, originario di Trichiana, piccolo paese ai piedi delle Dolomiti bellunesi, si è laureato in scienze politiche a Padova ed ha conseguito un master all'Università di York. Appassionato di musica classica, tutti lo conoscono come una persona molto cortese, tranquilla e gentile. Quello che pensa della situazione italiana lo ha detto, senza tanti giri di parole, intervenendo alla giornata del Risparmio lo scorso novembre. Franco ha indicato le due priorità del paese, debito pubblico e crescita, e dettato quello che oggi può tranquillamente essere letto come un programma economico. «Anche nel nuovo scenario le priorità della politica economica dell'Italia, dettate dalla necessità di accrescere il potenziale di crescita, rimangono immutate - spiegava -. Occorre migliorare la qualità e quantità dell'istruzione, accrescere gli investimenti privati e pubblici, aumentare la spesa in ricerca e sviluppo e accelerare l'innovazione, migliorare il quadro regolamentare e l'azione della Pa, facilitare l'aumento della dimensione delle imprese, recuperare i divari tra il Mezzogiorno e il resto del Paese». E poi, così come suggerito a suo tempo dallo stesso Draghi, per Franco l'Italia deve riservare più attenzione ai giovani, visto che «la pandemia e la recessione tendono ad accentuare gli squilibri generazionali, che erano già significativi, per effetto, per esempio, dell'aumento della disoccupazione giovanile, del debito pubblico, dell'incidenza della spesa per pensioni». Bene aver rafforzato i sussidi, concludeva Franco, ma questi ora «devono essere ricondotti a un disegno organico e coerente, per limitare le distorsioni e rendere la crescita più inclusiva».

Patrizio Bianchi all'Istruzione, il professore-assessore che guidò la task force di Azzolina. Ilaria Venturi su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Di area prodiana, è stato l'autore del piano, poi ignorato, per la riapertura delle scuole a settembre. Un professore-assessore, un tecnico prestato alla politica, area prodiana. Patrizio Bianchi, 68 anni, ferrarese, ha un curriculum accademico di respiro europeo e internazionale: la formazione a Scienze politiche dell'Alma Mater con Romano Prodi, di cui è amico di vecchia data, e Alberto Quadrio Curzio; gli studi successivi alla London School of Economics fino alla cattedra universitaria in Economia e Politica industriale e alla guida dell'Università di Ferrara, rettore dal 2004 al 2010. È titolare nel suo Ateneo della Cattedra Unesco "Educazione, crescita ed eguaglianza", è autore di 40 libri, 250 pubblicazioni, è stato responsabile del laboratorio di Politica industriale di Nomisma e chiamato nel 1999 a guidare Sviluppo Italia. Per due mandati, con i governatori Vasco Errani e Stefano Bonaccini, ha guidato l'assessorato della regione Emilia-Romagna all'Istruzione, Università e Lavoro. In questa sua carica ha gestito la ricostruzione delle scuole colpite dal sisma in Emilia nel maggio 2012. E ha continuato ad occuparsi di scuola quando è stato chiamato dallla ministra Lucia Azzolina a guidare la task-force di esperti per la riapertura a settembre. Ci lavorò duramente, ascoltando tutte le voci del mondo della scuola. Quel piano, dove si tentava di dare una prospettiva e soluzioni oltre all'urgenza della pandemia, fu pronto a fine maggio. Ma finì nel cassetto, pressoché ignorato. Bianchi molto tempo dopo non nascose il suo garbato disappunto. Uno stile sempre istituzionale, il suo: "Forse sarebbe stato utile dare spazio, favorire un dibattito intorno al testo. Credo, senza polemiche, che sia mancato". Il suo scuola-pensiero è raccolto nel libro uscito per Il Mulino a ottobre scorso intitolato "Nello specchio della scuola" dove ripete: "È tempo di investire in educazione".

Ilaria Venturi per repubblica.it il 12 febbraio 2021. Un professore-assessore, un tecnico prestato alla politica, area prodiana. Patrizio Bianchi, 68 anni, ferrarese, ha un curriculum accademico di respiro europeo e internazionale: la formazione a Scienze politiche dell'Alma Mater con Romano Prodi, di cui è amico di vecchia data, e Alberto Quadrio Curzio; gli studi successivi alla London School of Economics fino alla cattedra universitaria in Economia e Politica industriale e alla guida dell'Università di Ferrara, rettore dal 2004 al 2010. È titolare nel suo Ateneo della Cattedra Unesco "Educazione, crescita ed eguaglianza", è autore di 40 libri, 250 pubblicazioni, è stato responsabile del laboratorio di Politica industriale di Nomisma e chiamato nel 1999 a guidare Sviluppo Italia. Per due mandati, con i governatori Vasco Errani e Stefano Bonaccini, ha guidato l'assessorato della regione Emilia-Romagna all'Istruzione, Università e Lavoro. In questa sua carica ha gestito la ricostruzione delle scuole colpite dal sisma in Emilia nel maggio 2012. E ha continuato ad occuparsi di scuola quando è stato chiamato dalla ministra Lucia Azzolina a guidare la task-force di esperti per la riapertura a settembre.

Chi è Patrizio Bianchi, il ministro dell’Istruzione del governo Draghi. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Patrizio Bianchi è il nuovo ministro dell’Istruzione del governo che sarà guidato da Mario Draghi. Domani alle 12:00 il giuramento al Quirinale nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Bianchi subentra alla ministra Lucia Azzolina. Il commissario straordinario all’emergenza coronavirus Domenico Arcuri era stato incaricato anche della riapertura delle scuole. Bianchi era stato a capo della task force del dicastero per la riapertura. Bianchi è nato nel 1952 a Copparo, provincia di Ferrara. Si è laureato in Scienze Politiche con lode all’Università di Bologna. Ha studiato anche alla London School of Economics con il Professor Basil Yamey. Dal 1980 è ricercatore alla Facoltà di Economia all’Università di Trento. Due anni dopo è a Bologna, dove ha vinto la cattedra di Professore Associato, e dove nel 1994 è diventato Professore Ordinario di Politica Economica, Dipartimento di Scienze Economiche. Si è trasferito nel 1997 all’Università di Ferrara, della quale è diventato Rettore nel 2004 e fino al 2010. Ha fondato nel 1998 l’ex Facoltà di Economia, in cui attualmente ricopre il ruolo di Professore Ordinario di Economia e Politica Industriale (Economia Applicata). Ha ricoperto la carica di assessore all’Istruzione in Emilia Romagna per due mandati, sotto la guida di Vasco Errani e Stefano Bonaccini. All’Università di Ferrara è anche titolare della Cattedra UNESCO in Education, Growth and Equality. È ad oggi direttore scientifico dell’Ifab – Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano. Bianchi, come si accennava, ha coordinato la task force ministeriale, formata dal Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina per la gestione della ripartenza scolastica nell’ambito della pandemia di Covid-19. Bianchi ha sempre coniugato nella sua attività una ricerca scientifica sui fondamenti della produzione e innovazione industriale con l’assunzione diretta di responsabilità nella gestione di enti e istituzioni pubbliche e private rivolti alla formazione e programmazione di politiche per l’educazione e l’innovazione. È infatti noto per i suoi studi sulle politiche industriali. Il ministro ha due figli, Lorenzo e Antonio, nati dal matrimonio con Laura Tabarini.

Da “Libero quotidiano” il 14 febbraio 2021. Un esordio da rivedere per il nuovo ministro dell' Istruzione Patrizio Bianchi. Prima, ai giornalisti che gli chiedevano quando avesse saputo della nomina ha risposto «l' ho imparato ieri» invece che «l' ho appreso» (calco dialettale tipico dell' Emilia Romagna). Non basta. Subito dopo altra clamorosa gaffe: «Ho trovato della bella gente, speriamo che faremo tutti bene». Speriamo per lui che sia finita qui...

Patrizio Bianchi, le gaffe del neo-ministro dell'Istruzione: "L'ho imparato ieri. Speriamo che faremo bene". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Patrizio Bianchi è il nuovo ministro dell’Istruzione: ci sono aspettative importanti sulla sua persona, anche perché fare peggio di Lucia Azzolina e dei suoi tristemente celebri banchi a rotelle sembra oggettivamente difficili. Enrico Mentana ha però fatto notare in diretta un paio di strafalcioni commessi da Bianchi, che forse è stato tradito dall’emozione all’uscita dal Quirinale, dove ha prestato giuramento ed è stato impegnato nella foto di rito. Fermandosi a parlare con i giornalisti, il neo ministro dell’Istruzione si è detto “emozionato e contento e anche consiglio della quantità di lavoro che dovremo fare. Quando ho capito che sarei diventato ministro? L’ho imparato ieri sera”. Mentana è un attimo sbandato, sottolineando poi che sarebbe stato più corretto dire “l’ho appreso”, anche se a difesa di Bianchi va detto che quel “ho imparato” è un’espressione dialettale che si usa in Emilia Romagna (e lui viene dalla provincia di Ferrara). Poi però il ministro ha commesso un errore grammaticale più grave. “Ero con degli amici quando l’ho saputo, stavamo lavorando. Questa squadra di governo? Ho trovato bella gente, speriamo che faremo tutti bene”, ha dichiarato Bianchi. Su questo secondo scivolone non c’è difesa che regga, si tratta di un errore bello e buono: insomma, il ministro dell’Istruzione è partito con il piede sbagliato, ma ovviamente non è per questo che andrà valutato. 

Patrizio Bianchi, il vice-Azzolina al ministero dell'Istruzione: i dubbi sulla scelta di Mario Draghi. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 14 febbraio 2021. Ci sono due domande e la prima è per chi vuole vincere facile: stiamo meglio di prima? La risposta è sì, certo. Tra il curriculum e la personalità di Mario Draghi e quelli di Giuseppe Conte c'è qualche galassia di distanza, Marta Cartabia sta ad Alfonso Bonafede come l'ostrica sta alla cozza, la presenza della Lega e di Forza Italia fa sperare che non ci siano altri stupri dei contribuenti e così via. Ma la seconda domanda è: si poteva fare di meglio? E la risposta, purtroppo, anche qui è sì. Si poteva e si doveva. Perché se questo è davvero il governo dell'ultima possibilità, chiamato a salvare le prossime generazioni di italiani, troppe cose non si spiegano e gridano vendetta al cielo. Iniziando dalla più evidente: Roberto Speranza. Davvero, nell'ora più buia, un Paese di 60 milioni di abitanti, 400mila medici e 950 parlamentari non offre nulla di meglio dello sprovveduto laureato in Scienze politiche sotto la cui gestione l'Italia ha avuto 93.356 morti per Covid, a un passo dal record mondiale per numero di vittime in rapporto alla popolazione, e ha fallito con tracciamenti e tamponi? Uno che ha sbagliato a scegliere tre commissari alla sanità calabrese, ha difeso Domenico Arcuri a spada tratta e ha scritto un libro intitolato Perché guariremo, ritirato per pudore prima che arrivasse sugli scaffali: era lui, sul serio, il più qualificato? Fosse il solo. Vogliamo parlare di Luigi Di Maio, professor Draghi? La filosofia è chiara: con un premier così, il volto dell'Italia nel mondo sarà lei e nessuno dovrebbe fare caso al figurante della Farnesina. E poi toccava dare una medaglietta all'ala governista dei grillini, che per correre da lei ha piantato l'ultimo chiodo sulla bara del M5S. Ragioni che non giustificano lo scempio, però. Ambizione smodata a parte, quali qualità ha Di Maio per meritare una poltrona in questo governo, il terzo consecutivo? Soprattutto: che hanno fatto di male gli italiani per essere ancora rappresentati ai vertici internazionali da uno simile, convinto che Augusto Pinochet fosse un dittatore venezuelano, che prima chiama «Ping» il presidente cinese Xi Jinping e poi lo ringrazia per «l'amicizia e la solidarietà» dimostrate all'Italia durante la pandemia? Se la nomina di Draghi ci ha restituito un po' di autostima (un premier che mette paura ai tedeschi, finalmente), la conferma agli Esteri del bibitaro dello stadio San Paolo ricorda a noi stessi e al mondo che dietro all'eccezione c'è ancora una banda di Pulcinella. Un altro mistero doloroso siede al ministero del Lavoro. Nell'album di famiglia del Pd c'era Pietro Ichino, che conosce uno per uno errori e colpe dei sindacati. Altrove c'era l'economista Carlo Cottarelli, che sa come cancellare gli sprechi del reddito di cittadinanza. Ce n'erano tanti. È toccato invece al vicesegretario del Pd Andrea Orlando, curriculum da apparatchik di una volta: dalla Fgci al governo passando per Pci, Pds, Ds, Ulivo e Pd. Senza mai fare altro nella vita.  Con lui, ala sinistra dei democratici, la Cgil sa di giocare in casa. E qui, tutto dipende dalle intenzioni di Draghi: se vuole liberare l'Italia dai ricatti dei sindacati, doveva citofonare a qualcun altro. Ma è chiaro che i colonnelli del Pd hanno avuto un trattamento di favore. Lo sa bene Dario Franceschini, inamovibile ministro della Cultura. Qualcuno ricorda Verybello.it? No, infatti era la piattaforma digitale da lui voluta nel 2015 per raccontare «il museo diffuso che è l'Italia». Chiusa perché nessuno se la filava. Nei mesi scorsi ha deciso di riprovarci con «la Netflix della cultura», finanziata con 10 milioni di euro del suo ministero, cioè nostri, e destinata anch' essa al fallimento, proprio perché partorita da personaggi come lui. Intanto i lavoratori dello spettacolo protestavano sotto il suo ministero, nessuno ha capito perché cinema e teatri non possano stare aperti, con capienza ridotta e adeguato distanziamento. Hanno chiesto le sue dimissioni, l'imperscrutabile volontà di Draghi lo ha confermato per meriti ignoti. Un po' come successo al grillino Stefano Patuanelli. La bella notizia è che abbandona il ministero dello Sviluppo economico, dove lascia 105 tavoli di crisi aziendale aperti, che significano 120mila lavoratori in pericolo, e Alitalia ancora sul groppone dei contribuenti. La brutta è che Draghi lo ha dirottato al ministero delle Politiche agricole. Solidarietà ai contadini e agli allevatori. Da scoprire ancora, nelle vesti di ministro, l'ex prodiano Patrizio Bianchi. Il poco che si sa di lui, però, inquieta, e non solo perché si riempie la bocca con espressioni tipo «collaborative problem solving skills» ed è convinto che la classe scolastica sia «una microcomunità che ha sempre meno senso». Sino a ieri è stato a capo del gruppo di esperti voluto da Lucia Azzolina per garantire la riapertura delle scuole, con i risultati che si sono visti. A giugno Bianchi fu chiamato in audizione davanti ai deputati e al termine la forzista Mariastella Gelmini lo accusò di avere «balbettato» senza dire nulla: «Non è accettabile che ancora non ci sia uno straccio di piano per la ripartenza delle scuole». Lo hanno promosso ministro e da ieri i due lavorano insieme. Che Dio ci aiuti.

Roberto Cingolani alla Transizione ecologica: uno scienziato per guidare l'Italia verso un futuro a emissioni zero. Luca Fraioli  su La Repubblica il 12 febbraio 2021. È dunque caduta sul fisico la scelta del presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi per riempire quella casella appena nata: ministro di un ministero mai esistito prima eppure centrale negli anni a venire. Un fisico, uno scienziato per guidare la transizione dell'Italia verso un futuro a emissioni zero. È dunque caduta su Roberto Cingolani la scelta del presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi per riempire quella casella appena nata: ministro di un ministero mai esistito prima eppure centrale negli anni a venire. Ma Cingolani non è nuovo a sfide di questo genere. Nel suo curriculum spicca la direzione, dalla nascita, nel 2005, fino a due anni fa dell'Istituto italiano di Tecnologia, che sotto la sua guida ha saputo imporsi come centro di eccellenza internazionale su temi di frontiera, come la robotica e l'Intelligenza artificiale. Nato a Milano sessant'anni fa, Cingolani si è laureato in fisica all'Università di Bari, dove ha conseguito anche il dottorato, per poi specializzarsi alla Normale di Pisa. E' stato ricercatore al Max Planck Institut di Stoccarda, in Germania, visiting professor all'Institute of Industrial Sciences della Tokyo University e alla Virginia Commonwealth University, negli Stati Uniti. Nel 2000 è diventato professore ordinario di Fisica Sperimentale all'Università di Lecce. E un anno dopo nella città pugliese ha fondato e diretto il National Nanotechnology Laboratory dell'Isituto Nazionale di Fisica della Materia. Grande organizzatore, viene scelto nel 2003 dall'allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti e dal suo consigliere Vittorio Grilli come direttore scientifico del neonato Iit di Genova. Una struttura unica nel suo genere in Italia, anche perché può contare su un finanziamento da 100 milioni di euro l'anno e su un profilo giuridico particolare: un istituto pubblico governato come una fondazione privata. L'anomalia dell'Iit finisce per attirare su Cingolani gli strali di parte del mondo accademico italiano. Lui risponde rivendicando i risultati dei suoi laboratori e soprattutto la capacità di attrarre talenti anche stranieri in un Paese che di norma non riesce a trattenere neppure i suoi di scienziati. Le polemiche si fanno ancora più infuocate nel 2016 quando l'allora premier Matteo Renzi decide di affidare a Cingolani la progettazione di un polo scientifico da realizzare nell'ex area Expo a Milano. Il fisico propone lo Human Technopole, una città della medicina del futuro. E il governo approva, senza, è l'accusa di gran parte del mondo scientifico italiano, confrontarsi con Università e centri di ricerca pubblici. Finito il suo mandato all'Iit, dal 1º settembre 2019 Cingolani è responsabile dell'innovazione tecnologica di Leonardo. Un incarico durato poco più di un anno, vista la convocazione nella squadra di Draghi. Ora il fisico-manager dovrà gestire la transizione ecologia dell'Italia. E i 70 miliardi che, sui 209 totali, secondo la Commissione Ue il nostro Paese dove investire per rivoluzionare trasporti ed energia. Con l'obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050.

Il ministro Cingolani è “grillino”, la bufala che fa infuriare la pancia del Movimento. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Quattro ministri, di cui due senza portafoglio (Federico D’Incà ai Rapporti con il Parlamento e Fabiana Dadone alle Politiche Giovanili), e il tentativo di associare al Movimento il fisico Roberto Cingolani, nuovo ministro della Transizione Ecologica. Polemiche, malumori e tanta delusione all’interno del Movimento 5 Stelle dopo l’ufficializzazione del nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi. La comunicazione del partito pentastellato ha provato a metterci una pezza lasciando intendere ai propri sostenitori la vicinanza di Cingolani al Movimento. Un tentativo che ha solo gettato altra benzina sul fuoco nonostante gli interventi di un Vito Crimi in versione pompiere. “Il nome di CIngolani è stato indicato da Beppe Grillo in persona e ha competenze enormi” ha sottolineato – così come riporta l’Adnkronos – il capo politico dei 5 Stelle nel corso di una assemblea infuocata dei parlamentari del suo partito. Sui canali social del Movimento è stata diffusa già da venerdì sera (12 settembre) la fotografia di cinque ministri. Oltre a Luigi Di Maio confermato agli Esteri, Stefano Patuanelli all’Agricoltura e ai già citati Dadone e D’Incà, viene inserita anche l’immagine di Cingolani. Il fisico milanese, classe 1961, è stato per 15 anni direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) prima di diventare Chief Technology Officer di Leonardo Finmeccanica. A lui Draghi ha affidato il nuovo ministero della Transazione ecologica voluto a gran voce proprio da Grillo che, tuttavia, ne ignorava l’esistenza. Non contento, il Movimento ha cercato invano di intestarsi anche il ministero guidato da Cingolani che ha sempre mantenuto una distanza di sicurezza dalla politica. In passato infatti lo si è visto ospite della Leopolda di Matteo Renzi e a Vedrò, il think tank creato da Enrico Letta. Insomma una forzatura che non è piaciuta né ai parlamentari 5 Stelle né all’elettorato. E ancora una volta il pompiere-Crimi ha provato a metterci una pezza attribuendo all’ex comico l’intuizione di Cingolani solo perché  “Beppe Grillo ha sempre pensato a dei tecnici, ha parlato di Catia Bastioli, che ha dato la sua indisponibilità. Ha fatto il nome di De Masi, Mazzucato, Cingolani… Nomi che Beppe in più di una occasione ha veicolato… così come quello dello stesso Giovannini”. Insomma una rosa ampia di nomi che avrebbero influito sulla scelta finale di Mario Draghi. Peccato però che lo stesso Crimi, sempre nel corso dell’assemblea dei parlamentari grillini, ha così provato a spegnere le polemiche sui Ministeri “light” dati al partito pentastellato, smentendo di fatto quello che aveva detto in precedenza sulla presunta influenza di Grillo. “Non ci sono state trattative sui ministeri -ha chiarito Crimi –  Ognuno può pensare quello che vuole ma trattative con Draghi non ci sono state. Draghi è un uomo abituato a sapere che un suo sopracciglio alzato fa girare i miliardi. Un senso di riservatezza a cui non eravamo abituati”.

Il caso. Cingolani, il ministro spacciato come "grillino" che in realtà è renziano…Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Altro che baluardo del Movimento 5 Stelle nel ministero chiesto a gran voce da Beppe Grillo, quella Transizione ecologica che è stata il presupposto per far digerire a parlamentari e base il sì al governo di Mario Draghi. Non si placano le polemiche su Roberto Cingolani, il ministro che il Movimento 5 Stelle già venerdì 12 settembre aveva “fatto suo” inserendolo in una grafica su Facebook accanto ai quattro ministri confermati in quota 5 Stelle, ovvero Federico D’Incà ai Rapporti con il Parlamento, Fabiana Dadone alle Politiche Giovanili, Luigi Di Maio agli Esteri e Stefano Patuanelli all’Agricoltura.  Nell’immediato però erano emersi i trascorsi tutt’altro che grillini del fisico milanese, per 15 anni direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) prima di diventare Chief Technology Officer di Leonardo (ex Finmeccanica). Cingolani era stato ospite in più edizioni della Leopolda, la kermesse politica di Matteo Renzi, ma anche agli incontri del think tank di Enrico Letta VeDrò, oltre al convegno organizzato da Davide Casaleggio “Sum#02 – Capire il futuro” nel 2018. Ma a spingere Cingolani ben fuori dal perimetro del Movimento 5 Stelle è una nuova scelta messa in atto dal neo ministro, che ha scelto come capo di gabinetto Roberto Cerreto, che ricopriva lo stesso ruolo per l’allora ministro per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi, renziana di ferro.

Umberto Rapetto per infosec.news il 14 febbraio 2021. Chi nasconde un briciolo di delusione probabilmente non sa fare i conti con la propria coscienza. Chi nega di aver sperato davvero nel “governo dei migliori” probabilmente manca solo del coraggio di ammettere la cocente insoddisfazione. La rivoluzione copernicana che ci si aspettava – secondo alcuni – non c’è stata, la politica tira un profondo sospiro di sollievo, la gente di buona volontà assapora i primi bocconi di rassegnazione. Sullo schermo di chi sperava in un buon esito dell’impegnativa partita di Super Mario è apparsa la scritta “Game Over”. E’ davvero faticoso vedere reinsediarsi chi non è riuscito a dare risposte concrete sulla drammatica vicenda di Giulio Regeni o chi ha gestito in maniera maldestra la pandemia preoccupandosi però di scrivere un libro dal titolo malaugurante poi prontamente ritirato dalle librerie. Gli italiani, è vero, sono preparati a tutto ma questa volta avevano assaporato il sogno di qualcosa di diverso, gongolando per la presunta imminente cacciata dell’incompetenza dal proscenio della Governo. Risultato fiacco per chi si aspettava davvero il “Governo dei migliori”, così come era stato strombazzato ad ogni piè sospinto. Esito entusiasmante per chi, invece, guardava con terrore ad una possibile antidemocratica tecnocrazia. Una riuscita addirittura inebriante per gli appassionati di fantascienza politica, quelli che non si accontentano di semplici colpi di scena ma fanno dell’incredibilità la loro ragion d’essere. Sotto la bandiera di una sedicente pacificazione nell’interesse dei cittadini uno statista del calibro di Beppe Grillo (quello che parlava della “coerenza dello scarafaggio”) ha rapidamente scordato i suoi severi giudizi sui leader delle altre compagini, cancellando con un soffio appellativi ormai leggendari come “psiconano” o “ebetino”, resettando le considerazioni su “tutto il ciarpame della Seconda Repubblica” o su “PD e Forza Italia insieme a Roma, il partito di Mafia Capitale”, eliminando celebri hashtag come #MaiPiùPd, #SalviniBugiardo e #CasiniUomoDaMarciapiede. Ma qualcuno dice che i tecnici ci salveranno. Per fortuna la formazione governativa ha persino uno scienziato pronto a valorizzare con la sua qualificata presenza numerose edizioni della “Leopolda” di Matteo Renzi, un po’ di incontri della Fondazione “VeDrò” di Enrico Letta, il Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, il convegno “Sum#02 – Capire il fururo” di Davide Casaleggio. Roberto Cingolani si distingue per encomiabili doti di cautela e parsimonia nelle operazioni gestionali, al punto che quando (prima di diventare top manager di Leonardo) era al vertice dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) secondo Il Fatto Quotidiano “non riesce a spendere il miliardo già avuto dallo Stato”. La lodevole tendenza al risparmio a suo tempo ha incuriosito anche Riccardo Iacona che se ne è occupato nella puntata di Presa Diretta andata in onda su Rai Tre il 19 settembre 2016. Ancora il Fatto Quotidiano – a proposito di una presumibile spiccata capacità decisionale dell’inventore dell’IIT – scrive che “Durante la dirigenza di Cingolani sono state sollevate critiche ai criteri di selezione dei vertici, scientifici e manageriali, opachi e completamente discrezionali”. La legittima ambizione di Roberto Cingolani di spiccare nel contesto professionale sarebbe stata fraintesa dall’Associazione indipendente ROARS (Return On Academic Research). ROARS ha dedicato un approfondimento sulle originali dinamiche grazie alle quali lo scienziato avrebbe conquistato una visibilità tale da classificarsi (secondo Il Sole 24 Ore) tra i primi 10 più citati esperti nelle pubblicazioni in giro per il mondo nel settore della Material Science (a dispetto degli invidiosi che lo vedono collocato alla meno gratificante 2700ma posizione). Il neo Ministro per la transizione ecologica e per l’energia – nonostante le critiche – arriva ad assumere il delicato incarico con idee che si profilano chiarissime da molto tempo. E’ senza dubbio suggestiva la lettura suggerita da “Domani” con l’articolo “Cingolani, il ministro che diceva all’Eni che il gas è il male minore”. Il quotidiano fa riferimento ad una lunga intervista in cui il titolare del potentissimo dicastero “portava avanti le sue perplessità sulle rinnovabili, dal fotovoltaico, all’eolico, e sulle auto elettriche”. Il riferimento è al pezzo “Diversificazione delle tecnologie ed educazione al risparmio” apparso a a pagina 58 del numero 39 della pubblicazione “World Energy” (edita dall’ENI) del luglio 2018. Meritevoli di attenzione sarebbero le dichiarazioni in fondo a pagina 60 dove – dopo un non troppo beneaugurante “dobbiamo accettare compromessi di altro genere”si legge tra l’altro “Le rinnovabili sono le energie meno impattanti ma bisogna fare investimenti e non risolvono tutti i problemi, soprattutto non sono utilizzabili in maniera continua come vogliamo e dove vogliamo.” Nella medesima intervista si può trovare il dettagliato quadro di insieme che il neo Ministro (forse anticipando le sue opinioni in merito) descrive testualmente. “Abbiamo l’idroelettrico che è bellissimo, però non basta per tutti; il carbone e simili sono molto inquinanti; sul nucleare abbiamo visto che ci sono diversi veti di varia natura; l’eolico ha limiti di ingombro, ha problemi se c’è vento o no, non si può mettere ovunque e, come il fotovoltaico, non è immune da impatto ambientale (a lungo andare si riempirebbe il pianeta di silicio e metallo). In questo momento il gas è uno dei mali minori: nel medio e lungo termine la risorsa più sostenibile, ma crea problemi per le infrastrutture e anche le tecnologie di trivellazione sono oggetto di molte discussioni. Se vogliamo continuare a crescere in un certo modo dobbiamo trovare soluzioni tecnologiche, ma anche sociali che ci consentano di avere più forme di energia integrate. Le rinnovabili sono le energie meno impattanti ma bisogna fare investimenti e non risolvono tutti i problemi, soprattutto non sono utilizzabili in maniera continua come vogliamo e dove vogliamo.” Questa – per diretta voce dell’interessato – la presentazione del tecnico a capo del dicastero competente sul nostro futuro. A citare la sora Lella, viene spontanea la sua espressione “aaah, annamo bene, proprio bene”.

Chi è Roberto Cingolani, il ministro per l’Ambiente e la Transizione Ecologica del governo Draghi. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Roberto Cingolani è il nuovo ministro dell’Ambiente e della Transizione Ecologica del governo che sarà guidato da Mario Draghi. Cingolani è fisico di fama mondiale, Chief Technology & Innovation Officer di Leonardo, l’azienda azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza. Ricopre tale incarico dal 2019. E’ considerato un’eccellenza e un profilo di alto livello in tutto il mondo. Considera la tecnologia verde, “per salvare l’ambiente dobbiamo anche cambiare le nostre abitudini compulsivi”. Cingolani è nato nel 1961, a Milano, è cresciuto però a Bari. Si è laureato all’Università del capoluogo pugliese per poi ottenere il dottorato alla Normale di Pisa. Può vantare esperienze in alcuni dei maggiori centri di studio del mondo, dagli Stati Uniti, al Giappone, alla Germania. Nelle sue mani andrà il ministero più delicato, forse, quello voluto da Beppe Grillo ed entrato nel quesito della piattaforma Rousseau del Movimento 5 Stelle. Cingolani ha fondato nel 2005 l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova. Alla guida dell’Iit ha collaborato alla progettazione dell’Human Technopole nell’ex area Expo. Proprio all’Istituto ha messo in campo azioni definite da diversi osservatori visionarie. Il suo nome circolava da giorni anche per il ministero della Pubblica Amministrazione. E’ grande studioso di intelligenza artificiale, “una realtà che va metabolizzata”. “Sogno come padre, professionista e cittadino un’Italia più precisa, che non muoia di imprecisione”, diceva alla Leopolda del 2019. Sogna anche una scuola che non sia ferma a 70 anni fa, al servizio del Paese. Ha fatto parte della task force di Vittorio Colao – al ministero per l’Innovazione Tecnologica – che nella primavera del 2020 aveva redatto e presentato il piano per la ripartenza dopo la prima fase dell’emergenza covid e la crisi successiva. “Un giorno andremo in altri pianeti e ciò avrà ricadute buone sulla nostra vita, sul cibo, sull’aria che respiriamo, il nostro futuro passerà anche dallo spazio”, ha dichiarato in passato Cingolani. E’ anche un grande manager, abituato a gestire somme di denaro e investimenti.

Roberto Cingolani nuovo ministro della transizione ecologica. Ecco il manifesto per la sobrietà digitale che ha scritto sull’Espresso. Il fisico neo titolare del dicastero: "Non dobbiamo rinunciare alla tecnologia. Ma è bene sapere che ogni azione digitale ha una conseguenza sull’ambiente. Un esempio? Dispositivi, server e reti producono il doppio di Co2 del traffico aereo". Roberto Cingolani, Fisico, ex direttore dell'Istituto italiano di Tecnologia (Iit) responsabile innovazione tecnologica Leonardo, su L'Espresso il 9 febbraio 2021. La tecnologia digitale è considerata un motore di sviluppo sostenibile perché consente di dematerializzare molte attività (per esempio ridurre l’uso della carta), ridurre gli spostamenti fisici (riducendo i consumi di carburante e l’inquinamento) e migliorare i processi manifatturieri (ridurre uso di energia e materie prima). Come per tutte le tecnologie il suo uso deve essere intelligente ed equilibrato: nessuna tecnologia è “gratis” e l’uso smodato delle piattaforme digitali rischia di vanificare i vantaggi intrinseci della transizione digitale. D’altro canto in questi anni tutte le società avanzate stanno facendo uno sforzo enorme per raggiungere i valori di decarbonizzazione e di riduzione dell’uso dei carburanti fossili previsti dall’accordo di Parigi. Anche un piccolo aumento del consumo di energia dovuto a nuove tecnologie, come nel caso della digitalizzazione, assume un ruolo importante ai fini del raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità globali. Proviamo quindi a rispondere in maniera obiettiva alla domanda “quanto è verde il digitale?" L’impronta energetica delle tecnologie digitali, cioè l’energia consumata per usare tutte le apparecchiature digitali che sono sul pianeta (server, reti, terminali, dispositivi mobili, etc.) cresce al ritmo del 9% annuo. Tutte le apparecchiature digitali sono alimentate a energia elettrica e pertanto aumentano i consumi globali di energia. I dati che circolano nella rete sono correnti elettriche che viaggiano su cavi, o onde elettromagnetiche prodotte da antenne alimentate a corrente, o fasci di luce che si propagano in fibre ottiche, prodotti da laser che sono alimentati a corrente. I grandi server che immagazzinano e processano i dati necessitano di enormi potenze elettriche per funzionare ed essere raffreddati. Gran parte dell’energia elettrica è prodotta da sorgenti fossili e quindi tutte le tecnologie digitali producono automaticamente anidride carbonica che va ad aumentare l’effetto serra. Se si pensa che una email di 1 MegaByte produce la stessa quantità di CO2 prodotta da una lampadina da 60 W accesa per circa mezz’ora, si comprende bene come l’aumento del traffico digitale fra il 2013 e il 2018 abbia contribuito per circa 450 milioni di tonnellate di CO2 all’effetto serra globale. Proprio in periodo di pandemia Covid-19 abbiamo assistito al formidabile aumento di video streaming e dell’utilizzo di videoconferenze e televisione digitale. Queste tecnologie ci hanno consentito di andare avanti, ma hanno un costo energetico e ambientale importante: guardare un video in cloud per 10 minuti richiede la stessa energia necessaria ad alimentare 1500 telefonini per lo stesso tempo. Per capire meglio cosa significhi tutto questo cominciamo col definire i principali responsabili dell’impronta ambientale delle tecnologie digitali:

(1) I network di telecomunicazioni che comprendono Internet e tutte le reti telefoniche e telematiche, le reti di calcolatori e la rete Telex globale. Il traffico dei dati in queste reti è cresciuto esponenzialmente e ogni anno le previsioni sono riviste in aumento. Per esempio il traffico video streaming e videogiochi è arrivato oggi a circa 200 Exabyte al mese, cioè 200 miliardi di miliardi di Byte.

(2) I Data Centre, che sono in vertiginoso aumento per soddisfare la domanda di storage per cloud e analisi Big Data, sfondando il muro degli Zettabyte (1000 miliardi di miliardi di Byte) processati ogni anno.

(3) I dispositivi connessi, che includono Computer, tablet, smartphone, smart Tv, smart watch, dispositivi per domotica, sistemi bluetooth, etc. I dispositivi connessi sono passati da 200 milioni nel 2014 a circa 2 miliardi nel 2019. Gli Smartphone sono passati da 4 miliardi nel 2017 a 5 miliardi e mezzo nel 2020.

(4) L’infrastruttura di Internet of Things, il complesso di tecnologie che utilizza, robot, intelligenza artificiale, reti di sensori per automatizzare le linee di produzione e che oggi ha raggiunto circa 7 miliardi e mezzo di interfacce di comunicazione.

Ai fini del consumo energetico complessivo occorre considerare che la tecnologia viene costantemente raffinata in modo che questi dispositivi consumino sempre di meno. Tuttavia il traffico dei dati aumenta molto più rapidamente di quanto non diminuisca il consumo elettrico, rendendo sempre più pesante l’impatto energetico delle tecnologie digitali. Oggi il consumo energetico associato a tutte le tecnologie digitali nel mondo si avvicina ai 4000 TWh (TeraWatt= 100 miliardi di Watt, nel contatore di casa di solito abbiamo 3 kW cioè 3000 Watt di potenza massima). Questo dato impressionante equivale al 3% del consumo energetico globale dell’umanità (pari a 154000 TWh nel 2018). Con l’andamento di crescita attuale si prevede di raggiungere il 5% nel 2025. D’altro canto se noi volessimo stabilizzare il costo energetico del digitale intorno al 3% del consumo globale di energia dell’umanità dovremo cambiare completamente il nostro uso di queste tecnologie. È evidente che con un consumo energetico così importante anche l’impatto sulla produzione di gas serra non è trascurabile. Nonostante una parte dell’energia che viene utilizzata per alimentare i grandi server sia rinnovabile, oggi l’emissione di gas serra dovuta alle tecnologie digitali vale circa il 4% del valore totale. A titolo di confronto l’emissione di gas serra dei veicoli da trasporto come motociclette, automobili e veicoli leggeri è circa l’8% della CO2 globale mentre quella del traffico aereo è circa il 2% (l’emissione totale di gas serra vale circa 40 miliardi di tonnellate all’anno). Con l’attuale tasso di crescita del traffico digitale c’è quindi il rischio che nei prossimi anni l’emissione complessiva di gas serra dovuta alle tecnologie digitali vada a cancellare il 20% dei miglioramenti globali faticosamente ottenuti attraverso le policy di decarbonizzazione sviluppate nell’ambito degli accordi internazionali. Insomma, benché la digitalizzazione sia uno strumento fondamentale per migliorare la sostenibilità globale, il suo uso non regolato rischia di cancellare un quinto degli sforzi che abbiamo fatto in questi anni per ridurre le emissioni di gas serra, incidendo pesantemente sul budget di CO2 disponibile per i prossimi anni previsto dagli accordi di Parigi. Stiamo quindi acquisendo consapevolezza che le tecnologie digitali tanto osannate nel mondo avanzato, sono energivore e, se mal utilizzate, producono più anidride carbonica di quanta riusciamo a ridurne con gli accordi internazionali. È chiaro però che la soluzione non possa essere fermare il progresso digitale, ma diventare responsabili nel suo uso. Tanto più che per i paesi a basso sviluppo la necessità di accelerare la trasformazione digitale è impellente. Sta quindi ai paesi più avanzati capire che anche la miglior tecnologia, se usata in maniera poco intelligente, fa danni. Occorre una riflessione di natura culturale ed antropologica: l’enorme aumento del numero di dispositivi connessi in rete avvenuto negli ultimi anni, spiega infatti l’impronta energetica del digitale, ma rivela anche alcuni aspetti comportamentali e sociali di Homo Sapiens. Vediamoli. L’aumento del traffico dati nelle reti al ritmo del 20% all’anno è dovuto soprattutto ai telefoni smart (e alle televisioni digitali). Questa crescita andrebbe stabilizzata, e in qualche modo bisognerebbe cominciare a ragionare sulla reale utilità o necessità di scambiare dati non indispensabili. Fare cioè una riflessione sulla sobrietà dell’utilizzo delle infrastrutture digitali. “Sapiens” non ha capito che postare miliardi di inutili foto su altrettanto inutili bacheche digitali è una forma di esibizionismo digitale che ha un costo ambientale che verrà pagato dalle future generazioni. Ma come è possibile che l’utente non capisca che se i dati non circolano gratis nella rete, qualcuno debba pagare? Purtroppo, oltre al costo energetico della trasmissione del dato, si è persa anche la cognizione del valore intrinseco del dato. Infatti normalmente si acquista un dispositivo e si fa un abbonamento, ritenendo che oltre questa spesa fissa per il suo utilizzo non ci sia altro tipo di consumo. In realtà abbiamo visto che non è vero anche se non se ne vede il costo sulla bolletta: ma se il prodotto sembra gratis, allora vuol dire che il prodotto è il consumatore stesso! Ed è proprio ciò che accade quando i nostri dati vengono utilizzati a nostra insaputa per analisi socioeconomiche, politiche e di mercato o, peggio, da organizzazioni con proprie finalità. I dati hanno un valore enorme, soprattutto quelli sensibili come i dati sanitari, politici, comportamentali, perché essi vengono analizzati da algoritmi molto potenti per prevedere, influenzare, decidere o prevenire situazioni. Un terzo importante aspetto sociologico è la creazione delle nuove disuguaglianze. Ciò che viene elegantemente chiamato “digital divide”, nella realtà è una vera e propria barriera allo sviluppo globale sostenibile. Nei paesi avanzati, la crescita media del Pil è rimasta intorno al 2% mentre la spesa per la digitalizzazione è cresciuta dal 3 al 5% negli ultimi anni. Altrove, dove non v’è crescita, il gap digitale aumenta. Nel 2018 un cittadino americano possedeva in media 10 dispositivi digitali connessi e processava circa 140 GB (GigaByte = miliardi di Byte) di dati ogni mese. Nello stesso anno, un cittadino indiano aveva in media un dispositivo connesso con un consumo di 2 GB di dati, decine di volte meno del suo pari americano. La digitalizzazione è quindi un fenomeno non uniformemente distribuito sul pianeta, ma il suo impatto ambientale è subito da tutti. Infine, sta nascendo una nuova tipologia di debito, di cui cominciamo ad accorgerci solo ora, che in estrema sintesi chiameremo “il debito cognitivo”. Con lo sviluppo esponenziale di Internet e delle tecnologie digitali, la quantità di informazioni a disposizione di Sapiens e l’accesso ad esse sono cresciuti a dismisura e si parla ormai di una vera e propria esplosione dell’infosfera. È vero che oggi comunichiamo molto più rapidamente, e questa è una grande opportunità e una grande conquista dell’umanità, ma siamo esposti a un flusso di informazioni talmente grande che è impossibile metabolizzarle dal punto di vista cognitivo. Se l’informazione fosse luce, oggi ne saremmo completamente abbagliati: il suo eccesso sta generando danni permanenti all’ecologia della nostra mente. La conoscenza richiede approfondimento e indipendenza di giudizio, che a loro volta richiedono tempo per creare le opportune connessioni mentali (studiare!). È questo il debito cognitivo: non capire che 2+2 continua a essere uguale a 4 anche se milioni di click sostengono demagogicamente il contrario. Non si tratta di problemi irrisolvibili, ma di cultura e di buon senso. L’incremento esponenziale del traffico dei dati è un fatto serio: non è gratis sia dal punto di vista del mercato, perché il prodotto siamo noi stessi, sia dal punto di vista ambientale, perché richiede enormi quantità di energia e produce gas serra. Sapiens deve decidere se progredire o regredire. Le tecnologie digitali sono certamente una fantastica opportunità per la civiltà e per il progresso, ma come tutte le tecnologie devono essere usate con sobrietà e con consapevolezza. Ogni azione ha una conseguenza: la prossima volta che postate una vostra inutile foto su un social pensateci!

"Diede fondi al "suo" laboratorio". E Cingolani è già nella bufera. Dopo l'articolo de Il Fatto Quotidiano sui fondi trasferiti da Roberto Cingolani dall'Iit al laboratorio di Lecce diretto dall'ex moglie, Dibba chiede trasparenza. Francesca Galici, Martedì 16/02/2021 su Il Giornale. Roberto Cingolani è il ministro per la Transizione ecologica nominato da Mario Draghi nel ministero fortemente voluto da Beppe Grillo, una sorta di do ut des per avere la fiducia del Movimento 5 Stelle. Cingolani non è un politico ma è un tecnico esperto di management, che oggi è stato messo sotto la lente d'ingrandimento da Il Fatto Quotidiano, da sempre filo-grillino. Il giornale di Marco Travaglio ha portato alla luce una vicenda risalente a qualche anno fa relativa a un trasferimento nel 2006 di "3,5 milioni di euro dai fondi dell'Istituto italiano di tecnologia (Iit), di cui era direttore dal 2004, al Laboratorio nazionale di nanotecnologie di Lecce diretto dalla moglie Rosaria Rinaldi (oggi ex moglie) e da lui stesso fino al 2004". Una fattispecie per la quale Alessandro Di Battista ha chiesto oggi pubblicamente delucidazioni. Il Fatto Quotidiano spiega che il trasferimento di fondi è potuto avvenire grazie alla doppia mansione ricoperta dal neo ministro, che nel 2004 venne nominato dall'allora ministro Tremonti direttore Iit e che fino al 2006 era responsabile della fase di accorpamento dell'Istituto nazionale di fisica della materia (Infm), istituito all'interno del Cnr. Alcuni anni prima, nel 2001, Roberto Cingolani fondò il Laboratorio nazionale di Nanotecnologie di Lecce, che diresse fino al 2004, quando gli succedette la sua consorte dell'epoca, Rosaria Rinaldi. Il Fatto Quotidiano ha ricostruito le trame di questa tela grazie ai documenti pubblici del Cnr, scoprendo anche che la seconda moglie di Roberto Cingolani, Athanassia Athanassiou, è stata tra i primi ricercatori a essere assunti a tempo indeterminato all'Iit. Il quotidiano di Marco Travaglio spiega che "Iit è una fondazione privata, sebbene finanziata con fondi pubblici, non è obbligata a pubblicare le convenzioni che stipula né i bilanci". Tuttavia risulta la delibera firmata da Cingolani affinché "la convenzione Iit-Cnr venga svolta presso il laboratorio di Lecce e sotto la direzione della Rinaldi". Nello stesso periodo, Roberto Cingolani autorizza il trasferimento dei 3,5 milioni in 5 anni da Iit al laboratorio leccese. Un passaggio che vede il ministro per la Transazione economica sia erogatore, essendo direttore di Iit, sia beneficiario, essendo in quel momento ancora responsabile dei laboratori Cnr-Infm. Ci sono poi anche altri passaggi che sono stati messi in evidenza da Il Fatto Quotidiano e che riguardano contratti di lavoro per conoscenti di vario livelli. Il quotidiano di Travaglio, nonostante la richiesta di chiarimenti, non ha ottenuto risposte, anche se all'epoca lo stesso Cingolani aveva sostenuto non ci fosse nulla di opaco. A chiedere risposte chiare e trasparenti è anche Alessandro Di Battista, in virtù dell'impegno preso con i cittadini: "Se fossi ancora un parlamentare, chiederei immediatamente al neo-ministro alla Transizione ecologica Roberto Cingolani di venire in Aula e spiegare nel dettaglio al Parlamento, quindi alla Nazione, la vicenda raccontata questa mattina dal Fatto Quotidiano. Ovvero un finanziamento di 3,5 milioni di euro elargito dall'Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), all'epoca diretto dallo stesso Cingolani, al laboratorio di nanotecnologie di Lecce diretto dalla sua ex-moglie". Quello che da molti viene considerato il leader morale del Movimento 5 Stelle è molto chiaro nel suo appello a Roberto Cingolani: "Credo sia un dovere di un ministro della Repubblica dissipare qualsiasi dubbio sulla sua condotta passata e su possibili conflitti di interesse. D'altro canto una sana opposizione ad un governo di tutti è utile alla stessa democrazia. Anche i tecnici hanno il dovere di rispondere alla pubblica opinione".

L’ex moglie di Cingolani chiarisce la vicenda Iit: “Non ci ho guadagnato niente”. Notizie.it il 16/02/2021. Rosaria Rinaldi, ex moglie del ministro alla transizione ecologica Roberto Cingolani, smentisce le accuse di favoritismo: "Ho solo fatto il mio lavoro". “Il nostro rapporto personale è finito nel 2000, non ero la moglie di Cingolani ma una collega come tante altre“. Inizia così la nostra intervista a Rosaria Rinaldi, Professore ordinario di Fisica della Materia presso il Dipartimento di Matematica e Fisica “Ennio De Giorgi” dell’Università del Salento a Lecce. La prof.ssa Rinaldi, già responsabile della commessa CNR “Nanotecnologie per la scienza della vita”, è la ex moglie del neo ministro alla transizione ecologica Roberto Cingolani. “Io non sono stata nè direttrice, nè responsabile di alcun centro, mi riferisco al National Nanotechnology Laboratory poi confluito nel Cnr-Istituto Nanoscienze” ha precisato, in relazione alle polemiche sollevate sul passato lavorativo di Roberto Cingolani che la vedono protagonista nell’intreccio di nomine legate alla direzione del laboratorio per le Nanotecnologie di Lecce. “Non ho mai avuto nessun ruolo di gestione di comando nè locale, nè centrale di quel centro” ha sostenuto, in contrapposizione alla tesi secondo cui la stessa avrebbe ricoperto ruoli chiave all’interno della struttura. “Sono stata solo responsabile scientifica di una convenzione di ricerca tra Infm, Cnr e Iit, che è ben altro, su tematiche di ricerca di cui mi occupavo e di cui ancora mi occupo. All’epoca ero una delle poche persone in Italia, forse l’unica occupata su quelle tematiche anche all’interno delle commesse (i grandi filoni di ricerca) del Cnr. Si è trattata di una responsabilità puramente scientifica e non di una direzione di un centro” ha concluso. A proposito delle vicende legate alla collaborazione che si era instaurata nel 2005 tra l’Iit e Nnl, un’operazione che aveva mosso circa 3,5 milioni di euro di fondi pubblici, Rinaldi chiarisce “Bisogna ricostruire la storia. L’Iit era partito in sordina. C’era questo grande progetto voluto da Tremonti e Grilli, la grande idea che portava alla nascita dell’Istituto Italiano di Tecnologia: si erano trovati dei fondi sotto il Ministero del Tesoro e non del Miur, ed era stata riconosciuta la capacità strategica del Prof. Cingolani nel portare avanti questo tipo di iniziative dato che in maniera pionieristica aveva fondato l’Nnl”. L’ex moglie di Roberto Cingolani ha poi sottolineato alcuni passaggi, utili a comprendere la natura della convenzione che era intercorsa tra i due laboratori: “All’epoca però non c’era l’Istituto, non c’era ancora la sede, non c’era proprio neanche il building, la costruzione, non c’era niente. Per poter partire bisognava iniziare con la ricerca. Le attività di ricerca erano state identificate dal professore come promettenti per gli investimenti futuri e per farle confluire nell’Iit che stava nascendo. Un’idea che ha sempre portato avanti il professor Cingolani, che io condivido, era che prima bisognava dimostrare di essere bravi e poi ci si faceva dare i soldi. Il fatto di avere questi centri, ce n’erano 5 o 6 di sedi in Italia, su tematiche di ricerca diversa era perché bisognava formare il personale, giovani ricercatori, dottorandi e iniziare a lavorare su queste linee strategiche che poi sarebbero tutte confluite nell’Iit, come poi è stato tra l’altro. Molti dei ragazzi formati da me nell’ambito di quella convenzione sono andati a lavorare all’Iit e sono ancora lì. Sulle accuse che sono state mosse nei suoi confronti e che alludono a un certo “favoritismo” da parte del neo ministro verso il laboratorio che lo stesso aveva fondato e in cui la professoressa svolgeva l’attività di ricerca e formazione, la Rinaldi ha risposto: “Penso di aver portato bene avanti la missione che mi era stata affidata, senza nessun ritorno a livello personale. Io non ci ho guadagnato niente, ho fatto il mio lavoro di ricercatrice e formatrice come tutt’ora faccio. Quando c’è una convenzione c’è un interesse da ambo le parti, io sono entrata in gioco perché quelle erano le mie tematiche all’epoca”. Sulla questione legata alle assunzioni in Iit dei Barbieri, rispettivamente il marito e il figlio della babysitter (il primo come tecnico di laboratorio, il secondo come categoria protetta) della famiglia Cingolani, Rosaria Rinaldi ha dichiarato: “Barbieri non è stato uno dei miei studenti, ha lavorato al centro Iit di Lecce (ad oggi Cbn) come tecnico. Quella figura è esule dalla professione scientifica. Non c’entra assolutamente niente con la ricerca in sè. I miei figli avevano una babysitter, ma questi incarichi sono arrivati dopo, quando la moglie di Barbieri non era più nella mia famiglia. Di questa storia sinceramente non so niente. Posso dirle che io non formavo il personale tecnico-amministrativo, il mio lavoro era formare scienziati”. Sulla nomina di Cingolani a ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nel governo Draghi, ha commentato: “Lui è sempre molto più avanti, è una persona proiettata nel futuro e che riesce a vedere e prevedere in maniera quasi impressionante quali sono gli sviluppi, le idee e le innovazioni su cui si deve puntare. Non ho mai conosciuto una persona come lui, ha dimostrato negli anni di saperci fare in questo campo. È un visionario in senso positivo, lui conosce la strada giusta per il futuro. Credo possa fare un buon lavoro, soprattutto se appoggiato da chi gli sta intorno. Non è mai stato legato a un partito. Non voleva essere di nessun colore. Lui mi diceva che se noi facciamo l’innovazione e abbiamo le idee per portare avanti il paese, qualsiasi partito sarebbe dovuto venire da noi e giustamente ha sempre avuto ragione”.

Francesco Leone. Giornalista e videoreporter. Laureato in Comunicazione presso l'Università degli studi di Milano, con corso specialistico post laurea in Scenari Internazionali della Criminalità Organizzata. Dal 2018 si occupa di inchieste, servizi e video reportage negli ambiti di cronaca e politica.

Deleghe ai ministeri: Cingolani fa il pieno, le Tlc divise a metà. Luca Pagni su La Repubblica il 27 febbraio 2021. Al titolare della Transizione ecologica tutte le competenze per l’energia, dalle rinnovabili alle trivellazioni per gas e petrolio, fino al nucelare. Cambiano gli equilibri all’interno del governo Draghi. Si rafforza il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, che incamera le deleghe del settore energia sfilate a Giancarlo Giorgetti, l’esponente leghista a capo del ministero dello Sviluppo economico. Tra i due si fa spazio Vittorio Colao, il manager già a capo del gruppo Vodafone cui è stato affidato il ministero dell’Innovazione tecnologica e della Transizione digitale: avrà il coordinamento di tutte le attività legate alle digitalizzazione. I progetti legati al 5G e alla rete Internet dovranno comunque passare da Giorgetti, visto che sono rimasti in capo al Mise. E nella partita dei ministeri che dovranno occuparsi di innovazione dirà la sua anche Enrico Giovannini: l’ex presidente dell’Istat ha visto modificare la dicitura del suo dicastero in ministero delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili, con quest’ultima indicazione che sconfina nelle deleghe di Cingolani e nelle sue competenze per «combustibili alternativi, reti e strutture di distribuzione per i veicoli elettrici». Le indicazioni sono nel decreto legge approvato ieri dal consiglio dei ministri. Un testo che consente alla squadra di governo di mettersi al lavoro conoscendo i limiti entro cui muoversi. Per quanto ci sarà bisogno di ulteriori aggiustamenti e non mancheranno conflitti di competenza, viste le novità introdotte, e incidenti di percorso. Il primo è già avvenuto ieri, a margine del consiglio dei ministri. Draghi ha creato alcune aree tematiche, affidandole a gruppi di cinque ministri. E proprio quella relativa all’ambiente ha visto l’esclusione di esponenti del Pd. Ha protestato Dario Franceschini, ottenendo un ripensamento da parte del premier: il Pd ha così trovato posto nella squadra dell’ambiente con Andrea Orlando. Del resto, attorno ai dossier dell’ambiente si gioca una partita importante. Basta leggere le competenze andate al nuovo ministero guidato da Cingolani. Perché dagli uffici del Mite (acronimo del ministero) passerà la gran parte dei 209 miliardi di fondi europei riservati all’Italia: almeno il 37% del Next Generation EU deve essere speso per la green economy. Alle attività storiche, ora sono state aggiunte le deleghe per l‘energia, in parte ereditate dal Mise, in parte novità. Cingolani si occuperà dello sviluppo di tutti gli impianti rinnovabili compreso l’eolico offshore e relativi incentivi. Inoltre, dovrà sovrintendere ai permessi per le trivellazioni alla ricerca di giacimenti di gas e petrolio, così come alla sicurezza nucleare. Avrà poi il compito di creare una rete nazionale di ricarica per garantire i rifornimenti dei veicoli elettrici. Quella della transizione, commenta il ministro, «è una sfida imponente e tutto il governo è impegnato a lavorare per portarla a termine. Abbiamo davanti a noi poco tempo per vincerla, ce lo dicono i dati scientifici sui cambiamenti climatici». Per un ministero che aumenta il suo peso specifico, un altro viene in parte ridimensionato. Nei giorni scorsi, Giancarlo Giorgetti si è battuto per evitare che il Mise perdesse le deleghe sulle telecomunicazioni. Si è raggiunto un compromesso. A Colao vanno tutte le attività di «promozione, indirizzo e coordinamento» sulla parte più innovativa delle tlc: dalla digitalizzazione della Pa e delle imprese al Fascicolo sanitario elettronico, dall’Agenda digitale alle tecnologie emergenti come l’Intelligenza artificiale, la blockchain e l’Internet delle cose. «È un’occasione per colmare gli storici divari territoriali, per favorire e promuovere l’uguaglianza di genere e generazionale, offrendo ai nostri giovani solidi percorsi di opportunità e piena cittadinanza», afferma ora il ministro. Al Mise invece rimangono le competenze sulle infrastrutture che dovranno permettere tutto ciò, dalla rete unica a banda larga al 5G. E non è poco.

Marta Cartabia alla Giustizia: una vita da giurista tra l'Italia e il mondo. Liana Milella  su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Docente di diritto, ha presieduto la Corte costituzionale fra il dicembre 2019 e il settembre 2020. Si sa tutto di Marta Cartabia, classe 1963, fino alla sua elezione plebiscitaria, l'11 dicembre 2019, al vertice della Consulta, prima donna a ricoprire quell'incarico dopo 45 presidenti al maschile. È noto come abbia mescolato la sua vita di accademica, con un'attenzione specifica al diritto costituzionale europeo, con quella di moglie e di madre di tre figli. Sappiamo che è anche una sportiva, corre tutte le volte che può e ama la montagna, anche se alla fine del suo mandato alla Corte ha scelto di riposare per una settimana a Favignana. L'inglese è la sua seconda lingua. Ha vissuto negli Usa e lì è nato il rapporto con un "professorone" come Joseph Weiler che di lei vanta "la straordinaria erudizione" e al contempo "l'originalità e creatività". Sappiamo altresì che ha scritto di giustizia, con Luciano Violante, il saggio "Giustizia e mito" nel 2018 (Il Mulino) e ancora, appena l'anno scorso, con Adolfo Ceretti, un volume con un titolo che di sicuro piace ai garantisti, "Un'altra storia inizia qui, storie di giustizia riparativa" (Bompiani). Ed è la giurista che sulla giustizia, a Repubblica, appena eletta presidente della Corte costituzionale dice: "La giustizia deve sempre esprimere un volto umano: ciò significa anzitutto, come dice l'articolo 27 della Costituzione, che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità, ma che la giustizia deve essere capace di bilanciare le esigenze di tutti". "Una cura che salvi insieme assassino e città", come diceva il cardinale Martini. Ma c'è la Cartabia di questo ultimo anno, quella post Consulta, che definisce i dettagli del suo ritratto. Eccola, il 18 agosto dell'anno scorso, mentre tiene una lectio su Alcide De Gasperi nel paese in cui nacque, Pieve Tesino. Lei ragiona su "Costituzione e ricostruzione", giusto mentre a Rimini, al Meeting di Comunione e liberazione, c'è Mario Draghi che cita a sua volta lo statista democristiano. È cattolica Cartabia, certo, non ne ha mai fatto mistero, ma i laici la stimano, tanto da conferirle nell'agosto 2020, il premio Spadolini per i suoi studi sull'Italia in Europa. Alla Consulta, tutti sottolineano la sua capacità di ascolto e di attenzione alle posizioni degli altri, senza pregiudizi, anche sui temi più delicati. È una giurista che dedica molta attenzione alla scuola e all'università, al futuro dei giovani, dei quali parla a Pisa, quando il Collegio Sant'Anna le assegna il dottorato honoris causa e lei tiene una prolusione dal titolo indicativo, "Per l'alto mare aperto: l'università al tempo della grande incertezza" e dice: "I giovani devono tornare a essere la priorità tra tutte le priorità di questo inaspettato presente e devono essere preservati come bene essenziale perché qui si gioca una partita decisiva anche per la società e la democrazia di domani". Era il 9 dicembre, ma è impossibile non cogliere la consonanza con le parole appena pronunciate da Draghi sul rilancio della scuola. Chiuso il lungo novennato alla Consulta Cartabia torna al suo mondo, l'università. Lei, che ha insegnato a Milano Bicocca prima di diventare giudice costituzionale nel 2011, passa alla Bocconi. In inglese, agli studenti del quarto anno, tiene il corso di Costitutional justice ed è soddisfatta perché, come dice, "erano tutti motivatissimi e partecipativi e nonostante la didattica a distanza rispondevano benissimo". Alla fine, agli esami, hanno preso anche ottimi voti. Il diritto è la sua vita, da sempre. Nel 2017 la chiamano a far parte della Venice Commission, la commissione del Consiglio d'Europa che dà pareri tecnici del tutto indipendenti su questioni di diritto costituzionale ai paesi che ne facciano richiesta. In passato, aveva già fatto parte, come esperto indipendente, dell'Agenzia dei diritti fondamentali che ha sede a Vienna. Il 25 gennaio ha presentato il report dell'Agenzia con il direttore Michael O'Flaherty. Un testo che evidenzia come l'Italia, insieme ad altri quattro paesi della Ue, non ha una National Human Rights Institution pur richiesta dalle Nazioni unite sin dal 1993. Ma quando Cartabia parla dei suoi incarichi ci tiene a sottolineare che hanno tutti "una caratura tecnica, e mai politica". È il suo profilo, quello di una giurista. È lei che ha fondato, nel 2009, la prima rivista di diritto costituzionale in lingua inglese, l'Italian Journal of Public Law, assieme a Giacinto della Cananea. Da luglio prossimo sarà co-presidente dell'International Society of Public Law, l'associazione che riunisce gli accademici del diritto pubblico a livello mondiale. Infine, il diritto e le donne, un tema che la appassiona soprattutto da quando è arrivata alla Corte costituzionale, unica donna con 14 uomini. Proprio alle donne ha dedicato numerose puntate su Rai Storia e ci ha tenuto a raccontare la vicenda della prima donna divenuta prefetto - si chiamava Rosa Oliva - proprio grazie a una storica sentenza della Corte. Basta sentire quello che dice a Reggio Emilia, il 4 dicembre dell'anno scorso, quando con Violante commemora la figura di Nilde Iotti: "Quel suo richiamo a misurarsi nella vita delle istituzioni è innanzitutto un richiamo rivolto alle donne; un richiamo a non ritrarsi davanti alle responsabilità: con stile, con classe, ma anche con tenacia come la sua esperienza personale testimonia anche agli uomini e alle donne di oggi".

Marta Cartabia, chi è la nuova ministra della Giustizia. Notizie.it il 12/02/2021. Il nuovo Ministro della Giustizia del Governo Draghi è Marta Cartabia, nota per essere stata la prima carica donna a capo della corte costituzionale. Il nome di Marta Cartabia è forse uno dei nomi più attesi del nuovo Governo Draghi. Nuova Ministra della Giustizia, Cartabia potrebbe ricoprire un ruolo cruciale in vista di una prossima riforma della Giustizia fortemente chiesta dai partiti nel corso delle Consultazioni. Marta Cartabia è anche nota soprattutto per essere stata la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Corte Costituzionale, un ruolo che il nuovo ministro ha ricoperto fino allo scorso settembre. Terminato il suo incarico istituzionale Cartabia ha ripreso la docenza all’Università Bocconi dove insegna Diritto e Giustizia Costituzionale. Marta Cartabia è nata a San Giorgio su Legnano, un comune della città metropolitana di Milano, il 14 maggio 1963. Nel 1987 si è laureata in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano. Muove i suoi primi passi nel mondo del lavoro con una carica decisamente importante, tra il 1993 e il 1995 infatti è assistente presso la Corte Costituzionale. Successivamente, ha svolto periodicamente attività di ricerca e insegnamento in Italia e all’estero, diventando professoressa di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Marta Cartabia è inoltre, direttrice di numerose riviste, fondando anche la prima rivista giuridica italiana, in lingua inglese: “Italian Journal of Public Law”. Nel 2011 è stata nominata giudice della Corte Costituzionale dal presidente della Repubblica allora in carica, Napolitano. È stata la terza donna in assoluto ad essere nominata ed è tra i più giovani giudici mai nominati. Nel 2014 è diventata vicepresidente della Corte Costituzionale. Inoltre, è Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Marta Cartabia è apprezzata dal Partito Democratico per la sua illustre conoscenza dell’Unione europea, ma piace anche al M5s in merito alla sua figura di garanzia istituzionale. Dopo la caduta del primo governo Conte, il suo nome era comparso nella rosa dei papabili premier per un esecutivo di transizione: sarebbe stato il primo caso di presidente del Consiglio donna della storia italiana. In tempi più recenti Marta Cartabia è stata la prima donna a diventare Presidente della Corte Costituzionale, ruolo che ha ricoperto fino a settembre 2020.

DAGOREPORT il 15 febbraio 2021. “Cartabia? Autentica nostra risorsa”. Così, intervistato oggi da “Repubblica”, Giorgio Vittadini, uno dei leader di Comunione e Liberazione nonché regista, appena sei mesi fa, del discorso di apertura di Mario Draghi Meeting di Rimini, si “appropria” del neo ministro della Giustizia. Racconta linkiesta.it: “Di lei si sa poco, ma la sua appartenenza a Comunione e Liberazione non è un mistero. Amica di Julian Carron, presidente del movimento ecclesiale, partecipa alle assemblee dei responsabili. Ogni estate fa tappa al Meeting di Rimini, qui ha incontrato pure Mario Draghi. A Roma, invece, poca vita mondana. Piuttosto jogging e messe. «Non ha mai frequentato i salotti, Marta riassume in sé l’efficienza varesotta», spiega chi la conosce bene. La si vede più facilmente a scuola di comunità, appuntamento settimanale ciellino dove don Eugenio Nembrini, responsabile romano di CL, la saluta come «la prima della classe»”. Aggiunge Fabrizio D’Esposito sul “Fatto quotidiano” di oggi: “Il marito di Cartabia, Giovanni Maria Grava, è stato tesoriere di Cl e lei stessa collaborava con il Sussidiario.net, quotidiano ciellino, con editoriali contro il fine vita e il matrimonio tra omosessuali. Da quando però sulla giurista si è allungata la stima di due capi dello Stato, prima Napolitano, indi Mattarella, è come se lei volesse accantonare o sbianchettare il suo passato di cattolica conservatrice”. Intanto, a proposito di sbianchettamenti, non si per quale motivo, tra i suoi numerosissimi incarichi accademici, istituzionali e scientifici, la varesotta Cartabia evita di precisare nel suo curriculum il lungo rapporto con Antonio Baldassarre. Dall’Ansa del 2 settembre 2011 veniamo a sapere: “Dal 1993 al 1996, anni in cui farà la ricercatrice a Milano prima di diventare professore associato di istituzioni di diritto pubblico alla facoltà di Economia dell'Università di Verona, sarà assistente di studio alla Corte Costituzionale dell'allora giudice Baldassarre”. A dispetto di quanto afferma Vittadini, non è solo Comunione e Liberazione che fa da trampolino di lancio del neo-ministro che deve riformare la giustizia. Un ruolo decisivo lo svolgono il figlio del presidente, Bernardo Mattarella, e il figlio del presidente emerito, Giulio Napolitano. Correva l’agosto del 2011 quando Giorgio Napolitano atterrò al Meeting di Rimini scortato dal figlio Giulio. L’allora presidente della Repubblica doveva nominare una donna alla Corte Costituzionale in sostituzione della giudice Maria Rita Saulle e Giulio gli suggerisce la ciellina Marta Cartabia. E Re Giorgio la incontrò in un dibattito pubblico al Meeting. Un mese dopo il Meeting, il 13 settembre 2011, l’ambiziosissima assistente di Antonio Baldassarre venne nominata da Giorgio Napolitano alla Corte Costituzionale: è la terza donna dopo Fernanda Contri e Maria Rita Saulle ed è una dei giudici costituzionali più giovani della storia della Consulta: ha solo 48 anni. ‘’Di lei ha grande stima anche l'attuale capo dello Stato Sergio Mattarella: i due condividono l'esperienza di giudici costituzionali per alcuni anni, in cui sono anche vicini di casa, nella foresteria della Consulta. Anni fatti anche di qualche cena insieme in un ristorante romano, "un po’ come studenti fuorisede", come racconterà poi lei stessa in un'intervista” (da Repubblica). La durata del mandato di Marta Cartabia alla Corte Costituzionale è appena di 9 mesi e 2 giorni: dall’11 dicembre 2019 al 13 settembre 2020. Tipo nomina da parte del Presidente della Repubblica. Nel 2009 Marta Cartabia ha cofondato la prima rivista italiana di diritto pubblico in lingua inglese, l'’’Italian Journal of Public Law’’ che codirige dalla fondazione. In questo giornale scrivono anche Giulio Napolitano e Bernardo Mattarella entrambi allievi del Prof. Sabino Cassese, giudice alla Corte Costituzionale negli anni in cui Cartabia fu nominata da Re Giorgio. Ovviamente anche il nome di Cassese brilla tra gli advisors della rivista. Ma per avere un quadro completo della rete di potere che ha “creato” Marta Cartabia l’articolo del 2015 che segue è molto interessante…

DAGOREPORT il 24 febbraio 2021. Nell’ultima settimana non è passata inosservata l’assenza di Marta Cartabia alla messa mattutina (e quotidiana) nella chiesa milanese di San Giorgio al Palazzo a due passi dal Duomo. Non un luogo di culto qualunque, a dare ascolto ai fedeli di rito ambrosiano, l’edificio eretto nel 750 sulle antiche vestigie del palazzo imperiale voluto da Diocleziano. Qui ha sede anche il Sacro Ordine Costantiniano di San Giorgio. Per carità, nulla di misterioso o di esoterico. L’Ordine, ex presidenti della Repubblica (Cossiga e Scalfaro), e altrettanti capi di governo (Berlusconi e Dini). Nell’albo d’oro vengono pure menzionati il principe Alberto di Monaco, lo scienziato Antonio Zichichi, l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini e il Re del Losoto. Desta, dunque, almeno curiosità che la neo ministra     della Giustizia, nata guarda caso a San Giorgio su Legnano (Varese) – ancora San Giorgio! – e tra i candidati a succedere a Mattarella nel febbraio 2022, sia “prossima” all’Ordine costantiniano di San Giorgio. E suscita altrettanta curiosità che tra “maestri” della pia Marta, oltre a don Giussani, fondatore di Comunione e liberazione, ci siano il giurista laico Valerio Onida, e l’ex partigiano nonché ex presidente della Corte Costituzionale, Ettore Gallo, autore del volume “Il Gran Maestro del Sovrano Ordine Costantiniano di San Giorgio”, edito da il Minotauro. Con tanto di prefazione del cardinale Mario Francesco Pompedda, morto nel 2006 dopo aver ricoperto incarichi di primo piano in Vaticano: consulente ecclesiastico dell’Unione giuristi cattolici romani e patrocinatore della Sacra Rota. Ma nella prossima corsa al Quirinale Marta Cartabia, prima donna a presiedere l’Alta corte (sei mesi e due giorni), vanno associati altri due sponsor di gran peso istituzionale: l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano (ex Pci), e l’attuale presidente in carica, il cattolico (ex Dc), Sergio Mattarella. E nel suo ius pensiero, ondeggiante tra il sacro di Comunione e liberazione e il profano della sinistra, santa Marta si confronta con l’ex magistrato del Pd, Luciano Violante, su “Giustizia e mito”, saggio edito da il Mulino. E se non bastasse l’eccellente compagnia dei suoi estimatori, a mettere ali alla nomination della Cartabia sembra provvedere, magari inconsapevolmente, la Repubblica. Già, nemmeno il tempo di ottenere la fiducia che   nell’accampamento sinistrato del governo Draghi è scoppiata, la Guerra delle (quote) Rosa. A scatenarla sul quotidiano fondato da Scalfari, è stata Concita De Gregorio, che ha accusato il Pd di aver cancellato le donne dalla lista dell’esecutivo compilata con l’infallibile Cencelli da SuperMario. Per l’ex direttrice dell’Unità (che fu in quota Veltroni-Renato Soru, l’editore di allora portandolo sull’orlo del fallimento), Zingaretti aveva riservato Pd le sue tre poltrone, ai tre capicorrente del partito: “Sua Maestà” Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini. Uscito malconcio dalla crisi del Conte bis, il povero Nicola Zingaretti forse non si aspettava quel colpo basso che sta (re)suscitando polemiche mai sopite in nome, appunto, della (rappresentanza) Rosa. “La storia delle donne è stata fatta dagli uomini (…) così il problema femminile è sempre stato un problema dell’uomo”, osservava Simone De Beauvoir. Allora Conchita sposta il tiro facendo suo lo slogan del Nobel Rita Montalcini: “Mio marito sono io”. Segue dibattito, con Luciana Castellina, ex Manifesto, che infilza la Pulzella di largo Fochetti: “Non sono mai stata una grande appassionata delle quote femminili, non è che cambia la società se una donna s’infila nei ruoli maschili”. E le fanno eco Marisa Rodano, storica dirigente del Pci: “Le donne rifiutino i posti di consolazione, no alle quote rosa”, e Dacia Maraini sul Corriere della Sera. Una diatriba infinita (a sinistra), spentasi per l’acqua versata dalle altre voci femminili sul fuoco (fatuo) acceso da Conchita, che forse farebbe qualche passo in avanti seguendo i suggerimenti di Michele Ainis, che affronta il tema della diseguaglianza sessuale nel suo volume “La piccola eguaglianza” (Einaudi). Prendendo ad esempio il modello nordamericano dei goals e quotas che “determina un’eguaglianza nei punti di partenza, non sulla linea del traguardo”, l’opinionista di Repubblica aggiunge che il sistema delle quote (rosa) punta su una riserva rigida dei posti disponibili. E solo il primo strumento (goals) è compatibile con i principi liberali, scolpiti nelle Costituzioni di tutto l’Occidente”. Per Marta Cartabia, tenutasi a distanza dalle baruffe al femminile sullo spinoso tema, forse per lei valgono ancora gli insegnamenti del futuro pontefice Ratzinger (2004): “La donna deve essere protagonista, ma non antagonista”. E da buona cattolica sa che nei Conclavi spesso si entra da Papa e si esce cardinali.

Paolo Bracalini per “il Giornale” – 9 febbraio 2015. È «il principe ereditario», e per discendenza diretta, nella Roma dei salotti e delle corti, si ereditano anche potere, status, relazioni. Poteva non essere brillante la carriera di Giulio Napolitano, figlio del più duraturo (nove anni) presidente della Repubblica italiano, già presidente della Camera e già ministro dell'Interno? Il cognome, diciamo, può aiutare. Spesso, però, può essere ingombrante, un ostacolo per chi sceglie, come ha fatto Napolitano jr, strade diverse da quelle paterne, non la politica ma la giurisprudenza, l'accademia. Bisogna dire che, nonostante l'ingombro del cognome, Giulio Napolitano se l'è cavata benissimo. Anche se i soliti invidiosi mettono bocca pure su questo. Perché l'università dove Giulio Napolitano è ordinario di Diritto pubblico, l'ateneo Roma Tre, è anche nota come «l'università dei Ds», e perché lo storico rettore Guido Fabiani è cognato di Giorgio Napolitano, avendo sposato la sorella della moglie Clio. Dunque, lo zio di Giulio Napolitano, brillante docente dell'ateneo. Collega, tra l'altro, di sua cugina, Anna Fabiani, figlia del rettore (nel frattempo diventato assessore della giunta Pd della Regione Lazio). E allora? Se uno è bravo non va preso solo per il cognome che porta? «Ha fatto parte di varie commissioni di studio e di indagine presso ministeri ed enti pubblici» riassumono le biografie. Incarichi importanti fin da subito, come quando nel 2003, poco più che trentenne, diventa consulente legale della giunta comunale di Roma, guidata da Walter Veltroni. In effetti non può distrarsi un attimo che lo nominano in qualche comitato, board, commissione. Nel 2007 Nomisma, società di consulenza bolognese fondata da Romano Prodi, deve scegliere il nuovo comitato scientifico, chi chiama a farne parte? Napolitano jr, ma anche Filippo Andreatta, cioè Andreatta jr, economista e vicepresidente della fondazione Arel, quella di Enrico Letta. E proprio la fondazione lettiana fu galeotta per l'amore sbocciato tra Napolitano jr e l'attuale ministra Marianna Madia (ora renziana, ma all'epoca lettiana). Diverse le foto che li ritraggono insieme nella tribuna vip dell'Olimpico, per seguire la amata Lazio, o sulla spiaggia di Capalbio, ritrovo della sinistra potentona romana. «Con lui cominciai una storia sentimentale quando suo padre Giorgio era ancora solo un ex e illustre dirigente del Pci. Poi... beh, sono stata a cena, sul Colle, una sola volta» racconta, un po' infastidita della curiosità per una storia passata, la ministra Madia. Che, per coincidenza astrale, ha finito con l'avere come capo del legislativo al suo ministero il figlio del successore di Napolitano al Colle, Bernardo Mattarella, cioè Mattarella jr. Ed entrambi, Napolitano Jr e Mattarella, siedono nel Comitato direttivo dell'Irpa. Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione, insieme a Sabino Cassese, amico di Napolitano senior. E così, tra i referenti del Master in diritto amministrativo dell'Università Sapienza, diretto da Mattarella jr, tra i docenti c'è proprio Napolitano jr. Un piccolo mondo. La vulgata è che Napolitano jr abbia l'influenza, nel nuovo assetto di poteri tutti di marca Pd, per promuovere anche carriere e nomine altrui. Sotto il governo Monti, chiamato dal padre Napolitano, arriva al governo l'amico e co-autore di numerosi volumi Andrea Zoppini, come sottosegretario alla Giustizia. A Lavoro, come viceministro, Michel Martone, anche lui habitué, come Giulio, di VeDrò, il think tank di Enrico Letta. Poi nelle nomine delle partecipate del Tesoro, di cui è consulente, per molte, lo studio Zoppini. Fino addirittura - più leggenda che realtà – alla chiamata (sempre quirinalizia) a Palazzo Chigi proprio di Enrico Letta, con cui Napolitano jr ha grande consuetudine avendo fatto il suo consigliere giuridico per anni. Realtà e non leggenda, invece, sono gli altri innumerevoli incarichi ricevuti da Napolitano jr. Specie nello sport, sua passione, ricambiata dalla passione dei vertici sportivi per la sua professionalità. Lo chiama il Coni, lo chiama la Federcalcio, lo chiamano a far parte della Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport, poi della Commissione per la riforma della disciplina delle società sportive, poi di quella per «Roma 2020». Ma non solo sport, le consulenze gli spuntano da ogni dove. Nel 2009 viene nominato nel board di Telecom Italia, su indicazione dell'Agcom, l'autorità per le comunicazioni. Materia di cui si intende Napolitano jr, avendo scritto lui come consigliere giuridico, insieme a Zoppini (futuro sottosegretario di Monti), il disegno di legge di Enrico Letta sul riordino delle authority presentato due anni prima.

PS. E l'altro principe ereditario? Giovanni Napolitano è dirigente dell'Agcm, l'Authority della concorrenza, dove lavorano anche Anna Marra, figlia di Donato Marra segretario generale del Quirinale con Napolitano, e Giovanni Calabrò, figlio del presidente dell'Agcom.

Nessuna svolta con la Cartabia: resta la riforma Bonafede varata per propaganda. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. C’erano una volta i garantisti. Erano pochi (eravamo pochi), una pattuglietta. Però combattiva, coraggiosa. Tutti rompiscatole. La gente perbene, specialmente quella un po’ forcaiola, ci guardava con sospetto, spesso ci ingiuriava. I giustizialisti doc, quelli come Davigo, o Travaglio, ci consideravano, in sostanza, complici. Di chi? Beh della mala, dei corruttori, qualche volta anche della mafia. Un po’ lo dicevano, un po’ lo facevano capire. Noi impavidi. Convinti delle nostre battaglie. Con quella fissazione un po’ ottocentesca, forse: lo stato di diritto e non lo stato del più forte. Non ci faceva paura nessuno. O quasi nessuno. Neppure il partito dei Pm (che ci riempiva di querele), tantomeno i travaglisti (che ci riempivano di ingiurie). Avanti, a testa alta, compatti, per la separazione delle carriere, per la responsabilità dei giudici, per la riduzione al minimo del mandato di cattura, per la depenalizzazione, e poi per la difesa di quell’articolo tanto importante della Costituzione, il 111, che definisce il giusto processo e che non piace molto in giro a tanta gente. Perché non piace molto? Perché stabilisce due principi considerati da molti non liberali ma libertini. A noi, gente a cui piacciono sia i liberali che i libertini, i due principi del 111 sono sempre andati a genio. Il primo dice che difesa e accusa devono essere sullo stesso piano. Con gli stessi diritti. Il secondo dice che il processo deve avere ragionevole durata. Difesa e accusa non sono mai state sullo stesso piano, si sa. E i processi durano anche vent’anni, o venticinque, o trenta. Che è un tempo non ragionevole. E allora? Allora, fino a poco più di un anno fa, c’era la prescrizione che serviva a poco, perché comunque prevedeva tempi lunghissimi, ma un po’ serviva, specialmente ai poveretti accusati di reati piccoli piccoli. Poi la prescrizione è stata demolita dai Cinque Stelle, sappiamo tutti perché: per propaganda. Precisamente è stata abolita dai 5 Stelle e dalla Lega, e l’abolizione è stata ratificata dal Pd e dall’estrema sinistra. Ora però eravamo tutti speranzosi, perché Conte è stato mandato a casa, è arrivato Draghi e ha messo al ministero della Giustizia una giurista vera e una liberale e “beccariana”. Marta Cartabia. Stavamo tranquilli: chiaro che il primo gesto del nuovo governo ci dicevamo – sarà il ripristino della prescrizione. Oltretutto il procedimento di abolizione dell’abolizione era già avviato, con la presentazione alla Camera di alcuni emendamenti alla legge cosiddetta “milleproroghe”. Gli emendamenti cancellavano la legge Bonafede che aveva abolito un principio essenziale della nostra civiltà giuridica. E proprio per il rischio che quegli emendamenti passassero che era caduto il governo Conte. Finalmente, noi garantisti convinti e impenitenti sentivamo che era giunta l’ora nella quale si rompeva l’isolamento e si vinceva la prima battaglia. Poi…Poi si è arrivati alla discussione in commissione, alla Camera, sugli emendamenti salva prescrizione. Ma non sono stati discussi: i presentatori li hanno ritirati. Come ritirati? Sì, già, ritirati. Ma perché? Ci hanno detto che non si poteva rendere subito la vita difficile alla Cartabia, meglio evitare lo scontro. E i principi? E i poveri imputati in eterna attesa? Beh, un’altra volta. Ci siamo infuriati e ci siamo guardati intorno per vedere quanti eravamo pronti a dar battaglia. Stavolta, pensavamo, si vince. Siamo tanti. Macché: erano spariti tutti. Abbiamo chiamato a gran voce i nostri amici. Quelli del Pd, quelli di Forza Italia, i fratelli di Italia Viva, i calendiani… Ehi, dove siete? Silenzio, non c’era più nessuno. Solo, al solito, le Camere penali. Che tristezza. Stavamo per ritirarci pure noi del Riformista, molto tristi, quando abbiamo sentito un rumore cadenzato di tacchi. Di chi? Chi sta arrivando? Era Giorgia Meloni. Già, proprio lei, l’erede del vecchio partito fascista, la figlia di Almirante, la portabandiera della destra estrema, la nemica di tante battaglie. Era lì, con noi, decisa a lottare per la prescrizione. Per il Diritto. Aveva scritto una lettera molto bella e saggia alla Cartabia. Chissà se le risponderà. E chissà se le risponderà qualcuno dei garantisti che fino all’altro giorno si batteva per la prescrizione e ora si batte solo per la Cartabia. È la realpolitik, ci hanno spiegato. Non bisogna disturbare il manovratore, sennò si resta soli. Soli con la Meloni. Già. Beh, meno male che almeno lei c’è. Ogni tanto anche in Parlamento si incontra qualcuno con un po’ di coraggio in tasca.

30 mesi di disastri incalcolabili. Dopo Bonafede, il peggior ministro della storia, con la Cartabia alla giustizia si riaccende la speranza. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Non so se il governo Draghi si mostrerà all’altezza delle aspettative. Deve scalare un muro molto alto. Deve riparare i danni notevoli prodotti dalle classi dirigenti – nella società e nell’economia – in questi tre anni di governo populista e demopopulista. E poi deve avere un’idea per il rilancio del paese. Senza slogan, senza demagogia. Gli obiettivi essenziali sono due: far ripartire l’economia e ristabilire lo Stato di diritto. L’economia è in uno stato comatoso. Per via del virus, per via degli errori dei governi dell’ultimo quarto di secolo (e anche per l’invadenza della burocrazia e della magistratura) e per colpa di questi anni spesi all’insegna dell’improvvisazione e del dilettantismo. Servono risorse, idee, capacità di coordinare sviluppo ed equità sociale. Nel governo ci sono i nomi di persone tra le più qualificate in questo campo. Speriamo. Il secondo obiettivo è il ritorno del diritto e della libertà. Travolti dai Cinque Stelle e dai loro acquiescenti alleati. I disastri provocati nel giro di poco più di trenta mesi sono incalcolabili. L’abolizione della prescrizione, la legge liberticida chiamata spazzacorrotti (spazzadiritti è il termine giusto) le misure che moltiplicano le possibilità di spionaggio nella vita dei cittadini, lo stop alla riforma carceraria, l’aumento dell’invadenza dei Pm (sebbene la loro credibilità sia stata travolta dal Palamaragate) sono delle montagne che si sono piazzate tra l’idea dello stato di diritto e il nostro paese. Ora c’è una grande novità: il ministro peggiore, sicuramente, della storia della Repubblica (anche non per cattiva volontà, proprio per inadeguatezza totale) lascia il ministero a una giurista di grande valore e della quale conosciamo alcune delle idee che ha espresso negli ultimi anni. Si chiama Marta Cartabia, è stata presidente della Corte Costituzionale ed è sulla sua persona che si concentrano tutte le speranze. Un paese come il nostro non può vivere senza le libertà e il diritto. Gli è successo una volta, ed è morto. La nomina di Cartabia accende la speranza. Per ora è solo una speranza.

Cartabia fa dimenticare la vergogna di aver avuto un ministro medievale come Bonafede. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Non so se Marta Cartabia riuscirà nei prossimi giorni o mesi a riformare alcuni dei pasticci orrendi combinati dal povero Bonafede nei tre anni passati a far guai a via Arenula. Non so se riuscirà a reintrodurre in fretta il principio sacrosanto e garantista e costituzionale della prescrizione. Non so se riuscirà a cancellare la “spazzacorrotti” (meglio dire la “spazzadiritti”), cioè la legge che stabilisce che prendere (o essere sospettati di aver preso) o dare una bustarella è reato assai più grave dello stupro. Non so se riuscirà a eliminare le leggi sulle intercettazioni e sui trojan che fanno assomigliare oggi l’Italia molto più alla vecchia Germania comunista che non alla Gran Bretagna liberale. Però… Però, ecco, quando parla Marta Cartabia ci fa dimenticare la vergogna di avere avuto ministri della giustizia ( e partiti di governo) medievali. Ieri la ministra ha tenuto un discorso al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine, e ha pronunciato parole che hanno fatto immaginare a tutti che l’Italia sia ancora la patria del diritto, e non la patria delle gogne a 5 stelle. Immagino che il partito dei Pm inorridirà, se leggerà quel che ha detto la ministra, e il fatto che il partito dei Pm inorridisca non è una cosa che ci rattrista. Vediamo solo due frasi pronunciate dalla Cartabia. La prima è relativa alla necessità di non concepire la pena come una vendetta e di considerare anche il carcere un luogo di speranza e non di disperazione e di terrore, e di privilegiare l’azione che favorisce il reinserimento piuttosto che l’azione punitiva. Ha citato a questo proposito anche le statistiche – facendo probabilmente infuriare Travaglio, che ha dedicato nel tempo decine di pagine del suo giornale a sostenere il contrario – secondo le quali “a fronte di un trattamento dei detenuti più costruttivo corrisponde un più basso tasso di recidiva”. La seconda frase che ha pronunciato la ministra, e che ha un valore immenso e rivoluzionario, è stata il richiamo alle “Mandela Rules”, e cioè alle regole sul trattamento in carcere che l’Onu approvò un po’ più di cinque anni fa e che furono dedicate al vecchio combattente sudafricano, che passò quasi la metà della sua vita in cella. In Italia le Mandela rules non le ha mai invocate nessuno, se non i radicali. Non sono neanche conosciute. E pure il nome di Nelson Mandela, di solito, è trattato con seppur gentile sospetto. Non è mai piaciuto il tipo di giustizia che Mandela impose al suo paese, dopo essere uscito di prigione e dopo aver preso il potere: il rifiuto o la riduzione ai minimi termini della pena e del suo valore. Bene, cosa dicono le “Mandela Rules”? Tante cose molto importanti ma soprattutto, dal nostro punto di vista, parlano del 41 bis e mostrano orrore nei confronti di una regola così inumana e feroce. I paragrafi 43, 44 e 45 prevedono espressamente la possibilità di usare l’isolamento del prigioniero ( e quindi una situazione simile a quella del nostro 41 bis) per non più di 15 giorni. Leggete qui.

Regola 43: “In nessun caso possono aversi restrizioni o sanzioni…inumane o degradanti, in particolare sono vietate le seguenti pratiche:

a) indefinito isolamento,

b) isolamento prolungato”

Regola 44: “Ai fini di queste regole, l’isolamento si riferisce al confinamento dei detenuti per 22 ore o più al giorno senza significativo contatto umano. L’isolamento prolungato si riferisce all’isolamento per un periodo superiore ai 15 giorni consecutivi”.

Regola 45. “L’isolamento deve essere utilizzato solo in casi eccezionali, per il tempo più breve possibile, e sottoposto a una revisione indipendente. Non può essere utilizzato nei confronti di persone malate”.

Avete capito bene: isolamento al massimo per 15 giorni. In Italia, chi sta al 41 bis può restare in isolamento totale anche per 25 anni. Anni. E i giudici di sorveglianza lo lasciano lì anche se è in agonia. Anche se ha l’Alzheimer. E la politica, e la stampa, di solito battono le mani. Ecco, dal momento che la ministra Cartabia fa parte di quel piccolo nucleo di persone, e di intellettuali, che le Mandela Rules le conosce bene, è da escludere che, citandole, non pensasse al 41 bis. E stavolta siamo noi a batterle le mani.

E subito dopo osserviamo che mentre il Ministro si pronuncia contro l’infamia del carcere duro, il capo del Dap (dipartimento carceri) Bernardo Petralia, annuncia , con una certa soddisfazione, “abbiamo costituito una nuova sezione di 41 bis a Cagliari”. Lo ha fatto parlando in commissione antimafia, in parlamento. Non risulta che nessuno gli abbia letto le Mandela Rules e gli abbia spiegato che il carcere duro è una roba dell’ottocento. Adesso non ci resta che aspettare: il governo Draghi andrà avanti con lo spirito di Cartabia o con quello di Pm?

Noi non sentiremo la sua mancanza. Addio dj Fofò: avvocato spione che non verrà rimpianto neanche da Davigo, Di Matteo e Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Bye bye Fofò, indimenticabile vocalist dell’Extasy di Mazara del Vallo. Bye bye Alfonso, piccolo avvocato spione con la telecamerina al Comune di Firenze. Bye bye Bonafede, ministro di giustizia accovacciato sotto le toghe. Non ti rimpiangeremo. Ma piangeranno gli uomini che indossavano le toghe che lui baciava e che gli passavano il compito sotto il banco? Vediamo. Non lo rimpiangerà Nino De Matteo, il pubblico ministero più scortato d’Italia, che gli rimprovera di avergli promesso il ruolo di capo di tutte le carceri, un posticino molto ben remunerato e di grande potere, e di averlo poi bidonato mettendo al suo posto una “nullità” come Franco Basentini. Ma non emetterà neanche un sospiro di rimpianto lo stesso Piercamillo Davigo, la fonte cui Bonafede si abbeverava quando diceva: beh, il processo è fatto così, accusa e difesa dicono la loro e poi il giudice emette la sentenza di condanna. L’assoluzione non è prevista, se non per quei furbastri che riescono a farla franca, benché colpevoli. Del resto, ha detto in un‘altra occasione, “gli innocenti non vanno in carcere”, facendo spallucce alla notizia che nel frattempo 27.000 cittadini messi ingiustamente in ceppi, erano stati risarciti dallo Stato. Davigo è anche lui deluso, perché il ministro si è lasciato infilzare, nelle trasmissioni di Giletti della domenica sera, proprio da quel Di Matteo che ha osato votare a favore del suo allontanamento definitivo dal Csm, diventando così suo nemico. Fofò ha incassato le accuse di chi senza mezzi termini lo accusava di essersi asservito ai mafiosi detenuti, i quali non volevano Di Matteo a occuparsi delle carceri. Ha incassato e non ha neanche querelato. Ma l’uomo non è fatto così, non è certo un lottatore. Matteo Renzi ricorda ancora, eravamo nel 2012 e lui era sindaco di Firenze, questo ragazzo smilzo e il sorriso furbino che gli tendeva piccoli agguati nella toilette di palazzo Vecchio, e che registrava le sedute del consiglio comunale, ignorando il fatto che erano trasmesse in streaming sul sito del Comune. Era avvocato, ma già militante e con l’amore del piccolo colpo alle spalle, il piccolo agguato. Forse oggi Renzi ride e Bonafede piange. In quale toga potrà asciugare le lacrime? Certamente non in quelle dei giudici di sorveglianza. Che saranno quelli, tra tutti, che più di altri tireranno un sospiro di sollievo. Tirati per la toga da tutte le parti, sospettati di aver scarcerato i boss mafiosi, con una campagna di stampa violenta e mai vista prima nei confronti di magistrati, prima sollecitati al senso di umanità nei confronti dei detenuti, poi umiliati con l’invito a sottomettersi, per le loro decisioni, ai pm “antimafia”. Non singhiozzeranno, chini sulle carte provenienti dal Ministero, i giudici della corte costituzionale, costretti già almeno una volta a stracciare almeno un brandello di una sua legge. Si trattava di quella del 2019, un vero fiore all’occhiello, quella che bastonava i politici, dopo aver fustigato per bene gli ex con il taglio dei vitalizi, considerati tutti corrotti. E stabilendo che la corruzione è una specie di attentato allo Stato, essendo equiparata al terrorismo e alla mafia. La legge, partorita sicuramente da un appoggio esterno (più che un concorso), è stata chiamata “spazzacorrotti” per dare la sensazione che spetti alla magistratura far pulizia. Un po’ come rivoltare l’Italia come un calzino o smontarla per poi ricostruirla come un Lego. È la filosofia delle toghe preferite da Bonafede. Come il procuratore Gratteri, che lui è andato a onorare all’inaugurazione dell’anno giudiziario, irritualmente celebrato nell’aula bunker di Lametia invece che al tribunale di Catanzaro. Lo stesso Gratteri che non ha speso una parola di rimpianto per un ministro così fedele, quando si è reso conto che i giorni di Fofò volgevano al termine, tanto da costringerlo a scappare dal Parlamento senza aver potuto recitare la propria relazione annuale sulla giustizia perché sulle sue spoglie sarebbe caduto l’intero governo. Non piange Di Matteo, non piange Davigo e non piange Gratteri. I giudici della Corte Costituzionale hanno addirittura dovuto impartire una lezione al ministro, anche se la legge portava addosso le impronte digitali di qualche toga. Bocciato proprio sul suo (e altrui) spirito vendicativo. Lo stesso che lo ha spinto a un’altra violazione della norma costituzionale, quella che ha reso eterno il processo a condannati e assolti in primo grado, imponendo a loro, e non a pubblici ministeri e giudici, il rispetto del giusto processo. Non ti rimpiangeremo, ministro accovacciato sotto le toghe. Ma il bello è che non sentiranno la tua mancanza neppure loro.

Maria Cristina Messa all'Università, la prima donna al comando della Bicocca. Carlo Annovazzi  su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Si è laureata in Medicina e chirurgia all'università di Milano nel 1986 dove ha ottenuto il diploma di specialità in medicina nucleare tra anni dopo. "Quando ho cominciato a lavorare in ospedale la discriminazione verso le donne era ancora fortissima e così all'università. Se poi hai anche il coraggio di fare figli, la lobby maschile cerca di fermarti. Io credo di essere la prova che sia possibile per una donna fare carriera in un mondo maschile e maschilista come l'università". Così si raccontava in una intervista a Repubblica Maria Cristina Messa. Le neoministra dell'Università, nata a Monza l'8 ottobre del 1961, è stata la prima donna a capo di una università milanese e la quarta in Italia. Ha guidato infatti la Bicocca dal 2013 al 2019. E con lei al comando l'ateneo è cresciuto sensibilmente, prima università italiana ad avere un rettore e un direttore generale donna al vertice raggiungendo anche la parità assoluta nei suoi principali organi di governo. Ha valorizzato la ricerca e l'innovazione e ha dedicato grande attenzione ai rapporti tra università e territorio. Si è laureata in medicina e chirurgia all'università di Milano nel 1986 dove ha ottenuto il diploma di specialità in medicina nucleare tra anni dopo. Dal 2016 fa parte del Comitato Coordinatore di Human Technopole e dal 2017 è nell'Osservatorio nazionale della formazione medico specialistica del ministero. Autrice di oltre 180 pubblicazioni scientifiche, nel 2014 ha ricevuto il premio Marisa Bellisario, "Donne Ad Alta quota".

Vittorio Colao, dalla task force di Conte al ministero del digitale.  Aldo Fontanarosa  su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Il manager bresciano ha guidato per 10 anni il colosso globale Vodafone. A giugno del 2020 il suo Piano per la ricostruzione del Paese, che non ha avuto seguito. Vittorio Colao - classe 1961, nato a Brescia da una famiglia di origini calabresi - torna al capezzale dell'Italia per la seconda volta in neanche un anno. Il 10 aprile del 2020, l'allora premier Giuseppe Conte lo aveva voluto alla guida della task-force che avrebbe dovuto garantire la ricostruzione economica del Paese. Operazione che non ebbe seguito, a dispetto di un Piano in sei obiettivi consegnato alla Presidenza del Consiglio a giugno del 2020. Adesso Colao torna in prima linea come ministro alla Innovazione tecnologica e alla Transizione digitale. Forse nessun dirigente italiano ha mai raggiunto - come Colao - la guida di un colosso internazionale come Vodafone, che il manager bresciano ha trasformato da operatore telefonico classico in un gruppo multimediale integrato, raddoppiandone gli abbonati da 269 milioni a 536 milioni. Laurea in Bocconi, master in Business Administration ad Harvard, Colao ha mosso i suoi prima passi negli uffici londinesi della banca d'affari Morgan Stanley. Quidi il trasferimento alla McKinsey di Milano, per dieci anni. Infine l'approdo (nel 1996) in Omnitel Pronto Italia, il secondo operatore di telefonia cellulare italiano nato da una costola dell'Olivetti. Colao e Omnitel cavalcano il boom della telefonia mobile: la società viene comperata prima dai tedeschi di Mannesmann, poi da Vodafone dove il manager italiano scala le posizioni manageriali. Diventa presto responsabile per l'Europa Meridionale, il Medio Oriente e l'Africa. Colao a Downing Street, residenza del premier inglese (2018) Colao ha fatto spesso la spola dalle Capitali straniere (come Londra) all'Italia. Nel 2004, ad esemoio, il gotha della finanza gli chiede di riportare la pace nell'azionariato di Rcs. Due anni e un mese dopo il manager lascia in polemica per l'acquisto della casa editrice Recoletos, che giudicava troppo cara. Nel 2006 rientra in Vodafone, dove approda alla carica di amministratore delegato (nel 2008). Molte e significative le operazioni che segnano il suo mandato. Nel 2013, riesce a vendere (per 130 miliardi) la partecipazione in Verizon. Forte il suo impegno in un mercato emergente, quello indiano (dove realizza la fusione con Idea Cellular). Le acquisizioni delle attività televisive del  gigante del media Liberty - in Germania, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania - portano Vodafone nel settore dei contenuti. Chiusa l'esperienza in Vodafone, è stato consulente di un fondo di private equity, General Atlantic. Quindi la task force di Conte. Infine l'incarico di ministro della svolta digitale, nella squadra di Draghi. In gioventù, Colao ha frequentato la Scuola Alpini ed è stato anche tenente dei Carabinieri. Tra le passioni, la bicicletta. E la strada per realizzare un Paese pienamente digitale è certamente in salita.

Dal piano per la fase 2 a ministro per innovazione tecnologica: chi è Vittorio Colao. Il 3 maggio scorso l'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, lo aveva incaricato di guidare un gruppo di lavoro per preparare la "Fase 2" dell'emergenza pandemica. Draghi lo ha voluto nella squadra di ministri. Roberto Vivaldelli, Venerdì 12/02/2021 su Il Giornale. Nella squadra di Mario Draghi trova posto anche Vittorio Colao, supermanager designato da Conte lo scorso aprile per guidare la task force per la cosiddetta "Fase 2" e che da ministro si occuperà di Innovazione tecnologica e transizione digitale. L'ex amministratore delegato di Vodafone dal 2008 al 2018 è nato a Brescia nel 1961. Colao si è laureato all'Università Bocconi di Milano e ha conseguito un master in Business administration a Harvard, lavorando successivamente per banche d'affari come Morgan Stanley e per la società di consulenza McKinsey, occupandosi per larga parte della sua carriera di media e telecomunicazioni. Prima di approdare a Vodafone, è stato Ceo di Omnitel, compagnia telefonica poi acquisita da Vodafone. Nel 1999, ricorda l'agenzia stampa Adnkronos, è arrivata la nomina di ad in Vodafone Italia, prima della scalata alla guida della divisione europea e, infine, di tutto il gruppo. Tra il 2004 e il 2006 lascia Vodafone per diventare amministratore delegato di Rcs MediaGroup. Poi il ritorno a Vodafone, ricoprendo la carica di ad che ha lasciato nel 2018 lasciando il posto a Nick Read. Nel 2014 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la nomina a Cavaliere del Lavoro. Come scrive il Corriere della Sera, dopo l’addio a Vodafone, Colao è rimasto a vivere a Londra con la famiglia. Attualmente è senior advisor del fondo di private equity americano General Atlantic. Grande sportivo e salutista (pratica bicicletta e windsurf e non beve alcool), Colao è un sostenitore della carriera delle donne sul posto di lavoro e dello smart working, che ha introdotto a Vodafone quando era a Londra. Dopo mesi passati nell'ombra, Colao quindi potrà provare a fare quello che non ha potuto portare avanti con la task force. All'inizio di gennaio, aveva dichiarato a Il Foglio: "Potevamo accelerare i tempi, essendo partiti quest’estate, certo. Ma è presto per dare giudizi visto che il lavoro, quello del Recovery, ancora non è stato concluso". "Di sicuro – ha aggiunto l'ex ad di Vodafone -al di là di telefonate con i vari ministri, chiacchiere informali, non c’è stato un follow-up ufficiale tra la nostra commissione e il governo". Colao, insomma, era stato snobbato da Giuseppe Conte nell'ultimo periodo. E come lui, anche gli altri membri della commissione (ad eccezione di Riccardo Cristadoro). Perché? L'ipotesi è che il manager, all'inizio della scorsa estate, fosse diventato troppo ingombrante per Conte. Tanto è vero che in quei giorni si parlava addirittura di un ipotetico "governo Colao". Come ricorda IlGiornale, il piano Colao prevedeva finezze e accorgimenti all'epoca molto apprezzati dal governo giallorosso. Tra questi, oltre ai consigli sui più svariati temi, ricordiamo i suggerimenti destinati a combattere l'uso del contante: un'eventuale tassa sul bancomat per disincentivare il ritiro e l'uso dei contanti, l'ipotesi di un anticipo fiscale sui prelievi e la riduzione dei limiti per i pagamenti effettuati in contante. Ad un certo punto, però, Conte decise che era l'ora di staccare la spina alla task force di esperti. "Abbiamo già una base di lavoro tecnico, della commissione Colao, che consegnerà in questi giorni i suoi lavori. Non ci sarà nessun documento Colao dietro il piano di rilancio", sottolineò l'ex premier di fatto accantonando la task force.

 Lo sfogo di Vittorio Colao: "Chiusi i canali con il governo". Colao è sparito dai radar. Sul Recovery Fund "non c’è stato un follow-up ufficiale tra la nostra commissione e il governo", ha spiegato il manager. Federico Giuliani, Mercoledì 06/01/2021 su Il Giornale.  Riavviare l'economia all'indomani di un blocco di quasi due mesi, trasformare la crisi in opportunità e, più in generale, rendere l'Italia un Paese più moderno. Erano sostanzialmente questi i compiti della famigerata task force di esperti guidata dal manager Vittorio Colao. Una sorta di team delle meraviglie, allestito la scorsa primavera, e incaricato di traghettare una nazione vessata dal Covid nella complicata fase 2. Quella che avrebbe dovuto sancire la progressiva rinascita italiana.

Il piano dimenticato. Il "piano Colao", ricordiamolo, prevedeva finezze e accorgimenti all'epoca molto apprezzati dal governo giallorosso. Tra questi, oltre ai consigli sui più svariati temi, ricordiamo i suggerimenti destinati a combattere l'uso del contante: un'eventuale tassa sul bancomat per disincentivare il ritiro e l'uso dei contanti, l'ipotesi di un anticipo fiscale sui prelievi e la riduzione dei limiti per i pagamenti effettuati in contante. Tutti d'amore e d'accordo, fino a quanto, a giugno, Giuseppe Conte decise che era l'ora di staccare la spina alla task force di esperti. "Abbiamo già una base di lavoro tecnico, della commissione Colao, che consegnerà in questi giorni i suoi lavori. Non ci sarà nessun documento Colao dietro il piano di rilancio", tuonò il premier da Palazzo Chigi. Il messaggio suonava molto come una sorta di sfratto per il "dream team", come nel frattempo era stato definito da alcuni media. E così, in effetti, è stato.

Task force archiviata. Oggi, dopo mesi passati in disparte, Colao ha rilasciato interessanti dichiarazioni al quotidiano Il Foglio. Tutto parte dalle risorse contenute nel Recovery Fund: "Potevamo accelerare i tempi, essendo partiti quest’estate, certo. Ma è presto per dare giudizi visto che il lavoro, quello del Recovery, ancora non è stato concluso". "Di sicuro – ha aggiunto l'ex ad di Vodafone - al di là di telefonate con i vari ministri, chiacchiere informali, non c’è stato un follow-up ufficiale tra la nostra commissione e il governo". Detto in altre parole, per quanto concerne il puzzle relativo al citato Recovery Fund, Colao non è stato preso in considerazione da Conte. E come lui, nessun altro membro della commissione (ad eccezione di Riccardo Cristadoro). Per quale motivo? Un'ipotesi è che il manager, all'inizio della scorsa estate, fosse diventato troppo ingombrante. Tanto è vero che in quei giorni si parlava addirittura di un ipotetico "governo Colao". Che il premier Conte, temendo l'ombra di Colao, abbia deciso di metter da parte il manager? "Sono abituato a rispondere con i fatti e non mi interessano questi retropensieri. Vedremo i risultati finali e trarremo le conseguenze, accompagnandole, se sarà il caso, dai giudizi", ha tagliato corto Colao. Ormai palesemente uscito di scena.

Testo ripreso da un libro del 2017. La figuraccia di Colao e dei cervelloni della task force: copiati e incollati dati sbagliati per il rilancio dell’Università. Redazione de il Riformista il 15 Giugno 2020. Parte del piano per il rilancio dell’Università copiata da un libro pubblicato nel 2017, che vede tra gli autori uno dei componenti della task force guidata da Vittorio Colao, a sua volta basato su alcuni dati errati diffusi dagli economisti. E’ quanto dimostra, con tanto di alcune parti integrali del libro, il sito Roars.it (Return On Academic Resarch and School). Lo “Spunto di riflessione – Una differenziazione smart per il sistema universitario” contenuto nel Rapporto redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale è stato ripreso da un libro, intitolato “Salvare l’università italiana“, dei tre autori Giliberto Capano, Matteo Turri e Marino Regini, quest’ultimo parte del comitato di esperti che il Governo ha selezionato per affrontare l’emergenza coronavirus. Tre le pagine riprese dal libro uscito nel 2017 e al cui interno sono presenti anche dati sbagliati perché i tre autori avevano a loro volta ripreso un post degli economisti di LaVoce.info, senza curarsi di verificare cosa c’era veramente scritto nel rapporto VQR.  “Il testo dello spunto di riflessione di Colao riporta letteralmente, con qualche taglio, gran parte delle pagine 146-148 del volume di Capano, Regini e Turri” si legge su Roars.it. L’unica modifica “rilevante” fatta dal team di esperti della task force è cambiare “differenziazione intelligente” con “differenziazione smart”. Un lavoro di “copia e incolla” rilanciato tre anni dopo e con al suo interno anche diversi errori. “Non è vero  – spiega Roars.it – che ‘i ricercatori valutati tutti come eccellenti erano solo 296 (poco più del 6%)”. Nella VQR 2004-2010 i ricercatori di area economica che presentarono “lavori valutati tutti come eccellenti” furono infatti 440 pari al 9,6% (lo si legge a pagina 30 del rapporto ANVUR, Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, di Area 13). Tra questi 440, scrive ANVUR, si distinguono “144 soggetti con un numero di lavori attesi inferiore a 3 (si tratta in massima parte di giovani ricercatori assunti …) e i 296 soggetti valutati con 3 valutazioni eccellenti (6,4% del totale)”. “Non è vero che quei “296 … erano distribuiti in ben 59 atenei”; erano distribuiti su 52 atenei. Mentre ad essere distribuiti su 59 atenei erano i 440 ricercatori eccellenti (tabella 4.14 del rapporto VQR); infine non è vero che quei 296 appartenessero a “93 dipartimenti diversi”. Secondo il testo del rapporto ANVUR (p. 31) sono i 440 totali che si distribuivano su 93 dipartimenti diversi. (Peccato solo che il dato riportato nel rapporto ANVUR non coincida con quanto contenuto nella tabella 4.15 dello stesso rapporto, dove i dipartimenti con almeno un ricercatore “tutto eccellente” sono 107. Ma si sa dei dati dell’ANVUR non c’è da fidarsi)”. L’errore è dovuto a una serie di dati copiati e incollati (citando la fonte) da un post firmato dagli economisti della Voce.info e non da una pubblicazione scientifica o da un rapporto originale Anvur.

Alberto Baccini per roars.it il 16 giugno 2020. Lo “Spunto di riflessione-Una differenziazione smart per il sistema universitario” contenuto nel Rapporto redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale, presieduto dal top manager Vittorio Colao, già oggetto di un tagliente post di Giuseppe De Nicolao, è stato copiato e incollato (senza citazione) da un libro uscito nel 2017 per i tipi de Il Mulino. Il libro è intitolato Salvare l’università italiana. Gli autori di quel volume sono Giliberto Capano, Matteo Turri e Marino Regini, quest’ultimo parte della task-force capitanata da Colao. Evidentemente per rilanciare l’università dopo l’emergenza COVID, non c’era niente di meglio da fare che rispolverare una ricetta di qualche anno fa (fortunatamente) dimenticata. Il testo dello spunto di riflessione di Colao riporta letteralmente, con qualche taglio, gran parte delle pagine 146-148 del volume di Capano, Regini e Turri. Per essere precisi, Colao e la sua task-force hanno fatto un solo intervento rilevante sul testo originario: hanno trasformato la “differenziazione intelligente” di Capano et al. in “differenziazione smart“, come richiede un testo dal piglio manageriale. Nella figura riportata sopra si confrontano visivamente il testo di Colao (in celeste a sinistra) e quello originario di Capano et al. (a destra). Nelle tre pagine di destra sono evidenziate in giallo le parti copiate e incollate dalla task-force. L’effetto è a tratti esilarante. Il lettore del rapporto è portato a credere che Colao e la sua task-force abbiano effettivamente elucubrato e discusso e poi scritto: “E’ possibile allora … stimolare ciascuna università a a definire la propria particolare vocazione in una specifica combinazione di quelle funzioni per ciascuna delle aree scientifiche al suo interno, tendendo conto delle risorse disponibili e delle esigenze del territorio di riferimento? Noi riteniamo di sì.“ Peccato che quella domanda e quel “noi riteniamo di sì” siano stati scritti non da Colao e dalla task-force, ma da Capano e coautori a pagina 148 del loro libro. Una volta trovato l’originale, è stato facile trovare ricostruire anche la fonte originaria della supercazzola sui dati VQR sbeffeggiata nel post di Giuseppe De Nicolao. Una supercazzola di terza mano, come vedremo.

Scrive la task-force: “La qualità scientifica in Italia non e concentrata in pochi atenei eccellenti, ma e relativamente diffusa. Prendiamo l’esempio dell’area economica: nel primo esercizio di valutazione della qualità della ricerca (Vqr) i ricercatori che hanno presentato lavori valutati tutti come "eccellenti" erano solo 296 (poco più del 6% del totale), ma distribuiti in ben 59 atenei e 93 diversi dipartimenti.”

La task force ha copiato e incollato le frasi in rosso della precedente citazione dal testo di Capano e coautori. Purtroppo i tre dati contenuti in quelle frasi sono tutti sbagliati: non è vero che "i ricercatori valutati tutti come eccellenti erano solo 296 (poco più del 6%)”. Nella VQR 2004-2010 i ricercatori di area economica che presentarono “lavori valutati tutti come eccellenti” furono infatti 440 pari al 9,6% (lo si legge a pagina 30 del rapporto ANVUR di Area 13). Tra questi 440, scrive ANVUR, si distinguono “144 soggetti con un numero di lavori attesi inferiore a 3 (si tratta in massima parte di giovani ricercatori assunti …) e i 296 soggetti valutati con 3 valutazioni eccellenti (6,4% del totale)”; non è vero che quei “296 … erano distribuiti in ben 59 atenei”; erano distribuiti su 52 atenei. Mentre ad essere distribuiti su 59 atenei erano i 440 ricercatori eccellenti (tabella 4.14 del rapporto VQR); infine non è vero che quei 296 appartenessero a “93 dipartimenti diversi”.  Secondo il testo del rapporto ANVUR (p. 31) sono i 440 totali che si distribuivano su 93 dipartimenti diversi. (Peccato solo che il dato riportato nel rapporto ANVUR non coincida con quanto contenuto nella tabella 4.15 dello stesso rapporto, dove i dipartimenti con almeno un ricercatore “tutto eccellente” sono 107. Ma si sa dei dati dell’ANVUR non c’è da fidarsi). Ma perché Capano, Regini e Turri riportano dati sbagliati? Perché pure loro li hanno presi di seconda mano, senza controllare cosa c’era veramente scritto nel rapporto VQR. Li hanno copiati e incollati (citando la fonte) non da una pubblicazione scientifica o dal rapporto originale di ANVUR, ma da un post firmato dagli economisti della Voce.info (che evidentemente essendo eccellenti e avendo a suo tempo occupato in forze il panel di valutazione della VQR, non possono certo scrivere dati sbagliati). Nel post pubblicato sul sito del FattoQuotidiano il 22 luglio 2013, rilanciato il giorno successivo sul blog lavoce.info, gli economisti della voce avevano scritto: coloro che hanno ricevuto la valutazione massima in ciascuno dei lavori presentati… sono complessivamente 296 (poco più del 6 per cento del totale), e presenti in 59 diversi atenei e 93 dipartimenti distinti. Quindi, per riassumere, la task-force capitanata da Colao, per tratteggiare i dati essenziali sulla ricerca in Italia, fa copia-incolla da un libro di Capano, Regini e Turri; i quali a loro volta, invece di verificare i dati alla fonte, li avevano ripresi da un post su internet, errori inclusi. Se il rilancio dell’Italia è affidato a questi esperti, che possiamo dire? Andrà tutto bene!

Il piano Colao e il male dei tecnici: la politica li sceglie ma poi diffida. Francesco Damato Il Dubbio il 10 giugno 2020. Accusati di essere troppo rigidi e di non capire le sfumature della politica sottovalutando le ricadute elettorali e gli equilibri con gli alleati. Il mio amico Stefano Folli -il cui approccio giovanile alla politica avvenne, come quello di Maurizio Molinari, che ora ne è il direttore, in un ambiente molto sensibile ai tecnici come il Partito Repubblicano- dev’essersi messo le mani nei capelli osservando dalla sua postazione di Repubblica quello che nell’editoriale, o “punto”, ha definito “il cortocircuito” tra tecnici e politici a proposito del cosiddetto “piano Colao”. Che, concepito originariamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in pieno tempo di coronavirus, come un aiuto nella gestione di una crisi economica e socialista prevedibile con l’epidemia virale, è sorprendentemente diventata una specie di arma contundente di Matteo Salvini nell’assalto quotidiano al governo. Liquidato immediatamente, prima ancora che ne fossero rese note le 46 pagine e le 102 “idee”, come infarcite del peggiore “lobbismo” dal giornale allo stato delle cose più filogovernativo e più filo-Conte che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, il piano del povero Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, è diventato un po’ la pietra dello scandalo in vista degli Stati Generali dell’Economia. La ciliegina sulla torta è stata o è apparsa -in politica non fa molto differenza- la mancata firma dell’economista di fiducia, consigliera e quant’altro di Conte in persona, che è la professoressa Mariana Mazzucato. Alla quale qualche giornalista ha strappato, non so se davvero o con una forzata interpretazione, una spiegazione del tipo: ho avuto ben altro di cui occuparmi. Oltre alle mani di Stefano Folli fra i capelli sono tentato di pensare a quelle di Conte fra i suoi. Non mi azzardo invece a pensare a quelli bianchissimi e folti di Sergio Mattarella al Quirinale, dove pure temo che non saranno rimasti insensibili di fronte al clamore provocato delle cronache politiche. A consolazione di tutti gli interessati, da Conte a Mattarella, coi loro trascorsi peraltro accademici, debbo dire e ricordare che i tecnici sono sempre stati un po’ spine nei fianchi dei politici.Aldo Moro, anche lui approdato alla politica dai suoi studi giuridici, divenuto nel 1959 segretario della Dc succedendo ad Amintore Fanfani, un altro professore giunto in seconda battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito incontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali c’era, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica l’ideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dell’orto accompagnando gli ospiti verso casa. Moro rimase non meravigliato ma scioccato dalla demolizione “tecnica” che Miglio fece anche a lui, come aveva fatto con Fanfani senza però turbarlo, della Costituzione in vigore da soli 11 anni. Essa già meritava, secondo il professore dell’Università Cattolica, profonde modifiche sulla strada del presidenzialismo. Non parliamo poi dei ritardi che il federalista Miglio considerava scandalosi nell’applicazione delle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario, i cui consigli in effetti sarebbero stati eletti per la prima volta solo dopo altri undici anni, nel 1970. Terminato l’incontro, di prima e insolita mattina, come se avesse ascoltato un mezzo guerrigliero, il prudentissimo Moro, che peraltro aveva la pressione bassa e carburava solo sul tardi, confidò tutto il suo sconcerto al povero Franco Salvi. Che era qualcosa più del segretario personale e meno di un vice segretario politico. Fu proprio lui che mi confidò -prima che i nostri rapporti non si rovinassero per la frequenza con la quale parlavo con Moro senza chiedergli il permesso- di avere ricevuto dal nuovo capo della Dc l’invito ad eliminare Miglio dall’elenco dei consulenti di Piazza del Gesù. Diventato nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo “organico” di centro-sinistra, col trattino e a partecipazione diretta dei socialisti, al posto dei liberali archiviati con l’esperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica “programmazione” voluta dai socialisti, l’allora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva. Ebbene, parlandomene una volta come persona ”preparatissima, per carità”, che avrebbe peraltro avuto fra i suoi allievi un altro pezzo da novanta della politica come Romano Prodi, l’allora presidente del Consiglio mi disse che il suo consigliere andava “ascoltato ma non sempre seguìto” perché, adottandone alla lettera ricette, indicazioni e quant’altro, sarebbe stato impossibile governare non solo con i socialisti ma con nessun altro. Esse erano -mi spiegò- di una durezza tale che si sarebbe rischiata una “guerra civile”. Mica male, come paura. Di Giulio Andreotti e dei suoi consiglieri, fra i quali ci fu per un certo tempo anche Michele Sindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si abbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una sola volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale della Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso. Mi accordo di essermi dilungato anche troppo. Ma consentitemi almeno di ricordare i problemi creati nella cosiddetta seconda Repubblica al pur volitivo imprenditore di successo Silvio Berlusconi dal “tecnico” Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.

Laura Cesaretti per ''il Giornale'' il 16 aprile 2020. Ha resistito per settimane. Ha fatto muro di gomma, rifugiandosi dietro l’emergenza sanitaria, il numero di morti, la priorità di tenere sotto chiave gli italiani. C’è chi racconta di vere e proprie sfuriate: «Il premier sono io e non mi faccio commissariare. Non ho nessun bisogno di super-manager per sapere cosa decidere per il Paese». Poi Giuseppe Conte ha capito che alla pressione del Quirinale e a quei pezzi di maggioranza che reclamavano da tempo una cabina di regia per gestire la Fase due non poteva continuare ad opporre solo dinieghi, e ha provato ad aggirare l’ostacolo, per svuotare dall’interno una manovra che serviva, effettivamente, a far presidiare da competenze esterne un governo estremamente debole e confuso. Mettendo sul mercato politico nomi che potrebbero tornare preziosi per un eventuale (e da molti auspicato) dopo-Conte. Così ha consentito al suggerimento insistente del Colle («La situazione è gravissima, devi farti aiutare, servono competenze indiscutibili»), ha fatto buon visto a cattivo gioco e si è occupato lui stesso di far filtrare il nome di Vittorio Colao, facendola passare per una sua scelta e non – come sostanzialmente è stata – per un’imposizione. E attorno a Colao ha creato una sorta di comitato di studi monstre, del tutto privo di poteri ma accuratamente lottizzato, per appesantire e rendere inefficace l’operazione. Sedici nomi, alcuni scelti dal premier, altri da lui richiesti come indicazione ai partiti di maggioranza e ad altri soggetti sul cui appoggio Conte vuole poter puntare: per fare un esempio, l’illustre (e sconosciuto) Franco Ficareta, molisano che fa l’assistente di Diritto del lavoro a Bologna, è stato caldeggiato dal capo Cgil Stefano Landini, con l’avallo della ministra del Lavoro grillina Catalfo. Altri nomi sono stati suggeriti da Zingaretti o Franceschini, da Di Maio e dalla Casaleggio, dallo stesso premier (che già li aveva infilati tra i suoi consiglieri, come Mariana Mazzuccato o Filomena Maggini). Colao si è così ritrovato sul groppone una pletora di psicologi e sociologi, sindacalisti e economisti (alcuni di indubbia fama, altri meno) senza avere grande voce in capitolo. Tant’è che sulla squadra già filtrano le sue perplessità. Così come le sue critiche alla farraginosità burocratica con cui il governo si è finora mosso: «In Albania hanno già la app e noi ancora andiamo avanti con decine di moduli diversi di autocertificazione». Giuseppe Conte non si intende granché di governo, ma di gestione del potere sì, eccome. E sembra essere riuscito, per ora, nell’intento di neutralizzare il secondo tentativo (dopo il «caso Draghi») di provare a togliere progressivamente la regia della peggiore crisi dal dopoguerra dalle mani sue e di Rocco Casalino. Ora però, racconta chi conosce Vittorio Colao, bisogna vedere se e quanto un manager di statura e riconoscimento internazionale come lui, abituato a comandare, sarà disponibile a farsi bruciare dalle nebbiose lotte di potere romane. «Entro un mese – dice un dirigente dem assai critico con il governo – la task force dovrebbe indicare le possibili ricette per gestire quello che si prefigura come un cambiamento epocale di parametri. Non credo che Vittorio Colao sia disponibile a mettere in gioco la sua credibilità, se verificherà che non ci sono le condizioni per fare un lavoro serio, e tutto quel che gli si consente è di dirigere una sorta di gruppone variopinto di consiglieri del Principe».

Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it il 28 aprile 2020. Un comitato di 17 + 2 per prima cosa non lo doveva formare. Per via dei numeri e della scaramanzia. Leggetevi poi l’elenco dei componenti. Tranne Giovanni Gorno Tempini e Enrico Giovannini risulta difficile vedere in quella lista di eccelsi qualcuno che sia in grado di dare un contributo alla ripresa dell’Italia post Covid-19. Infatti l’esordio dell’accoppiata Conte-Colao è stato deludente. Con sfumature di ridicolo. Riaprono i parrucchieri il primo giugno? Impossibile: il primo giugno è lunedì e di lunedì i parrucchieri sono chiusi. Lo sanno anche i neonati. O chi non vive in Italia, come Colao fino a poco tempo fa. Bene è andata che non è passata l’idea di bloccare in casa in una sorta di coprifuoco le persone con più di 60 o 70 anni. Ma è l’impressione complessiva a deludere. Come ha detto Massimo Cacciari, sarebbe l’ora di smettere di dire parole in libertà. Ci si aspettava un colpo d’ala, un progetto, un’idea. Non quando riprenderanno gli allenamenti del calcio. Giuseppe Conte conosce bene il principale guaio dell’Italia: la burocrazia. L’intorcinamento di leggi, commi, rinvii, procedure, pareri eccetera che paralizzano l’Italia. Tutto il resto sono chiacchiere. Quante volte abbiamo sentito parlare di Sblocca-Italia? Quante leggi sono ancora bloccate, a 10 anni dall’annuncio? Leggi anche approvate, due, tre votazioni. Poi definite meglio nei regolamenti. Poi i decreti…Conte doveva prendere i quattro direttori generali di ministero più direttamente interessati al gioco al massacro delle procedure e fare come fa la Chiesa. Chiuderli in una stanza di Palazzo Chigi come in Conclave, senza lasciarli uscire fino a quando non avessero risposto alla domanda chiave. La domanda doveva essere: come si fa a far sì che un ordine del primo ministro o una legge del Parlamento diventino esecutive in giorni se non ore? Invece Conte ha messo assieme un gruppo di persone una meglio dell’altra, ciascuna nel proprio campo specifico. Nessuna però mi appare in grado di sciogliere la domanda di Turandot. E Colao non è Calaf, non canta il mio mistero è chiuso in me. Uno che si è occupato tutta la vita di telefonini, tranne un breve e non felicissimo interludio nei giornali, anche se in possesso del metodo universale McKinsey che tutto capisce e tutto risolve, tra tabelle, grafici e scale logaritmiche, quanto può capire e risolvere i misteri della pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione, la burocrazia, il potere carsico dell’alta dirigenza politica, militare, giudiziaria non è una invenzione della Repubblica, prima seconda terza. Erano già lì ai tempi di Vittorio Amedeo di Savoia e del marchese d’Ormea. Erano lì quando si trattava di mandare Garibaldi a morire sulle Alpi (senza riuscirci). E anche quando mandarono i nostri soldati a morire nelle nevi ucraine con le scarpe di cartone. Dei comitati di Conte e Colao se ne fanno un baffo. Nessuno ci ha spiegato perché sia stato scelto Colao. Colao non ha spiegato i criteri di scelta dei suoi colleghi. Mi ha colpito la presenza di tale Raffaella Sadun, Professor of Business Administration, Harvard Business School, secondo il sito del Governo. Vive nel Massachusets, possibile che non ci sia qualcuno di più addentro nei misteri italiani? Mi do una risposta. Sadun è fra i tre autori di un articolo pubblicato un mese fa sulla Harvard Business Review. Repubblica lo aveva presentato così: “Harvard boccia le misure italiane sul coronavirus: rischi sottovalutati e tanti errori”. Risposta implicita: ci vuole Mario Draghi. Di Mario e Supermario gli italiani dovrebbero averne abbastanza. Ricordino il SuperMario Monti. Da Monti Conte sembra avere appreso una lezione. Ai tempi del suo Governo, Monti era costantemente sotto attacco del duo Alesina-Giavazzi. Fino a quando ebbe una idea geniale. Incaricò Francesco Giavazzi di studiare una grande spending review, alla ricerca del tagli di spesa. La spending review fece tacere Giavazzi. Ingoiò anche il bravissimo Enrico Bondi, risanatore di aziende, infelice salvatore della Parmalat, regalata da Berlusconi ai francesi per averne l’appoggio a postarlo alla Bce. Secondo me, è bastato l’articolo sulla rivista di Harvard per motivare Conte. Penso male? Il risultato mi pare simile a quello di Monti. Come la tanto conclamata spending review finì in fumo, il Comitato Colao ha portato guai. Le conclusioni del Comitato che sono alla base della Fase 2 di Conte, sono banalità che un qualunque giornalista di provincia avrebbe concepito. Un buon giornalista non avrebbe proposto l’errore di tenere chiuse le chiese (e, presumo, sinagoghe, chiese protestanti varie e moschee). Mettete il naso in una chiesa un giorno feriale. Scoprirete che sono vuote. La domenica (o il sabato o il venerdì) si trattava di applicare i metodi in vigore per i supermercati. Le organizzazioni religiose erano e sono perfettamente in grado di gestire il servizio d’ordine, senza aggravare il lavoro delle Forze dell’Ordine. E ora pare che Conte farà una umiliante retromarcia. Poteva evitarsela. Bastava chiedere consiglio a un commesso di Palazzo Chigi. Altra scemenza: quella di non potersi spostare da una regione all’altra. E di non potersi recare, chi ce l’ha, in una seconda casa. Quanti italiani possiedono una seconda casa in altra regione, diversa da quella di residenza? Se la sua seconda casa è in Liguria, ad esempio, o in Val d’Aosta, si attacca. Sì è rotto un tubo? C’è una perdita? O una infiltrazione nel tetto? Niente da fare. Ma per il ministro dei trasporti Paola De Micheli nemmeno nella stessa regione un poveraccio può andare a vedere, dopo mesi di assenza, se tutto è in ordine. Siamo un po’ nel regno dell’assurdo. Chissà quale recondito calcolo politico muove la De Micheli. Scusi, ma se salgo in macchina a Torino, tanto per dire, arrivo a Varigotti (Savona) che dovrebbe essere più o meno deserta. Entro in casa e mi ci chiudo dentro. Non incontro nessuno, non saluto nessuno. Se vedo qualcuno gli parlo da 2 metri con mascherina. Come posso passare per untore? O infettarmi? Siamo stati in tanti a sentire Conte parlare in tv domenica sera. Premetto che finora ho guardato Conte con ammirazione. Assurto a presidente del Consiglio per ragioni che un cittadino normale non riesce a spiegarsi (ma fu così anche con Monti, quindi orma ci siamo abituati), sballottato per un anno fra Scilla-Salvini e Cariddi-Di Maio, si è ritrovato in autunno a capo di una coalizione impensabile un mese prima. Non era, penso, una esistenza semplice. Quelli del Pd non sono folcloristici come Salvini, ma vengono da lontano e vanno lontano. Esplosa la crisi del Coronavirus, Conte è stato bravissimo. Navigava in un mare in tempesta, fra gli scogli delle autonomie locali e il vento della politica e dell’economia che cambiava forza e direzione ogni ora. Chiedeva aiuto ai tedeschi e il suo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, metteva in piazza, su giornali siti e tv, il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti. Come indignarsi se la Welt, giornale di Germania, dice le stesse cose? Come sostenere che scrive fesserie? La signora prefetto Lamorgese bastava che lo scrivesse ai suoi colleghi sottoposti prefetti o al capo del suo Governo, o ai ministri interessati. C’era bisogno di un comunicato stampa, di mettere, come si dice, il guano nel ventilatore? Conte ha glissato su tutto. Ha cavalcato il Covid come Tarzan cavalcava l’ippopotamo inferocito. Penso sia stato decisivo nel far crollare di 5 punti il consenso della Lega. Anche se non si può negare che gli errori di Giulio Gallera (peraltro non leghista ma di Forza Italia) e il volto attonito di Attilio Fontana una mano gliela hanno data. E poi è stato bravo, dite quello che volete. Ha fatto suo il motto di Antonio Ferrer, Gran cancelliere spagnolo di Milano ai tempi della peste, che in tanti abbiamo conosciuto a scuola: “Pedro, adelante con juicio”. Avanti con prudenza, riporta Alessandro Manzoni nei promessi sposi. E lui si è mosso con accortezza, ottenendo eccellenti risultati, pur fra errori, incertezze e in mezzo alla tempesta. La strategia ha pagato. Cala il numero dei morti e dei malati. Sale il consenso attorno a Giuseppe Conte. Conte è riuscito a isolare i veri virus che stanno a cuore a lui: Salvini e Draghi. Ma la partita non è ancora finita, basta un piccolo errore e sei fatto. Se gli va bene, Conte diventa intoccabile come Garibaldi… Ma domenica 26 si è avvertito un crack. In quello che veniva detto sul teleschermo. E in quello che si intravvedeva dietro le quinte. Che sia in atto una certa tensione fra Conte e Colao era stato anticipato da un articolo sul Fatto di Luca De Carolis. L’eloquio di Conte ha confermato i sospetti. Troppe volte, almeno 5 o 6, Conte ha fatto riferimento al Comitato e a Colao. Chi ha un po’ di esperienza di vita associativa o aziendale, sa che più uno lo nomini, più intensamente lo detesti. Ma allora perché lo ha nominato? Misteri d’Italia.

Cinque donne per Colao, quote rosa da task force. Comitato nel caos ma Conte pensa al politicamente corretto: le esperte arrivano dopo le proteste. Francesco Cramer, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Allora siamo a posto. Arriva una nuova infornata di esperte (che siccome finisce con la «e» e non con la «i» sono più brave, belle ed efficienti) al già corposo esercito di cervelloni che dovrebbero risolvere tutti i problemi. Nella task force guidata da Vittorio Colao entrano cinque nuove donne, che si affiancano alle quattro già nel team di venti esperti totali. Nel Comitato tecnico-scientifico, finora composto di 20 uomini su 20, ne arrivano invece sei. Totale: 11 in più. Nell'equipe di Colao debuttano Enrica Amaturo, professoressa di sociologia; Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica che si occupa di contrasto alla violenza domestica; Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat; Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia; Maurizia Iachino, dirigente di azienda. Fantastico: già 450 cervelloni non stanno aiutando molto a far partorire uno straccio di decreto che infatti rimane impelagato nei torbidi corridoi di palazzo Chigi. Aggiungiamone una dozzina che male non fa. Anzi, siccome portano la gonna, Conte forse pensa che nel giro di poche ore il Dl Rilancio decollerà come un caccia da guerra. Forse pensa che basti la manciata di consulenti in più - purché sia «rosa» - che la burocrazia si scioglierà come neve al sole; e che i dispettucci tra i partiti della sua raffazzonata maggioranza finiranno domani mattina. Illusioni dettate dall'ideologia o dal più bieco boldrinismo. Non che le donne non siano in gamba per questione di genere, per carità. È che il sesso, qui, non c'entra un fico secco. Qui c'è un Paese da aiutare subito; ci sono commercianti e artigiani che non sanno se apriranno; ci sono famiglie che vedono i loro risparmi andare in fumo. E chissenefrega se l'ennesimo inutile carrozzone è più grande e più rosa.

 Francesco Cramer per ilgiornale.it il 13 maggio 2020. Allora siamo a posto. Arriva una nuova infornata di esperte (che siccome finisce con la «e» e non con la «i» sono più brave, belle ed efficienti) al già corposo esercito di cervelloni che dovrebbero risolvere tutti i problemi. Nella task force guidata da Vittorio Colao entrano cinque nuove donne, che si affiancano alle quattro già nel team di venti esperti totali. Nel Comitato tecnico-scientifico, finora composto di 20 uomini su 20, ne arrivano invece sei. Totale: 11 in più. Nell'equipe di Colao debuttano Enrica Amaturo, professoressa di sociologia; Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica che si occupa di contrasto alla violenza domestica; Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat; Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia; Maurizia Iachino, dirigente di azienda. Fantastico: già 450 cervelloni non stanno aiutando molto a far partorire uno straccio di decreto che infatti rimane impelagato nei torbidi corridoi di palazzo Chigi. Aggiungiamone una dozzina che male non fa. Anzi, siccome portano la gonna, Conte forse pensa che nel giro di poche ore il Dl Rilancio decollerà come un caccia da guerra. Forse pensa che basti la manciata di consulenti in più - purché sia «rosa» - che la burocrazia si scioglierà come neve al sole; e che i dispettucci tra i partiti della sua raffazzonata maggioranza finiranno domani mattina. Illusioni dettate dall'ideologia o dal più bieco boldrinismo. Non che le donne non siano in gamba per questione di genere, per carità. È che il sesso, qui, non c'entra un fico secco. Qui c'è un Paese da aiutare subito; ci sono commercianti e artigiani che non sanno se apriranno; ci sono famiglie che vedono i loro risparmi andare in fumo. E chissenefrega se l'ennesimo inutile carrozzone è più grande e più rosa.

Estratto dall'articolo di Stefano Folli per ''la Repubblica'' il 12 maggio 2020. (…) C'è poi il caso di Vittorio Colao, il più noto dei manager chiamati a offrire il loro contributo d'esperienza per definire tempi e modi della "ripartenza". Ieri il suo nome è tornato a circolare perché il presidente del Consiglio, incalzato da Laura Boldrini ed Emma Bonino, ha deciso di arricchire con cinque donne i componenti del comitato guidato dall'ex amministratore della Vodafone. È una mossa a effetto che poteva essere decisa prima e che cambia poco nella sostanza. Infatti la vera domanda è: a cosa serve quel comitato, il più importante dei 15 o 16 che sono stati messi in piedi? Nessuno sa esattamente quali siano i suoi compiti o a che punto sia nell'attuazione del suo programma, se ne esiste uno. Sembra quasi che Conte, dopo averlo insediato, abbia preferito lasciarlo nell'ombra. Forse, nel caso, lo userà come capro espiatorio. Certo, a distanza di qualche settimana risulta ancora più evidente che Colao, per sopravvivere e avere un ruolo, avrebbe dovuto chiedere un profilo politico: ministro senza portafoglio o anche sottosegretario a Palazzo Chigi. Sarebbe stato impossibile per chiunque spingerlo nelle nebbie.

Federico Capurso per “la Stampa” il 14 aprile 2020. La necessità quasi compulsiva del governo di creare delle task-force per fronteggiare il coronavirus ha già prodotto, in poche settimane, 5 squadre con centinaia di esperti al servizio di Giuseppe Conte. Alcune più "leggere", altre delle dimensioni di un reggimento. L' ultima, quella che dovrebbe preparare il terreno economico per il lancio della fase 2 dell' emergenza, diretta dal manager Vittorio Colao, sta mettendo però in agitazione chi finora ha oliato a fatica gli ingranaggi del meccanismo provando a portare tutti nella stessa direzione. La task force di Colao, infatti, lavorerà in parallelo con il Comitato operativo della Protezione civile, all' interno del quale è confluita la task force del ministero della Salute, ma dovrà fare i conti con i pareri del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile e, se sarà il caso, con le task force del ministero dell' Istruzione e quello per l' Innovazione. Ognuna con un peso diverso nelle decisioni di palazzo Chigi e «se Conte non avrà polso - sibilano dalla maggioranza, sponda Italia Viva -, questa babele di commissioni creerà confusione e produrrà ritardi dolorosi per il Paese». Dalla Protezione civile scommettono che i pareri di medici e virologi «saranno sempre responsabilmente messe al primo posto, perché al primo posto c' è la salute dei cittadini». Eppure, un dubbio si insinua, anche in quegli ambienti: quando nell' opinione pubblica si sarà affievolita la percezione di una forte minaccia sanitaria - e se anche ci fosse il rischio di un' ondata di ritorno dei contagi -, le pressioni economiche su palazzo Chigi potrebbero spostare gli equilibri verso la squadra di Colao. E le possibili divergenze di vedute tra i vari comitati genererebbero una pericolosa confusione. Ecco perché Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute, che ha coordinato sin dalla prima ora le operazioni della task force ministeriale, avverte: «Sarà importante lasciare alla squadra di Colao alcuni giorni per impostare il lavoro. Poi capiremo come interagire, perché qui, dopo l' assestamento, si è ormai creata una rete di relazioni stabili. Siamo tutti persone di buon senso e c' è una comunione di intenti - prosegue Ruocco -, ma nella pratica si vedrà. Sarà il governo a doverci coordinare». Complicato, anche perché gli obiettivi di alcune squadre sembrano sovrapporsi, come nel caso della task force di impronta socio-economica di Colao e della squadra formata dal ministro dell'Innovazione, Paola Pisano, dove un gruppo di lavoro dovrà redigere un'analisi economica dell'emergenza, entrambe con un forte accento sulle nuove tecnologie. Quanti siano poi gli esperti a disposizione del governo è difficile a dirsi. La squadra di Colao conta 17 membri, contro i 74 di Pisano e circa un centinaio, tra dirigenti e coordinatori, al servizio della ministra dell' Istruzione Lucia Azzolina. C' è poi il comitato tecnico scientifico della Protezione civile che è cresciuto negli ultimi giorni passando da 7 a 12, ma ci sono uomini che fanno parte di più commissioni, consulenti in prestito e task force nate in modo informale, senza un decreto che ne indicasse i componenti, come accaduto al ministero della Salute per la commissione poi confluita all' interno del comitato operativo della Protezione civile. Al governo, il compito - o il miracolo - di fare sintesi.

Gustavo Bialetti per “la Verità” il 29 maggio 2020. Vittorio Colao batte un colpo e ci ricorda che esistono anche lui e la sua task force. Che prima doveva presentare le linee guida per la ripartenza, mentre ora dovrà proporre al governo un' agenda per il rilancio dell' Italia «da qui al 2022». È quello che si chiama «ottimismo della volontà»: Giuseppe Conte, che finora è riuscito benissimo a neutralizzare ogni potenziale insidia alla sua leadership da parte di Colao, non se l' è mai filato. Figuriamoci che fine farà fare all' agenda per il 2022. La quale, d' altra parte, è sì fitta, ma di fuffa. In un' intervista che Repubblica ha steso su due pagine, Colao riesce ad infilare una serie impressionante di luoghi comuni: al Paese servono investimenti, ammodernamento, Internet veloce, semplificazione della burocrazia, infrastrutture. «Cento progetti», centomila quintali di fumo. Al che uno si chiede: per capire che la burocrazia è un male, serviva un supermanager, o bastava pescare il primo oratore da bar? Le poche cose su cui Colao non annoia, invece, spaventano. Tipo l' apologia del «Big State», che fa incetta di dati sanitari e abolisce il contante. Qualcuno teme la morte della libertà? Preoccupazioni superate: «Non rinuncerei a uno Stato più efficiente», chiosa Colao, «per queste motivazioni». Ma nonostante sia proiettato al prossimo biennio, sul futuro il top manager ammette di non avere risposte. Non ha idea di «dove sarà la domanda dei consumatori» dopo la pandemia, «quale sarà la propensione al risparmio», «quale mobilità riterremo sicura, come e dove sarà l' ufficio». Buio totale. Intanto, tiriamo a campare, limitandoci ad «accompagnare chi non ce la fa». A partire da Colao. Beppe Sala ha detto che serve un governo di competenti. Se i competenti sono questi qua...

Vittorio Colao: chi è il capo della task force per la fase due. Debora Faravelli il 10/04/2020 su Notizie.it. Chi è Vittorio Colao, l'ex ad di Vodafone nominato dal premier Conte a presiedere la task force che gestirà la fase due dell'emergenza coronavirus. La scelta del suo profilo alla presidenza della task force per la ricostruzione dell’Italia post emergenza coronavirus è stata ufficializzata nel corso della conferenza stampa del premier Conte del 10 aprile. Il governo ha infatti pensato di istituire un team di economisti, scienziati e giuristi che lo possano aiutare nella fase due dell’epidemia. Ma chi è Vittorio Colao, l’uomo che guiderà la ripresa italiana alla crisi dovuta all’emergenza coronavirus. Ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao è nato a Brescia nel 1961 e si è laureato in Economia e Commercio all’Università Bocconi, per poi ottenere un MBA all’Università di Harvard. La sua carriera lavorativa ha inizio a Londra presso Morgan Stanley ed è continuata a Milano alla Mckinsey & Company. Nel 1996 ha poi ricoperto l’incarico di direttore generale di Omnitel Pronto Italia (oggi Vodafone Italia) e dal 2001 è stato anche CEO regionale di Vodafone per l’Europa meridionale prima di entrare nel consiglio di amministrazione dell’azienda.

Dal 2004 a 2006 è stato amministratore delegato di Rcs MediaGroup per poi tornare a Vodafone e avere lo stesso ruolo dal 2008 per i successivi dieci anni. Sarebbe proprio la sua esperienza in campo internazionale ad aver fatto ricadere su di lui la scelta del Presidente del Consiglio che ha anche consultato, oltre ai partiti di maggioranza, anche il Quirinale.

L’annuncio della nomina di Colao a capo della task force è arrivato nel corso della conferenza stampa di Giuseppe Conte di venerdì 10 aprile, nella quale il premier lo ha presentato assieme agli altri membri del direttivo: “Il gruppo di esperti dialogherà con comitato tecnico scientifico è sarà presieduto da Vittorio Colao, uno dei nostri manager più stimati anche all’estero“. La task force che Vittorio Colao presiederà farà riferimento a Palazzo Chigi, ma avrà anche competenze che spettano ad alcuni ministeri. Caratteristiche che trovano un analogo precedente nel Comitato interministeriale per la ricostruzione, istituito nel 1945 per coordinare la ripresa economica e sociale del Paese dopo il secondo conflitto mondiale.

Chi è Vittorio Colao, il manager che guiderà la "Fase 2" per la ricostruzione. Redazione de Il Riformista il 11 Aprile 2020. Chi è Vittorio Colao, il manager al quale il premier Giuseppe Conte ha consegnato l’ingombrante e pesantissimo pacchetto della Fase 2? Bresciano, 59 anni, laurea alla Bocconi e master in Business Administration ad Harvard, Colao è stato per per dieci anni, dal 2008 al 2018, amministratore delegato di Vodafone. Una esperienza, in realtà, cominciata nel 1996 quando ricoprì l’incarico di direttore generale di Omitel , poi divenuta Vodafone. Nella sua carriera, cominciata a Londra in Morgan Stanley. anche il ruolo di amministratore delegato di Rcs Media Group. Per qualche settimana il suo nome è circolato per il ruolo di capo delle Olimpiadi di Milano e Cortina del 2026. Ipotesi smentite con il trasloco a General Atlantic, fondo statunitense di Private equity particolarmente attento al lancio di nuove società. Colao ha dedicato particolare attenzione alla sicurezza sul lavoro e nel 2014 è stato nominato Cavaliere del lavoro dal presidente Giorgio Napolitano. Nel discorso di ieri sera Conte ha annunciato che “il lavoro per la fase 2 è già partito, non possiamo aspettare che il virus scompaia del tutto dal nostro territorio”. La ripartenza, ha spiegato Conte, si baserà principalmente su “due pilastri”: l’istituzione di un gruppo di lavoro di esperti e il protocollo di sicurezza sui luoghi di lavoro. Come già annunciato, la Task force per la fase 2 sarà presieduto da Vittorio Colao, “un manager tra i più stimati anche all’estero, e conterà personalità come sociologi e psicologi, residenti in Italia o all’estero”.

LA TASK FORCE – Ecco come da chi è composta la task force per la Fase 2 dell’emergenza coronavirus presieduta da Vittorio Colao. Elisabetta Camussi – Professoressa di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano “Bicocca”; Roberto Cingolani – Responsabile Innovazione tecnologica di Leonardo, già Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT); Vittorio Colao – Dirigente d’azienda; Riccardo Cristadoro – Consigliere economico del Presidente del Consiglio – Senior Director del Dipartimento economia e statistica, Banca d’Italia; Giuseppe Falco – Amministratore Delegato per il Sistema Italia-Grecia-Turchia e Senior Partner & Managing Director di The Boston Consulting Group (BCG); Franco Focareta – Ricercatore di Diritto del lavoro, Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”; Enrico Giovannini – Professore di Statistica economica, Università di Roma “Tor Vergata”; Giovanni Gorno Tempini – Presidente di Cassa Depositi e Prestiti; Giampiero Griffo – Coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità; Filomena Maggino – Consigliera del Presidente del Consiglio per il benessere equo e sostenibile e la statistica – Professoressa di Statistica sociale, Università di Roma “La Sapienza”; Mariana Mazzucato – Consigliera economica del Presidente del Consiglio – Director and Founder, Institute for Innovation and Public Purpose, University College London; Enrico Moretti – Professor of Economics at the University of California, Berkeley; Riccardo Ranalli – Dottore commercialista e revisore contabile; Marino Regini – Professore emerito di Sociologia economica, Università Statale di Milano; Raffaella Sadun – Professor of Business Administration, Harvard Business School; Stefano Simontacchi – Avvocato, Presidente Fondazione Buzzi; Fabrizio Starace – Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Ausl di Modena – Presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (Siep).

Ecco chi scriverà la roadmap della fase 2. Nei prossimi giorni saranno indicate le attività industriali che potranno riprendere la produzione. Il Dubbio il 13 aprile 2020. Il presidente Conte si affida alla super task force di esperti. Ieri si è collegato in video conferenza con il comitato di esperti in materia economica e sociale, istituito qualche giorno fa, e ha chiesto al comitato di individuare, in stretto raccordo con il comitato tecnico-scientifico, le modalità più efficaci e innovative per uscire gradualmente dal lockdown, favorendo la ripresa delle attività produttive, anche attraverso l’elaborazione di modelli organizzativi che consentano la riapertura di fabbriche e aziende nelle condizioni di massima sicurezza per i lavoratori. Nei prossimi giorni saranno indicate le attività industriali che potranno riprendere la produzione. La notizia filtra da Palazzo Chigi, segno che il premier sta tentando di allentare la tensione su di se, dopo lo scivolone comunicativo dell’attacco alle opposizioni. Ora, ragiona Conte, è il momento di dare al Paese ciò che il Paese chiede: sa settimane ormai gli italiani si fidano solo delle parole dei tecnici. Dunque, «Il Presidente ha quindi chiesto al comitato di elaborare proposte da offrire al Governo per il progressivo e graduale ritorno alla normalità con riguardo alle più generali relazioni di comunità. Occorrerà valutare, al riguardo, tutti i molteplici profili coinvolti, sociali, economici, psicologici, culturali», filtra da ambienti vicini alla presidenza del Consiglio. E traspare anche massima fiducia nei confronti di Vittorio Colao: «Il presidente Colao e i membri intervenuti hanno mostrato la massima disponibilità a perseguire gli obiettivi indicati. Colao ha assicurato che sarà dato massimo impulso all’attività del comitato, in coerenza con l’esigenza, manifestata dal presidente Conte, di individuare soluzioni urgenti e efficaci».

Chi c’è nella task force. L’ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao è il supermanager che dovrà “immaginare” la ricostruzione dell’Italia dopo il coronavirus. Cavaliere del Lavoro nel 2014, Colao nasce a Brescia nel 1961, si laurea in economia e commercio all’università Bocconi e consegue un master in business administration alla Harvard University. Inizia il suo percorso lavorativo a Londra, presso la banca d’affari Morgan Stanley e prosegue a Milano alla multinazionale di consulenze McKinsey & company. Nel 1996 diventa direttore generale di Omnitel pronto Italia e, quando nel 1996 Vodafone acquisisce l’operatore di telefonia mobile, diventa amministratore delegato della divisione italiana. Nel 2001 diventa ceo della Vodafone per l’Europa meridionale; l’anno successivo entra nel consiglio di amministrazione e nel 2003 estende il suo incarico anche al Medio Oriente e all’Africa. Nel 2004 lascia il colosso della telefonia per passare a Rcs mediagroup, sempre con l’incarico di amministratore delegato. Dopo due anni, nel 2006, torna da Vodafone per assumere la posizione di vice amministratore delegato a capo della divisione Europa. Dal 2008 al 2018 è amministratore delegato di Vodafone.

La task force è presieduta da Vittorio Colao ed è composta da: Elisabetta Camussi, professoressa di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca; Roberto Cingolani, responsabile Innovazione tecnologica di Leonardo, già direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit); Riccardo Cristadoro, consigliere economico del presidente del Consiglio, senior director del Dipartimento economia e statistica, Banca d’Italia; Giuseppe Falco, amministratore delegato per il Sistema Italia-Grecia-Turchia e senior partner & Managing director di The Boston Consulting Group (Bcg); Franco Focareta, ricercatore di Diritto del lavoro, Università di Bologna Alma Mater Studiorum; Enrico Giovannini, professore di Statistica economica, Università di Roma Tor Vergata, Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa depositi e prestiti; Giampiero Griffo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità; Filomena Maggino, consigliera del presidente del Consiglio per il benessere equo e sostenibile e la statistica e professoressa di Statistica sociale, Università di Roma La Sapienza; Mariana Mazzucato, consigliera economica del presidente del Consiglio e Director and founder, Institute for Innovation and Public Purpose, University College London; Enrico Moretti, professor of Economics at the University of California, Berkeley; Riccardo Ranalli, dottore commercialista e revisore contabile; Marino Regini, professore emerito di Sociologia economica, Università Statale di Milano; Raffaella Sadun, professor of Business administration, Harvard Business School; Stefano Simontacchi, avvocato e presidente Fondazione Buzzi; Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società italiana di Epidemiologia psichiatrica.

Coronavirus, chi sono i 17 esperti della task force per la Fase 2. Gli esperti scelti dal governo avranno il compito di studiare le ricette per uscire dalla crisi dettata dall'emergenza coronavirus. VIRGILIO NOTIZIE l'11 aprile 2020 su notizie.virgilio.it. In occasione del suo intervento in video per confermare la proroga del lockdown in Italia fino al 3 maggio, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato anche di aver firmato il decreto per la nascita di un comitato di esperti che affiancherà il comitato tecnico scientifico nella fase di ripartenza dell’Italia. I 17 esperti della task force avranno il compito di studiare le ricette per uscire dalla crisi determinata dall’emergenza coronavirus.

A presiedere il task force per la ripartenza dell’Italia sarà Vittorio Colao, dirigente d’azienda, ex amministratore delegato di Vodafone.

Il comitato di esperti in materia economica e sociale include poi:

Elisabetta Camussi, professoressa di psicologia sociale all’Università degli Studi di Milano “Bicocca”.

Roberto Cingolani, responsabile innovazione tecnica di Leonardo, già Direttore Scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).

Riccardo Cristadoro, consigliere economico del Presidente del Consiglio e Senior Director del Dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia.

Giuseppe Falco, amministratore delegato per il Sistema Italia-Grecia-Turchia e Senior Partner & Managing Director di The Boston Consulting Group (BCG).

Franco Focareta, ricercatore di Diritto del Lavoro all’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”.

Enrico Giovannini, professore di Statistica economica all’Università di Roma “Tor Vergata”.

Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti.

Giampiero Griffo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità.

Filomena Maggino, consigliera del Presidente del Consiglio per il benessere equo e sostenibile e la statistica e professoressa di Statistica sociale all’Università di Roma “La Sapienza”.

Mariana Mazzucato, consigliera economica del Presidente del Consiglio, Director & Founder dell’Institute for Innovation and Public Purpose all’University College London.

Enrico Moretti, professor of Economics all’University of California Berkeley.

Riccardo Ranalli, dottore commercialista e revisore contabile.

Marino Regini, professore emerito di Sociologia economica all’Università “Statale” di Milano.

Raffaella Sadun, professor of Business Administration alla “Harvard Business School”.

Stefano Simontacchi, avvocato e presidente della Fondazione Buzzi.

Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società Italiana di Epidemiologia (SIEP).

Federico Novella per panorama.it il 29 aprile 2020. Stamattina abbiamo scoperto che l'Italia è il primo paese al mondo guidato da remoto. In pratica, siamo governati in smartworking. Il capo della taskforce per la ripartenza, Vittorio Colao, ha ammesso al Corriere della Sera di non essersi mai mosso Londra. Proprio così: l'esperto che deve far ripartire l'Italia, non si trova in Italia. E non ha nemmeno intenzione di venirci. Motivo? Colao dice che se tornasse in patria, dovrebbe stare due settimane in quarantena: "Perderei tempo". In pratica non vuole chiudersi in casa a Roma, e dunque si chiude in casa a Londra. Spiegateci la differenza. Poi per carità, siamo tutti a favore del lavoro a distanza: ma dovevamo cominciare proprio da Colao? Noi poveri illusi eravamo convinti che il manager fosse già tra noi: a contare le mascherine, ad incontrare la protezione civile, a sentire il polso degli imprenditori e dei commercianti, ammesso che ci sia ancora battito. Invece no. Siamo una repubblica fondata sul tele-lavoro: di Colao. Se la tanto strombazzata fase due è il tele-risultato di cotanto tele-sforzo, consentiteci perlomeno di alzare il tele-sopracciglio. Ce lo vedete, il superconsulente di Macron che gestisce tutto da Dubai? O il superesperto della Merkel smanettare col pc da Buenos Aires? Ma a noi italiani piace distinguerci. Colao dice che quando era amministratore di Vodafone, faceva tutto benissimo in teleconferenza: perché cambiare? Ormai per gestire un Paese non serve lo scatto morale: basta lo scatto alla risposta. Siccome siamo il paese con il più alto numero di telefonini pro-capite, tanto vale convertire il regime democratico in un regime telefonico. Solo una domanda, rivolta al premier Conte: per essere gestiti da un operatore collocato all'interno dell'Unione Europea, dobbiamo premere il tasto uno?

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2020.

Vittorio Colao, gli italiani si aspettavano dalla fase 2 più libertà. Personali ed economiche. Che cosa risponde?

«Dal 4 maggio rimettiamo al lavoro quattro milioni e mezzo di italiani, tra costruzioni, manifattura, servizi collegati, ovviamente nel rispetto dei protocolli. Molti sono già partiti lunedì, anche se questo nella comunicazione si è un po' perso. Ne rimangono due milioni e 700 mila, più la pubblica amministrazione. È una base per poter fare una riapertura progressiva e completa. Sarà un test importante. Dipenderà dai buoni comportamenti. Un' apertura a ondate permette di verificare la robustezza del sistema».

C' è anche chi dice invece che stiamo riaprendo troppo presto. In Germania i casi aumentano, la Francia rinvia l' apertura delle scuole. L' Italia ripartirà in sicurezza?

«Abbiamo raccomandato tre precondizioni che vanno monitorate. La prima: il controllo giornaliero dell' andamento dell' epidemia. La seconda: la tenuta del sistema ospedaliero, non solo le terapie intensive, anche i posti-letto Covid. La terza: la disponibilità di mascherine, gel e altri materiali di protezione. A queste condizioni si può riaprire».

E se l' epidemia riparte?

«L' approccio non dovrà essere nazionale e neppure regionale, ma microgeografico: occorre intervenire il più in fretta possibile, nella zona più piccola possibile. Abbiamo indicato al governo un processo. L' importante è che le misure siano tempestive; nella speranza che non siano necessarie».

Appunto: perché trattare allo stesso modo l' Umbria, che ha meno di dieci casi al giorno, e la Lombardia, che ne ha quasi mille? Non è meglio differenziare le regole a seconda delle Regioni?

«Io ho mezza famiglia a Catanzaro e mezza a Brescia. I numeri dell' epidemia sono molto distanti; nel lungo termine non li si può gestire allo stesso modo. Dovremo rispondere diversamente, per non penalizzare le zone che hanno meno casi. L' importante è che l' Italia si doti di un sistema per condividere le informazioni. La trasparenza sarà fondamentale. Se tanti lombardi e piemontesi vanno in Liguria, ogni Regione guarderà i suoi numeri, ma il ministero della Sanità dovrà guardare alle interrelazioni, per capire se il movimento crea focolai. Lo stesso vale per il corridoio di trasporto tra Lazio e Toscana. I numeri ci diranno quando potremo proseguire con le riaperture, minimizzando il danno economico e massimizzando la sicurezza».

Molte aziende sono aperte. Ma non ci sono regole chiare sui test.

«Gli italiani devono abituarsi a convivere con il problema. Molte imprese si stanno attrezzando per inserire i test nelle loro procedure di sicurezza interne; il Comitato tecnico-scientifico individuerà quello più affidabile. A livello individuale abbiamo l' App, a livello di grandi numeri lo screening».

L' App servirà davvero?

«Potrà servire se arriva in fretta, e se la scarica la grande maggioranza degli italiani. È importante lanciarla entro la fine di maggio; se quest' estate l' avremo tutti o quasi, bene; altrimenti servirà a poco».

Se la sente di garantire che non sarà una violazione della privacy da parte dello Stato?

«Non è così. Non è stato scelto il sistema centralizzato, che manteneva l' identità di tutti i contatti. E' stata scelta l' altra soluzione, quella Apple-Google. I contatti stanno solo sui telefonini delle persone. Quando scopro di essere contagiato, sono io che metto dentro un codice, che rilascia una serie di codici alle persone con cui sono entrato in contatto. Tutto avviene in modo anonimo: l' individuo viene informato dal sistema, ma il sistema non sa chi sono i due; la privacy dei due individui è mantenuta. Nessuno conosce l' altro. Il sistema sanitario locale - se vorrà - potrà disegnare l' App in modo da contattare i cittadini, ma in trasparenza».

Pensa davvero che gli italiani la scaricheranno?

«Se gli verrà spiegato bene, lo faranno. Se vivessi in un piccolo paese e fossi contagiato, avviserei chi mi è stato vicino di stare attento. L' App lo fa in automatico e anonimamente: mi avviserebbe che sono stato in contatto con un contagiato, e devo chiamare il servizio sanitario. Non vedo perché gli italiani dovrebbero rinunciare a informazioni che non limitano ma rafforzano la loro libertà».

Come faranno i negozianti ad attendere il 18 maggio? E i bar e ristoranti a resistere fino a giugno?

«Le riaperture di negozi e bar, e tantomeno delle chiese, non sono di competenza del nostro Comitato; sono decise dal governo sulla base di input sanitari. Noi siamo advisor: ci è stato chiesto di dare consigli su come far ripartire costruzioni e manifattura. La riapertura progressiva ti fa capire meglio a quale velocità devi andare. È una malattia che non ha una mortalità altissima, ma può mettere in ginocchio il sistema sanitario; è un dovere morale evitarlo. Sento parlare di distanziamento sociale; dovremmo parlare di distanziamento fisico. La società deve essere più unita e coesa di prima. È il momento di collaborare, tutti: andando in ufficio in bicicletta, spalmando gli orari di ingresso, continuando con lo smart-working».

Si dice che siate troppi. State funzionando? E quanto costate?

«Troppi? La presidenza del Consiglio ha creato tre strutture: il commissario Covid che garantisce che arrivino mascherine e altro materiale; il Comitato tecnico-scientifico, che esiste in tutti i Paesi; e noi, che siamo chiamati ora a fare proposte per il rilancio, per il 2020 e il 2021. Noi del Comitato economico-sociale siamo tutti volontari. Nessuno guadagna nulla, come è giusto che sia».

Lei è qui per prendere il posto di Conte?

«Non ho nessuna intenzione di fare politica. Mi è stato chiesto di aiutare a gestire una fase complicata, con un gruppo di persone esperte di diverse materie».

Chi gliel' ha chiesto? Conte o Mattarella?

«Il presidente Conte. Stavo passeggiando in giardino, qui a Londra si può. Ho chiesto due ore per avvisare la General Atlantic, cui dedicavo metà del mio tempo, e le altre società cui collaboravo. Mi hanno risposto: of course, naturalmente puoi e devi fare qualcosa per il tuo Paese. Alla fine tornerò al mio lavoro. Molti manager l' hanno fatto, in molti Paesi; solo in Italia si pensa che vogliano fare politica. Sono state scritte anche altre inesattezze».

Quali?

«Non abbiamo mai proposto di chiudere in casa i sessantenni. L' hanno creduto in tanti, anche Fiorello. Abbiamo solo posto il tema dei muratori nei piccoli cantieri e dei lavoratori nelle manifatture minori».

Quali misure proporrà per il rilancio?

«Siamo all' inizio: abbiamo appena ascoltato il presidente della conferenza dei rettori, nei prossimi giorni sentiremo tutte le categorie. Siamo divisi in sei gruppi di lavoro, che coprono tutte le parti produttive e sociali: aziende, istruzione, turismo, cultura, famiglie, pubblica amministrazione Abbiamo l' opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi».

È l' occasione per ricostruire la macchina dello Stato?

«Non solo: è l' occasione per rilanciare tutto il sistema Italia. Il Paese ha imparato a usare le nuove tecnologie, i nuovi strumenti per comunicare. Dobbiamo ammodernare i modelli commerciali delle nostre imprese. Aumentare la partecipazione femminile al lavoro, sostenendo al contempo la natalità, aiutando le madri che lavorano».

Le scuole chiuse non aiutano.

«Abbiamo raccomandato congedi parentali retribuiti e bonus per baby-sitter; ovviamente occorrerà prendere misure strutturali. Dovremo massimizzare l' utilizzo dei beni culturali, artistici, ambientali. Riaprire corridoi turistici, appena possibile. Ed estendere le stagioni».

Si andrà in vacanza quest' estate?

«Spero di sì. Andremo più vicini, avremo un turismo più locale. Il nostro grado di libertà dipende da come ci comportiamo da qui a luglio. Sta a noi rispettare la distanza fisica e non vanificare gli sforzi fatti finora».

La sua città, Brescia, è tra le più colpite. Molte aziende chiuderanno al Nord? O l' economia ripartirà?

«Direi di sì, che ripartirà. Non è un sì senza condizioni. Bisogna aiutare le imprese sul fronte della liquidità. Ammodernarne le strutture produttive e distributive. Farle lavorare con meno gravami amministrativi, meno complicazioni: tutti lo dicono ma nessuno lo fa, perché è difficile farlo; ma il momento è adesso. Servirà un intervento dello Stato, spero temporaneo, senza sussidi a lungo termine: la Cassa depositi e prestiti può essere lo strumento giusto. Tra 12-18 mesi potremo aver superato la tempesta».

Quanti soldi servono, e dove?

«C' è un ministro dell' Economia che decide dove mettere i soldi. Noi possiamo indicare le iniziative che danno il miglior ritorno».

Ci attende una recessione, o c' è il rischio di una depressione globale?

«Il rischio c' è. Dipende da due cose che nessuno conosce: la scoperta di una terapia e di un vaccino; e la governance mondiale. Serve un coordinamento internazionale. Se ognuno guarda il suo orticello e non coordina le proprie misure con gli altri le conseguenze saranno pesanti. L' Europa è chiamata a dare risposte comuni su trasporto merci, circolazione delle persone, protocolli per la sicurezza. Se la Francia o la Germania decidono una cosa diversa dall' Italia, una parte delle risorse si sposterà. Evitiamo di danneggiarci a vicenda».

Cosa pensa degli aiuti russi e cinesi? Filantropia? O geopolitica?

«È una domanda da fare al ministro degli Esteri. Dico solo questo: è importante che ci sia il dialogo. Dobbiamo mantenere una visione multilaterale. Ce l' ha insegnato il virus, che non guarda alle nostre divisioni».

Lei continua a lavorare da Londra?

«Sì. Se fossi tornato avrei dovuto fare due settimane di quarantena, avrei perso tempo. Dobbiamo tutti imparare a lavorare in modo diverso. Ho guidato una multinazionale come Vodafone via video, dall' India al Sudafrica. In certi casi gli spostamenti sono controproducenti. Abbiamo iniziato a lavorare la mattina di Pasqua e neanche ci conoscevamo; dopo dieci giorni abbiamo consegnato le prime raccomandazioni. Se ci fossimo visti di persona, probabilmente non ce l' avremmo fatta».

Il filo rosso che lega Colao, Capua, Monti e De Benedetti. Rec News il  25/04/2020. E poi John Elkann, dirigenti della JP Morgan, della Deutsche Bank e di Alliance, la tedesca che sta mettendo le mani sulle autostrade italiane. Tutti insieme per una “visione prospettica europea e globale”.

Di Vittorio Amedeo Colao, super-manager di origini calabresi (è nato a Brescia e vissuto a Fossato Serralta, in provincia di Catanzaro), si sente parlare sempre più spesso. E’ il boss della Fase 2, quella che tenterà di far accettare il distanziamento sociale nei mezzi di trasporto, nelle fabbriche, nei locali costretti a dimezzare posti e guadagni. In tempi di “emergenza” si è guadagnata un posto visibile anche Ilaria Capua, la virologa del mainstream del “niente sarà più come prima”: proprio quello che vuole Colao, che qualcuno già dipinge come candidato “ideale” per il prossimo esecutivo, o nelle vesti di ministro per un Conte Ter o addirittura come Presidente del Consiglio. I due, assieme all’ex premier dell’Austerity Mario Monti e al patron storico del gruppo Gedi Carlo De Benedetti, provengono da una fucina comune, peraltro assieme al nipote di Gianni Agnelli e dirigente della FCA John Elkann. E’ l’Università Bocconi di Milano, dove ognuno ricopre un posto di rilievo, con connessioni da non sottovalutare. Sotto la presidenza di Mario Monti all’interno del Consiglio di amministrazione, per esempio, si instaura proprio Vittorio Colao, suggerito come consigliere dalla Città Metropolitana di Milano. Resterà in carica, salvo cambiamenti, no al 2022. I due sono anche componenti dell’International Advisory Council (IAC), che “assiste il Cda nella strategia di internazionalizzazione dell’Ateneo” per una “visione prospettica europea e globale”. Occhio alle parole. E’ qui che si incontrano dinosauri della Deutsche Bank e di JP Morgan, manovalanze di Alliance (la tedesca che sta lavorando all’acquisizione del 51% di Autostrade) o di Gucci, l’azienda di moda che ha deciso di nominare come consulente della sua “Fase 2” Roberto Burioni . Non rimane fuori, come accennato, neppure Ilaria Capua, già deputata, e “l’ingegnere” Carlo De Benedetti.

Il rapporto Colao-Monti? Basato sulla stima reciproca e, si direbbe, sull’opportunità. Nel 2019 l’europeista convinto più anziano ringrazia il manager rampante pubblicamente, per fargli gli auguri per il suo insediamento nel Cda della Bocconi. C’è da temere, con l’avanzata e l’immunità di Colao, un ritorno alle “lacrime e sangue” di montiana memoria? Per di più in salsa digitale dunque con annessi i pericoli derivati dal 5G? Staremo a vedere.

Auguri Colao, ma ricordi il "Corriere". Il governo si è auto-commissariato chiamando al capezzale dell'Italia un bravo medico, il manager di lungo corso Vittorio Colao. Alessandro Sallusti, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Il governo si è auto-commissariato chiamando al capezzale dell'Italia un bravo medico, il manager di lungo corso Vittorio Colao, che insieme a una squadra di esperti super titolati proverà a fare ripartire il Paese. Auguri sinceri a Colao, ma gli consiglierei di non farsi soverchie illusioni. La politica è una brutta bestia e la burocrazia statale una palude, per credere chiedere a grandi imprenditori ed esperti di successo, che si sono cimentati nella pratica, da Silvio Berlusconi a Carlo Cottarelli. Il primo ha resistito eroicamente per vent'anni e l'ha pagata cara, il secondo - che avrebbe dovuto risolvere il problema del debito pubblico e ne sono certo ne aveva le capacità - ha gettato la spugna un attimo prima di essere massacrato. Non sono nessuno per dare un consiglio a Colao, uno che è uscito a pieni voti prima dalla Bocconi e poi da Harvard, che ha scalato posizioni dentro giganti della finanza tipo Morgan Stanley e McKinsey e che ha diretto il traffico di Vodafone in Europa. Ma se mi è permesso, Colao dimentichi questi titoli e si concentri sull'unico neo della sua brillante carriera. Per carità, un piccolo neo quale è stata la sua breve e non entusiasmante esperienza al Corriere della Sera, meno di due anni, dal 2004 al 2006. Il Corriere di allora lo si può tranquillamente paragonare alla politica: una piovra che ti avvolge e ti stritola. Ci sono i giornalisti che pensano di essere degli dei intoccabili, i manager che da decenni fanno le stesse cose sbagliate e non sanno fare altro, i sindacati che spadroneggiano, i privilegi intoccabili, le posizioni di rendita, le serpi in seno e i veleni sparsi a piene mani. Un mix che costrinse alla resa anche Colao, arrivato in via Solferino con le migliori intenzioni (e capacità). Lei è una persona troppo a modo per certi ambienti. Glielo dico, egregio dottor Colao, perché in quegli anni avevo frequentato il Corriere e oggi, mio malgrado, frequento la politica: la aspetta una cosa uguale nelle dinamiche ma moltiplicata per mille negli effetti. Lei rischia davvero, da ieri sta sulle palle a tre quarti della politica e al 90% dei grandi burocrati che hanno le leve del comando, senza contare che i giornalisti la aspettano al varco con il pugnale in mano. Dimentichi Harvard e tenga in considerazione la massima di Rino Formica: «La politica è sangue e merda». Quindi, oltre a illustri cattedratici - altro consiglio non richiesto - si metta in squadra un paio di picchiatori e figli di buona donna in grado di farle da guardaspalle, altrimenti non ne uscirà vivo. Comunque, dottor Colao, auguri di buona Pasqua e soprattutto di buon dopo Pasqua (e auguri a tutti voi, cari lettori).

Luciana Lamorgese resta all'Interno, la prefetta figlia d'arte prestata alla politica. Alessandra Ziniti  su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Una delle sue doti più apprezzate è la capacità di mediazione, grazie alla quale ha portato a casa la riscrittura dei decreti Salvini. Non le piace essere chiamata "ministra", le quote rosa in quanto tali non le sono mai piaciute anche se alle donne e alla loro tutela contro ogni genere di violenza ha dedicato grande attenzione nei 17 mesi trascorsi al Viminale. Di se stessa Luciana Lamorgese, figlia d'arte, prefetto figlio di prefetto, dice: "Sono una donna che non si spaventa davanti alle sfide". E l'ultima che sta affrontando dal 5 settembre 2019 è da fare trremare i polsi: prima succedere a Matteo Salvini con un cambio di passo sostanziale riportando il Viminale nel suo alveo più istituzionale. Niente social, poche parole e meditate, tanto lavoro. Lì, presente, dodici ore al giorno, dalle nove di mattina alle nove di sera, pranzo quasi sempre in ufficio, insomma esattamente il contrario di quello che faceva Salvini che si vedeva poco o nulla e aveva trasformato la stanza del ministro dell'Interno in un set per i suoi videosocial. Donna del sud, originaria di Potenza, 67 anni, due figli, sposata con l'infettivologo Orlando Armignacco, Luciana Lamorgese è l'incarnazione di quel che si dice un "servitore dello Stato". Da tecnico, una presenza la sua molto apprezzata dal presidente della Repubblica Mattarella proprio per abbassare i toni e il profilo del ministero dell'Interno dopo la gestione Salvini, Luciana Lamorgese si è spesso trovata stretta in un governo prettamente politico che non sempre ha brillato per coraggio nel sostenere il suo operato o nel difenderla proprio dagli attacchi spesso grevi del suo predecessore nei mesi difficili dell'estate scorsa quando i flussi migratori, soprattutto dalla Tunisia, sono ripresi consistenti e  l'Italia ( Sicilia in testa) si è trovata in grossa difficoltà a gestire una situazione diventata emergenziale non tanto per i numeri quanto per la contemporanea emergenza Covid. Eppure alla fine Luciana Lamorgese è riuscita, con pazienza e grande lavoro di mediazione (un'altra sua caratteristica) a portare a casa la riscrittura totale di quei decreti sicurezza targati Salvini che metà del governo giallorosso aveva sottoscritto nel primo esecutivo guidato da Conte. La sobrietà è il suo tratto distintivo. E' lei stessa, sorridendo, a dire di sé: "La mattina devo solo scegliere tra tre colori, blu, grigio o nero". Per il resto il suo outfit d'ordinanza è sempre un tailleur con una maglia chiara sotto. Al massimo una sciarpa leggera a dare un tocco di colore. La sua più grande emozione, in una carriera che da prefetto l'ha vista dirigere sedi importanti, da Venezia a Milano ( ultimo suo incarico prima di andare in pensione), è stata proprio quella di rientrare al Viminale da ministro.  Conosce a fondo il sistema del ministero dell'Interno, sa gestire equilibrio e moderazione sempre alla ricerca di un dialogo che porti ad una soluzione. Non va mai in agitazione, raccontano i suoi collaboratori. In quel palazzo dove è cominciata la sua carriera di funzionario nel 1979 per poi diventare capo di gabinetto prima di Angelino Alfano e poi di Marco Minniti. Un incarico che le ha fatto conoscere a menadito, da tecnico qual è, la complessa e delicata materia dell'immigrazione sulla quale si è subito dovuta misurare appena diventata ministro portando a casa l'accordo di Malta, base ( per la verità su cui non si mai più costruito) della nuova politica europea di condivisione della gestione dei flussi con la redistribuzione dei migranti nei diversi Stati membri. Durante la pandemia ( che le ha pure portato 48 ore di ansia per un tampone risultato erroneamente positivo che l'ha costretta in quarantena a casa fino a quando non si è intestardita a farsi rifare il test poco convinta da subito di quell'esito) quello che le è mancato di più sono state le domeniche pomeriggio al cinema. E da quando è ministro ha dovuto pure rinunciare alle sue lunghe passeggiate mattutine. Dal primo lockdown la sua immediata preoccupazione è stata quella di affrontare nel modo più corretto l'emergenza sociale causata dalla crisi economica, dalle tensioni nei quartieri più difficili all'aggressione da parte della criminalità alle imprese e agli esercizi commerciali in difficoltà. Con un occhio particolarmente attento al disagio dei giovani per troppi mesi rimasti chiusi a casa senza scuola e università o per strada senza lavoro né opportunità.

Viminale, spunta un conto da quasi mezzo milione di euro: tutte le spese della Lamorgese. Giovanni Pasero martedì 23 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Nel 2020 il Gabinetto del Ministro dell’interno ha liquidato somme per 470mila euro”. Lo riferisce il sito LabParlamento, dettagliando le spese del dicastero presieduto da Luciana Lamorgese. “Spese di ogni genere, dai supporti elettronici indispensabili per un corretto andamento del Viminale, alla mobilia di lusso, forse superflua. Si va dall’acquisto di bandiere dell’Italia e dell’Europa (per 2.450 euro) alla fornitura di arredi (per oltre 110mila euro)”. Con tanto di cucina arredata di tutto punto. Tutto legittimo e nel pieno rispetto delle leggi. Nulla da eccepire. Pensate solo se le stesse spese le avesse firmate e avallate il suo predecessore. Travaglio, Lucarelli e Scanzi ci avrebbero campato di rendita. La cucina di Salvini, le spese di Salvini. Quanto mangia la Bestia di Salvini. Bla bla bla. E altre amenità del genere. Andando a spulciare il resto dei numeri, non finisce qui. “Nelle spese presenti nella tabella riassuntiva del Viminale, compaiono uscite per mobili su misura, appendiabiti, lampade a muro. E ancora. Lavori di tappezzeria (7.800 euro), vaschette di pelle per scrivania (4.600 euro), un servizio per restauro mobili (4.800 euro), due leggii (1.300 euro), fornitura e montaggio tende (7.300 euro), mini-frigo (2.800 euro)”. “Anche nel 2021 la musica non cambia”, prosegue Labparlamento. “Il 10 febbraio scorso sono stati preventivati 1.500 euro per il servizio di smontaggio, lavaggio e ripristino in fase di rimontaggio della parte elettrica del lampadario presso la stanza del capo Dipartimento al II piano del Palazzo Viminale”. E ancora: per materiale di ferramenta sono stati previsti 4.500 euro”. Scorrendo le voci di spesa di altri dipartimenti spunta un costo nuovo per il Dipartimento per gli affari interni e territoriali Ufficio V. Si parla “di 2.600 euro per un divano a tre posti e 6.100 euro per armadi su misura. E 1.600 euro per una poltrona”. Nulla da eccepire. Ripetiamo: acquisti legittimi e nel pieno rispetto della legge. Ma immaginate se quella stessa poltrona fosse stata acquistata da qualcuno dello staff del ministro Salvini. Travaglio dove sei?

Spese per quasi mezzo milione di euro al Ministero degli Interni della Lamorgese. Luciana Lamorgese, Ministro degli Interni, solo nell'anno della pandemia, il 2020, ha autorizzato spese per quasi mezzo milione di euro per rinnovare gli arredamenti e la cucina del Viminale. Alessandro Imperiali - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Nonostante tutte le attività fossero bloccate causa Covid, il ministero sia stato semivuoto per gran parte del 2020 e il Ministro degli Interni Luciana Lamorgese non abbia potuto incontrare nessun suo equivalente straniero, le spese del dicastero ammontano a 470mila euro, circa mezzo milione. Tutto rintracciabile e documentato anche sul sito del ministero, esattamente alla voce "Amministrazione trasparente", dati portati alla luce da LabParlamento. Sembra che la causa principale sia stato lo smart-working. Infatti, per poter mandare avanti la macchina del Ministero degli Interni, decine di migliaia di euro sono state utilizzate per rifornire i dipendenti e tutto il personale di pc e rete internet validi per lavorare da remoto. Migliaia di euro per migliaia di dispositivi elettronici. Non solo computer e smartphone adeguati: è stato necessario per il ministro, premiare chi è rimasto a lavorare al Viminale e non dietro lo schermo del salotto di casa. C'è stato un vero e proprio rinnovamento del design del dicastero, principalmente a causa di un allagamento avvenuto lo scorso 8 febbraio. Una nuova cucina fa adesso parte del ministero dal quale però fanno sapere: "Stiamo parlando di un cucinino che, dopo anni, aveva bisogno di un freezer nuovo". E il freezer nuovo, effettivamente, fra le spese c'è. Poi ci sono un minifrigo, lavabicchieri, tavolo refrigerato, lavello e infine un pensile. "Manutenzione straordinaria" la chiamano dal Gabinetto del ministro. A queste si aggiungono le spese giustificate del catering, anche se sempre dal Viminale fanno sapere che la ministra pranza con "uno yogurt o con della frutta". Ma anche altri 1600 euro per una poltrona di pelle. Dopo l'allagamento sopracitato 4.500 euro sono serviti per il "materiale di ferramenta" a cui vanno aggiunte le spese per il servizio di smontaggio, lavaggio e ripristino della parte elettrica del lampadario nella stanza, al secondo piano, del capo Dipartimento. Sempre al secondo piano del Palazzo del Viminale è stato utilizzato qualche ulteriore migliaio d'euro anche per il servizio "ritiro, lavaggio e riconsegna" dei tappeti e cinque poltrone. Esattamente 39.280 euro, invece, sono stati spesi per gli arredi su misura a cui vanno aggiunti 11mila euro per gli arredi semplici ed altri 60mila euro circa per il resto del mobilio, per un totale superiore ai 110mila euro nel solo 2020. Sembra essere stato necessario spendere, invece, quasi 5mila euro per i portadocumenti in pelle e circa 7mila euro per le rilegature e per i secchioni dell'immondizia. Perlomeno, tra le varie voci, a fine ottobre sono state comprate diverse bandiere italiane e dell'Unione Europea, ovviamente dotate di supporti fatti con gommapiuma.

Luciana Lamorgese, poltrone e tappeti: spesa di mezzo milione di euro per il suo ufficio al Viminale. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Mancavano i leggii in plexiglass e le vaschette di pelle da mettere sulle scrivanie. Gli armadi degli archivi erano così polverosi che tra quei corridoi spenti del Viminale si poteva girare un film noir oppure una di quelle commedie un po' fantasy tipo Una notte al museo con Ben Stiller e Robin Williams nei panni di Theodore Roosevelt e la mummia del faraone che prende vita. La sfortuna ha voluto poi che nel palazzo sede del Ministero dell'Interno ci sia stata una perdita d'acqua e così divani e tappeti sono andati a bagno: tutto da cambiare. Morale: 470mila euro di lavori liquidati nell'anno 2020, Iva compresa. Sono le spese del Gabinetto della ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese, tutte documentate e presenti anche sul sito del dicastero, alla voce Amministrazione trasparente, ma a scovarle una per una, con tanto di delibera, è stato Andrea Koveos, il segugio di LabParlamento, che ha fatto due conti al restyling ministeriale e ha scoperto che anche nel 2021, anno in corso, parecchi soldini sono stati buttati nel Gabinetto del ministro. Intanto perché l'allagamento è recente (8 febbraio), due giorni dopo è partito l'ordine per il servizio di smontaggio, lavaggio e ripristino in fase di rimontaggio della parte elettrica del lampadario presso la stanza del capo Dipartimento al secondo piano del Palazzo del Viminale; per non parlare del servizio di ritiro, lavaggio e riconsegna di tre tappeti, un salotto e cinque poltroncine, sempre al secondo piano del ministero. Mentre per il materiale di ferramenta sono stati previsti 4.500 euro. Cifre perfino irrisorie per una città come Roma dove non ti regalano niente. Ma infatti, allagamento a parte, è più caro il bilancio degli arredi su misura, sempre liquidati nel 2020, per un totale di 39.280 euro. Solo quelli su misura, perché gli arredi semplici sono costati appena 11mila euro e in totale con il mobilio si superano i 110mila euro in un anno.

Yogurt a pranzo. Le famigerate vaschette in pelle portadocumenti, invece, hanno comportato un esborso di 4.600 euro, sedie e scrivanie 9.400 euro, rilegature e pattumiere circa 6.700 euro. Insomma, la ministra ha voluto dare una svecchiata ai vari uffici (non certo solo il suo, infatti sono spese che riguardano più uffici del Viminale), senza però tralasciare la veste istituzionale e i simboli dedicati all'Italia, a conferma del fatto che Lamorgese, bersagliata sul fronte immigrazione, pensa comunque sempre al proprio Paese (e all'Ue). Spiccano, infatti, tra le altre voci, gli acquisti effettuati a fine ottobre 2020 di bandiere: dell'Italia e dell'Europa, complete di supporti in gommapiuma, fornite dalla società Savent srl. Se il collega della Farnesina, Luigi Di Maio, usufruisce per i suoi incontri diplomatico-istituzionali di un servizio catering con personale in divisa pronto ad apparecchiare pranzi e cene per i suoi ospiti, al Viminale si mangiano le mani. Nel senso che sono praticamente a dieta. «La ministra pranza con uno yogurt o con della frutta», fanno sapere dallo staff. Il tempo di mangiare è poco, pressoché nullo, per questo sorprende ancora di più leggere che nei mesi scorsi sono stati comprati lavabicchieri nuovi di zecca, mini-frigo e perfino un tavolo refrigerato. «Cucina stellata qui, ma quando mai? Stiamo parlando di un cucinino che, dopo anni, aveva bisogno di un freezer nuovo», replicano dal ministero. Già che c'erano, però, nell'ottica di ammodernare l'ambiente, è stato cambiato il lavello e il pensile ed è stata eseguita una manutenzione straordinaria del "cucinino" in uso al Gabinetto del ministro. Niente di male, ci mancherebbe, anche i predecessori dell'ex prefetta mangiavano e anche più di lei, ma allora come si fa ad avere speso quasi mezzo milione di euro in un anno mentre tutte le attività erano quasi bloccate a causa del Covid e gli incontri con omologhi stranieri sono stati molti rari? Ecco la risposta: lo smart-working. Per dotare tutto il personale del Viminale, che lavorava da remoto a causa della pandemia, di pc e collegamenti Internet efficienti, dal Gabinetto del ministero è stato ordinato l'acquisto di migliaia di dispositivi elettronici. Questo per i dipendenti da remoto. Per chi è rimasto in sede, invece, si è provveduto a cambiare qualche poltrona. Come quella costata 1.600 euro. Sicuramente comoda. 

C’ERA LA LAMORGESE QUANDO ALFANO AFFIDÒ I BENI TOLTI ALLA MAFIA ALL’INDAGATO PER MAFIA. IL NEO MINISTRO DELL'INTERNO ERA A CAPO DELL'UFFICIO CHE NOMINÒ MONTANTE, CONDANNATO A 14 ANNI PER ASSOCIAZIONE A DELINQUERE. Da gioacchinogenchi.it da La Verità - 6 settembre 2019 - di Fabio Amendolara. La nomina ai vertici dell’Agenzia governativa per l’amministrazione dei beni confiscati alle mafie di Antonio Calogero Montante, detto Antonello, l’ex numero uno di Confindustria in Sicilia e leader dei professionisti dell’Antimafia, proprio mentre era iscritto sul registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa (a maggio è stato condannato in primo grado a 14 anni di carcere per associazione a delinquere, corruzione e accesso abusivo a sistema informatico), è considerata ancora come uno dei grandi pasticci della storia della lotta alla criminalità organizzata. Il manager spione, che collezionava dossier sui suoi rivali, per quel pateracchio avrebbe potuto sedere proprio accanto al procuratore nazionale antimafia, che all’epoca era Franco Roberti (ora deputato europeo del Pd). E nella catena di comando che il primo dicembre 2014 portò all’imbarazzante nomina di Montante, ratificata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, spunta il ministro dell’Interno del governo giallorosso, Luciana Lamorgese, che all’epoca era il capo di gabinetto del ministro Angelino Alfano. La prefetta, insomma, guidava il team di Alfano che ha dato la possibilità a Montante di mettere le mani nell’agenzia che in quel momento gestiva 1.500 aziende e 10.500 immobili, molti dei quali sequestrati a mafiosi siciliani. A tirare fuori il documento che fotografa l’iter burocratico che partorì il pastrocchio, subito dopo la notizia ufficiale dell’incarico al prefetto Lamorgese, è stato Gioacchino Genchi, ex poliziotto, poi controverso consulente informatico delle Procure più calde d’Italia, tra le quali quella di Catanzaro ai tempi di Luigi De Magistris, e ora avvocato: «Non oso nemmeno immaginare i salti di gioia che ha fatto Antonello Montante alla lettura della lista dei ministri del secondo governo Conte, quando ha appreso della nomina a ministro dell’Interno dell’ex prefetto Luciana Lamorgese». E, allegato al commento social, ci ha piazzato le poche righe dell’atto giudiziario che ha tirato fuori dal suo archivio e che proviene, a suo dire, dal processo Montante (nel quale è testimone). Ecco la ricostruzione: il 14 marzo 2014 il ministro Alfano spedisce una lettera al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con la quale lo informa della necessità di individuare due esperti, di concerto tra i due ministeri, in seno al consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Il 12 maggio il ministro Alfano scrive la minuta che il 28 maggio diventerà la lettera ufficiale con la quale il titolare del Viminale indica a Padoan il nominativo, pregandolo di fargli pervenire l’indicazione dell’esperto del ministero dell’Economia, in modo da assicurare, in tempi brevi, la piena operatività dell’Agenzia. Ed è a questo punto che farebbe ingresso l’ex capo di gabinetto: «Il 30 luglio 2014 il prefetto Luciana Lamorgese chiede e ottiene da Montante il suo curriculum». E con lui, poi, firma anche dei protocolli sulla legalità all’epoca molto propagandati dal Viminale. Insomma: al ministero ritenevano di aver puntato sull’uomo giusto: «Fu un’idea mia che nasceva dal fatto che nella gestione di questa Agenzia si notava la mancanza di elemento manageriale». È Alfano a intestarsi la nomina davanti alla commissione d’inchiesta attivata dalla Regione Sicilia per disvelare in modo completo il paludoso sistema Montante. «Immaginai di mettere un siciliano», dice Alfano, «un antimafioso, il responsabile della legalità di Confindustria nazionale e, al tempo stesso, uno di comprovata, a quel tempo, competenza manageriale. […] Quando lo nomino all’Agenzia nazionale dei beni confiscati, eravamo all’apice. Poi, 20 giorni dopo, c’è stata la rivelazione del segreto istruttorio da parte del giornale e se violavano il segreto istruttorio 20 giorni prima non lo nominavo». Una versione che non permette ad Alfano di autoassolversi. Perché dalla Commissione siciliana gli fanno notare: «Quando Montante viene chiamato dall’Agenzia è già iscritto nel registro degli indagati da sei mesi. La notizia circola già nelle redazioni dei giornali. Eppure nessuna informazione sull’indagine penale a carico della persona prescelta arriva né al presidente del Consiglio, cui compete la nomina, né ai ministri dell’Interno e dell’Economia, cui compete l’indicazione. Cosa ha determinato un così paradossale corto circuito informativo?». Ma nessuno poteva immaginare che la situazione sarebbe diventata di lì a poco ancora più imbarazzante. Nei suoi appunti, infatti, Montante annota che nel giugno 2015, ossia due mesi dopo la comunicazione di autosospendersi inviata all’Agenzia dei beni confiscati all’indomani delle notizie di stampa sull’inchiesta che lo vedeva coinvolto, il prefetto Umberto Postiglione, che dell’Agenzia era il direttore, lo chiama per invitarlo a partecipare a una delle riunioni. D’altra parte, il governo non procedeva con la revoca e Montante non si era dimesso. Ma, ha fatto notare Claudio Fava, presidente della Commissione d’inchiesta siciliana: «tutto ci aspetta fuorché il fatto che Montante venga compulsato perché partecipi. Immaginiamo tutti cosa sarebbe accaduto il giorno dopo se davvero un indagato per mafia avesse partecipato al consiglio direttivo dell’Agenzia per i beni confiscati». Ma per provare vergogna è già stata sufficiente la nomina.     

Dario Franceschini confermato alla Cultura: dai primi passi nella Dc di Zaccagnini, la scalata sempre al centro. Giovanna Vitale  su La Repubblica il 12 febbraio 2021. "Dove c'è lui c'è maggioranza" è ciò che si dice dell'attuale ministro nei palazzi romani per via di quella certa attitudine a ritrovarsi sempre dalla parte giusta della storia anche quando questa sembra volgere a suo sfavore. "Dove c'è Franceschini c'è maggioranza" è ciò che si dice di lui nei palazzi romani per via di quella certa attitudine a ritrovarsi sempre dalla parte giusta della storia anche quando questa sembra volgere a suo sfavore. Classe 1958, nato a Ferrara da padre partigiano ed ex deputato democristiano, "il mitico Dario" è al suo settimo governo: un cursus honorum iniziato a fine '99 da sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel fugace D'Alema II e oggi coronato con la chiamata di Draghi, confermato alla guida del ministero della Cultura. Avvocato civilista, appassionato di lirica, primi passi nella Dc di Zaccagnini, da ragazzo suonava il sassofono, faceva lo sbandieratore al Palio e a calcio presidiava la porta. Ruolo difensivo che ha continuato a esercitare da adulto - "Ho sempre pensato che in politica non si debba necessariamente fare il numero uno. I terzini non possono giocare per segnare, la squadra perderebbe"  - teorico del dietro le quinte per conservare la scena. Abilissimo a restare in sella e incapace di serbare rancore, riuscì a restare ministro persino nel traumatico passaggio da Letta a Renzi, nonostante l'appellativo di "vicedisastro" affibbiatogli qualche anno prima dall'ex sindaco di Firenze; quando nel 2009 perse le primarie contro Bersani, questi lo volle capogruppo alla Camera, non fuori da tutto; dopo aver difeso Conte sino allo stremo, ha lavorato ventre a terra perché l'appello di Mattarella fosse digerito da un Pd recalcitrante. Consistendo il suo potere in una rete di solide relazioni: quando per volere del Pd l'attuale capo dello Stato non poteva più tornare in Parlamento (aveva superato le tre legislature) fu proprio Franceschini a pretendere che venisse indicato dal partito come giudice della Consulta. Uno e trino, il ministro della Cultura è padre di tre figlie femmine, due grandi avute dal primo matrimonio, la piccola dalla seconda moglie consigliera regionale col cuore a sinistra, cui probabilmente deve alcune svolte femministe e sulle unioni civili che gli hanno guadagnato il favore dei laici, essendo dai cattolici già molto amato. A 16 anni, da liceale allo scientifico Roiti, gira con l'eskimo e la barba rossa, fonda l'Associazione studentesca democratica, ma a 21 è già consigliere comunale con la Dc. Da lì in poi non si ferma più: vicesegretario del Ppi, poi del Pd, dal 2001 in Parlamento. Sempre al centro. Di lui a un certo punto Ciriaco De Mita disse: "Quello non sarà mai un leader, scrive romanzi". Ne ha quattro all'attivo, più una raccolta di racconti. Tradotti in Francia da Gallimard, forse la più grande soddisfazione della sua vita. Insieme a un'altra, più inconfessabile: aver superato Veltroni al premio Chamberey.

Dario Franceschini confermato alla Cultura: dai primi passi nella Dc di Zaccagnini, la scalata sempre al centro. La Repubblica il 12/2/2021. "Dove c'è Franceschini c'è maggioranza" è ciò che si dice di lui nei palazzi romani per via di quella certa attitudine a ritrovarsi sempre dalla parte giusta della storia anche quando questa sembra volgere a suo sfavore. Classe 1958, nato a Ferrara da padre partigiano ed ex deputato democristiano, "il mitico Dario" è al suo settimo governo: un cursus honorum iniziato a fine '99 da sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel fugace D'Alema II e oggi coronato con la chiamata di Draghi, confermato alla guida del ministero della Cultura. Avvocato civilista, appassionato di lirica, primi passi nella Dc di Zaccagnini, da ragazzo suonava il sassofono, faceva lo sbandieratore al Palio e a calcio presidiava la porta. Ruolo difensivo che ha continuato a esercitare da adulto - "Ho sempre pensato che in politica non si debba necessariamente fare il numero uno. I terzini non possono giocare per segnare, la squadra perderebbe"  - teorico del dietro le quinte per conservare la scena. Abilissimo a restare in sella e incapace di serbare rancore, riuscì a restare ministro persino nel traumatico passaggio da Letta a Renzi, nonostante l'appellativo di "vicedisastro" affibbiatogli qualche anno prima dall'ex sindaco di Firenze; quando nel 2009 perse le primarie contro Bersani, questi lo volle capogruppo alla Camera, non fuori da tutto; dopo aver difeso Conte sino allo stremo, ha lavorato ventre a terra perché l'appello di Mattarella fosse digerito da un Pd recalcitrante. Consistendo il suo potere in una rete di solide relazioni: quando per volere del Pd l'attuale capo dello Stato non poteva più tornare in Parlamento (aveva superato le tre legislature) fu proprio Franceschini a pretendere che venisse indicato dal partito come giudice della Consulta. Uno e trino, il ministro della Cultura è padre di tre figlie femmine, due grandi avute dal primo matrimonio, la piccola dalla seconda moglie consigliera regionale col cuore a sinistra, cui probabilmente deve alcune svolte femministe e sulle unioni civili che gli hanno guadagnato il favore dei laici, essendo dai cattolici già molto amato. A 16 anni, da liceale allo scientifico Roiti, gira con l'eskimo e la barba rossa, fonda l'Associazione studentesca democratica, ma a 21 è già consigliere comunale con la Dc. Da lì in poi non si ferma più: vicesegretario del Ppi, poi del Pd, dal 2001 in Parlamento. Sempre al centro. Di lui a un certo punto Ciriaco De Mita disse: "Quello non sarà mai un leader, scrive romanzi". Ne ha quattro all'attivo, più una raccolta di racconti. Tradotti in Francia da Gallimard, forse la più grande soddisfazione della sua vita. Insieme a un'altra, più inconfessabile: aver superato Veltroni al premio Chamberey.

Luigi Di Maio fa tris: è di nuovo ministro degli Esteri. Emanuele Lauria su La Repubblica il 12 febbraio 2021. È l'uomo-immagine della transizione di 5S, dal movimento del Vaffa a quello del governo "whatever it takes". Rieccolo, il golden boy: Luigi Di Maio fa tris. Per lui, al terzo governo consecutivo, la riconferma alla guida del ministero degli Esteri. Conte o Draghi, poco cambia: questa è decisamente la legislatura di "Giggino", l'uomo-immagine della transizione di 5S, dal movimento del Vaffa a quello del potere "whatever it takes", a ogni costo. Carriera folgorante, per uno nato nel 1986, quando il neo-premier - per intenderci - era già governatore della Banca d'Italia. Di Maio ha riscattato un curriculum incerto che lo vedrebbe ancora studente in Giurisprudenza (al di là dell'ormai iconico lavoro di steward allo stadio San Paolo) con un volo deciso dentro i 5Stelle. Dai 59 voti raccolti alle Comunali del 2010 di Pomigliano d'Arco, il suo paese, ai 189 presi alle Parlamentarie del 2013 che lo spedirono dritto alla Camera: giunto a Montecitorio, il fiuto politico che Beppe Grillo gli ha riconosciuto dalla prima ora ("Io imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto", dichiarò il Vate ligure nel 2014), ha catapultato l'ex rappresentante d'istituto del liceo classico "Imbriani" in ruoli istituzionali sempre più importanti: vicepresidente della Camera a 26 anni, titolare di due dicasteri (Sviluppo economico e Lavoro) e vicepremier a 31, poi il salto alla Farnesina a 34 anni.

Ha stretto accordi con la Lega e con il Pd, in un ruolo di capo politico del Movimento assunto nel 2017 e lasciato (ma solo formalmente) a gennaio del 2020. Ha difeso Conte fin quando ha potuto, poi con il "commissariamento" di Mario Draghi ha fatto buon viso a cattiva sorte. Il M5S ha discusso, si è spaccato, ha votato, ha subito addii eccellenti come quello dell'amico-rivale Alessandro Di Battista. Ma lui è rimasto lì, al governo, una volta di più. E oggi andrà di nuovo a stringere la mano a quel Capo di Stato di cui nel 2018 arrivò a chiedere l'impeachment. Miracoli di un predestinato.

Bruno Vespa su Luigi Di Maio: "Confermato al ministero degli Esteri perché il M5s non ha un leader". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Bruno Vespa ha analizzato le scelte di Mario Draghi e Sergio Mattarella per la formazione del governo di “alto profilo” che affronterà l’emergenza sanitaria ed economica e in particolare la gestione dei miliardi del Recovery Fund. In particolare il giornalista di Rai1 è convinto che il nuovo premier si sia occupato prevalentemente della scelta dei tecnici, mentre il capo dello Stato e i suoi consiglieri degli equilibri all’interno dei partiti. “Si prenda il caso Zingaretti. Il segretario del Pd sarebbe entrato volentieri nel governo - ha scritto Vespa nel suo editoriale su Il Giorno - ma la sua presenza avrebbe portato l’ingresso nel governo di Salvini. E questo per i democratici sarebbe stato un tributo troppo pesante. Niente leader, dunque. Se Luigi Di Maio è rimasto agli Esteri - ha spiegato - è perché il M5s non ha un leader. E se Roberto Speranza, che pure è segretario di Articolo 1, è rimasto alla Salute è per non cambiare timoniere a una nave che naviga da un anno in un mare in tempesta”. Quindi per il conduttore di Porta a Porta il nuovo esecutivo è “assai equilibrato”, anche se è da evidenziare la perdita di peso ulteriore del Movimento 5 Stelle: “I grillini - ridimensionati per numero e peso con Patuanelli retrocesso all’Agricoltura e la Dadone alla Gioventù - sono stati ripagati con un grande tecnico come Cingolani alla Transizione ecologica e a sorpresa con un ambientalista prestigioso ma non ‘ideologico’ come Giovannini”. Una cosa è certa per Vespa: “Non rimpiangeremo gli esclusi del governo precedente”, a partire dai grillini Azzolina e Bonafede. 

Quando Draghi per Di Maio era peggiore dei tedeschi. Adesso "è credibile", ma fino a poco tempo fa il pentastellato attaccava duramente il nuovo premier. Domenico Ferrara, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Adesso gli "ha fatto un'ottima impressione" ed "è credibile", ma c'è stato un tempo in cui Luigi Di Maio criticava Mario Draghi. Un tempo neanche tanto lontano in cui il pentastellato usava parole al vetriolo per apostrofare l'allora presidente della Bce. La narrazione era quella populista dell'attacco al mondo della finanza e dei mercati e dell'avversione ai diktat dell'Europa. Su questa scia nel 2014 il grillino si scagliava contro il Jobs Act in quanto considerato "semplicemente un intervento normativo che piace a Draghi e alla Merkel". E se piace a loro può essere solo una cosa negativa, ça va sans dire. Due anni dopo, in un post su Facebook, Di Maio tuonava: "L'economia va male, e oggi l'Italia viene certificata di nuovo in deflazione. Abbiamo speso oltre 15 miliardi tra Jobs Act, bonus di 80 euro e Garanzia Giovani, e dopo due anni ci troviamo di nuovo in difficoltà economica? Renzi e Draghi "ce rifacciano Tarzan", come si dice a Roma". Nel 2018 il pentastellato invocava una riforma della governance per permettere al Parlamento Ue di incidere di più e chiosava: "Non mi ha mai appassionato l'idea che dovesse essere il governatore di una banca il nostro uomo forte in Ue. Avrei preferito il Parlamento forte". E si arriva poi al climax, il 28 ottobre del 2018, giorno in cui Di Maio sfodera il meglio o il peggio di sé contro Draghi affermando: "Secondo me siamo in un momento in cui bisogna tifare Italia e mi meraviglio che un italiano si metta in questo modo ad avvelenare il clima ulteriormente". Tema della discussione era la manovra di bilancio che il governo si apprestava ad approvare. Di Maio sfodera la sciabola e in risposta alle osservazioni e preoccupazioni mosse dalla Bce arriva a sostenere: "È singolare che in questo momento vedo da alcuni ministri di altri Paesi, come quelli tedeschi, molto più rispetto per quello che stiamo facendo che dal capo della Bce che viene a dire che il clima di tensione in Italia è un problema". Insomma, c'era un tempo in cui per Di Maio Draghi era peggiore dei tedeschi. Adesso invece è il migliore italiano che ci possa essere al governo.

Roberto Speranza confermato alla Salute, l'uomo della continuità nella lotta al Covid. Michele Bocci su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Il segretario di Articolo Uno si è trovato davanti la sfida della pandemia, che ha affrontato professando in tutti i contesti massima cautela. L'uomo della continuità nella lotta al Covid ma anche l'uomo che, da politico puro, ha affrontato con grande senso dell'istituzione la guida del ministero alla Salute. Probabilmente ci sono queste caratteristiche dietro la scelta di Mario Draghi di confermare Roberto Speranza, lucano di Potenza. Il segretario di Articolo Uno ha 42 anni e due figli piccoli, che in questo anno e quattro mesi alla guida della sanità ha frequentato molto poco (rammaricandosene). Del resto si è trovato davanti una sfida enorme e inedita, che ha affrontato professando in tutti i contesti massima cautela. Speranza è sempre stato per la linea dura, quando si è trattato di decidere su lockdown, chiusure, riduzioni di attività. Ha sempre parlato chiaro riguardo ai rischi legati al virus e alla necessità di rinunciare ad alcune libertà per ridurre i contagi e proteggere la popolazione più fragile, evitando anche di far travolgere il sistema sanitario. Ha cercato di lasciare lo spazio ai consulenti suoi e del governo, in primis il Cts, quando si è trattato di prendere decisioni tecniche e ha quasi sempre retto di fronte alle proteste di chi chiedeva una maggiore elasticità e più aperture, sia da dentro il governo, che dalle Regioni. Speranza all'inizio della pandemia ha lottato per avere subito fondi per l'assunzione di personale che coprisse le carenze degli organici, strutturali in Italia. Ha cercato di portare la sanità al centro delle politiche economiche, per aumentare i finanziamenti destinati a un sistema sfiancato da tagli e pandemia, ad esempio la quota del Recovery fund. Sempre il suo senso delle istituzioni lo ha portato a dialogare con i governatori, anche di centrodestra (ha un ottimo rapporto con Luca Zaia), per organizzare insieme la lotta al Covid. Certe volte, forse, ha troppo evitato lo scontro con gli amministratori locali, che possono fare il bello e il cattivo tempo in un sistema sanitario che anche nell'emergenza coronavirus ha dimostrato di soffrire di troppo federalismo. L'autonomia ha portato i vari territori a rispondere in modo diverso all'emergenze, ad esempio di recente per quanto riguarda le vaccinazioni. E proprio la grande campagna vaccinale che aspetta l'Italia è la sfida più grande che dovrà affrontare Speranza in questo suo secondo mandato. Di dosi ne arrivano ancora poche ma è necessario che l'Italia sia pronta per quando ci saranno e bisognerà somministrare i vaccini a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Ora c'è da uscire dall'emergenza, della ricostruzione probabilmente si occuperanno altri.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 19 febbraio 2021. In Italia c'è Speranza. E sono in molti a dover ringraziare l'attuale ministro della Salute, che nella sua squadra ha accolto diversi esuli della politica, che dopo aver trovato un loro posto al solo non sono riusciti a mantenerlo. Roberto Speranza è l'uomo delle decisioni più drastiche, dei lockdown duri e della massima cautela in questa epidemia. (…) Ma chi c'è dietro Speranza? Walter Ricciardi. Speranza lo presenta come consulente a titolo gratuito del ministero ma, come sottolinea Il Tempo in edicola, il suo nome non figura negli elenchi ufficiali. Eppure l'Europa ci impone la massima trasparenza nell'amministrazione. Chi fine ha fatto Ricciardi? Se il suo nome latita, di certo non mancano quelli di un altro nutrito gruppo di consulenti a vario titolo che affollano il gruppo di lavoro di Roberto Speranza, che pare sia molto generoso nell'affidare incarichi di consulenza e collaboratori. Certo, farlo con i soldi non propri non è difficile. È un'obiezione lecita, però il ministro della Salute è riuscito a ottenere anche una lunga fila di consulenti pronti a offrire gratuitamente la loro opera per lo Stato. Certo, non tutti. E infatti ecco nell'elenco dei collaboratori e consulenti di Roberto Speranza ci sono tanti amici del ministro che, finiti a far poco o nulla, sono stati generosamente risucchiati nella macchina ministeriale. Ci sono giornalisti de L'Unità o di Liberazione, che una volta chiusi i loro giornali hanno trovato un posto insieme al compagno Speranza, per il quale ora curano la comunicazione. E questo gruppetto di comunicatori si è ulteriormente ingrossato allo scoppiare della pandemia. Ed stata quella l'occasione per Speranza per garantire al suo stretto collaboratore Massimo Paolucci, ex eurodeputato del Partito Democratico, un posto nella mega struttura commissariale di Domenico Arcuri, che ne ha fatto il suo braccio destro. Ma sono tanti gli esperti del Partito Democratico che sono confluiti nelle squadre di gestione dell'emergenza. Per esempio Nerina Dirindin, ex senatrice e ora esperta di politica sanitaria, anche se a titolo gratuito. Se i virologi latitano, spuntano i professionisti della politica come Armando Francesco Cirillo, che da essere uno dei giovani rampanti del Pd con vari incarichi di collaborazione è passato a essere consulente del ministro "per l'analisi dei dati e le attività di supporto a iniziative" per 36mila euro. Carlo Roccio consiglia Speranza sui temi biotecnologici: è tornato al suo lavoro dopo essersi candidato nel 2014 alle europee. Sempre a 36mila euro lordi annui, c'è anche Alfredo D'Attorre, che ricopre il ruolo di consigliere etico. E cosa voglia dire, non lo sa nessuno.

Roberto Speranza, l'affondo di Pietro Senaldi: "Non è nemmeno un infermiere. Perché abbiamo un dilettante alla Sanità?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. L'Italia è travolta da due crisi, quella sanitaria, dovuta al Covid, e quella economica, che ne è la diretta conseguenza, visto che è generata dalle chiusure e dal rallentamento della vita sociale decisi per frenare l'epidemia. La prima ha fatto oltre centomila morti e, a oltre un anno dalla sua esplosione, siamo ripiombati per la quarta volta davanti al tunnel di nuove serrate selvagge. La seconda ha prodotto una contrazione del prodotto interno lordo nel 2020 del 9,5%, ha aumentato di due punti la percentuale di poveri assoluti e, malgrado il blocco dei licenziamenti, ha bruciato quasi 700mila posti di lavoro e fatto perdere ai dipendenti messi forzatamente in cassa integrazione 8,7 miliardi. Il collasso sanitario ed economico, oltre al disastro nell'approvvigionamento e nella somministrazione dei vaccini, sono la ragione principale, se non l'unica, della caduta del governo Conte, una poco simpatica combriccola di improvvisati.

Persone di fiducia. Per rimediare ai danni dei giallorossi sono stati chiamati in servizio i cosiddetti tecnici. La loro massima espressione è Mario Draghi, imposto da Mattarella come premier ai partiti inconcludenti e litigiosi. Draghi è un banchiere, nonché l'unico italiano che in Europa comanda anziché prendere ordini. Il suo compito istituzionale è condurci fuori dalla pandemia a colpi di vaccino e scrivere un programma economico che direzioni gli aiuti europei verso investimenti produttivi e non in sussidi senza ritorno, come sarebbe stato lasciando al suo posto il nuovo capo dei grillini, l'avvocato di Volturara Appula. Sul fronte economico SuperMario ha preso subito due decisioni drastiche. La prima è stata scegliere personalmente tutti i ministri economici, scegliendo al di fuori della politica, con l'eccezione del leghista Giancarlo Giorgetti, piazzato allo Sviluppo Economico, dove non può far peggio dei predecessori, Di Maio e Patuanelli. Fedelissimo del premier è il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che lavorò con lui in Bankitalia e ha avuto carta bianca nel scegliere i propri collaboratori. Ad aiutarlo a redigere il piano sul Recovery Fund è stata ingaggiata McKinsey, società internazionale di consulenza di primissimo livello. Collaboreranno anche Ernest&Young, Accenture, Pwc e altri trecento tecnici, assunti allo scopo dopo che il nuovo governo ha decretato che tra i tre milioni e mezzo di dipendenti della Pubblica Amministrazione non ci sono professionalità all'altezza. Ben vengano gli economisti, se ci servono. E ben venga anche l'esercito in sostituzione del commissario alla pandemia, Domenico Arcuri, degradato sul campo in favore del generale degli Alpini, Francesco Paolo Figliuolo, reclutato per la profilassi in quanto numero uno nazionale in materia di logistica. Sempre in nome della competenza è stato richiamato alla Protezione Civile Fabrizio Curcio, in sostituzione di Angelo Borrelli, il precedente pacioso responsabile, a suo tempo accusato da certa stampa di essere un no-mask. Giusto così, la partita dei vaccini è vitale e Draghi ha strutturato una squadra di primo livello. L'unica cosa che non torna, in questo tripudio di competenti, è la conferma al dicastero della Salute di Roberto Speranza, il ministro ossimoro, dal nome beneaugurante ma che, al solo sentirlo, semina terrore e lutti. L'uomo è un politico di seconda fila. Quando si candidò alle Primarie del Pd arrivò terzo, malgrado la segreteria dei dem sia una seggiola in svendita, che produce in chi vi si accomoda immediate allergie e desiderio incontrollabile di levarsi di torno. Il comunista lucano, ritenendo gli ex comunisti troppo poco a sinistra, ha fondato Liberi e Uguali, grazie alla mano sulla testa che da sempre gli pone Pierluigi Bersani, talent scout di provincia al quale dobbiamo anche Alessandra Moretti e il fu Tommaso Giuntella. Alle ultime Politiche, nella sua Basilicata, ha preso meno di quattromila preferenze, fedele al detto che nessuno è profeta in patria. Pochissime, sufficienti però, per gli incomprensibili giochi della politica, per insediarlo al ministero, dal quale decide delle nostre vite da oltre un anno.

Fuori dal tempo. Speranza è laureato in Scienze Politiche, se così si può dire, e nella sua vita ha fatto un solo lavoro, il politico, sempre se così si può dire. Non è neppure infermiere ma comanda sui medici, che di virus hanno letto qualche centinaio di libri più di lui e sui governatori delle Regioni, che hanno preso centinaia di migliaia di voti più di lui. Comanda pure sul suo vice, Pierpaolo Sileri, che siccome è medico chirurgo con tanto di master negli Stati Uniti e ne sa più di lui, non viene neppure convocato dal ministro alle riunioni che contano. Nell'era dei competenti, il bersaniano è un uomo fuori dal tempo. Nel nostro Paese i geni della medicina sono perfino più numerosi di quelli dell'economia. Abbiamo una sfilata di scienziati di livello internazionale ma nessuno li chiama in servizio. Se per l'emergenza economica abbiamo avuto l'intelligenza di rivolgerci a esperti in numeri, per quella sanitaria ci difetta l'acume di convocare al governo i medici. Si preferisce relegare chi capisce di Covid nei salotti tv e lasciare a menare il torrone gli esperti in chiacchiere. Intorno al deprimente Speranza, portatore di lutti nel fisico e nel messaggio, si stringe infatti il Comitato Tecnico Scientifico, una congregazione di medici il cui h-index, la misura con cui si pesa il valore di un dottore, è degno di un ospedale metropolitano e non di una struttura chiamata a governare la salute nazionale. Il valore medio dell'indice infatti si attesta a 31,5, ma solo perché la capa, Elisabetta Dejana, ha una quotazione personale di 109 e quello di Franco Locatelli è a 101. Al netto di questa coppia, l'indice scientifico del membro del Cts medio si fermerebbe a 25. Un nulla se si pensa ai 171 punti del professor Alberto Mantovani o ai 164 di Giuseppe Remuzzi, geni ignorati da Speranza. Curiamo il Covid con i politici e mandiamo in tv i medici, ecco il modello Italia contro la pandemia, e poi ci stupiamo se all'estero non ci copiano.

Fdi contro Roberto Speranza: "Menzogne sul piano pandemico. Subito le dimissioni". Libero Quotidiano il 22 febbraio 2021. Chiedono la testa del ministro della Salute Roberto Speranza. "Ha mentito sul piano pandemico: si deve dimettere", hanno affermato nel corso di una conferenza stampa, il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida, insieme con i deputati che hanno fatto ricorso al Tar sul Piano pandemico, Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato. "Abbiamo chiesto un'informativa immediata del ministro Speranza sulla situazione generale. Domenica scorsa ha dichiarato che non potevano essere riaperti gli impianti sciistici perché c'erano le varianti, che non sono stati in grado di tracciare", attacca Lollobrigida. "Non è vero che il piano pandemico era solo un piano influenzale e che non sarebbe servito a nulla: se si fosse aggiornato si sarebbe potuto ottemperare alle principali raccomandazioni dell'Oms", ha continuato il responsabile sanità di Fdi Gemmato. Che ha ulteriormente specificato: "Nel piano del 2006 si diceva anche come realizzare un piano vaccinale : se oggi non ne abbiamo uno è conseguenza diretta del fatto che abbiamo ignorato il piano pandemico". Lo ribadisce anche Bignami: "Noi di Fdi abbiamo chiesto per mesi il Piano sul quale è scritto nero su bianco che il ministro Speranza ha mentito. Nel marzo 2020 l'Italia non era pronta ad affrontare la pandemia. Sarebbe bastato aggiornare il piano del 2006 per potere avere una risposta più efficace, che avrebbe potuto salvare vite e attività economiche". E non finisce qui, perché Fratelli d'Italia per presentare ricorso al Tar contro il governo doveva ottenere dei documenti che invece "ci erano stati negati. Abbiamo tentato attraverso il Parlamento, anche con la presentazione di un'apposita mozione, di avere i documenti del Cts, ma Partito democratico, Leu e Movimento 5 stelle hanno bocciato le nostre richieste e nemmeno alle interrogazioni che abbiamo depositato, è arrivata una risposta". Adesso, con il ricorso accettato dal Tar, "i cittadini possono conoscere le mancanze e le lacune che ci sono state sul piano pandemico, che dimostrano una cosa evidente: il ministro Speranza non ha detto la verità", ha concluso Lollobrigida. E "se questo è davvero il 'governo dei migliori' vogliamo ricordare al presidente Draghi che i 'migliori' non mentono. Il ministro della Salute ha la responsabilità di aver nascosto la verità ai cittadini, dovrebbe dimettersi".

Roberto Speranza, l'abominevole ministro delle nevi? Indiscrezione: perché Mario Draghi lo ha confermato. Renato Farina su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2021. Bisognerebbe chiamare Reinhold Messner per il riconoscimento ufficiale. Fu lui il più autorevole testimone visivo dell'apparizione sull'Himalaya dell'orrenda creatura. Allora, signor Messner ci dica: è lui o non è lui? Ma sì che è lui: Roberto Speranza è l'abominevole ministro delle nevi. Dopo di che la mia proposta sarebbe: sedarlo e impagliarlo. Detta così fa ridere. In sostanza è una tragedia. Economica, politica, morale. Questa creatura lucana è considerata - a parte Mara Carfagna, secondo le pagelle date da Concita De Gregorio - l'estrema sinistra del governo. Il compagno Roberto ha chiuso con una firmetta le Alpi e gli Appennini, usando le maniere spicce degli ukaz sovietici. Ha bloccato con uno svolazzo su un decreto autocratico la vita stessa delle zone montuose d'Italia inutilmente coperte di provvida neve, che era stata battuta con ardore dai "gatti" e poi con delicatezza lisciata dai maestri per essere percorsa da milioni di sciatori in astinenza da un anno. Com' erano soddisfatti, cominciavano a respirare i disgraziati fornitori di magnifici servizi. Gli ski-lift pronti a misura di Covid, le code per salirci dinoccolatissime e a prova di ressa. Insomma, poca sciolina e molta amuchina. E invece è apparso con cipiglio spaventevole l'abominevole, in perfetta rima da yeti. L'antecedente storico di questa mossa dittatoriale è la lotta di Stalin contro i kulaki (i contadini proprietari di un paio di mucche) dell'Ucraina negli anni 30. Resistevano la collettivizzazione. Li fece morire letteralmente di fame. Nessuna intenzione di stabilire un'equivalenza, e ci mancherebbe. Ma l'idea di prepotenza è la medesima. Se posso praticare un potere assoluto, lo afferro con due mani e lo esercito. Per il bene della causa, che coincide con la volontà di chi comanda. E al diavolo il popolo bue. Secondo quanto spiegò a suo tempo in un dotto articolo il giurista Sabino Cassese il governo Conte ha brandito gli strumenti tipici dello stato di guerra, senza nessuna dichiarazione di guerra. Con la compressione anticostituzionale delle libertà individuali e l'esautorazione di qualsivoglia simulacro di democrazia. Draghi non pare muoversi alla stessa maniera. Senza permesso, Speranza invece sì. Ed è così che - sentito il Comitato tecnico scientifico - per la terza volta ha fatto finta di scandire il conto alla rovescia per il via al turismo della neve, e poi stop. La prima volta è stato il 2 gennaio. Gli impianti e il relativo comparto alberghiero era stato stabilito aprissero il 7 gennaio. Cinque giorni prima ha fatto sapere che non era il caso. E la data fatidica è stata spostata al 18 gennaio «su consiglio delle Regioni per prepararsi meglio». Si prepararono eccome. Si è protratto il fermo fino al 15 febbraio. E siamo già nel mondo di Draghi. Uguale a quello di Conte, a quanto pare. A 12 ore dall'annunciato semaforo verde, con le località già colme di sciatori, e le funivie e seggiovie tirate a lucido e sanificate, contrordine, italiani: da domani non si scia. Si riapre forse il 5 marzo. Ah sì? Stagione finita. Speranza dice: «Prima la salute, manderemo subito i ristori». A parte che non ci crediamo. Resta lo spreco di risorse, di speranze, di voglia di ripartire. È chiaro che la salute è importantissima. La salute però è anche evitare di uccidere l'animo di intere comunità trattate come schiave agli ordini di ghiribizzi parascientifici. Non è esasperando irrazionalmente il principio di precauzione che si salva la vita alla gente. Possibile che gli algoritmi di cui sono armati gli epidemiologi funzionino solo all'ultimo istante e valgano solo in montagna? Non è stato spiegato da Speranza e dagli scienziati perché mai il Covid in versione londinese debba avere come terreno di caccia esclusivo le piste da sci, da bob e da slittino, ed invece trascuri le piste ciclabili e quelle per i monopattini; non salga sui treni o sulle metropolitane dove c'è più gente in un vagone che in tutta Madesimo o Cortina, ma in compenso gremisca le ovovie. I casi personali sono sempre i più istruttivi per cogliere le assurdità. Stazione centrale di Milano e Termini in Roma, per fortuna!, Speranza non le ha serrate. I punti dove ci si tocca, ci si respira addosso, sono proprio i check point anti-Covid delle stazioni. Le quali di primissima mattina sono semi vuote. In compenso ci sono assembramenti causati dalle misure di sicurezza. Infatti invece di andare direttamente ai binari bisogna incolonnarsi per compilare e consegnare le autocertificazioni. Tavolini dove ci si ammassa. I migranti che non parlano italiano si fanno aiutare a scrivere i questionari. La paura di perdere il treno per i controlli provoca il pigia pigia. Dateci uno ski-lift per andare ai treni che si rischia di meno. Però Speranza figura tra i moderati, altrimenti Mattarella non avrebbe scelto lui, per il quale d'altra parte ha un debole, spiegabile con la straordinaria gentilezza che ha ammaliato persino Avvenire. Il quotidiano dei vescovi gli ha perdonato l'autorizzazione che come ministro della Salute ha dato all'aborto farmacologico a domicilio, incurante dei rischi non diciamo del bambino, che tanto non conta niente, ma anche della donna che vuole interrompere la gravidanza. Prima la salute? Ma va', prima l'ideologia. Di fatto, Draghi lo ha confermato in una carica che dà a Speranza nell'emergenza pandemica più poteri del presidente del Consiglio. Affannato com' è a compilare un Recovery Plan decente, dopo che Conte gli aveva lasciato una bozza straziante per ignoranza, Draghi non si è ancora sintonizzato sulla lunghezza d'onda dei bisogni e dei sentimenti quotidiani della gente che non sa neppure che la Bce sta a Francoforte. In questo momento importa di più, signor Premier, fermare la follia dei megalomani che schioccano le dita e chiudono le montagne, che rifinire i discorsi per oggi al Senato e domani alla Camera. Le tre parole che salvarono l'euro «whatever it takes» (faremo tutto il necessario), per cui Draghi è meritatamente famoso e onorato nel mondo, qui in Italia vanno tradotte in vaccini, in decisioni sagge che tengano conto di tutti i fattori in gioco: salute, economia, libertà, voglia di rinascere. Altrimenti è un guaio. Rimandi nell'amata Siberia il commissario politico della Lucania. Prima che chiuda anche il mare.

Chi è Roberto Speranza, ministro della Salute del governo Draghi. Il Corriere della Sera il 13/2/2021. Roberto Speranza, nato a Potenza 42 anni fa, conferma i pronostici e resta ministro della Salute. Il giorno in cui il virus prese di mira l’Italia, giusto un anno fa, promise che lo avrebbe combattuto «come fosse il colera o la peste» e così ha fatto, fedele al motto «il Covid è per la mia generazione quel che fu la Seconda Guerra Mondiale per i miei nonni». Capofila dei rigoristi nella maggioranza giallorossa, non si stanca di lanciare appelli alla prudenza, convinto com’è che l’Italia dovrebbe tenere tutto chiuso o quasi fino a emergenza finita. Speranza ha fatto l’Erasmus a Copenhagen, si è laureato con 110 e lode in Scienze politiche alla Luiss e ha cominciato la carriera politica da consigliere comunale a Potenza, sotto la guida di Alfredo Reichlin: «È stato il mio maestro». Nel 2007 è presidente nazionale della Sinistra giovanile, poi assessore sempre nella sua città. Nel 2013 il grande salto, quando diventa deputato e quindi capogruppo del Pd alla Camera. Incarico prestigioso, che lascia due anni dopo in dissenso con il segretario Matteo Renzi sulla legge elettorale. Il resto è storia recente: la scissione nel 2017 al seguito di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema e la nascita di Articolo Uno, di cui Speranza è il primo segretario nazionale. Marito di Rosangela e padre di Michele Simon ed Emma Iris, che hanno 10 e 7 anni, è ministro della Salute dal 5 settembre 2019.

Erika Stefani alle Politiche della disabilità, dopo una breve esperienza nel primo governo Conte. La Repubblica il 12 febbraio 2021. Era già stata ministra agli Affari regionali. Avvocata, 49 anni, veneta, è alla seconda legislatura, lega. Era già entrata nel governo Conte 1, l'avvocata Erika Stefani, senatrice della Lega. Veneta di Valdagno, in provincia di Vicenza, 49 anni, è la nuova ministra per le Politiche della disabilità. Nel primo governo Conte era stata invece agli Affari regionali e alle Autonomie. Ha studiato giurisprudenza a Padova. Il debutto in politica con le amministrative del 1999 come consigliera del comune di Trissino, in una lista civica, Insieme per Trissino. Quindi, l'adesione alla Lega Nord, e l'elezione alle amministrative del 2009 con la lista Progetto Trissino-Lega Nord, dove ricopre le cariche di vicesindaco e assessore all'urbanistica ed edilizia privata. La "svolta" politica vera e propria c'è stata 'solo' nel 2013, quando alle politiche è stata eletta senatrice con la coalizione di centrodestra. È stata rieletta al Senato in occasione delle elezioni politiche del 2018 nel collegio uninominale di Vicenza. Ora torna in campo con Draghi in un ministero che la Lega aveva più volte invocato.

Chi è Erika Stefani, ministro alle disabilità del Governo Draghi. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Tra le novità del nuovo Governo Draghi balza all’occhio un nuovo ministero: la leghista Erika Stefani è la nuova ministra alle politiche per la disabilità. Una svolta su un tema delicatissimo e molto spesso accantonato dai precedenti governi. Erika Stefani è già stata ministra per gli Affari regionali e le autonomie nel governo gialloverde M5s-Lega, cambia ministero: con Draghi si occuperà di Disabilità. Da sempre leghista, è nata a Valdagno, Vicenza, il 18 luglio 1971. Avvocatessa, entra in politica alle amministrative del 1999 come consigliere del comune di Trissino. Nel 2009 viene eletta consigliere comunale nel comune di Trissino, di cui diventa vicesindaco Assessore all’Urbanistica ed edilizia privata del Comune di Trissino (VI). Eletta al parlamento Italiano come senatrice della Repubblica nel 2013. Vicepresidente del gruppo LN-Aut dal 15 luglio 2014 Membro della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, Membro della 2ª Commissione permanente (Giustizia), Membro della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, membro del Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa, membro della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza membro della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. È stata rieletta al Senato in occasione delle elezioni politiche del 2018 nel collegio uninominale di Vicenza.

Mara Carfagna nuova ministra per il Sud: dalla folgorazione per Berlusconi al governo da antisovranista. Carmelo Lopapa su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Gli esordi in tv, la laurea in Legge, la partecipazione a Miss Italia nel 1997. Poi l'ingresso in Parlamento. Dieci anni fa aveva guidato il dicastero alle Pari opportunità. Era con un piede fuori da Forza Italia. È entrata con tutto il suo peso politico anti sovranista nel governo di Mario Draghi. Per Mara Carfagna il coronamento di una carriera costruita in costante crescendo, passo dopo passo. Da oggi la deputata salernitana, alla Camera dal 2006, 45 anni, sarà la ministra per il Sud e la Coesione sociale. Il dicastero centralissimo guidato fino a ieri da Giuseppe Provenzano. Donna (tra le poche di questo governo) e meridionale (altrettanto poche). Madre da dicembre scorso di Vittoria, avuta col compagno Alessandro Rubens, ex deputato finiano. Gli esordi in tv, la laurea in Legge, la partecipazione a Miss Italia nel 1997 in cui vince il titolo di Miss Cinema. La folgorazione politica berlusconiana e il coordinamento femminile in Campania nel 2004, poi nel 2007 Azzurro Donne, fino all'ingresso in Parlamento un anno dopo. Ministro Carfagna lo era stata dieci anni fa, alle Pari opportunità, sotto l'ultimo governo Berlusconi, dal 2008 al 2011. In questa legislatura ha ricoperto la carica di vicepresidente della Camera. Ha un suo pacchetto di voti in Campania e una ramificazione ormai in altre regioni, da quando guida la corrente Voce Libera. Da un anno in asse politico con Giovanni Toti e il suo partito Cambiamo. I due lavorano e non da ora alla costruzione di un nuovo soggetto politico di centro, in procinto di decollare qualora Forza Italia avesse virato definitivamente verso il sovranismo salviniano. Adesso no, contrordine, cambia tutto. Berlusconi e tutta Forza Italia in maggioranza, l'ala antisovranista premiato con tre ministeri. Con Draghi si apre una nuova pagina per il partito. E anche, decisamente, per Mara Carfagna e la sua componente.

Federico D'Incà di nuovo ai Rapporti con il Parlamento.  La Repubblica il 12 febbraio 2021. Per l'esponente M5S riconfermato l'incarico già ottenuto nel Conte 2. Veneto doc, 45 anni, Federico D'Incà appartiene alla 'vecchia guardia' del Movimento 5 Stelle e riconferma nel governo Draghi  la casella di ministro per i rapporti con il Parlamento ottenuta nel Conte 2, ereditata dal suo collega Riccardo Fraccaro. Laureato in economia e commercio, nella sua vita da 'civile' è stato analista di sistemi di gestione informatici in una società privata e prima ancora è stato impiegato come caposettore in una multinazionale della grande distribuzione. Carattere mite, ma molto deciso nel portare avanti le sue idee, rieletto nel 2018 nelle file del Cinquestelle, D'Incà viene nominato questore della Camera dei deputati, al posto di Riccardo Fraccaro, passato nella squadra del governo gialloverde. A Montecitorio fa parte anche della commissione Bilancio. Inoltre, è promotore e fondatore di comitati per il rispetto della salute pubblica, attivista di progetti umanitari in Africa, collaboratore dal 2003 nella realizzazione di una palestra per la Pet Therapy a Mel di aiuto al miglioramento delle funzioni psico-motorie delle persone diversamente abili. Si definisce lettore appassionato di politica economica e di filosofia, interessato al mercato finanziario e all'economia reale. Nella vita di tutti i giorni è sposato con Laura e cura il suo orto, oltre ad essere appassionato di recupero dell'antiquariato rurale. Nel suo personale Pantheon c'è sicuramente Adriano Olivetti.

Enrico Giovannini, ai Trasporti, l'economista che usa i dati per promuovere lo sviluppo sostenibile. Rosaria Amato su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Presidente dell'Istat, ministro del Lavoro, direttore delle statistiche dell'Istat, portavoce dell'ASviS: la lunga carriera del nuovo ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha come filo conduttore l'attenzione a un'economia inclusiva e amica dell'ambiente, e vicina alle istanze dei giovani. Dal Pil del benessere allo sviluppo sostenibile: da studioso, ministro e professore Enrico Giovannini si è sempre fatto portavoce di un'economia al servizio della riduzione delle disuguaglianze e di un rapporto maggiormente equlibrato tra le comunità, le istituzioni e l'ambiente, con una particolare attenzione ai giovani. Da ministro del Lavoro del governo Letta infatti, dall'aprile del 2013 al febbraio del 2014, ha disegnato il progetto Garanzia Giovani, il programma per l'inserimento nel lavoro degli under 29 rimasti ai margini, varato poi dal successivo governo. E anche in questi giorni, da portavoce dell'ASviS, l'Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile, Giovannini si è messo all'ascolto delle istanze delle organizzazioni giovanili, in particolare in vista dell'utilizzo del Next Generation Ue. Laureato in Economia e Commercio all'Università La Sapienza di Roma, Giovannini, 63 anni, ha cominciato subito a lavorare all'Istat, dove poi è ritornato prima come direttore delle Statistiche Economiche dal 1997 al 2000 e poi come presidente dal 2009 al 2013. In mezzo, moltissime esperienze internazionali, a cominciare da quella di responsabile statistico per l'Ocse, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che ha sede a Parigi, dove ha avviato il Progetto Globale sulla “Misura del Progresso delle Società”, dal quale è nato il movimento mondiale per andare “oltre il PIL”, oltre cioè una misurazione del benessere che sia meramente di tipo economico, e che si limiti a misurare la ricchezza della società, e non il suo effettivo benessere. Movimento che poi in Italia ha avuto un concreto sviluppo nella creazione ed elaborazione da parte dell'Istat del BES, l'indice del Benessere Equo e Sostenibile, diventato anche un parametro al quale ancorare la valutazione degli effetti della Legge di Bilancio. Giovannini è anche stato coordinatore di uno dei tre gruppi della “Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi” istituita dal presidente francese Sarkozy per individuare le “Nuove misure delle performance economiche e del progresso sociale”. Attualmente è professore ordinario di Statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata e Senior Fellow della LUISS School of European Political Economy, E' tra i fondatori dell'Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile, che riunisce oltre 270 organizzazioni e istituzioni di ogni tipo, dalle aziende ai sindacati ai movimenti. In quanto portavoce ASviS, Giovannini è un attento analista degli effetti delle politiche del Parlamento e del governo sullo sviluppo sostenibile e sul Green New Deal, adesso anche al centro delle politiche europee. Il Rapporto ASviS monitora costantememente gli effetti delle politiche in relazione all'Agenda 2030 dell'Onu: l'obiettivo di fondo rimane sempre quello di un'economia al servizio di uno sviluppo inclusivo, equilbrato e che che valorizzi l'ambiente. A Giovannini, in quanto presidente della Commissione per la redazione della Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si deve anche il rapporto sul lavoro nero che è ancora un punto di riferimento fondamentale per le politiche che riguardano il settore, e un costante aggiornamento dello stato dell'evasione fiscale in Italia.

Elena Bonetti, la ministra dello strappo renziano al Conte 2 torna alle Pari opportunità. La Repubblica il 12 febbraio 2021. È professoressa associata di Analisi matematica dell'Università di Milano. Confessa di avere una passione educativa verso i giovani, che trova le radici nel suo percorso scout. Elena Bonetti, che aveva lasciato il Conte bis con lo strappo di Italia Viva e Matteo Renzi, torna al ministero per le Pari Opportunità e la Famiglia. È professoressa associata di Analisi matematica dell'Università di Milano. Ha studiato Matematica all'Università di Pavia e ha conseguito il dottorato di ricerca a Milano nel 2002. Renziana della prima ora, è nell'organizzazione della scuola di politica dell'ex segretario del Pd al resort 'Il Ciocco' di Barga, in provincia di Lucca. Di sé stessa scrive: "Nella ricerca ho imparato che si cresce se si gioca in squadra". Collabora con ricercatori di diverse università italiane e del CNR, lavorando spesso anche all'estero. Confessa di avere una vera "passione" nell'accompagnare i giovani ad essere buoni cittadini, capaci di contribuire a scrivere una storia bella e generativa per la comunità. Una "missione" educativa che trova le radici nel suo percorso scout: "Su questa strada ho imparato la bellezza del camminare insieme, la felicità e la pienezza che nascono dal servizio, il coraggio di dire sì, la chiamata a lasciare il mondo migliore di come l'abbiamo trovato".

Andrea Orlando al Lavoro, tra Conrad, Sanremo e Fgci. Giovanna Vitale su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Nato a La Spezia da padre campano e madre toscana, studi di Giurisprudenza a Pisa senza però conseguire la laurea (ha prevalso la passione per la politica), Andrea Orlando è il classico figlio dell'apparato post-comunista: 52 anni appena compiuti, ha scalato tutti i gradini del partito fino a diventare vicesegretario del Pd. Torna al governo dopo aver rifiutato l'ingresso nel Conte due, allora convinto che occorresse rafforzare il motore dem per dare propulsione a un esecutivo nato un po' per caso. Cresciuto alla scuola di Napolitano e Violante, è stato ministro dell'Ambiente con Letta premier e poi Guardasigilli sia con Renzi (nonostante lo avesse sfidato alle primarie) sia con Gentiloni. Tifoso della fiorentina, si iscrive alla Fgci a tredici anni, a 18 al Pci. A 12 anni leggeva "Metello" di Pratolini. Il suo primo giornale è l'Unità, una passione per i corsivi di Fortebraccio. Lo scrittore preferito è Conrad, "La Linea d'ombra" il libro che corrisponde di più a questo eterno ragazzo che, si dice, piaccia molto alle donne, e viceversa. Nessun matrimonio, troppo impegnato a fare politica. A vent'anni è segretario provinciale della Fgci, ma viene subito "ammonito", quasi espulso, dal segretario nazionale Gianni Cuperlo. L'accusa era di aver diviso l'organizzazione: aveva promosso un'iniziativa con i giovani del Psi. I compagni erano con lui ("Avevano votato a mio favore") ma i vertici contro. Dovette lasciare la carica, in compenso viene eletto in consiglio comunale per il Pci, poi per il Pds e via così: diventa capogruppo, quindi segretario cittadino, infine assessore. Finché nel 2003 non chiama il partito nazionale e inizia la scalata: responsabile degli enti locali, dell'organizzazione, presidente del Forum giustizia, portavoce di Veltroni segretario e poi pure di Franceschini, dal 2019 vice di Zingaretti. Alla sua quarta legislatura, vanta una cultura enciclopedica su Sanremo. Iva Zanicchi, di cui Orlando si è professato fan, ha risposto: "Io sono pazza di Andrea".  Il padre Enzo, nel 2012, per distribuire i suoi volantini ebbe un incidente stradale, si fratturò qualche vertebra e lui alla fine gli dedicò pubblicamente la vittoria elettorale. Insieme a mamma Marta, entrambi insegnanti, non avrebbe voluto che facesse il politico di professione. "C'è stato quasi un conflitto, credo che si sia risolto solo quando sono stato indicato ministro". Oggi è la terza volta. E a casa Orlando si brinda.

Da liberoquotidiano.it il 18 febbraio 2021. Ve ne avevamo già dato conto qualche tempo fa, di un piccolo fatto che risale allo scorso 12 gennaio. Insomma, tempi recenti. Molto recenti. Erano i giorni in cui si respirava la crisi di governo che avrebbe aperto Matteo Renzi (protagonista pochi giorni prima di quel 12 gennaio di un infuocato intervento al Senato contro Giuseppe Conte), crisi di governo che avrebbe condotto alla cacciata del presunto avvocato del popolo e all'esecutivo di Mario Draghi, arrivato oggi a chiedere la fiducia alla Camera. Bisogna tornare allo scorso 12 gennaio, nello studio di Lilli Gruber a Otto e Mezzo su La7, dove come ospite d'onore c'era Andrea Orlando, vicesegretario del Pd. E parlando della crisi di governo, interpellato sulla possibilità di ritrovarsi in un esecutivo con Matteo Salvini, l'esponente dem rispondeva tranchant: "È un problema di antefatti. Dovremo gestire fondi europei con una destra che è antieuropea e una pandemia con una destra che è semi-negazionista. Non vedo le condizioni, aumenterebbe solo la confusione". E ancora, come se non fosse chiaro il suo pensiero, Andrea Orlando aggiungeva che non avrebbe appoggiato un governo di unità nazionale con Salvini "anche se è guidato da Superman". Ma, evidentemente, Superman è arrivato. Bene, torniamo a parlare di questa curiosa vicenda perché oggi, mercoledì 17 febbraio, come detto si vota la fiducia a Draghi. A un governo che terrà insieme Pd e proprio Salvini. Una fiducia che, come tutto il suo partito, Andrea Orlando voterà, eccome. E torniamo a parlare di questa vicenda perché l'ineffabile Antonio Maria Rinaldi, europarlamentare della Lega, ha scelto proprio oggi per riproporre su Twitter il video dell'Orlando che chiudeva a Salvini senza se e senza ma. A corredo della breve clip, il commento, laconico: "Neanche se arrivasse Superman". Come se la ride, Rinaldi...

Fabiana Dadone, dalla P.A. alla delega sui giovani. Marichiara Giacosa su La Repubblica il 12 febbraio 2021. In Parlamento dal 2013 con il M5S, classe 1984, è originaria della Provincia di Cuneo. Si occuperà di politiche giovanili. Festeggia la conferma a ministro, seppur con un cambio di delega, nel giorno del suo 37esimo compleanno. Classe 1984, Fabiana Dadone ha due figli, di cui il più piccolo nato lo scorso giugno, mentre la giovane originaria della provincia di Cuneo, guidava il dicastero della Pubblica amministrazione, in quota la Movimento 5 Stelle. A lei andò in quella circostanza l'elogio del premier Conte per la partecipazione, in streaming, dalla camera d'ospedale, a una riunione del governo sul decreto semplificazione. Oggi la nomina come responsabile delle politiche giovanili. Il suo primo “vaffa” risale al 2012, quando con un ricorso ha costretto l'amministrazione di Mondovì, meno di 23mila abitanti nella Provincia Granda, a cambiare la squadra della giunta comunale, e aggiungere una donna per il rispetto delle quote rosa. Un atto simbolico che il Movimento 5 Stelle in ha rivendicato a lungo come esempio di una batosta per il sistema e per la vecchia politica. Nel 2013, inizia il suo primo mandato in parlamento con il partito di Beppe Grillo per poi entrare nel governo Conte bis, a settembre del 2019, al posto della leghista Giulia Bongiorno, dopo il ribaltone del Papeete. È stata lei a occuparsi nel corso dell'emergenza Covid del passaggio obbligato dei dipendenti pubblici allo smart working, promuovendo il lavoro agile che, per iniziativa della ministra dovrà ora essere regolato da un piano che ogni amministrazione pubblica dovrà adottare a cadenza annuale. Avvocato, è molto vicina al presidente della Camera, Roberto Fico, nella scorsa legislatura si era impegnata nel volontariato e sui diritti civili, prima di diventare capogruppo dei pentastellati in commissione affari costituzionali della Camera dove è stata relatrice del disegno di legge sul referendum propositivo, uno dei cavalli di battaglia dei Cinquestelle. All'interno della piattaforma Rousseau è stata referente della funzione “scudo della rete”, che offre tutela e difesa legale agli iscritti e agli eletti del Movimento in caso di «cause intentate contro di loro, spesso a scopo intimidatorio». Il capo politico Luigi Di Maio l'aveva anche scelta per fare parte del collegio dei probiviri. «Non siamo chiamati semplicemente a decidere Draghi sì no. Siamo chiamati a scegliere se presidiare o meno riforme e miliardi che avranno ricadute generazionali. Chi governa, chi ambisce a governare, chi fa politica per migliorare le cose giorno per giorno non ha scelta» scriveva ieri sulla sua pagina Facebook a proposito del voto sulla piattaforma Rousseau, prima di festeggiare, in serata la vittoria del sì e le nascita del governo.

Dagospia il 14 aprile 2021. Da "Un Giorno da Pecora". La ministra Dadone e la passione per la musica metal. Ospite di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, oggi la titolare del ministero per le Politiche Giovanili, tra i molti temi toccati, ha parlato anche delle sue preferenze musicali, tutte rivolte verso il rock più duro. “Sono appassionata di musica metal, sono una 'metallara', ho anche il 'chiodo' di pelle”, ha spiegato Dadone a Un Giorno da Pecora. Oltre alla giacca di pelle si veste anche da rocker? “Diciamo che mi sono vestita con delle t-shirt particolari o coi pantaloni un po' larghi e le catenine fino ai 25 anni. Ora continuo a coltivare la mia passione per la musica ma l'abbigliamento, com'è ovvio, è diverso”. Tra i suoi gruppi preferiti ci sono gli svedesi In Flames, che sono davvero estremi. “Io ci sento della melodia di fondo, una melodia che solo le band svedesi hanno. Sembra strano ma questa musica mi dà una sensazione di quiete”. Le piacciono anche band italiane? “Qualcosina si: ad esempio i Lacuna Coil oppure un gruppo più vecchio come i Linea 77”. E ama anche qualche cantautore? “I classici come Battisti si, molto”. Lei è molto attiva e seguita sui social. C'è qualcuno che l'ha corteggiata su questi media? “Mi è arrivato qualche messaggio dopo la pubblicazione di una mia foto coi piedi sulla scrivania, c'è qualcuno che evidentemente ha una grande passione per i piedi femminili”. E con questi follower come si comporta? “Li blocco, ma sono decisamente pochi”. Ha ricevuto anche qualche proposta di matrimonio? “Quando ho svelato di essere un amante della musica metal sì, molte, una trentina direi”. Cosa le avevano scritto? “Sei la donna della mia vita, vuoi sposarmi?” Le critiche ricevute da alcuni del centrodestra per la mia delega alle politiche antidroghe? “Sono delusa dalle bieche argomentazioni rivolte nei miei confronti, l'immagine che ne è uscita è che io sostanzialmente sarei una persona che fa uso di sostanze, cosa che ovviamente non corrisponde a verità. Io invito i colleghi, soprattutto quelli che hanno fatto polemiche, a farci tutti insieme un test antidroga. In un'ottica costruttiva, così, daremo un bel messaggio: siamo tutti coesi nella lotta alla droga”.

Viola Giannoli per repubblica.it l'8 marzo 2021. Maglietta dei Nirvana, jeans e scarpe rosse con tacchi sulla scrivania. Non una scrivania qualunque, ma quella del ministero per le Politiche giovanili. Così si è fatta ritrarre, cellulare in mano, ma tricolore e bandiera europea alle spalle, la ministra cinque stelle Fabiana Dadone, cuneese, ex responsabile della Pubblica amministrazione nel Conte bis e ora di nuovo al governo. Una delle (sole) 8 donne su 23 ministri nell'esecutivo di Mario Draghi. "Ho 37 anni e sono una "ragazzina" (per questo Paese) ma faccio il Ministro" scrive al maschile nel post su Facebook che si è guadagnato in un'ora appena più di 3500 like, 250 condivisioni e 500 commenti. Non tutti generosi, per via di quel dress code fuori contesto rispetto al luogo e al ruolo. Tanto che per rispondere alle critiche ("Dov'è il rispetto istituzionale?", "Ma è così che si lotta per le donne?") Dadone ha postato una combo di foto con George W. Bush e Barack Obama nella stessa posa (ma in giacca e cravatta) - pure se qualcuno le fa notare che allora vale pure l'immagine-simbolo dell'assalto a Capitol Hill col sostenitore di Donald Trump sulla scrivania di Nancy Pelosi -, e spiega: "La foto ovviamente è presa in un momento di pausa, non giro con quella felpa nelle riunioni al ministero. Quanto alle scarpe sono un simbolo nella testa delle ragazze, evidentemente non di chi commenta". E sotto la foto discussa racconta di sé: "Non sono sposata, ma scelgo ogni giorno di stare col mio compagno, ho due figli bellissimi che portano il mio cognome pur non essendo ragazza madre, amo la musica rock pesante ma non mi vesto in maniera "alternativa", guardo film strappalacrime ma sono emotivamente fredda come il ghiaccio. Sono un ammasso di stereotipi e nel corso della vita mi è stato fatto notare molte volte". Tutte quelle volte in cui le hanno chiesto: "Cara Fabiana, sei così giovane come puoi essere un Ministro?"; "La politica non si addice di più agli uomini?"; "Chi si occupa dei tuoi figli quando sei a Roma?"; "Non sei troppo bassa rispetto a come la TV ti fa apparire?"; "Non sei troppo graziosa per essere presa seriamente?"; "Non sei troppo trascurata nell'abbigliamento per ricoprire ruoli istituzionali?". Così, per l'8 marzo, ha deciso di apparire ancor meno ministeriale, decisamente informale, per parlare (spiegano dalla sua comunicazione senza portavoce) a coetanei, coetanee e ancora più giovani. Lei, tra i primi politici italiani, a sbarcare su Twitch, il social dei giovanissimi. Una foto rock, grunge, col gruppo musicale dei suoi anni Novanta per dire: "In questa giornata tanto evocativa e tanto attenta al politically correct, vorrei dire con molta onestà che sul fronte della parità di genere c'è ancora molta strada da fare. Una strada in salita e piena di ostacoli culturali che dobbiamo avere la forza di affrontare con tutta la tenacia che abbiamo nel cuore". E nelle scarpe, rosse, come quelle simbolo contro la violenza sulle donne.

Stefano Patuanelli all'Agricoltura, il grillino misurato votato al compromesso. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Già responsabile del ministero dello Sviluppo economico nel governo giallorosso, si distingue per i toni pacati e il fare rassicurante. Triestino, 46 anni e tre figli, una grande passione per il basket, ministro dello Sviluppo economico dello scorso governo. Nei corridoi della politica spesso Stefano Patuanelli viene descritto così: "È un 5 Stelle ma potrebbe pure essere del Pd". Un complimento o meno, dipende dai punti di vista, ma le sue caratteristiche parlano per lui: mai torni urlati, sempre misurato, istituzionale nei modi, pronto ad ascoltare e a raggiungere un compromesso. Quando c'era il governo giallo-verde era capogruppo al Senato, una navigazione complicata a Palazzo Madama e infatti quando Matteo Salvini fa cadere il governo con un mojito in mano lui si spende da subito per trovare una sponda con il centrosinistra. In quella fase di passaggio emerge anche perché ci crede sin dall'inizio, quando ancora non era quella la strada considerata futuribile per il Movimento. Diventa quindi ministro in una casella centrale, con mille crisi aperte, a partire dall'Ilva. La sua posizione è quella di un rinnovato protagonismo del pubblico in economia, ma sempre mediando con le parti sociali e imprenditoriali. Il suo fare rassicurante fa sì che si pensi a lui come futuro possibile capo del Movimento, ma alla fine restano voci e suggestioni. Nel M5s, proprio in virtù del suo carattere, è ben considerato un po' da tutte le componenti. Quando poi cade il governo di Giuseppe Conte e il Ter tramonta, all'inizio è contrario all'appoggio a Mario Draghi. L'incertezza però dura l'arco di un giorno. Alla fine vince la famosa responsabilità. Del resto è un 5 Stelle, "ma potrebbe pure essere del Pd".

Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo economico, l'eminenza grigia della Lega al governo. Andrea Montanari su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nell'esecutivo gialloverde, è il volto moderato del Carroccio per cui ha sempre tenuto le relazioni con il mondo bancario, finanziario e industriale. E anche quelle internazionali. Da quando Matteo Salvini è diventato segretario federale della Lega, Giancarlo Giorgetti non è solo il suo vice, ma la sua ombra. È la vera eminenza grigia di via Bellerio. Una sorta di Richelieu, che ha sempre tenuto le relazioni con il mondo bancario, finanziario e industriale. Anche le relazioni internazionali soprattutto con Washington. Giorgetti rappresenta il volto moderato della Lega, l'opposto di quello che  sbandierava Salvini  l'estate del 2019 al Papeete di Milano Marittima culminata con la crisi del governo Conte 1. Ecco perché in molti sono pronti  a scommettere che proprio in Giorgetti, oltre al governatore veneto Luca Zaia,  possano insidiare la leadership di Salvini. Ora che il Capitano sembra aver ammainato la bandiera del sovranismo pur di entrare a far parte del governo di Mario Draghi. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Conte 1 a maggioranza gialloverde, fu proprio Giorgetti che mise in guardia i ministri leghisti nel giugno 2018 quando disse: "Tenetevi una foto di Matteo Renzi sulla scrivania. Abbiamo un'opportunità, ma fate attenzione. Ricordatevi che quattro anni fa il segretario del Pd aveva il 40 per cento. E cosa è rimasto di quel 40 per cento pochi mesi dopo". Ora che anche la Lega a trazione Salvini è scesa dal 34,45  per  cento dei voti a sotto il 24 negli ultimi sondaggi, appare evidente che dietro al cambio di strategia della Lega ci sia la regia di Giorgetti. Lo stesso che aveva profetizzato la crisi del governo Conte 2 e l'avvento del "governo di tutti"  affermando: "Vedrete che finirà così. Non c'è avvenire se non si fa un governo che abbia in Parlamento la forza necessaria per caricarsi i problemi del Paese". Varesino di nascita, Giorgetti, 54 anni,  è vice segretario della Lega dal 1 giugno 2018. Laurea alla Bocconi di Milano in Economia Aziendale, è stato eletto in Parlamento per la prima volta nel 1996. Una carriera folgorante nella Lega allora guidata da Umberto Bossi, che celebrava la Padania alle sorgenti del Po sul Monviso con la cerimonia dell'ampolla da versare poi nel mare di Venezia. Da sindaco di Cazzago Brabbia ad ambasciatore della Lega nei salotti che contano. Banche, finanza. Nel 2001, Silvio Berlusconi lo nomina sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti. Fa parte del Consiglio di amministrazione di Credieuronord, ma esce assolto dall'inchiesta sul crac dell'istituto di credito. Storico segretario nazionale della Lega Lombardia, è stato il relatore della manovra economica del 2011. L'ultima prima della crisi dell'ultimo governo Berlusconi e l'arrivo del governo tecnico di Mario Monti. Da sempre esponente dell'ala liberale della Lega  si è sempre schierato a favore dell'alleanza tra Italia e Stati Uniti nel quadro della Nato, ma ha anche cercato un dialogo con la Germania di Angela Merkel. Anche quando Salvini dirigeva il suo sguardo verso altre amministrazioni. C'è la regia del "Richelieu" della Lega anche nell'arrivo di Letizia Moratti nella squadra del governatore della Lombardia Attilio Fontana. Il nome di Giorgetti era stato perfino invocato anche come possibile candidato sindaco del centrodestra a Milano.  Non è un mistero che il neoassessore lombardo allo Sviluppo Economico, Guido Guidesi, che ha chiesto al governo di riaprire i ristoranti fino alle 22, sia un "giorgettiano" doc. E che proprio dal mondo industriale ed economico del Nord sia partita la spinta che ha convinto Salvini a cambiare rotta.  Rinunciare ad andare al voto subito e appoggiare il governo Draghi.  

Giancarlo Giorgetti, il "capo" che incarna la mutazione della Lega di Matteo Salvini. Sostenitore di Draghi, è l'uomo che sposta l'asse del governo verso gli interessi del Nord. È l'unico politico tra i tecnici che toccheranno le risorse del recovery fund. Un ruolo chiave: come fosse il solo vicepremier di un esecutivo che non ne ha.  Susanna Turco su L'Espresso il 19 febbraio 2021. È un «certo tipo» d’uomo, per il quale un «certo tipo» di questioni è fondamentale, e un certo modo di starci altrettanto. Grigiore, silenzio, studio. Tutto di gran moda, nell’era Draghi che s’è appena aperta, a partire dalla passione per il calcio inglese del Southampton, che è la città portuale da cui salpò il Titanic, per dire dell’allegria media che ci aspetta. Ecco Giancarlo Giorgetti e la sua vita altrove, ma sempre dentro la Lega. Lateralità, piedi piantati nella finanza, atlantismo e spirito pratico: «Per quanto riguarda incontri con i russi, io ho notoriamente una posizione di un certo tipo, anche all’interno del mio movimento», chiarì ad esempio, in una lunga intervista alla Stampa Estera nel 2019, negando di saperne qualcosa, e quindi implicitamente prendendo le distanze da Salvini, dopo la scoperta (rivelata dall’Espresso) che l’emissario del capo leghista, Gianluca Savoini, aveva trattato a Mosca finanziamenti con gli uomini di Putin. Varesino, 54 anni, in Parlamento da quando ne aveva 30 (correva l’anno 1996), addetto «a fare ciò che a Salvini fa schifo: stare nei Palazzi e risolvere problemi» (sintesi significativamente offerta sempre alla stampa estera) Giorgetti si trova in una posizione particolarmente preziosa, nel governo in cui Mario Draghi l’ha voluto ministro dello Sviluppo economico. Centrale ma sempre in ombra nel Carroccio dove è un eterno secondo, s’avvia infatti a diventare un caso unico: il solo a potersi muovere come se fosse un vicepremier, in un governo che non ne ha, perché, visto il numero dei partiti che compongono maggioranza, ne avrebbe dovuti avere troppi. Un paradossale compimento, questo, di una carriera politica lunghissima, fatta di zero voli pindarici, zero fantasie, zero correnti: ma posizioni conquistate nei fatti, stabili, come lo è il folto gruppo di colleghi di partito che a Giorgetti sono talmente vicini da averlo soprannominato «capo» - mentre al governo del partito si succedevano i segretari (Umberto Bossi in origine, poi Roberto Maroni, e adesso Salvini) ai quali d’altra parte lui è sempre stato fedele. Rapporti solidi - dentro il Carroccio, come quello, fondamentale anche in questo passaggio, con il governatore del Veneto Luca Zaia, ma anche fuori - tutti «di un certo tipo», si intende: «Sono tanti anni che faccio politica e le persone le conosco tutte. Volendo andare al governo, coi poteri forti bisogna avere a che fare, ma non in modo supino», ha spiegato una volta a Varese-news. Eccolo servito. Convinto sostenitore della politica-pratica, quella che «si fa sui numeri, sui rapporti di forza, su situazioni di consenso, non sulla teoria», Giorgetti incarna adesso la variante leghista del governo, quella cioè del partito potenzialmente più ballerino dell’intera coalizione che sostiene l’ex presidente della Bce. Quanto sarà dirompente è tutto da vedere (molto dipenderà da Salvini, che per ora è perfettamente allineato): di certo, intanto, per sfera di influenza, la sua è una posizione che dice tanto, anche in prospettiva, sul Carroccio che torna ad essere di governo, dopo un anno e mezzo di opposizione. Non per caso, nel suo esordio al Senato, il presidente del Consiglio Mario Draghi, dopo averlo voluto seduto alla sua destra si è rivolto a Giorgetti per l’unico dettaglio che non sapeva risolvere. «Mi dite voi quando debbo sedermi?», gli ha domandato, così facendo l’uguaglianza e la differenza con il debutto in Parlamento di Giuseppe Conte, che tre anni fa si trovò a chiedere all’allora suo vicepremier Luigi Di Maio: «Questo posso dirlo?». Si stenta immaginare un Draghi che chieda alcunché di altrettanto sostanziale: ma ecco, se dovesse avere qualche chiarimento da domandare circa i riti della politica, si ha il fondato sospetto che sarà a Giorgetti che tornerà a rivolgersi. Ministro dello Sviluppo economico e quindi interlocutore diretto di imprese, artigiani, partite Iva e commercianti, insomma dello zoccolo duro dell’elettorato leghista e di centrodestra, del quale si troverà a interpretare anche nuovi orizzonti non strettamente padani come l’Ilva di Taranto, o anche francamente romani come l’Alitalia, Giorgetti sta adesso all’incrocio di tre direttrici fondamentali del nuovo governo: i soldi del Recovery, l’apporto leghista, l’asse del nord. È infatti il più politico nella rosa dei ministri tecnici, anzi addirittura l’unico, nel cerchio di coloro che si troveranno più a stretto contatto con Draghi per suddividere e amministrare le risorse del Recovery Fund: un centro di spesa che ha come perno il Mef di Daniele Franco, e ruoterà verosimilmente attorno ai ministeri della Transizione ecologica guidata da Roberto Cingolani, delle Infrastrutture di Enrico Giovannini, ma anche della Giustizia di Marta Cartabia («la governance è incardinata nel ministero dell’Economia con la strettissima collaborazione dei ministeri competenti che definiscono le politiche e i progetti di settore», ha spiegato Draghi, vaghissimo, nel discorso della fiducia alle Camere). Un centro di spesa che - sia pure con un Mise al quale Luigi Di Maio ha tolto il commercio con l’estero e che ora è in procinto di perdere tutta la parte dell’energia - ruoterà anche attorno a lui, Giorgetti: l’unico tra costoro ad avere una tessera di partito. E non da ieri. Ce l’aveva già, vent’anni fa, quando da presidente della commissione Bilancio della Camera, conobbe Draghi anche attraverso la squadra che il futuro premier aveva messo insieme al Tesoro, allora appena lasciato (era il 2001): dal suo successore nel ruolo di direttore generale Domenico Siniscalco, alla squadra di via XX Settembre (Lorenzo Bini Smaghi, Dario Scannapieco, Roberto Ulissi, Maria Cannata), al Ragioniere dello Stato Vittorio Grilli, altro Draghi boy dei tempi del governo Ciampi. Un legame antico e fatto di forte stima, tra i due: dalle cronache dell’epoca salta fuori che, alla relazione annuale del Draghi governatore di Bankitalia, Giorgetti non mancava mai, rappresentando pressoché l’unico elemento di intersezione tra la Lega e quei mondi. E se nella tarda primavera del 2018 - l’epoca in cui lo ricordiamo impazzavano i Borghi e i Bagnai, e relativo stile - il presidente della Bce ha chiamato proprio il numero due della Lega per spiegare che la situazione dei mercati imponeva di togliere dalle secche la formazione del governo gialloverde (ci si era arenati su Paolo Savona), bisogna risalire a dieci anni prima, al 2008, per trovare lo scintillante complimento rivolto al numero uno di Bankitalia dall’allora presidente della commissione Bilancio della Camera: «Chiaro, preciso, nella parte sul federalismo addirittura sorprendente. È stata una relazione eccellente, molto lucida, davvero noi leghisti non potevamo chiedere di più», ebbe a dire, addirittura. Lasciando intravedere, in anticipo di due lustri e mezzo sull’attuale «è un fuoriclasse», un Draghi diciamo leghista, di certo già fonte sicura d’entusiasmo, anche prima del Draghi «grillino» che è magicamente apparso a Beppe Grillo a inizio febbraio durante le consultazioni. Attorno al tavolone del Consiglio dei ministri, Giorgetti è elemento di spicco anche nell’asse spostato a settentrione del governo nuovo (sono del nord anche i ministri Pd e due su tre di Fi), una inclinazione che corrisponde assai meglio al profilo di un Paese dove, ormai, la maggioranza delle regioni è guidata dal centrodestra. Una inclinazione che chi ha parlato con Draghi sostiene essere frutto di un caso (il premier «dice di aver chiamato chi conosce e stima, senza far caso alla zona di provenienza: peraltro, sono tutti italiani», spiegano), ma già tanto evidente da aver fatto sollevare preoccupazioni per ora velate: «È un governo spostato sul centrodestra nordico», ha fatto notare ad esempio il presidente dello Svimez Adriano Giannola. In netta discontinuità, sul punto, rispetto al Conte due che era composto da molti ministri del Meridione, a partire dallo stesso premier (ma poi, oltre al lucano Roberto Speranza che è rimasto al suo posto, c’erano i pugliesi Francesco Boccia e Teresa Bellanova, i campani Luigi Di Maio ed Enzo Amendola, il siciliano Alfonso Bonafede), e nel quale, come teorizzava lo stesso ministro del Sud Peppe Provenzano, era attiva la concorrenza del Pd sui Cinque Stelle, che si svolgeva a cavallo tra le misure contro il lavoro nero e gli incentivi modello reddito di cittadinanza. Una tendenza che pare già completamente invertita, a sentire l’aria nuova che spira da Palazzo Chigi, così poco incline a linee di azione da centodieci per cento e affini. Molte cose passano dunque adesso sulle spalle di Giorgetti, compreso il compito eventuale di spegni incendi nei rapporti tra il governo e quello che è potenzialmente il più esplosivo dei suoi alleati, sempre che (come sembra) i Cinque Stelle si facciano imbrigliare e sterilizzare nell’asse contiano con Pd e Leu. La Lega di Matteo Salvini, che oggi ha messo da parte il sovranismo e giura di non voler fare lo sfascia carrozze - e per carità «mai come fece Rifondazione con Prodi», ma domani chi lo sa – ha sul fronte dell’esecutivo la faccia rassicurante di Giorgetti. Rassicurante e più presente di quanto non si ricordi a primo impatto. È Giorgetti che, nel maggio 2019, tre mesi prima dei proclami salviniani al Papeete beach su cui crollò il Conte uno, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio aveva proclamato sostanzialmente conclusa l’esperienza del governo con i grillini, allorché facendosi portavoce delle difficoltà interne ai vari ministeri - ma anche di una serie di preoccupazioni e pressioni internazionali - spiegava che il governo del preteso cambiamento era in realtà in «stallo» e che così non si poteva andare avanti. È da allora, praticamente nel corso dell’intero governo giallorosa, che Giorgetti ha lavorato a costruire quell’ipotesi che adesso si è realizzata. E che appare tutt’altro che una svolta improvvisa, se si guardano le cronache passate. Se, come abbiamo ricostruito, già nel giorno in cui il capo dello Stato Sergio Mattarella diede l’incarico a Draghi, Salvini era pronto ad agevolare la nascita del nuovo esecutivo (si parlava ancora di astensione), risale addirittura all’autunno 2019, l’idea di un governo di emergenza che avesse come premier proprio il presidente della Bce allora a fine mandato. Un’ipotesi che sul fronte del centrosinistra portava intanto avanti Matteo Renzi, e che invece nella Lega era spinta in tandem prima da Salvini, poi da Giorgetti. Che in una intervista alla Stampa non soltanto arrivò a tratteggiare la necessità di un «governo di emergenza», ma pure l’impossibilità che a guidarlo fosse di nuovo Giuseppe Conte: «Un Conte tre? Mamma mia... Credo che un governo del genere dovrebbe riflettere il sentimento che c’è nel Paese, quindi nei gruppi presenti in Parlamento. Tutti, da Leu a Fdi. Per fare quattro o cinque cose urgentissime. Compresa la legge elettorale». Ecco, chi adesso nelle stanze dei Palazzi fa disperato i conti di sottogoverno, conti che non tornano mai perché i posti sono troppo pochi e i partiti troppi, osserva come alla fine sia questo uno dei compiti che aspettano la Lega: superare l’anomalia del tripolarismo grillino, favorire la contrapposizione elettorale tra un centrodestra a trazione leghista contro, magari, un centrosinistra in affanno, e tornare a un’ordinata alternanza. Più mite e giorgettiana, finalmente.

Giancarlo Giorgetti, il lumbard che sussurra ai poteri forti. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 19 febbraio 2021. Il leghista varesino, nuovo ministro dello Sviluppo economico, dice di rappresentare artigiani e piccoli imprenditori del Nord. Ma in trent'anni di carriera ha accumulato contatti nel mondo dell'alta finanza e delle grandi aziende accreditando l'immagine del leghista dialogante, alternativo a Salvini. E ora passa all'incasso con Draghi. Sostiene Giancarlo Giorgetti che in politica ci sono due modi di confrontarsi con l’economia. Si può stare vicino a chi produce, inventa, affronta i mercati. Oppure adagiarsi su una nuvola di formule accademiche, tipo salario minimo o produttività, con il rischio di perdere il contatto con la realtà. Questa schematica divisione del mondo dice molto del metodo Giorgetti. Oppure, meglio, suggerisce l’immagine che il neoministro leghista vuol dare di sé: uomo del fare, concreto. Uno che potrebbe stupire con gli effetti speciali, ma sceglie sempre e comunque di volare basso, vicino a quella che ama descrivere come la sua gente, il ceto produttivo del Nord: artigiani, piccoli imprenditori, commercianti radicati nell’immensa provincia padana. Non parla molto, Giorgetti, ma quando sceglie di tirarla in lungo non lo fa mai per il gusto di intrattenere la platea. Il discorso appena citato, quello sull’economia del fare, risale per esempio al 23 agosto del 2019. Due settimane prima, affrontando a petto nudo le folle danzanti del Papeete di Milano Marittima, Matteo Salvini aveva mandato a picco la barca del governo gialloverde. La truppa leghista era allo sbando e da Rimini, ospite del Meeting di Comunione e Liberazione, il numero due del partito prese le distanze dal capo e dal suo avventurismo dei «pieni poteri». Le parole pronunciate dal palco ciellino sembravano studiate apposta per rassicurare la tradizionale base elettorale del movimento che fu di Umberto Bossi, gente moderata e benpensante, che non segue Facebook perché ha troppo da fare, un esercito disorientato dalla fuga in avanti del capopopolo da spiaggia. Quel giorno, per dire, il futuro ministro varesotto, già allievo prediletto del senatur, parlò addirittura di «piazza social che non ragiona». Un’eresia, dentro un partito che fondava tutta la sua strategia comunicativa sulla ricerca spasmodica di like. Niente di nuovo, in verità. Il gioco delle parti tra l’incendiario Salvini e il pompiere Giorgetti, una variante dello schema classico poliziotto buono-poliziotto cattivo, funziona alla grande da anni. E il copione è stato rispettato fino in fondo anche questa volta, nei giorni convulsi in cui la politica italiana è arrivata al capolinea del governo di Mario Draghi. Non è tempo di proclami, questo. Muti i noeuro. Archiviata la flat tax. I banchieri avidi non sono più un problema. Ed ecco che in prima linea arriva il leghista del fare, quello che non ama i social network (niente Facebook, Twitter, Instagram) e quando va in tv preferisce evitare i talk show. In un esecutivo che sembra destinato a galleggiare sulle sue contraddizioni, tra ministri che si contradicono a vicenda praticamente su tutto, a fare la differenza, e a indicare la rotta al Paese, saranno i dicasteri chiamati a gestire il rilancio del sistema produttivo colpito duro dalla pandemia. Per questi incarichi Draghi ha scelto ministri estranei ai partiti: al Tesoro Daniele Franco, ex Bankitalia, lo scienziato Roberto Cingolani alla Transizione ecologica, l’economista Enrico Giovannini alle Infrastrutture. Tutti tecnici per le poltrone chiave. Tutti salvo uno. Il ministero dello Sviluppo economico che ha competenza diretta su centinaia di crisi industriali sparse da un capo all’altro della Penisola, è stato affidato a Giorgetti, un politico che ha esordito alla Camera nel 1996 e si porta in dote un patrimonio di contatti nel mondo delle imprese accumulati in trent’anni di carriera con pazienza certosina, quasi andreottiana, lavorando sottotraccia, sempre un passo indietro rispetto al capo, da Bossi a Bobo Maroni fino a Salvini. Senza grande sforzo di fantasia, le malelingue in Parlamento descrivono il nuovo ministro come un «amico dei poteri forti», citando le sue frequentazioni alla City di Londra e a Washington. Insinuazioni sempre liquidate con un’alzata di spalle dal diretto interessato, troppo occupato a tessere la sua tela per perdere tempo con il gossip romano. Il figlio di un pescatore e di un’operaia, classe 1966, cresciuto in un minuscolo paese sul lago di Varese (Cazzago Brabbia, 800 abitanti), si è conquistato un ruolo preciso sul palcoscenico della politica. Il ruolo del populista dialogante, dell’ambasciatore dei sovranisti nel mondo degli affari. Tutto questo senza mai rinnegare pubblicamente neppure un punto dell’agenda di Salvini, dai porti chiusi alle sparate retoriche contro l’Europa. Mai una parola contro, semmai un silenzio ostentato, oppure uno scarto di lato rispetto alla linea tracciata dal capo. Come quando, tra febbraio e marzo di due anni fa, Giorgetti partì per un tour di una decina di giorni tra Inghilterra e Stati Uniti, scandito da incontri ad alto livello con banchieri, funzionari governativi e manager delle multinazionali Usa, a cominciare da quelle della difesa e dell’aerospazio. Una mossa che sembrava studiata apposta per marcare la differenza con il resto del partito che invece guardava verso Mosca e il regime di Vladimir Putin, come raccontato proprio in quelle settimane dalle inchieste dell’Espresso. Dalle fila della maggioranza gialloverde si levarono le grida di Gianluigi Paragone. «Le banche d’affari non stanno nel contratto di governo», protestò il Cinque Stelle duro e puro, anche lui varesotto, raccontando di un incontro tra Giorgetti e Draghi, l’allora presidente della Bce di Francoforte che all’epoca era descritto dai grillini come il capo di una fantomatica cupola della finanza internazionale. La risposta arrivò a stretto giro di posta. «No, Draghi non l’ho incontrato, ma oggi mi ha telefonato per ringraziarmi della simpatia e della fiducia», spiegò il leghista intervistato in tv con un sorriso sornione stampato in volto e l’aria disinvolta di chi spiega a un ragazzino come va il mondo. Nessun timore, quindi, nel rivendicare le sue entrature nei salotti dell’alta finanza. Nei quindici mesi del primo governo Conte, mentre Salvini usava il suo mandato di ministro per fare comizi in giro per l’Italia, il numero due del partito ha gestito il potere, quello vero, da Palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una posizione solo apparentemente defilata che grazie alle deleghe all’attuazione del programma di governo gli ha permesso di intercettare tutti i dossier più importanti in campo economico. Nel governo di quota 100 e del reddito di cittadinanza, Giorgetti non ha mai smesso di seminare nel campo che coltiva da sempre, tra gli imprenditori diffidenti e spaventati dalla svolta populista di Roma. Tra tanti esordienti ai posti di comando, il leghista varesotto per dieci anni presidente della strategica commissione Bilancio della Camera, è diventato un punto di riferimento per le lobby industriali disorientate dal nuovo corso. Per non parlare di grandi aziende di Stato come il gruppo Leonardo, il polo della difesa, con importanti siti produttivi in provincia di Varese, dove lavora anche un fratello di Giorgetti, Francesco, un manager che si occupa di rapporti commerciali con l’estero. E così, quando l’esperimento gialloverde si è infine arenato sulla spiaggia di Milano Marittima, mentre Salvini ha perso il filo del discorso, fermo a bordo ring come un pugile suonato, il numero due del Carroccio ha tirato dritto sulla strada di sempre, anzi, addirittura rafforzato dopo la rottura dell’alleanza per lui innaturale con i Cinque Stelle. «L’Italia deve essere governata dalla cultura del Nord», tuonò il sottosegretario uscente ospite a un convegno a Varese, come se a poche settimane dalla caduta del governo Conte uno avesse fretta di riprendere il filo di un discorso interrotto per cause di forza maggiore. Poi è arrivato il Covid-19, che ha ridato voce alla propaganda leghista contro il governo. Giorgetti invece per mesi si è esposto poco in pubblico. E nelle prime settimane della pandemia è rimasto addirittura in silenzio, alimentando la leggenda di un passo indietro in polemica con Salvini. Poi però, a partire dall’estate scorsa, ogni dichiarazione è servita a marcare la differenza con la linea politica del recente passato. Zero polemiche con Bruxelles, aperture alla nuova amministrazione Usa dopo la vittoria di Joe Biden, possibilista su una cabina di regia comune tra governo e opposizione per affrontare la pandemia. Era il gran ritorno del Giorgetti dialogante, che comunque non rinunciava a manovrare dietro le quinte per guadagnare spazio e potere nelle partite che contano davvero. Per esempio in Lombardia, dove ai primi dell’anno il leghista di Varese ha pilotato l’ingresso in giunta, insieme a Letizia Moratti, del suo pupillo Guido Guidesi, a cui è andato un assessorato di peso, quello dello Sviluppo economico. A Roma intanto si avvicinava il ribaltone politico. E il vice di Salvini ha fiutato l’aria con grande anticipo. E si è mosso di conseguenza. Gli sponsor davvero non gli mancavano, da Confindustria fino a Bankitalia. Per non parlare del nuovo presidente del Consiglio. In tempi non sospetti, nell’ottobre del 2019, Giorgetti si sbilanciò dicendo che «se deve nascere un governo gradito alle banche, Draghi è l’unico italiano su cui nessuno può dire niente». Ecco fatto.

Renato Brunetta, il professore di Forza Italia per la seconda volta alla Pa. Giovanna Casadio su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Veneziano, fiero delle sue umili origini, si è speso per portare gli azzurri a dialogare con i giallorossi. "Da bambino andavo a vedere i siori che mangiavano il gelato a San Marco, io sono orgoglioso di essere figlio di povera gente". Renato Brunetta, 70 anni, berlusconiano fervente ma di quell'area liberal a cui neppure Silvio Berlusconi è mai riuscito a mettere la mordacchia, si è sempre definito "un professore prestato alla politica". La sua carriera politica è costellata di polemiche spesso feroci. Ma a catapultarlo alla ribalta delle cronache è stato soprattutto il decreto anti fannulloni che varò quando divenne ministro della Pubblica amministrazione la prima volta, nel 2008. Disciplinò in pratica  le assenze dei dipendenti pubblici con decurtazioni delle retribuzioni e visite fiscali anche per un solo giorno di assenza. Veneziano nel cuore, oltre che di nascita, figlio di un venditore di gondoete, di gondole di plastica nera, cioè di souvenir,  ha confidato talvolta di avere un vero grande desiderio: diventare sindaco della "sua" Venezia. Con Salvini non ha mai avuto feeling, con il centrosinistra talvolta sì e, recentemente, si era speso per portare Forza Italia a dialogare con i giallorossi, spesso lodando il grillino Luigi Di Maio. Della sua altezza, solo 1 metro e 43 centimetri, non si fa problema. Ci scherza su. Economista, in Forza Italia ha avuto momenti di splendore e altri di esclusione. Nella passata legislatura è stato capogruppo di Forza Italia, sanguigno e appassionato. Sempre dai suoi racconti: "A casa mia non c'era un libro, cominciai a studiare il greco di notte, di nascosto".   

Alberto Mattioli per “La Stampa” il 15 febbraio 2021. Diventa urgente mettersi d' accordo. Il body shaming è inaccettabile solo per le donne e non per gli uomini? Per la sinistra e non per la destra (o viceversa)? Per i privati cittadini e anche per i personaggi pubblici? La questione si ripropone dopo che nel Draghi I Renato Brunetta è riassurto alla carica di ministro della Pubblica amministrazione che già aveva detenuto nel Berlusconi IV. E soprattutto dopo che nel mirino di caricaturisti, comici, opinionisti avversi e semplici haters è finita, al solito, la sua altezza, com' è noto non cospicua: 143 centimetri. Ieri «Il fatto quotidiano» ha pubblicato una vignetta dove due tizi commentano il nuovo governo. «Un profilo fin troppo alto», dice il primo. «Per non esagerare hanno dovuto dare un ministero a Brunetta», replica il secondo. «Libero» invece ha giocato sul paradosso. Titolone di prima: «Brunetta, ministro di alto profilo». Occhiello: «Come disse Monti: un economista di statura». Però il ritratto di Brunetta che c' è sotto è ultra elogiativo, fino a proclamarlo, si suppone senza ironia, «un gigante del pensiero». Vero che a firmarlo è il suo ex addetto stampa, che è un po' come chiedere al fornaio se il pane è fresco. Intanto sui social erano già partiti il tiro al bersaglio, l' offesa gratuita e il rutto libero. Per i finissimi di Twitter il neoministro è un nano da giardino, un nano malefico, un nano da circo, un nano di un' altra e poco nobile materia, e la squadra di Forza Italia, composta oltre che da lui dalle ministre Carfagna e Gelmini, «un esplicito omaggio ai governi Craxi: nano e ballerine». Altri si sono rifatti alle serie fantasy (o a Wagner, ma dubitiamo che siano dei frequentatori del festival di Bayreuth), facendo notare che «dove c' è un drago c' è sempre un nano». Naturalmente piazzato al governo dall' altro nano, quello di Arcore. Non si era parlato tanto di nani dai tempi di Velázquez, o di Biancaneve. Insomma, passano i governi ma non l' abitudine di infierire sul fisico dei loro componenti. Ne sa qualcosa, per restare all' evo Conte, la ministra Bellanova. Lo stesso Brunetta era stato a suo tempo bollato come «energumeno tascabile» da Massimo D' Alema e come «distruzione della prospettiva» da Beppe Grillo. Lui, peraltro, come al solito tirerà dritto. Alle polemiche è abbonato. Il suo ministero precedente ne produsse molte, tanto che qualche funzionario pubblico preoccupato ha riesumato la vecchia definizione di Fanfani, il «Rieccolo» (anche lui, per inciso, verticalmente svantaggiato quindi oggetto di sfottò). Si riparla già delle prese di posizione di Brunetta contro i dipendenti della P. A. «fannulloni», i poliziotti «panzoni», il «culturame» ozioso e improduttivo (qui invece siamo a Scelba) e il «Csm mostro». Posizioni certo controverse. Però la statura di Brunetta, e non quella politica, c' entra nulla. Ci interessa un ministro all' altezza, non l' altezza del ministro.

Il neo ministro smaschera la fake news. Brunetta e lo smartworking: “Basta, dipendenti pubblici tornino in ufficio”, ma l’intervista era vecchia. Rossella Grasso su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. La notizia della decisione del neoministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta della fine dello smartworking e dell’imminente ritorno in ufficio dei dipendenti pubblici è rimbalzata di bocca in bocca, social in social, giornale in giornale. Peccato che si trattava di una notizia falsa. “Riaprire tutto: i Comuni devono funzionare, i tribunali devono funzionare, come funzionano gli ospedali. Non vedo perché se un ospedale funziona, non possa funzionare una scuola, un Comune, un ufficio di urbanistica, un tribunale. Smettiamola per favore, basta: si torni tutti a lavorare”. Queste le parole citate dal Corriere della Sera che hanno fatto balzare dalla sedia in tanti. Ma poche ore dopo lo stesso Brunetta ha smentito tutto dai suoi social: “Leggo sul sito del Corriere della Sera di una mia intervista pubblicata in data odierna dal titolo ‘Basta smart working, i dipendenti pubblici tornino in ufficio’. Il contenuto pubblicato nella sedicente intervista si riferisce ad un mio intervento a Tgcom24 in data 22 giugno dello scorso anno, periodo nel quale sembrava che la pandemia fosse in via di superamento, con il ritorno auspicato alla normalità”. “Quindi, io non ho rilasciato alcuna intervista, a nessuno, come doveroso riserbo, in attesa del discorso programmatico del presidente del Consiglio Mario Draghi alle Camere del prossimo mercoledì al Senato e giovedì alla Camera, con conseguente dibattito parlamentare e voto di fiducia. Sono sconcertato e dispiaciuto. Dal momento del giuramento, io non ho rilasciato alcuna intervista, né scritto alcun articolo. Nulla”. Il Corriere ha eliminato l’articolo e si è scusato con il ministro e con i lettori. “Per un disguido e un nostro errore di cui ci scusiamo con il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta e con i lettori, è andato online un articolo su una vecchia intervista dell’allora deputato Brunetta che riguardava un contesto completamente diverso in cui si pensava di poter tornare alla normalità”. Ma intanto la notizia si era diffusa a macchia d’olio su tutti i giornali. Qualcuno l’ha eliminata ma si sa le fake news si spargono sempre a macchia d’olio. E subito è partita anche la macchina della polemica, in primis da parte dei sindacati e poi dalle forze politiche che non hanno verificato la veridicità della notizia. Intanto Brunetta ha commentato così su Facebook l’accaduto: “Prendo atto della smentita del Corriere della Sera. Ma a questo punto mi chiedo: chi ha interesse ad avvelenare i pozzi? Chi vuole mettere già i bastoni tra le ruote a questo governo? Chi ha interesse a giocare con gli equivoci? Quello del ‘Corriere’ sarà un errore… ma io queste domande me le sto ponendo”.

Le critiche e le polemiche. Salvate il soldato Brunetta, bersagliato dai nemici ma anche dagli amici. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Salvate il soldato Brunetta. Non solo dal fuoco degli avversari ma anche dal fuoco amico. Il Paese ha bisogno del suo coraggio di combattente, della sua competenza e del suo impegno per affrontare e superare – come ha detto Mario Draghi al Senato – quella «fragilità del sistema delle pubbliche amministrazioni e dei servizi di interesse collettivo» che è, tuttavia, «una realtà che deve essere rapidamente affrontata». Oltre a provvedere «lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia» attraverso uno specifico piano, la riforma – come ha indicato il premier – dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati. È la stessa impostazione che si ritrova negli obiettivi contenuti nel “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” sottoscritto, su iniziativa di Renato Brunetta, il 10 marzo da Draghi e dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Uno degli obiettivi del Patto è quello di «riconoscere alla Pubblica Amministrazione il ruolo centrale di motore di sviluppo e catalizzatore della ripresa: la semplificazione dei processi e un massiccio investimento in capitale umano sono strumenti indispensabili per attenuare le disparità storiche del Paese, curare le ferite causate dalla pandemia e offrire risposte ai cittadini adeguate ai bisogni». Quanto sia strategica in una fase come questa un’amministrazione pubblica più efficiente è una pressante raccomandazione della Ue nell’ambito del PNRR; non è soltanto la condizione per ottenere i finanziamenti, ma poterli impiegare in maniera efficace, in un Paese che – come ha ricordato il ministro Daniele Franco durante un’audizione al Senato – ha sulla coscienza lo spreco dei Fondi strutturali UE che hanno consentito di attivare nel nostro Paese interventi per oltre 73 miliardi di euro fino a tutto il 2023. A quasi due anni dalla fine sono state impegnate risorse per soli circa 50 miliardi e, di questi, ne sono stati spesi poco più di 34. Col Patto, Brunetta scommette su di una nuova stagione di relazioni sindacali, cominciando dall’avvio dei rinnovi contrattuali per 3,2 milioni di dipendenti pubblici per un aumento medio di circa 107 euro. E qui è scoppiata la critica: «Prima dei garantiti – tuona Maurizio Belpietro su La Verità, all’unisono con Nicola Porro dal teleschermo – vanno aiutati gli autonomi». E segue un elenco di denunce per i ritardi e i disservizi che hanno caratterizzato le politiche di “ristoro” delle perdite di reddito e di fatturato durante la pandemia. Ovviamente Belpietro punta il dito sulla burocrazia che non è stata all’altezza delle risposte attese dai cittadini, riconoscendo, così, implicitamente, che l’amministrazione, con le sue risorse umane e materiali, costituisce il punto di raccordo tra lo Stato e i cittadini, in quanto è lo strumento che assicura o nega l’esercizio dei diritti e l’erogazione dei servizi. Val la pena di ricordare che l’aumento medio di 107 euro è equipollente a quanto è previsto in generale nei contratti dei settori privati; che il relativo ammontare è stanziato in bilancio; che l’anno scorso le federazioni di categoria proclamarono uno sciopero (per fortuna fallito clamorosamente) perché consideravano inadeguato l’incremento retributivo previsto. Inoltre, il governo che si è impegnato ad aprire le trattative per i rinnovi è lo stesso che provvederà a varare – per decreto – le misure di “sostegno” ai lavoratori autonomi e parasubordinati (una battaglia condotta da Brunetta dall’opposizione). Dalla contrattazione transitano quelle modifiche che sono necessarie nel lavoro pubblico. Renato Brunetta, in un’intervista radiofonica, ha ricordato di aver già fatto “questo mestiere”, come titolare della Funzione pubblica del governo Berlusconi nella XVI legislatura. In quella veste varò con legge delega del 2009 (e col successivo dlgs n.150) una riforma organica del pubblico impiego che fu accusata di togliere spazio alla contrattazione a favore di una ri-legificazione della materia, necessaria, secondo Brunetta, a riportare ordine nelle manovre sindacali che seguirono la c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro all’inizio degli anni ’90. Quella profonda revisione dell’ordinamento, a firma di Brunetta, finì nel freezer del blocco della contrattazione, voluto da Giulio Tremonti, nella successiva legge di bilancio, per questioni di finanza pubblica, e durato più di un decennio. Quel blocco comportò anche il congelamento di ogni innovazione, che non aveva altra possibilità di svilupparsi se non attraverso la contrattazione collettiva (perché non si è mai vista una legge in grado di fissare gli obiettivi, organizzare il lavoro in un ufficio, verificare i risultati). Credo che Brunetta abbia riflettuto su quell’esperienza e compreso che non è possibile trasformare la pubblica amministrazione senza una convergenza di interessi con i lavoratori e i sindacati che li rappresentano. Sorprende pertanto che Pietro Ichino – sul Foglio di ieri – non concordi con l’idea per cui «le cose che vanno fatte per far funzionare meglio le amministrazioni pubbliche si possano fare solo con l’accordo dei sindacati». E da qui Ichino prende l’avvio per elencare – giustamente – i limiti, le ipocrisie e gli errori del sindacalismo del pubblico impiego. E quindi i “rischi” che correrebbe Brunetta a proseguire su quella strada insieme (la considerazione è solo nostra) a sindacati felloni. Il fatto è che per Ichino riformare la PA è un’operazione difficile, ma non impossibile. Per riuscire nell’impresa occorre avere ragione dell’inamovibilità, delle rendite, della trappola dei diritti acquisiti, del rifiuto delle verifiche e delle valutazioni, mentre devono trovare spazio nei contratti collettivi i premi legati ai risultati e al raggiungimento di obiettivi precisi collegati a scadenze determinate. E chi ha detto al professor Ichino (amicus Petrus sed magis veritas) che non siano queste le linee che il governo intende portare avanti? A leggerlo, il Patto sembra che sia stato scritto proprio dall’amico Pietro, sia per quanto riguarda le assunzioni, la ricerca di nuove professionalità, il ringiovanimento del personale, la formazione, il superamento della “fase emergenziale” dello smart working. Quest’ultimo caveat è importante perché, come ha più volte segnalato proprio Ichino, non c’è da fidarsi delle esperienze di un lavoro da remoto disposto dal precedente governo più per logiche sanitarie che per obiettivi produttivi eseguiti in maniera diversa. Un’ultima considerazione meritano alcuni brani dell’intervento di Draghi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti. «È necessario – ha affermato il presidente del Consiglio – sempre trovare un punto di equilibrio tra fiducia e responsabilità: una ricerca non semplice, ma necessaria. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti di quella che viene chiamata la “fuga dalla firma”, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l’erario. Tenendo conto peraltro che, negli ultimi anni, il quadro legislativo che disciplina l’azione dei funzionari pubblici si è “arricchito” di norme complesse, incomplete e contraddittorie e di ulteriori responsabilità anche penali». Poi Draghi ha continuato: «Tutto ciò ha finito per scaricare sui funzionari pubblici responsabilità sproporzionate che sono la risultante di colpe e difetti a monte e di carattere ordinamentale; con pesanti ripercussioni concrete, che hanno talvolta pregiudicato l’efficacia dei procedimenti di affidamento e realizzazione di opere pubbliche e investimenti privati, molti dei quali di rilevanza strategica». Stanno qui – ad avviso di chi scrive – alcuni dei motivi di quelle che pretestuosamente vengono definite le disfunzioni burocratiche. Sono la cultura del sospetto e la mistica della corruzione che impongono ai dipendenti pubblici la linea del “non fare” che è diventato l’unico modo per evitare, in sequenza, una intercettazione telefonica magari trascritta non correttamente, un avviso di garanzia per abuso di ufficio con annesso “sbatti il corrotto in prima pagina”. Bisognerà pur difendersi dal bracconaggio delle procure.

Lorenzo Guerini rimane alla Difesa, il "mister Wolf" del Pd che Renzi chiamava "Arnaldo". Giovanna Casadio su La Repubblica il 12 febbraio 2021. L'esponente dem ha una postura istituzionale e la capacità di dribblare agguati e polemiche. Il soprannome che Matteo Renzi gli appioppò - Arnaldo - non se l'è più levato di dosso. Perché Lorenzo Guerini, 55 anni, lombardo di Lodi, legatissimo alla città di cui è stato anche sindaco, figlio di un operaio comunista, ha un tratto che lo accomuna ad Arnaldo Forlani: mediatore, è capace di dribblare agguati e polemiche politiche e di risolvere grane. Del resto è nella Dc che Guerini fu folgorato sulla strada della politica, quando Luigi Baruffi era capo della corrente andreottiana in Lombardia. Poi nel Ppi di Martinazzoli, quindi nella Margherita fino all'approdo nel Pd. Ma è con Renzi che stringe un sodalizio che sembrava destinato a non sciogliersi mai. Era il 2011 e l'allora sindaco di Firenze punta a conquistare la presidenza dell'Anci, l'associazione dei Comuni, per Graziano Delrio, all'epoca primo cittadino di Reggio Emilia. Renzi affida a Guerini il compito di portare a casa il risultato, battendo la candidatura di Michele Emiliano voluta da Bersani. E lui ci riesce.  Così nel Pd, quando è segretario, Renzi gli affida di fatto il partito con il compito di stemperare le tensioni. Il "politico di provincia" - come Guerini si autodefinisce - non manca un colpo, neppure quando c'è da ricucire con la sinistra dem sul Jobs Act. Unico del "giglio magico renziano" a non parlare toscano, è l'uomo di cui Renzi si fida di più. Nel 2018, con il governo gialloverde, gli viene affidata la presidenza del Copasir. Con il governo Conte 2 è ministro della Difesa. Tre figli, una passione calcistica per il Milan, ma una ancora più forte per baseball (fa il tipo per i San Francisco Giants), non segue Renzi nella scissione dal Pd. Lo sconsiglia, anzi. La vecchia scuola Dc qualcosa gli ha insegnato: che le scissioni danneggiano soprattutto chi le fa. Ora Guerini è a capo della corrente Base riformista ma non con ambizioni di scalata al Pd. La postura istituzionale gli si addice di più.

Massimo Garavaglia, il leghista "riapre" il ministero del Turismo. Andrea Montanari su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Come Giorgetti, nella Lega è sempre stato considerato l’uomo dei conti. Massimo Garavaglia, “Sgara” per gli amici è un leghista della prima ora, che ha fatto la gavetta. Cinquantatré anni, uno in meno di Giancarlo Giorgetti, si è laureato anche lui alla Bocconi, ma pure in Scienze politiche all’università Statale. Ha iniziato la sua carriera come sindaco di Macallo con Casone, il comune dove vive. Poco più di seimila abitanti nell’hinterland milanese. La sua passione giovanile, oltre alla politica è stata la musica. Suonava nel complesso dialettale Gamba de legn. La moglie Marina l’ha conosciuta ai tempi del liceo scientifico Bramante a Magenta. Nel governo Draghi ha la responsabilità di "riaprire" il ministero del Turismo. Come Giorgetti, Garavaglia nella Lega è sempre stato considerato l’uomo dei conti. Anche per questo motivo ha fatto parte di diversi consigli di amministrazione. Da CoNord ad Aifa fino alla Cassa depositi e prestiti. Nel 2006 arriva in Parlamento. Dopo essere stato eletto nella lista della Lega Nord nella circoscrizione Lombardia 1. Due anni dopo trasloca al Senato. Diventa vice presidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama. Nel 2013 Roberto Maroni eletto governatore della Lombardia lo chiama come assessore lombardo al Bilancio. Per accettare l’incarico è costretto a lasciare il Senato, ma nel 2018 si rifà. Perché viene nominato viceministro dell’Economia nel primo governo Conte a maggioranza gialloverde, dopo essere stato rieletto nel collegio uninominale di Legnano sempre per la Lega. La sua passione. Nel 2015 viene indagato per turbativa d'asta nell'inchiesta che ha portato all'arresto dell’allora vicepresidente della Lombardia, Mario Mantovani. Per l’accusa, Garavaglia avrebbe pilotato una gara d'appalto da 11 milioni di euro all'anno per il trasporto dei malati dializzati. Il 17 luglio 2019, però, viene assolto "per non aver commesso il fatto", mentre l'accusa aveva chiesto una condanna a due anni di carcere. Mantovani, invece viene condannato a 5 anni e mezzo.

Mariastella Gelmini ministra degli Affari regionali: la berlusconiana della prima ora che torna al governo dopo 10 anni. su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Torna al governo dopo 10 anni. L'ultima volta era stata all'Istruzione, ora va in un ministero senza portafoglio (come gli altri due forzisti della squadra): gli Affari regionali e le Autonomie. Un ministero che ha avuto un ruolo centrale nei lunghi mesi della pandemia, come luogo di confronto tra governo e regioni. Berlusconiana della prima ora, 48 anni a luglio, è nata a Leno, in provincia di Brescia. Prima il classico in un liceo cattolico, poi la laurea in giurisprudenza con specializzazione in diritto amministrativo. Una sorella insegnante, sindacalista della Cgil, Mariastella Gelmini ha una rapidissima ascesa politica nel centrodestra: presidente del club azzurro di Desenzano dal '94; nel 1998 prima degli eletti alle amministrative; dal 2002 assessore al territorio della provincia di Brescia; nell'aprile 2005 entra nel consiglio regionale della Lombardia; il mese dopo Berlusconi decide di nominarla coordinatrice regionale di Forza Italia in Lombardia. L'ingresso in Parlamento nel 2006, nel 2008 a 35 anni è diventata ministra, la più giovane responsabile dell'Istruzione che ci sia stata in Italia. Tra il 2008 e il 2010 firma la riforma della scuola, quella che introduce tra l'altro il maestro unico alle elementari e due nuovi licei, scienze umane e musicale e coreutico.

Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza. Il super magistrato con un passato al Mef. La Repubblica il 12 febbraio 2021. Giurista e capo di Gabinetto di due ministri dell'Economia, si dimise dal governo gialloverde dopo gli attacchi del M5S. Roberto Garofoli, il super magistrato già capo gabinetto del Mef, è il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Draghi. Nato a Taranto il 20 arile del 1966, due figli, è laureato in giurisprudenza presso l'Università di Bari. E' magistrato ordinario fino al 1999, impegnato in processi anche di mafia. Giudice del Consiglio di Stato e condirettore della Treccani Giuridica, è capo di gabinetto del Tesoro con i ministri Pier Carlo Padoan, nel governi Renzi e Gentiloni, e con il successore Giovanni Tria con il governo M5S-Lega con Conte premier dal febbraio 2014 al dicembre 2019, quando si dimette sulla scia delle polemiche per la norma pro Croce Rossa. Nell'ottobre del 2018 Garofoli finisce infatti al centro degli attacchi dei pentastellati che lo additano come "la manina" autrice della norma della discordia al dl fiscale, che stanziava 84 milioni per Croce Rossa. La norma fu poi stralciata dal presidente del Consiglio. In precedenza, tra gli altri incarichi, era stato segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri e presidente della commissione per l'elaborazione di misure di contrasto, anche patrimoniale, alla criminalità nel governo Letta; prima era capo di gabinetto del dipartimento della funzione pubblica, con il ministro Filippo Patroni Griffi, e coordinatore della commissione ministeriale per l'elaborazione di misure per la trasparenza, la prevenzione e il contrasto della corruzione nel governo Monti.

 Marianna Rizzini per “il Foglio” 28 luglio 2018. Dice al telefono l'abitante di Molfetta: "Roberto Garofoli? C'è anche se non lo vedi, come le orme del dinosauro scoperte per caso qui vicino". E a quel punto il forestiero che chiama dalla capitale non riesce a capire che cosa mai possa legare un mastodonte preistorico a Garofoli - già capo di gabinetto al ministero dell' Economia con Pier Carlo Padoan poi confermato da Giovanni Tria, già Segretario generale della presidenza del Consiglio con Enrico Letta, già giudice del Consiglio di Stato e grand commis tra i più stimati, pendolare tra Roma e Molfetta da tempo immemorabile. Poi si scopre che davvero, nel 2005, uno studente di paleontologia trovò per caso un'orma da Jurassic Park nei pressi della cava di San Leonardo, e allora il paragone pare più calzante, almeno dal punto di vista della sotterranea, ma innegabile (e irrinunciabile) presenza del capo di gabinetto nelle retrovie di ogni manovra economica, compresa la prima e già incandescente manovra del governo gialloverde: "Tutte le strade portano a Garofoli", scherza senza troppo scherzare un collega. E dunque da Molfetta conviene partire, per cercare di capire come Garofoli sia diventato Garofoli, il magistrato con occhiali tondeggianti, volto impassibile (da giocatore di poker, verrebbe da dire, solo che Garofoli non gioca) e i capelli mai troppo corti. Un uomo di legge con un passato da pm e un' esperienza nei processi di mafia maturata sul campo. Un ex professore che gli studenti conoscono anche come coautore di compendi di Diritto penale e amministrativo: non per niente il capo di gabinetto del Mef ha anche in curriculum la codirezione della Treccani giuridica, coronamento di una delle sue tre carriere di giurista, magistrato e alto funzionario, tre aspetti della vita del medesimo laureato dell' Università di Bari che nel 1994 ha vinto il concorso in magistratura e da lì non si è più fermato, pur tornando a Molfetta da moglie e figli ogni fine settimana, cascasse il mondo, qualsiasi sia la situazione lasciata in ufficio: leggenda vuole, infatti, che Garofoli non alzi la testa dalle carte neanche in viaggio, e che anzi consideri il treno una specie di unità distaccata del Mef, motivo per cui non prende mai l'aereo, mezzo di locomozione che non permette un'altrettanto certa ottimizzazione dei tempi. Come magistrato e uomo di legge, prima ancora che come grand commis, Garofoli è di tanto in tanto invitato a convegni e presentazioni di libri, dove capita che parli di Europa e conti pubblici, ma sempre con la tipica curvatura giuridica che rende impossibile qualsiasi sospetto di partigianeria e qualsiasi manovra di avvicinamento dei retroscenisti (dice un veterano di Montecitorio: "Garofoli non è il classico uomo di ministero cui chiedere ufficiosamente lumi sulla legge di Bilancio"). Ed è nel mondo ovattato della convegnistica, ma anche in quello meno ovattato dei bilanci regionali, che il Garofoli più autentico si esprime, come testimoniano i rari file audio e video da Radio Radicale (uno su tutti, quello in cui Garofoli, nel marzo del 2017, alla presenza del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, parla di collaborazione governo -Regione sul piano di rientro sanitario). "Tria ha fatto bene a tenerselo", è l'universale commento presso aule parlamentari e corridoi ministeriali, dove si ricorda che l' alto funzionario, "per rigore, accortezza e conoscenza della materia" è stimatissimo dal giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese, e dove c'è chi sottolinea "la versatilità mai improvvisata" di Garofoli, uomo "dalla memoria fuori dal comune", racconta un osservatore, "che guarda molto poco gli appunti durante le riunioni" e non si presenta mai in nessun luogo senza aver studiato e ristudiato i dossier propri e altrui, e senza dimenticare di fare domande di verifica all' interlocutore, come se non avesse mai perso l' attitudine e l' abitudine del magistrato. Non per questo appare monoliticamente secchione: da un lato è algido e non mondano, esigente e poco tenero di fronte alle sciatterie; dall'altro è cordiale (insiste perché gli si dia del tu, prende senza problemi un gelato o una birra con i colleghi, anche se si capisce la sua preferenza per le uscite centellinate con amici fuori dal giro). Può lasciar tra sparire il velo di malinconia del padre pendolare a cui pare di avere sempre troppo poco tempo per stare con i figli, ma può non mascherare il carattere tutt'altro che remissivo: se ti deve dire che qualcosa non va Garofoli te lo dice, e te lo dice senza tanti giri di parole, ma l'atteggiamento ipercritico è riservato anche a se stesso, dicono all'unanimità quelli che l'hanno visto all'opera. Ghiaccio e fuoco: un po' Borg, un po' McEnroe, non a caso mito doppio di Garofoli, spettatore di partite di tennis più che giocatore di tennis (quest'anno, dopo anni, ha fatto una fu gace puntata agli Internazionali di Roma), ma ancora legato cuore e memoria ai due mattatori per lui non eguagliati da nessuno, ferma restando l'ammirazione per Roger Federer, che in qualche match glieli ha ricordati. Per il resto, lo sport non è uno dei pallini del capo di gabinetto di Tria: non lo pratica mai e lo guarda poco (è uno juventino tiepido), anche se si sposta sempre a piedi (in questo - forse solo in questo? - è in linea con la fissazione anti automobilistica di alcuni ministri e plenipotenziari gialloverdi). A fianco del grand commis, spunta però sempre il Garofoli curatore di volumi giuridici (titolo di quello curato con Giuliano Amato: "I tre assi: l'amministrazione tra democratizzazione, efficientismo, responsabilità") e un Garofoli esperto di lotta alla corruzione, argomento oggetto di un dibattito organizzato dalla Fondazione Italianieuropei: nel 2012 il magistrato ha partecipato a una tavola rotonda con Massimo D'Alema, pugliese come lui (il trait d' union, raccontano in ambienti dalemiani, era Andrea Pèruzy, già segretario generale della fondazione, ex membro del cda Acea, poi designato in epoca renziana amministratore delegato della società Acquirente unico). E però il particolare non illumina il tutto: sempre sul tema del contrasto alle mafie, nel 2014 Garofoli compare anche tra i nomi di un seminario Arel (think tank di area lettiana), accanto a Raffaele Cantone, Nicola Gratteri e Giovanni Maria Flick. E proprio per via dei buoni rapporti con gli ambienti lettiani, dalemiani e montiani (è stato capo dell' Ufficio legislativo della Farnesina quando D'Alema era ministro degli Esteri e capo di gabinet to alla Pubblica Amministrazione sotto il governo Monti), ci fu chi, ai tempi del governo Renzi, ipotizzò un' indiretta azione tecnica di resistenza al premier rottamatore. E però Garofoli era sempre lo stesso: meticoloso nel controllo, millimetrico nell'organizzazione, preveggente rispetto alle possibili implicazioni problematiche di un provvedimento, anche a costo di rimandare cose che un premier (forse qualsiasi premier) preferirebbe non rimandare. Quando infatti si nomina Garofoli a un addetto ai lavori, l'addetto ai lavori dice in media cose come: "Garofoli protegge i ministri dalle conseguenze non ancora visibili dei loro atti" o "Garofoli non predilige la velocità tanto per essere veloci" o "Garofoli non tollera l'idea di non essere preparato. Men che meno tollera il bluff altrui: se ne accorge immediatamente". In generale, le poche volte in cui il capo di gabinetto parla pubblicamente lo fa per mettere in guardia di fronte a un rischio, come nella primavera del 2017, a proposito di bail-in: "Con l'introduzione del bail -in e il rinnovato interesse per la tutela del risparmi", diceva, "diventa ancora più cruciale il ruolo delle autorità di regolazione finanziaria: devono spingere ulteriormente sui controlli, come del resto anche il governo, rendendoli sempre più efficaci e puntuali, e inoltre valorizzare l' educazione fi nanziaria a ogni livello, che è diventata assolutamente necessaria e invece in Italia presenta preoccupanti gap rispetto all' Europa" (come dire: con la difesa del risparmio non si scherza). Ma succede pure che Garofoli, parlando in pubblico su argomenti non economici, lasci emergere l'inconfondibile lessico da tribunale: intervistato nel 2012 a Skytg24 sulla corruzione (domanda: che cosa ne pensa del persistente dilagare della corruzione nonostante siano passati vent'anni da Tangentopoli?), Garofoli parlava di "reato sinallagmatico", con quelle due persone - corrotto e corruttore - che si tenevano insieme così indissolubilmente da rendere molto difficile provare quel che si sospettava. "Quando lo si interpella nella veste di giudice, Garofoli addolcisce inconsapevolmente il tono della voce", dice un conoscente, convinto che la stessa piccola mutazione avvenga quando il capo di gabinetto del Mef fa riferimento alla sua Puglia. "Uomo del Sud", dicono infatti di lui. Uomo del Sud per nostalgia e per silenzioso scambio con il luogo: il magistrato che viene salutato per strada con rispetto, restituisce il rispetto con il contegno, a costo di sembrare rigido. E le voci sparse di chi lo frequenta confermano il quadro: non ha il mito delle grandi capitali né delle Americhe, Garofoli. Apprezza Roma, pur standoci il meno possibile, ma vede nelle feste e cene l' anti camera di una tessitura -reti non sempre virtuosa. Maniaco della meritocrazia, fatica ad accettare le imperfezioni nel lavoro dei collaboratori (pare ultimamente si sia addolcito - o forse soltanto adattato al contesto). Sembra lontano da ogni egoriferitismo, ma anche lontano da ogni insicurezza. E' potente, ma non si comporta come uno che insegue il potere per il potere. Ogni partita al Mef passa e ripassa per la sua scrivania, e quasi quasi è come nei palleggi delle sfide Borg -McEnroe che Garofoli non ha mai dimenticato: una volta vince il ghiaccio, una volta il fuoco, ma alla fine sono sempre loro due contro il resto del mondo.

ECCO I “MANOVRATORI” DEL GOVERNO DRAGHI. Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2021. Non compaiono in pubblico, e sui giornali, ma sono coloro che attuano le decisioni che contano. Sono la macchina operativa più che dei semplici consiglieri. Dietro il Presidente del Consiglio e i ministri sono importanti gli uomini e le donne “ombra” del Governo. Non compaiono in pubblico, e sui giornali, ma sono coloro che attuano le decisioni che contano. Sono la macchina operativa più che dei semplici consiglieri. Sarà il giornalista ed esperto di comunicazione Antonio Funiciello ( di area centrosinistra ed in passato vicino a Matteo Renzi ) autore del libro “Il metodo Macchiavelli. Il leader e i suoi consiglieri: come servire il potere e salvarsi l’anima”, il nuovo capo di gabinetto di Draghi a Palazzo Chigi. Un ritorno alla Presidenza del Consiglio dopo che nel 2016 il premier Paolo Gentiloni lo scelse per il ruolo che andrà a ricoprire anche ora con Mario Draghi. Un’altra delle novità più significative nella squadra del neo presidente del Consiglio, sia per il posto che occuperà, sia per la scelta “politica” fatta, è la riconferma di Roberto Chieppa a segretario generale di palazzo Chigi. Magistrato, già segretario generale dell’Agcom. Alla Presidenza del Consiglio anche Daria Perrotta che sarà capo di gabinetto del nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli. Il capo del Dipartimento degli Affari giuridici e legislativi  sarà Carlo Deodato che fu scelto nel 2018 come capo di gabinetto del ministero degli Affari europei retto dall’allora ministro Paolo Savona. Al ministero del Tesoro cardine del nuovo governo Draghi, arriva dal Consiglio di Stato, come capo di gabinetto Giuseppe Chinè che sino al 2018 ricopriva lo stesso incarico al ministero della Salute , mentre il capo di gabinetto del nuovo ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, sarà Paolo Visca che ricopriva lo stesso ruolo nello staff di Matteo Salvini quando era vicepresidente del Consiglio.   Francesco Fortuna, ex vicecapo di gabinetto del grillino Stefano Patuanelli al Mise, lo seguirà come capo di gabinetto del ministero delle Politiche agricole dove a capo del dipartimento affari generali e legislativo, ci sarà Stefano Varone. A capo di gabinetto del Ministero (senza portafoglio) della Pubblica amministrazione guidato da Renato Brunetta arriva Marcella Panucci  ex direttore generale di Confindustria. Gaetano Caputi già direttore generale della Consob e docente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione della presidenza del Consiglio dei ministri, anche lui nel ruolo di capo di gabinetto andrà al nuovo ministero del Turismo, guidato dal leghista Massimo Garavaglia. 

Da liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2021. Si sta delineando sempre più la squadra che affiancherà Mario Draghi a Palazzo Chigi. Il nuovo presidente del Consiglio la sta scegliendo con estrema cura, essendo consapevole del fatto che è necessario uno staff di livello per governare bene, o almeno meglio di quanto fatto da Giuseppe Conte e dai giallorossi nell’ultimo anno e mezzo. Una delle nomine ha però fatto storcere il naso a una certa parte politica: è quella di Antonio Funiciello, 45enne casertano che è il nuovo capo di gabinetto di Draghi. Tra l’altro aveva già ricoperto tale ruolo dal 2016 al 2018 per Paolo Gentiloni: laureato in filosofia, è scrittore e giornalista nonché professionista “d’area”, dato che ha a lungo collaborato con il Pd, ottenendo nel 2013 la delega per la Cultura e la Comunicazione del partito. Insomma, la sua nomina è in quota “rossa”, ma evidentemente per Draghi si tratta di un uomo di sicuro affidamento, avendo già ricoperto incarichi politici ed istituzionali. Non solo Funiciello, Palazzo Chigi ha formalizzato in giornata diverse altre nomine: Roberto Chieppa, riconfermato segretario generale; Carlo Deodato, capo del dipartimento degli Affari giuridici e legislativi; Giuseppe Chinè, capo di gabinetto del ministro dell’Economia; Dario Perrotta, capo di gabinetto del sottosegretario alla presidenza del Consiglio; Gaetano Caputi, capo di gabinetto del ministro del Turismo; Francesco Fortuna, capo di gabinetto del ministero delle Politiche agricole; Marcella Panucci, capo di gabinetto del ministero della Funzione pubblica.

Antonio Funiciello, “è il governo di Draghi o del Pd?”: chi è e da dove arriva il nuovo capo di gabinetto. Libero Quotidiano il 15 febbraio 2021. Si sta delineando sempre più la squadra che affiancherà Mario Draghi a Palazzo Chigi. Il nuovo presidente del Consiglio la sta scegliendo con estrema cura, essendo consapevole del fatto che è necessario uno staff di livello per governare bene, o almeno meglio di quanto fatto da Giuseppe Conte e dai giallorossi nell’ultimo anno e mezzo. Una delle nomine ha però fatto storcere il naso a una certa parte politica: è quella di Antonio Funiciello, 45enne casertano che è il nuovo capo di gabinetto di Draghi. Tra l’altro aveva già ricoperto tale ruolo dal 2016 al 2018 per Paolo Gentiloni: laureato in filosofia, è scrittore e giornalista nonché professionista “d’area”, dato che ha a lungo collaborato con il Pd, ottenendo nel 2013 la delega per la Cultura e la Comunicazione del partito. Insomma, la sua nomina è in quota “rossa”, ma evidentemente per Draghi si tratta di un uomo di sicuro affidamento, avendo già ricoperto incarichi politici ed istituzionali. Non solo Funiciello, Palazzo Chigi ha formalizzato in giornata diverse altre nomine: Roberto Chieppa, riconfermato segretario generale; Carlo Deodato, capo del dipartimento degli Affari giuridici e legislativi; Giuseppe Chinè, capo di gabinetto del ministro dell’Economia; Dario Perrotta, capo di gabinetto del sottosegretario alla presidenza del Consiglio; Gaetano Caputi, capo di gabinetto del ministro del Turismo; Francesco Fortuna, capo di gabinetto del ministero delle Politiche agricole; Marcella Panucci, capo di gabinetto del ministero della Funzione pubblica. 

La nomina. Funiciello torna a Palazzo Chigi e Travaglio si infuria: i precedenti col Fatto Quotidiano. Aldo Torchiarosu Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Il governo Draghi prende forma, a partire da quelli che si chiamano “uffici di stretta collaborazione”. Mentre il premier lima il discorso programmatico che terrà per chiedere la fiducia a Palazzo Madama mercoledì e giovedì a Montecitorio, ecco che lo staff parte con il capo di Gabinetto. Un ritorno, quello di Antonio Funiciello, 45 anni, laureato in filosofia alla Federico II di Napoli: perché Funiciello era già stato a Palazzo Chigi, capo dello staff di Paolo Gentiloni dal 2016 al 2018. Da quella esperienza aveva tratto un gustoso insider sulla vita a Palazzo, “Il metodo Machiavelli”, pubblicato da Rizzoli, dove si trovano indicazioni su “Il dovere di proteggere il leader”, “la corte e i suoi problemi” e infine “l’adulazione, malattia mortale della leadership”. Ma Funiciello, una vita nelle segrete stanze dei Dem, prima con Enrico Morando, poi con Luca Lotti, infine legato a Gentiloni, non è un capo staff tecnico e tutti lo sanno. È un consigliere politico a tutto tondo. Le reazioni alla sua nomina non sono rituali: tra gli altri esulta il presidente dell’Emilia Romagna, Bonaccini, che detta alle agenzie il suo: “Buon lavoro, Funiciello”, seguito dal presidente dell’assemblea regionale della Campania, Oliviero. Non esulta il direttore del Fatto Quotidiano, che in questi giorni appare mogio per la dipartita di Conte. Funiciello – che ha pubblicato con il Foglio e con L’Espresso – non ama Marco Travaglio. E il dissapore ha un motivo preciso. Nel 2016 Funiciello era a capo dell’organizzazione dei Referendum di riforma costituzionale Renzi-Boschi. La campagna mediatica fu sperticata, per i sostenitori del No. E il referente del Sì mise mano ai dati degli osservatòri televisivi – quello di Pavia su tutti – per dimostrare la soverchiante presenza del Fatto a reti unificate. Non diversamente da quanto poi platealmente accaduto anche durante il Conte I e II. Funiciello, direttore di BastaunSì, mise mano a un robusto esposto all’AgCom e mal gliene incolse: Travaglio era pronto a impugnare la tradizionale penna a forma di clava. Il 4 novembre 2016 la intinge nel vetriolo: “Funichì?”, titola l’affondo. E parte: «Stremato dalla fatica e sgomento per la democrazia in pericolo, il Funiciello chiede all’AgCom di adottare tutte le misure necessarie per imporre l’immediato riequilibrio». Il suo ritorno a Palazzo Chigi non sarà accolto benissimo al Fatto, è facile immaginare. Ieri il quotidiano vicino al M5S intervistando Conte gli strappava la promessa di «rimanere impegnato in politica; ma ci sono molti modi per farlo». La decisione di Draghi di richiamare Funiciello blinda l’asse con il commissario europeo Gentiloni ed è un recupero della sobrietà da più parti auspicata. I consiglieri di Conte affilano le armi? Ne vedremo delle belle.

L'esperto di comunicazione. Chi è Antonio Funiciello, nuovo capo di gabinetto di Draghi: sarà l’uomo ombra del premier. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Laureato in Filosofia all’Università Federico II, giornalista pubblicista, autore di un due saggi di teoria e storia politica. E’ solo un parte del curriculum di Antonio Funiciello, 45enne casertano (nato a Piedimonte Matese), nuovo capo di gabinetto del presidente del Consiglio Mario Draghi. Esperto di editoria e comunicazione, Funiciello ha scritto per L’Espresso e Il Foglio, oltre ed esser stato l’autore dei saggi “Il politico come cinico” (2011) e “A vita” (2013). Lo scorso anno ha pubblicato per Rizzoli “Il metodo Machiavelli – Il leader e i suoi consiglieri: come servire il potere e salvarsi l’anima”. Funiciello ha già avuto incarichi politici e istituzionali: tra il 2016 e il 2018 è stato il capo staff del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Funiciello è un professionista “d’area”: a lungo ha collaborato col Partito Democratico, ottenendo nel 2013 la delega per la Cultura e la Comunicazione del partito.

LE ALTRE NOMINE – Queste invece le altre nomine formalizzate oggi: Roberto Chieppa, riconfermato Segretario Generale di Palazzo Chigi; Carlo Deodato, capo del Dipartimento degli Affari Giuridici e Legislativi; Giuseppe Chinè, capo di Gabinetto del Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco; Daria Perrotta, capo di Gabinetto del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Roberto Garofoli; Gaetano Caputi, capo di Gabinetto del Ministro del Turismo Massimo Garavaglia; Francesco Fortuna, capo di Gabinetto Ministero Politiche Agricole; Marcella Panucci, capo di Gabinetto ministero della funzione pubblica Renato Brunetta.

Da "il Messaggero" il 16 febbraio 2021. È Paola Ansuini il consigliere per la comunicazione del premier Mario Draghi. Ansuini è dal 27 luglio 2020 a capo del Servizio Comunicazione della Banca d' Italia. Assunta nel 1988, è assegnata all' Ufficio stampa dove rimane fino al 1997. Nel 1998 entra a far parte della carriera direttiva della Banca e viene assegnata, con il ruolo di vice capo, alla delegazione di Bruxelles dove è rimasta fino al 2000. Nel 2001 è rientrata a Roma presso l'Amministrazione centrale della Banca ed è nominata capo della Divisione Stampa. Dal 2006 al 2011 cura la comunicazione per il Presidente del Financial Stability Board ed è responsabile dei rapporti con la stampa internazionale in occasione dei vertici dei Capi di Stato e di Governo del G7, G8 e G20.

Roberto Mania per "la Repubblica" il 18 febbraio 2021. Niente (o quasi) social, niente gruppi su WhatsApp, niente storytelling. Poche parole legate sempre ai fatti. Come ieri, praticamente in tempo reale con l'inizio della seduta al Senato, l'invio ai giornalisti accreditati del testo del discorso del premier Mario Draghi. L'esordio - sottovoce - del nuovo stile di comunicazione voluto dall'ex presidente della Bce e affidato a Paola Ansuini, una carriera in Banca d'Italia. Dunque si cambia a Palazzo Chigi dopo la lunga e discussa stagione di Rocco Casalino, potente portavoce di Giuseppe Conte nella prima (gialloverde) versione e nella seconda (giallorossa). D'altra parte era stato lo stesso Draghi a indicare come avrebbe voluto la comunicazione dell'intero governo: parlare solo quando c'è qualcosa da dire. E questo sarà. Almeno a Palazzo Chigi. Come è sempre stato alla Banca centrale, com' è nelle istituzioni europee dove non si commentano mai i rumors e, certamente, non si creano. Con Ansuini ritorna una donna (quattro figli e una grande passione per Bach) a guidare la comunicazione della presidenza del Consiglio, prima di lei c'era stata Betty Olivi, portavoce di Mario Monti. Laurea in Scienze politiche alla Luiss, poi il concorso superato per entrare a Palazzo Koch. Fino al 2000 vice capo della delegazione di Bankitalia a Bruxelles. Il ritorno a Roma per coordinare, nel 2001, la campagna di informazione per l'introduzione della moneta unica. Poi lo scandalo per il tentativo di scalata della Popolare di Lodi su Antonveneta e il coinvolgimento dell'allora governatore Antonio Fazio. Alla Banca d'Italia arriva Draghi per rilanciare l'istituto e la sua credibilità. Alla guida della comunicazione sceglie Paola Ansuini. Il sodalizio continua.

 (ANSA il 16 febbraio 2021) Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi, ha nominato l'Ambasciatore Luigi Mattiolo suo Consigliere diplomatico e rappresentante personale/Sherpa per i vertici G7 e G20, a decorrere dalla data odierna. L'Ambasciatore Mattiolo è in carriera diplomatica dal 1981 e ha svolto le funzioni di Capo missione presso le sedi di Tel Aviv, Ankara e Berlino. Lo rende noto un comunicato della presidenza del Consiglio.

Chiara Rossi per startmag.it il 16 febbraio 2021. “La Cina con 206 miliardi di euro (dato del 2019) rappresenta ormai il primo partner in termini di interscambio commerciale e in tale ottica può essere letto l’impegno profuso negli ultimi giorni di Presidenza tedesca del Consiglio Ue per conseguire un’intesa di massima sull’accordo con la Cina in materia di investimenti (CAI)”. È quanto ha sostenuto di recente Luigi Mattiolo, consigliere diplomatico del presidente del Consiglio, Mario Draghi. L’ambasciatore Luigi Mattiolo sarà consigliere diplomatico e rappresentante personale/sherpa del presidente del Consiglio per i vertici G7 e G20, a decorrere dalla data odierna. L’ambasciatore Mattiolo è in carriera diplomatica dal 1981 e ha svolto le funzioni di Capo missione presso le sedi di Tel Aviv, Ankara e Berlino. Lo rende noto un comunicato della presidenza del Consiglio. Con l’incarico a Palazzo Chigi, per la seconda volta l’ambasciatore Luigi Mattiolo succede all’ambasciatore Pietro Benassi, consigliere diplomatico dell’ex premier Conte. La prima volta è nel 2018, quando Mattiolo è nominato ambasciatore d’Italia a Berlino, ruolo ricoperto fino a quel momento da Benassi dal 2014. Ma che cosa pensa Mattiolo di Germania, Usa c Cina? Ecco quello che di recente ha detto l’ambasciatore in una intervista. “Riguardo il ruolo della Germania nell’Ue, è importante sottolineare come durante il semestre di Presidenza tedesco – nella seconda metà del 2020 – sia stato raggiunto un fondamentale accordo per il nuovo Quadro Finanziario Pluriennale dell’Unione” ha dichiarato l’Ambasciatore Mattiolo. “In tale circostanza il Governo tedesco ha saputo dimostrare visione, lungimiranza e coraggio, comprendendo l’importanza di rafforzare la solidarietà europea, di raccogliere insieme risorse finanziarie per progettare il futuro dell’economia continentale attraverso il piano Ngeu e iniziando a rafforzare la leva di politica fiscale europea, da affiancare alla politica espansiva portata avanti senza esitazioni dalla Bce”. Per Mattiolo “la visione della Germania resta legata alle direttrici di politica estera definite dal Governo tedesco: coesione e sovranità europea, partenariato transatlantico, multilateralismo, promozione della democrazia e difesa dei diritti umani. Al contempo, a questi ambiti – che definirei tradizionali – della politica estera di Berlino, si affianca una crescente attenzione all’area indopacifica (che forma oggetto di una strategia ad hoc presentata nei mesi scorsi), al Sahel e al Nord Africa (ricordo in particolare la Conferenza di Berlino sulla Libia), nonché all’America Latina”. Non sono mancate le novità a Berlino in materia di finanza pubblica e politica economica. L’ambasciatore ha infatti evidenziato che “la pandemia ha inevitabilmente portato a una sospensione della regola del freno all’indebitamento previsto nella Costituzione. Il Governo e l’opinione pubblica hanno pienamente compreso la gravità della crisi e accettato il concetto di “borrow to spend” in una fase congiunturale difficile come non mai. Un dato particolarmente significativo emerso lo scorso dicembre – nel quadro dell’approvazione della Legge di Bilancio tedesca – è rappresentato dal livello di spesa pubblica (quasi 500 miliardi di euro) e di nuovo indebitamento per quasi 180 miliardi di euro, pari al doppio di quanto preventivato inizialmente, a testimonianza di quanto gli effetti della seconda ondata di pandemia siano stati avvertiti anche in Germania. Questa dinamica avrà riflessi anche sullo stock di debito pubblico nel 2021 (72,5% sul Pil rispetto al 59,5% del 2019), comunque inferiore al livello raggiunto nella crisi finanziaria (circa 82% nel 2010) e in traiettoria discendente già dal 2022 (nel 2024 il rapporto debito/PIL dovrebbe collocarsi sotto il 69%)”. Riguardo i rapporti con gli Stati Uniti, Mattiolo ha sottolineato che “la Germania ha accolto con evidente favore la vittoria di Biden alla Casa Bianca e ha enfatizzato i temi sui quali si prevede una forte convergenza politica tra le due sponde dell’Atlantico: il cambiamento climatico, il multilateralismo o la lotta alla pandemia. Restano sul tappeto una serie di questioni aperte in materia economica, politica e di sicurezza, ma certamente la relazione tra Berlino e Washington sarà prioritaria per il prossimo Governo tedesco, quale che sia la sua composizione”. Infine, l’ambasciatore si è espresso anche su Pechino. “La Cina con 206 miliardi di euro (dato del 2019) rappresenta ormai il primo partner in termini di interscambio commerciale e in tale ottica può essere letto l’impegno profuso negli ultimi giorni di Presidenza tedesca del Consiglio UE per conseguire un’intesa di massima sull’accordo con la Cina in materia di investimenti (CAI)”. L’ambasciatore Luigi Mattiolo è nato a Roma nel 1957. Dopo aver conseguito nel 1980 la laurea in scienze politiche presso l’Università di Roma, nel 1981 entra in carriera diplomatica e inizia il suo percorso professionale alla Farnesina alla Direzione Generale Emigrazione e Affari Sociali. Nel 1983 è nominato Secondo Segretario presso l’Ambasciata d’Italia a Mosca, incarico che ricopre fino al 1986, anno in cui è nominato Primo Segretario presso l’Ambasciata d’Italia a Berna. Dal 1988 al 1992 ricopre il ruolo di Primo Segretario all’Ambasciata Italiana a Belgrado. Per arrivare agli anni a noi più vicini, 1997 al 2001 ricopre l’incarico di Consigliere alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea in Bruxelles. Nel 2001 è nominato Primo Consigliere alla Rappresentanza permanente presso l’ONU in New York, incarico che ricopre fino al 2004. Nel 2004, dopo la nomina a Ministro Plenipotenziario, rientra in servizio alla Farnesina, presso la Direzione Generale per l’Integrazione Europea, con l’incarico di Corrispondente Europeo e Coordinatore delle attività inerenti alla Politica Estera e di Sicurezza Comune. Tra il 2005 ed il 2008 ricopre l’incarico di Ministro alla Rappresentanza Permanente presso il Consiglio Atlantico a Bruxelles. Nel settembre 2008 è nominato Ambasciatore d’ Italia a Tel Aviv, sede dove rimarrà per i successivi quattro anni. Nel 2012 rientra alla Farnesina come Direttore Generale per l’Unione Europea, incarico che ha ricoperto fino al febbraio del 2015. Nel 2013 è stato promosso al grado di Ambasciatore. Dal marzo 2015 al novembre 2018 è stato Ambasciatore d’Italia in Turchia. A fine 2018 è nominato Ambasciatore d’Italia a Berlino.

Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" il 16 febbraio 2021. Salvate il soldato Draghi. Perché a leggere gli osanna, le pennellate e i salamalecchi di questi giorni, sia pure accompagnati sul fronte opposto da selve di insulti e ironie, vengono in mente certe iscrizioni apologetiche tipo quella lasciata alla Porta al Serraglio di Prato: «Qui Giuseppe Garibaldi sottratto alle austriache insidie fermossi due ore la venseesima (sic) notte d' agosto del 1849...» Un capolavoro, tra 253 tonanti epigrafi censite nella sola Toscana. Figuratevi in tutta l' Italia. Anche Mario Draghi «fermossi due ore». Accadde «qualche anno fa, diciamo una trentina», alla trattoria «Sogni d'oro» a Monteverde, in Irpinia, paese d' origine di un pezzo della famiglia e la signora Elena, la cuoca, ha raccontato a una tivù locale di ricordare perfettamente che si sistemò con gli zii «a quel tavolo laggiù in fondo» e mangiò «una specialità particolare, cioè la braciola» che lì in paese è un involtino al pomodoro: «Draghi è una persona educata e umile e suo zio Fulvio ne tesseva le lodi ed era sicuro che il nipote avrebbe fatto carriera». Il cugino invece, che vive a Genova, viene sempre a mangiare i cavatelli». Ma sia chiaro: guai a chi pensi che Draghi sia l'ennesimo figlio di quella terra irpina che per Ciriaco De Mita ospitava «il 70% dell'intelligenza italiana» al punto che un giorno Napoli «si sarebbe chiamata Avellino Marittima». Manco il tempo che l'ex presidente della Bce venisse arruolato tra i romani romanisti tottiani cresciuti dall' istituto Massimo e sono saltati su i veneti, pronti a ricordare un altro pezzo della famiglia paterna strettamente legata a Padova e Venezia tanto da spingere il Gazzettino a salutarlo come «il primo veneto a Palazzo Chigi mezzo secolo dopo il vicentino Mariano Rumor». Ed ecco l' intervista a due gemelli amici d' infanzia, Gino e Giampaolo, l' uno oggi avvocato e l' altro docente universitario, coi quali il presidente del Consiglio condivise anni di vacanze estive in riva al Brenta e qualche puntata a pesca dalle parti di Chioggia. Per non dire del ricordo dei primi incontri di Mario con Serenella, sposata a Stra, «nella chiesetta di villa Morosini Antonibon Cappello» e subito omaggiata per lontani legami familiari come parente dei Medici di Firenze. Fino a qui, per carità, cronaca. Pedaggio scontato anche per chi, pur avendo da anni ruoli pubblici, ha sempre cercato di stare alla larga dalle copertine dei rotocalchi. Oddio, non che l' incursione nella vita privata sia una novità assoluta. Basti ricordare un libro che qualche anno fa raccontò d' una visita all' allora premier Silvio Berlusconi in Sardegna, dove il futuro governatore si presentò eroico «nonostante non potesse quasi camminare per il taglio profondo che si era fatto sugli scogli di Porto Rotondo, facendo diventare rosso di sangue un grande tratto di mare». Testuale. Roba che manco un capodoglio fiocinato...Tutto già visto.

Ricordate Carlo Azeglio Ciampi? «La zia Milla era tra le più impegnate in diocesi». «Ho donato al Presidente pasta di grano duro trafilata in ottone e mozzarella di bufala campana per ringraziarlo d' aver dato "un grande contributo a Napoli, apprezzando la tipicità della sua cucina"». «I lavoratori "rossi" del cantiere navale di Livorno suonano felici le sirene».

Silvio Berlusconi? «Silvio è uno chansonnier amabile, un fine dicitore con la pasta vocale di Frank Sinatra». «Segreterie e collaboratori si alternano, con diversi turni, mentre il Cavaliere sembra l' omino delle pile Duracell: chi scrive riesce a stento a girare lo zucchero nella tazzina del caffè, nello stesso tempo in cui il presidente di Forza Italia fa almeno tre cose».

Mario Monti? «La sua riservatezza è proverbiale, tanto che intervistato davanti a casa quando era in predicato per diventare il nuovo ministro dell' Economia al posto di Giulio Tremonti, rispose con un "no comment" anche alla domanda sul nome del suo golden retriever».

Il punto di partenza, per capire tanta devozione verso chi è al potere, devozione che non è neanche parente del rispetto e a volte è vissuta con sofferenza da chi è sommerso da elogi spropositati, come è nel caso di Draghi, resta un geniale sonetto di Trilussa: «Disse un Porco a la Quercia / "Tu sei grande, / forte e potente! / È tanto che t' ammiro!" / "Lo so" rispose lei con un sospiro / "è un pezzo che t' ingrassi co' le ghiande!"». Figuratevi se in ballo non ci sono ghiande ma 209 miliardi di aiuti europei. Più tutta una serie di interventi, distribuzioni di incarichi, accelerazioni invocati da decenni...Fatto sta che, da un paio di settimane in qua, si è letto di tutto. Che il nuovo premier non solo è meglio di Conte ma «ha più stile e, cinematograficamente, ha un volto molto cinematografico, da attore americano, interessante, affascinante», ideale come presidente Usa protetto da un bodyguard «come Jason Statham». Che è uguale identico a Clark Kent, che passa inosservato ma se vuole schizza nel cielo come Superman. Che ha una moglie «di origini aristocratiche e modi semplici» la quale un giorno, durante il G7 economico del 2017 a Bari, «accennò al ritornello di "Volare" di Modugno» ma tra gli applausi si schermì: «Non mi riprendete coi cellulari, mi raccomando. Mio marito ama molto la riservatezza». E poi che eccelleva nel basket tanto da venir premiato con «la retìna d' Oro». Che è un fondista provetto che nello jogging, accompagnato dal suo bracco ungherese, «trova un momento di evasione dagli impegni istituzionali» per pensare e «trovare soluzioni a problemi complessi» e insomma uno col «passo corto, lento e costante» così da correre la mezza maratona di Ostia arrivando nel 2005, cinquantottenne, al 4.131° posto «nell'apprezzabile tempo di 1h55'53"». Ed eccolo «pastore» in giacca e cravatta nel presepio napoletano di San Gregorio Armeno. Cliente con la moglie al supermercato nell' atto di spingere il carrello senza l' assistenza di uno schiavo nubiano. Amato al mercato rionale Pinciano dal pescivendolo Manuel fiero che lui gli abbia negato un selfie: «Sa, è molto riservato». Benedetto dalle suore Clarisse di Città della Pieve che lo vedono a messa e «pregano per lui»... Avanti così e, pur essendo mille miglia lontano dal Duce che ci teneva assai a mostrarsi mentre nuotava o cavalcava il suo destriero (che alla sua voce «nitriva in modo significativo»: testuale) lo stesso Draghi finirà forse per invidiare i tempi in cui Benito poteva arginare l' eccesso di lodi mandando al troppo servile direttore della Gazzetta del Popolo telegrammi come questo: «Moderi atteggiamento ultra-demagogico della Gazzetta che facendo attendere miracoli finisce per sabotare l' opera del governo».

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 16 febbraio 2021. Questi non parlano. Questi sì che sono seri. Si vede proprio che fanno parte del governo Draghi, il «governo dei competenti». Mica come la banda Conte-Casalino, con bozze di dpcm e interviste sbrodolate che uscivano da tutte le parti. Nei primi giorni del nuovo esecutivo, editorialisti e commentatori hanno ripetuto questa storia della religione del silenzio. Ancora ieri il Corriere della Sera faceva notare con compiacimento che il grosso dei ministri, Mario Draghi per primo, non ha neppure un profilo social. Speriamo che nessuno sia Tinder. Ma è bastato aspettare un paio di giorni per assistere al seguente spettacolo. Il consulente del governo per il Covid, Walter Ricciardi, auspica su tutti i giornali un lockdown pesante e divieto assoluto di sci. A metà pomeriggio di domenica, con i gatti delle nevi che già battono le piste, il ministro Roberto Speranza vieta le discese fino a quando c'è neve. Sollevazione dei presidenti di Regione del Nord e pronta velina in stile Casalino con Draghi che fa sapere di avere appoggiato la decisione del suo ministro (notizione!). Intanto, il ministro della Scuola, Patrizio Bianchi, incontra i giornalisti e sbaglia un congiuntivo e un verbo. E ieri, imperdibile intervista della renziana Elena Bonetti, ministro per le Pari opportunità, a Repubblica («Serve una nuova legge per le donne»). Mentre un'altra intervista apre a sorpresa la prima pagina del Messaggero: «Lockdown per un mese, questo governo ci ascolti». È ancora di Ricciardi. Dopo l'overdose di chiacchiere, arriva la promessa: «Comunicheremo le cose quando avremo raggiunto un risultato e il risultato lo raggiungeremo studiando». Sono parole consegnate a Repubblica dal solito Bianchi, che in 48 ore ha già parlato quasi quanto Draghi con sua moglie in tutti questi anni.

Marco Conti per “il Messaggero” il 19 febbraio 2021. Mentre è in corso il dibattito sulla fiducia, nel cortile di Montecitorio i deputati della larga maggioranza si incrociano, si mescolano e vanno a caccia di informazioni sull'ultimo tassello della squadra di governo: i nomi dei 38 sottosegretari e viceministri. La partita è nelle mani del sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli. 38 sono i posti disponibili, ma i tempi rischiano di allungarsi anche se il presidente del Consiglio Mario Draghi avrebbe voluto chiudere in settimana. I partiti sembravano aver accettato una ripartizione in percentuale che prevedeva, al Senato e alla Camera, al M5S il 27%, a Pd, Lega e FI il 20% e il 7% ciascuno a Iv e Leu. Tutto risolto o quasi. A rovinare l' algoritmo la scissione nei gruppi parlamentari del M5S che alla fine è stata più consistente del previsto e che potrebbe costringere i grillini a scendere ancora rispetto ai posti che avevano nel Conte2. Inoltre la faccenda si intreccia a quella delle Commissioni parlamentari dove in alcune i cambi sono imposti e in altre c' è da verificare i numeri della maggioranza e quanti gruppi di opposizione ci sono oltre a quello di FdI. I fuoriusciti dal Movimento potrebbero infatti riunirsi in un gruppo, a Montecitorio come a Palazzo Madama, e rovinare la festa a Fratelli d' Italia che avrebbe potuto pretendere la guida delle commissioni di garanzia. Comunque sia non sarà facile comporre il quadro anche perché i presidenti dovrebbero dimettersi spontaneamente e questo è sempre stato complicato. Il duello su sottosegretari cela anche la partita su chi detiene la maggioranza relativa nel neonato governo Draghi. Se in maggioranza ci fosse stata anche FdI, la partita era già chiusa a favore del centrodestra, ma la bilancia potrebbe nuovamente pendere a favore della destra a seguito dei sommovimenti grillini che ieri hanno spinto il reggente Vito Crimi a tirarsi fuori. Per la cerimonia a Palazzo Chigi c' è probabilmente da attendere la prossima settimana, anche se nei partiti lo scontro è in atto. Nel Conte2 il M5S aveva 14 sottosegretari e 6 viceministri, il Pd 11 e 4 viceministri, 2 sottosegretari Leu e uno Iv. Nel nuovo esecutivo Draghi occorre ora far spazio a Lega, FI, +Europa, Azione e Cambiamo. I 5S, che ieri hanno tenuto una riunione sul tema, sono in corsa Gianluca Perilli e Francesca Businarolo per il dicastero della Giustizia, Maria Pallini (Lavoro), Stefano Buffagni (Ambiente), Giancalo Cancelleri (Trasporti), Laura Castelli (Mef), Carla Ruocco (Mise), Paolo Sileri (Salute. Per la Lega corrono Stefano Candiani, Nicola Molteni (Interni), Luca Coletto (Salute), Edoardo Rixi (Trasporti), Giulia Bongiorno (Giustizia), Massimiliano Romeo che lascerebbe il posto da capogruppo a Centinaio. Per Forza Italia si parla di Valentino Valentini (Esteri), Francesco Paolo Sisto (Giustizia), Lucio Malan (Difesa), Andrea Mandelli (Salute), Marianna Li Calzi (Interno), Giorgio Mulè (Mise). Per +Europa in pole c' è Benedetto Della Vedova (Esteri). Al Pd c' è il nodo delle donne e in corsa sono Anna Ascani, Marina Sereni, Cecilia D' Elia, insieme a qualche uscente Mauri (Interno) Misiani (Mef), Martella (Editoria), Morassut (Ambiente).

Pd e grillini nel pallone, caos sui sottosegretari. Lista rimandata a lunedì. M5s perde pezzi (e posti). Guerriglia delle donne dem. Pressing sulla Cartabia per la prescrizione. Laura Cesaretti  Sabato 20/02/2021 su Il Giornale. L'ex maggioranza è nel pallone, e il premier Draghi ieri temeva di veder svanire la possibilità di ricevere in tempi umani la lista dei sottosegretari. Per questo ha convocato per lunedì un Consiglio dei ministri, onde far capire ai partiti che la ricreazione è finita e l'esecutivo va completato. La lista avrebbe dovuto essere pronta entro questo weekend, ma nel frattempo il Movimento Cinque Stelle si è dato fuoco, il Pd è in preda alla sindrome Lisistrata, con le donne sul piede di guerra contro la nomina di soli maschi nei ministeri, e quindi la definizione delle caselle minacciava di slittare sine die. A Palazzo Chigi si tengono alla larga dagli psicodrammi in corso «Sono problemi dei partiti, ci faranno sapere». Loro, giustamente, non si impicciano, tanto il governo la fiducia la ha avuta e il premier può cominciare a lavorare. Ma la fragilità di nervi dei rossogialli minaccia di ripercuotersi sui primi passi del governo. Se nel partito grillino regna il caos più totale, tra i Dem si affilano i coltelli per l'ennesima resa dei conti interna, con il segretario Zingaretti nel mirino e persino qualche padre nobile (nonchè aspirante quirinabile) come Prodi o Veltroni che lancia segnali di fumo per chiedere un cambio della guardia al Nazareno. A tenere banco, ufficialmente, è la questione femminile, che però serve anche come cortina fumogena per coprire lo scontro tra correnti. Le donne hanno chiesto nei giorni scorsi un confronto in una direzione ad hoc, per chiarire la linea e - soprattutto - per riservare i posti del prossimo giro di nomine, quello dei sottosegretari, in base al genere. Ieri la direzione è stata ufficialmente convocata per il 25 febbraio, giovedì prossimo. Fuori tempo massimo, dunque, per la questione dei posti di sottogoverno, a meno che i partiti non abbiano la meglio e la nomina slitti ancora. «Ovviamente fino al 25 febbraio nessuno preparerà liste di sottosegretari, vero?», dice polemica la parlamentare Chiara Gribaudo, in predicato come vice di Orlando al ministero del Lavoro ma sul piede di guerra: «Non accetterò incarichi finchè il Pd non riunirà la direzione per discutere di parità e del metodo di scelta della squadra di governo». Sulla stessa linea molte altre dirigenti, da Giuditta Pini e Titti Di Salvo. La Direzione Pd, però, arriverà probabilmente a babbo morto. Se la Atene dem piange, la Sparta grillina singhiozza senza freni dopo l'implosione con fuochi d'artificio di dissensi, accuse, insulti, voti contro Draghi, espulsioni e contestazione delle espulsioni. La prima vittima sacrificale è Vito Crimi, costretto a rinunciare all'agognata poltrona di vice-ministro alla Giustizia, cui aspirava disperatamente. Ma i suoi colleghi, dissidenti e non, gli sono saltati addosso accusandolo di lavorare solo per sè, mentre dovrebbe condurre le trattative per le poltrone di tutti. Sulla giustizia, terreno altamete minato, il Pd è sceso in campo per proteggere la delicata psiche grillina: avendo già lasciato sul terreno la salma del Guardasigilli, i Cinque Stelle non potrebbero reggere di perdere anche l'abolizione della prescrizione. Quindi si è cercata una mediazione che cancelli la riforma Bonafede ma senza dirlo, attraverso una delega al governo per modificarla. Resta da vedere se la ministra Cartabia terrà per sè la delicata questione o la delegherà a uno dei sottosegretari: sulla carta Valeria Valente per il Pd, Lucia Annibali per Iv, Sisto per Fi, e poi un grillino. I Cinque Stelle sono su tutte le furie a causa della questione femminile nel Pd: «Per colpa loro va a finire che almeno il 50% dei posti verrà assegnato a donne», si dispera un sottosegretario uscente alla ricerca di riconferma. Del resto i grillini pagheranno già un alto (e imprevisto) prezzo alle molteplici e confuse scissioni di questi giorni: le loro poltrone scendono da 13 a 11, a vantaggio degli altri partiti.

Ecco la lista dei sottosegretari e viceministri. Nominati 39 sottosegretari: Draghi indica il capo della Polizia Gabrielli per i Servizi.  Emanuele Lauria,  Carmelo Lopapa su La Repubblica il 24 febbraio 2021. Fra i grillini conferme per Sileri, Di Stefano e Cancelleri, entra Dalila Nesci con delega al Sud. Fuori Buffagni. Fra i dem il volto nuovo quello della senatrice Messina. Lega, torna Molteni agli Interni. I 5s contestano la nomina all'Editoria del forzista Mulè, che alla fine va alla Difesa. Dopo la lite fra i partiti e la sospensione del cdm, Il via libera alle designazioni. Mario Draghi rompe gli indugi e chiude con i leader della maggioranza la partita dei sottosegretari. Con un'accelerazione invocata dal premier e dal suo braccio destro Roberto Garofoli, i rappresentanti delle forze politiche che sostengono il governo hanno fatto pervenire oggi l'elenco dei nomi. Le designazioni sono così finite nell'ordine del giorno del consiglio dei ministri convocato per deliberare sui funerali di Stato per l'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi in Congo. Via libera dopo una lite fra i partiti.

La scelta più pesante l'ha fatta direttamente Draghi, che ha chiesto a Franco Gabrielli, capo della Polizia, di andare alla guida dell'autorità delegata ai Servizi segreti. Gabrielli ha accettato la nomina, entra nella squadra dei sottosegretari alla Presidenza, e lascia dunque l'incarico al vertice della Polizia che ricopriva dal 2016.

TUTTI I SOTTOSEGRETARI E I VICEMINISTRI - LA LISTA

Tra i 39 sottosegretari "politici" ci sono 11 esponenti M5s, 9 della Lega, 6 di Forza Italia, 6 del Pd, 2 di Italia viva, 1 Centro democratico, 1 +Europa, 1 Leu, 1 Noi con l'Italia. Lo sport resta un nodo da sciogliere: la delega, è stato spiegato, verrà assegnata successivamente.

Il puzzle più difficile quello dei 5 Stelle, alle prese con i desiderata di molti uscenti e la netta riduzione dei posti a disposizione. Confermati Giancarlo Cancelleri ai Trasporti, Alessandra Todde allo Sviluppo economico, Manlio Di Stefano agli Esteri, Pierpaolo Sileri alla Salute, Laura Castelli all'Economia. Carlo Sibilia agli Interni. New entry Rossella Accoto al Lavoro, Dalila Nesci (Sud), Anna Macina (Giustizia), Barbara Floridia (Istruzione) e Ilaria Fontana (Ambiente).

Per la Lega ecco il ritorno di Claudio Durigon e di  Gian Marco Centinaio, Rossano Sasso, Lucia Borgonzoni, Tiziana Nisini, Vannia Gava, Alessandro Morelli e Stefania Pucciarelli. La novità è la scelta di Nicola Molteni, il co-firmatario dei decreti sicurezza, che torna agli Interni: la sola ipotesi nei giorni scorsi aveva provocato forti malumori nel Pd e in Leu.

In Forza Italia ci sono Giorgio Mulè, Francesco Paolo Sisto, Gilberto Pichetto Fratin, Francesco Battistoni e Deborah Bergamini.  In quota Noi con l'Italia di Lupi entra Andrea Costa alla Salute.

Nel Pd entra a sorpresa la senatrice di Barletta Assuntela Messina, in una lista con molte donne: fra le altre Marina Sereni (Esteri), Simona Malpezzi (rapporti con il Parlamento) e Anna Ascani (dall'Istruzione al Mise), l'assessora regionale laziale Alessandra Sartore. L'ex ministro Enzo Amendola rientra come sottosegretario alle Politiche comunitarie fuori dall'elenco del Pd ma in quota "tecnica".

Per Italia Viva l'ex ministra Teresa  Bellanova e il ritorno di Ivan Scalfarotto, gli esponenti di governo renziani che dimettendosi hanno fatto cadere il Conte-bis.

Leu riconferma di Maria Cecilia Guerra nella squadra dei sottosegretari.

Poi i rappresentanti degli altri gruppi ci sono Bruno Tabacci (centro democratico), cui viene affidato il coordinamento della politica economica, e Benedetto della Vedova (+Europa)

Le nomine sono arrivate dopo una lite in cdm che ha costretto a una sospensione di tre quarti d'ora. Lorenzo Guerini ha manifestato la "difficoltà tecnica" di procedere con un solo sottosegretario, lamentando l'impossibilità di gestire il lavoro parlamentare e un ministero così complesso. I 5S hanno contestato l'ipotesi di affidare all'azzurro Giorgio Mulè la delega all'editoria. Nel mirino anche il nome del leghista Gian Marco Centinaio. Alla fine Mulè viene dirottato proprio alla Difesa, il ministero di Guerini, e le nomine si sbloccano. All'Editoria va un altro forzista, Moles.

Il governo si appresta dunque a partire con la squadra al completo. L'economista Carlo Cottarelli, già premier incaricato nel 2018, è stato chiamato dal ministro Renato Brunetta a collaborare ai lavori sulla semplificazione burocratica e la riforma della pubblica amministrazione. 

Ecco tutte le nomine:

Presidenza del consiglio

Deborah Bergamini, Simona Malpezzi (rapporti con il parlamento)

Dalila nesci (sud e coesione territoriale)

Assuntela Messina (innovazione tecnologica e transizione digitale)

Vincenzo Amendola (affari europei)

Giuseppe Moles (informazione ed editoria) 

Bruno Tabacci (coordinamento della politica economica)

Franco Gabrielli (sicurezza della repubblica)

Esteri e cooperazione internazionale

Marina Sereni – viceministro, Manlio Di Stefano e Benedetto della Vedova

Interno

Nicola Molteni, Ivan Scalfarotto, Carlo Sibilia

Giustizia

Anna Macina e Francesco Paolo Sisto

Difesa

Giorgio Mulè e Stefania Pucciarelli

Economia

Laura Castelli – viceministro, Claudio Durigon, Maria Cecilia Guerra e Alessandra Sartore

Sviluppo economico

Gilberto Pichetto Fratin – viceministro, Alessandra Todde – viceministro, Anna Ascani

Politiche agricole alimentari e forestali

Francesco battistoni e Gian Marco Centinaio

Transizione ecologica

Ilaria Fontana e Vannia Gava

Infrastrutture e trasporti

Teresa Bellanova – viceministro, Alessandro Morelli – viceministro, Giancarlo Cancelleri

Lavoro e politiche sociali

Rossella Accoto e Tiziana Nisini

Istruzione

Barbara Floridia e Rossano Sasso

Beni e attività culturali

Lucia Borgonzoni

Salute

Pierpaolo Sileri e Andrea Costa

Sarà successivamente designato il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Sport.

Concita De Gregorio ad Agorà: "I sottosegretari? Mai visti nomi così scadenti". Ma indica solo leghisti e forzisti. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2021. Eccoci alla rubrica "Concita De Gregorio alza il ditino". In questo caso la penna rossa alza il ditino ospite in studio ad Agorà, il programma del mattino in onda su Rai 3, dove commenta con toni tranchant la lista dei sottosegretari del governo Draghi partorita nella serata di ieri, mercoledì 24 febbraio, dopo lunghe e tribolate trattative. "Con la nomina dei sottosegretari secondo me dobbiamo seppellire definitivamente la definizione di governo dei competenti, ammesso sia mai stato vero", premette la De Gregorio. E ci sta, come considerazione. Peccato però che poi, quando entri nel dettaglio di questa argomentazione, spiega che tutto il peggio, ovviamente, sono quelli che a lei non piacciono: forzisti e leghisti. "Questo è un governo in cui Mario Draghi ha scelto 4-5 persone di sua fiducia per fare le due cose principali, vaccinazioni e Recovery. Quindi con l'eccezione di Gabrielli ai servizi di sicurezza e qualche luminosa personalità, per il resto... io non ricordo di aver mai visto una compagine così scadente - riprende la sua invettiva Concita -. Anche se poi i sottosegretari non hanno tutto questo potere... Scadente dal punto di vista della qualità politica, delle competenze. Terze, quarte, quinte file, addirittura ripescaggi da mondi che sembravano il passato remoto: l'avvocato di Berlusconi, la stratega della struttura delta Bergamini, il braccio destro di Salvini al Viminale (Mirko Molteni, ndr), Lucia Borgonzoni alla Cultura", sparacchia le sue sentenze a senso unico. E ancora: "Sono cose che danno il segnale esatto del fatto che studiare non serve a niente: si pensi a Teresa Bellanova puoi essere al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti anche se ti sei sempre occupata di altro". Insomma, nella lista dei cattivi, la De Gregorio non scorda di colpire neppure il nemico renziano. "Con l'eccezione di alcuni: forse Tabacci e Cottarelli possono contribuire al governo dell'Economia, forse Amendola. A parte qualche eccezione, sono tutte persone che non hanno niente a che fare con il compito che dovranno svolgere", conclude Concita che riesce nella mirabile impresa di non citare neppure un grillino. Solita storia, insomma. La cultura e la competenza sono prerogativa loro, di quella sinistra che si crede illuminata, di quella sinistra vittima di un atavico e insopprimibile e ingovernabile complesso di superiorità. Si pensi alle freschissime dichiarazioni di Sandro Veronesi, il quale ha commentato l'ipotesi, poi verificatasi, della Borgonzoni sottosegretario alla Cultura affermando che la Lega, con la Cultura, non c'entra nulla e che la Borgonzoni è "un rospo da ingoiare". Supponenza, ditino alzato e quella eterna vocazione a disprezzare il popolino. Ovvero, quella eterna vocazione alla sconfitta.

Le gaffe dei "nuovi" sottosegretari. Borgonzoni, Sibilia, Pucciarelli e Castelli: i nomi che imbarazzano “i migliori” di Draghi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Nelle prossime ore, al massimo giorni, sono attese inversioni a U spericolate nel sottogoverno Draghi. Dopo l’ufficialità dei 39 sottosegretari , quasi equamente divisi con 19 donne e 20 uomini,  l’analisi dei nomi fa spuntare fuori personaggi che in passato sono stati protagonisti di frasi avventante, gaffe e posizioni politiche di fatto incompatibili con l’attuale esecutivo guidato dall’ex numero della Banca centrale europea. Qualche esempio? Impossibile non partire da Carlo Sibilia, riconfermato sottosegretario all’Interno per il Movimento 5 Stelle, che nel febbraio 2017 definiva il ‘suo’ presidente del Consiglio un “bankster”, unione di banker e gangster, auspicando il suo arresto. Lo stesso Sibilia che sui social definì nel 2014 lo sbarco sulla Luna “una farsa”, ribadendo quattro anni dopo il concetto parlando di “episodio controverso”. Un curriculum che meritava sicuramente un premio nei meandri del sottogoverno. Non va meglio se si analizzano gli “scivoloni” social della senatrice leghista Stefania Pucciarelli, nuova sottosegretaria al ministero della Difesa guidato dal Pd Lorenzo Guerini. Furono proprio i Dem ad accusarla quando, nel governo Conte 1 a trazione giallo-verde, venne nominata presidente della Commissione diritti umani. Incarico che strideva con il ‘like’ messo ad un post su Facebook di un utente che scriveva così: “La prima casa agli italiani, agli altri un forno gli darei”. La Pucciarelli in quell’occasione fu costretta a scusarsi, definendo il ‘like’ frutto di una “distrazione”. Altra figura che stride col ribattezzato “governo dei migliori” di Draghi è quello di Lucia Borgonzoni. La leghista, ex candidata governatore dell’Emilia Romagna e già sottosegretaria alla Cultura nel primo governo Conte, ha ritrovato proprio quel posto con Draghi. “L’ultima cosa che ho riletto per svago è Il castello di Kafka, tre anni fa”, è la memorabile frase che pronunciò a Un Giorno da Pecora il 2 luglio 2018, ma durante la campagna elettorale in Emilia Romagna contro Stefano Bonaccini si rese protagonista di altre ‘perle’, disse infatti che la Regione confinava col Trentino, poi propose di tenere gli ospedale regionali “aperti di notte, di sabato e di domenica, come in Veneto”, cosa che ovviamente era già ampiamente funzionante. Tornano ai 5 Stelle, riconfermata come viceministro all’Economia Laura Castelli: di lei è impossibile dimenticare il siparietto con Pier Carlo Padoan a “Porta a Porta”. Mentre l’ex ministro dell’Economia parlava degli effetti sui mutui dell’aumento dello spread, la Castelli, all’epoca sottosegretario al Ministero dell’Economia, chiosò il suo ragionamento con un “questo lo dice lei” diventato col tempo un "meme politico".

Sibilia voleva arrestare Draghi. E il leghista Sasso cita "Topolino". Nell'infornata sono entrati tutti, anche voltagabbana come il grillino Di Stefano e il poltronaro da record Tabacci. Fabrizio Boschi - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. Ecco qua i sottosegretari, tutti da ridere. Come per i ministri, anche per i loro vice il governo Draghi ha usato il manuale Cencelli per accontentare un po' tutti i partiti della maggioranza a larghe intese che appoggia l'esecutivo. E questo sistema perverso ha prodotto situazioni a dir poco paradossali. Alcuni esempi, soprattutto tra i grillini, voltagabbana per eccellenza. Manlio Di Stefano, una volta riconfermato come sottosegretario agli Esteri, si è ben visto dal ricordare cosa pensava del governo Draghi appena venti giorni quando il deputato del M5s cinguettava contro quella «macelleria sociale» che era l'esecutivo di cui ora fa parte. Chissà poi se Carlo Sibilia, riconfermato sottosegretario all'Interno del M5S, quando incontrerà il premier Draghi gli chiederà scusa per quel tweet dell'11 febbraio 2017 (poi rimosso) in cui oltre a dargli del «bankster» (crasi di «banker» e «gangster») scriveva che «andrebbe arrestato» Poi c'è Laura Castelli, che dopo tre cambi di governo è ancora lì al suo posto al ministero dell'Economia. Draghi l'ha riconfermata come viceministra del Tesoro. Anzi ha fatto di più, perché se nel Conte bis la deputata M5s aveva dovuto condividere il suo ruolo con il senatore Pd, Antonio Misiani, ora il governo dei migliori, come l'ha ribattezzato il suo principale artefice Matteo Renzi, ha lasciato la Castelli unica viceministra. Un epilogo sconcertante viste le gaffe e le critiche di chi un tempo l'accusava e ora si trova a sostenere con lei lo stesso governo. E ancora. «Chi si ferma è perduto, mille anni ogni minuto». La citazione, riportata sul profilo del sottosegretario leghista all'Istruzione Rossano Sasso, doveva nel suo pensiero appartenere a Dante Alighieri. In realtà la frase era stata pronunciata da un Dante apparso su un albo di Topolino, risalente a più di settant'anni fa. E c'è poi anche chi come Sandra Zampa, esponente del Pd ed ex sottosegretaria alla Salute nel governo Conte II non è stata riconfermata da Draghi e ha appreso la notizia dalla stampa. Questa strampalata infornata di sottosegretari ha prodotto anche un altro curioso cortocircuito. A seguito della nomina di Daniele Franco a ministro dell'Economia e delle Finanze, la Banca d'Italia ha nominato direttore generale Luigi Federico Signorini. Lui che ha criticato anche reddito di cittadinanza e quota 100 sostenendo che non saranno misure in grado di sostenere il Pil e che due anni fa venne fortemente osteggiato dai Cinquestelle (e anche dalla Lega) quando venne promosso vicedirettore generale. Oggi se lo ritrovano numero due di via Nazionale e, dunque, favorito alla successione di Visco. E ci sono pure i grillini campani (la regione di Di Maio) che hanno avuto il coraggio di risentirsi per il fatto di essere stati sottorappresentati: mentre prima avevano diversi ministeri, ora solo un sottosegretario. Menzione speciale, infine, per il valoroso Bruno Tabacci, presidente di Centro democratico, nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ha cambiato circa sette partiti ed è ancora in corsa: ex Dc, ex Udc, poi in +Europa con la Bonino, l'uomo che ha messo in piedi i «responsabili» a sostegno di Conte oggi va a Palazzo Chigi. È lui il simbolo di questo «governo dei migliori» che dei migliori purtroppo in molti casi non è.

Dall'account twitter di Nonleggerlo il 25 febbraio 2021.

“Non leggo un libro da tre anni”

“Diamo un calcio in culo ai comunisti!”

“Con me ospedali aperti anche di notte e nei weekend”

“L’Emilia-Romagna confina col Trentino e l’Umbria?“ (...)

La leghista Lucia #Borgonzoni è la nuova sottosegretaria alla Cultura #governoDraghi

Il nome giusto? Lucia Borgonzoni non leggeva un libro “da tre anni”, ma Salvini la candida come sottosegretario all’Università. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. Per una persona che aveva ammesso senza particolari problemi che “l’ultima cosa che ho riletto per svago è Il Castello di Kafka, tre anni fa”, quale miglior posto nel nuovo governo Draghi se non quello di sottosegretario nel ministero dell’Università? Nel toto-nomi che si fa da giorni per i posti da sottosegretario, una questione politica che il presidente del Consiglio dovrà risolvere entro pochi giorni, circola anche quello di Lucia Borgonzoni, ex candidata leghista e del centrodestra alle scorse elezioni regionali in Emilia Romagna nel tentativo (fallito) di conquistare la storica “Regione rossa”. E dire che la Borgonzoni con la cultura ha avuto a che fare: la senatrice del Carroccio era stata sottosegretaria alla Cultura già in occasione del primo governo Conte, quello giallo-verde con Lega e Movimento 5 Stelle, e proprio in quell’occasione ammise le sue mancanze sui libri durante una intervista radio a "Un giorno da pecora". Ma l’elenco delle gaffe della Borgonzoni non si fermano qui. Da candidata leghista contro Stefano Bonaccini in Emilia Romagna disse infatti che la Regione confinava col Trentino, poi propose di tenere gli ospedale regionali “aperti di notte, di sabato e di domenica, come in Veneto”, cosa che ovviamente era già ampiamente funzionante. Una campagna elettorale in cui la senatrice leghista puntò molte delle sue fiches anche sulla strumentalizzazione politica della vicenda di Bibbiano, tanto da costringere di fatto il suo leader Matteo Salvini a “commissariare” la sua campagna, affiancandola costantemente. Secondo un retroscena del Corriere della Sera, la Lega punterebbe proprio sull’ex candidata alla presidenza dell’Emilia Romagna tra i nomi da proporre a Mario Draghi. Il Carroccio potrebbe spuntare tra le otto e le nove caselle: i preferiti di Salvini sarebbero Stefano Candiani (Interno), Massimo Bitonci (Economia), Lucia Borgonzoni (Cultura), Edoardo Rixi (Infrastrutture), Vanna Gavia (Transizione ecologica), Gian Marco Centinaio (Salute o Sport), Andrea Giaccone o Claudio Durigon (Lavoro).

Cosa abbiamo fatto di male per meritarci Lucia Borgonzoni sottosegretaria alla Cultura? Giulio Cavalli su Notizie.it il 25/02/2021. Mentre il mondo della cultura è fermo da un anno senza nessuna reale prospettiva, il "governo dei migliori" raccatta soggetti che erano stati già scartati. Eccolo qui il “governo dei migliori” che si svela passo dopo passo, ecco qui il materiale umano, culturale e politico che compone la sostanza di questa maggioranza talmente ampia da raccattare soggetti che erano stati già scartati dalle loro sconfitte, dalle loro figuracce e dalle gravi incompetenze che già sono state raccontate a lungo. Sia chiaro: ognuno fa la guerra con i soldati che ha a disposizione e il presidente Draghi non sfugge a questa regola ferrea nonostante qualcuno lo abbia dipinto come un taumaturgo che magicamente avrebbe risolto anche il problema della poca qualità della classe politica ma la scelta di accogliere in maggioranza partiti che già hanno mostrato le proprie miserie riabilita inevitabilmente mediocri personaggi che ritrovano spazio sulla ribalta. Così ci ritroviamo, estratti dal cesto della Lega, un sottosegretario all’Istruzione come Rossano Sasso che organizzava flash mob contro un immigrato definito “bastardo irregolare” che invece era innocente e una sottosegretaria alla Difesa come Stefania Pucciarelli che apprezzava su Facebook post in cui si invocavano i forni per gli stranieri e che ha sempre sventolato il suo razzismo. Ma il capolavoro della mediocrità è ovviamente Lucia Borgonzoni che finisce sottosegretaria alla Cultura come fu già per il primo governo Conte. Parliamo di un’esponente politica che già in occasione della sua prima nomina ebbe l’ardire di dire “leggo poco, studio sempre cose per lavoro. L’ultima cosa che ho riletto per svago ‘Il Castello di Kafka’, tre anni fa. Ora che mi dedicherò alla cultura magari andrò più al cinema e a teatro”, smuovendo già allora lo sdegno di chi invece con la Cultura ci vive e si aspetterebbe una classe dirigente all’altezza. Del resto non è un’eresia che la cultura per il partito di Salvini sia un oggetto misterioso che vale solo per l’ampiezza delle poltrone che si possono occupare, non avendo mai avuto un solo slancio sull’argomento che non fosse la prossima sagra del tortellino o la strumentalizzazione di qualche presepe. Ma Lucia Borgonzoni è anche la candidata presidente in Emilia Romagna che non conosceva i confini della regione che avrebbe voluto governare (parlò del Trentino come regione attigua, per dire) e che durante la campagna elettorale ebbe la brillante idea di tenere gli ospedali “aperti di notte, di sabato e di domenica, come in Veneto” per “difendere i più deboli” senza sapere che accade già così in tutta Italia. Fu la campagna elettorale della vergognosa strumentalizzazione dei fatti di Bibbiano e Borgonzoni si rivela talmente inadatta al ruolo di candidata che lo stesso Salvini dovette praticamente sostituirla in quasi tutti gli eventi pubblici. Perse, ovviamente, ma ora si ritrova un bel ruolo di rilievo nel governo nazionale nonostante avesse promesso agli emiliani romagnoli di restare in Regione anche in caso di sconfitta per “difendere i miei elettori”. Promessa ovviamente non mantenuta ma la memoria, si sa, è breve quando interessa le cose politiche. Eppure proprio da Draghi che sulle competenze si è sempre battuto si poteva aspettare almeno un cambio di passo dopo i mediocri sottosegretari alla Cultura che abbiamo visto in questi anni: siamo passati dal grillino Gianluca Vacca che voleva bloccare gli esperimenti nei laboratori del Gran Sasso perché “potenzialmente ad altissimo rischio” per la popolazione e che aggredì in aula violentemente Ilaria Capua e che in aula aveva “rettificato la rettifica” citando Aristotele precisando che non si trattava del giocatore del film di Lino Banfi; abbiamo avuto Dorina Bianchi che da sottosegretaria alla Cultura che preferì il Vinitaly (dove era presente anche l’azienda di famiglia) mentre avrebbe dovuto rappresentare l’Italia del turismo in occasione del T20 (l’annuale meeting dei 20 Paesi più industrializzati ed aderenti al G20 svoltosi lo scorso 17 aprile). Solo per citarne alcuni. Del resto il mondo della cultura e dello spettacolo è solamente “fermo” da un anno senza nessuna reale prospettiva dall’inizio della pandemia. Siamo proprio nel momento giusto per poterci permettere una sottosegretaria come Borgonzoni, no?

La nuova sottosegretaria all'Istruzione Barbara Floridia bocciata sulla scoperta dell'America. Le Iene News il 25 febbraio 2021. Stefano Corti e Alessandro Onnis avevano fatto domande di cultura generale americana ad alcuni politici in occasione dell’elezione del presidente Biden. Barbara Floridia, appena nominata sottosegretaria all’istruzione, era scivolata su Cristoforo Colombo. “Quando è stata scoperta l’America? Oddio adesso non mi fare dire… fermatevi un attimo perché non mi ricordo”. I nostri Stefano Corti e Alessandro Onnis in occasione dell’elezione del presidente Biden hanno fatto ad alcuni politici delle domande di cultura generale americana. Tra gli “interrogati” c’era anche Barbara Floridia (M5S), appena nominata sottosegretaria all’Istruzione del governo Draghi, che non era stata la sola a incappare in qualche gaffe. “Trump rappresenta il partito…? In che senso, scusi? Di che partito è?”. La risposta ovviamente è “Repubblicano” ma la senatrice, come vedete nel video qui sopra, preferisce rispondere con un giro di parole: “Beh, è di quel partito che rappresenta la destra. Un partito liberale…”. Corti e Onnis le fanno una domanda più diretta: “Quali sono i due partiti che si contendono la presidenza? Democratici e oddio adesso non mi ricordo l’altro”. Niente, il partito repubblicano proprio non le va giù. Barbara Floridia è in buona compagnia. L’altro sottosegretario al ministero dell’Istruzione, il leghista Rossano Sasso, sul suo profilo ha appena scritto: “Chi si ferma è perduto, mille anni ogni minuto. Cit. Dante Alighieri”. Peccato che la citazione non fosse di Dante, bensì di Topolino. Che ne penseranno gli studenti? Chiederanno un voto politico se sbaglieranno anche loro?

Da huffingtonpost.it il 25 febbraio 2021. “Chi si ferma è perduto, mille anni ogni minuto”. La citazione, riportata sul  profilo del sottosegretario leghista all’Istruzione Rossano Sasso, doveva nelle sue idee appartenere a Dante Alighieri. In realtà la frase era stata pronunciata da un Dante apparso su un albo di Topolino, risalente a più di settant’anni fa.

Si legge su Repubblica: “L’Inferno di Topolino”, si chiamava, era una serie di fumetti pubblicati fra il 1949 e il 1950 (con testo di Guido Martina e disegni di Angelo Bioletto) in cui Mickey Mouse personificava il poeta della Divina Commedia, con tanto di tonaca rossa. In una tavola lo si vede leggere una stele in pietra, su cui è incisa proprio la frase che dopo più di mezzo secolo è stata magicamente ed erroneamente attribuita a Dante ed è finita infine nel frullatore del web, riconducibile - secondo alcuni siti - al canto XV (dove, ovviamente, non ve n’è traccia). Sasso è uno degli otto segretari di schieramento leghista nel neonato governo Draghi. Insieme a lui: Lucia Borgonzoni ai Beni Culturali; Gian Marco Centinaio alle Politiche Agricole; Claudio Durigon al Mef; Vannia Gava sottosegretario alla Transazione ecologica; Nicola Molteni all’Interno; Alessandro Morelli viceministro alle Infrastrutture e Trasporti; Tiziana Nisini al Lavoro e Politiche Sociali; Stefania Pucciarelli alla Difesa.

Dagospia il 25 febbraio 2021. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”. Quella volta che Dalila Nesci, neo sottosegretaria al Sud, disse no alla Silvio Berlusconi, che voleva candidarla. Accadeva a Un Giorno da Pecora, su Radio1, nell'aprile del 2019, quando ai conduttori Nesci aveva spiegato: “Berlusconi? L'ho incontrato per caso, quando studiavo giurisprudenza a Reggio Calabria, avevo 23 anni. Ero andata ad un suo comizio per scriverci un articolo (la sottosegretaria è giornalista, ndr) ma incredibilmente è stato lui ad avvicinarsi, con la guardia del corpo, e a chiedermi una foto”. Il Cavaliere ha chiesto a lei una foto?” Si. Poi c'è stato uno scambio di battute sui problemi delle università del sud, dopo di che Berlusconi mi ha detto: "perché non ti candidi con la Casa delle Libertà". Ma io gli dissi di no: ancora non avevo un'idea politica chiara ma avevo già capito che il contesto di FI non era per me”. E' vero che Berlusconi le chiese il numero di telefono? “E' vero che mi chiesto dei contatti, ma non mi ha mai contattato”. E lei glieli ha lasciati? “Ho lasciato al suo bodyguard il numero di telefono di mio padre: su due piedi mi era parsa la soluzione migliore, non me la sono sentita di lasciare il mio, ero giovanissima.  Avevo 23 anni e mi sono regolata così”. Si è mai chiesta perché avesse scelto proprio lei? “Non so, forse perché ero giovane, le sarò risultata brillante e intraprendente”. Alla fine della stessa puntata, la neo sottosegretaria aveva anche raccontato di esser un'appassionata di Tarantella, un ballo tipico della sua regione, che aveva anche accennato in studio insieme ai conduttori.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2021. Già sottosegretario all' Interno del governo Conte 1 (gialloverde) e poi del Conte 2 (giallorosso), il deputato M5S Carlo Sibilia, 35 anni, di Avellino, ha ottenuto la riconferma pure nel governo di Mario Draghi. Resta al Viminale, malgrado i tanti post pubblicati in passato sui social contro l' ex presidente della Bce ma poi cancellati in tutta fretta. Gli rivolse perfino un «vaffa!» il 7 agosto del 2014. Poi l' 11 febbraio 2017 invocò addirittura le manette («Draghi ha dato il via al crack Mps. Andrebbe arrestato»), definendolo, in un altro tweet, un «bankster». Eppure lo stesso Sibilia - noto anche per ritenere «una farsa» lo sbarco sulla Luna - il giorno dopo che Mattarella conferì l' incarico a Draghi, disse così: «Sono contento che si stiano creando le condizioni per poter interloquire al meglio con Draghi per formare un governo politico». I tempi cambiano.

Carlo Sibilia, sottosegretario per sempre. di Mauro Munafò su L'Espresso il 25 febbraio 2021. Con ministro dell'Interno Salvini o con la ministra Lamorgese. Con la Lega, con il Pd o con Forza Italia. Con Conte 1, bis o con Draghi. Cambia tutto, ma la sua poltrona non cambia mai. Il grillino che proponeva il matrimonio tra “specie diverse” si trova bene con tutti. In effetti, Carlo Sibilia questa riconferma se la merita più di tutti. Il sottosegretario al ministero dell'Interno, nominato per la terza volta consecutiva, ha faticato non poco per evitare di fare gli scatoloni. Mentre gli occhi di tutti erano concentrati sulla crisi di governo e sulla pandemia, lui passava le sere a cancellare i tweet del suo passato in cui dava del gangster al neopremier Mario Draghi e a suo figlio o ne proponeva l'arresto. Probabilmente, per fare questa pulizia, si è anche perso lo sbarco di Perseverance su Marte: poco male, tanto Sibilia a questa storia dell'esplorazione spaziale non ci ha mai creduto. Beccato dal Foglio nell'opera di cura della sua web reputation, non si è scomposto più di tanto ed ha in effetti ottenuto quanto voleva: dal Viminale lui non se ne andrà. La carriera di Sibilia è quella che più di tutte mostra le varie fasi ed evoluzioni politiche del Movimento 5 Stelle, forse persino più degli alti e bassi di Luigi Di Maio. Sibilia, irpino classe '86, è un attivista della prima ora e come tale ha vissuto da protagonista anche tutti i momenti più naif e borderline dei pentastellati. È stato complottista quando andava di moda essere complottista, barricadero quando c'era da fare opposizione dura e pura, dirigente quando il non-partito doveva iniziare a farsi partito, governista quando c'era da sedersi nelle poltrone che contano. Sempre agganciato a chi comanda nei 5 Stelle, Grillo, Casaleggio o Di Maio che fossero. Entrato in Parlamento nel 2013, era già un mito nella base grillina. Alcuni mesi prima di sedere a Montecitorio, quando c'era ancora il blog di Beppe Grillo e non Rousseau, Sibilia proponeva online una legge per il (letteralmente): "Matrimonio omosessuale, di gruppo e tra specie diverse”. Con i seguenti dettagli: “Discutere una legge che dia la possibilità agli omosessuali di contrarre matrimonio (o unioni civili) , a sposarsi in più di due persone e la possibilità di contrarre matrimonio (o unioni civili) anche tra specie diverse purché consenzienti". Ma la lista di sue sparate tragicomiche dei suoi primi anni in Parlamento è quasi infinita, tanto che la sua voce Wikipedia, caso piuttosto raro, ha un capitolo “controversie” più lungo di quello della biografia. Tanto per fare una rapida rassegna, senza indugiare troppo per ragioni di imbarazzo, di Sibilia si ricordano affermazioni come: "Il Restitution Day è l'evento politico più rivoluzionario dagli omicidi di Falcone e Borsellino (2013)”, le dichiarazioni sull'allunaggio (2014): “Oggi si festeggia l'anniversario dello sbarco sulla luna. Dopo 43 anni ancora nessuno se la sente di dire che era una farsa...", o il messaggio in cui quasi celebrava il terrorista che ha sparato in Parlamento in Canada uccidendo due persone: “I politici spesso prendono a modello i governo del nord. Norvegia, USA e Canada. Eppure dov'è che hanno iniziato a sparare i politici... proprio in un paese come il Canada. Opera di un pazzo o di qualcuno che ha ritrovato la ragione?". Qualche anno fa le raccolse tutte Wil Nonleggerlo per l'Espresso, metti mai che il sottosegretario la notte provasse a cancellare pure queste. Acqua passata, ingenuità di gioventù. Sibilia nel frattempo ha scalato le gerarchie interne dei 5 Stelle (è stato nella prima cinquina del primo “direttorio”, insieme ai big Di Battista, Fico e Di Maio), responsabile per la scuola e l'università dei pentastellati e poi nel 2018 è diventato sottosegretario all'Interno con l'allora ministro Matteo Salvini, quello dei porti chiusi e della nave Diciotti. È stato riconfermato con altra maggioranza e altro ministro, Luciana Lamorgese. E adesso che non c'è più Conte, il triplete: terza volta sottosegretario all'Interno nel primo governo Draghi. Ma soprattutto ha imparato a non scrivere su internet tutto quello che gli frulla per la testa. Grazie a queste qualità, Sibilia è riuscito a stare al governo con la Lega e con il Pd, con Renzi e con Berlusconi. Chissà cosa ne penserebbe oggi di lui il Sibilia del 2013, quello che sul suo profilo Facebook dettava un personale decalogo per aderire al Movimento 5 Stelle. Rivediamone insieme alcune voci:

Berlusconi è politicamente finito grazie al Movimento 5 Stelle

Berlusconi è esistito perché nessuno gli si è mai opposto tranne il Movimento 5 Stelle

Il Pd è il miglior alleato di Berlusconi

Da 19 anni. 4bis. Il Pd non ha mai proposto una collaborazione di governo con il Movimento 5 Stelle 4ter. Meno male

Il Pd è peggio del PdL

Il nuovo Pd è peggio del vecchio Pd che è peggio del PdL

In parlamento non c'è più nulla di ciò che hai votato a febbraio...tranne il Movimento 5 Stelle

Renzi non è di sinistra

la sinistra e la destra in Italia non esistono, fanno affari insieme

Più che un decalogo di regole da tenere a mente, sembra la lista di tutte le giravolte fatte dai 5 Stelle negli ultimi anni.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2021. «Grazie al presidente Draghi, la soddisfazione è grande, ora c' è subito da mettersi a lavorare. Ma con molta serenità...». Poche parole dettate all' ufficio stampa della Lega, che però suonano già come un programma. Il deputato Nicola Molteni, 44 anni, di Cantù, torna a fare il sottosegretario all' Interno, ruolo che aveva ricoperto ai tempi del Conte 1. Ma allora al Viminale il ministro era Matteo Salvini. Adesso Molteni troverà Luciana Lamorgese, la ministra del Conte 2 confermata da Draghi. E contro di lei sui social Molteni si è schierato spesso. Un esempio: 2 settembre 2020, post su Facebook con grande foto di Lamorgese e titolo a caratteri cubitali («Bocciata!»). Porti chiusi, difesa dei confini, questa è sempre stata la linea. E ora? «Niente polemiche, serenità», ripetono dall' ufficio stampa.

"Lamorgese vergogna, abolisce i confini e difende i clandestini": così parlava Nicola Molteni, il nuovo sottosegretario all’Interno. L’esponente della Lega torna al Viminale, nonostante al suo vertice ci sia sempre la ministra che lui ha più attaccato da due anni a questa parte. Accusandola anche di difendere immigrati gay e omosessuali e invitando le procure ad indagarla. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 25 febbraio 2021. Non tutti conoscono i nomi dei nuovi sottosegretari. Così, spesso, per sapere qualcosa del pensiero, dell’attività, di chi è stato chiamati al governo del Paese la prima cosa che si fa, banalmente, è vedere  le sue pagine sui social. Specchio del Paese, specchio di chi le anima. E a vedere il social-pensiero del neo sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, parlamentare della Lega eletto a Cantù,  si resta a dir poco perplessi: perché se non sorprende una certa linea di pensiero copia conforme del leader fu sovranista Matteo Salvini («Porto Chiusi, immigrati clandestini, ci invadono ecc ecc»), colpisce che uno degli obiettivi preferiti di  Molteni sia stato, da due anni a questa parte, soprattutto la sua nuova superiore: la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Sul suo profilo Facebook non si contano i post contro la ministra. Il 21 novembre scorso, non proprio un’era geologica fa, rilanciava un articolo della Verità con la foto di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese, e scriveva: «La sinistra abolisce i confini italiani! Basta che un clandestino si dichiari gay o trans e rimarrà per sempre in Italia! Altra norma demenziale che dimostra ogni giorno di più l’odio della sinistra e dei grillini verso gli italiani. Espellere un clandestino sarà impossibile». Il velato riferimento ea a duna norma approvata in aula che vietava i rimpatri se l’immigrato aveva denunciato discriminazioni sessuali. Dopo l’approvazione del dl sicurezza, che ha rivisto i decreti Salvini, Molteni postava un’altra foto con la Lamorgese in primo piano e il seguente commento: «Italia in ginocchio, bar, negozi e ristoranti chiusi, cittadini senza lavoro e senza reddito. E la sinistra cosa fa? Una nuova sanatoria per avere più immigrati usati come schiavi togliendo il limite di ingresso nel nostro paese». Il 13 ottobre, sempre con una foto della Lamorgese in primo piano e dietro un barcone di migranti, Molteni scriveva: «Oltre 25 mila sbarchi, 10 mila tunisini, 3 mila minori stranieri, 5 navi traghetto pagate dagli italiani, tendopoli, alberghi e centri di accoglienza che distribuiscono migranti sui territori con pericolo per le comunità. Rivolte nei centri, migranti positivi Covid che fuggono dalle quarantene. Ma per il Ministro il problema sono tavolini e ristoranti, cancellare i decreti Salvini e approvare lo Ius Soli. Non lo permetteremo». Il 30 luglio chiedeva alle procure di indagare anche la «Lamorgese, perché ha lasciato pure lei gente in mezzo al mare». Il 26 ottobre ancora contro la Lamorgese: «Bavaglio social per i poliziotti e sfilata di Ong al Viminale, comprese quelle di Luca Casarini - noto insultatore delle Forze dell’Ordine - e di Carola Rackete, la tedesca che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Lamorgese non ha nulla da dire? È davvero tutto normale?», scriveva Molteni. Il capolavoro è che Molteni sia adesso alleato del governo Draghi con il centrosinistra. Qualche anno fa tuonava contro la «sinistra infame»: «Mi incazzo da morire, bus e tram gratis a profughi e clandestini e ai comaschi, causa tagli del governo Renzi, abbonamenti e ticket dei bus più cari. Chi sono i discriminati? Governo di sinistra infame». Oggi però Molteni ringrazierà Renzi e la sinistra «infame»: in fondo è grazie anche a loro se torna al ministero degli Interni da sottosegretario.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 12 marzo 2021. Oggi Valentina Vezzali sarà nominata sottosegretario allo sport, unica casella lasciata libera, per complicate ragioni che mettono in causa la vita stessa dell' intero comparto. L' idea, un pochino ingenua, sarebbe che in un governo mezzo "tecnico" e "dei migliori" la più grande campionessa di scherma di tutti i tempi, la più medagliata (16 ori mondiali, 13 europei, 3 alle Olimpiadi), la più riconosciuta all' estero e in patria dove fino a ieri ha fatto tante cose buone (l' ultima mettersi a disposizione per il progetto "Legend" di Sport e Salute), ecco, l' idea sarebbe di farla passare come una scelta appunto "tecnica", aggettivo che più ambiguo non ce n' è. Così, pur con la quasi certezza che difficilmente si rimpiangeranno i predecessori di partito Lotti e Spadafora, la scelta sembra rientrare piuttosto nel novero pop, per il format dei migliori. E qui la faccenda si fa doppiamente delicata perché da un lato l' odierna politica è, rispetto allo sport, tanto rapinosa quanto parassitaria; mentre dall' altro ecco che Vezzali, proprio perché grandissima campionessa, reca in dote quel che con sorriso, o un sospiro, o un' alzata di occhi, comunque si definisce "un bel caratterino". Accortezze e buon senso sconsigliano di calcare sul fattore femminile. Per quanto sconquassato, lo sport abbonda di campioni maschi scemi, bulli, viziati. Ma negli organismi collettivi la figura della Prima Donna è per sua natura problematica, divisiva. Per cui ci si limita a ricordare che quando nell' estate del 2015 Matteo Renzi (che quanto a tornaconti pop sapeva il fatto suo) era lì lì per promuovere Vezzali a ministro dello Sport, da quel mondo si registrò la classica levata di scudi con polemiche, lettere aperte e raccolte di firme. Le si rimproverava - e non è mai bello - di aver espresso opinioni sul matrimonio e la famiglia naturale, uomo e donna, tralasciando altre opzioni. Ma rivenne fuori anche il peccato di cui lei per prima, come ammise poi, avrebbe potuto fare a meno, specie perché non ne aveva bisogno. Il video di Porta a porta , settembre 2008, ancora fa ridere, ma anche un po' tristezza, più per come era stato allestito il siparietto che per la sua gravità. Nel quadro dei frequenti omaggi servili al Berlusconi vincitore (ma già in fregola galante) la si vede regalargli un fioretto con incisa una dedica. Si scherza e infine Vezzali esagera: «Presidente, da lei mi farei veramente toccare! ». Euforia maschile in studio mentre Vespa dilata l' infelice battuta: «In senso tecnico...». Non si ricorda qui l' immensa gloria sportiva del personaggio, la disciplina, le stoccate, la fragilità prima, un misto di angoscia e scaramanzia, e la ferocia vincente poi. A quei livelli, dopo tutte le emozioni regalate al pubblico, ci si può permettere tutto: portarsi il figlio sul podio, mettersi il cappellino con lo sponsor personale, sfilare in costume da bagno con tricolore, mettere all' asta la tuta olimpica, ballare sotto le stelle. Purché si continui a vincere, ed è così. Nel 2013 il professor Monti, l'uomo che ha incarnato l'alternativa a Berlusconi, fa pure lui la scelta pop e candida Vezzali che diventa onorevole di Scelta civica; ma lei rimane lei, cui ogni cosa è consentita, anche di rivelare che Monti è strasicuro di diventare presidente della Repubblica, che invece sarebbe la classica cosa da tenersi per sé. A Montecitorio c' è e non c' è, però propone l' inno in aula prima di ogni seduta, «dobbiamo essere più nazionalisti» spiega candida; ma soprattutto vince un altro oro. Quando appende il fioretto al muro ha molte strade davanti. Chi l' ha chiamata al governo deve sapere che le idee facili spesso sono difficili.

Fabrizio De Feo per “il Giornale” il 12 marzo 2021. L'ultima casella pesante ancora libera del governo sta per essere riempita. La scelta del presidente del Consiglio, che si era tenuto le competenze sullo sport, potrebbe essere ufficializzata oggi in Consiglio dei ministri. E tranne sorprese dell' ultimo minuto Mario Draghi punterà su Valentina Vezzali per l' incarico di sottosegretario alla Presidenza con delega allo sport, una «tecnica» che ha una carriera politica alle spalle, come deputata di Scelta Civica. L'indizio, sia pure attraverso una formula affilata, viene offerto in mattinata dall' ex ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, «In queste ore pare che possa esserci convergenza sul nome di Valentina Vezzali» dice a L' Aria che Tira su La7. «È una grandissima campionessa. Da qui a che possa fare bene il sottosegretario ce ne corre. Saper portare avanti la delega allo sport è un' altra cosa, se dovesse essere lei, vedremo se sarà in grado». La scelta pare che sia stata fatta dal premier che ha preferito un profilo identificato come il più possibile tecnico. La nomina della Vezzali va inevitabilmente a riaccendere la curiosità rispetto alla querelle sulla divisione di competenze del Coni voluta all' epoca del governo gialloverde, con una parte di risorse assegnati alla neonata società Sport e Salute e un conflitto tra Giancarlo Giorgetti e Giovanni Malagò. Valentina Vezzali è stata una delle più grandi schermitrici della storia. Ha vinto 3 volte l' oro olimpico nel Fioretto individuale (e sei ori olimpici in totale), un traguardo che in una disciplina individuale pochissimi hanno raggiunto nella storia dello sport, oltre a 16 mondiali e 13 europei. Portabandiera ai Giochi di Londra 2012, la Vezzali è una poliziotta, cura il settore giovanile della scherma delle Fiamme Oro. Negli ultimi tempi ha fatto parte del progetto Legend di Sport e Salute, in cui campioni del passato prestano servizio per alcuni progetti a favore degli sport di base e il 31 marzo avrebbe dovuto partecipare a un evento con altri campionissimi del passato. La sua probabile nomina fa scattare il plauso del presidente onorario della Federscherma Giorgio Scarso. «È una notizia che mi è giunta nel pomeriggio e auspico che non si tratti solo di voci: il mondo dello sport deve avere un riferimento. Sono felice che si tratti di un nome della scherma».

La campionessa nominata sottosegretaria. Da Spadofora a Valentina Vezzali, il Movimento 5 Stelle scopre finalmente lo sport. Massimiliano Cassano su il Riformista il 12 Marzo 2021. Dopo le parole dell’ex ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, che ammise candidamente di non aver mai approfondito questo ambito prima dell’esperienza di governo, finalmente lo sport torna in mano agli sportivi. Valentina Vezzali è stata nominata sottosegretaria alla presidenza del Consiglio con delega allo Sport. La fiorettista pluriolimpionica entrerà subito in carica, come ufficializzato in una nota delle deputate e i deputati del MoVimento 5 Stelle in commissione Cultura. “Confidiamo che una campionessa della sua statura, appassionata e profonda conoscitrice del mondo sportivo, si dimostrerà all’altezza di questo importante incarico”. La nomina arriva in un momento complesso per il settore, alle prese con la ripartenza dopo essere stato travolto dalla pandemia in tutti i suoi aspetti. “L’auspicio – prosegue la nota – è di lavorare proficuamente per dare le doverose, urgenti risposte che il settore dello sport attende dai ristori alle palestre e piscine, dai bonus ai collaboratori sportivi a un piano di riapertura di tutte le attività”. L’impegno in politica da parlamentare con Scelta Civica di Mario Monti, ha fatto parte della Commissione cultura, scienza e istruzione. Ma nel curriculum vanta anche sei ori olimpici, 16 mondiali, 13 europei. È stata portabandiera ai Giochi olimpici di Londra 2012, dove ha chiuso la carriera a cinque cerchi vincendo un oro a squadre. Nata e cresciuta a Jesi, nelle Marche, Valentina Vezzali ha scritto la storia della scherma italiana ed è una che di sport ne mastica non poco, avendo partecipando cinque volte ai Giochi. Dal 1999 è anche in forza al gruppo sportivo Fiamme Oro della Polizia di Stato, e nel 2016 è entrata nella Walk of Fame dello sport italiano. “C’era bisogno di un sottosegretario autorevole, indipendente e competente. Valentina Vezzali incarna queste caratteristiche e aiuterà il sistema sportivo a superare la crisi”, è il commento del presidente e amministratore delegato di Sport e Salute, Vito Cozzoli. “Il suo curriculum in pedana – aggiunge – insieme alla sua incredibile bacheca di medaglie rendono il sottosegretario Vezzali una campionessa d’oro, per l’Italia e per il mondo intero. L’appartenenza al Corpo della Polizia di Stato la renderà ancora più sensibile ai  valori che Sport e Salute è chiamata a promuovere”. La neo-sottosegretaria è chiamata da subito a una sfida cruciale: gestire i soldi del Recovery Plan per realizzare progetti a lungo termine che rilancino lo sport italiano, soprattutto a livello di impiantistica. Non è la prima volta che una medaglia d’oro olimpica assume la delega allo sport: toccò nel 2013 alla canoista Josefa Idem, che ebbe lo stesso incarico nel governo presieduto da Enrico Letta.

Valentina Vezzali sottosegretario allo Sport: dalla gaffe col Cav al record d’assenze alla Camera. Carlo Marini venerdì 12 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. La buona notizia è che lo sport ha finalmente un suo punto di riferimento al governo. Valentina Vezzali, olimpionica di scherma e già parlamentare di Scelta Civica, è il nuovo sottosegretario del governo Draghi. Se si considera il suo predecessore, la Vezzali parte avvantaggiata. Come è risaputo, Vincenzo Spadafora aveva candidamente ammesso di ignorare il settore fino al momento dell’incarico nel governo Conte. Dire quindi che l’esponente grillino non fosse amato dal Coni e dalle federazioni sportive è un eufemismo. La Vezzali ha dalla sua il palmares sportivo. Molto meno convincente, invece, il curriculum politico. La prima volta che il nome della campionessa jesina fu associato alla politica è per una gaffe epocale. Una frase da collocare ai livelli di “Ahi Ahi, signora Longari”, di Mike Bongiorno. Nel salotto di Bruno Vespa, la campionessa azzurra diede una lezione di scherma a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere fece una allusione sulla possibilità di “toccare”. Termine della scherma. A quel punto, la battuta di Valentina fu a metà strada tra il Bagaglino e Le relazioni pericolose: «Io da lei mi farei toccare…». Inutile ricordare le polemiche della sinistra che ebbe modo di polemizzare anche su questo e sulla Vezzali. Ci fu perfino una sorta di divisione degna di Bartali e Coppi. Margherita Granbassi fu arruolata nel programma di Michele Santoro, come campionessa della scherma di “sinistra”. In contrapposizione alla Vezzali, di “destra”.

Eletta con Monti, campionessa in Parlamento d’assenteismo. Ma le casacche cambiano in fretta. Arrivò Mario Monti che volle la Vezzali come testimonial dello sport, tra le candidate alla Camera. Lo sbarco a Montecitorio non è stato però dei più travolgenti. La Vezzali si è guadagnata la fama di “assenteista”.  Mario Giordano arrivò a registrare il 99,7% di assenze alle votazioni alla Camera. Un record quasi imbattuto. Ora il governo Draghi la ripesca dopo un periodo in cui era finita nel dimenticatoio (politico).

Dal Coni complimenti di prammatica. In queste ore, da una parte si registrano le congratulazioni di prammatica del presidente Malagò («Valentina Vezzali, l’atleta donna più vincente nella ultracentenaria storia dello sport italiano, rappresenta una scelta che il Coni applaude. Brava Valentina, tu sei la nostra storia e il Coni sarà sempre la tua casa!»). Dall’altra serpeggia in queste ore più di una perplessità su una figura che ha giganteggiato nella scherma, ma che nella politica ha già dato. E non ha dato il meglio. Insomma, dall'”incompetente” Spadafora alla plurimedagliata Vezzali il salto di qualità è più di forma che di sostanza. Come, del resto, la maggior parte delle misure adottate finora dal governo Draghi.

Draghi sceglie Gabrielli: un super-poliziotto alla guida dell’intelligence. Andrea Muratore su Inside Over il 25 febbraio 2021. Mario Draghi ha scelto il comandante della Polizia Franco Gabrielli come nuovo titolare dell’autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, sciogliendo così a poche settimane dall’inizio del suo mandato di governo il nodo intelligence che aveva accompagnato la fase terminale del governo Conte II. Niente riconferma, dunque, per l’ambasciatore Pietro Benassi, nominato nel ruolo da Conte a gennaio, e al contempo al fianco di Draghi per il coordinamento delle attività di intelligence è stata individuata una personalità da tempo esterna all’apparato dei servizi, contrariamente all’orientamento iniziale che si riteneva il premier avrebbe seguito, ma che conosce la materia avendo guidato il Sisde (dal 2007 Aisi) dal 2006 al 2008. Gabrielli, 61enne nativo di Viareggio, è stato scelto da Draghi dopo che il premier, nel presentare la sua squadra, aveva deciso in un primo momento di non procedere immediatamente alla nomina dell’autorità delegata. Le ricostruzioni parlano di un forte feeling professionale creatosi tra Draghi e Gabrielli nel corso del loro incontro del 15 febbraio scorso, nel corso del quale si è discusso delle minacce alla sicurezza pubblica e delle problematiche poste al Paese dalla crescita di incertezza e disagio sociale. Motivazione che ha spinto Draghi a conferire a Gabrielli un mandato molto esteso: al coordinamento dell’intelligence, infatti, Gabrielli sommerà l’incarico di consigliere di Palazzo Chigi per i problemi della sicurezza. Una scelta strategica, se si pensa che già a ottobre il presidente della Società italiana di intelligence Mario Caligiuri aveva rilevato un crescente rischio portato alla sicurezza nazionale dalla presenza di fenomeni di incertezza e di picchi di tensione sociale legati alle conseguenze della pandemia che andavano affrontati in maniera politica e non solo con la repressione delle loro manifestazioni più violente. Sotto il profilo politico-istituzionale, la scelta di Gabrielli da parte di Draghi mira a riportare nell’alveo la gestione dei servizi segreti abbassando le aspettative e la polemica interpartitica sul loro controllo e coordinamento. La fine dell’era Conte era stata accelerata sia dalla smania del premier di controllare con suoi fedelissimi gli apparati securitari sia dal malcelato intento dei partiti della maggioranza giallorossa di puntellare la casella dell’autorità delegata con un loro uomo. Nella difficoltà, Conte aveva tirato fuori dal cilindro il nome di alto profilo di Benassi, che è stato scelto troppo tardi per poter incidere sulla dialettica politica. Draghi sceglie una linea ben precisa: in primo luogo, individua per la carica di autorità delegata una figura extra-partitica come già avevano fatto prima di lui Silvio Berlusconi (con Gianni Letta), Mario Monti (che nominò il prefetto Gianni De Gennaro) e, appunto, Conte. Questo per ribadire la trasversalità del comparto d’intelligence nella definizione delle linee guida e degli obiettivi dell’interesse nazionale. Gabrielli, da indipendente, è uomo con una conoscenza degli apparati molto approfondita. proveniente dalla Digos, ha indagato negli Anni Novanta su diverse stragi di mafia (come quella di Via dei Georgofili a Firenze e quella di via Palestro a Milano), contribuito a strutturare dal 1996 il moderno Servizio centrale di protezione della Polizia criminale per tutelare pentiti di mafia e altri collaboratori di giustizia, contrastato le Nuova Brigate Rosse (Formiche ricorda il suo contributo nell’arresto dei responsabili degli omicidi di Massimo D’Antona, del sovrintendente della polizia Emanuele Petri e di Marco Biagi, nel 2003) e guidato, prima della nomina al Sisde, il Servizio Centrale Antiterrorismo del Viminale. Secondo punto importante, non è da sottovalutare il fatto che da indipendente, in ogni caso, Gabrielli ha lavorato fianco a fianco con diverse amministrazioni politiche e ha saputo interfacciarsi con esponenti istituzionali di diversi colori politici. La sua carriera al Ministero dell’Interno e al Sisde/Aisi ha attraversato sia il terzo governo Berlusconi che il secondo governo Prodi; durante il governo Berlusconi IV Gabrielli ha ricevuto nel 2009 l’incarico di prefetto dell’Aquila, ha gestito da vice del commissario Guido Bertolaso l’emergenza del sisma abruzzese dello stesso anno, ha ricevuto nel 2010 l’incarico di guidare il dipartimento della Protezione Civile, da lui gestito fino al 2015. Il governo Renzi lo ha nominato nel 2015 prefetto di Roma e nel 2016 comandante della Polizia, incarico in cui è stato riconfermato nel 2018 dal governo Gentiloni. In terzo luogo, nominando un esponente della Polizia Draghi assicura un fondamentale equilibrio di potere e rappresentanza ai vertici degli apparati di sicurezza e intelligence. Il direttore del Dis, Gennaro Vecchione, è esponente della Guardia di Finanza; ai vertici dell’Aise, il servizio estero, c’è un generale di corpo d’armata dell’Esercito, Giovanni Caravelli; l’Aisi, il servizio interno, è invece diretto da un esponente dell’Arma dei Carabinieri, Mario Parente. Con la nomina del super-poliziotto Gabrielli ad autorità delegata si chiude il cerchio e si manda un messaggio chiaro: i servizi e l’intelligence sono patrimonio comune della nazione e non oggetto di speculazione politica. Scegliere una figura trasversale come Gabrielli significa, dunque, chiedere una sostanziale normalizzazione: nelle settimane e nei mesi a venire, sarà bene sottrarre l’intelligence dalla partita politica di breve cabotaggio e assicurarle la riservatezza e la discrezione necessaria a condurre nel migliore dei modi analisi e lavori per prevenire i rischi che minacciano la Repubblica. Dal terrorismo alla rivalità tra le grandi potenze, dalla partita dei vaccini alla minaccia di scalate esterne alla nostra economia, i fattori di minaccia non mancano, ed è giusto che l’intelligence sia in trincea, senza distrazioni, per affrontarli.

DAGOREPORT il 25 febbraio 2021. Con l’arrivo di Franco Gabrielli, Gennaro Vecchione non sarà più l’arbitro della sicurezza nazionale. L’ex capo della polizia, per esperienza competenza e capacità, se lo mangia vivo. Il capo del DIS, il dipartimento che coordina l’Aise e l’Aisi, diventa solo uno che riferisce al nuovo sottosegretario con delega ai Servizi e alla Sicurezza nazionale, mentre prima era il premier Conte, che non sapeva dove mettere le manine, chiedeva al sodale Vecchione: “che fare?”. La prova che Gabrielli sia un’eminenza grigia del potere italico lo scrive oggi Bianconi sul Corriere: “Mario Draghi s'è insediato alla guida del governo sabato 13 febbraio, giorno del primo Consiglio dei ministri. Poi è trascorsa la domenica e lunedì 15 ha convocato il capo della polizia Franco Gabrielli. Uno dei primi incontri nell' agenda del premier…” (vedi articolo a seguire). Ora il destino vuole che a metà giugno scada il rinnovo di un anno, dopo quattro anni di mandato di direttore dell’Aisi (agenzia informazioni e sicurezza interna), di Mario Parente. E da ieri, alla notizia della nomina di Gabrielli, si rincorrono le voci che preconizzano un trasloco del generale dei carabinieri Mario Parente a direttore generale del DIS.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2021. Mario Draghi s' è insediato alla guida del governo sabato 13 febbraio, giorno del primo Consiglio dei ministri. Poi è trascorsa la domenica e lunedì 15 ha convocato il capo della polizia Franco Gabrielli. Uno dei primi incontri nell' agenda del premier, in cui s' è discusso di temi e problemi legati alla sicurezza e all' ordine pubblico, in un Paese in cui molte vicende legate ai Servizi segreti e alle tensioni sociali hanno segnato la storia nazionale. Questioni di prim' ordine, quindi; tanto più in tempi di crisi sanitaria ed economica. Da quel colloquio ha preso forma l' idea di trasferire Gabrielli dal Viminale a Palazzo Chigi, al fianco del presidente del Consiglio. Come autorità delegata agli 007, secondo quanto previsto dalla legge, ma anche nelle vesti di consigliere sui problemi della sicurezza. Una sorta di inedito doppio incarico, insomma, per un funzionario dello Stato che nella sua carriera ha sempre curato e privilegiato questi aspetti: da investigatore dell' antiterrorismo e di quella che un tempo si chiamava «polizia politica» alla guida del Sisde, il vecchio Servizio segreto civile; dal ruolo di prefetto in città diverse come L' Aquila e Roma al vertice della Protezione civile, fino al ruolo di capo della polizia, responsabile del Dipartimento della pubblica sicurezza. Ora arriva un ulteriore cambio di poltrona che da un lato lo riporta all' interno dell' intelligence , dov' era stato tra il 2006 e il 2008, e dall' altro lo colloca al fianco del capo del governo nella gestione di eventuali emergenze, ma pure sui temi più o meno ordinari connessi al comparto nel quale ha sempre lavorato. Un tecnico che ben conosce il mondo della politica accanto a un altro tecnico (di tutt' altro settore) chiamato a guidare un esecutivo che intende mantenere la qualifica di «governo politico». Già nel 2012, Mario Monti aveva affidato la delega ai Servizi a un ex capo della polizia come Gianni De Gennaro, che però nel frattempo era transitato al Dis, l' organismo di coordinamento tra Aisi e Aise; stavolta però il campo d' azione del neo-sottosegretario sembra allargarsi. E diventa ancora più importante in un periodo in cui il disagio sociale provocato dalla diffusione del Covid che si fatica ad arginare, e dalla conseguente crisi economica finora contenuta da provvedimenti tampone ed emergenziali, sembra sempre sul punto di esplodere. Già in passato - durante il lockdown della primavera scorsa, e successivamente con le misure restrittive dell' autunno - ci furono episodi che fecero temere per la tenuta dell' ordine pubblico. Con relative infiltrazioni a vari livelli. E in quelle occasioni Gabrielli ha sempre cercato di coniugare la necessità di controllare le piazze con l' esigenza di comprendere le ragioni delle lamentele o delle mobilitazioni. Tanto più di fronte alle reali difficoltà di intere categorie di lavoratori. Nei costanti contatti con la ministra dell' Interno Luciana Lamorgese, il capo della polizia non ha mai smesso di raccomandare interventi e indennizzi (effettivi) in grado di prevenire disordini che sarebbe stato complicato fronteggiare o reprimere. Poi gli scontri sono arrivati ugualmente, in autunno, con la nuova ondata della pandemia e le ulteriori restrizioni. In molti casi fomentati da chi con i veri motivi delle proteste aveva poco a che fare. «Non si escludono da parte di gruppi estremisti, ovvero di categorie di facinorosi, tentativi di strumentalizzazione che potrebbero orientare il malumore dei settori economici maggiormente colpiti verso forme più incisive e violente di manifestazione», scriveva Gabrielli a questori e prefetti d' Italia il 26 ottobre 2020. E si raccomandava: «La complessiva strategia di tutela dell' orine pubblico e della sicurezza collettiva postula, in fase preventiva, l' esigenza di conferire maggior impulso all' attività informativa volta a intercettare i segnali di disagio sociale cui andrà riconnessa la massima attenzione». Subito dopo veniva sottolineata la necessità di un' azione di polizia «sempre improntata a criteri di proporzionalità, in una prospettiva di bilanciamento tra il diritto di manifestare, l' esigenza di salvaguardia della salute collettiva e la necessità di contrastare con rigore atti di violenza». Sono criteri che possono essere traslati anche nelle nuove funzioni di un sottosegretario che si occuperà di Servizi segreti, ma non solo. La designazione di un' autorità delegata alla sicurezza nazionale da parte del presidente del Consiglio era diventata uno dei punti su cui s' è consumata la crisi del governo Conte 2. Matteo Renzi (ma anche altri, sia pure con minore nettezza) contestava all' ex premier di aver tenuto tutto per sé nei quasi tre anni trascorsi a Palazzo Chigi. Ma la delega è una facoltà concessa dalla legge, non un obbligo, e solo sul traguardo della sua esperienza governativa Conte l' ha esercitata designando l' ambasciatore Piero Benassi. Era il 21 gennaio. Un mese dopo arriva Gabrielli.

Carlo Bonini per "la Repubblica" il 25 febbraio 2021. Franco Gabrielli lascia la Polizia, di cui è stato capo per cinque anni, ed è dunque il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi. È una decisione che dice molto del metodo Draghi e dell'attenzione del Quirinale sulla tenuta di sistema da garantire al Paese in una fase delicatissima. È una decisione che promette di regalare agli apparati di sicurezza una serenità e una competenza sciaguratamente smarrite nel Conte1 e Conte2. Che impegna al vertice politico della sicurezza nazionale un uomo dal talento precoce, per anagrafe e capacità, dall'intelligenza inquieta, refrattario ai tartufismi e per questo dalla lingua affilata, volentieri ruvida nella sua sincerità, propria della terra di cui è figlio (la Toscana della costa, tra Viareggio e Massa). E dalla cultura democratica e riformista a cui non ha mai fatto mistero di appartenere. Un civil servant che, più di altri, da 12 anni a questa parte, è stato a ragione considerato e utilizzato come "Riserva della Repubblica". Nel 2006, quando a soli 46 anni, dopo 20 anni in Polizia, diventa il più giovane direttore di un Sisde (oggi Aisi) da riformare negli uomini e nelle prassi. Nei giorni del terremoto dell' Aquila, di cui viene nominato prefetto mentre la terra si apre (2009). Nel dopo Bertolaso (di cui era stato vice), quando, da capo dipartimento, è chiamato, tra il 2010 e il 2014, a ricostruire una Protezione Civile uscita stravolta dalla stagione berlusconiana. Legando il suo volto, tra l' altro, a quel gigantesco reality in mondovisione che furono le operazioni di recupero del relitto della Costa Concordia, un naufragio insieme materiale e simbolico di quella stagione del Paese. E ancora: nella stagione più cupa di Roma (2015) quando, da Prefetto, è per lunghi mesi il solo punto di riferimento istituzionale di una città politicamente decapitata dall' inchiesta "Mafia capitale". Prima di tornare alla "sua" Polizia nel 2016, per ricostruirne la cultura e un nuovo gruppo dirigente, resistendo alle insistenti sirene della politica che, a mesi alterni, lo avrebbero voluto ministro dell' Interno, piuttosto che sindaco di Roma. Già, la scelta di Gabrielli è tutt' altro che neutra. E non solo perché in Gabrielli si combinano le competenze che la lingua inglese felicemente distingue in "safety" e "security" (la prima, propria della protezione civile, la seconda, degli apparati). Ma perché Gabrielli non è un ottimate, ma un figlio del popolo. Al punto da confidare, ancora oggi, di avere un solo rimpianto. Aver negato per orgoglio e testardaggine a suo padre, autista di bus, la gioia di vederlo laurearsi in giurisprudenza a Pisa. Prima di entrare in Polizia ("il mio sogno") con la divisa del reparto celere, mentre i suoi compagni di corso sceglievano la politica e le piazze. In qualche modo, in una curiosa ma significativa nemesi, Mario Draghi sceglie quale figura chiave della sicurezza nazionale l'uomo che un ex grande capo della polizia come Antonio Manganelli (cui Gabrielli è stato legato da un rapporto fraterno) aveva indicato già nel lontano 2003 come un "predestinato". Cresciuto nella cultura riflessiva delle indagini antiterrorismo (l'ultima stagione del Br di Galesi e Lioce; la stagione post 11 settembre). Un uomo che è stato il "grande nemico" di Gianni De Gennaro, che di Mario Draghi fu compagno di scuola al liceo Massimo. Gabrielli è stato infatti il capo della Polizia capace, nel 2017, di fare quello che, per 16 anni, nessun capo della Polizia aveva avuto il coraggio di fare. Ammettere la catastrofe del G8 di Genova, assumerne, a nome della Polizia, la corresponsabilità storica, con uno strappo che avrebbe consentito a una nuova generazione di dirigenti di liberarsi da una maledizione che aveva impedito sin li che la cicatrizzazione della ferita potesse anche soltanto cominciare. La successione al Viminale di Gabrielli dirà se la sua "rivoluzione" avrà un erede capace di portarla a compimento. Tre i candidati. Il vicecapo Vittorio Rizzi, il vice capo vicario Maria Luisa Pellizzari (sarebbe la prima volta di una donna al vertice della Polizia) e il giovanissimo Lamberto Giannini, il dirigente in cui Gabrielli ha più volte confidato di vedere ciò che in un altro tempo Antonio Manganelli aveva visto in lui.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2021. «Come mi sento? Sono felice», prova a svicolare Angelo Borrelli, il capo della Protezione civile ormai uscente, nel giorno in cui il nuovo premier, Mario Draghi, ha appena deciso di richiamare in via Vitorchiano al posto suo Fabrizio Curcio, 55 anni, ingegnere, che il Dipartimento aveva già guidato dal 2015 al 2017 con Borrelli vice. Accelerare la campagna vaccinale, combattere con ogni mezzo la pandemia, questo ha detto Draghi sin dal primo giorno: «Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla Protezione civile, alle Forze armate, ai tanti volontari...». La Protezione civile, dunque, in prima linea anche per i vaccini. Perciò serviva un uomo adatto alle emergenze e Curcio lo è di sicuro. Chiamato alla Protezione civile nel 2007 da Guido Bertolaso, già l'anno dopo gli venne affidata la speciale sezione della gestione calamità: ed ecco l'alluvione di Messina, il terremoto dell'Aquila del 2009, quello in Emilia e poi nel 2012 il disastro della Costa Concordia, naufragata all'isola del Giglio, quando Curcio fece squadra con il capo della missione, Franco Gabrielli, che adesso ritrova a Palazzo Chigi nel ruolo strategico di sottosegretario ai servizi segreti e alla sicurezza. Tra i due c'era un'intesa fortissima già allora e proprio da Gabrielli, poi, Curcio ereditò il comando del Dipartimento, nel 2015, affrontando nel triennio in carica (durante i governi Renzi e Gentiloni) il sisma del centro-Italia e la tragedia di Rigopiano. Fino alle dimissioni presentate nel 2017 per motivi di salute. Oggi, però, anche quel problema personale per fortuna è superato e forse non è un caso che la nomina di Curcio abbia seguito di appena un giorno quella dell'ex capo della Polizia a sottosegretario alla Sicurezza. L'avvicendamento alla Protezione civile sembra il primo passo di una ristrutturazione, decisa dal governo, delle varie strutture che si occupano dell'epidemia da Covid 19. Tra gli osservati speciali ci sono adesso la governance del commissario Domenico Arcuri ma anche la composizione del Comitato tecnico scientifico (Cts), a cui Draghi ha già raccomandato nei giorni scorsi più moderazione nelle comunicazioni pubbliche. In realtà ieri Angelo Borrelli, l'uomo dei 55 bollettini consecutivi in diretta tv, l'anno scorso, da febbraio ad aprile, durante la prima ondata del coronavirus, c'è rimasto male («Alt, basta così, no comment»). Il suo mandato con la fine del governo Conte era ormai in scadenza, ma lui si aspettava la riconferma, che invece non è arrivata e anzi la notizia nel pomeriggio non gli è stata neppure comunicata direttamente dal nuovo inquilino di Palazzo Chigi. Per lui solo una nota, piuttosto stringata, con «i ringraziamenti per l'impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni». Con Curcio, comunque, nessun problema: «Siamo in ottimi rapporti, abbiamo passato una vita insieme», aggiunge Borrelli, che alla Protezione civile entrò nel 2002 e assieme allo stesso Curcio e ad Agostino Miozzo, oggi coordinatore del Cts, è stato uno dei fedelissimi di Guido Bertolaso. Da parte di Curcio, per ragioni di garbo istituzionale, aspettando l'insediamento che avverrà lunedì, per ora nessun commento. Funzionario di Stato di lungo corso, entra giovane nei Vigili del fuoco e già nel '97 dirige la colonna mobile del Veneto intervenuta per il sisma in Umbria e nelle Marche. Tre anni dopo, è ancora in prima linea a Roma per il Giubileo del 2000. Ma anche in questi ultimi anni non ha certo smesso di lavorare: nel 2018 coordina la cabina di regia di Palazzo Chigi nella Terra dei Fuochi, nel 2019 diventa responsabile di «Casa Italia», il Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio che guida il coordinamento dei soggetti istituzionali impegnati nel ripristino dei territori colpiti da eventi calamitosi. Suo il sistema di «omogeneizzazione delle linee di ricostruzione post-terremoto», là dove un tempo regnava l'anarchia più assoluta.

IL PREMIER DRAGHI NOMINA FABRIZIO CURCIO ALLA GUIDA DELLA PROTEZIONE CIVILE. Il Corriere del Giorno il 26 Febbraio 2021. Ha già ricoperto l’incarico dal 2015 al 2017 accanto a Guido Bertolaso, prende il posto di Angelo Borrelli . Nei prossimi giorni è atteso un parere tecnico del Comitato Tecnico Scientifico sulla situazione epidemiologica nelle scuole, richiesta dai governatori regionali alla luce della diffusione delle nuove varianti del Covid. A Palazzo Chigi si è tenuto ieri mattinata il Consiglio dei Ministri e successivamente una cabina di regia con il premier Mario Draghi ed alcuni ministri delle forze di maggioranza: Roberto Speranza, Stefano Patuanelli, Dario Franceschini, Maria Stella Gelmini, ed altri per fare il punto sul nuovo Dpcm che presto verrà inviato alle Regioni. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha nominato Fabrizio Curcio Capo Dipartimento della Protezione civile. “Ad Angelo Borrelli  i ringraziamenti per l’impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni” si legge in una nota di Palazzo Chigi. Fabrizio Curcio classe 1966, ha lavorato negli anni da funzionario del Corpo dei vigili del fuoco nel terremoto di Umbria e Marche del 1997, ha coordinato il corpo al Giubileo 2000 e al vertice di Pratica di Mare del 2002. Chiamato da Guido Bertolaso a dirigere dal 2007 la segreteria alla Protezione Civile. L’anno successivo nel 2008 passa alla guida della Sezione di Gestione di Emergenze: l’alluvione di Messina, quelle in Liguria e Toscana, il Terremoto dell’Aquila del 2009, quello in Emilia e la Costa Concordia fra i disastri gestiti. È già stato capo della Protezione Civile, dopo Franco Gabrielli, dall’aprile 2015 fino all′8 agosto 2017, quando ha rassegnato le dimissioni per ragioni personali.

Nei prossimi giorni è atteso un parere tecnico del Comitato Tecnico Scientifico sulla situazione epidemiologica nelle scuole, richiesta dai governatori regionali alla luce della diffusione delle nuove varianti del Covid. A portare all’attenzione del Governo la richiesta delle Regioni sono stati i ministri delle Autonomie e dell’Istruzione, Mariastella Gelmini e Patrizio Bianchi. Nei prossimi giorni quindi il Cts si esprimerà e darà un quadro sulla diffusione del Covid negli istituti.

Curcio va alla Protezione Civile. Chi è e perché Draghi lo ha scelto. Ha gestito in diversi ruoli alcune delle più gravi emergenze del Paese degli ultimi trent'anni: Fabrizio Curcio ora torna a capo della Protezione civile. Francesca Galici - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. Le prime indiscrezioni parlavano di una discussione all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri per la sostituzione di Angelo Borrelli. Al termine del vertice, invece, sembrava che non ci fosse stato modo di parlare della Protezione civile e che, anzi, non era da escludere la possibilità di riconferma. Invece, quasi a sorpresa, con una nota di Palazzo Chigi è stato annunciato l'arrivo di Fabrizio Curcio al posto di Angelo Borrelli, ringraziato in maniera formale per il lavoro svolto negli ultimi anni. Mario Draghi ha messo a segno il primo colpo nel suo progetto di riorganizzazione delle strutture per la gestione dell'emergenza coronavirus e non è da escludere che il prossimo obiettivo sia Domenico Arcuri, commissario straordinario tuttofare. Fabrizio Curcio è un uomo esperto, abituato a prendere decisioni e a lavorare in condizioni di forte stress. Lavora da tantissimi anni in veste di funzionario di Stato con ruolo sempre più decisivi. Classe 1966, è un ingegnere laureato alla Sapienza di Roma, con un Master in Sicurezza e Protezione. Ha già ricoperto il ruolo di capo della Protezione civile a partire dal 3 aprile 2015 e fino all'agosto del 2017, quando si dimise per motivi personali. Al suo posto venne nominato proprio Angelo Borrelli, già vicecapo dipartimento. Ha operato sul campo nella gestione di alcune delle più grandi emergenze degli ultimi trent'anni del nostro Paese, tra le quali il terremoto in Umbria e Marche nel 1997, quando in veste di responsabile della sezione operativa della colonna mobile dei Vigili del fuoco del Veneto ha fatto parte della spedizione per i soccorsi immediati nei luoghi maggiormente colpiti dal sisma. Nel 2000 ha organizzato il sistema di sicurezza per il Giubileo in veste di coordinatore dei Vigili del fuoco e due anni dopo ha svolto lo stesso lavoro per il vertice Nato di Pratica di Mare. Vista l'esperienza maturata sul campo e i successi ottenuti, nel 2008 viene messo a capo dell’Ufficio Gestione delle emergenze. È in questo ruolo che coordina i soccorsi per il terremoto de L'Aquila del 2009 e per quello dell'Emilia Romagna nel 2012. Ha fatto capo a lui anche la gestione del naufragio della Costa Concordia all'Isola del Giglio, in particolare ha gestito l’emergenza e le fasi di recupero e allontanamento della nave con incarico di Franco Gabrielli.

La Protezione civile si inceppa e cerca scuse Curcio contro i giornali. Come capo della Protezione civile, a partire dal 2015, è stato impegnato nella gestione dell'emergenza del terremoto di Amatrice del 2016 e poi per i terremoti successivi che si verificarono tra ottobre 2016 e gennaio 2017 tra Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio. Quelle operazioni, soprattutto nel periodo invernale, furono rese ancora più complicate dalle abbondanti nevicate che sommersero le zone colpite dal sisma. A seguito del terremoto di gennaio 2017 va anche aggiunta la frana che colpì l'hotel Rigopiano in Abruzzo, che rappresentò un'altra emergenza da gestire per Fabrizio Curcio. Nel 2018 ha seguito il "Protocollo d’intesa per un’azione urgente nella Terra dei fuochi".

Decisione di Draghi: ritorno dopo quattro anni. Chi è Fabrizio Curcio, il nuovo capo della Protezione civile: via Angelo Borrelli. Redazione su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Fabrizio Curcio è il nuovo Capo del Dipartimento della Protezione civile. La nomina è arrivata venerdì 26 febbraio da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi. Curcio, 55 anni, succede ad Angelo Borrelli cui fanno – si legge nella nota della presidenza del Consiglio – i ringraziamenti per l’impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni. Per Curcio si tratta di un ritorno al vertice della Protezione civile: il nuovo numero uno di via Vitorchiana aveva ricoperto l’incarico dal 2015 al 2017 quando si dimise per motivi personali lasciando il posto ad Angelo Borrelli il cui mandato è terminato con la fine dell’esperienza del governo Conte. Dopo due rinnovi, l’avvicendamento con Curcio. Una scelta voluta dal neo premier Mario Draghi intenzionato ad affidare il comando della Protezione Civile – in un momento così delicato per il Paese – a qualcuno che ne conoscesse bene il funzionamento. Classe 1966, laurea in ingegneria alla Sapienza di Roma, con i vigili del fuoco Curcio aveva lavorato in prima linea nel terremoto di Umbria e Marche del 1997 e coordinato il Giubileo del 2000 e il vertice Russia-Nato del 2002 a Pratica di Mare. Alla Protezione civile è arrivato nel 2007 con Guido Bertolaso, che lo chiamò come capo segreteria, per poi passare a dirigere la sezione emergenze. In prima linea, dunque, sul terremoto dell’Aquila del 2009 e il caso Costa Concordia (2012), nel 2015 Curcio era stato nominato alla guida del Dipartimento al posto di Franco Gabrielli, nominato capo della polizia. Nel suo mandato si è trovato ad affrontare il terremoto del centro Italia (Amatrice-Norcia-Visso) e la tragedia dell’hotel Rigopiano (gennaio 2017). Sempre nello stesso anno le dimissioni con una lettera all’allora premier, Paolo Gentiloni, in cui spiegava che “il ruolo di Capo del Dipartimento della Protezione Civile è unico, necessariamente assorbente e totalizzante per chi lo ricopre, dati tutti i rischi presenti sul territorio italiano e il complesso ma strepitoso Sistema di componenti e strutture operative che ruota intorno al Dipartimento stesso ” e che “tutte le energie devono essere dedicate a svolgere nel miglior modo possibile questa funzione senza soluzione di continuità, giorno e notte, h24 come diciamo in gergo. Purtroppo, per motivi strettamente personali, non sono più, in questo momento, nella possibilità di garantire il cento per centro della mia concentrazione e del mio impegno per continuare a ricoprire tale ruolo“. Il presidente del Consiglio ha ringraziato molto Curcio per il lavoro svolto in questi anni, “con una dedizione, una passione, una energia e una competenza straordinarie”.

Paolo Mauri per ilgiornale.it l'1 marzo 2021. Con due mesi di anticipo rispetto alla scadenza dello Stato di emergenza nazionale, e a più di due settimane dal compimento di un anno esatto della sua nomina, il commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19 Domenico Arcuri è stato sostituito dal generale di corpo d'armata Francesco Paolo Figliuolo. Arcuri era in carica dal 18 marzo 2020, ed il suo mandato, così come da legislazione vigente, sarebbe dovuto durare “fino alla scadenza dello stato di emergenza nazionale e delle relative eventuali proroghe” ovvero sino alla fine di aprile. Il generale Figliuolo, nato a Potenza nel 1961, frequenta l'Accademia militare e diventa ufficiale di artiglieria da montagna. Svolge le primissime esperienze di comando presso il gruppo artiglieria “Aosta” di Saluzzo (Cn), per divenirne comandante, nella sede di Fossano (Cn), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo. Successivamente diventa comandante del Primo reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, mentre dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di vice comandante della brigata alpina “Taurinense” per assumerne poi il comando sino all’ottobre del 2011. Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli ufficiali dell’Esercito, presso la scuola di applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito Nato, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di capo ufficio logistico del comando delle truppe alpine ed in seguito quelle di capo ufficio coordinamento del Quarto reparto logistico dello Stato maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di vice capo reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016. Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di capo ufficio generale del capo di Stato maggiore della Difesa, mentre il 7 novembre 2018 diventa comandante logistico dell’Esercito. Il generale può vantare esperienza internazionale in ambito militare. È stato infatti comandante del contingente italiano in Afghanistan nell’ambito dell’operazione Isaf tra l'ottobre del 2004 ed il febbraio del 2005 oltre a essere stato comandante delle Forze Nato in Kosovo tra il settembre 2014 e l'agosto del 2015. Il generale Figliuolo è anche autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa. Il governo Draghi quindi non perde tempo e fa una mossa che tutti si aspettavano per dare una svolta alla lotta contro la pandemia da Covid-19: sostituire il commissario Arcuri che è stato uno dei principali fautori dell'attuale (e inadeguata) campagna vaccinale. La scelta di un militare si pone nel solco di quella fatta proprio per la distribuzione dei vaccini: la gestione della filiera logistica è infatti in mano alle Forze Armate che già lo scorso dicembre avevano individuato nell'aeroporto militare di Pratica di Mare, nei pressi di Roma, l'hub nazionale di gestione e smistamento dei vaccini. Decisioni a dir poco scellerate, come quella di creare gli stand “primula” per la vaccinazione, con un costo non indifferente per l'erario, hanno sicuramente pesato sulla decisione di esautorare il commissario Arcuri. Il curriculum vitae del generale, poi, sembra adeguato al ruolo che gli è stato affidato avendo maturato una certa esperienza nella logistica, se pur militare. La sua nomina potrebbe anche essere indicativa di una svolta proprio in funzione dell'accelerazione della campagna vaccinale, ovvero una possibile “militarizzazione” delle vaccinazioni sfruttando gli assetti e le infrastrutture delle Forze Armate.

Ecco chi è il super generale per vincere la missione vaccini. Il generale sostituisce Arcuri come commissario per l'emergenza Covid. Un passato anche nelle missioni all'estero. Paolo Mauri - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Con due mesi di anticipo rispetto alla scadenza dello Stato di emergenza nazionale, e a più di due settimane dal compimento di un anno esatto della sua nomina, il commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19 Domenico Arcuri è stato sostituito dal generale di corpo d'armata Francesco Paolo Figliuolo. Arcuri era in carica dal 18 marzo 2020, ed il suo mandato, così come da legislazione vigente, sarebbe dovuto durare “fino alla scadenza dello stato di emergenza nazionale e delle relative eventuali proroghe” ovvero sino alla fine di aprile. Il generale Figliuolo, nato a Potenza nel 1961, frequenta l'Accademia militare e diventa ufficiale di artiglieria da montagna. Svolge le primissime esperienze di comando presso il gruppo artiglieria “Aosta” di Saluzzo (Cn), per divenirne comandante, nella sede di Fossano (Cn), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo. Successivamente diventa comandante del Primo reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, mentre dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di vice comandante della brigata alpina “Taurinense” per assumerne poi il comando sino all’ottobre del 2011. Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli ufficiali dell’Esercito, presso la scuola di applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito Nato, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di capo ufficio logistico del comando delle truppe alpine ed in seguito quelle di capo ufficio coordinamento del Quarto reparto logistico dello Stato maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di vice capo reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016. Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di capo ufficio generale del capo di Stato maggiore della Difesa, mentre il 7 novembre 2018 diventa comandante logistico dell’Esercito. Il generale può vantare esperienza internazionale in ambito militare. È stato infatti comandante del contingente italiano in Afghanistan nell’ambito dell’operazione Isaf tra l'ottobre del 2004 ed il febbraio del 2005 oltre a essere stato comandante delle Forze Nato in Kosovo tra il settembre 2014 e l'agosto del 2015. Il generale Figliuolo è anche autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa. Il governo Draghi quindi non perde tempo e fa una mossa che tutti si aspettavano per dare una svolta alla lotta contro la pandemia da Covid-19: sostituire il commissario Arcuri che è stato uno dei principali fautori dell'attuale (e inadeguata) campagna vaccinale. La scelta di un militare si pone nel solco di quella fatta proprio per la distribuzione dei vaccini: la gestione della filiera logistica è infatti in mano alle Forze Armate che già lo scorso dicembre avevano individuato nell'aeroporto militare di Pratica di Mare, nei pressi di Roma, l'hub nazionale di gestione e smistamento dei vaccini. Decisioni a dir poco scellerate, come quella di creare gli stand “primula” per la vaccinazione, con un costo non indifferente per l'erario, hanno sicuramente pesato sulla decisione di esautorare il commissario Arcuri. Il curriculum vitae del generale, poi, sembra adeguato al ruolo che gli è stato affidato avendo maturato una certa esperienza nella logistica, se pur militare. La sua nomina potrebbe anche essere indicativa di una svolta proprio in funzione dell'accelerazione della campagna vaccinale, ovvero una possibile “militarizzazione” delle vaccinazioni sfruttando gli assetti e le infrastrutture delle Forze Armate.

Al posto di Arcuri.  Chi è Francesco Paolo Figliuolo, il generale nominato da Draghi commissario all’emergenza covid. Antonio Lamorte Libero Quotidiano l'1 Marzo 2021. Finisce l’era Arcuri e comincia l’incarico di Francesco Paolo Figliuolo. Il generale dell’esercito è stato nominato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi Commissario straordinario all’emergenza covid-19. A farlo sapere una nota di Palazzo Chigi. Figliuolo è lucano, originario di Potenza, comandante logistico dell’Esercito. È nato nel Capoluogo della Basilicata l’11 luglio del 1961. Da anni torinese di adozione, con la moglie Enza e i figli Salvatore e Federico. Ufficiale di artiglieria da montagna, ha svolto le prime esperienze di comando presso il Gruppo Artiglieria “AOSTA” in Saluzzo (CN), per divenirne Comandante, nella sede di Fossano, Cuneo, negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo, nell’enclave serba di Goradzevac (Pèc). E’ stato Comandante del I Reggimento di artiglieria da montagna di Fossano e Vice Comandante della Brigata “TAURINENSE” per assumerne, senza soluzione di continuità, il Comando sino all’ottobre 2011. Alle esperienze ha alternato esperienze nei campi di formazione base e avanzata degli Ufficiali dell’Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, “della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito NATO, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell’Esercito”, come si legge sul sito dell’esercito. Ha assunto gli incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e Capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016. Fino al novembre 2018 è stato Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Dal novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito. È stato impegnato in diverse operazioni militari nello scacchiere internazionale: in Afghanistan, nell’ambito dell’operazione ISAF dall’ottobre 2004 al febbraio 2005; e in Kosovo da diciannovesimo Comandante delle Forze NATO in Kosovo dal settembre 2014 all’agosto 2015, nella stessa area di crisi che lo aveva visto impegnato da Comandante della Task Force “Istrice” in Goradzevac e, precedentemente, nel ’99, nell’ambito dell’organizzazione logistica del Comando NATO-SFOR in Sarajevo. Figliuolo è stato insignito delle onorificenze di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, della Croce d’Argento al Merito dell’Esercito, della Croce d’Oro al Merito dell’Esercito. Palazzo Chigi esprime gratitudine per l’operato e la dedizione nello svolgimento del suo compito a Domenico Arcuri mentre esulta Matteo Salvini, il segretario della Lega, come plaude alla nomina sia Italia Viva con la voce del leader Matteo Renzi che Forza Italia attraverso il vice presidente Antonio Tajani.

Covid: Figliuolo dal 2018 è comandante logistico esercito. (ANSA l'1 marzo 2021) Il generale Francesco Paolo Figliuolo, nominato da Draghi nuovo commissario all'emergenza Covid, è originario di Potenza, ha maturato esperienze e ricoperto molteplici incarichi nella Forza Armata dell'Esercito, interforze e internazionale. Ha ricoperto l'incarico di Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell'Esercito. In ambito internazionale ha maturato esperienza come Comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell'ambito dell'operazione ISAF e come Comandante delle Forze Nato in Kosovo (settembre 2014 - agosto 2015). Il generale Figliuolo è stato insignito di numerose onorificenze. Tra le più significative la decorazione di Cavaliere dell'Ordine Militare d'Italia, la Croce d'Oro ed una Croce d'Argento al Merito dell'Esercito e Nato Meritorius Service Medal. Francesco Paolo Figliuolo, ecco il curriculum del generale che sostituirà il commissario Arcuri.

Da startmag.it l'1 marzo 2021. Ribaltone al vertice della struttura commissariale anti Covid. Domenico Arcuri è stato silurato dal governo e al suo posto il premier Mario Draghi ha nominato un generale: Francesco Paolo Figliuolo. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha nominato il Generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo nuovo Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19. “A Domenico Arcuri i ringraziamenti del Governo per l’impegno e lo spirito di dedizione con cui ha svolto il compito a lui affidato in un momento di particolare emergenza per il Paese”, si legge nel comunicato stampa della presidenza del Consiglio che ha dato conto della nomina del generale Figliuolo al posto di Arcuri. La sostituzione, molto prima della scadenza naturale del mandato di Arcuri che sarebbe scaduto ad aprile, segna di fatto una svolta decisa rispetto all’impostazione della gestione dell’emergenza pandemica da parte del governo Conte 2 che aveva affidato ad Arcuri l’intera impalcatura emergenziale. ECCO IL CURRICULUM UFFICIALE DI FIGLIUOLO

Il Generale Francesco Paolo FIGLIUOLO ha maturato esperienze e ricoperto incarichi molteplici e diversificati, in ambito Forza Armata Esercito, interforze e internazionale.

Ufficiale di artiglieria da montagna, svolge le primissime esperienze di comando presso il Gruppo Artiglieria “AOSTA” in Saluzzo (CN), per divenirne Comandante, nella sede di Fossano (CN), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo, nell’enclave serba di Goradzevac (Pèc).

Comandante del I Reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di Vice Comandante della Brigata “TAURINENSE” per assumerne, senza soluzione di continuità, il Comando sino all’ottobre 2011.

Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli Ufficiali dell’Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito NATO, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e Capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016.

Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, in un momento di fondamentale trasformazione delle Forze Armate in chiave interforze. Dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito.

Di rilievo l’esperienza internazionale quale Comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell’ambito dell’operazione ISAF (ottobre 2004 – febbraio 2005) e quella diciannovesimo Comandante delle Forze NATO in Kosovo (settembre 2014 – agosto 2015), nella stessa area di crisi balcanica che lo aveva già visto impegnato agli inizi degli anni 2000, quale Comandante della Task Force “Istrice” in Goradzevac e, precedentemente, nel ’99, nell’ambito dell’organizzazione logistica del Comando NATO-SFOR in Sarajevo.

Nato e cresciuto a Potenza prima di entrare in Accademia Militare, il Generale FIGLIUOLO vive a Torino con la moglie Enza ed ha due figli: Salvatore e Federico. Appassionato di lettura e sport, pratica nuoto e sci di cui è istruttore militare.

FORMAZIONE E TITOLI DI STUDIO

Nella sua carriera, il Generale FIGLIUOLO ha conseguito i seguenti titoli di studio:

− Diploma di laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Salerno;

− Diploma di laurea in Scienze Strategiche e relativo Master di 2° livello presso l’Università di Torino;

− Diploma di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste.

Il Generale FIGLIUOLO ha frequentato:

− il 119° Corso Superiore di SM, il 3° Corso Superiore di SM Interforze ed il 92° Senior Course presso il NATO Defence College in Roma;

− il corso di Alta Formazione “Ingenio vi virtute” presso l’Università degli studi Link Campus in Roma.

− altresì autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa (Informazioni della Difesa dello Stato Maggiore Difesa e Rivista Militare dell’Esercito Italiano).

ONORIFICENZE

Il Generale FIGLIUOLO è stato insignito di numerose onorificenze. Tra le più significative:

− Decorazione di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia;

− Croce d’Oro ed una Croce d’Argento al Merito dell’Esercito;

− Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana;

− NATO Meritorius Service Medal;

− Croce d’Oro d’Onore della Bundeswehr;

− Legion of Merit degli Stati Uniti d’America.

− Croce d’oro al merito dell’Esercito

Cenni storici e normativa dell’onorificenza. Colonnello. Data del conferimento: 13/06/2007

motivazione: “Ufficiale superiore dl indiscusso valore, dotato di pregevoli qualità etico militari e di una preparazione professionale di primissimo ordine il Col. Figliuolo ha assolto l’impegnativo incarico di rappresentante militare dell’autorità nazionale e comandante del contingente nazionale in afghanistan, con eccezionale razionalità e concretezza, evidenziando costantemente indubbie doti dirigenziali. In un contesto operativo ed ambientale estremamente difficile caratterizzato da elevato rischio terroristico e durissime condizioni climatiche, ha affrontato e portato a termine brillantemente numerose e delicate attività operative, mettendo in luce una magistrale capacità di guida del suo staff ed una efficace e lungimirante azione di comando nei riguardi dei suoi uomini che lo hanno sempre seguito con entusiasmo e convinzione. Animato da straordinaria motivazione e fortissima determinazione, ha saputo imporsi nel variegato contesto multinazionale quale autorevole e disponibile interlocutore, calibrando la sua azione all’assolvimento del mandato ed alla salvaguardia degli interessi nazionali e della sicurezza del personale dipendente. Di particolare rilevanza e valenza sono risultate le molteplici attività volte a garantire sicurezza nell’area di responsabilità, le numerose iniziative intraprese nel settore dei concorsi a carattere umanitario forniti alla martoriata popolazione locale e la fattiva collaborazione a favore del neo costituito governo afgano, che. Hanno accresciuto la stima ed il rispetto per il contingente nazionale e favorito il raggiungimento degli obiettivi della missione. Numerose al riguardo, sono state le espressioni di plauso ed ammirazione, formulate nei suoi confronti da autorità militari e politiche, nazionali e straniere, presenti nel teatro di operazioni. Ufficiale superiore di assoluto valore, professionista esemplare, il col figliuolo ha dato prova di elevatissime capacità di comando e non comune spirito di integrazione multinazionale contribuendo, in un difficile e pericoloso contesto operativo internazionale, ad accrescere il lustro ed il prestigio dell’esercito italiano e della nazione”. Kabul, (Afghanistan) ottobre 2004 – febbraio 2005.

Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Cenni storici e normativa dell’onorificenza. Data del conferimento: 27/12/2006. Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Croce d’argento al merito dell’Esercito. Cenni storici e normativa dell’onorificenza. Tenente Colonnello. Data del conferimento: 29/03/2002. motivazione: “Comandante del gruppo artiglieria da montagna “AOSTA” inquadrato nella brigata multinazionale ovest operante in Kosovo nell’ambito dell’operazione “JOINT GUARDIAN”, dimostrava di possedere pregevoli doti morali e di carattere e una preparazione professionale completa e di altissimo livello. Impegnato in attività operative di grande rilievo nel delicato settore di GORAZDEVAC, sede della più grande enclave serba del Kosovo, affrontava ogni impegno con determinazione, equilibrio, spiccata iniziativa ed eccezionali capacità organizzative, riuscendo a gestire con notevole efficacia anche situazioni molto difficili. Con grande spirito di abnegazione, sviluppava in prima persona una serie di operazioni complesse e onerose volte a impedire il verificarsi di eventi con possibili tragiche conseguenze, in periodi caratterizzati da grande tensione quale l’anniversario dei bombardamenti nato, garantendo condizioni di elevata sicurezza nell’area. Ufficiale molto generoso e carismatico, costituiva elemento di immediato riferimento nelle circostanze più delicate, nelle quali evidenziava sempre spiccata capacità di guida e lucida visione degli obiettivi, conseguendo risultati di eccezionale livello e meritando il plauso anche di personale straniero. Chiaro esempio di altissima dedizione al dovere e straordinaria professionalità, che ha contribuito in modo significativo ad elevare il prestigio dei, contingente e dell’esercito italiano in ambito internazionale”. Pec, (Kosovo) 08 marzo 2000 – 30 giugno 2000.

Grazia Longo per "la Stampa" il 2 marzo 2021. Molto stimato per le capacità organizzative e l' equilibrio, il generale di corpo d' armata Francesco Paolo Figliuolo, 60 anni, originario di Potenza ma torinese d' adozione, era in corsa per il ruolo di capo di stato maggiore dell' Esercito, posto poi occupato dal generale Pietro Serino. Da ieri, invece, su nomina del premier Mario Draghi, è diventato il nuovo Commissario straordinario per l' emergenza Covid al posto di Domenico Arcuri. In qualità di Comandante logistico dell' Esercito - incarico che riveste dal 7 novembre 2018 - dall' inizio della diffusione della pandemia, ha dato prova di saper gestire l' emergenza con una serie di fruttuose iniziative. Nell' ultimo anno, ad esempio, è proprio grazie al suo impegno che sono stati creati in tempi brevissimi due centri Covid. Uno nella capitale, al policlinico militare del Celio, dove sono stati allestiti 150 posti letto di cui 50 in terapia intensiva e sub-intensiva. Un altro all' ospedale militare di Milano, con 50 posti letto. E sempre a lui si deve il coordinamento dei drive in per effettuare il tampone: ne sono stati istituiti 200 in giro per tutta Italia. Figliuolo ha, inoltre, dato impulso alla riconversione di numerosi laboratori biologici in centri per esami Covid. Più recentemente ha poi contribuito alla realizzazione del centro vaccinazioni anti coronavirus alla Cecchignola, a Roma, e all' invio di 5 ufficiali miliari in Molise appena diventata zona rossa, quattro a Campobasso e uno a Termoli. Negli anni, dopo l' Accademia di Modena, ha maturato varie esperienze e ricoperto molteplici incarichi nella Forza Armata dell' Esercito, interforze e internazionale. È stato comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell' ambito dell' operazione Isaf (ottobre 2004 - febbraio 2005) e comandante delle Forze Nato in Kosovo (settembre 2014 - agosto 2015), nella stessa area di crisi balcanica che lo aveva già visto impegnato agli inizi degli anni 2000, quale Comandante della Task Force «Istrice» in Goradzevac e, precedentemente, nel '99, nell' ambito dell' organizzazione logistica del Comando Nato-Sfor in Sarajevo. Si ricordano, inoltre, esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli Ufficiali dell' Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell' addestramento in ambito Nato, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell' Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all' agosto 2014 e Capo Reparto dall' agosto 2015 al maggio 2016. Fino al 5 novembre 2018 aveva ricoperto l' incarico di capo ufficio generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, in un momento di fondamentale trasformazione delle Forze Armate in chiave interforze. Tre lauree (Scienze Politiche, Scienze Strategiche e Scienze Internazionali) è stato anche insignito di varie onorificenze: cavaliere dell' Ordine Militare d' Italia, una croce d' oro e una croce d' argento al Merito dell' Esercito, commendatore, Nato meritorius service medal, croce d' oro d' Onore della Bundeswehr, Legion of Merit degli Stati Uniti. Sposato, due figli, condivide con la moglie Enza Maria la passione per il nuoto e lo sci di cui è istruttore militare. Inoltre ama molto la lettura e il calcio: è tifosissimo della Juventus. Uno dei suoi figli, Federico, ha seguito le sue orme nella carriera militare ed è ufficiale negli alpini, mentre l' altro, Salvatore, è avvocato. Appena informato della nomina, il generale Figliuolo si è definito «onorato: metterò tutto me stesso e tutto l' impegno possibile per fronteggiare questa pandemia. Lavorerò per la nostra Patria e i nostri connazionali».

Via gli ultimi residui di contismo a Palazzo Chigi. Draghi cancella il contismo: dopo Arcuri e Borrelli è il turno del comitato tecnico scientifico. Claudia Fusani su Il Riformista il 2 Marzo 2021. A chi chiede il «cambio di passo che non arriva». A chi lamenta «l’assenza di discontinuità». A chi già comincia ad alimentare dubbi: «E vabbè, ma che sta facendo Draghi, quanto dura così…». Per carità, non sono le nomine che fanno la differenza. A volte non è sufficiente una buona squadra per vincere le partite. E non basterà il licenziamento, avvenuto ieri e tenuto coperto fino agli ultimi minuti, del super commissario Domenico Arcuri a sconfiggere la pandemia. La sostituzione del Commissario speciale con un generale di corpo d’armata esperto di logistica nei grandi teatri di crisi internazionali è però il pezzo mancante di un disegno che nel complesso – il ritorno di Curcio alla Protezione Civile, la nomina di Franco Gabrielli sottosegretario alla Presidenza con delega ai servizi segreti – segna il cambio di tattica, strategia e di obiettivi. «I vaccini sono la prima emergenza economica del paese» ha detto il premier chiedendo la fiducia al Parlamento. Sono l’unico modo per combattere la pandemia, far ripartire il paese ed evitare il default economico. La conclusione del mandato ad Arcuri è anche la rimozione di quel che resta del contismo a palazzo Chigi e dintorni. In venti giorni è cambiato molto di più di quello che appare. Persino i 5 Stelle non si sono opposti alla rimozione di colui che per un anno è stato il mr. Wolf italiano. Solo che ha risolto poco. Quasi nulla. Italia viva segna un’altra tacchetta nella lista delle richieste esaudite. Giubilo di Lega, Forza Italia. Giorgia Meloni, che è all’opposizione, addirittura entusiasta. È stato un colloquio cortese ma breve, soprattutto inappellabile quello tra Mario Draghi e il supercommissario Domenico Arcuri. Un dialogo riservato, avvenuto a palazzo Chigi poco dopo le due del pomeriggio, e un attimo prima che il comunicato ufficiale salutasse il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo come nuovo commissario straordinario per l’emergenza Covid. «Cambiamo approccio, non servono più gli acquisti, è necessario vaccinare i cittadini e dobbiamo farlo il prima possibile. È uno spreco, in queste condizioni, tenere un milione e 600 mila dosi in frigorifero» è stato il senso del colloquio tra i due. L’obiettivo del piano vaccini è arrivare a 300 mila dosi al giorno. Siamo a mala pena a centomila. Le varianti del virus hanno fatto aumentare i contagi di 30 mila in una settimana. Sono già 500 le micro zone rosse blindate che sindaci e governatori hanno istituito nel paese per isolare l’infezione. Non c’è tempo da perdere. Tutto questo è diventato un comunicato diffuso ieri alle 15 e 35: «Il Presidente Mario Draghi ha nominato il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo nuovo commissario per l’emergenza Covid-19. A Domenico Arcuri i ringraziamenti del governo per l’impegno e lo spirito di dedizione con cui ha svolto il compito a lui affidato in un momento di particolare emergenza per il Paese». Semplicemente non esistono i mr. Wolf. E non si può essere adatti a tutte le stagioni e a tutte le emergenze. «Io non faccio troppe cose, ne faccio una sola», combatto la pandemia ha detto pochi giorni fa Arcuri. In effetti, oltre al dossier Ilva e all’agenda di Invitalia, Arcuri in questi mesi ha fatto di tutto, dalle mascherine all’app Immuni, dai banchi a rotelle all’approvvigionamento di siringhe, fino alla sfida più impegnativa, il più grande piano vaccinale nella storia italiana che aveva immaginato in oltre mille tendoni nelle varie città italiane con il logo delle Primule in segno di rinascita. Il Commissario è finito sulla graticola per ciascuna di queste voci, al netto di inchieste giudiziarie (sull’acquisto delle mascherine) che lo vedono coinvolto come parte offesa e su cui presto sarà chiamato dai magistrati per spiegare cosa è successo. E cosa non ha funzionato. Aver speso un miliardo e 200 milioni per 800 milioni di mascherine acquistate tramite intermediari (tutti indagati) dalla Cina (all’epoca l’Italia era sprovvista di Dpi), non gli ha però giovato. Adesso cambia tutto. Nella speranza e con la volontà che funzioni meglio. La squadra che dovrà gestire la pandemia è un “work in progress” che vede Draghi aiutato e confortato nelle scelte da un tecnico come il prefetto Franco Gabrielli che ha lasciato il Viminale e la guida della Polizia di stato per assumere la delega all’intelligence, uno dei civil servant che meglio conosce la macchina dell’emergenza in Italia, quella del terrorismo interno ed esterno; quella della Protezione civile che ha guidato per anni fin da quando fu nominato commissario per la ricostruzione de L’Aquila; quella della macchina della sicurezza, immigrazione compresa. Il primo tassello è stato nominare Francesco Curcio alla guida del Dipartimento della Protezione civile che torna ad essere, dopo la parentesi Arcuri, il braccio armato della lotta alla pandemia. Curcio è già al lavoro e ha chiari gli obiettivi: coordinare i 21 piani regionali (ciascuno ha il suo) per le vaccinazioni; più che raddoppiare le dosi inoculate giornalmente (da 100 a 200 mila con l’obiettivo di arrivare a 300 mila); gestire il piano nazionale e coordinare i 300 mila volontari medici e infermieri più l’Esercito che attendono il via per essere operativi nei vari centri vaccinali che dovranno essere allestiti ovunque. A questo punto entra in gioco il secondo tassello, il generale Figliuolo. Dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito, il braccio operativo dell’emergenza con la Protezione civile. La fama di Figliuolo è di essere uno in grado di allestire tende e recuperare e rendere agibili strutture in poche ore per garantire gli spazi vaccinali anche nei tanti comuni piccoli e isolati così come nelle grandi città, secondo quei ritmi inglesi che Draghi ha indicato come esempio per combattere la pandemia. L’obiettivo di Curcio e del commissario è rendere omogenea a livello nazionale la tempestività delle vaccinazioni (dunque rivedere le fasce e le convocazioni) e l’attuazione dei piani di prevenzione. Resta un terzo tassello ancora da sistemare: il Comitato tecnico scientifico. Il premier metterà mano, a breve, anche al Cts. È vero che al momento le dosi scarseggiano. Ma a partire da aprile, entro la fine dell’anno, arriveranno in Italia 27 milioni di dosi. Un tesoro che non può essere sprecato. Intanto vanno usate tutte quelle che ci sono, mai più rimanenze nei frigoriferi, prevedere una sola dose senza il richiamo (con Astrazeneca ma il Cts nicchia) per dare una protezione anche se non totale al numero più alto di persone.

Emanuele Lauria per “la Repubblica” l'1 marzo 2021. L'ultima fiammeggiante cometa, nella galassia del sottogoverno, sta viaggiando in queste ore e da Palazzo Chigi raggiunge via Veneto, sede del ministero del Lavoro: Alessandro Goracci, il capo di gabinetto dell'ex premier Giuseppe Conte, va a lavorare nel dicastero retto da Andrea Orlando, con l'incarico di capo dell'ufficio legislativo. Non uno spostamento di poco conto, visto anche il peso specifico del dirigente, peraltro indicato - nella fase conclusiva dell'esperienza dell'avvocato - come uno dei più attivi nel reclutamento di "responsabili" che fallirono la mission di salvare il vecchio governo. Ma quello di Goracci è solo uno dei nomi che animano il via vai di consiglieri di stato, magistrati, ambasciatori, intellettuali, ex parlamentari che stanno componendo gli staff del nuovo governo. E nel new deal dell'Unità nazionale entrano anche studiosi di chiara fama, come l'economista Carlo Cottarelli, che nel 2018 fu anche premier incaricato e che ora è stato chiamato dal ministro Renato Brunetta (a titolo gratuito) a scrivere nuove regole sulla semplificazione burocratica. O come la sociologa Chiara Saraceno, che Orlando ha voluto nel Comitato per la valutazione del reddito di cittadinanza. Il suo inner circle, Mario Draghi, lo ha costruito in nome della discontinuità con il suo predecessore: da Antonio Funiciello, già capo staff a Palazzo Chigi con Paolo Gentiloni, al capo dell'ufficio legislativo Carlo Deodato, consigliere di Stato che quel posto lasciò quando Matteo Renzi portò a Chigi l'ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione. Fino al consigliere diplomatico Luigi Mattiolo, ambasciatore richiamato da Berlino. Unica conferma, da Draghi, quella del segretario generale Roberto Chieppa, che è stato un "fedelissimo" di Conte. La rottura col recente passato, in realtà, ha riguardato solo in parte la struttura burocratica dei ministeri. Big come Lamorgese, Di Maio, Franceschini, Guerini, Speranza hanno mantenuto i loro capi di gabinetto. Ma anche alcuni nuovi colleghi hanno scelto l'usato sicuro negli uffici di diretta collaborazione: la Guardasigilli Marta Cartabia si è affidata come capo di gabinetto al magistrato casertano Raffaele Piccirillo e per l'ufficio legislativo a Mauro Vitiello: due uomini che lavoravano già con l'ex ministro grillino Alfonso Bonafede. Lo stesso dicasi per Enrico Giovannini, che al Mit ha mantenuto i burocrati di punta al servizio di chi lo ha preceduto (Paola De Micheli), in primis il consigliere della Corte dei conti Alberto Stancanelli. E attenzione: pure Patrizio Bianchi, andato a sedersi sullo scranno di una delle più discusse ministre del Conte 2, Lucia Azzolina, non ha volto toccare il capo amministrativo del ministero della Scuola: Luigi Fiorentino, che lo stesso ruolo aveva svolto con Profumo, Carrozza e Fioramonti. Un evergreen. Diverso il caso di Stefano Patuanelli, che nel trasloco dal Mise all'Agricoltura ha portato tutto lo staff, a sua volta ereditato per gran parte da Luigi Di Maio: in mezzo quell'Enrico Esposito che del leader dei 5S fu collega universitario e nel 2018 finì al centro di uno scandalo per i suoi tweet sessisti e omofobi. Mentre Giancarlo Giorgetti, al Mise, sceglie Paolo Visca, già capo di gabinetto di Salvini. L'altro leghista Massimo Garavaglia (Turismo) ha portato con sé Gaetano Caputi, ex direttore generale della Consob. Alla Transizione ecologica Roberto Cingolani, fisico amatissimo da Renzi, ha scelto Roberto Cerreto, che in passato timonò lo staff dell'ex ministra Boschi. Per restare a Italia Viva, Elena Bonetti ha nominato come capo della segreteria tecnica l'ex deputata Ileana Piazzoni. All'Innovazione tecnologica Vittorio Colao punta su Stefano Firpo, direttore generale di Mediocredito. E i forzisti? Renato Brunetta si è affidato a Marcella Panucci, volto noto di Confindustria di cui è stata per 8 anni direttore generale, mentre Mara Carfagna premia Giacomo Aiello, storico consigliere di Guido Bertolaso. Un segnale dei tempi che cambiano. O che tornano.

(DIRE il 2 marzo 2021) - Le centinaia di poltrone in scadenza nelle società pubbliche cambieranno nei prossimi mesi il profilo del potere cos’ come è stato disegnato negli ultimi tre anni, prima dall'esecutivo gialloverde e poi da quello giallorosso. Il governo Draghi manderà definitivamente in soffitta l'era Conte con un pacchetto di nomine che saranno gestite sia a Palazzo Chigi che al Tesoro, ma che dovranno accontentare anche gli appetiti della nuova maggioranza. Il segnale di discontinuità che ha lanciato l'ex governatore della Bce è evidente: in due settimane ha cambiato il vertice della squadra che dovrà gestire uno dei dossier più importanti: la campagna vaccinale. Il generale Francesco Paolo Figliuolo ha sostituito l'ex super commissario Domenico Arcuri. Fabrizio Curcio alla Protezione civile ha sostituito Angelo Borrelli. Diverse fonti interpellate dalla Dire vedono in bilico la posizione di Arcuri anche a Invitalia. Il manager preferito da Giuseppe Conte potrebbe essere rimpiazzato da Bernardo Mattarella, amministratore delegato di Mediocredito centrale, nipote del Capo dello Stato. Una struttura, quella del Mediocredito, che in questo anno di pandemia ha girato a pieno ritmo per aiutare le pmi che hanno chiesto i finanziamenti al fondo di garanzia.

Carlo Clericetti - Da clericetti.blogautore.repubblica.it il 2 marzo 2021. Un cattolico sociale, come dicono Enzo Visco e Roberto Schiattarella, che lo hanno conosciuto da vicino? Un uomo dell’austerità, che firmò la lettera col suo predecessore alla Bce Jean-Claude Trichet chiedendo all’Italia lacrime e sangue? Quello che ai greci le lacrime e il sangue ha pesantemente contribuito a farli versare, come lo accusa Yanis Varoufakis? Uno che considera sorpassato il modello sociale europeo, meno spietato del capitalismo anglosassone, come dichiarò in un’intervista al Financial Times? E magari un liberista fautore della “distruzione creatrice” schumpeteriana, secondo l’accusa di Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo appena pubblicata sempre sul Financial Times? E però Draghi è anche quello del whatever it takes, quello che Obama, quando c’era un problema serio, chiedeva “Mario che ne pensa”?. Quello che ha detto che con gli alti debiti pubblici bisogna rassegnarsi a convivere, quello che ha fatto una distinzione tra “debito buono e debito cattivo”. Quello che, solo per aver accettato l’incarico di provare a formare un governo, ha fatto scendere di colpo lo spread di una ventina di punti…L’uomo del momento, Mario Draghi, ha molte facce. O, se si vuole semplificare, almeno due, una “buona” e una “cattiva”. Qual è quella che prevale? Per tentare di elaborare una risposta andiamo un po’ indietro nel tempo. Nelle varie Considerazioni finali l’allora governatore di Bankitalia aveva toccato argomenti insoliti per quell’occasione, come i conflitti di interesse nel mondo della finanza, la riduzione dei costi per i risparmiatori e la loro tutela. Poi, il 25 ottobre 2007, tiene un discorso  alla riunione annuale della società degli economisti e denuncia: in Italia i salari sono troppo bassi, in parità di potere d’acquisto fra il 30 e il 40% inferiori rispetto a Francia, Germania e Regno Unito. E la crescita dei consumi, continua, “è fondamentale” per la crescita del Pil. Accipicchia, pensano in tanti, Draghi batte su un tema tradizionalmente caro alla sinistra. Insomma, non un rivoluzionario, ma appariva come un governatore più attento anche ai problemi della gente e non solo a quelli delle banche. Ma nelle Considerazioni del 2010 arriva una sorta di doccia fredda. "E' urgente un rafforzamento del Patto di stabilità e crescita: l'impegno a raggiungere un saldo di bilancio strutturale in pareggio o in avanzo va reso cogente, introducendo sanzioni, anche politiche, in caso di inadempienze". Accipicchia, pensano ancora più persone della volta precedente, Draghi è diventato più tedesco dei tedeschi. Già, ma c’era un motivo: di lì a poco sarebbe stato designato il nuovo presidente della Bce, e Draghi era in pole position tra i possibili candidati. Francoforte val bene una conversione all’austerità “dura”, deve aver pensato. Insomma, l’uomo si adatta alle circostanze. Privatizzatore quando era direttore generale del Tesoro, perché quello ci si aspettava in quella fase da chi guidava la politica economica: Guido Carli, Nino Andreatta, Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi. “Austeritario” a Francoforte, per non scontrarsi con la Germania egemone. In una prima fase, tutt’altro che rivoluzionario in politica monetaria: tra il 2012 e il 2015 (sì, proprio nel periodo successivo al whatever it takes) il bilancio della Bce si riduce di circa 1.000 miliardi, altro che politica monetaria espansiva…Probabilmente il prezzo da pagare proprio per quella frase, insieme all’accettazione del Mes, organismo tecnocratico a guida tedesca, come organo decisionale sulle vicende dei paesi che si fossero trovati in difficoltà. Difficile pensare che uno come lui non sapesse che quella politica era sbagliata e che sbagliata era l’austerità. Ma nel frattempo bisognava rintuzzare i feroci attacchi (anche legali, con i ricorsi alla Corte costituzionale tedesca) di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, e bisognava che i tedeschi pro-euro (non solo Merkel, ma anche il granitico ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble) si fidassero di lui tanto da appoggiarlo contro Weidmann. E la fiducia bisogna costruirsela, per esempio assecondando la frenesia punitiva di Schäuble contro la Grecia, che doveva pagare cari gli imbrogli del passato, anche se i greci avevano un governo che nulla aveva a che fare con quel periodo. Quando la Bce (nel 2015) tagliò la liquidità di emergenza alle banche greche il governo Tsipras dovette capitolare. Poi, quando l’inflazione dell’Eurozona non solo non si avvicinava all’obiettivo del 2%, ma scivolava verso la deflazione, Draghi poté finalmente azzardare il lancio del quantitative easing, gli acquisti massicci di titoli di Stato. Con cinque anni di ritardo rispetto alla Federal reserve, ma a quel punto la motivazione poteva esser fatta rientrare nei compiti statutari della Bce, al riparo – come avrebbe in seguito confermato la Corte di giustizia europea – dagli attacchi di Weidmann e compagni. E dopo aver consolidato l’asse con Merkel – solo dopo – Draghi ha cominciato a dire, e ripetere in più occasioni, che la politica monetaria non poteva bastare, e toccava agli Stati intervenire con la politica fiscale. Ricorda per esempio l’economista Sergio Cesaratto (che peraltro con Draghi non è affatto tenero), intervistato dal sito Brave New Europe, che nel discorso del 2014 a Jackson Hole (sede di un incontro periodico dei banchieri centrali) il presidente della Bce criticò le politiche europee perorando il sostegno della domanda e citando Keynes: i rischi del non fare sono maggiori di quelli del fare. Insomma, la storia di Draghi dice che le cose giuste si fanno se si può e quando si può, con un occhio attento agli obiettivi personali. Quali possono essere, oggi, i suoi obiettivi? Il fatto che abbia accettato di guidare il governo in situazione di emergenza e con le forze parlamentari che ci sono è una grande sfida anche per lui. Non escludiamo l’amor di patria, che senz’altro avrà avuto un peso. Ma significa anche che punta a concludere la sua carriera sul colle più alto, succedendo a Mattarella. Ora ha 73 anni, se tra un anno verrà eletto presidente concluderà il suo mandato a 81 e dopo sarà senatore a vita. Degna collocazione dopo una vita professionale ricca di riconoscimenti e soddisfazioni. Ma perché ciò avvenga questa sfida la deve vincere. L’Europa gli permetterà quello che ad altri non permetterebbe, e questo è un vantaggio enorme. Da anni la nostra classe politica non brilla per capacità, ma anche le decisioni europee hanno influito pesantemente in modo negativo sulla nostra situazione. Con lui non dovrebbe succedere. Resta il fronte interno. Draghi starà attento a non umiliare le forze politiche e il Parlamento che poi lo dovranno votare, anzi, cercherà di andare il più possibile d’accordo con tutti. La composizione della squadra di governo, d’altronde, conforta questa tesi. Questo rende plausibile l’ipotesi che non ci saranno lacrime e sangue, e che le questioni più spinose, se non riuscirà trovare un compromesso accettabile per tutti, farà in modo di rinviarle. E conferisce ai partiti che sostengono il governo un po’ di potere contrattuale. Il sol dell’avvenire non sta certo per sorgere, ma le alternative al governo Draghi, fallito il tentativo del Conte-ter, non erano più allettanti. Tutto considerato, e con beneficio di verifica su quello che effettivamente farà il governo, poteva andare peggio.

Ecco chi è Lamberto Giannini, nuovo capo della polizia. Il prefetto succede al collega Franco Gabrielli. Selezionato da Draghi per il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi. Federico Garau - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. Sarà Lamberto Giannini il nuovo capo della polizia, così ha deciso il governo presieduto da Mario Draghi dopo la proposta del candidato effettuata direttamente dal ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Il Consiglio dei ministri ha inoltre attribuito al 57enne romano la funzione ufficiale di "direttore generale della Pubblica sicurezza". Già prefetto e capo della segreteria del dipartimento di Pubblica sicurezza, Lamberto Giannini succede così a Franco Gabrielli, al fianco del quale ha lavorato per anni. Quest'ultimo, infatti, è stato selezionato dall'ex presidente della Banca centrale europea per ricoprire l'incarico di sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai servizi di informazione e sicurezza. Classe 1964, Lamberto Giannini si è laureato presso la facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma, entrando per la prima volta nel corpo della polizia di Stato con funzione di vice commissario nel 1989. Dopo il servizio prestato presso le questure di Torino e di Roma, nel 2004 assume la carica di direttore dell'ufficio Digos nella Capitale. Nel 2013 la promozione a dirigente superiore della polizia di Stato e quindi la nomina a direttore del Servizio centrale antiterrorismo. Diviene quindi dirigente generale di Pubblica sicurezza nel 2017, assumendo poi il ruolo di direttore della Direzione centrale della polizia di prevenzione e presidente del Comitato di analisi strategica antiterrorismo. Tutto questo prima della sua promozione a prefetto, avvenuta nel marzo del 2019. Tra le operazioni più celebri per le quali è ricordato, l'arresto dei brigatisti rossi responsabili dell'omicidio di Massimo D'antona e di Marco Biagi. Nel 2005, invece, il fermo di uno degli attentatori di Londra (Osman Hussain, arrestato a Roma). Nel 2009 arrivarono invece gli arresti dei componenti di una pericolosa cellula terroristica che aveva organizzato un attentato in occasione del G8 a La Maddalena. Quando balza agli onori delle cronache l'Isis, dal 2014 organizza un fondamentale lavoro di prevenzione e di lotta ai foreign fighters, grazie alla stretta collaborazione con l'intelligence e le altre forze di polizia. Enorme la soddisfazione del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, la prima a sostenere la carica di Giannini: "Mi congratulo con il prefetto Lamberto Giannini che da oggi è il nuovo capo della Polizia - direttore generale della Pubblica sicurezza". Una nomina, ha spiegato la titolare del Viminale, come riportato da Il Messaggero, "deliberata dal Cdm su proposta del ministro dell'Interno in virtù di un curriculum di eccellenza e di un apprezzamento sulle qualità personali e professionali condiviso a tutti i livelli istituzionali, che la rendono ancor di più solida garanzia per cittadini e forze di polizia". "I miei auguri di buon lavoro al prefetto Lamberto Giannini, nominato poco fa nuovo capo della Polizia di Stato", ha invece twittato l'ex ministro renziano Teresa Bellanova."Un professionista eccellente ed irreprensibile, un servitore dello Stato, cui vanno le congratulazioni mie e di tutta Italia Viva". Il Carroccio ci ha tenuto a far sapere pubblicamente che il nuovo capo della Polizia ha già ricevuto un messaggio di complimenti e di buon lavoro anche da parte del segretario Matteo Salvini."È una persona che conosciamo bene e che conosce i problemi delle lavoratrici e dei lavoratori della Polizia", spiega in un comunicato il segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil. "Ci auguriamo di lavorare al più presto con lui per il miglioramento delle nostre condizioni di vita e di lavoro", conclude nella nota Daniele Tissone.

Braccio destro di Gabrielli: "Curriculum d'eccellenza". Chi è Lamberto Giannini, il nuovo capo della polizia esperto di terrorismo. Redazione su Il Riformista il  4 Marzo 2021. Lamberto Giannini è il nuovo capo della polizia. La nomina del successore di Franco Gabrielli, chiamato dal premier Mario Draghi a svolgere il ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi, è arrivata nel pomeriggio di giovedì 4 marzo durante il Consiglio dei Ministri.  “Mi congratulo con il prefetto Lamberto Giannini che da oggi è il nuovo Capo della polizia -Direttore generale della pubblica sicurezza” dichiara il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. “La nomina del prefetto è stata deliberata dal Consiglio dei Ministri – su proposta del ministro dell’Interno – in virtù di un curriculum di eccellenza e di un apprezzamento sulle qualità personali e professionali, condiviso a tutti i livelli istituzionali, che la rendono ancor di più solida garanzia per i cittadini e per le forze di polizia”, ha aggiunto la responsabile del Viminale.

CHI E’ LAMBERTO GIANNINI – Super esperto di lotta al terrorismo, in Polizia da più di trent’anni, Lamberto Giannini, 57 anni, è considerato vicinissimo a Franco Gabrielli di cui era diventato il braccio destro a fine 2020. Il suo nome era dunque stato indicato sin dall’addio di Gabrielli – chiamato da Draghi a ricoprire la delicata delega ai Servizi – come favorito per il ruolo di capo della Polizia. Romano, classe 1964, Giannini si è laureato in giurisprudenza alla Sapienza ed è entrato in Polizia nel 1989, frequentando il 74simo corso per vice-commissari presso l’istituto superiore di Polizia. Da più di venticinque anni è impegnato nel contrasto all’eversione ed al terrorismo interno ed internazionale, arrivando giovanissimo a dirigere la Digos della Questura di Roma. Nel 2013 è stato promosso dirigente superiore e poi la nomina a direttore del servizio centrale antiterrorismo, fino ad assumere, dal primo ottobre scorso, la guida della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione e la Presidenza del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo – Casa. Il 1 marzo 2017 è stato nominato Dirigente Generale di Pubblica Sicurezza permanendo nelle funzioni di Direttore Centrale della Polizia di Prevenzione. Tra le operazioni di maggior rilievo da lui coordinate si segnalano gli arresti dei terroristi rossi che, tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000, con gli omicidi del Professor D’Antona e del Professor Marco Biagi avevano ripreso la lotta armata in Italia nel nome delle Brigate Rosse; lo smantellamento di una cellula neo-brigatista che aveva posto in essere un grave attentato dinamitardo contro militari italiani ed aveva in animo di effettuare un attacco contro il vertice G8 in programma alla Maddalena, l’arresto nel 2005 a Roma di uno dei terroristi che, nel luglio di quell’anno, aveva tentato di farsi esplodere, insieme ad altri complici, nella metropolitana di Londra. Come Direttore del Servizio Centrale Antiterrorismo ha contribuito all’elaborazione della strategia nazionale di contrasto al fenomeno dei foreign fighters e ha coordinato l’arresto di numerosi jihadisti in partenza/ritorno dal teatro siro-iracheno. Il 1 marzo 2017 è stato nominato dirigente generale della Polizia di Stato con la responsabilità della direzione centrale della Polizia di prevenzione e presidente del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo. Nel 2019 è stato promosso prefetto e nel dicembre 2020 il Cdm, su proposta del ministro dell’Interno Lamorgese, lo ha nominato capo della Segreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno.

La nomina e gli accordi. Dia e Carabinieri ai margini, con Giannini alla Polizia si rafforza asse con la Finanza. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Lamberto Giannini è il nuovo capo della polizia. Il consiglio dei ministri l’ha nominato ieri al posto di Franco Gabrielli, diventato nel frattempo sottosegretario con delega ai servizi. Nato a Roma nel 1964, in polizia dal 1989, Giannini è un esperto di antiterrorismo, interno e internazionale. Ha coordinato tra l’altro gli arresti dei terroristi responsabili degli omicidi D’Antona e Biagi. Ma il suo predecessore, Franco Gabrielli, ha firmato nei giorni scorsi un “protocollo” con la guardia di finanza per la condivisione delle informazioni in materia di riciclaggio. È stato uno degli ultimi atti in qualità di capo della polizia e direttore del Dipartimento della pubblica sicurezza prima di essere nominato sottosegretario nel governo Draghi con delega ai Servizi segreti. Nel protocollo è previsto che la guardia di finanza trasmetta ai vari uffici centrali della polizia di Stato, ad esempio la Stradale o la Postale, le Sos (segnalazioni di operazioni sospette) e il contenuto delle comunicazioni delle unità finanziarie estere di polizia. Lo Sco (Servizio centrale operativo della polizia), in particolare, potrà richiedere informazioni finanziarie relative alle proprie indagini direttamente al Nucleo valutario della finanza con una procedura semplificata. Le informazioni sono contenute nell’archivio centrale dei rapporti finanziari, gestito dall’Agenzia delle entrate, e dall’ufficio informazioni finanziarie (Uif), gestito dalla Banca d’Italia. L’Uif, in particolare, riceve e analizza tutte le Sos ricevute da banche, finanziarie, money transfer, gestori di carte di credito. L’Uif ha gestito lo scorso anno 105.789 segnalazioni. Un volume di informazioni imponente in una società sempre più globalizzata. Tutto molto utile nell’ottica, dunque, del contrasto alle infiltrazioni della criminalità nel tessuto economico del Paese. Il problema, però, è che queste informazioni erano già disponibili ai poliziotti attraverso la Dia (Direzione investigativa antimafia), una Direzione centrale del Dipartimento della pubblica sicurezza di cui Gabrielli era fino all’altro giorno il numero uno. La Dia, tramite una sua articolazione, ha infatti già accesso alla banca dati delle Sos. Non era necessario, allora, fare protocolli particolari con la guardia di finanza in quanto sarebbe stato sufficiente chiedere al questore Maurizio Vallone, l’attuale direttore della Dia, un poliziotto come Gabrielli. Come mai allora la necessità di approntare un simile protocollo per lo scambio di informazioni di cui si era già in possesso? I maligni ipotizzano che la Dia sia diventata da tempo una struttura troppo ingombrante. La Dia nacque nel 1991 grazie ad una intuizione di Giovanni Falcone, dopo l’esperienza del maxi processo di Palermo, per contrastare efficacemente il crimine organizzato. Per condurre le investigazioni più delicate e complesse, si disse, la magistratura aveva bisogno di uno polizia giudiziaria molto qualificata. Falcone, allora, decise di ottimizzare le esperienze operative delle forze di polizia in un’unica realtà investigativa, mettendo insieme il meglio di carabinieri, polizia e guardia di finanza. I problemi sorsero nel corso degli anni e possono essere riassunti in una semplice parola: “gelosia”. Una costante degli apparati di sicurezza del nostro Paese dove ogni forza di polizia si occupa di tutto senza alcuna soluzione di continuità. In tale contesto la Dia è un doppione di altri doppioni. E ciò è eccessivo. Il “boicottaggio” si manifesta, ad esempio, impedendo gli accessi alle banche dati gestite dalle altre forze di polizia oppure, da parte dai vari comandi di vertice, non assegnando personale alla Dia. Attualmente, poi, in quello che dovrebbe essere un reparto di punta nel contrasto alla criminalità di stampo mafioso ci sono più ufficiali che soldati. La magistratura è al corrente di questa situazione molto particolare e, da tempo, non delega più la Dia per le investigazioni di spessore. Protocolli a parte, comunque, chi è stata tagliata fuori dalle indagini “top” è l’Arma dei carabinieri. Alla Benemerita, che pure disporrebbe di un reparto d’eccellenza come il Ros (Raggruppamento operativo speciale), le indagini sulla criminalità finanziaria dei colletti bianchi sembrano essere precluse.

Forze politiche nell’angolo. Draghi nomina il sottogoverno: chi ha vinto e chi ha perso? Claudia Fusani su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Il metodo Draghi si vede anche così: ha atteso lunedì e anche martedì, ha dato il tempo a tutti di schiarirsi e confrontarsi poi però ha suonato il gong. Perché aspettare venerdì o addirittura sabato perché il Pd ha fatto casino con le donne e deve espiare in Direzione la “colpa”, appartiene a quella categoria che Draghi ha definito, disprezzandola, “farisaico rispetto delle quote rosa”. Così ieri pomeriggio il Consiglio dei Ministri convocato alle 17 per ufficializzare i funerali di stato (stamani) dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere, suo uomo di scorta, Vittorio Iacovacci, “più varie ed eventuali”, è slittato alle 18. E al posto delle “varie ed eventuali” è stata inserita la voce: “Nomina dei sottosegretari”. È stata una seduta più lunga e anche più tribolata del previsto. La coperta era corta, gli appetiti molti e le aspettative sugli incarichi anche. Alle 19 e 30 è stata necessaria la sospensione per evitare che la situazione degenerasse. E anche l’istituzionale Draghi ha potuto così assaggiare quali delizie possono offrire le coalizioni politiche. La seduta è stata aggiornata. Forse direttamente a oggi. Della serie: quando avete (i capidelegazione) finito di scannarvi, me lo comunicate, io (il premier) c’ho da fare. La prima novità è che Draghi ha mantenuto anche nel sottogoverno una quota di tecnici, una decina su un totale di 42 posti. Il premier si leva subito un dossier scomodo e affida al prefetto Franco Gabrielli, attuale capo della Polizia, la delega all’intelligence. Gabrielli è la scelta più logica, oltre che la migliore: 61 anni appena compiuti, il prefetto, già a capo del Sisde (ora Aise), guida da cinque anni la Polizia di Stato dopo aver coordinato a lungo la Protezione civile e aver trascorso anni in prima fila conducendo le indagini negli omicidi D’Antona e Biagi e in molte inchieste sul terrorismo internazionale. Fin qui l’aspetto tecnico. Quello che più conta è quello politico. La delega ai servizi segreti è stato uno dei motivi per cui Italia viva ha cominciato a contestare la leadership di Giuseppe Conte che invece quella delega ha voluto tenere per sé nei quasi tre anni a palazzo Chigi. Una concentrazione di poteri su cui prima Matteo Renzi e poi anche il Pd hanno preteso chiarezza. Sarebbe stato difficile da spiegare se Draghi non avesse subito dato la delega. Il dossier sottosegretari è stato gestito da Roberto Garofoli, braccio destro di Draghi a palazzo Chigi. Lunedì scorso, dopo il giuramento, Draghi aveva chiesto ai segretari di indicare una lista di nomi per un range di posti che, pesato con tanto di Cencelli in base alla forza parlamentare, oscillava tra i 10-12 per il Movimento 5 Stelle, 6-8 per Lega, Forza Italia e Pd che più o meno hanno gli stessi parlamentari, 2-3 per Italia viva e uno a testa per i piccoli gruppi in appoggio al governo. Solo che il sottosegretario alla Presidenza si è trovato in una palude di veti incrociati che hanno tenuto il dossier fermo fino a ieri. E se fino a martedì erano i 5 Stelle a non aver ancora consegnato la lista, ieri pomeriggio i nomi mancanti erano proprio quelli del Nazareno. Bloccati dalla richiesta di alcune deputate e senatrici (il cosiddetto Lodo Pini) di aspettare la direzione del Pd (oggi) prima di chiudere qualunque partita relativa alle nomine. Non è andata così nei tempi. Ma non c’è dubbio che Zingaretti abbia fatto il restyling più corposo rispetto ai desiderata dei pretendenti, uomini e donne. Così nella lista arrivata ieri sul tavolo del Cdm c’erano sei nomi, cinque donne e un solo uomo, l’ex ministro Enzo Amendola che dovrebbe tornare ad occuparsi di Politiche comunitarie. Draghi infatti lo ha indicato come tecnico per quella stessa delega. Tra le donne ci sono alcune conferme e qualche sorpresa. Resterebbero al loro posto Simona Malpezzi (Rapporti con il Parlamento), Anna Ascani (Istruzione) e Marina Sereni (Esteri). Le novità sarebbero Alessandra Sartore, assessore alla programmazione economica della Regione Lazio e destinata al Mef, e Assuntela Messina al ministero del Sud. Ancora una volta dominano le correnti del Pd: se Sartore è area Zingaretti, Messina è area Boccia-Emiliano; Malpezzi e Ascani per Base Riformista, Sereni per Area dem (Franceschini). Mancano nomi di peso convinti di essere confermati come Misiani al Mef e Martella all’Editoria. E su questo si è incendiata la riunione. All’Editoria infatti sarebbe stato indicato in un primo momento Giorgio Mulè (Forza Italia), poi trasferito alla casella Difesa, e il Pd è andato in bestia: “Non erano questi i patti”. A questo punto è stata interrotta la riunione. Ma all’editoria è stato assegnato un altro azzurro: Giuseppe Moles. La più tranquilla sembra la Lega. Sette i posti destinati al partito di Salvini. Tra i nomi indicati ci sono Claudio Durigon (Lavoro) per “controllare” cosa fa il ministro Orlando, Lucia Borgonzoni alla Cultura, Rossano Sasso, Stefano Candiani e Massimo Bitonci (Mef). Al Viminale, alla fine, Salvini è riuscito a far tornare Nicola Molteni che era stato suo braccio destro quando era titolare dell’Interno. Anche questo è uno boccone duro da digerire. Il Movimento si deve alla fine accontentare di undici posti, sette donne e quattro uomini. Erano tredici ma le ultime espulsioni (41 eletti in meno) hanno pesato nel sottogoverno. Tra i nomi sicuri ci sono Carlo Sibilia (Interno), Pierpaolo Sileri (sicuro alla Salute), Laura Castelli ma non è certa al Mef, Alessandra Todde (Mise), Dalila Nesci. Confermati Giancarlo Cancelleri (Mit), Manlio Di Stefano (Esteri). Tra le new entry Rossella Accoto (Lavoro), Dalila Nesci (Sud), Anna Macina (Giustizia), Barbara Floridia (Istruzione), Ilaria Fontana (Transizione ecologica). Fuori dalla lista Buffagni. Italia viva torna alla formazione iniziale con Teresa Bellanova sottosegretario al Mit e Ivan Scalfarotto. Per Forza Italia (6 caselle) dovrebbero entrare Debora Bergamini, Giorgio Mulè (Difesa), Francesco Paolo Sisto, Francesco Battistoni, Gilberto Pichetto Fratin, Giuseppe Moles. A dodici giorni dal giuramento la squadra di governo a questo punto è pronta. Può marciare a regime. Anche la parte più difficile, la creazione del nuovo ministero per la Transizione ecologica affidata al fisico Cingolani, è stata completata. Definito, molto più facile, lo spacchettamento dal Turismo dalla Cultura: sono entrambi tra i settori più penalizzati dal Covid e in questo momento c’è bisogno che quei mondi possano avere un ministero di riferimento che si occupi in esclusiva di quei problemi. Il decreto di pagine è pronto. Il Mise, affidato a Giorgetti, perde deleghe importantissime. Si potrebbe parlare di un Giorgetti svuotato. Ma non è così.

Poltrone di governo, spunta la cognata di Gentiloni. Per la spartizione varato l’algoritmo Draghi. Monica Pucci mercoledì 24 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Lo chiamano l’algoritmo Draghi, è la versione più moderna e sofisticata del famoso manuale Cencelli, l’italianissimo metodo di spartizione delle poltrone in voga nella Prima Repubblica, ma anche nella seconda e nella terza. L’algoritmo, in stile Facebook o sorteggio per la Champion League, incrocia “peso” politico e rappresentanza numerica nel determinare un coefficiente da utilizzare non solo nell’assegnazione dei sottosegretari, su cui infuria una guerra senza precedenti, ma anche di tutto il sottobosco di governo, dalle nomine negli enti pubblici, alle controllate, agli apparati burocratici. In questo senso, c’è da segnalare in pole position la cognata del commissario Ue Paolo Gentiloni, che secondo il sito Dagospia sarebbe nelle grazie del ministro dell’Economia, Daniele Franco, “che avrebbe  telefonato ad Antonio Agostini, direttore dell’Agenzia del Demanio, per informarlo dell’intenzione di sostituirlo con Alessandra Dal Verme, responsabile dell’Ispettorato generale per gli affari economici, nonché cognata dell’ex presidente del Consiglio, e attuale commissario economico UE Paolo Gentiloni”. Rumors maliziosi, su cui non è ancora arrivata smentita, forse alimentate anche dalle recenti interviste entusiastiche di Gentiloni sul nuovo governo Draghi, che ai più sono apparse fin troppo esplicite e irriverenti nei confronti del suo predecessore, Giuseppe Conte. E’ stato il “Corriere della Sera“, oggi, a svelare i meccanismi sottilissimi dell’algoritmo Draghi. “Roba da intelligenza artificiale, se non ci fosse quella di Roberto Garofoli, braccio destro di Draghi. L’algoritmo è tarato su 40-44 sottosegretari. Pochi, considerato che tra gli aspiranti, oltre ai quattro partiti principali (M5S, Pd, Lega, Forza Italia) e ai due minori (Italia Viva e Leu), ci sono le altre componenti parlamentari (dal Centro democratico di Tabacci a Cambiamo di Toti, da Azione-Più Europa agli autonomisti). I partiti avrebbero voluto più posti: senza tornare ai 76 sottosegretari del governo Prodi, i 45 del primo governo Conte erano divisi tra due partiti, i 42 del Conte bis tra tre partiti. Ma Palazzo Chigi è stato irremovibile. Ha chiesto ai partiti nomi e caselle preferenziali, frullando tutto con l’algoritmo. La distribuzione dei posti è proporzionale ai voti espressi nella fiducia al governo, facendo la media ponderata tra Camera e Senato. Che penalizza il M5S per la defezione di oltre 50 parlamentari: pur essendo ancora il partito di maggioranza relativa, dai 24 sottosegretari del Conte I passerà a 10-11. A cascata 8 o 9 alla Lega, 7 o 8 al Pd, 7 a Forza Italia, 2 a Italia Viva e uno a testa agli altri…”. Roba da laurea in algebra e fisica quantistica, che farebbe ridere se non fosse vera. Roba che nessuno avrebbe mai immaginato in un governo che si presenta come quello dei “migliori”. Migliori in matematica, forse.

Mario Draghi, il dossier sul "complotto" contro Giuseppe Conte: l'asse Paolo Gentiloni-Sergio Mattarella. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Il passaggio da Giuseppe Conte a Mario Draghi? Tutto già scritto nelle parole di Paolo Gentiloni. Il Fatto quotidiano, in lutto perenne per il cambio della guardia a Palazzo Chigi, ha messo insieme un dossierino con tutte le dichiarazioni pubbliche del commissario Ue italiano all'economia. Si parte dalla fresca intervista dell'ex premier Pd a Repubblica, in cui si sottolinea come l'imperativo dell'Europa e del nuovo governo sarà "evitare gli errori fatti nella crisi del 2008 e non tarpare le ali alla ripresa", Sul tavolo il congelamento e il ricalibramento del Patto di Stabilità. Il punto cruciale, però, è l'immagine di rigore sui conti e affidabilità che dà Draghi all'estero (e negli Usa in particolare) e un'Italia "finalmente virtuosa" e "più concentrata sulle riforme strutturali e meno disattenta alla dinamica del debito" può "spostare gli equilibri interni all'Ue". Soprattutto, l'ex presidente della Bce è garanzia di un governo "fortemente atlantista ed europeista". Parole chiave che che già Conte aveva provato a usare nel suo disperato tentativo di restare a Palazzo Chigi, conscio di come la carta atlantista sarebbe stata decisiva con il passaggio da Donald Trump a Joe Biden, Ma sul conto dell'avvocato pesavano i trascorsi e "alcune gravi sbandate" filo-cinesi, per dirla alla Gentiloni. Il Fatto ricorda come il commissario Ue, insieme allo stesso Draghi, siano i due consiglieri più ascoltati da Sergio Mattarella in quanto a politica estera ed equilibri internazionali. Ed ecco che il governo Draghi sarà decisivo nel rispostare verso Washington la partita del 5G, e sono significative le deleghe conferite a Giancarlo Giorgetti e Vittorio Colao. Secondo il quotidiano diretto da Marco Travaglio, dalla fine dell'anno scorso "Gentiloni ha fatto da sponda all'operazione Draghi, disseminando segnali più forti via via che Conte si indeboliva", ora tirando la giacca al premier sul Recovery Fund ora frenando sull'ipotesi di elezioni anticipate. Altro segnale di sintonia sospetta tra Gentiloni e il nuovo inquilino di Palazzo Chigi? "Il capo di gabinetto di Draghi è lo stesso che fu con lui, Antonio Funiciello; lo stesso Colao è passato dalla task force a un ministero; un pezzo della burocratja ministeriale è stata suggerita da lui. Draghi non ha certo bisogno di king maker, ma l'aiuto lo avrà gradito di sicuro". Forse però si dovrebbe parlare di buonsenso, più che di complotti.

Governo Draghi, da Cottarelli a Saraceno ecco il sub governo di tecnici e consulenti. Emanuele Lauria su La Repubblica l'1 marzo 2021. Molti ministri del nuovo esecutivo allargano gli staff a task force di esperti. Il titolare del Lavoro Orlando arruola Goracci, già capo di gabinetto di Conte. L'ultima fiammeggiante cometa nella galassia del sottogoverno, sta viaggiando in queste ore e da Palazzo Chigi raggiunge via Veneto, sede del ministero del Lavoro: Alessandro Goracci, il capo di gabinetto dell’ex premier Giuseppe Conte, va a lavorare nel dicastero retto da Andrea Orlando, con l’incarico di capo dell’ufficio legislativo. Non uno spostamento di poco conto, visto anche il peso specifico del dirigente, peraltro indicato - nella fase conclusiva dell’esperienza dell’avvocato - come uno dei più attivi nel reclutamento di “responsabili” che fallirono la mission di salvare il vecchio governo. Ma quello di Goracci è solo uno dei nomi che animano il via vai di consiglieri di stato, magistrati, ambasciatori, intellettuali, ex parlamentari che stanno componendo gli staff del nuovo governo. E nel new deal dell’Unità nazionale entrano anche studiosi di chiara fama, come l’economista Carlo Cottarelli, che nel 2018 fu anche premier incaricato e che ora è stato chiamato dal ministro Renato Brunetta (a titolo gratuito) a scrivere nuove regole sulla semplificazione burocratica. O come la sociologa Chiara Saraceno, che Orlando ha voluto nel Comitato per la valutazione del reddito di cittadinanza. Il suo inner circle, Mario Draghi, lo ha costruito in nome della discontinuità con il suo predecessore: da Antonio Funiciello, già capo staff a Palazzo Chigi con Paolo Gentiloni, al capo dell’ufficio legislativo Carlo Deodato, consigliere di Stato che quel posto lasciò quando Matteo Renzi portò a Chigi l’ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione. Fino al consigliere diplomatico Luigi Mattiolo, ambasciatore richiamato da Berlino. Unica conferma, da Draghi, quella del segretario generale Roberto Chieppa, che è stato un “fedelissimo” di Giuseppe Conte. La rottura col recente passato, in realtà, ha riguardato solo in parte la struttura burocratica dei ministeri. Big come Lamorgese, Di Maio, Franceschini, Guerini, Speranza hanno mantenuto i loro capi di gabinetto. Ma anche alcuni nuovi colleghi hanno scelto l’usato sicuro negli uffici di diretta collaborazione: la Guardasigilli Marta Cartabia si è affidata come capo di gabinetto al magistrato casertano Raffaele Piccirillo e per l’ufficio legislativo a Mauro Vitiello: due uomini che lavoravano già con l’ex ministro grillino Alfonso Bonafede. Lo stesso dicasi per Enrico Giovannini, che al Mit ha mantenuto i burocrati di punta al servizio di chi lo ha preceduto (Paola De Micheli), in primis il consigliere della Corte dei conti Alberto Stancanelli. E attenzione: pure Patrizio Bianchi, andato a sedersi sullo scranno di una delle più discusse ministre del Conte 2, Lucia Azzolina, non ha volto toccare il capo amministrativo del ministero della Scuola: Luigi Fiorentino, che lo stesso ruolo aveva svolto con Profumo, Carrozza e Fioramonti. Un evergreen. Diverso il caso di Stefano Patuanelli, che nel trasloco dal Mise all’Agricoltura ha portato tutto lo staff, a sua volta ereditato per gran parte da Luigi Di Maio: in mezzo quell’Enrico Esposito che del leader dei 5S fu collega universitario e nel 2018 finì al centro di uno scandalo per i suoi tweet sessisti e omofobi. Mentre Giancarlo Giorgetti, al Mise, sceglie Paolo Visca, già capo di gabinetto di Matteo. L’altro leghista Massimo Garavaglia (Turismo) ha portato con sé Gaetano Caputi, ex direttore generale della Consob. Alla Transizione ecologica Roberto Cingolani, fisico amatissimo da Matteo Renzi, ha scelto Roberto Cerreto, che in passato timonò lo staff dell’ex ministra Maria Elena Boschi. Per restare a Italia Viva, Elena Bonetti ha nominato come capo della segreteria tecnica l’ex deputata Ileana Piazzoni. All’Innovazione tecnologica Vittorio Colao punta su Stefano Firpo, direttore generale di Mediocredito. E i forzisti? Renato Brunetta si è affidato a Marcella Panucci, volto noto di Confindustria di cui è stata per 8 anni direttore generale, mentre Mara Carfagna premia Giacomo Aiello, storico consigliere di Guido Bertolaso. Un segnale dei tempi che cambiano. O che tornano.

Il ritorno al potere di superburocrati e manager di Stato sopravvissuti alle rottamazioni di Renzi e Grillo. di Carlo Tecce su L'Espresso il 24 febbraio 2021. Grand commis e tecnici scampati ai cambiamenti delle ultime stagioni politiche sono di nuovo nelle stanze che contano. E preparano le prossime nomine. Il governo di Mario Draghi è davvero un capolavoro, si teme involontario, di Matteo Renzi e di Beppe Grillo. Sono lì che plaudono a quei tecnici, quei sensali e quei burocrati che hanno tentato di abbattere con la rottamazione e il populismo. Adesso quelli, di memoria profonda e di maniere affettate, riprendono il comando, sospinti proprio da Renzi e Grillo. E sono guai. La nuova mappa del potere, in vigore con Draghi, non è nuova. È soltanto un po’ sgualcita e impolverata. Conviene impararla in questi mesi di rodaggio: ci sono gli oltre 200 miliardi di euro di risorse europee da spendere e circa cinquecento poltrone di aziende statali ben assortite da distribuire, come il servizio pubblico Rai, la capogruppo Ferrovie, la sua controllata Anas e soprattutto Cassa depositi e prestiti, l’agognata Cdp.

NEMESI: VENDETTA RIPARATRICE. Per interpretare la funzione di Roberto Garofoli, sottosegretario a Palazzo Chigi, cioè manutentore del governo, vanno riviste le immagini dell’intervento di Draghi in Senato. Con le orecchie piegate dalla mascherina e col busto rigido e lo sguardo fisso all’aula, mentre in alto a sinistra il ministro Giancarlo Giorgetti si dimenava, irrequieto, come se stesse solfeggiando il discorso dell’amico Mario, Garofoli quasi impallava Draghi. Ecco il mandato di Garofoli, pugliese di Molfetta: proteggere Draghi. Garofoli ha fatto tre cose diverse nella sua carriera: il magistrato ordinario ai tribunali di Trani e di Taranto, il giudice al Tribunale amministrativo regionale della Puglia, il presidente di sezione al consiglio di Stato. Quella più riuscita e costante è la quarta: il protettore, per l’appunto, dei politici e dei ministri. A Palazzo Chigi è tornato dopo sette anni, al governo dopo uno e mezzo. Ha lavorato con Massimo D’Alema agli Esteri, con Filippo Patroni Griffi alla Funzione Pubblica e ancora da segretario generale di Palazzo Chigi con Enrico Letta premier. Con l’avvento di Renzi, nel 2014 riparò al Tesoro con i gradi di capo di gabinetto del ministro Pier Carlo Padoan, allora classificato come dalemiano, ma poi declassificato in altro modo. Sempre con Padoan, liberato dall’abbraccio di Renzi, fu irrinunciabile nel governo di Paolo Gentiloni, finché le elezioni di marzo rovesciarono il mondo esistente che, attenzione, non implose, ma si rese non più visibile. Il 15 marzo 2018 all’Istituto Treccani sembra di un’altra epoca. Fuori c’erano Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i vincitori, che irrompevano nel palazzo con mezza Italia accanto e giuravano di voler restituire ai cittadini il rispetto perduto additando i colpevoli. Cancellare il passato per imporre un futuro su cui però non erano d’accordo. Dentro c’erano Giuliano Amato, Sabino Cassese, Franco Frattini, Paola Severino, Filippo Patroni Griffi, i vinti, riuniti per presentare il volume dal titolo “La nuova disciplina delle società a partecipazione pubblica” curato da Garofoli e Andrea Zoppini, l’avvocato che si tiene lontano dalla politica dopo la scottante esperienza nel governo di Mario Monti. Il tavolo era rotondo, non troppo capiente, un assembramento, i fogli spiegazzati, le giacche stazzonate, un groviglio di fili e di bottiglie d’acqua, il fastidioso gracchiare dei microfoni e la solita platea in giacca e cravatta che lo stilista Salvini aveva ormai bandito dal sentire, o meglio dal vestire comune. Più corrente Amato che Cassese, Garofoli ne ha firmato la premessa, i primi due capitoli furono affidati a due professori universitari: Bernardo Mattarella, il figlio di Sergio; Giulio Napolitano, il figlio di Giorgio. Allora era un testo dal valore scientifico, oggi è un indizio per Cdp e sorelle: «Il tema delle società a partecipazione pubblica - scriveva Garofoli nell’opera edita da “Nel diritto editore” di Molfetta, la casa editrice di proprietà della moglie - non può essere affrontato avendo riguardo al solo obiettivo del ridimensionamento quantitativo del fenomeno, lo stesso intersecando, tra gli altri, quello della definizione delle politiche industriali e del ruolo che al riguardo può essere riconosciuto, ferma la disciplina europea in tema di aiuti, alla mano pubblica». Vuol dire che la aziende statali riflettono le politiche (al plurale) del governo. Il ministro Giovanni Tria lo confermò al Tesoro nell’esecutivo del cambiamento che non riuscì mai a cambiare neanche la tappezzeria, ma tempo un semestre di pressioni e accuse dei Cinque Stelle e Garofoli si dimise. È finita con i vincitori che hanno propiziato la chiamata dei vinti. I numeri di Amato, di Severino, di Zoppini, di Patroni Griffi, mai andati in disuso, sono i più compulsati del momento. Rincasato a Palazzo Chigi, Garofoli ha subito convocato Carlo Deodato per l’ufficio legislativo dopo gli anni con Monti e Letta. Altro consigliere di Stato, Deodato è stato accolto con sdegno dalla sinistra perché fu il relatore della sentenza che annullò le trascrizioni dall’estero dei matrimoni omosessuali. Deodato è sicuramente un giurista ultracattolico quanto un antirenziano.

IL PEZZO FORTE. Appena Draghi ha ricevuto dal Quirinale il mandato di formare il governo, Dario Scannapieco ha scaricato sul cellulare l’applicazione Telegram che permette di distruggere i messaggi e intrattenere conversazioni all’apparenza più riservate. Scannapieco è un economista assai stimato da Draghi, è vicepresidente della Banca europea per gli investimenti. Nella tarda primavera del 2018 fu praticamente designato dal governo di Gentiloni, in uscita, per guidare Cdp, ma il governo Conte I, in entrata, lo contestò ferocemente e gli preferì Fabrizio Palermo. Come è noto Palermo si batte per restare a Cdp e in questi giorni ha appreso due notizie. La buona: salutato Conte, il rivale Domenico Arcuri non è più temibile. La cattiva: Scannapieco ha imparato in fretta a usare Telegram e fa più paura di Arcuri. Altra annotazione per Palermo: Antonio Funiciello era fra i promotori di Scannapieco. Anche Antonio Funiciello ha risalito il calendario sino al 2018 e si è accomodato con Draghi nella stanza con il balcone e le bandiere di Palazzo Chigi, quella del capo di gabinetto, che aveva lasciato con Gentiloni. È vero che Funiciello ha diretto il comitato per il sì al referendum costituzionale di Renzi, ma poi Renzi stesso ne pretese la rimozione notturna dalle liste del Pd alla vigilia del deposito, sempre nel fatidico 2018. Garofoli e Funiciello sono decisioni di Draghi ispirate dal Quirinale e sono necessari per avvicinare Palazzo Chigi al ministero dell’Economia e trasformarli in un tutt’uno: parte essenziale del governo 1 di Draghi e dei non politici. L’altro è il governo 2 dei politici. Fra i «pezzi di merda» del Tesoro, per citare un audio di Rocco Casalino ai giornalisti, c’era anche Daniele Franco, che come Garofoli, secondo la letteratura apocrifa della prima versione dei Cinque Stelle, era d’intralcio all’abolizione della povertà. All’epoca il ministro Franco era ragioniere generale dello Stato, promosso da Enrico Letta, premier di un governo breve ma incisivo nelle strutture statali. Giuseppe Chiné, consigliere di Stato, è il capo di gabinetto di Franco. È una scelta che ha stupito. Autore di manuali universitari sia con Guido Alpa, mentore di Conte, sia con il succitato Zoppini, Chiné transitò al Tesoro col ministro Giulio Tremonti e con Vincenzo Fortunato, fra i più longevi capi di gabinetto. Rimbalzato da Beatrice Lorenzin alla Sanità a Marco Bussetti all’Istruzione, centro con vocazione a destra e destra con vocazione leghista, il burocrate Chiné sembrava più che lusingato dall’ipotesi di una candidatura col centrodestra per la regione Calabria. Per comprendere le nomine nelle aziende seguire la traccia Garofoli, Funiciello e Franco. E osservare il redivivo Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro, che ha superato indenne la stagione «pezzi di merda».

TUTTI INSIEME, TUTTI CONFUSI. Sempre lesti a sventolare la bandiera di chi comanda, in Rai non sanno più che bandiera tirare su. Il caso del presidente Marcello Foa è un enigma irrisolto. Fu indicato dai leghisti come simbolo del vecchio centrodestra in onore del nuovo sovranismo, dunque col Conte I era un presidente di maggioranza e di opposizione. Col Conte II è diventato un presidente di opposizione e di un sovranismo ormai abiurato dai Cinque Stelle, tant’è il Pd è stato a lungo in procinto di sostituirlo, talmente a lungo che Conte non c’è più. Adesso il povero Foa è presidente di nessuno poiché Salvini ha abbracciato quel salvatore dell’Europa che hanno combattuto assieme. La soluzione esiste, e la custodisce l’amministratore delegato Fabrizio Salini (in scadenza), che per non sbagliare ha sempre saggiamente optato per il non fare, e pare intenzionato a suggerire all’azionista, cioè al ministero del Tesoro, di prorogare tutti per un anno per far fronte a cotanto garbuglio politico. I renziani sono i più impauriti. Renzi racconta di aver montato il Conte I, smontato il Conte II e montato il Draghi I. In realtà Draghi non si è scordato dei renziani che volevano trascinarlo in Commissione banche, la scorsa legislatura, per ripulirsi dai pasticci su Etruria&C. e interrogarlo da ex governatore di Bankitalia e presidente in carica della Banca centrale europea. In questi momenti di sbandamento, l’unica certezza è lo studio di Gianni Letta alla sede romana di Mediaset in largo del Nazareno. In segreteria sono sfiniti: «Il dottore sta ancora ricevendo. Mi spiace, può capire, oggi purtroppo le richieste sono tante». Benvenuti a dieci anni fa.

Tutti gli uomini di Draghi: così rafforza il suo “partito” tra Bankitalia e Tesoro. Andrea Muratore su Inside Over il 25 febbraio 2021. Daniele Franco è da pochi giorni il nuovo titolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze e il suo passaggio nel campo del governo Draghi ha aperto un processo importante di ridefinizione degli equilibri interni alla Banca d’Italia. Istituzione che il neo-premier, da ex governatore, conosce a menadito e in cui l’economista già passato per il ruolo di Ragioniere generale dello Stato ricopriva dall’1 gennaio 2020 la carica di Direttore generale. Il direttore generale di Palazzo Koch è di fatto il numero due dell’istituto, sostituisce il governatore in caso di impossibilità a svolgere il proprio ruolo, assieme a questi ed ai suoi tre vice compone il Direttorio, organo collegiale competente per l’assunzione dei provvedimenti aventi rilevanza esterna relativi all’esercizio delle funzioni pubbliche attribuite dalla legge alla Banca d’Italia. Funge inoltre da figura di coordinamento tra la struttura apicale della Banca e i suoi organi burocratico-amministrativi interni, dagli uffici studi alle sezioni territoriali. Il governo sarà chiamato in tempi brevi, dunque, a scegliere un sostituto di Franco in grado di entrare pienamente in azione nelle sue funzioni. E per la scelta sono in lizza due dei tre vice di Franco: Piero Cipollone e Luigi Federico Signorini. Il primo è in Via Nazionale dal 1993, e apparirebbe la figura preferita da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia e, come ha ricordato Il Tempo, è stato “uno dei consiglieri più fidati e decisivi del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte”, mentre Signorini, nota StartMag, è nell’istituto dal 1982, “è membro del direttorio e vicedirettore generale dal 2013, ed è stato confermato nel 2019”, dopo una lunga querelle che coinvolse il primo governo Conte, contrario alla sua riconferma, e che fu sbloccata dalla chiamata del predecessore di Franco, Fabio Panetta, nel board Bce, che aprì il valzer di nomine per l’affidamento del ruolo di dg a Franco. Franco, Panetta, Visco, Cipollone e Signorini sono figure della burocrazia e grand commis uniti da un comune filo rosso. Un filo rosso che rispondono a una figura ben precisa, a un nome e ad un cognome: Mario Draghi. Non si può capire perché Mario Draghi sia divenuto il punto di riferimento di numerosi interessi di potere nazionali ed internazionali se non si comprende quella che è stata, nel corso della sua carriera da direttore generale del Tesoro, da governatore della Banca d’Italia e da massima autorità della Bce, la sua maggiore qualità organizzativa e politica, ben ricordata di recente dall’analista Alessandro Aresu: la capacità di nominare nelle strutture da lui dirette figure di propria fiducia e di comprovata competenza con cui costruire solidi rapporti di collaborazione professionali legati da una comune cultura organizzativa e amministrativa. Draghi, ricorda Il Sole 24 Ore, “da Governatore aveva promosso a capo della ricerca economica” l’attuale ministro Franco, garantendogli una “posizione strategica anche nei rapporti con il mondo della politica (è il funzionario generale che va spesso in audizione in Parlamento)”; Signorini e Cipollone sono ascesi agli alti vertici amministrativi di Palazzo Koch durante l’era Draghi e il primo fu suo assistente all’Università di Firenze negli Anni Ottanta. Visco ha preso le redini dell’istituto dopo il passaggio di Draghi in Bce nel 2011, e nei quattro anni precedenti aveva ricoperto la carica di vicedirettore generale, prendendo parte alle riunioni del Direttorio; Panetta, invece, è stimato da Draghi per la sua attenzione alle questioni monetarie europee e tra i due si è costruito un feeling e un rapporto professionale consolidato negli anni più recenti, tanto che Draghi ha cercato anche il suo parere durante le consultazioni. “Draghiano” è anche un’altra figura apicale della finanza europea, Ii vice presidente della Bei, Dario Scannapieco, che nel 1997 fu chiamato direttamente da Draghi per far parte del consiglio degli esteri mentre era ad Harvard. Il nuovo direttore generale, che si porrà in testa per la successione a Visco quando, tra due anni, il suo mandato scadrà, sarà dunque un “draghiano”, e nelle istituzioni e nel potere romano il nuovo premier potrà dunque rafforzare la sua zolla personale di influenza. A testimonianza del fatto che definire Draghi una semplice figura “tecnica” è riduttivo e fuorviante. Draghi negli anni ha agito a fianco del potere politico, in sua supplenza e come suo complemento, mai come sua alternativa: dal Ministero del Tesoro e dalla Banca d’Italia ha ramificato una struttura di rapporti multilaterali e di incroci professionali che ha rafforzato il ruolo di queste due istituzioni come “palestra” della classe dirigente nazionale. Non a caso governatori della Banca d’Italia sono stati Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi, le figure di riferimento per l’avvio della carriera professionale di Draghi nello Stato ai tempi dell’ultimo governo Andreotti, che nel 1991 lo nominò direttore generale del Tesoro. Un potere consolidato, dunque, che in Draghi ha trovato un interlocutore ideale quando Sergio Mattarella lo ha chiamato alla guida della presidenza del Consiglio alla caduta del governo Conte II. E che nel governo ha trovato subito posto con la chiamata di Franco e con la costituzione di un super-tavolo di ministri indipendenti chiamati a gestire i dossier del Recovery Fund. Prenotando, con la prima nomina alla Banca d’Italia che il consiglio dei ministri dovrà fare, la sua perpetrazione assicurandosi il controllo della successione a Via Nazionale. Un potere che, come quello solido e duraturo del Quirinale, si contrappone sempre di più alla caducità e alla difficoltà di elaborazione di lungo periodo delle classi dirigenti partitiche. Incapaci di fare vere operazioni di consolidamento politico come quella del partito degli uomini di Draghi.

Draghi, ci mancava l'orecchiologa: "Cosa rivela il suo orecchio". Secondo l'otomante o "orecchiologa" Doretta Gamberini, il premier Mario Draghi sarebbe una persona solare e piena di entusiasmo. Giuseppe De Lorenzo - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale.  Fare il ritratto di un politico è cosa ovvia, soprattutto quando assurge ad una posizione di rilievo. E se a Città della Pieve ti dicono che una brava persona, riservata, che fa la spesa come ogni normale cristiano e va a messa, sarà pur vero. Di Draghi ormai sappiamo quasi tutto: la scuola dai gesuiti, la formazione economica, la carriera, i compagni di classe famosi, Goldman Sachs, la Banca d’Italia, la Bce, la moglie che comanda a casa. Dopo il giuramento abbiamo pure scoperto essere solito comprare la carne ai Parioli per farsi un ottimo brasato, pietanza che ama cucinarsi egli stesso (‘sti cavoli!). Ci mancava però, in effetti, di poter cantare le lodi addirittura delle sue “belle” orecchie. Ora, ci tocca rimanere seri. Oggi in diretta a Un Giorno da Pecora, su Radio1, i due vulcanici conduttori hanno intervistato nientepopodimenoche Doretta Gamberini, di professione "otomante" o per meglio dire "orecchiologa". In sostanza Doretta interpreta il carattere di una persona osservandogli le orecchie: difficile dire se si tratti di una scienza esatta, ma visti gli errori in cui sono caduti i virologi in questa pandemia, può darsi sia più precisa delle previsioni di un epidemiologo. Una orecchiatina e via: Draghi in base al lobo pare sia una persona solare e piena di entusiasmo, seria nelle istituzioni ma anche gioiosa con gli amici. Di più: "Il premier ha un bell’orecchio - dice Doretta - mi piace, è meraviglioso, che mostra di riuscire ad ottenere quel che vuole". Pur con differenze di conformazione, i padiglioni di Draghi non sarebbero poi così distanti da quelli di Conte: tutti e due "credono in quello che fanno", sono "decisi" e ben diversi dai politicanti soliti. I quali, invece, birbanti, sono abituati a fare orecchie da mercante. Chissà se Serenella, la moglie riservata del premier, si era mai accorta di cotanta bellezza all’organo dell’udito del marito. E chissà se concorda con Doretta quando dice che Draghi “mi pare sia una persona che quando si arrabbia ‘fuma dalle orecchie, ma non alza mai la voce”. Forse non ne ha bisogno: il premier orecchia i problemi, li risolve, li supera. Forse tirerà le orecchie ai leader della sua eterogenea maggioranza. Di certo sappiamo che non è ancora santo, nonostante le lodi cantate in questi giorni da più parti. In caso di canonizzazione, comunque, sappiamo già con cosa fare le reliquie: sarà caccia grossa ad avere un pezzettino di tubercolo dell’elice.

Una rosa e tantissime spine. Draghi dia una sterzata, il suo governo appena un po’ al di sopra della banda di dilettanti di Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Avere posto fine ai vari governi Conte – che rischiavano di dover gestire alcune questioni gigantesche, come la vaccinazione di massa e il nuovo piano Marshall – è un merito molto grande. Una medaglia d’oro puro che Mario Draghi si può appuntare sul petto. Punto. Purtroppo: punto. I meriti dell’ex governatore, al momento, sembrano fermarsi qui. Scelta dei ministri: nessuno può dire che, tranne qualche rara eccezione, siano stati scelti nomi eccellenti. Siamo appena un po’ al di sopra dei due governi dei dilettanti guidati dai 5 Stelle. Ci avevano annunciato meraviglie, ci siamo trovati a un livello bassino. Sottosegretari. Anche qui qualche eccezione lodevole (ovvio che tra le eccezioni metto la mia amica Deborah Bergamini, che insieme a me ha fatto partire e diretto il Riformista, prima di tornare alla politica pura) ma poi tanti nomi difficili da digerire. Alla scuola, mi pare, c’è un sottosegretario convinto che la frase “Chi si ferma è perduto” sia un verso di Dante e non una battuta di Topolino di 70 anni fa, ripresa vent’anni dopo da Totò. Ce l’avrà la terza media? Boh. Alla cultura la simpaticissima Borgonzoni, che però sosteneva che l’Emilia (la sua Regione) confina col Trentino e non legge un libro da 3 anni. Poi c’è Sibilia, quello dei chip sottopelle, del mancato sbarco sulla luna, forse anche delle scie chimiche, che è finito all’Interno. Castelli, che dava esilaranti lezioni di economia a Padoan, l’hanno lasciata all’Economia. Alla difesa c’è una certa Stefania Pucciarelli che una volta mise un like a un tweet che invocava i forni nazisti per gli immigrati. E non si ferma mica qui l’elenco. Sono solo finite le righe. Dopodiché ci sono i primi passi del governo. Malfermi e preoccupanti. La prescrizione è sparita sull’altare dei 5 Stelle e non pare ci sia nessuna voglia di ripristinare lo Stato di diritto massacrato da tre anni di grillismo. I Dpcm che dovevano scomparire stanno tornando. Arcuri è lì. Il Sud fuori dai radar, anche per via di un governo quasi tutto settentrionale. È stato ucciso un ambasciatore e nessuno risponde sulle responsabilità della Farnesina. Insomma, è pur vero che è passata neanche una settimana, ma i segnali sono allarmanti. O Draghi dà una sterzata, e prende in mano l’agenda, e detta una linea politica, e taglia con i pasticci di Conte, o anche a noi verrà il dubbio, atroce, che, in fondo, mica è cambiato molto.

Davide Lessi per "la Stampa" il 15 marzo 2021. Pochi giorni fa è bastato un suo tweet, una frase sui social di appena 27 parole in cui attaccava il governo Draghi, per scatenare una lunghissima scia di reazioni, minacce di azioni legali e polemiche. Ecco, se c' è una cosa che va riconosciuta a Yanis Varoufakis è la capacità di radicalizzare il dibattito pubblico. Il 59enne ex ministro delle Finanze greco riesce a dividere il mondo in due: c'è chi pensa sia solo un «politico fallito, da convegni»; e chi, invece, vede in lui un illuminato. Di sicuro le sue idee non lasciano indifferenti. «Il Recovery Fund non sarà sufficiente», dice in questa intervista a La Stampa in cui profetizza che dopo la pandemia «l'Europa sarà molto più debole perché gli investimenti non basteranno». A Mario Draghi contesta il metodo con cui è arrivato alla premiership. E poi elogia il nuovo segretario dem Enrico Letta: «L'ho conosciuto e mi piace molto». Salvo poi aggiungere che DiEM25, il movimento progressista paneuropeo che ha fondato, non ha intenzione di avere relazioni con il Pd.

Varoufakis, partiamo da quel tweet. Non le sembra che sia stato inappropriato accostare una società di consulenza alla mafia?

«La decisione del governo Draghi di ingaggiare McKinsey è un insulto al popolo italiano. La vostra democrazia non ha bisogno di una società di consulenza per distribuire i fondi comunitari. Quella sulla mafia era una battuta ma appropriata: dopo McKinsey cosa ci aspetta? Draghi poteva fare peggio solo chiamando la mafia nella riorganizzazione del ministero della Giustizia. Questo ho scritto e questo ripeto».

Al di là delle "battute", più o meno felici. Il Ministero dell'economia italiano ha spiegato in una nota che McKinsey, per un contratto di circa 25 mila euro, offrirà solo un «supporto tecnico-organizzativo». Anche la vicina Francia ha ingaggiato la stessa società per la pandemia. Perché lei è contrario?

«Guardi, non è importante per quanti soldi e dove sono stati assunti: è il loro coinvolgimento che trovo immorale. Ricordo a tutti che McKinsey è stata multata per 600 milioni negli Stati Uniti per uno scandalo legato al commercio di oppiacei che, Oltreoceano, continuano a causare migliaia di morti».

Torniamo da questa parte dell'Oceano. Come vede l' Europa? Sarà più forte o più debole dopo questa pandemia?

«Molto, molto più debole. Gli investimenti sono diminuiti nel corso del 2020 di circa il 50 per cento. Il Recovery Fund, nella migliore delle ipotesi, coprirà solo un ottavo del necessario nei prossimi anni. È troppo poco e i fondi arriveranno troppo tardi. Il rischio per la zona euro è di sprecare un altro anno».

Cosa dovrebbe fare di più Bruxelles?

«La risposta di DiEM25, il mio movimento, è questa: la Bce dovrebbe erogare Eurobond per "europizzare" il debito pubblico. Poi ci dovrebbero essere accrediti diretti nei conti bancari delle famiglie, come hanno già fatto sia Trump che Biden. In terzo luogo, l' Europa dovrebbe investire, a livello centrale, in una rete per l' energia verde dell' ordine del 5 per cento del Pil europeo».

Nella sua ultima intervista a La Stampa, quasi un anno fa, aveva detto che «Roma sarebbe crollata senza Eurobond». Un anno dopo Roma c' è ancora e l'Italia riceverà 209 miliardi dal Recovery. Ha cambiato idea?

«No, tutt'altro. Resto dell' idea che sia giusto che l'opinione pubblica sappia che il Recovery non sarà adeguato. Ben 120 di quei miliardi sono prestiti. E l'ultima cosa di cui l'Italia ha bisogno, considerato l'alto debito pubblico e il problema del suo pagamento. Poi certo ci sono anche 80 miliardi di sovvenzioni, ma sono da distribuire in sei anni: cioè circa 13 miliardi all'anno. Una goccia nel mare, macro-economicamente irrilevante».

In realtà tanti economisti pensano che questo sia un nuovo piano Marshall per l'Italia. E, rispetto a un anno fa, anche la politica è radicalmente cambiata: Matteo Salvini ha accettato di entrare a far parte di un nuovo governo di unità nazionale. Cosa pensa di questo inatteso scenario?

«Che è una sconfitta per la democrazia italiana. L'unica a trarne vantaggio sarà Giorgia Meloni, con il suo partito neofascista raccoglierà il malcontento che, inevitabilmente, crescerà».

Perché non si fida di Draghi? Lei è europeista e lui è stato fondamentale per la sopravvivenza dell'euro. Non solo: da governatore della Bce è stato spesso accusato di aiutare i Paesi dell' Europa meridionale con la sua politica monetaria. Lei invece lo accusa di aver danneggiato Atene...

«La mia opinione su Mario Draghi è irrilevante. Sì, nel 2015 ha contribuito a strangolare la democrazia greca e in questo modo ha danneggiato anche la democrazia europea. Chiudere le banche elleniche è stato un modo per ricattare il popolo greco e costringerlo ad accettare l'ennesimo prestito impagabile da parte della Troika. Ma su Draghi penso ci sia un tema politico importante: la sua nomina non è frutto di un'elezione, è stato scelto a porte chiuse da leader politici che si sono accordati senza tenere conto dei rispettivi programmi con cui si erano presentati al popolo italiano».

Per concludere, immagina qualche collaborazione tra il suo movimento, DiEM25, e il Pd? Cosa pensa di Enrico Letta segretario?

«DiEM25 non ha né vuole avere un rapporto con il Pd, che consideriamo uno dei principali responsabili dei mali dell'Italia, un partito stagnante privo di qualsiasi capacità di pensiero innovativo e progressista. Per quanto riguarda Enrico, sì, lo conosco bene e mi piace molto, personalmente. L'ultima volta che ci siamo incontrati è stato a Parigi dove mi ha invitato a fare lezione ai suoi studenti di Sciences Po. Non è fantastico che politici, economisti, artisti e intellettuali pur essendo spesso in disaccordo possano allo stesso tempo arricchirsi del dialogo e del confronto reciproco?». Lo è.