Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

IL GOVERNO

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio.

Il tradimento della Patria.

Storia d’Italia.

Truffa o Scippo: La Spesa Storica.

Il Paese delle Sceneggiate.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutto va male? Diamo panem (reddito di cittadinanza) e circenses (calcio).

Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati.

Il Piano Marshall.

Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.

Gli errori sull’Euro.

L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Italia che siamo.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Mercato.

I Liberali.

La Nuova Ideologia.

Vizio sinistro: criminalizzazione della Società.

Un popolo di Spie…

I Senatori a Vita.

La Terza Repubblica (o la Quarta?).

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

E la chiamano democrazia…

Parlamento: Figure e Figuranti.

L’ossessione del complotto.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Riformismo e Riformisti.

Il Tecnopopulismo.

La Geopolitica.

La Coerenza.

Le Quote rosa.

L’uso politico della giustizia.

L’Astensionismo.

La vera questione morale? L’incompetenza.

Mai dire…Silenzio Elettorale.

Gli Impresentabili.

I Vitalizi.

Il Redditometro dei Parlamentari.

Il Redditometro dei Partiti.

Parlamento: un Covo di Avvocati.

Autenticazione delle firme per i procedimenti elettorali.

Il Conflitto di interessi.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Appalti truccati.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso Truccato. Reato Impunito.

Concorsi truccati nella Magistratura.

Concorsi truccati nell’Università.

Concorsi truccati nella Sanità.

Il concorso all’Inps è truccato.

Il concorso per docenti scolastici era truccato.

Il concorso per presidi era truccato.

Esami universitari e tesi falsate.

L’insegnamento e la Chiamata Diretta.

Concorsi truccati nella Pubblica Amministrazione.

In Polizia: da raccomandato.

Precedenza ai militari.

Il Cartellino Rosso per gli Arbitri.

L’Amicocrazia.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Esame di Abilitazione Truccato.

La Casta precisa: riforme non per tutti...

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ei fu CNEL.

Lo Spreco dei Comuni.

Lo scandalo della Pedemontana Veneta.

Immobili regalati o abbandonati.

Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi.

Alitalia: pozzo senza fondo.

Giù le mani dalle auto blu.

Le Missioni dei Politici.

Le Missioni dei Giornalisti Rai.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Il “gold exchange standard”, il “Nixon shock” e le politiche monetarie.

I Bitcoin.

Tassopoli.

Le vincite.

Il Contrabbando.

I Bonus.

Il Superbonus.

Bancopoli.

Le Compagnie assicurative.

Le Compagnie elettriche.

Le Compagnie telefoniche.

Il Black Friday.

Il Pacco: Logistica e Distribuzione.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

  

 

IL GOVERNO

PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Qual è il giorno più brutto e più bello della vita?

Il giorno del Compleanno.

Più brutto: devi sorbire gli auguri di circostanza di gente che, spesso, non ti conosce o non ti stima.

Più bello: è un anno in meno di una vita di merda e di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola. Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

ODIO OSTENTAZIONE ED IMPOSIZIONE.

Tu esisti se la tv ti considera.

La Tv esiste se tu la guardi.

I Fatti son fatti oggettivi naturali e rimangono tali.

Le Opinioni sono atti soggettivi cangianti.

Le opinioni se sono oggetto di discussione ed approfondimento, diventano testimonianze. Ergo: Fatti.

Con me le Opinioni cangianti e contrapposte diventano fatti.

Con me la Cronaca diventa Storia.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

“Tutto il sistema è fatto in modo che l’uomo, senza neppure accorgersene, comincia sin da bambino a entrare in una mentalità che gli impedisce di pensare qualsiasi altra cosa. Finisce che non c’è nemmeno più bisogno della dittatura ormai, perché la dittatura è quella della scuola, della televisione, di quello che ti insegnano. Spegni la televisione e guadagni la libertà.” Tiziano Terzani

«È importante sapersi ritirare in se stessi: un eccessivo contatto con gli altri, spesso così dissimili da noi, disturba il nostro ordine interiore, riaccende passioni assopite, inasprisce tutto ciò che nell’animo vi è di debole o di non ancora perfettamente guarito. Vanno opportunamente alternate le due dimensioni della solitudine e della socialità: la prima ci fa farà provare nostalgia dei nostri simili, l’altra di noi stessi; in questo modo, l’una sarà proficuo rimedio dell’altra. La solitudine guarirà l’avversione alla folla, la folla cancellerà il tedio della solitudine.» Lucio Anneo Seneca, “De tranquillitate animi”

Seneca filosofo. Nessuno dà valore al tempo; tutti se ne servono  smodatamente, come se fosse gratuito. Se il numero di anni futuri di ciascuno potesse  essere visibile come quello degli anni passati, come sbigottirebbe chi ne vedesse avanzare pochi, come ne sarebbe parco! Ma è facile risparmiare ciò che è certo, per quanto esiguo; si deve serbare con più attenzione ciò che non sai quando verrà a mancare. Nessuno ti darà indietro gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso. Il tempo della vita proseguirà lungo la sua strada e non riavvolgerà né porrà fine al proprio corso; non farà alcun rumore, non darà segno della sua velocità. Non si allungherà per decreto di un re, né per decisione popolare: corre così come ha iniziato il primo giorno, non si fermerà e non si attarderà. Che accadrà? Tu sei occupato, la vita si affretta; infine arriverà la morte, per la quale, volente o nolente, dovrai avere tempo. Lucio Anneo Seneca

Antonio Giangrande: L’Italia è un parassitario senza fondo, dove i soldi non bastano mai. Reso così dai catto-comunisti, dissimulati anche sotto mentite spoglie (5 Stelle-Lega). Quei catto-comunisti che se governano loro è democrazia, se governano gli altri è dittatura. Quei catto-comunisti che, pur minoritari affetti dalla sindrome della Resistenza, impongono il loro pensiero ideologico con manifestazioni di piazza, anche violente, disconoscendo l’opera, addirittura, dei loro stessi rappresentanti parlamentari portatori dei loro medesimi interessi. Quei catto-comunisti che vogliono il lavoro, ma non vogliono le imprese che creano lavoro. Per loro il lavoro è inteso ancora come il posto fisso statale parassitario. Oggi il lavoro si inventa, non lo si subisce o lo si cerca senza trovarlo. Si agevoli, allora, l’invenzione dell’impresa.

La differenza tra uguaglianza ed equità. Tre ragazzi di differenti altezze dietro una staccionata, intenti a seguire la partita di calcio della loro squadra del cuore. Sono poveri e non possono permettersi il biglietto di ingresso allo stadio. A tutti e tre lo Stato, per il diritto di uguaglianza, dà a disposizione una identica cassetta di legno ciascuno, per guardare oltre la staccionata. Il primo da sinistra è avvantaggiato: essendo già “alto” di suo, ha i requisiti necessari per poter vedere la partita senza l’ausilio della cassetta. Il secondo, quello al centro, ha bisogno di quella cassetta per vedere lo spettacolo e con quella ci riesce benissimo. Il terzo a destra, molto più piccolo di statura rispetto agli altri due, anche con quel supporto, non arriva a vedere oltre l’ostacolo: non le basta una cassetta per poter vedere la partita. Con l’equità il primo dei tre può fare a meno del supporto e, offrendolo al terzo in aggiunta al suo, riesce a fornirgli la possibilità di raggiungere l’altezza necessaria per vedere la partita. In Italia con i catto-comunisti c'è il diritto di uguaglianza, non di equità. Non siamo tutti uguali e non ci può essere diritto di uguaglianza, ma dare a tutti la possibilità di vedere il futuro, specie ai più meritevoli, allora sì che si ha l’equità sociale.

Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.

L’accanimento prende forma in varie forme:

Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.

Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.

Non capisco chi va a dimostrare. I loro problemi li manifestano in piazza: a chi?

Alla stampa omertosa? Ai politici menefreghisti? Ai colleghi di sventura che pensano a risolvere la loro personale situazione?

Non basta una buona rete sul web per far sentire la nostra voce?

Chi ha votato, si rivolga al suo rappresentante in Parlamento, affinchè tuteli il cittadino dai poteri forti.

Chi non ha votato, partecipi con altri alla formazione di un movimento democratico e pacifista per poter fare una rivoluzione rosa e cambiare l’Italia.

Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

Finestra di Overton. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. A sinistra la finestra di Overton che evidenzia come viene accolto un concetto in base al grado di libertà, a destra le nuove idee che possono debuttare come incomprensibili, possono nel tempo diventare ben accette

La finestra di Overton è un concetto introdotto dal sociologo Joseph P. Overton.

Descrizione. Overton descrisse una gamma di situazioni da "più libera" a "meno libera", alle quali sovrapporre la finestra delle "possibilità politiche" (ciò che politicamente può essere preso effettivamente in esame). Per semplicità le varie situazioni possono essere associate, per quanto riguarda l'atteggiamento dell'opinione pubblica, a una serie di aggettivi:

inconcepibile (unthinkable)

estrema (radical)

accettabile (acceptable)

ragionevole (sensible)

diffusa (popular)

legalizzata (policy)

A seconda di come la finestra si sposta o si allarga sullo spettro delle idee, un'idea può diventare più o meno accettabile. Un esempio preso da un fatto storico è quello del proibizionismo degli alcolici. Negli Stati Uniti c'è stato un periodo intorno al 1930 nel quale è stata considerata "ragionevole" l'idea di vietare la vendita di alcolici, e di fatto tale divieto è stato imposto per legge in alcune contee. Ma poi la finestra delle "possibilità politiche" si è spostata, e oggi la stessa idea nello stesso paese viene considerata inconcepibile o quanto meno estrema, e non più politicamente proponibile. La finestra di Overton è un approccio per identificare le idee che definiscono lo spettro di accettabilità di politiche governative. I politici possono agire soltanto all'interno dell'intervallo dell'accettabile. Spostare la finestra implica che i sostenitori di politiche al di fuori della finestra persuadano l'opinione pubblica ad espandere la finestra. Al contrario sostenitori delle politiche attuali, o simili all'interno della finestra, cercano di convincere l'opinione pubblica che politiche al di fuori della finestra dovrebbero essere considerate inaccettabili. Secondo Lehman, che ha coniato il termine: "Il più comune malinteso è che i legislatori stessi si occupano dello spostamento della finestra di Overton.". Sempre secondo Lehman, il concetto è solo la descrizione di come funzionino le idee, non l'appoggio a proposte di politiche estreme. In un'intervista al New York Times, disse: "Spiega soltanto come le idee diventano o passano di moda, nello stesso modo in cui la gravità spiega perché qualcosa cade al suolo. Posso usare la gravità per far cadere un'incudine sulla tua testa, ma questo è sbagliato. Potrei anche usare la gravità per lanciarti un salvagente, e questo sarebbe giusto." Ma data la sua incorporazione nel discorso politico, altri hanno usato il concetto di spostare la finestra per promuovere idee al di fuori di essa, con l'intenzione di rendere accettabili idee non convenzionali.

Carmen Scelsi: Dedicato...a chi non conosce la finestra di Overton. La finestra di Overton. Joseph Overton, sociologo e attivista statunitense: "nei suoi studi cercava di spiegare i meccanismi di persuasione e di manipolazione delle masse, in particolare di come si possa trasformare un’idea da completamente inaccettabile per la società a pacificamente accettata ed infine legalizzata.

Tecniche affinate che gli esperti di pubblicità e marketing ben conoscono e sempre di più vengono applicate su scala globale dai think tank dell’economia e della politica per orientare il modo di pensare e le inclinazioni dell’opinione pubblica.

In fondo è lo schema tipico delle dittature. Ci si chiede infatti, spesso a posteriori, come interi popoli, non solo e non sempre a seguito di pressioni violente, abbiano potuto a un certo punto trovarsi a pensare tutti nello stesso identico modo e a condividere supinamente stili di vita prima nemmeno immaginabili, per ritrovarsi infine rinchiusi in una caverna di prigionia, come nella fiaba del Pifferaio Magico.

Eppure è successo e succede. Anzi nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale - che ai tempi di Overton era appena agli albori – si sono spalancati nuovi sconfinati orizzonti, dove paiono materializzarsi scenari degni dei romanzi distopici di Orwell e Benson, dominati da invisibili grandi fratelli e padroni del mondo. Overton studia il percorso e le tappe attraverso le quali, ogni idea, sia pur assurda e balzana, può trovare una sua “finestra” di opportunità. Qualunque idea, se abilmente e progressivamente incanalata nel circuito dei media e dell’opinione pubblica, può entrare a far parte del mainstream, cioè del pensiero diffuso e dominante. Comportamenti ieri inaccettabili, oggi possono essere considerati normali, domani saranno incoraggiati e dopodomani diventeranno regola, il tutto senza apparenti forzature."" Siamo partiti con l'inno d'Italia sul balcone...siamo arrivati a quattro ondate, tre o quattro punturine, un antinfluenzale....e un'emergenza infinita con fine di ogni libertà. 

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati. 

A COME ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

Antonio Giangrande: Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 40 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?

Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.

In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.

In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.

In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.

I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.

I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.

LO STATO DI DIRITTO. UN ECCELLENTE INTERVENTO DEL PG. Otello Lupacchini.

Rechtstaat=Stato di diritto; Volksgeist=Spirito del popolo; Furerprinzip=(Principio autoritario) Direttiva del capo.

Facebook  19 giugno 2015. Otello Lupacchini: Mi permetto di segnalare all'avvocato David Ermini che tra "testi legislativi" e "norme" esiste una sostanziale differenza, in un sistema, quello del Rechtstaat costituzionale, fondato sulla divisione del lavoro, in forza del quale, se il legislatore elabora e licenzia i "testi" legislativi, le "norme" sono invece i prodotti dell'interpretazione autoritativa della giurisprudenza. Mi permetto di segnalare altresì all'illustre giurista che, una volta uscito dalle mani del legislatore il "testo" legislativo, i lavori preparatori degradano a meri precedenti storici, e che, potendo in essi trovarsi tutto e il contrario di tutto, sono il peggiore viatico per chi voglia individuare le "intenzioni del legislatore". Incidenter tantum, da giurista e giusfilosofo, vorrei ricordare quanto sia pericoloso identificare le "intenzioni del legislatore" col Volksgeist o, peggio, con il Furerprinzip.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

Dialogo con un mussulmano in Italia.

«Perché tu sei così radicale?

Perché non abiti in Arabia Saudita???

Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?

Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.

Emigrate per la libertà …

per la giustizia …

per il benessere …

per l’assistenza sanitaria ..

per la tutela sociale …

per l’uguaglianza davanti alla legge …

per le giuste opportunità di lavoro …

per il futuro dei vostri figli …

per la libertà di espressione ..

quindi non parlate con noi con odio e razzismo ..

Noi vi abbiamo dato quello che non avete …

Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».

Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.

Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.

Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!

Antonio Giangrande: Un mondo dove ci sono solo obblighi e doveri. Un mondo dove ci sono solo divieti, impedimenti e, al massimo, ci sono concessioni. Un mondo dove non ci sono diritti, ma solo privilegi per i più furbi, magari organizzati in caste e lobbies. In un mondo come questo, dove tutti ti dicono cosa puoi o devi fare; cosa puoi o devi dire; dove l’uno non conta niente, se non essere solo un mattone. In un mondo come questo che mai cambia, che cazzo di vita è.

Pink Floyd – Another Brick In The Wall. 1979

Part 1 (“Reminiscing”) ("Ricordando")

Daddy’s flown across the ocean – Papà è volato attraverso l’oceano.

Leaving just a memory – Lasciando solo un ricordo.

Snapshot in the family album – Un’istantanea nell’album di famiglia.

Daddy what else did you leave for me? – Papà cos’altro hai lasciato per me?

Daddy, what’d’ja leave behind for me?!? – Papà, cos’hai lasciato per me dietro di te?!?

All in all it was just a brick in the wall. – Tutto sommato era solo un altro mattone nel muro.

All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.

“You! Yes, you! Stop steal money!” – “Tu! Si, Tu! Smettila di rubare i soldi!”

Part 2 (“Education”) ("Educazione")

We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.

We dont need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.

No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.

Teachers, leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.

Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!

All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.

All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei soltanto un altro mattone nel muro.

We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.

We don’t need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.

No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.

Teachers leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.

Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!

All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.

All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei solo un altro mattone nel muro.

“Wrong, Do it again!” – “Sbagliato, rifallo daccapo!”

“If you don’t eat yer meat, you can’t have any pudding. – “Se non mangi la tua carne, non potrai avere nessun dolce.

How can you have any pudding if you don’t eat yer meat?” – Come pensi di avere il dolce se non mangi la tua carne?

“You! Yes, you behind the bikesheds, stand still laddy!” – “Tu! Sì, tu dietro la rastrelliera delle biciclette, fermo là, ragazzo!”

Part 3 (“Drugs”) ("Droghe-Farmaci")

“The Bulls are already out there” – “I Tori sono ancora là fuori”.

“Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!” – “Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!”

“This Roman Meal bakery thought you’d like to know.” – “Questo è un piatto Romano al forno, pensavo che lo volessi sapere.”

I don’t need no arms around me – Non ho bisogno di braccia attorno a me.

And I dont need no drugs to calm me. – E non ho bisogno di droghe per calmarmi.

I have seen the writing on the wall. – Ho visto la scritta sul muro.

Don’t think I need anything at all. – Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.

No! Don’t think I’ll need anything at all. – No! Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.

All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.

All in all you were all just bricks in the wall. – Tutto sommato eravate tutti solo mattoni nel muro.

Lo Stato può imporre il rispetto delle norme, ma non di ritenerle giuste. Legge sopraffazione: lo Stato può richiedere rispetto norme ma non di ritenerle giuste. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 31 Agosto 2021. È diffuso un piccolo fraintendimento (piccolo si fa per dire, ovviamente): e cioè che i diritti di libertà, ma direi i diritti in genere, costituiscano beni da “meritare”. E che meritarli significhi subordinarsi a un sistema di valori e farne professione. Ha questo stampo la dichiarazione antifascista richiesta da certe istituzioni municipali per poter partecipare ad attività pubbliche. Ha questo stampo la revoca della semilibertà a un fascista che assiste a un raduno politico. Ha questo stampo la tortura inflitta al mafioso che non si pente.

Non si capisce – ed è un segno esemplare dell’incertezza democratica di questo Paese – che si può chiedere al cittadino di rispettare la legge: non di condividere il valore che ne è alla base, e cioè di ritenerla giusta. E non lo si capisce perché si ignora che mentre la legge è un fatto, la giustizia è un valore: e in democrazia è quello, il fatto, cioè la legge uguale per tutti, non la giustizia, che ciascuno concepisce secondo il proprio criterio, a dover essere considerato nella distribuzione degli obblighi e dei diritti. Nel nome delle discriminanti valoriali – quella antifascista e quella antimafiosa sopra tutte – si compiono sopraffazioni illiberali di cui ci si vergognerebbe se appena quella parola – democrazia – avesse un contenuto anziché ridursi a un modo di dire. Iuri Maria Prado

Giusto fine, mezzi sbagliati. La cultura giustizialista ha trasformato l’Italia in uno Stato confessional-giudiziario. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 4 settembre 2021. Negli anni Ottanta si ritenne che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso, e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose. È stato un errore. Non si offenderebbe la memoria del generale Dalla Chiesa, ieri celebrata dal presidente della Repubblica, riguardando con giudizio equanime i quarant’anni di mezzi sbagliati che lo Stato ha adoperato al giusto fine di trionfare sul crimine organizzato. Anzi, lo Stato che commemora le vittime illustri della violenza mafiosa renderebbe loro un servizio migliore se non omettesse sistematicamente di riconoscere il vizio capitale delle politiche cosiddette antimafia: che fu di aver voluto contrastare quell’offensiva con una legislazione simbolica, totemistica, e con un tentativo di rifondazione sociale per via giudiziaria. Al mafioso secondo cui “la mafia non esiste” si rispose mettendo la mafia dove non dovrebbe esistere, e cioè nella legge. Perlopiù (non sempre) in buona fede, si ritenne cioè che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso, e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose. Perché divenne quella, la presunta matrice di mafia, la cosa che qualificava ed esauriva la fattispecie. “Arrestato per mafia”, “Condannato per mafia”, non furono più soltanto semplificazioni giornalistiche: diventarono realtà processuali. E si giunse a tanto, appunto, proprio per il trionfo di quella concezione fuorviante e pericolosissima dell’attività inquirente e giurisdizionale: l’idea, cioè, che essa abbia il compito di tutela sociale che ancora una volta, perlopiù in buona fede, propugna la cultura cosiddetta antimafia. Se fossimo in uno Stato di diritto quella cultura apparterrebbe a una vaga congerie di ininfluente moralismo autoritario, ma nello Stato confessional-giudiziario cui è ridotto il nostro sistema essa si è incartata nelle leggi che combattono la mafia come si combatte il malocchio, la stregoneria, insomma “il male”. Nel convincimento forsennato che contro la cultura mafiosa che nega l’esistenza della mafia debba elevarsi lo Stato che la fa esistere nel concorso esterno, nel carcere duro, nei rastrellamenti, nell’aula-bunker, nella confessione, nel pentimento, cioè a dire nella strumentazione buona a far processi senza prove e sentenze piene di mafia e vuote di reati. Riconoscere, quando si ricordano i caduti, che una società infiltrata di mafia è insana, ma non si cura con una legislazione infiltrata di antimafia, rappresenta il tributo purtroppo ancora inedito in queste ricorrenze.

Il problema non è, come si dice, se gli avvocati sono tanti a pascolare in campi senz’erba.

Il problema è se quei tanti sono all’altezza del compito, tenuto conto che l’esame di abilitazione è irregolare e non meritocratico (truccato e truccabile come tutti gli esami e concorsi pubblici), così come da me ampiamente provato negli anni.

Il problema è, anche, se l’ordinamento giuridico non abbia ristretto al massimo il campo operativo forense e quindi la tutela dei diritti del cittadino. Prima che mi impedissero di praticare, per ritorsione, potevo oppormi alle sanzioni amministrative o adoperarmi per i sinistri stradali, così come potevo attivarmi illimitatamente per ogni risarcimento del danno. Il principiante faceva pratica con i micro procedimenti. Oggi, ogni forma onerosa di inibizione al processo ha portato all’inaridimento degli sbocchi. Ergo: lavorano solo i principi del foro ed i loro amicali.   

Infine, ma non ultimo problema, è che se tocchi un privilegio dei magistrati solidali scatta il finimondo della casta, se ledono i diritti degli avvocati individualisti, la lobby non muove foglia.  

"Io non mi sento italiano": Giorgio Gaber aveva capito tutto. Marco Castoro il 18 dicembre 2020.  «IO NON mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». Questi versi della canzone di Giorgio Gaber (datata 2003) la dicono tutta sull’Italia di ieri, di oggi e chissà anche di domani, se neanche con la scossa dei fondi europei riusciamo a scuoterla per cambiarla. Quanti di noi non si sentono italiani, vuoi perché il Paese è prigioniero della burocrazia, vuoi perché è gestito da politici e burocrati che pensano solo alle poltrone e a complicare la vita degli italiani. Una classe politica e dirigenziale che non sa prendere decisioni, che si becca come in un pollaio con le elezioni come unico pensiero e obiettivo. Nel «per fortuna o purtroppo lo sono» c’è tutta l’Italia e l’italiano. C’è la bellezza del clima, del mare e dei monti, del sole e delle scogliere. C’è la bellezza dell’arte che ti lascia a bocca aperta. Dal Romano al Rinascimento, dal Barocco al Neorealismo. Orgoglio della patria, così come la nazionale di calcio, la moda e l’artigianato, l’arte di arrangiarsi e la creatività degli italiani. Nel «purtroppo lo sono» invece c’è la disperazione di non vedere mai l’uscita del tunnel, di pagare delle tasse elevate per poi ricevere dei servizi scadenti, di vedere scappare all’estero i migliori cervelli. Di vedere l’Alta Velocità che si ferma a Salerno. La banda larga ultraveloce che diventa un lusso per pochi invece che un servizio per tutti, anche per chi non vive nelle grandi città. La didattica a distanza ha messo a nudo il problema. «Un Bel Paese pieno di poesia ma che nel mondo occidentale è la periferia», per citare ancora Gaber che ammette la sconfitta dell’Italia quando sentenzia: «Non vedo alcun motivo per essere orgogliosi». Il mitico G.G. se la prende anche con il Mameli: «Non sento un gran bisogno dell’inno nazionale di cui un po’ mi vergogno». Per poi radere al suolo i politici e i parlamentari, la vera zavorra di un Paese che non cresce e che paga le loro incompetenze. «Ma questo nostro Stato che voi rappresentate mi sembra un po’ sfasciato. È anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente… Persino in parlamento c’è un’aria incandescente, si scannano su tutto e poi non cambia niente… il grido ‘Italia, Italia’ c’è solo alle partite». Attualissima anche la frase «Abbiam fatto l’Europa, facciamo anche l’Italia», che si potrebbe tradurre come una invocazione al governo, all’opposizione, alle task force e alle Regioni a sfruttare al massimo i soldi del Next Generation Eu. In modo da poter finalmente dire: Io mi sento italiano.

Il cafone è chiassoso, esibizionista, ignorante e prepotente. I suoi sinonimi: Se vuoi chiamali terroni o polentoni, bauscia o burini, ecc..

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta. 

«Il pregiudizio verso il Sud c’è ancora: siamo tutti mafiosi…» Il Dubbio l'11 settembre 2021. Dopo 1400 chilometri, il tour di Roberto "Oltre i pregiudizi" si chiude nella città del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale "Cesare Lombroso" a Torino. L'ultimo pregiudizio che resta da abbattere è quello nei confronti del Sud. Se, come spiega il giornalista Mimmo Gangemi, la «questione meridionale è ridotta a questione criminale». L’ultima tappa del viaggio di Roberto Sensi “Oltre i pregiudizi” è a Motta Santa Lucia, la terra del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” a Torino. L’ultimo pregiudizio che resta insepolto è quello sul meridione, una malattia autoimmune non ancora debellata. «La questione meridionale la si è ridotta a una mera questione criminale», spiega lo scrittore e giornalista Mimmo Gangemi. Parla del presente. Un presente che non sembra essersi allontanato di un passo da Lombroso.

Il pregiudizio contro i meridionali, davvero esiste ancora?

Esiste ma ha assunto forme più nascoste, camuffate da una finzione di civiltà che lo rigetta. Sono episodi sporadici le discriminazioni di un tempo, quando non s’affittavano case ai nostri emigranti e l’essere del Sud diventava una tara, un marchio d’infamia. Il pregiudizio però continua a camminare sottotraccia. Il Sud è additato e percepito come la palla al piede dell’Italia. Gli abitanti saremmo parassiti che si perpetuano lagnosi e vittime, sfaticati, mafiosi o con mentalità mafiosa.

Com’è nato questo odio?

Non siamo mai diventati nazione. A noi è stata tramandata la memoria della forzatura sanguinaria, mai appianata e taciuta dalla storia, in un regno che ci ha conquistato e trattato da sottomessi, da Ascari, con tasse e imposizioni, la leva obbligatoria, le morti innocenti e paesi distrutti pur di eliminare il dissenso, e i briganti, peraltro spesso resistenti all’invasore. E siamo rimasti indietro, o siamo stati lasciati indietro, anche per l’insipienza della classe politica e dirigente che esprimiamo. Nel cammino assieme, c’è stata una disparità di attenzione e di risorse e si è impattato in diversità sociali, culturali, economiche, storiche, caratteriali che hanno pesato e inciso fino a realizzare un’Italia a due diverse velocità, fino a dilatare il distacco e ad alimentare l’odio. Certo è, tuttavia, che le nostre valigie di cartone degli anni ’ 50, legate con lo spago, non differivano da quelle che tutti assieme, gente del Nord e gente del Sud, allestimmo per un’emigrazione alle Americhe che soccorresse il futuro.

Al di là degli stereotipi, esiste un’identità comune che unisce i popoli del Sud?

Il regno dei Borboni è morto e sepolto. Mai è stato un elemento di coesione. Siamo Italia e ci piace essere Italia. L’identità comune c’è perché ci accumuna la storia di oltre un millennio, e ancor prima, la Magna Grecia. Dall’unità d’Italia in poi si è aggiunto l’uguale disagio di essere considerati colonia e un ostacolo alla crescita della nazione. E talvolta i disagi, le democrazie a scartamento ridotto e lo stesso pregiudizio distribuito largo sanno diventare punti di saldatura.

A volte però a trovarsi ad avere pregiudizi verso di sé è lo stesso Sud, che subisce la narrazione dominante.

Il Sud non ha molte voci autorevoli da opporre all’Italia che lo pesa e lo giudica con un metro falsato. La Calabria è quella combinata peggio. Oltrepassa il Pollino una narrazione menzognera ed esagerata nella condanna. I personaggi che hanno ascolto e microfono, e spesso una credibilità mal riposta, sono pochi. Tra loro, c’è pure chi la racconta molto peggio di quanto sia, fa trasparire l’idea che tutto sia mafia, ha creato l’equazione “calabrese uguale ’ ndranghetista”. E l’Italia ha abboccato, senza ragionare che a taluni, anche giornalisti, torna comodo irrobustire il mostro ‘ ndrangheta, che mostro è, perché così irrobustisce le carriere e i meriti, con buona pace dell’innocenza maltrattata e dello Stato di diritto scappato altrove.

Come è accaduto che un partito come la Lega, che ha fondato la propria storia sull’antimeridionalismo, finisse per essere così largamente votato anche qui?

Ingenui creduloni stendono un velo sul razzismo di decenni ed è come infilarsi da sé l’amo in bocca. Una fetta della classe politica, pur di sedere a cassetta, non bada alla parte con la quale si schiera, insegue solo il successo elettorale, bianco o nero non importa. E troppi cittadini dalla memoria corta votano, per utilità e clientelismo, il compare, l’amico, l’amico degli amici.

Cosa si potrebbe fare, nell’immediato, per il Sud?

Un’equità sociale, livellando le disparità che si sono create. Ci sono priorità che mancano e sulle quali ormai non si protesta, perché si è talmente assuefatti al degrado che ciò che altrove appare ordinario al Sud lo si vede straordinario, un di più, una concessione. La sanità è impoverita ad arte, per l’obiettivo di avvantaggiare quella del Nord, magari sovradimensionata, che accoglie anche per prestazioni sanitarie di basso peso. L’agricoltura è stata penalizzata da dover scegliere o di lasciare marcire il frutto o di ricorrere al lavoro nero, altrimenti si va in perdita. L’autostrada A2 è un inganno: mai è stata davvero ultimata, se tra Reggio a Cosenza 52 chilometri, i più pericolosi, sono rimasti quelli di prima, senza corsia di emergenza e con tracciati da brividi. L’alta velocità ferroviaria da Salerno in giù è altina, non alta. La statale 106 è la strada della morte, a doppio senso di circolazione. I treni sono lo scarto del Nord. E i finanziamenti pubblici dipendono dallo storico, da quelli ottenuti nel corso degli anni, e diventa una storpiatura della democrazia che, per esempio, Reggio Calabria non possa avere nulla o quasi per gli asili nido solo perché nulla ha mai avuto, mentre l’altra Reggio, pur con meno abitanti, ha 16 milioni annui. Perciò, lo si metta alla pari, il Sud. Solo dopo potrà essere additato colpevole.

“Si è sempre a Sud di qualcuno”, a volte però stupisce vedere comportamenti razzisti da parte di chi a sua volta ne ha subiti. Perché accade?

È un’anomalia che chi, come i veneti e i friulani, agli inizi del Novecento, popoli più nella fame e più numerosi dei meridionali nell’emigrazione e che hanno subito il razzismo, si siano trovati loro razzisti, disprezzando così il sacrificio lontano degli antenati che hanno consentito di giungere meglio ai giorni nostri. Ma tant’è. Ed è vero che c’è sempre qualcuno più a Sud oggetto di discriminazione. È di fresca memoria quella svizzera sui frontalieri lombardi. Però non ha insegnato nulla.

Bruno Bossio: «Le carceri sono lo specchio dei pregiudizi sui meridionali». TAPPA ZERO: TORINO. Roberto incontra la parlamentare dem Enza Bruno Bossio, che lo accompagnerà anche nella tappa finale a Motta Santa Lucia. A proposito delle teorie lombrosiane sulla predisposizione a delinquere, Bruno Bossio spiega come abbiano dato origine ai pregiudizi sui meridionali, maggiormente presenti nelle nostre carceri e spesso detenuti ingiustamente. Il Dubbio il 4 settembre 2021. Il tour “Sui pedali della libertà”, appena iniziato, unisce infatti due luoghi significativi: il museo di Cesare Lombroso a Torino e il paese di provenienza in Calabria di Giuseppe Villella. Il cui teschio, per il fondatore dell’antropologia criminale, dimostrava la correlazione tra le fattezze fisiche e la predisposizione a delinquere. «Devo dire – spiega Bruno Bossio – che purtroppo le teorie lombrosiane segnano l’inizio di un pregiudizio che è rimasto, se è vero come ci dicono le percentuali che la maggioranza della popolazione italiana in carcere – spesso detenuta ingiustamente – è meridionale. Soprattutto quando ci sono esigenze cautelari e non condanne».

I pregiudizi territoriali ed economici.

Mio nonno contadino ed analfabeta diceva: “Son ricchi. Hanno rubato. Io lavoro tutto il giorno e non divento ricco”. Ergo i ricchi sono ladri. La verità è che non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali.

Mia zia emigrata al nord diceva: qua non è come "da voi", è meglio qua, tutta un'altra cosa. La verità è questa: è emigrata perchè non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali. Per rivalsa è diventata rinnegata. La verità dei rinnegati è che, appunto per invidia, rinnegano le loro origini. Non sanno che sono condannati al limbo: saranno sempre terroni per i corona polentoni e corona polentoni per i terroni.

I Settentrionali puri conosciuti al Nord hanno sempre dei pregiudizi sui Meridionali: siamo tutti pregiudicati (da pregiudizio). Ergo: pregiudicati uguale a delinquente ed essendo del Sud siamo tutti delinquenti mafiosi. La verità è che sono ignoranti, resi tali dai media prezzolati dalla Finanza del Nord, e sono in malafede perchè vogliono le risorse finanziare pubbliche tutte per loro e lo sfruttamento delle risorse umane meridionali per i loro fini. E' l'invidia di non avere il mare, il sole e di non essere gente del sud solidale e con la luce nel cuore.

Quindi se per i comunisti e per i settentrionali siamo mafiosi, noi meridionali non abbiamo diritto a gestire le nostre risorse se non dimostriamo di non essere mafiosi.

In Italia l’onere della prova è ribaltata: i ricchi ed i meridionali devono dimostrare di essere onesti, mentre gli accusatori non devono dimostrare di essere bugiardi e razzisti.

 Inglesi e padani. Quello che sono e quello che appaiono.

Oggi 12 luglio 2021. All’indomani dello spettacolo indegno del razzismo inglese contro gli italiani, ma ancor più grave, contro i loro neri che hanno sbagliato i rigori.

I tifosi inglesi hanno dileggiato l’inno e la bandiera italiana e picchiato gli italiani allo stadio.

I giocatori hanno rifiutato la medaglia ed i reali hanno rifiutato di premiare gli avversari.

Gli arroganti se ne fottono se gli altri del Regno Unito tifavano contro di loro.

Così era in tutta Europa.

Essere Razzisti significa essere coglioni (cafoni ignoranti).

La mia constatazione: gli italiani ed in special modo i meridionali nel ‘900 erano poveri, ignoranti e cafoni. E ci stava sopportare le angherie.

La mia domanda è: nel 2021 cosa costringe la gente italiana e meridionale scolarizzata ed emancipata ad essere sfruttata e votata ad arricchire dei coglioni?

Per poi diventare come loro?

Return Home- tornate a casa. Create ricchezza nel vostro paese. Lì, al nord o all'estero, sarete sempre dei profughi.

Hanno solo i media che li esaltano e per questo si decantano. Ma la loro natura la si conosce quando perdono: non sanno perdere, perché si sentono superiori. Peccato che non lo sono. Forse nel ‘900. Non nel 2021.

Ricordate: da loro si va solo per lavorare e non per visitare. Per questo sono cattivi.

Da noi si viene (forse in troppi) per vivere bene e conoscere la bellezza che loro non hanno. Per questo siamo buoni.

NON SE NE PUO' PIU' DELL'INFORMAZIONE CHE SFUGGE ALLA SUA FUNZIONE PUBBLICA! Michele Eugenio Di Carlo il 17.03.2020 su Movimento24agosto.it. Siamo profondamente convinti che di fronte alle regole coronavirus siamo tutti uguali al sud, al centro, al nord. Ma l' informazione a livello nazionale tende ancora una volta a farci passare per esseri inferiori, indisciplinati, refrattari a qualsiasi regola. Ieri sera Del Debbio indicava chiaramente Napoli come esempio di non rispetto delle regole e dal servizio nemmeno si evidenziava più di tanto se non per le forzature dell'inviata. Questa mattina dal Corriere della Sera si evince che specie al Sud non si rispettano le regole, infatti vengono citate Bari, Lecce, Secondigliano,Caltanissetta. Poi dalla piccola stampa locale del nord emerge che siamo tutti uguali davanti alle regole. La nostra reazione contro un'informazione a senso unico, e che ripropone il solito cliché di un'Italia divisa, viene fatta passare come immotivata quando non addirittura razzista. E la cosa più grave è che spesso sono i cittadini meridionali, totalmente manipolati da quell'informazione, a dichiarare che quei media che ci disprezzano hanno ragione. L'invito è ad opporsi a quell'informazione con dati statistici e documenti, rivendicando il nostro diritto ad essere considerati cittadini alla pari. Alimentare pregiudizi e luoghi comuni contro il Mezzogiorno d'Italia, in un momento critico come l'attuale, non è degno di un'informazione che dovrebbero sempre rinsaldare quanto ci unisce e non evidenziare falsi e mistificatori miti.

ATTACCO CONCENTRICO AL SUD E AL REDDITO DI CITTADINANZA: INSULTI VELATI E FALSE NOTIZIE DA TG E GIORNALI. Raffaele Vescera il 20.05.2021 su Il Movimento24agosto.it. Il tormentone è partito l’altra sera sui Tg nazionali: “In Campania più assegni di Reddito di cittadinanza che in tutto il Nord. Quattro volte più della Lombardia!" Scioccamente ripreso dal Fatto Quotidiano.it di ieri che rincara la dose: “Reddito di cittadinanza, in aprile 2,8 milioni di percettori. A Napoli più che in Lombardia e Piemonte”. Il tutto senza il minimo accenno alle cause di tale differenza, da parte di un giornale che, pur nelle sue giuste battaglia contro le mille ingiustizie italiane, non perde occasione per diffondere gratuiti pregiudizi contro i meridionali, lombrosianamente considerati men che delinquenti e fannulloni, sulla scia del mantra leghista che, in vero, unisce il cosiddetto Partito unico del Nord nel razzismo antimeridionale. Dipende forse dall’essere piemontese del suo direttore, Gomez? È forse il solo modo che hanno per mondarsi la coscienza? Veniamo a noi. La disoccupazione al Sud è oltre il 18%, tripla rispetto al Nord dove è intorno all’6%, e quella dei giovani meridionali è al 65% anche qui tripla rispetto al Nord, mentre la punta delle disuguaglianze italiane spetta alle donne meridionali con un tasso di disoccupazione che va oltre l’80%. In quanto al reddito pro-capite, quello del Sud a 16,500 Euro è meno della metà del nordico 34.000. Ebbene, con questi dati, noti a tutti, qualunque serio commentatore dedurrebbe che dove vi è maggiore disoccupazione e povertà, per esempio al Sud, vi è maggior ricorso al reddito di cittadinanza. L’articolo del Fatto Quotidiano si spinge oltre, arrivando a sostenere che il Rdc sarebbe punitivo nei confronti del Nord, dove la vita costerebbe di più. Altro falso, considerato che tutti i servizi pubblici, tassi bancari, assicurazioni e altro sono molto più cari al Sud, così come lo è la produzione industriale del Nord, di cui i Sud è fortissimo consumatore, per precisa volontà coloniale italiana, che riserva al Nord il ruolo di produttore con conseguente ricchezza, e al Sud quello di mero consumatore con conseguente povertà ed emigrazione: 100.000 giovani meridionali l’anno lasciano la propria terra per fare vita grama di lavoro al Nord. In verità, oltre il solito mantra antimeridionale, questo attacco è diretto contro lo stesso reddito di cittadinanza che Confindustria e Partito unico del Nord non vedono di buon occhio, in quanto sottrarrebbe i cittadini alla vergogna di un lavoro schiavizzato e sottopagato, i meridionali per la finanza del Nord sono solo cervelli e braccia da lavoro da sfruttare. Non che il reddito di cittadinanza sia la soluzione ai problemi di disoccupazione e povertà del Mezzogiorno, ci vogliono infrastrutture, investimenti e lavoro che lo Stato nega da sempre al Sud, ma vivaddio almeno solleva i meridionali, e anche gli indigenti del Nord, dal vivere nella disperazione e di rovistare nella spazzatura per cibarsi. Come si dice da noi al Sud, il sazio non crede al digiuno. Per una volta andrebbero invertiti i ruoli, come in un certo film americano con Willy Smith, chissà cosa proverebbero i loro ricchissimi figli di papà a vivere disoccupati con 557 Euro al mese con fitto, bollette e spesa per mangiare.

SputtaNapoli sport nazionale, Milano invasa da tifosi ma giornale scrive “Coprifuoco violato a Napoli”. Da Andrea Favicchio il 3 maggio 2021 su vesuviolive.it. Non chiamatelo vittimismo, questa è una vera e propria avversione nei confronti di Napoli, il solito SputtaNapoli. Sì perché ieri e sui giornali di questa mattina per l’ennesima volta si è vista la disparità di giudizio dei media italiani. Come se la festa per la Coppa Italia vinta dal Napoli fosse più contagiosa di quella scudetto (i numeri smentiscono chiaramente). Ieri l’Inter ha vinto lo scudetto e migliaia e migliaia di persone si sono riversate in città in festa. Direte voi, lo avrebbero fatto tutti è inutile giudicare. Infatti qui non si giudica il comportamento dei tifosi neroazzurri, perché qualunque tifoseria avrebbe fatto lo stesso, quanto più quello dei media nazionali.

Milano, festa scudetto dell’Inter: ma solo a Napoli siamo sciagurati. Spicca su tutti infatti il titolo de “Il Fatto Quotidiano” sull’argomento: “Folla di tifosi invade Milano. A Napoli coprifuoco violato”. Vi chiederete voi, cosa c’entrano le due cose insieme? La risposta è assolutamente nulla. L’Italia è il Paese dove si nasconde la polvere sotto al tappeto credendo di aver risolto tutti i problemi. L’Italia è il Paese dove per discolparsi di qualcosa si butta il fumo negli occhi della gente o la si fa guardare da un’altra parte. Un tentativo davvero goffo e ridicolo quello del quotidiano diretto da Marco Travaglio di distogliere l’attenzione su qualcosa che l’attenzione l’ha capitalizzata al 100%. Solo tra la gente comune però. Loro infatti sono gli unici ad essere sdegnati non solo dal comportamento dei tifosi ma anche dalla classe politica che avrebbe dovuto prevedere la situazione. Una festa che rischia di essere amara per tutti i milanesi e per la Lombardia intera. Staremo a vedere tra un paio di settimane come sarà la curva dei contagi – sperando ovviamente di essere smentiti in pieno.

L’ATAVICA AVVERSIONE A NAPOLI E L'OCCHIO BENEVOLO PER MILANO. DUE PAESI E DUE MISURE? E' RAZZISMO. Facebook. Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 3 maggio 2021. Pietro Fucile. Quando nel giugno scorso 5.000 tifosi festeggiarono per le strade di una città a zero contagi la vittoria della Coppa Italia, vennero definiti su tutti i giornali “Sciagurati!” con tanto di punto esclamativo per colmo d’indignazione. La situazione era per tutti “disgustosa”, gli amministratori, tanto De Luca quanto De Magistris “colpevoli” e per i napoletani si rispolverarono le analisi sociologiche (sempre le stesse da 160 anni in qua) che ancora parlano di “atavica avversione alle regole”. Oggi l’Inter vince lo scudetto, i tifosi festeggiano (sei volte più che a Napoli) assembrandosi in 30.000 nelle piazze di una città ancora in piena pandemia. Ma a fare il titolo è ancora Napoli per le violazioni delle norme anti-contagio, le stesse violazioni che si sono registrate nel weekend in tutte le città italiane. Occorrerebbe forse un’analisi sociologica relativa “all’atavica avversione a Napoli” del giornalismo italiano.

L’APARTHEID DELL’INFORMAZIONE GHETTIZZA IL SUD: SERVE UN’INDAGINE. Dai media una visione distorta del Mezzogiorno: almeno il servizio pubblico costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2021. Al di là dei giudizi ovvi e contrapposti sull’intervento di Fedez al concertone del primo maggio esce fuori in modo dirompente come l’informazione della Rai sia sottoposta a un indirizzamento utilizzato, e che rispetta in ogni caso la lottizzazione esistente tra i partiti, che non si è mai riusciti a eliminare. Per cui diventa inopportuno e politically uncorrect un attacco a esponenti della Lega che si sono lasciati andare a frasi irripetibili, che magari risalgono ai tempi in cui il motto della Lega era anche “forza Vesuvio” o “forza Etna”.   Ma la domanda che ci si deve porre e che viene spontanea a chi si occupa, come il nostro Quotidiano del Sud, di un’informazione vista dal Mediterraneo e non dalle Alpi, è se l’informazione in generale, in particolare quella Rai, sia corretta. La Rai, infatti, è un servizio pubblico, pagato da tutti gli italiani, indipendentemente dal loro reddito, per cui viene anche finanziata dal 34% della popolazione meridionale, e quindi è opportuno sapere se l’informazione è neutrale ed equa rispetto ai territori.  Perché la sensazione netta è che ci sia una forma di apartheid. E che da Napoli in giù (ma un trattamento simile lo hanno il milione e cinquecentomila marchigiani e i 900mila umbri), vi sia una discriminazione inaccettabile.

I MANTRA DEI LUOGHI COMUNI. E tale atteggiamento non riguarda solo l’informazione pubblica. Infatti anche quella privata, in particolare La 7 e Mediaset, come l’informazione cartacea dei grandi giornali, cosiddetti nazionali, danno la sensazione che tutto quello che riguarda il Sud sia trattato con sufficienza, arroganza e grande protervia. Il tema è che qualunque giornalista che ne parla si sente autorizzato a trattare tale area per luoghi comuni, per mantra accreditati quanto falsi, per accuse non suffragate dai fatti. Intanto il Sud viene rappresentato prevalentemente come mafia, camorra e ’ndrangheta, sia dall’informazione che nelle fiction. E spesso ci si dimentica che la maggior parte delle vittime, che si sono immolate per combattere tali fenomeni, sono meridionali. Da Piersanti Mattarella a Falcone, da Chinnici a Levatino, il giudice ragazzino, a Don Pino Puglisi, ma l’elenco potrebbe continuare con i tanti campani o calabresi o pugliesi che hanno sacrificato la vita per la lotta alla criminalità. Anche quando lo Stato centrale, in un rapporto colluso con la periferia politica, spesso contigua alla criminalità, evitava interventi troppo radicali, lasciando i civil servant pubblici, ma anche i tanti eroi per caso, soli a combattere il mostro. E intanto ci si stupisce di trovare al Sud delle eccellenze universitarie e viene proposto da ricercatori titolati, come Tito Boeri per esempio, di concentrare tutte le risorse, come in parte già avvenuto, sui centri di ricerca migliori, per definizione settentrionali, spessissimo lombardi. Se poi si tratta di chiedere in televisione una opinione non si va mai al di sotto di Roma. Virologi, economisti, politologi devono avere un pedigree di nascita nordica, al massimo devono ormai essersi trasferiti da anni nel cuore pulsante del Paese, nella sedicente locomotiva, che alla fine ha trascinato il Paese in un binario morto. Si poteva capire che ciò avvenisse nei periodi in cui i talk show si facevano in presenza, ma oggi che è tutto via web non si giustifica assolutamente tale discriminazione, considerato peraltro che, per esempio, le università meridionali hanno delle tradizioni e dei ricercatori, in alcuni campi, che sono eccellenze riconosciute universalmente.

COMMISSIONE DI CONTROLLO. Anche quando si parla di economia l’approccio viene impostato sul ridicolo, per cui Stefano   Feltri o Giuseppe Sala si consentono di parlare del ponte sullo stretto definendolo un’infrastruttura ridicola. E se si parla di sviluppo del Mezzogiorno e di soldi a esso destinati si dice che è stato un pozzo senza fondo pur, invece, se la realtà è che il pro capite destinato al Sud è stato, nei settori della scuola, della mobilità e della sanità di gran lunga inferiore che nel Nord del Paese. Ragion per cui per un bambino nascere a Reggio Calabria piuttosto che a Reggio Emilia diventa una disgrazia che si porterà dietro per tutta la vita, come nascere in madre patria o in colonia. L’informazione è fondamentale, come è noto, non solo nell’agone politico ma anche in quello economico, rispetto ai territori. Quindi se il mantra è che il Sud spreca risorse, argomento che a forza di essere sostenuto convince anche i rappresentanti meridionali, in genere poco informati o solo dai cosiddetti giornali nazionali, è più facile che, quando si legifererà per distribuirne, il Sud farà la parte del parente povero, cornuto e mazziato. Per questo motivo è assolutamente necessario che la problematica dell’informazione venga affrontata adeguatamente e, perlomeno per quanto riguarda quella del servizio pubblico, si costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese, come avviene per la Commissione di vigilanza in relazione alla presenza delle forze di maggioranza e di opposizione. La Rai è un patrimonio nazionale e tutti sappiamo benissimo quale ruolo svolga, tanto per fare un esempio, per il festival di Sanremo o per la Scala di Milano o per il festival del Cinema di Venezia e come influenzi anche i comportamenti di consumo e i movimenti turistici. Riuscire a capire che tutti i territori hanno diritti analoghi nel nostro Paese è sicuramente  rivoluzionario e il fatto che eventi come  le rappresentazioni classiche di Siracusa o il Festival della Taranta,  che  si svolge  nel mese di agosto in forma itinerante in varie piazze del Salento, iniziando da Corigliano d’Otranto e culminando nel concertone di Melpignano, che vede la partecipazione di musicisti di fama nazionale e internazionale, devono essere ugualmente promossi, non deve costituire una battaglia. Così si scoprirà che i concerti di Ravello non hanno nulla da invidiare agli spettacoli dell’arena di Verona.

GLI INTERESSI PREVALENTI. Ovviamente tutto ciò non avviene per caso, perché l’informazione in Italia non è pura attività editoriale, ma espressione di forze imprenditoriali che hanno centri d’interesse prevalentemente in una parte del Paese.  E su quella essa si concentra, pesando le parole quando si tratta di tutelare gli interessi di una parte e invece si va a ruota libera quando si parla della parte meno forte e spesso meno attenta a non far passare una informazione negativa e dannosa anche per i flussi turistici. Questo obiettivo, di una informazione corretta che in un Paese normale non sarebbe nemmeno tale, ma che dovrebbe essere il normale approccio dell’informazione a tutti i territori, da noi diventa una conquista, perché purtroppo in tutti i campi il Mezzogiorno, per partire dalla quota zero, deve fare un grande sforzo. D’altra parte i numeri dell’organizzazione con sede a Parigi sulla libertà di stampa non ci danno scampo. Secondo la tabella di Rsf, nel Vecchio continente siamo quelli messi peggio. Ci scalza anche Cipro e peggio di noi c’è solo la Grecia. È tutto dire.

INFORMAZIONE, UN ARTICOLO SU CINQUE PARLA MALE DEL SUD. SUGC E FNSI: NECESSARIA UNA RIFLESSIONE. Redazione de Il Sud On Line il 23 maggio 2021. La stampa contribuisce ad alimentare una sorta di “archivio del pregiudizio” nei confronti di alcune zone dell’Italia? È l’oggetto di una ricerca che nasce all’interno di un progetto nato da un’idea del SUGC (Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania), in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II, l’Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell’Università della Svizzera italiana (USI) di Lugano e l’Osservatorio europeo di giornalismo (EJO) dello stesso ateneo. ll progetto di ricerca “L’informazione (s)corretta: giornalismo e narrazione del Sud tra stereotipi e pregiudizi” intende analizzare lo sviluppo e la persistenza di stereotipi nella stampa italiana sulla rappresentazione del divario territoriale tra il Nord e Sud del paese. L’obiettivo è comprendere, se e in che modo, la stampa contribuisca ad alimentare un repertorio di immagini e metafore che rappresentano una sorta di ‘archivio del pregiudizio’ nei confronti di alcune zone di un Paese. Il SUGC e il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II hanno stipulato un accordo per la realizzazione delle attività di ricerca che si propongono di analizzare la copertura giornalistica del Mezzogiorno nel contesto della pandemia da COVID-19, al fine di identificare i temi più dibattuti e la possibile presenza di pregiudizi e atteggiamenti discriminatori presenti all’interno della copertura di un campione di testate giornalistiche nazionali e regionali. Negli ultimi mesi, l’attenzione mediatica in Italia, come in tutto il mondo, si è concentrata in modo pressoché esclusivo sulla pandemia da Covid-19 e le sue conseguenze. Il nuovo Coronavirus e il periodo di lockdown sono stati occasione di forte rilevanza comparativa sui territori italiani rispetto a diverse dimensioni come la paura e le proiezioni sulle condotte dei territori del Mezzogiorno di fronte alla prova pandemica. Comprese le scelte politiche, il modo di alimentare il dibattito locale e nazionale degli amministratori locali (con le Regioni in particolare. Su questi ed altri aspetti, la stampa locale e nazionale ha prodotto un altissimo numero di articoli e contenuti, la cui analisi può fungere da strumento di interpretazione delle possibili discriminazioni – nuove o preesistenti – tra territori. La ricerca cerca di comprendere le rappresentazioni e le narrazioni giornalistiche dominanti del Paese, e il loro legame con la produzione di eventuali stereotipi e discriminazioni Nord-Sud. Si è scelto di indagare la questione focalizzandosi sul periodo relativo al lockdown e sul dibattito innescato dall’impatto del Covid-19 sul paese. La ricerca si basa su un’analisi di contenuto di un campione di articoli giornalistici provenienti dalle principali testate nazionali italiane generaliste, economiche e sportive oltre che da due quotidiani a circolazione locale. Gli articoli sono stati raccolti tramite il database Factiva utilizzando come parola chiave di ricerca: “Covid-19 AND Meridione OR Mezzogiorno”. Il campione selezionato è stato uniformato tramite apposite scelte. L’analisi testuale degli articoli è riferita al periodo di analisi che va dal 1 febbraio 2020 al 31/08/2020 (non comprende la seconda ondata della pandemia)  E’ di 278 unità  il totale di articoli nel campione (dopo selezione e verifica). L’attività di ricerca è ancora in corso e adesso entra in una nuova fase che prevede l’analisi qualitativa da realizzarsi sulle interviste somministrate a testimoni privilegiati, prevalentemente giornalisti. Il progetto di ricerca viene realizzato con la partecipazione della Camera di Commercio di Napoli attraverso Si Impresa Azienda Speciale Unica, Innovaway, Protom, DAC (Distretto Aerospaziale della Campania), Materias, P4M, STRESS (Distretto Tecnologico per le Costruzioni Sostenibili), TECNO, TDS e in collaborazione con la Federazione Nazionale della Stampa 

“Durante la pandemia c’è stata una maggiore polarizzazione del contrasto tra territori, che ha evidenziato come la coesione e la solidarietà tra Nord e Sud non siano valori scontati nel nostro Paese- ha detto Claudio Silvestri. Segretario del Sindacato dei Giornalisti della Campania, SUGC –  Abbiamo pensato a una ricerca per evitare che prevalessero le suggestioni nel nostro ragionamento. Da qui dobbiamo partire per pensare a una corretta informazione sul Meridione, fuori da stereotipi e cliché negativi che caratterizzano anche la narrazione in testate non marcatamente orientate politicamente. A quesoi appuntamento ne seguiranno altri, a Roma e a Milano. È necessario che si apra una riflessione seria sul tema, così come abbiamo fatto con il manifesto di Venezia per il mondo femminile, e con la carta di Assisi per il linguaggio dell’odio e la comunicazione sui social network”. Per Stefano Bory, direttore di Funes, atelier dipartimentale di ricerca sulla narrazione e l’immaginarioDipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II -” La ricerca sta offrendo, già a partire da questi primi risultati intermedi, delle considerazioni di rilievo sul modo di fare informazione durante la pandemia. Dal nostro studio, oltre ad una lampante ri-esplosione della questione meridionale e del conflitto Nord-Sud, stanno emergendo retoriche discorsive e scelte lessicali che spesso celano nuove forme di vittimizzazione dell’attore sociale del Nord e diversi atteggiamenti rivendicativi sulle competenze e sul potenziale ruolo di sviluppo da parte del Mezzogiorno. Si tratta di rappresentazioni che devono far riflette sia sulla professione giornalistica in un contesto emergenziale, sia sulle latenti impronte culturali che nutrono a volte inconsapevolmente l’agency discorsiva e narrativa sul rapporto tra i due territori del nostro paese.” “Quanto incide sullo sviluppo delle imprese, del tessuto economico di alcune aree, una narrazione non oggettiva da parte dei media?  – Si è chiesto il presidente della Camera di Commercio, Ciro Fiola, aprendo i lavori della conferenza stampa dedicata alla presentazione della ricerca – “Ce lo siamo chiesti spesso, specialmente al Sud, ha aggiunto Fiola, nella nostra Napoli, sempre più scenario per il racconto di delitti e guerre di camorra, palcoscenico di fiction che ne tratteggiano il lato peggiore. Ben vengano azioni di ricerca rigorosa come questa messa in campo dal SUGC in collaborazione con l’Università Federico II”. “Durante il primo lockdown i consiglieri il SUGC hanno raccolto numerose segnalazioni su articoli, servizi e programmi TV che hanno raccontato il Mezzogiorno proponendo i pregiudizi e gli stereotipi di sempre, ha detto Maria Cava, consigliera del SUGC. “Anziché affidarci ad un comunicato stampa abbiamo voluto analizzare il fenomeno in modo più strutturato, misurandolo. Di qui l’idea della ricerca sociale frutto di una decisione di lavoro di squadra di tutto il Sindacato dei giornalisti della Campania. Ci aspettiamo di poter contribuire ad una maggiore responsabilità, consapevolezza, cura e attenzione nella nostra professione”. Il gruppo di lavoro del Dipartimento di Sociologia della Federico II è composto da Stefano Bory, Luca Bifulco e Rosaria Lumino. C’è anche Philip Di Salvo, dell’Istituto di media e giornalismo (IMeG), Università della Svizzera italiana (USI).

Il Sud «condannato» a non cambiare dai suoi stessi scrittori. Esce un importante saggio dello studioso lucano Giuseppe Lupo: da Verga a Saviano una linea immobilista Vittorini e Nigro fra le eccezioni. Oscar Iarussi il  21 Aprile 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Che cosa c’entra Boccaccio con la questione meridionale? C’entra, eccome, sostiene il nuovo libro dell’italianista Giuseppe Lupo, lucano di nascita, romanziere di successo e docente alla Università Cattolica di Milano e Brescia. La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli esce domani per i tipi di Rubbettino (pp. 279, euro 18,00). La letteratura meridionale e la nostra stessa visione del Sud, esordisce Lupo, sarebbero diversi se avesse prevalso «l’aria napoletana più che toscana, con giardini di arance e odore di mare» delle novelle del Decameron (Pasolini ambientò il suo film da Boccaccio sotto il Vesuvio), un’aria lieve che ritorna nel tono fiabesco del secentesco Lo cunto de li cunti del campano Giambattista Basile. Quel «narrare angioino» della Napoli di mercanti e artigiani, cioè estroso miracoloso fantastico, nel corso dei secoli è stato invece surclassato dalla «mentalità conservativa dei dominatori spagnoli (meglio sarebbe dire la presunzione aragonese di gestire un potere politico in termini suppletivi)». Tale primato avrebbe sottratto il Sud alle traiettorie della Ragione, tanto più dopo la traumatica sconfitta della Repubblica Napoletana del 1799, bloccandolo nella dimensione della «anti-storia» o della «non storia» di cui è ancora prigioniero. Del resto, la rivolta contro il tempo storico e «il mito dell’eterno ritorno», secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, sono le caratteristiche delle società arcaiche. Il Mezzogiorno entra nel canone della modernità a fine ‘800 - scrive Lupo - sotto il segno di Giovanni Verga con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo: «Se da Manzoni la Storia veniva osservata come luogo del riscatto per gli individui, per Verga non c’è speranza di redenzione, non esiste prova che essa, la Storia, produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini». Ecco la matrice o la quintessenza siciliana che presto si impone sul Meridione peninsulare e da cui deriva una tradizione pessimista fino alla paralisi, se non apocalittica. È la cornice nella quale Lupo iscrive - certo, con le varianti stilistiche e politiche dei singoli autori - Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), Federico De Roberto (I Vicerè), Luigi Pirandello (I vecchi e i giovani), ma anche il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Corrado Alvaro, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, e via via fino a noi, L’inferno di Giorgio Bocca, I traditori di Giancarlo De Cataldo e Gomorra di Roberto Saviano. «Se fosse prevalsa la linea tracciata da Boccaccio e Basile, avremmo avuto una letteratura meridionale modulata sulla leggerezza dei sogni e sulle oscillazioni dell’immaginazione. Ma ha prevalso l’atteggiamento aragonese che negli esiti letterari ha provocato uno sguardo da archivista, ha ratificato l’assenza della borghesia e dunque il fallimento di qualsiasi spinta al progresso». Eccezioni o alternative? Lupo ne individua ben poche: l’anelito alla modernità politecnica di Elio Vittorini, siciliano a Milano, e del suo allievo Raffaele Crovi; l’approccio interdisciplinare di Leonardo Sinisgalli, lucano al Nord che si sottrae alle «viscere di una fascinazione leviana»; la vocazione riformista e federativa di Adriano Olivetti, piemontese impegnato nel dopoguerra tra Pozzuoli e Matera, che echeggia in un pamphlet di Riccardo Musatti (La via del Sud, 1955, riedito nel 2020 da Donzelli con un’introduzione di Carlo Borgomeo). Fra tutte, nell’analisi dell’autore, spicca l’anomalia virtuosa di Raffaele Nigro, fin da I fuochi del Basento (1987): «A più di quarant’anni di distanza dal Cristo leviano, Nigro capovolge i termini del narrare meridionale con un romanzo di pronunciate ascendenze manzoniane, dove coniuga documentazione d’archivio e creatività... Per aver riscritto il patto tra epica e questione meridionale, I fuochi del Basento restituisce dignità letteraria a un argomento piuttosto marginale come il brigantaggio, contribuendo alla sua rivitalizzazione». E proprio con Nigro e con altri studiosi come l’antropologo Vito Teti, da tempo Lupo è impegnato in una prospettiva «appenninica» della questione meridionale (le aree interne, la dorsale dall’Emilia alla Calabria), che rivendica più attenzione all’«osso» montuoso rispetto alla «polpa» delle pianure e delle coste, di fatto ribaltando il celebre paradigma postbellico dell’economista Manlio Rossi-Doria. Un’Italia solo apparentemente «minore», quella degli Appennini, tornata «di moda» in era Covid, che, scrive Lupo, andrebbe valorizzata dotandola di servizi (logistica, istruzione, sanità, banda larga) e non retrocessa a «nuova arcadia» per le fughe dalle città dei ricchi settentrionali in cerca di borghi abbandonati. L’Appennino assunto quale cardine ideale, equidistante tra Est e Ovest, tra Europa e Mediterraneo - leggiamo - anche rispetto al «pianeta meridiano» di Franco Cassano, il sociologo che ha rilanciato la necessità di un pensiero radicale del Sud. L’esegesi dei testi letterari da parte di Lupo è rigorosa e la sua ipotesi è suggestiva, feconda: questo libro farà discutere. A noi pare - come dire? - forse troppo «severo» verso Levi, che, verissimo, ricalca le allegorie dantesche nella esplorazione dell’inferno contadino dove fu esiliato dal fascismo, ma la cui modernità letteraria (e politica) è testimoniata per esempio da L’orologio e dalla stessa mistura fra reportage, saggio e romanzo del Cristo. Simile osservazione avanzeremmo rispetto a Scotellaro e ad altri autori meridionali che l’editore Vito Laterza negli anni ’50 fece confluire nei «Libri del Tempo»: Danilo Dolci, Tommaso Fiore, Leonardo Sciascia, Giovannino Russo. Le loro sono indagini vivide lungo il confine di stagioni e sfide nuove. Nondimeno, La Storia senza redenzione di Giuseppe Lupo è un saggio originale e importante sulla «vera grande frontiera che deve valicare la letteratura d’impianto meridionalista: quella dei rapporti tra realtà e rappresentazione, cioè tra documento e mimesi». Oltre la descrizione o la denuncia del «mondo così com’è», narrare sognare concepire un altro Sud è possibile.

La contemporaneità italiana raccontata ai posteri ed agli stranieri.

Se la Storia la scrivono i vincitori, ora tocca ai vinti raccontare quello che non si riporta dalla Cultura del pensiero unico ed imperante e dai Media ideologizzati asserviti al potere politico ed economico.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho alcun potere. Ho provato a difendere gli indifesi quando praticavo nei Tribunali. Non guardavo in faccia nessuno per l’amor di verità e giustizia. Il risultato è che sono stato cacciato e perseguitato. Inoltre, coloro che difendevo mi hanno voltato le spalle.  I politici a cui segnalavo le anomalie mi prendevano per pazzo o mitomane.

Purtroppo le controversie sono risolte dai magistrati nei processi con l’ausilio degli avvocati difensori.

I quesiti a cui dare risposta sono:

Ci sono magistrati degni di stima e rispetto, che applichino la legge secondo legalità ed equità?

Ci sono avvocati che spingono i magistrati a prendere le decisioni secondo giustizia?

Ci sono governanti e legislatori che ascoltano le preghiere dei cittadini, avendo potere d’intervento sui magistrati?

Cosa fa il “popolo” per cambiare le cose?

La risposta è che ognuno guarda i “cazzi” suoi”.

Allora la mia considerazione naturale è:

Parafrasi ed Assioma con intercalare. Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

TRIBUNALE PENALE DI TARANTO UFFICIO DEL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI DOTT.SSA PAOLA R. INCALZA

Proc. Pen. n. 4401/18 R.G.N.R. 4578/18 R.G.GIP DECRETO PENALE n.663/18

OPPOSIZIONE A DECRETO PENALE DI CONDANNA EX ART. 461 C.P.P.

Il sottoscritto dr Antonio Giangrande, nato a Avetrana il 02/06/1963, C.F.: GNGNTN63H02A514Q, residente in Avetrana (TA), via A. Manzoni n. 51, dichiaratamente domiciliato, ai sensi dell'art. 161 cpp, presso la propria residenza all'indirizzo suindicato, rappresentato e difeso, giusta procura in calce, dall'Avv. Mirko Giangrande del Foro di Taranto (C.F. GNGMRK85A26E882V – P.I. 02834700730), il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni a mezzo fax al numero 099/9708396 e PEC avv. mirkogiangrande@postecert.it, imputato nel procedimento penale n. 4401/18 R.G.N.R., 4578/18 R.G. GIP e destinatario del decreto penale di condanna n. 663/18 emesso dal GIP Paola R. Incalza presso il Tribunale di Taranto

PREMESSO CHE

1. In data 1 febbraio 2021 è stata ricevuta la notifica del decreto penale di condanna n.663/18 emesso, nell’ambito del procedimento penale in epigrafe dalla Dott.sa Paola R. Incalza, GIP presso il Tribunale Penale di Taranto, in data 26 giugno 2018 e depositato in cancelleria il 29 giugno 2018 (All. 1);

2. Con il predetto decreto l’interessato è stato condannato per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. c.p., 595, 3° comma, c.p., alla pena di 9.000,00 di multa, pena sospesa;

3. Il dott. Antonio Giangrande veniva condannato “perchè, con più azioni esecutive di un disegno criminoso, offendeva la reputazione di Bravo Stefano mediante la pubblicazione sul sito “Google Libri” – quindi, attraverso il sistema “Internet”- di libri dal contenuto ingiurioso ed altamente lesivi dell’immagine professionale della p.o., indicandola come persona coinvolta nell’ambito dell’inchiesta “MAFIA CAPITALE”, in particolare:

- pubblicava il libro e-book da titolo “GOVERNOPOLI”, INDICANDO LA P.O. come “IL COMMERCIALISTA CHE RICICLAVA I SOLDI DI BUZZI E CARMINATI”, soggetti coinvolti nel predetto procedimento penale e sottoposti a misure cautelari;

- pubblicava il libro e-book dal titolo “APPALTOPOLI: APPALTI TRUCCATI” indicando la p.o. come: “STEFANO BRAVO LO SPALLONE DEL CLAN, IL COMMERCIALISTA CHE PORTAVA I SOLDI OLTRECONFINE, E’ STATO TRA I PROMOTORI DELLA HUMAN FOUNDATION, UNA CREATURA DELL’EX-MINISTRO PD GIOVANNA MELANDRI…”

- pubblicava il libro e-book dal titolo: “MAFIOPOLI SECONDA PARTE: LA MAFIA SIAMO NOI”, indicando la p.o. come: “STEFANO BRAVO CHE RICICLAVA I SOLDI PER BUZZI E CARMINATI”.  In Avetrana, sino al 28 aprile 2015 (competenza territoriale individuata ex art.9, 3°comma, c.p.p.)

PROPONE

Opposizione avverso il decreto penale di condanna n.663/18 emesso dal GIP, Dott.ssa Paola R. Incalza presso il Tribunale Penale di Taranto, nel procedimento penale n. 4401/2018 R.G.N.R. e n. 4578/2018 R.G. GIP, il 26/06/2018 e depositato in data 29/06/2018 e ricevuto in notifica in data 1/02/2021, chiedendo che si proceda con le forme del giudizio Ordinario (e non per giudizio immediato/giudizio abbreviato/applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.) e che il decreto penale qui opposto venga revocato per i seguenti

MOTIVI

In tema di diffamazione, diritto di cronaca e di critica, i punti di riferimento normativi sono vari.

L'art. 21 della Costituzione dispone che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

L'art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

L'art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali (Libertà di espressione) dispone che “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”. L'art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (Libertà di espressione e d'informazione) recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”.

L'Art. 51 del Codice Penale (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) prevede che “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità”

L'art. 2 legge 69/1963 (“Ordinamento della professione di giornalista”) dispone che «È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori.».

L'odierno imputato ha esercitato il diritto di cronaca e di critica. Tale diritto, costituzionalmente garantito dall'art. 21 della Costituzione, incontra solo tre limiti:

- Verità;

- Attinenza– continenza;

- Interesse pubblico. Il diritto di cronaca è esercitabile sia su stampa periodica e non periodica. Quest'ultima consiste in ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè non stampata regolarmente. Ne è un esempio il saggio o un romanzo in forma di libro). Nella fattispecie in oggetto, l'attività del dott. Giangrande è di “cristallizzare la cronaca” e applicando su di essa una “critica storica”.

La Corte di Cassazione, nel tempo, è spesso intervenuta a contemperare i vari e contrapposti diritti in ambito di diritto di cronaca. In due famose sentenze (Cass. Pen. 8959/1984; Cass. Civ. 5259/1984) la Suprema Corte afferma che l'esercizio della libertà di diffondere alla collettività notizie e commenti è legittimo, e quindi può anche prevalere sul diritto alla riservatezza se concorrono le seguenti condizioni:

- Che la notizia pubblicata sia vera ("verità del fatto esposto");

- Che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale ("rispondenza ad un interesse sociale all'informazione", ovvero requisito della pertinenza);

- Che l'informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività ("rispetto della riservatezza ed onorabilità altrui", ovvero "correttezza formale della notizia o della critica").

- Che se tutte queste condizioni vengono rispettate, una notizia può essere pubblicata anche se danneggia la reputazione di una persona.

Nella sent. 18174/14 la Suprema Corte attesta che: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico e, dunque, nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte nel campo della formazione sociale, culturale e scientifica (Cass., sez. V penale, sent. 7340/2019).

In tema di diffamazione a mezzo stampa, al fine di attribuire efficacia esimente all'esercizio del diritto di cronaca e di critica, la verità della notizia e la fondatezza dell'opinione vanno valutate con riferimento al momento in cui sono state divulgate, non potendo assumere alcun rilievo gli eventi successivi (Corte d'appello di Bari, sent. 2524/2019).

In materia di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste una generica prevalenza del diritto all'onore sul diritto di critica, in quanto ogni critica alla persona può incidere sulla sua reputazione. D'altra parte, negare il diritto di critica, solo perché lesivo della reputazione di taluno, significherebbe negare il diritto di libera manifestazione del pensiero. Il diritto di critica, pertanto, può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell'onore. Per contro, si configura un abuso del diritto di critica in caso di palese travalicamento dei limiti della civile convivenza, di utilizzo di espressioni sgradevoli e non pertinenti al tema in discussione, senza che sussista alcuna finalità di pubblico interesse (Trib. Roma, sez. XVIII, sent. 20090/2019).

In tema di diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Cass. Pen., sez. V, sent. 17243/2020).

In tema di responsabilità civile per diffamazione, il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione dei fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi; per riconoscere efficacia esimente all'esercizio di tale diritto, occorre tuttavia che il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive (Trib. Roma, sez. I, sent. 2537/2020).

Riguardo al tema della diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuità ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti (Cass. Pen., sez. V, sent. 15089/2019). La sussistenza dell'esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto; l'esercizio di tale diritto consente l'utilizzo di espressioni forti e anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l'attenzione di chi ascolta (Cass. Civ., sez. III, ordinanza 14370/19).

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

- può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

- può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

- può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

- non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il dott. Giangrande è un giurista, sociologo storico, youtuber e blogger d'inchiesta ed opera nell'ambito del libero pensiero stabilito dall'art. 21 della Costituzione. La legge 633/1941, all'art. 65, sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo.  

Per la Suprema Corte (Cass. 16236/2010), “con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”.

Il dott. Giangrande, come saggista, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, poteva approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Nel caso di specie i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato. Non esiste alcun legame con le parti. La pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.

L'odierno opponente, nella propria attività, aggrega contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati. La dottrina maggioritaria evidenzia che “per uso di critica” deve intendersi l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione.

La critica storica può scriminare la diffamazione (Cass. Pen., sez. V, sent. 47506/2016). L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione (Cass. Pen. sez. V, sent. 47506/2016), dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Le frasi contestate sono tratte da brani riferiti ad articoli di stampa mai rettificati riconducibili a Francesco Merlo su “la Repubblica” del 12/12/2014 (All. 2) e Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso” del 18/12/204 (All. 3). La parte offesa non ha mai chiesto la rettifica dei brani citati: né, a quanto pare dalla pubblicazione recente, all’autore principale, né al secondario. 

Si deposita: 1. Copia del decreto penale di condanna n. 663/18;

2. Copia dell'articolo Francesco Merlo su Repubblica;

3. Copia dell'articolo di Marco Damilano ed Emiliano Fittipaldi su L'Espresso

Avetrana, lì 08/2/2021

Dott. Antonio Giangrande

Per Autentica Avv. Mirko Giangrande

ON.LE GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

PRESSO IL TRIBUNALE DI TARANTO

Il sottoscritto Avv._________ , difensore di _______ nato a ______ il ______ e residente in ______ alla via _____

DICHIARA

di proporre opposizione avverso il decreto penale di condanna emesso dal GIP (dott. _______) presso il Tribunale di _________in data _______ e notificato in data _______, con il quale l’imputato è stato condannato alla pena di € 9.000,00  per il reato di cui agli artt. __________.

(Chiede altresì il giudizio immediato, abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti. Parte eventuale da aggiungersi se si ritiene di definire il giudizio con un rito alternativo).

Si allega: procura speciale (se non già in atti)

Luogo,_________________

Chi era Luigi Amicone. Un anno fa si è impegnato a censurarmi. Ha fatto in modo che nessuno pubblicasse le mie opere. Ha inoltrato l’esposto infondato contro di me ad Amazon, Google Libri e Lulu, costrongendoli a cancellare il mio account di pubblicazione e di fatto censurandomi. L’unico a farlo rispetto a centinaia di migliaia di autori e di citazioni e in riferimento a un suo articolo marginale, doverosamene citato, pubblicato su Il Giornale.it, posto in discussione ed in contraddittorio rispetto ad altri altricoli sullo stesso argomento. Mi ha posto temporaneamente sul lastrico, ledendo, oltretutto, la mia onorabilità e reputazione. Questa la mia risposta:

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Morto Luigi Amicone, tra i fondatori di Cl e del settimanale «Tempi»: una vita tra politica e battaglie civili. Andrea Senesi su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Un infarto nella notte. Pneumotorace e conseguente arresto cardiaco. Soccorso d’urgenza, trasportato all’ospedale San Gerardo di Monza, è morto dopo pochi minuti. Aveva 65 anni. Luigi Amicone, già consigliere comunale di Forza Italia non eletto alle ultime amministrative (605 preferenze), ma prima, decenni prima, tra i fondatori di Cl e poi del settimanale d’area Tempi, di cui era ancora direttore, ma soprattutto attivista di molte battaglie (perse) in Italia. Il referendum sul divorzio e poi l’aborto, il giustizialismo di Mani Pulite, l’eutanasia, i matrimoni gay. Sempre in campo, anche se sempre sconfitto. Un mese fa, da candidato azzurro a Palazzo Marino, annusando la sconfitta del pediatra Luca Bernardo contro Beppe Sala, s’era scagliato contro Matteo Salvini: « Ha confuso Milano con Milano Marittima. La gente è sconcertata, si poteva vincere a mani basse ma si va verso una sconfitta a mani alzate».

Il ricordo su «Tempi»

Un «capotribù». Così, lo salutano gli amici e colleghi di Tempi. La moglie Annalena, una famiglia numerosa, sei figli. Ecco il ricordo sul sito web del settimanale: «Ancora ieri discutevamo con lui di un articolo da scrivere, di un intervento da pubblicare su Tempi, di come commentare l’ultimo sviluppo di cronaca. La notizia della sua morte ci coglie all’improvviso e impreparati, come sempre accade. Che don Giussani, il suo amico e maestro, che aveva per lo spirito libero e gioviale di Amicone una predilezione, ci guidi in questo momento di smarrimento, ricordandoci di confidare sempre in quel Destino al cui cospetto si trova ora il nostro carissimo amico Gigi».

Amicone nasce il 4 ottobre 1956. A 13 anni brucia nella piazza centrale di un paesino abruzzese una bandiera spagnola in segno di protesta per il garrottamento franchista dell’anarchico catalano Puig Antich. «Avevo il libretto rosso di Mao in tasca e quel libretto lo conservo ancora», raccontò al Corriere. A 14 anni a Milano entra all’istituto tecnico Molinari, lo stesso di Sergio Ramelli di cui è coetaneo. Si mette a bazzicare Avanguardia Operaia, «ma sulla mia strada si para nel frattempo don Giorgio Pontiggia, il più viscerale, potente, gigantesco educatore che abbia mai conosciuto. Una figura alla Guevara che mi porta a Cristo invece che alla rivoluzione proletaria». Poi i decenni con Cl, la lezione di vita di don Giussani «che amava raccomandare agli amici “la mia ossessione è stata quella di non vivere inutilmente, vivi pazzo!”». Diceva: «Ecco, a me è successo questo».

Le passioni politiche

Fonda Tempi e diventa uno degli intellettuali più in vista del movimento. Un reazionario purissimo, dicevano tutti di lui. Eppure è lui che trova a Casarsa e fa pubblicare su Il Sabato, altra rivista d’area, alcune poesie inedite di Pierpaolo Pasolini, intellettuale comunista, omosessuale, eretico per definizione. Negli anni Amicone si farà anche putiniano, trumpiano e a un certo punto persino orbaniano, cosa che lo porta in minoranza anche tra gli eredi di don Gius. Ha una nipote che vive in California e fa la surfista. È una superfemminista e da leader del «Me too» locale è diventata a suo modo celebre per aver appena ottenuto una legge che equipara i premi sportivi delle donne a quelli degli uomini.

A Palazzo Marino

In Consiglio comunale con Forza Italia, la politica d’aula non lo appassionava più di tanto. Si scaldava giusto per le «sue» battaglie, l’ultima contro il riconoscimento all’anagrafe del doppio papà per i figli dell’utero in affitto. «Io voglio diventare il prossimo presidente di Cl — ama ripetere — e avere l’ufficio in San Fedele, così da essere vicino sia al prossimo sindaco che alla chiesa della piazza, che è considerata il modello di riferimento per l’architettura sacra dell’arte della Controriforma».

L’ultima campagna elettorale

All’inizio di ottobre aveva scritto un de profundis anticipato per Bernardo, «vittima» della «presunzione dell’uomo solo al comando», ossia Salvini. «La città che poteva vincere a mani basse, sembra proprio che il centrodestra abbia deciso di perderla a mani alzate» scriveva il consigliere di FI. L’attacco al Capitano era stato frontale: «Forse ha confuso Milano con Milano Marittima. E adesso corre con tutti gli alleati verso l’abisso». Accusava la Lega e FdI di essersi dimenticati del candidato nel logo delle liste. «Forza Italia è l’unico partito della coalizione che ha mantenuto l’impegno a inserire il candidato nel proprio simbolo». Era rimasto Amicone, fino alla fine.

Il cordoglio di colleghi e amici

A ricordare Amicone ci sono diversi colleghi, da Gad Lerner a Mario Adinolfi. «Luigi è stato per me un avversario appassionato ma gentile con il quale ci siamo sempre voluti bene. Oggi lo piango insieme ai suoi familiari e alla sua comunità di fede», ha twittato Lerner. Così Adinolfi: «Volle dedicarmi una copertina di Tempi in cui mi descrisse come un “pericolo pubblico”. Discutevamo molto, qualche volta in tv ci capitò pure di litigare. Ma Luigi ci credeva. Dio, se ci credeva. Che dolore».

Poeta, rubacuori e innamorato delle idee. Addio Amicone, combattente della libertà. Luca Doninelli il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato tra i fondatori di Cl e "Tempi". Fatale un infarto, aveva 65 anni. Lo si è detto fin dall'antichità: spesso la vita allontana tra loro le persone, spesso la morte le riavvicina. In un solo giorno due persone importanti per la mia vita se ne sono andate, una a causa di un infarto, l'altra per un incidente in moto. Si chiamavano Luigi Amicone e Raffaele «Lele» Tiscar. Erano due personaggi pubblici, impegnati nel giornalismo e nella politica, e avevano tutti e due sessantacinque anni come me. Quello che ho conosciuto meglio era Luigi Amicone. Eravamo compagni di università, tutti e due ciellini, lui iscritto a Scienze Politiche, io a Filosofia. Lui era un vero leader, e in quegli anni tristi (1975-1980) la sua personalità debordante segnò la vita di tanti compagni, me compreso. Lo chiamavamo Luigino, non perché fosse piccolo ma perché aveva gli occhi, la faccia e i modi di chi, diventando grande, riesce a mantenere la poesia dell'adolescenza. Io gli volevo bene. In un clima dominato dall'ideologia e dalla violenza, Luigi mi insegnò a non avere paura, a mettere in gioco con coraggio e ironia la mia piccola fede e i miei ideali, a non rinchiuderli in discorsi e analisi da circolo culturale, a sfidare il mondo. Luigino era bello, simpatico, sapeva cantare bene e le ragazze si innamoravano di lui. Scriveva belle poesie. Insieme conoscemmo Giovanni Testori, nel 1978, e ne fummo segnati per sempre. Testori ci fece scrivere un libro ciascuno. Fare, fare: questo era il suo modo di farci crescere. Uscito dall'università, Luigi andò a lavorare al settimanale Il Sabato, che è stato fucina di tanti grandi giornalisti, e al quale collaboravo anch'io come critico letterario. Avevamo meno di venticinque anni: e a questo pensiero non posso non pensare alla fortuna che abbiamo avuto, lui, io e tanti altri, ad incontrare sulla nostra strada uomini come Don Giussani e come Testori, che ci hanno insegnato a scommettere su ciò in cui credevamo e a rischiare per questo. Poi le nostre vite hanno preso direzioni diverse, ma credo di avere ereditato da lui alcune cose, che ho sempre conservato, come la testardaggine con cui ho imparato a mantenere intatti, nell'età adulta, i sogni di quando ero ragazzo. Diciamo che Luigi mi ha insegnato a non mettere mai la testa a posto. In seguito, dopo la fine de Il Sabato, Luigi ha fondato il settimanale Tempi, che ha diretto fino alla pensione, dopo di che si è messo in politica. Su tante cose non eravamo d'accordo, specialmente in politica, ed è probabile che anche le nostre idee su Cl non fossero le stesse. Non è sempre facile capire perché, a un certo punto della vita, le opinioni comincino a divergere, perché le parole non dette, i temi non affrontati d'un tratto emergano e scavino una distanza tra due persone. Con Luigi, però, le cose sono andate diversamente rispetto ad altri. Ci siamo allontanati, è vero, ma mai del tutto. Abbiamo continuato a incontrarci, a scriverci. Spesso le divergenze portano alla rottura dei rapporti, fino a cancellare la stima di un tempo. Con Luigino non è andata così. Ci è capitato di pensare male l'uno dell'altro, e non una volta sola, eppure alla fine la stima ha sempre vinto. E il merito è stato soprattutto suo, della sua capacità affettiva. Quello che ci univa è sempre stato più forte di quello che ci divideva: perché a dividerci erano le opinioni, i discorsi, i parti della nostra testa, mentre a unirci è stato un dono immeritato, una specie di marchio a fuoco, quello che fa gridare a Rimbaud «sono prigioniero del mio Battesimo», ma che non è una prigione, è piuttosto una libertà inimmaginabile, sfacciata, che resiste a tutti gli errori e a tutti gli equivoci. Ciao, Luigino caro, a presto. Ti prometto che cercherò di essere un uomo migliore. Luca Doninelli

Chiacchierate su Dio e pastasciutta. A Luigi Amicone, un amico che se ne va. Marina Corradi su Avvenire  il 20 Ottobre 2021. Lutto nel mondo della politica e del giornalismo milanese per la morte improvvisa di Luigi Amicone, colpito da un infarto nella notte tra lunedì e ieri. Amicone, 65 anni e padre di sei figli, era stato consigliere comunale di Forza Italia dal 2016 fino a poche settimane fa quando non era stato rieletto alle ultime amministrative. Esponente di Comunione e Liberazione nel 1994, aveva fondato il settimanale Tempi di cui era ancora direttore. Il funerale giovedì 21 ottobre alle 10,45 nel Duomo di Monza. Nell’ultimo Whatsapp promettevi: «Appena arrivo a Milano vengo da voi a pastasciuttare». E, sotto, una foto del mare della Gallura che amavi tanto, nel sole mite di ottobre ancora più infinito. Non ci credo ancora, che sei morto. La notizia, ieri mattina, è stata un pugno: ma non ho realizzato veramente – il cuore chiede tempo davanti alla morte, alza paratie in difesa, lasciando filtrare la realtà lentamente. Mi dicono però, Luigi, che sei morto davvero. Vinto un cancro, evitato il Covid, a 65 anni ancora quella faccia da ragazzo, sotto ai capelli incontrollabili. Ma ieri notte, d’improvviso, una lacerazione al petto, e il fiato che disperatamente mancava. Te ne sei andato in un’ora. Questo è la nostra vita, un prestito che ci viene chiesto indietro in un istante. Io, attonita. Come su un sentiero in montagna che si fa sempre più erto, e ti volti, quel compagno caro non c’è più. E più schiacciante il silenzio, attorno. Il brutto della vecchiaia è che gli amici disertano (e in un anno Fabio, e Antonio, e ora tu). Ma tu no, tu, non ci posso credere. Eri nato combattente. Da bambino t’avevano messo in una classe differenziale, tante ne combinavi. A sedici anni giravi con il libretto di Mao in tasca, ansioso di trovare una bandiera per cui valesse la pena di battersi. Ti tolse dal giro di Avanguardia Operaia don Giorgio Pontiggia, grande amico di Luigi Giussani. Lui ti adottò come un figlio. La bandiera, negli infiammati e plumbei anni ’70, l’avevi trovata. Una domenica di venticinque anni fa al mare, in Toscana, ho visto sulla soglia della chiesa, a Messa, un tipo in braghe corte, camicia a fiori, gilet militare. «Ce n’è di strani, fra i cristiani», mi sono detta. Tu, sulla soglia ci stavi per fumare, io per esitazione esistenziale. Ma com’è stato bello incontrare uno che parlava come me, si arrabbiava come me, dubitava a volte come me, eppure era appassionatamente cristiano. Quanti giorni con i nostri figli, sei tu e Anna, tre noi. Dalla prima epica traversata da Livorno a Bastia, con un mare d’inferno, le onde sopra la prua del traghetto. Io moribonda e tu che, irresponsabile, dormivi su un divano. E la Gallura? Nella parte più selvatica e sconosciuta, la luce, le cappelle romaniche, quante cose ci hai fatto scoprire. E quante sere insieme a Milano, quando con i ragazzi di "Tempi", il tuo settimanale, chiudevi il numero e, tardi, venivate a cena da noi. Le nostre voci che nella gentilezza del Chianti e nell’affondare della notte si allargavano, allegre. E si discuteva di tutto, ma alla fine quel "tutto" era Dio. Avevamo condiviso molte battaglie, fino a quando non abbiamo preso onde divergenti. Trump, Orbán, la Lega: quanto abbiamo litigato. Ma sapendo che, comunque, noi due non potevamo non restare amici. Per una comune domanda, che non smettevamo di farci. Una sera anni fa, d’estate. Io, in una turbolenza d’anima: «Parliamo sempre di Cristo, ma io Cristo non lo vedo». Fino alle due, a combattere. La mattina ho avuto un’amnesia totale, un’ischemia. Quando hai saputo che stavo bene sei scoppiato in una risata: «Hai visto che, quando proprio insisti, Lui si fa vedere?». Eri uno che mi sapeva fare ridere, e anche per questo ti volevo tanto bene. Scioglievi la mia malinconia nella tua vitalità irruente da ex scolaro terribile. Non dovevi, proprio tu, Luigi, non dovevi disertare. Il mio vecchio cane qui accanto non ti farà più rumorose feste, alla porta, e tu non gli dirai più, affettuoso: «Vecchio bastardo, ma sei ancora qui?». Non butterò più per te la pasta, abbondante, a qualsiasi ora. Non prenderai da solo il whisky dalla credenza, come uno di casa. (Temo che il cuore, ora, cominci a capire). Guardo la foto del mare della Gallura di tre giorni fa. Che mare, e che cielo: più grande, e quanto chiaro. Penso a Paolo ai Corinzi: "Ora vediamo come in uno specchio, confusamente; ma allora vedremo faccia a faccia".

È morto il giornalista Luigi Amicone, fondò la rivista Tempi. Orlando Sacchelli il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lutto nel mondo del giornalismo e della politica milanese: Luigi Amicone è morto a 65 anni. Da studente alla Cattolica aderì a Comunione e Liberazione. Insegnò religione e lettere nei licei e poi divenne giornalista. Si è spento nella notte il giornalista Luigi Amicone. Il fondatore del periodico Tempi aveva 65 anni. È stato colto da un infarto. Nato a Milano il 4 ottobre 1956 da genitori abruzzesi, a soli 14 anni si avvicinò al gruppo di Avanguardia Operaia. Studente universitario alla Cattolica si Milano, conobbe don Luigi Giussani e aderì al movimento cattolico Comunione e Liberazione. Laureato in Scienze Politiche e in Lettere Moderne, insegnò religione e poi lettere nei licei e poi divenne giornalista. Per tredici anni lavorò al settimanale Il Sabato, occupandosi di Esteri. Seguì da vicino il sanguinoso conflitto tra cattolici e protestanti a Belfast, e poi a Beirut per coprire un altro scontro, quello tra Libano e Siria. Documentò il crollo dei regimi comunisti dell'Est Europa e poi la guerra tra serbi e croati dopo il disfacimento della Jugoslavia. Nel corso degli anni aveva collaborato anche con Il Foglio e il Giornale. Eletto in Consiglio comunale nel 2016 a Milano, nelle liste di Forza Italia, amava battersi soprattutto per le battaglie ideali in cui credeva fermamente, legate alla difesa della vita e ai valori cristiani. Si era ripresentato alle elezioni di quest'anno ma non era stato rieletto a Palazzo Marino. "Luigi Amicone - ha twittato Gad Lerner - è stato per me un avversario appassionato ma gentile con il quale ci siamo sempre voluti bene. Oggi lo piango insieme ai suoi familiari e alla sua comunità di fede". "È morto nella notte il mio caro amico Luigi Amicone per un infarto - ha scritto sempre su Twitter Mario Adinolfi -. Volle dedicarmi una copertina di Tempi in cui mi descrisse come un ''pericolo pubblico''. Discutevamo molto, qualche volta in tv ci capitò pure di litigare. Ma Luigi ci credeva. Dio, se ci credeva. Che dolore". In una lettera agli elettori (nel 2018 si candidò alle Politiche, senza essere eletto) rivendicò con orgoglio la sua amicizia con "laici come Giuliano Ferrara e Lodovico Festa (ex segretario della federazione Pci di Sesto San Giovanni, la ex 'Stalingrado' d’Italia), con i quali ho vissuto amicizie profonde e battaglie 'ratzingeriane' indimenticabili sui temi della difesa della vita, del referendum sulla legge 40, del contrasto alla cultura del relativismo e della morte. Insomma, ho cercato di restare fedele e presente a un certo incontro con il cristianesimo avvenuto nella mia giovinezza e del quale oggi posso ben dire, “ecco, quell’incontro con Cristo avvenuto per tramite don Luigi Giussani mi ha salvato la vita, in tutti i sensi”.

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Don Giussani, il garantismo, le battaglie in Tv. Chi era Luigi Amicone, tra i fondatori di Comunione e liberazione portato via a 65 anni da un infarto. Roberto Formigoni su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Un infarto nella notte. Poi la corsa inutile all’ospedale San Gerardo di Monza. Luigi Amicone si è spento nella notte di lunedì all’età di 65 anni. Tra i fondatori di Comunione e liberazione, e a lungo direttore del settimanale “Tempi”, il giornalista è stato un vero garantista. Qui di seguito il ricordo dell’uomo, del giornalista che Roberto Formigoni ha affidato al Riformista. Di che pasta fosse la personalità di Luigi Amicone se ne sono resi conto anche quelli che non lo conoscevano quando, nel pieno della bufera politico-mediatico-giudiziaria che mi aveva investito, dedicò una copertina di Tempi a Formigoni presidente di Regione Lombardia e alle sue realizzazioni politiche e amministrative. Tanti mi erano rimasti vicini in quei giorni difficili, ma un conto è fare sentire la propria vicinanza a livello personale e privato, altro è impegnare la propria reputazione, mettere in gioco l’opera in cui sei pubblicamente impegnato per sostenere un amico in difficoltà. Per amicizia e per amore della giustizia. Luigi Amicone era un cattolico ciellino che non si faceva problemi a passare da Luigi Giussani, il sacerdote che, ricambiato, tanto lo aveva amato e valorizzato, all’ateo devoto Giuliano Ferrara all’ateo-ateo Marco Pannella non per amore del garantismo (che pure apprezzava), ma per amore della giustizia e della libertà. Ad Amicone si attagliava perfettamente una tipica espressione giussaniana: “ingenua baldanza”. Aveva l’aria dell’eterno ragazzino, facile alla battuta tagliente e alla risata fra amici, ma la serietà del padre di famiglia che trascorre tutta la vita con la stessa donna e con lei mette al mondo sei figli coi quali si batte e combatte fino alla fine (storie raccontate nel suo libro Le avventure di un padre di famiglia); la serietà del giornalista imprenditore che, rimasto disoccupato, si lancia in un’avventura un po’ folle come quella di creare senza soldi un settimanale di ambizioni nazionali, Tempi, perché tutti i ciellini e tutti coloro che in Italia amavano la libertà avessero una voce che parlava a loro e di loro. Tempi incarnava davvero la sua apertura totale e la sua curiosità sconfinata: c’era tutto, dai giudizi politici provocatori e raffinati alle storie commoventi di gente comune. Pur essendo entrambi ciellini, a causa della differenza di età di quasi dieci anni non abbiamo condiviso molte esperienze formative comuni, ma ci siamo sentiti e visti infinite volte quando lui era direttore e io deputato nazionale o presidente di Regione. Mi telefonava o chiedeva di venire a trovarmi. Mi poneva domande, e io rispondevo nel modo più aperto e impegnativo possibile. Allora lui veniva fuori con le sue considerazioni, le sue intuizioni, le sue visioni che sparigliavano le carte. Ed io ero contento di avergli dato appuntamento, cercavo sempre di darglielo perché sapevo che ci avremmo guadagnato entrambi. Non erano mai incontri banali e non erano mai discorsi scontati. La stessa filigrana dei suoi interventi su Tempi o su altri giornali o in tivù: potevi essere d’accordo o in disaccordo con lui, ma sempre ti meravigliavi delle sue argomentazioni, degli spunti che sapeva trovare. Non ho problemi ad ammettere che da lui ho imparato, più di una volta. Non aveva paura di confrontarsi con nessuno, accettava gli inviti nelle trasmissioni-trappola di Michele Santoro e di Gad Lerner e si batteva come un leone, dava e prendeva artigliate senza mai tirarsi indietro. Leggeva e aveva letto in gioventù tantissimo e, come ha scritto Jack Kerouac, «di tutto parlava – e io aggiungo: scriveva- con nervosa intelligenza». Negli ultimi anni, liberato della direzione di Tempi, scriveva quotidianamente note politiche sulla situazione nazionale o su quella di Milano con la consueta passione, ed era una delle prime cose che io leggevo la mattina, perché erano sempre commenti centrati e ficcanti. Per queste, e per tante altre ragioni, non gli si poteva non volere bene. Tanto più quando, lui e il suo successore alla guida di Tempi Emanuele Boffi, si sono prestati a fare da tramite fra me, ristretto nel carcere di Bollate, e i tanti amici che da tutta Italia mi scrivevano e ai quali facevo fatica a rispondere. Sul settimanale si parlava della mia condizione e si sono pubblicate alcune mie lettere, che mi permettevano di raggiungere tutti. Ci mancherà la sua intelligenza vivacissima, la sua capacità di provocare, la sua personale traduzione in realtà dello slogan sessantottino “la fantasia al potere”. Il destino ha voluto che la sua scomparsa coincidesse con quella di un altro grande amico e collaboratore, Raffaele Tiscar, che con me ha condiviso responsabilità nel parlamento italiano e in Regione Lombardia, un manager di grandi capacità e un politico di grande intelligenza. Appena un mese fa è tornato alla casa del Padre un altro grande amico, Pier Alberto Bertazzi, un uomo che ha fatto molto per me fino alla fine e che è la persona all’origine del nome “Comunione e Liberazione”. Con tutte queste coincidenze, non posso non pensare che il Signore ci sta chiedendo qualcosa di grande e di misterioso. Dio non permette nulla che non possa essere un bene per i suoi fedeli. Dio sta chiedendo la nostra conversione, sta chiedendo la mia conversione. Roberto Formigoni

Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.

Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

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Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed  oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.

Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione. 

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano:  disinformazione, censura ed omertà. 

Nozionista è chi si  abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere. 

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.

Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.

Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.

Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?

Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.

La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10

1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.

Le singole discipline.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.

Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:

finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);

natura dell'opera tutelata;

ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;

effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.

Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.

A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.

Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.

Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.

Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.

Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.

È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).

Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione.  Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.

Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).

Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.

LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.

Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".

Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.

Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.

La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.

La normativa.

La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).

L’opera giornalistica.

Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.

Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.

Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:

La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:

1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;

2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;

3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;

4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.

Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.

Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.

L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.

Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.

Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:

1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;

2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.

IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.

Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.

La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.

Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.

É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.

Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.

LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.

(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)

Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.

La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.

Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:

1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)

2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.

3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).

La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.

Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.

Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.

Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.

Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…

L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.

Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)

Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).

Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.

(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)

Conclusioni.

Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.

Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.  I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro.  2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.

IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.

L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.

Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).

Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.

La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.

La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.

IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.

L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.

LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.

Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:

1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”). 

2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;

3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”).  La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.

La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).

Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”)  il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:

1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;

2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;

3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.

Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).

CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.

Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.

La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.

Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.

Da liberoquotidiano.it il 3 settembre 2021. Ci pensa Vittorio Sgarbi a spezzare l'idillio tra Roberto Benigni e Nicoletta Braschi. Premiato a Venezia con il Leone d'oro alla carriera mercoledì scorso, l'attore e regista toscano si è commosso e ha emozionato l'intera platea dedicando il prestigioso riconoscimento alla moglie, con cui condivide vita e carriera da 40 anni. Parole dolcissime ma, accusa Sgarbi, copiate di sana pianta senza nemmeno citarne l'autore. "Un pensiero alla mia attrice prediletta, Nicoletta Braschi, alla quale non posso nemmeno dedicare questo premio perché è suo: è tuo, ti appartiene", ha solennemente annunciato dal palco della 78esima Mostra del cinema Benigni. "Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni – ha proseguito l'ormai ex Piccolo diavolo, diventato gloria del grande schermo italiano –. Produzioni, interpretazioni. Ma come si fa a misurare il tempo in film? Io conosco solo una maniera per misurare il tempo: con te o senza di te". Quindi, con la consueta ironia che fin dagli anni 80 lo ha reso uno dei volti (e delle lingue) più celebri del nostro cinema: "Ce lo possiamo dividere: io prendo la coda, il resto è tuo. Le ali, soprattutto, perché se qualcosa ha preso il volo nel lavoro che ho fatto è grazie a te". Gran finale, da San Valentino: "È stato proprio un amore a prima vista, anzi a ultima vista. O meglio, a eterna vista". C'è qualcosa che però stona nella dedica di Benigni alla moglie. L'entrata a gamba tesa è del professor Sgarbi, che su Twitter svela l'arcano: ""Stare con te o stare senza di te è l’unico modo che ho per misurare il tempo", ha detto Benigni alla moglie al Festival di Venezia. Ma se non citi la fonte (Jorge Luis Borges) e fai il "fenomeno", è plagio?".

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta. 

Il Robin Hood della Maremma. Luca Bocci su L'Arno-Il Giornale il 5 novembre 2021. In Toscana c’è davvero di tutto, dalle aspre montagne alle zone paludose, dalla megalopoli del Valdarno a territori dove le case si contano sulle dita di una mano. Se poi guardi la mappa, trovi una terra che non potrebbe essere più lontana dall’immagine canonica della Toscana, sdraiata a ridosso del confine col Lazio. Per molti toscani, il nome di questa terra rimane legato a ricordi atavici di sofferenze, disgrazie, sciagure passati da padre in figlio per generazioni. Non sappiamo bene il perché, ma molti di noi continuano ad usare questo nome per evitare di bestemmiare. Molti altri non la considerano nemmeno parte di questa regione. Per secoli questa terra è rimasta aspra, difficile, malsana, carica di pericoli, assolutamente aliena. Chi era costretto ad andarci per lavoro, non sapeva nemmeno se sarebbe tornato sano a casa. Le cose sono cambiate parecchio, ma la Maremma non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso questa pessima reputazione. Le paludi del passato sono scomparse, le località turistiche del territorio stanno diventando delle vere e proprie potenze, trainate dalle tante bellezze naturali ed artistiche. La Maremma però, per noi toscani, resta sempre “amara”, una terra maledetta da vedere sempre con sospetto. Intendiamoci, questa reputazione non è nata per caso. Per secoli attraversare le paludi maremmane era un vero e proprio azzardo. Ad ogni angolo poteva nascondersi una banda di briganti, pronta a tutto pur di derubare il malcapitato viaggiatore. Alcuni di questi briganti erano così efferati da essersi guadagnati un posto d’onore nell’immaginario collettivo. Nessuno però è mai riuscito a scalzare Domenico Tiburzi, detto Domenichino, dal trono del criminale più famoso della Maremma. Per sconfiggere la sua banda, il neonato governo nazionale fu costretto ad inviare migliaia di uomini in una caccia all’uomo che durò per anni. Cosa rendeva Domenichino così pericoloso? Il fatto che molti maremmani facevano il tifo per lui e lo proteggevano in ogni modo. Certo, era un poco di buono, ma li proteggeva dai soprusi dei latifondisti e dalle malefatte degli altri criminali. Domenichino, insomma, era considerato una specie di benefattore. Ad un secolo dalla sua morte, molti maremmani possono ancora raccontare storie di come il brigante avesse aiutato la loro famiglia. Questa è la storia del Robin Hood della Maremma. Da che mondo è mondo, attraversare le paludi della Maremma non è mai stata una passeggiata di salute. Se non ti beccavi la malaria, c’era sempre una banda di briganti pronta a rapinarti dietro l’angolo. La situazione era ben conosciuta, con una soluzione semplice: evitare la Maremma come la peste. D’altro canto, perché mai il governo del Granducato avrebbe dovuto preoccuparsi di quel che succedeva in quella terra povera, malsana e poco abitata? Per secoli i briganti potevano fare più o meno il comodo loro. Sapevano bene chi colpire e chi lasciar passare. Le cose cambiarono, parecchio, con l’unificazione. Il fragile sistema di controllo locale crollò nel giro di pochi anni, alimentato dal discontento di ampie fasce della popolazione. Le piccole bande di briganti crebbero anno dopo anno, diventando sempre più aggressive. Con il passare del tempo, iniziarono a sfidare apertamente la polizia, imponendo la loro legge. La banda più famosa fu quella guidata da Domenichino e dal suo secondo Luciano Fioravanti. Per trent’anni fecero il bello e cattivo tempo nella zona di Capalbio, prima di essere finalmente sconfitti alla fine dell’Ottocento, dopo aver imbarazzato non poco il governo di Roma. Le ragioni dietro a questo fenomeno sono molteplici. Prima di tutto, i poveri facevano il tifo per loro. Se le autorità erano viste come lontane, straniere, ostili, i briganti li conoscevano da una vita. Certo, erano criminali, ma facevano di tutto per aiutarli. Avevi un problema? Un vicino ti aveva rubato qualcosa? Aggredito tuo figlio? Soldi per avvocati e tribunali li avevano solo i ricchi. Molto più semplice chiedere aiuto a Domenichino, che avrebbe risolto tutto in maniera definitiva. In cambio non chiedeva soldi, bastava nasconderlo per qualche tempo quando la polizia era sulle sue tracce. La seconda ragione è forse più sorprendente. I proprietari terrieri non consideravano i briganti un vero pericolo. Certo, Domenichino voleva soldi per lasciarli in pace, ma erano soldi ben spesi. Pagarlo voleva dire garantirsi non solo la tranquillità, ma anche la protezione dagli altri criminali della zona. Alla fine, molti erano ben lieti di pagare, anche solo per evitare di vedere i propri raccolti andare in fiamme dalla sera alla mattina. La terza ragione è comune a tutte le zone dove il brigantaggio prese piede: il territorio. Solo chi era nato da quelle parti sapeva muoversi tra le foreste e le paludi. Bastava poco per svanire nel nulla e lasciare la polizia a brancolare nel buio. Alla lunga, la capacità dei briganti di prendere in giro le autorità li rese delle vere e proprie celebrità. Il mito dell’invincibilità di Domenichino cresceva ogni volta che i carabinieri erano costretti a tornare in caserma con le pive nel sacco. A renderlo però diverso e molto più pericoloso di altri briganti fu però il fatto che Tiburzi sapeva bene come ingraziarsi il popolo. La sua banda non attaccava mai i poveri contadini, ma solo figure legate al poco amato governo nazionale o qualche rappresentante dei latifondisti particolarmente odiato, guardiani, fattori, gente del genere. Aiutare i contadini, insomma, era il modo migliore per garantirsi la loro protezione – e con quella, la polizia non avrebbe potuto far nulla contro di lui. Ma chi era davvero Domenichino? La sua storia non è molto diversa da quella di tanti altri criminali dell’epoca. Domenico Tiburzi era nato nel 1836 in un villaggio vicino al confine col Lazio e si è incamminato ben presto sulla strada del malaffare. Dopo i primi furti da giovane, già a sedici anni si diede alla macchia per sfuggire ad un mandato di cattura della polizia. Quando fu catturato tre anni dopo, il processo per rapina finì in un nulla di fatto. Anno dopo anno la sua reputazione crebbe, tanto da guadagnarsi il famoso soprannome. Quando a 27 anni fu di nuovo processato dopo un’aggressione, la vittima aveva così tanta paura da rifiutarsi di testimoniare. Domenichino se la cavò un’altra volta. Le cose cambiarono nel 1867, quando passò dalle rapine all’omicidio. La sua prima vittima fu Angelo Bono, guardiano di una grande fattoria che lo beccò mentre coglieva qualche spiga di grano. Quando provò a multarlo, Tiburzi lo freddò senza pensarci due volte, svanendo nel nulla e riuscendo a sfuggire alla polizia per due anni. Alla fine fu catturato e stavolta non fu in grado di impaurire i testimoni, finendo in prigione. Gli anni in gattabuia non però furono sprecati, ma divennero la chiave del futuro successo di Domenichino. Dietro le sbarre riuscì a formare il nucleo della sua futura banda, tanto da riuscire ad organizzare un’evasione e darsi di nuovo alla macchia. Poco alla volta, altri criminali si unirono alla banda, attratti dalla reputazione di Tiburzi e dal fatto che fosse benvoluto dalla popolazione. La sua banda non disdegnava certo la violenza, specialmente nei confronti dei traditori. Nel 1883 un boscaiolo fu ingolosito dalla taglia ed indicò ai carabinieri il rifugio della banda. Domenichino riuscì a fuggire, ma non poteva lasciar passare questo tradimento impunito. Il boscaiolo si trovò di fronte proprio Tiburzi che prima gli sparò e poi lo fece a pezzi col suo coltello. Il prezzo per il tradimento era sempre la morte. Col tempo, Domenichino iniziò a dispensare la sua particolare forma di giustizia. Nel 1888, quando suo nipote gli fece sapere che un vicino gli aveva rubato un maiale, Tiburzi risolse la questione ammazzandolo. La striscia di sangue si allungò, ma in gran parte dei casi erano regolamenti di conti interni alla banda. Mettevi in dubbio la sua leadership? Morto. Parlavi con la polizia? Morto. Rubavi qualcosa spacciandosi per lui? Morto. La soluzione era sempre la stessa. Domenichino divenne ossessionato dalla sua immagine pubblica, ben conscio che la sua reputazione di “brigante del popolo” era l’unica cosa che gli consentiva di sfuggire alle attenzioni delle autorità. Alla fine, come succede a molti altri criminali, Domenichino iniziò a credere alla sua stessa leggenda e fece il passo più lungo della gamba. Ad un certo punto, la banda Tiburzi iniziò a chiedere il pizzo ai grandi latifondisti. Se non volevano che i loro raccolti o le loro case andassero a fuoco, dovevano pagare. I soldi, però, non finivano nelle tasche del brigante, ma venivano distribuiti da lui ai poveri. Le autorità potevano tollerare un brigante particolarmente efferato, ma non certo un vero Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Nel 1893 la situazione diventò così seria da giungere alle orecchie del Primo Ministro Giovanni Giolitti, che ordinò una vera e propria caccia all’uomo. Nonostante fossero impegnati molti carabinieri, Domenichino riuscì a svanire di nuovo nel nulla. Gli anni passati a corteggiare gli abitanti della zona diedero i loro frutti. I contadini si rifiutarono di collaborare con le autorità e tradire il loro beniamino. Invece della facile vittoria che si era immaginato, Giolitti passò da una figuraccia all’altra. Gli arresti dei contadini, dei pastori che avevano aiutato Domenichino non produsse alcun risultato. Mostrare la faccia truce dello stato non fece altro che rinsaldare il legame tra il brigante ed il suo popolo. La situazione rischiava davvero di sfuggire di mano. Per evitare una ribellione aperta, il governo si decise a rivolgersi ad un vero e proprio esperto della lotta ai briganti, Michele Giacheri, un capitano dei Carabinieri che aveva dimostrato le sue capacità tra i boschi dell’Aspromonte. Giacheri non si fece prendere la mano dall’emergenza, passando tre mesi a studiare le prove, tracciare una mappa delle relazioni del brigante e mettendo a punto una strategia organica. Questo approccio metodico non era mai stato provato prima di allora. Il Robin Hood della Maremma aveva trovato il suo Sceriffo di Nottingham. Come la sua intera vita, anche la fine di Domenichino è poco chiara, con molti che mettono in dubbio la storia raccontata dalle autorità. La narrativa ufficiale è fin troppo semplice. Il 23 ottobre 1896, Domenico Tiburzi e Luciano Fioravanti si presentarono alla porta di una fattoria vicino Capalbio, cercando rifugio dal temporale. Il padrone di casa li ospitò come al solito ma, invece di tenere la bocca chiusa, riuscì ad informare i carabinieri, che nel corso della notte circondarono la casa. Domenichino provò a fuggire, ma fu colpito due volte ed ucciso. Il suo secondo riuscì a darsi alla macchia e provò a tenere viva la banda Tiburzi. Fioravanti, però, non aveva lo stesso carisma di Domenichino e fu ucciso tre anni dopo da un membro della banda. Evidentemente incassare la taglia sulla sua testa era preferibile ad una vita passata costantemente in fuga. Anche dopo la morte, Domenichino continuò a causare problemi alle autorità. Il parroco di Capalbio si rifiutò di sotterrare il brigante nel cimitero, scatenando le proteste della popolazione. Alla fine, per evitare nuovi tumulti, furono costretti ad una soluzione di compromesso. La tomba di Domenico Tiburzi fu quindi scavata attraverso l’entrata del cimitero. La parte bassa del corpo era su terra consacrata, mentre il torso e la testa, dove si pensava che risiedesse l’anima, rimasero fuori. Il Robin Hood di Maremma era passato a miglior vita, ma la sua leggenda era appena iniziata. Col passare degli anni le storie raccontate dai maremmani divennero sempre più inverosimili, tanto da trasformare Domenichino in una figura quasi mitologica. Nonostante sia passato oltre un secolo, però, è ancora possibile trovare qualche testimone. Nel 1996 una giornalista locale, Carla Vannetti, intervistò uno degli ultimi ad aver vissuto le scorribande del brigante. La storia che racconta è impossibile da verificare, ma è sicuramente più interessante della narrativa ufficiale e fornisce uno spaccato sulla personalità di questo “brigante del popolo”. Il padre del testimone incontrò Domenichino nel 1891, quando aveva solo 15 anni. Lui e Fioravanti si presentarono alla loro porta il giorno di Pasqua, dopo 10 giorni passati a sfuggire alle attenzioni delle autorità. I Carabinieri si presentarono proprio mentre si stavano preparando per il pranzo di festa ma i briganti riuscirono a fuggire con uno stratagemma. Dopo che i carabinieri se ne andarono, la famiglia continuò a sfamare e curare i due fuggitivi per ben sei settimane. Una volta calmate le acque, Domenichino li ricompensò e tornò alla sua banda, tornando una volta ogni tanto a fargli visita. Qualche mese dopo, il giovane contrasse il tifo e, dopo due mesi in sanatorio, fu rimandato a casa visto che i medici non potevano fare più nulla per lui. Quando Domenichino bussò di nuovo alla sua porta, andò su tutte le furie rendendosi conto delle condizioni del ragazzo. Avrebbero dovuto chiamarlo prima – lui si prendeva sempre cura dei suoi amici. Senza perdere un minuto, si mise in contatto con il fattore di una tenuta vicina che inviò una carrozza. Tiburzi disse al padre di portare il figlio ad una farmacia di un paese vicino e mostrare al farmacista un pettine ed uno specchietto rotondo. Avrebbe risolto tutto. Il farmacista chiamò una persona che viveva sopra al negozio, un tizio alto con un cappello a falde larghe che usciva solo di notte. Il “professore” non era di quelle parti e probabilmente era ricercato dalle autorità. Dopo aver visitato il giovane, il “professore” provò a dargli da mangiare della pasta, carne e vino. Il ragazzo non resse e svenì, spaventando a morte i genitori. Il professore si fece una grassa risata. Sperava proprio in una reazione del genere. Dopo 12 giorni, i genitori tornarono e trovarono il proprio figlio in ottime condizioni. Il padre cercò di ricompensare il farmacista ma lui non volle un centesimo. Lui e Tiburzi erano come fratelli, si davano una mano. Se il brigante avesse saputo che si era fatto pagare, si sarebbe sicuramente vendicato. Avrebbe vissuto fino a 89 anni, sempre grato nei confronti del brigante che gli aveva salvato la vita. A quanto pare, il ragazzo sarebbe stato un testimone oculare degli ultimi giorni di vita del Robin Hood della Maremma. Tiburzi e Fioravanti si presentarono alla loro porta la mattina, quando si resero conto che la polizia locale era sulle loro tracce. A quanto pare avevano un accordo con i poliziotti: normalmente li lasciavano fare ma ogni tanto i loro superiori li costringevano a cercarli sul serio. Avevano concordato un segnale: se avevano ricevuto l’ordine, avrebbero tenuto il sottogola del berretto allacciato. Tiburzi si spostò in un altro casolare ma fece sapere al padre che i suoi figli erano invitati ad una festa. A vent’anni difficile dire di no ad una festa, anche se ad organizzarla è un famoso criminale. Il party fu memorabile: montagne di cibo e fiumi di vino, che però non riuscirono a saziare Domenichino, il cui appetito era a quanto pare leggendario. Una volta finito il vino, il brigante perse la pazienza e mandò due giovani in paese a comprare altro vino. I ragazzi erano abbastanza ubriachi e fecero parecchia confusione in paese. Questo fu abbastanza per far intervenire le forze dell’ordine, che mangiarono subito la foglia e circondarono il casale. I carabinieri sapevano che, una volta in trappola, Domenichino avrebbe venduto cara la pelle, quindi presero uno spaventapasseri e gli misero in testa l’elmetto e una lanterna. Quando i cani si misero ad abbaiare, Tiburzi uscì iniziando a sparare. I Carabinieri lo stavano aspettando e lo colpirono ad una gamba. Fioravanti provò a convincerlo a scappare con lui ma Domenichino sapeva che sarebbero stati entrambi catturati. “Sei giovane. Ho vissuto abbastanza alla macchia. Scappa da solo”, disse. I Carabinieri si resero conto che c’erano diversi civili nella casa e intimarono al brigante di arrendersi. Tiburzi, che era riuscito a trascinarsi in casa nonostante la ferita, si mise a sedere su una sedia e rispose ai Carabinieri. “Mi avrete, certo, ma non vivo. Non passerò i miei ultimi anni in prigione. Lasciate andare questi ragazzi. Sono innocenti, avevano solo paura”. Il capitano non voleva rischiare di perdere uno dei suoi uomini ed acconsentì alle richieste del brigante. Una volta usciti i ragazzi, Tiburzi disse “Mi arrendo, ma avrete solo il mio cadavere”. Puntò la pistola alla gola e sparò un colpo. Storia vera, inventata? Chi può dirlo. L’autopsia ufficiale parla di un colpo alla nuca ma secondo il padre del testimone sarebbe stato il foro d’uscita. Nel rapporto si legge che il cappello a falde larghe del brigante aveva un foro, cosa che si spiegherebbe solo con un proiettile che viaggia dal basso verso l’alto, visto che attorno alla casa non c’erano alberi abbastanza alti. Possibile che si tratti di una coincidenza? Certo, ma questa versione è certo più credibile di quella ufficiale. Per anni i contadini della zona avevano fatto di tutto per proteggere il brigante, senza mai tradire la sua fiducia. Cosa sarebbe cambiato per convincerli al tradimento? Soprattutto, cosa avrebbe impedito alla banda di vendicarsi per la morte del proprio capo? Avevano ucciso in passato per molto meno. La cosa puzza – e parecchio. La Maremma perse il suo “brigante del popolo” ed aggiunse una leggenda alla propria collezione. Una cosa è certa: questa è proprio una terra strana. Se sia o meno Toscana, lo lascio decidere a voi.

L’Altra storia del Sud. Pasquale Villari e la nascita del meridionalismo. Michele Eugenio Di Carlo su Il Sudonline il 7 ottobre 2021. Il meridionalismo moderato liberale, ovvero quel modo di trattare le questioni sorte nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia mai in maniera realmente alternativa alle politiche governative della seconda metà dell’Ottocento, vede la luce nel 1875, quando Pasquale Villari scrive per il giornale di Torino l’«Opinione» le note «Lettere meridionali»[i]. Pasquale Villari, nato a Napoli nel 1826, allievo del Puoti e del De Sanctis, è stato docente di Storia all’Università di Pisa nel 1859 per poi proseguire la carriera universitaria a Firenze dal 1865 al 1913. Deputato alla Camera negli anni Settanta, senatore e poi ministro della Pubblica Istruzione nel biennio 1991-92. Il pensiero politico di Villari può essere ricondotto sinteticamente ad un conservatorismo volto alle riforme in campo sociale con particolare attenzione alle condizioni socio-economiche delle popolazioni del Mezzogiorno. Un riformismo quindi liberale conservatore che, data l’evidente crisi della Destra a metà degli anni Settanta, tenta una possibile via per respingere le tesi clericali e socialiste che avanzano, e si fanno largo, in ampi strati della popolazione, in particolare del Mezzogiorno. È opinione del tutto consolidata che la «questione meridionale» sbocci con le «lettere meridionali» di Villari. Ed è lo storico contemporaneo Piero Bevilacqua a dare sostanza a questa tesi, spiegandola con una duplice motivazione: «La prima è che la “questione meridionale” non si intende propriamente la storia della società meridionale in età contemporanea, quanto la storia delle analisi, dei dibattiti, delle politiche relative ai problemi del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. È la vicenda di una tradizione di pensiero, di culture, di forze politiche che, all’indomani dell’Unità d’Italia, posero al centro della riflessione il Sud come “questione”». Nella seconda, teorica ma non meno importante, Villari per primo vede la “questione meridionale” non come un problema regionale, ma come «il cuore stesso della fragilità della nazione Italia appena costruita»[ii], individuandone i limiti e gli errori di fondo. Nel 1875 i tempi erano ormai maturi affinché le forze liberali conservatrici al potere cominciassero a riflettere, mediante una concreta analisi storico-politica, le proprie gravissime responsabilità in merito alle condizioni del Mezzogiorno. Un Mezzogiorno, le cui problematiche erano state affrontate unicamente con gli strumenti della repressione violenta con la precisa volontà politica di conservare privilegi feudali di casta alla borghesia agraria, relegando nel limbo dei tempi passati le masse contadine e bracciantili condannate a uno stato di profonda degradazione umana e sociale, mantenendo costantemente in essere un regime autoritario, totalmente centralistico, fortemente censitario e elitario[1]. Già nel saggio pubblicato nel settembre del 1866 “Di chi la colpa? O sia la pace e la guerra”[iii], Villari un processo unitario avvenuto su base elitaria, privo di una vera coscienza nazionale e del consenso delle masse, oltre che in una condizione di totale dominio politico-militare del Piemonte; quello che più tardi Guido dorso definirà «conquista regia». Francesco Barra evidenzia, tra le motivazioni che «indussero Villari ad approfondire le proprie riflessioni sulla natura e sui limiti, spirituali e civili prima ancora che materiali, della Nuova Italia postrisorgimentale», il doloroso tentativo della Comune di Parigi del 1871 da cui emergeva nettamente una questione sociale a livello europeo e i deludenti risultati elettorali del marzo 1874 che consegnavano il Mezzogiorno alla Sinistra, penalizzando la sua Destra[iv]. Secondo lo storico Romeo Villari, l’analisi critica perfezionata dal suo omonimo «investiva l’insieme dei rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato, la particolare funzione immobilistica che le istituzioni avevano assunto nel Mezzogiorno (dove avevano confermato, al di là della scossa rivoluzionaria antiborbonica, vecchi privilegi, un arretrato ordinamento sociale, costumi semifeudali)». Anche per Romeo Villari «era la prima, profonda “autocritica” del liberalismo risorgimentale», ripresa e messa a punto poi scientificamente nell’inchiesta sulle condizioni della Sicilia dei toscani Franchetti e Sonnino[v]. Villari legava, indissolubilmente e sostanzialmente, la questione sociale delle popolazioni rurali del Mezzogiorno a quella agraria e demaniale. Il contadino meridionale, il cui sangue era stato versato a fiumi durante la guerra civile definita impropriamente “brigantaggio”, non era stato mai degnato di attenzione, «di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni». La vendita dei beni ecclesiastici, requisiti dopo l’Unità, e dei beni demaniali, per lo più usurpati dai “galantuomini” della classe borghese al potere, era stata l’ennesima occasione persa per la costituzione di una piccola proprietà contadina che avrebbe dato respiro sociale e dignità all’oppresso mondo contadino, tanto che «quelle terre, in uno o in un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietari». Villari concludeva amaramente che le condizioni da «schiavi della gleba» dei contadini non erano migliorate dopo l’Unità d’Italia, addebitando per primo la responsabilità ai governi liberali che avevano lasciato la classe dei proprietari terrieri «padroni assoluti di quella moltitudine». Una classe, quella della borghesia agraria, che era diventata la classe governante nel Mezzogiorno e i cui interessi erano stati tutelati a scapito delle popolazioni[vi]. Il pensiero sociale riformistico di Villari, nato in un ambito istituzionale e ideologico condiviso, quello del liberalismo conservatore sabaudo, se aprirà la strada a studi e inchieste di studiosi, economisti e sociologi, non avrà mai quel respiro politico forte per cambiare la triste realtà delle popolazioni meridionali e del Mezzogiorno più in generale.

Guido Dorso, qualche decennio dopo, coglierà con queste parole il vano tentativo dei riformisti conservatori liberali: «Invano Pasquale Villari, Franchetti, Sonnino e Fortunato sognano il sorgere di una nuova classe dirigente meridionale sul terreno dello Stato storico. La soluzione è assurda, perché il problema non è ancora nemmeno percepito dagli stessi interessati e la borghesia terriera ha inventato l’arma definitiva: il trasformismo»[vii]. 

[i] P. VILLARI, Lettere meridionali al direttore dell’Opinione: marzo 1975, Torino, Tipografia l’Opinione, 1875.

[ii] P. BEVILACQUA, La questione meridionale nell’analisi dei meridionalisti, in Lezioni sul meridionalismo, Sabino Cassese (a cura di), Bologna, Il Mulino, 2016, p. 15.

[iii] Ora in P. VILLARI, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, con introduzione di F. Barbagallo, Napoli, Guida, 1979.

[iv] F. BARRA, Pasquale Villari e il primo meridionalismo, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Il Mulino, 2016, p. 41.

[v] R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°. Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 107.

[vi] Cfr. P. VILLARI, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze, Le Monnier, 1878.

[vii] G. DORSO, La classe dirigente dell’Italia meridionale, in Id., Dittatura, classe politica e classe dirigente, Laterza, Roma-Bari Collezione di Studi Meridionali, 1986, pp. 7-47, a pp. 26-28.

Quando i cannibali Borbonici mangiavano carne di Giacobini. Il libro di Luca Addante ristabilisce verità storiche su un tema rimosso del nostro essere europei: il cannibalismo. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 23 settembre 2021.  «Il popolo gli diede sopra, e lo lacerò tutto, lasciandoci sopra quasi solo le ossa. Fu ridotto a brani dalla carnivora plebe. Forse tutto fu abbrustolito e mangiato. Il fegato so che fu ridotto a cottura, e mangiato tutto nell’istesso Mercato dalla vil plebe sanfedista. Un lazzaro avendo ricusato di mangiarne, fu ammazzato». La terribile descrizione qui citata fa riferimento al tragico epilogo dell’impiccagione del patriota giacobino, Nicola Fiani, avvenuta il 29 agosto 1799, durante la cosiddetta anarchia sanfedista, che segnò tragicamente la storia di Napoli con la riconquista della capitale da parte delle armate del cardinale Ruffo contro i patrioti meridionali che avevano aderito alla Repubblica nata sugli ideali di quella francese. Quella del cronista Diomede Marinelli, è una delle centinaia di fonti, rintracciate, studiate, analizzate dallo storico Luca Addante, docente di Storia moderna a Torino e di origini calabresi, che compongono l’ossatura del volume appena pubblicato da Laterza “I cannibali dei Borbone. Antropofagia e politica nell’Europa moderna”. Un libro che a pochi giorni dall’uscita ha registrato l’attenzione della critica specializzata con lodevoli e ampie recensioni su La Stampa e il Mattino, ma soprattutto ha acceso vivaci discussioni social sulle pagine dei neoborbonici che, se in prima battuta hanno urlato al falso degli ultrà, si sono poi tacitati con senso di responsabilità riconoscendo l’ineccepibile documentazione di Addante su un argomento che non solo è un rimosso meridionale e partenopeo ma dell’intera cultura europea. Il merito dell’autore è stato, infatti, di poggiare molto su documenti e fonti borboniche che scrutano i cannibaleschi avvenimenti che la violenza politica portò tra le piazze insanguinate di rivoluzione e controrivoluzione.  Notizie sono tratte dalla relazione interna della Confraternita dei Bianchi, che si occupavano di assistere i condannati a morte e certo non potevano essere tacciati di giacobinismo, e da molteplici testimoni borbonici, che dissentivano dalla deriva sanguinaria presa dai lazzari che presero in ostaggio Napoli, con la contrarietà anche del cardinale Ruffo che abbandonò la guida politica davanti al “laissez faire” della monarchia borbonica. Addante con scrupolo storico documenta e illustra la violenza estrema, ma va oltre Napoli, e si sporca le mani con il tabù estremo del cannibalismo ponendo in sequenza tutti gli episodi di una storia negata e di parte, rimossa dagli europei per calcolo, considerato che fu adoperata per giustificare il colonialismo nei confronti degli indigeni degli altri continenti, che essendo cannibali non venivano considerati umani. La parola, infatti, fu coniata da Cristoforo Colombo che con successo poi la consegnò all’imperialismo eurocentrista. Fuori dal vecchio continente il cannibalismo è molto studiato, in Europa rimosso. In Europa dal medioevo al Rinascimento al Seicento (richiamato in copertina) numerosi furono gli episodi di cannibalismo legati alla ferocia della lotta politica (spesso religiosa) che hanno fatto registrare l’uomo che mangia il proprio simile come estremo disprezzo. Addante non risparmia la Rivoluzione Francese e scopre un caso inedito, quello dello scaricatore di pietre, Pierre Hèbert, che confessa con nonchalance alla polizia di aver partecipato al macabro banchetto di un ufficiale borbonico, come se fosse la vicenda più naturale del suo mondo. È questo uno scarto decisivo di questo nodale studio storico. Nelle cantine della storia scopriamo che anche noi siamo stati cannibali e abbiamo rimosso questa verità per questioni politiche e antropologiche. Addante ci mostra i fatti e li argomenta alla luce di classici illustri che mancavano di indizi preziosi. Alla curata sintesi di cento pagine narrate con avvincente scrittura (mentre un terzo del libro annota con il puntiglio cui l’autore ci ha abituato nei suoi precedenti libri i riferimenti bibliografici e d’archivio) se devo far una critica è quella di aver poco osato sul significato del cannibalismo nell’immaginario moderno che hanno descritto letterati italiani estremi, molto cinema di sottogenere e d’autore, e i serial killer dei tempi nostri. Ma forse era questo tema troppo ardito per uno storico di professione e avrebbe rischiato di andare fuori traccia. Il libro è avvincente per lo studioso e il curioso. Riapre il dibattito sulla cultura popolare. Segnalo, ad esempio, le importanti chiose sulla figura dell’Orco nelle favole di Calabria. E a proposito della nostra regione, non ci sfugge il ripetere del dato che la Santa armata del cardinale Ruffo fu chiamata dei calabresi, forzando il dato della partecipazione dei nostri regionali sanfedisti, causata dal fatto che la prima adunata avvenne in Calabria aumentando i pregiudizi oscurantisti sulla nostra identità. Il libro oltre ad illustrare il grande rimosso del cannibalismo europeo ha il merito di aggiungere pagine importanti sull’antropologia storica del sanfedismo. Altro tema rimosso da recuperare, e diamo merito all’autore di prendere posizione sulla dinastia dei Borbone dipinta oggi come moderna e illuminata dai suoi numerosi sostenitori, è che invece teneva nell’ignoranza oltre l’ottanta per cento della sua popolazione. E anche questo è cannibalismo e storia negata.

Virginia, la Contessa di Castiglione in missione per Cavour. Benedetta Craveri su La Repubblica il 10 agosto 2021. Storia della nobildonna, cugina di Camillo Benso, che usò il suo fascino alla corte dell’imperatore Napoleone III come esca politica per favorire il progetto dell’unità d’Italia. "Io son io", "moi c'est moi". A vent'anni come a quaranta, Virginia Verasis di Castiglione rivendica, nelle sue due lingue d'elezione, il diritto di essere se stessa e di vivere una vita consona alla sua posizione sociale, alle sue esigenze, alle sue doti intellettuali - ma erano pretese troppo in anticipo sull'epoca.

Dotata di una bellezza che aveva costituito per i genitori "un affar serio" sin da quando era adolescente, appena raggiunta la maggiore età era già una gloria del passato.

GIOVANNI BEZZI D’AUBREY, PATRIOTA DIMENTICATO. LOTTÒ A LUNGO PER UN’ITALIA DI STAMPO FEDERALE. CASUALITÀ (?) VUOLE CHE LA SECONDA PARTE DEL SUO MEMORIALE SIA ANDATA PERDUTA. Elena Pierotti su il sudonline.it il 13 aprile 2021. Quelle che sto per descrivere sono le gesta patriottiche di un uomo che, lui sì, ha contribuito in modo decisivo a rendere l’Italia intera libera dallo straniero, in vista della costituzione di uno Stato federale. Quando ciò non si realizzò, venne marginalizzato e dimenticato. Era l’uomo di punta di Cavour, come traspare dalle carte. Giovanni Bezzi d’Aubrey, questo il suo nome. L’ho conosciuto grazie alle gesta patriottiche di una nobildonna lucchese, anche lei dimenticata, la marchesa Eleonora Bernardini, che per lui mediò con la Francia negli anni cinquanta del XIX secolo. Fu l’uomo di fiducia di Camillo Benso, conte di Cavour, a Londra,  e scrisse un memoriale importante al Re Umberto I nel 1878, prima di morire, un vero e proprio testamento politico.  Ritengo questo personaggio essenziale per rivisitare i contenuti della nostra storia nazionale per una rilettura di situazioni e contenuti. Perché non celebrare l’uomo di punta del nostro Risorgimento dunque, il piemontese trapiantato a Londra Giovanni Bezzi d’Aubrey, insigne erudito, lo scopritore del ritratto di Dante al Bargello, lo studioso e uomo politico in stretta relazione con tutta la nomenclatura europea? Bezzi d’Aubrey non rappresenta solo il nostro Paese, ma l’intero continente, le sue contraddizioni, le sue paure, di ieri come di oggi. Io ho scoperto il personaggio per caso, grazie ad una biografia di Adriano Muggia dal titolo emblematico: “Giovanni Bezzi d’Aubrey, il patriota dimenticato”. Lo storico Muggia si è servito degli appunti del generale ed uomo politico Giuseppe Ottolenghi per rinvenire le carte del nostro. Presumo che le scelte politiche del Bezzi non collimassero affatto con quanto avvenne con l’Unità nazionale. Del resto Cavour morì e Bezzi venne relegato a figura di terz’ordine, senza più ricevere le attenzioni che un simile personaggio avrebbe meritato. Il nostro nacque a Desana (Vercelli) l’8 aprile 1796 ( nelle carte della nipote Pia Sergiusti sta scritto 1785) da una famiglia dell’alta borghesia piemontese e crebbe a Casale Monferrato, centro assolutamente attivo inuma dialogo, anche interreligioso, vivo sul piano culturale ed artistico. All’Archivio di Stato di Lucca c’è un fascicolo corposo a suo nome, donato da una nipote, la signora Pia Sergiusti, una delle figlie di Teodorina. Pia Sergiusti fu vedova di Lisandro seriasti. Quest’ultimo, che appartenne ad una nobile famiglia lucchese, presente in città sin dal 1380, giustifica la presenza delle carte del Bezzi nella cittadina toscana. Del resto lui stesso, come avrò modo di dimostrare, mantenne, come il conte di Cavour, vivi contatti con questa realtà geografica. Ecco cosa ricaviamo da alcuni appunti inseriti nel suo fascicolo personale in Archivio: “Ricevette la sua prima educazione al Liceo Imperiale fondato da Napoleone I – in Casale. Sin dalla prima giovinezza dimostrava un talento svogliatissimo, ma più di tutto per la musica – egli aveva sempre il violino, la chitarra in mano. A quattordici anni era un compito violinista. Ad otto anni il padre fiero del talento del figlio lo metteva a piede sopra in tavola; teneva, incantata, la compagnia in casa. La sua famiglia era assai distinta ed a palazzo Bezzi si davano conversazioni e concerti. Ciò nondimeno egli volle avere una professione. Studiò prima medicina, poi studiò legge, allorquando scoppiò la rivoluzione nel 1821. Qui raccontare il fatto del carabiniere se sembrerà opportuno al dottore di accennarlo. Questo incidente ebbe luogo in una rapida gita che fece a casale Monferrato, prima della determinazione di fuggire in Inghilterra. La data dell’arresto a Milano da Bolza non hanno saputo dirlo quei signori- poco mi hanno aiutato”. Prosegue l’ordinatore delle sue carte in Archivio:

“1821 – battaglia di Novara – accennare alla gran sua ferita nel petto, a corpo a corpo con un ufficiale austriaco – che durò sotto un ponte sino a che ambedue i combattenti feriti pare in volere, quasi privi di forza, spontaneamente si misero in riposo momentaneo, per riprincipiare la lotta.  Se non che in quel momento altri combattenti piombarono sotto il ponte ed i due avversari furono strascicati via coll’impeto della guerra generale.

1822 – si ricoverò a Ginevra in casa di amici per la guarigione della ferita. Era in allora che contava una sempiterna amicizia col Sismondi.

1823 – segue il già scritto della fuga in Inghilterra. Arrivato a Londra primo passo fu di presentarsi al Comitato di soccorso per gli italiani, già esistente dal 1821. Membri di questo comitato erano parecchi di distintissime aristocratiche famiglie. Tra i moltissimi esuli il Bezzi fu subito conosciuto per un uomo fuori dal comune talento che per potenza di spirito. Si trattava di guadagnare il suo pane. Si raccomandò per farsi maestro delle lingue francesi e italiane. Trovò subito appoggio e raccomandazione. Ma per lungo tempo esaurito il piccolo peculio che aveva portato con sé dal comitato svizzero e divisolo con altri compagni d’esilio, egli versò in uno stato di miseria che si avvicinava alla distruzione. Per tenersi soltanto che decentemente vestito e pagare una meschina camera nei sobborghi di Londra gli rimaneva non abbastanza per soddisfare all’indispensabile bisogno di nutrimento. Se non che per il fascino del suo temperamento amabile e paziente unito all’indefessa consacrazione al lavoro anche fra le persone di condizione assai inferiore alla sua, incontrava una simpatia che esprimeva in vari valevoli modi di soccorso. Il già scritto dell’incredibile quasi inaudita fora con la quale si diede ad imparare la lingua inglese. Il rapido passo che fece nell’introduzione nelle più nobili famiglie di Londra. Il vero amore che destò in loro, principalmente nella famiglia del ministro Lord Grey. La moglie, che Egli sposò dopo il periodo londinese, in Italia, precisò nelle carte di aver ricevuto dal marito, quando ormai erano peraltro felicemente sposati, la notizia della presenza di un figlio illegittimo avuto proprio nel periodo londinese, poi abbandonato dalla madre naturale e seguito in tutto e per tutto dal padre. La moglie sostenne che nessun torto le fu fatto, ma testo che soltanto sette anni dopo la sua unione seppe dal caro marito dell’esistenza di questo figlio. Era ciò nel momento che entrando in una buona eredità, la moglie volle che rispondesse alla chiamata di Cavour – piovuto dalle labbra di Panizzi – coi suoi molti ed onorevoli incarichi a Londra, sin ora egli aveva mantenuto il suo figlio illegittimo. La madre, tanto elegante signora che poi si rimaritò, l’aveva abbandonato, lasciando il peso sulle spalle del padre. La moglie sostenne che allora lei, senza alcun obbligo, nessuna promessa, che mai non me ne fece cenno, le fece capire che c’era abbastanza per tutti, che ciò che era suo era anche del figlio illegittimo”.

Apprendiamo dunque che la chiamata di Cavour in Piemonte, per onorare l’incarico di Parlamentare Subalpino, venne su suggerimento dello stesso Antonio Panizzi, che lo stimava e l’aveva a cuore. Sin dai primi anni d’esilio apprendiamo sempre dalle carte che il capo della polizia londinese stimava particolarmente il Bezzi. Ciò che con interessa particolarmente è il riferimento al 1853. Giovanni Bezzi d’Aubrey, in quel periodo per due legislature parlamentare subalpino, riceve un incarico ulteriore che nelle carte non viene menzionato ma che una lettera rinvenuta nelle carte della marchesa Eleonora Bernardini di Lucca lascia supporre. Nel suo fascicolo personale in archivio c’è una lettera di Lord Minto al Bezzi: “Nervi, marzo 1853. Caro signor Bezzi, in affari come questi il tempo è d’importanza perciò non ho voluto aspettare la lettera che mi promettete dalla lady Gray ma questa mane stesso per mezzo di Lord Hadson ho scritto confermando di vero cuore la testimonianza in vostro favore del Lord Londwownw e di Panizzi, testimonianza di altri più valore delle ie. Però la raccomandazione che desiderate al Conte Cavour non era necessario per voi. Io già vi congratulo perché son sicuro che i vostri voti saranno pienamente esauditi. L’amico Minto.”.Egli era già stato incaricato d’affari a Torino, il successore suo era Hudson. Minto amava assai l’Italia e fu di grandissimo aiuto alla causa dell’indipendenza sua. In quel 1853 iniziò la Guerra di Crimea in cui Cavour si inserì un anno dopo, con un corpo di spedizione sabaudo, allo scopo di far conoscere in Europa le vicende italiane al congresso di Parigi del 1856. Qui prese l’avvio il processo di unità nazionale. In verità il terreno era già stato preparato, se in data 26 maggio 1854 Giovanni Bezzi scriveva da Livorno alla Marchesa Bernardini di Lucca: “Madame la Marquise, je venais que ce matin une reponce de Marseille seno la Lègion étrangere pour Algeri. Ul y a souvent mais qu’an m’en fait…Bien fait recevoir pour le bateau annéè ce matin”.  Questo documento è contenuto nelle carte Carafa. I Carafa di Noia sono un’importante famiglia partenopea di cui un ramo era presente in Lucca. Ciò conforta sul coinvolgimento di tutti gli Stati della penisola nelle mosse politiche del periodo. Il messaggio viene classificato dalla polizia granducale toscana come sospetto. Le frasi sono in effetti apparentemente “sconnesse”, ed il riferimento alla Legione Straniera francese affatto marginale. Considerando che la marchesa Eleonora Bernardini è stata un’amica sincera dell’ex imperatrice Giuseppina Bonaparte, prima moglie di  Napoleone I e nonna dell’Imperatore napoleone III. Considerando che l’intera famiglia Bonaparte ha sempre assiduamente frequentato al marchesa, nei tempi bui così come nei tempi felici. Che quest’ultima ha addirittura coperto patrioti mazziniani negli anni trenta del XIX secolo erano ricercati dalle varie polizie della Penisola, compresi all’epoca gli stessi Bonaparte, quando questi furono dei rifugiati mazziniani nel Ducato Borbonico lucchese, si evince che la Marchesa fosse tenuta in seria considerazione negli ambienti sabaudi. La marchesa non era personaggio che si potesse ignorare, nell’intero contesto nazionale. Il Principe di Metternich, e sappiamo tutti quale abile diplomatico fosse, l’aveva in grande considerazione e, come appare dalle lettere rinvenute, la teneva d’occhio nelle occasioni mondane, questo sempre negli anni trenta del XIX secolo. Nel 1854 la Marchesa, ormai anziana ( morirà in Lucca l’anno successivo) fu senz’altro votata ad una soluzione italiana federalista che sempre aveva inseguito, forte del particolare legame, quasi materno, con Napoleone III. Dunque il nostro non era un semplice parlamentare subalpino ma appare come un vero proprio “agente infiltrato”. La sola sua presenza londinese in Aubrey House che fu nutrita spiegherebbe la circostanza della lettera.

Aubrey House, simbolo del parlamentarismo, frequentata dagli ambienti carbonari e liberali in ambito internazionale, dove troviamo Giuseppe Mazzini, ma anche Giuseppe Garibaldi, Antonio Panizzi, Miglio, Beolchi, Gabriele Rossetti. Luogo deputato alla cultura liberale sia in ambito letterario che artistico e politico. Il nostro fu in effetti in relazione con personaggi come Samuel Coleridge ( poeta e filosofo inglese); Lord McCaulay (storico, saggista e politico whig inglese); Samuel Rogers ( poeta inglese); George Grote (storico rinomato); Landor ( rinomato letterato, suo amico personale); di Antonio Panizzi era intimissimo. Giovanni Bezzi dopo la morte di Cavour venne di fatto marginalizzato, dimenticato, sapeva troppo e soprattutto non approvava la politica dell’Italia Unitaria. Lo storico lucchese Gino Arrighi nel 1960 scrisse un breve articolo dal titolo “Un invito conciliazionista di Giovanni bezzi” pubblicato sull’ “Eusebiano”, settimanale cattolico di Vercelli. Si tratta di un memoriale inedito a Umberto I che il Bezzi scrisse nel 1878, l’anno prima del suo decesso, avvenuto in data 7 febbraio 1879. Gli importanti contenuti del memoriale e le particolari condizioni in cui è stato rinvenuto già di per sé offrono molte spiegazioni. Il memoriale del patriota potrebbe a pieno titolo essere stato scritto dallo stesso Cavour, quasi una sorta di intervento dell’uomo politico dall’oltretomba. Non si tratta di assolvere nessuno, ma solo di fare chiarezza. Un uomo, il Bezzi, che avrebbe voluto alla fine della sua vita vedere una conciliazione sia religioso che politica nel suo paese, che era ben lontana dall’essere realizzata. Scrisse infatti: “sono un esule del 1821 per aver preso parte come federale alla prima infausta battaglia di Novara in quel romantico primordio della liberazione della nostra patria. Passai in Inghilterra credo un non inonorato e sterile esilio, poiché vidi ivi l’andamento del sistema di governo di quella gran Nazione che sa conciliare il diritto pubblico col privato. Il compianto Conte Cavour mi chiamò in Italia nel 1856 e nelle due legislature in che io sedei in Parlamento, mi affidò diverse incombenze particolari colo scopo di sempre più stringere le simpatie fra l’Italia ed il Governo e la Stampa Inglese, e così e prima e dopo la triste Pace di Villafranca mi fu largo della sua benevolenza, mi onorò anzi della sua intrinsichezza e mi manifestava anche alcuni dei suoi più intimi pensieri. La conciliazione della potenza ecclesiastica colla civile, era allora come tuttavia la difficoltà più irta di quante possano minacciare l’avvenire della Patria e quello di Vostra Maestà […]” . La seconda parte del Memoriale è mancante, ma questa prima parte offre spunti assai importanti per definire il quadro. Perché il Bezzi della lettera della marchesa Bernardini è proprio il Bezzi d’Aubrey?  Nel periodo della sua vita londinese il Bezzi incontrò il Duca borbonico Carlo Ludovico di Borbone Parma e i Bonaparte che qui si recavano, da mazziniani. Il Borbone Parma era infatti, come appare dalle lettere, in strettissimi rapporti con Antonio Panizzi. E sempre il Borbone Parma sosteneva i Bonaparte da rifugiati mazziniani nel suo ducato, sempre come appare nei documenti. Tommaso Sergiusti in quegli anni fu il Gonfaloniere di Carlo Ludovico. Quel Tommaso Sergiusti fece parte della famiglia che la nipote del Bezzi incontrò col suo matrimonio qualche anno dopo.

Nel 1854 Cavour voleva entrare nella Guerra di Crime. Non corteggiò solo Londra ma anche la Francia. Le incombenze particolari di cui ci parla il Bezzi nel suo Memoriale si riferiscono a queste situazioni. Cavour evidentemente aveva inviato il Bezzi a Livorno per agganciare rapporti anche con Parigi. L’ avere a cuore il Bezzi la questione Conciliazionista al termine della sua vita spiega come Egli si spese in un’opera che vide Napoleone III  al centro delle trattative tra il papato e Casa Savoia. Il Bezzi, non dimentichiamolo, si era formato nel Liceo napoleonico di Casale Monferrato. Aveva seguito lui e l’intera sua famiglia le gesta non solo napoleoniche ma anche murattiane. Murat in Tolentino prese dimora, non casualmente, in Palazzo Bezzi. Poteva aver approvato una posticcia rinuncia conciliazionista e federalista in nome di uno Stato nazionale centralista e incapace di tenere conto delle varie istanze politiche, religiose ed economiche del Paese? E’ molto probabile, se non certo, che la parte del Memoriale andata perduta contenesse proprio questi riferimenti, per un patriota a cui un’Unità sicuramente scellerata, possiamo ben dirlo, decretò l’oblio.

DALLA PRAMMATICA DEL 1792 ALLA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL GENIO LUCANO F.M. PAGANO. Michele Eugenio Di Carlo su movimento24agosto.it il 31.03.2021. Nell’ambito del florido dibattito illuministico di fine Settecento favorito da Ferdinando IV di Borbone si faceva sempre più pressante la richiesta di riformare il sistema agro-pastorale migliorando la distribuzione della proprietà attraverso l'incameramento dei beni feudali ed ecclesiastici e la loro vendita frazionata in unità colturali economicamente valide, liberate dal gravame degli usi civici. Ferdinando IV, educato alle «lezioni» di Bernardo Tanucci e non dimentico dei suggerimenti del padre Carlo di Borbone, aveva ormai acquisito la fondata convinzione che l'agricoltura andava rilanciata, riducendo drasticamente il latifondo e assegnando i terreni feudali incolti ad una moltitudine di braccianti, contadini, piccoli coloni, «massari di campo», che da salariati precari avrebbero dovuto convertirsi in piccoli e medi coltivatori diretti. Il 23 febbraio 1792 veniva emanata la prammatica XXIV De Administratione Universitatum, data la «scarsa utilità proveniente dai terreni demaniali di varia specie, de’ quali abonda il Regno [...] per fare ovunque fiorire la meglio intesa agricoltura, sorgente primordiale delle ricchezze, in quanto fosse compatibile collo stato delle popolazioni […] In tale considerazione ha voluto S. M. prescrivere il modo di rendere attiva l’industria dei suoi sudditi; indicando le regole generali da eseguire una tanto benefica operazione [...]. Col presente editto, adunque, in forma d’istruzione si permette di censire i terreni demaniali di qualunque specie, giusta il prescritto in esso, ed a tenore della norma data in seguito di questo, e l’emolumento che ciascuna Università ne ritrarrà, sarà principalmente impiegato in disgravio della classe più bisognosa con approvazione di S. M.».

La prammatica stabilisce all'art. 4 che nella «censuazione» (enfiteusi (1) di terreni coltivati) dei demani universali «si preferiranno i bracciali (2) nei terreni più vicini alle popolazioni; dandone loro nella misura, che possano coltivarli colla propria opera, ed in quelli più lontani a’ cittadini coltivatori più facoltosi da esercitarne una più estesa coltura»; all'art. 5 ribadisce che «fatta la scelta de’ meno provveduti di terreni, quei, che rimangono, saranno assoggettati alla sorte»; all'art. 6, relativamente ai demani universali adibiti al pascolo, si legge che «saranno ripartiti tra i possessori degli armenti, e per la picciola industria de’ cittadini non possidenti, qualora sia richiesto, si lascerà qualche porzione per loro uso solamente, pagandone discreta fida», a beneficio della Comunità. Non manca, nell'art. 10 della prammatica, l'attenzione verso corrette pratiche ambientali tali da prevenire erosioni del suolo, frane e smottamenti, riguardo a territori scoscesi attraversati da fiumi e da torrenti dove «si dovrà pattuire di doversi soltanto piantare, e non coltivarli».

Riguardo ai demani feudali, l'art. 12 sancisce che al barone deve essere attribuita la quarta parte del demanio «per uso de’ suoi animali e cultura, e l’altre tre parti si dovranno censuare colle regole di sopra prescritte per le diverse qualità de’ terreni». Quindi, le tre parti restanti devono andare ai Comuni che devono censirle ed assegnarle in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, massari di campo, a compenso della perdita dell'esercizio degli usi civici (3). .La prammatica non consegue i risultati tanto attesi dal popolo quanto temuti dai baroni, non ha effetti pratici nella realtà socio-economica del Regno, né tantomeno nella realtà, ben più complessa e intricata, che la Regia Dogana con la transumanza ha intessuto nella Capitanata. Ma determina negli strati bassi del ceto rurale, per la prima volta presi in seria considerazione, la corretta convinzione che rivendicare condizioni migliori di vita, ottenendo un pezzo di terra incolta da coltivare, sottratto al dominio assoluto del barone, senza più vincoli e pesi feudali da sopportare, senza abusi e angherie umilianti e degradanti di ogni sorta da subire, non solo è del tutto legittimo e naturale, ma è condizione essenziale per uscire dai secoli bui del feudalesimo e per superare quell'economia chiusa e limitata che da secoli li relega nel «limbo della Storia».

I baroni non vedono di buon occhio la fine di un sistema che li ha visti padroni assoluti non solo dei beni patrimoniali, ma anche degli esseri umani ridotti a semplici «giumenti», soggetti a una giurisdizione civile e penale iniqua, asfittica e immorale. I baroni hanno bisogno di tempo per maturare e realizzare come trasformare a loro vantaggio la perdita dei vecchi privilegi feudali con l'acquisizione di nuovi privilegi: quelli dell'alta borghesia agraria, classe nella quale confluiranno, approfittando delle leggi eversive napoleoniche, per continuare a gestire con incuria estesi latifondi in gran parte usurpati grazie alla complicità e al tacito consenso della nuova classe borghese emergente al potere. Il nuovo gruppo sociale che si approprierà illecitamente delle terre che avrebbero dovuto essere assegnate in quote a braccianti e contadini, per favorire la piccola e media proprietà coltivatrice. Il fallimento del tentativo riformistico di rinnovare la società e lo Stato, di dare impulso all'economia favorendo la «pubblica felicità», segna la rottura di gran parte della cultura illuminista con il riformismo assolutistico dei Borbone. Nel 1793, all'indomani della prammatica e alla scadenza del contratto sessennale dei pascoli regi, si prospettano due soluzioni al governo e all'amministrazione della Regia Dogana di Foggia: rinnovare il contratto di affitto o concedere la censuazione. I locati, riuniti in assemblea generale, si pronunciano a maggioranza a favore dell'affitto e il governo si adegua a tale volontà. Il 23 gennaio 1799 le truppe del generale Jean Étienne Championnet entrano a Napoli dando vita alla Repubblica partenopea. Francesco Mario Pagano, lucano di Brienza, uno dei “cervelli migliori d’Europa”, noto per le idee liberali di sostegno alle fasce deboli, viene subito inserito tra i venticinque membri del Governo e, attivissimo nel Comitato di legislazione, fa celermente approvare leggi che aboliscono i fedecommessi, le primogeniture, la tortura, importanti diritti feudali, secondo il suo «progetto» di repubblica, sintetizzato in queste frasi ispirate a nobili principi: «La libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione sono modificazioni tutte del primitivo diritto dell'uomo di conservarsi quale la natura l'ha fatto e di migliorarsi come la medesima lo sprona. La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso (4)».

I “Saggi Politici”, costituiscono l’opera principale di Pagano, pubblicati tra il 1783 e il 1785, quando il grande giurista aveva ancora piena fiducia nella monarchia illuminata, convinto che Ferdinando IV avrebbe utilizzato i suoi studi sulla riforma del diritto penale per compiere passi avanti contro i privilegi di una società ancora feudale. Ma la rivoluzione francese e l’esecuzione capitale in Francia di Maria Antonietta, sorella della sovrana del Regno di Napoli, comporta una svolta repressiva e autoritaria della monarchia borbonica che conduce Pagano, nella seconda edizione dei Saggi del 1795, ad una decisa presa di posizione antimonarchica. Imprigionato nel 1796 per cospirazione e rilasciato per mancanza di prove, nel 1798 lascia Napoli per Roma (5).

Tornato a Napoli durante la rivoluzione, la difende con le armi in pugno. Con grande forza morale, nella piena facoltà di esprimere con libertà idee e pensieri, Francesco Mario Pagano sale impavido e distaccato sul patibolo il 29 ottobre del 1799, lo stesso giorno e nella stessa piazza del Mercato in cui nel lontano 1268 era stato giustiziato Corradino, che nel 1789 gli aveva ispirato un’opera teatrale. Ironia della sorte e fine di un'epoca. Non poteva prevedere Pagano che un popolo intero si sarebbe schierato a difesa del proprio sovrano e che la successiva occupazione militare francese del 1806 del regno di Napoli avrebbe comportato l’uccisione di circa 60 mila conterranei. Non avrebbe mai potuto immaginare che nel 1802 Napoleone Bonaparte avrebbe rispristinato lo schiavismo abolito dalla Rivoluzione francese e che sul finire del 1804 si sarebbe fatto incoronare Imperatore portando guerre, carestie e morte in tutta Europa e insediando, nei nuovi regni conquistati, amici e parenti. Ci avrebbe pensato più tardi Vincenzo Cuoco a spiegare che nessuna rivoluzione è possibile contro e senza il popolo.

Note bibliografiche

1 - L'enfiteusi è il diritto di godere di un fondo altrui con l'obbligo di migliorarlo e di pagare al proprietario un canone. L’enfiteusi può essere perpetua o temporanea per non meno di 20 anni. L'enfiteusi comporta il diritto di affrancazione del fondo rustico che, attualmente, è regolato pagando una somma pari a 15 volte il canone annuo.

2 - Braccianti.

3 - Prammatica XXIV del 23 febbraio 1792 «De Administratione Universitatum». Da demaniocivico.it.

4 - F. M. PAGANO, Progetto di costituzione della Repubblica napolitana presentato al governo provvisorio dal Comitato di legislazione, in Riformatori napoletani (a cura di F. VENTURI), Milano-Napoli 1962, pp. 909-910.

5 - A. GARGANO, Francesco Mario Pagano, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

PATRIOTI NAPOLEONICI. LA LOGGIA 33 “VITTORIA” ED IL PLENIPOTENZIARIO NAPOLETANO: LA STORIA DEL MARCHESE DEL GALLO. Elena Pierotti su ilsudonline.it il 2 aprile 2021. Il patriota lucchese Giuseppe Binda, agente murattiano durante il Regno di Napoli e successivamente, dopo un passaggio in Inghilterra, divenuto cittadino americano, nonché console americano a Livorno durante il primo Risorgimento, nella sua fuga verso Genova nel 1815 per portare documenti importanti a Lord Bentick, di stanza a Genova in quel momento, aveva con se le lettere del Gallo. Chi era il Marchese del Gallo? Nato nel 1753 presso Nola, morì a Napoli nel 1833. Un diplomatico di rango, per conto del Regno di Napoli. Fu a Torino e a Vienna. Soprattutto qui, nel 1796 riuscì a combinare diversi matrimoni stringendo alleanze tra gli Asburgo ed i Borbone. Fu lui a trattare con la Francia la Pace di Campoformio nel 1797. Quando il trattato di neutralità non venne rispettato dalla Francia, il nostro passò al “nemico” servendo i Bonaparte, prima Giuseppe Bonaparte, poi Gioacchino Murat. Era di fatto il loro Ministro degli esteri. Marzio Mastrilli del Gallo, Marchese, poi divenuto Duca con nobilitazione del Re di Napoli Gioacchino Murat, era un Massone. Apparteneva alla Loggia Vittoria, fondata agli inizi del seicento nella città di Vittoria, in Sicilia. Il nostro di madre faceva Caracciolo, aveva studiato a Roma nel celebre Collegio Clementino e uno zio Caracciolo, un religioso, era stato il suo nume tutelare. La Loggia Vittoria 33 era di rito inglese. Eppure il Gallo con gli inglesi non ebbe sempre un rapporto privilegiato. Agevolò da diplomatico gli zar, nel tentativo di fare spazio alla marina borbonica nel Mediterraneo per chiudere alcuni traffici proprio agli inglesi. Mi ha incuriosito il suo legame con Giuseppe Binda, che era lucchese di nascita. Ed infatti in Lucca troviamo ancora oggi un palazzo, designato con il nome di palazzo del Gallo, ed una strada, dove il palazzo si trova, a lui intitolata. Questa strada è adiacente a via del Battistero, l’ex Duomo longobardo oggi sconsacrato, che è dedicato a San Giovanni Battista. La Loggia cui il nostro apparteneva fu creata in ambito Gerosolomitano, dai cavalieri di Malta. Scopriamo così che la città di Vittoria, cui si richiama la Loggia, fu fondata dalla contessa Vittoria Colonna. Suo fratello era il cardinale Ascanio Colonna che in Venezia era il priore dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, carica condivisa col nipote Fabrizio Colonna, figlio della sorella Costanza, protettrice del celebre Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. Saranno coincidenze, ma non possiamo ignorarle. Il Gallo, nel Regno di Napoli ebbe legami, in epoca Borbonica, giusto sottolinearlo, col Vate Gabriele Rossetti quando questi era il direttore del San Carlo di Napoli. Poi il Vate fuggì a Londra, qui si sposò e dette origine alla celebre dinastia Rossetti, che ha avuto un ruolo importante nel nostro Risorgimento. Anche il Vate era un esponente di una loggia massonica. Il Vate Rossetti nel 1839 era in corrispondenza con un patriota mazziniano lucchese, Pier Angelo Sarti, che con la moglie inglese si era temporaneamente ricollocato in Lucca. Proveniva il Sarti dal Britsh Museum ed era conterraneo dei Puccini ( nativo di Celle di Puccini). Alcuni avi di Giacomo Puccini li ritroviamo, stanti i documenti, a musicare anche  in Napoli. E tutti i musicisti in Lucca, compreso Giacomo Puccini, per tradizione venivano battezzati nell’allora consacrato duomo di San Giovanni. Lì troviamo i loro atti di battesimo. Nulla viene per caso, verrebbe da dire, osservando le carte.  Anche perché il duca Borbonico Carlo Ludovico, della dinastia collaterale dei Borbone Parma, si era messo a fare in quel periodo “il patriota protestante” e soprattutto proteggeva spesso nel suo Stato patrioti di ogni colore. La particolarità dei legami ancestrali col Regno di Napoli dello Staterello lucchese ben doveva coniarsi con queste nuove strategie del Duca. Troviamo in Napoli una chiesa, anche questa oggi sconsacrata, dedicata alla Croce di Lucca, e fondata nel cinquecento da un nobile lucchese appartenente alla famiglia Sbarra. Palese la devozione anche in terra partenopea per il Volto Santo, custodito nel duomo di San Martino in Lucca, e che aveva rappresentato, per tutto il Medioevo ed oltre, una reliquia molto venerata in tutta Europa. La collocazione lucchese sulla via Francigena ne aveva consentito maggiore visibilità. Quella chiesa dedicata in Napoli alla Croce lucchese, affidata a suore Carmelitane, era di pertinenza anche della famiglia del Marchese del Gallo.Varie famiglie presenti in Lucca avevano origini partenopee. Ricordo la famiglia lucchese di origini napoletane che dimorava in San Concordio di Moriano, presso Lucca, ed aveva residenza anche in città, i Pierantoni. Oltre naturalmente ai Carafa di Noia, che ho citato in un articolo presente sul sito storico.org, peraltro provenienti proprio dai feudo di pertinenza del Marchese del Gallo, Noia. Una città, quella lucchese, che probabilmente nascondeva al suo interno in quanto città Stato, legami profondi con altre realtà peninsulari, non ultima quella napoletana. Ricordo in proposito, sempre per citare un celebre musicista, la figura di Francesco Xaverio Geminiani. Nato a Lucca nel 1687 e deceduto a Dublino nel 1762, appartenuto sin dal 1725 alla Loggia Massonica Queen’s Head, si era formato come musicista in terra napoletana con i Maestri Ambrogio Lunati ( detto il Gobbo) ed Alessandro Scarlatti. Entrambi fondatori della scuola musicale napoletana. Nel 1705 il Geminiani tornò a Napoli e qui entrò nel Collegio dei Nobili, prendendo contatti con gli ambienti aristocratici partenopei. Fu da 1706 primo violino presso il Teatro dei Fiorentini di Napoli. La successiva vita londinese del musicista lucchese lo porterà poi a organizzare la prima Loggia italiana a Napoli, “La Perfetta Unione”, considerata la prima ufficiale Loggia Massonica italiana, il cui Gran Maestro divenne Raimondo di Sangro, Principe di San Severo. Le corpose ma ancora frammentarie notizie sui rapporti tra la città di Lucca e Napoli, nonostante questi illustri esempi, non ci consentono PER IL MOMENTO di realizzare uno studio approfondito. Sappiamo che Lord Bentick a Genova, nel 1815, fu raggiunto non dall’agente murattiano Giuseppe Binda, scoperto dagli austriaci, bensì dall’agente napoletano dell’allora Re di Napoli Gioacchino Murat, il Macirone, che appunto sostituì nel compito affidato precedentemente al Binda. Lord Bentick non prese in considerazione alcuna possibilità per Re Gioacchino, di alcuna forma di mediazione.

 Volle farsi personalmente consegnare dall’agente Macirone le preziose lettere del Marchese del Gallo, che Macirone possedeva. Il Marchese non era una persona irrilevante per i prestigiosi ruoli ricoperti, preziosa dunque la documentazione che le Sue lettere contenevano.  Il Marchese del Gallo nel 1801 aveva trattato con Napoleone anche per lo Stato dei Presidi in Toscana, realtà politica ormai desueta, abolita definitivamente da Napoleone in quel frangente. Napoleone dette per l’occasione garanzia alla dinastia collaterale dei Borbone Parma di ricevere lo Stato d’Etruria. La presenza di una dimora del marchese del Gallo in Lucca è dunque anche per questo giustificata. Chi conobbe in Lucca il marchese del Gallo, oltre all’avvocato agente murattiano Giuseppe Binda? Il Marchese Marzio Mastrilli fu particolarmente intimo di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone I°ed il primo Re napoleonico del Regno di Napoli. Giuseppe Bonaparte aveva conosciuto ed apprezzato il plenipotenziario di Seravezza, in provincia di Lucca, il Cavalier Luigi Angiolini, anche lui intimo di Giuseppe Bonaparte. L’amicizia tra il cavalier Angiolini e Giuseppe Bonaparte sfocerà dopo la sua morte, nella frequentazione della figlia, dell’Angiolini, Enrichetta, e del di lei marito Gherardi Angiolini, con Luigi Napoleone Bonaparte, futuro Napoleone III e con la di Lui moglie Carlotta. L’amicizia tra Enrichetta Angiolini e il secondo Imperatore Bonaparte durerà a lungo. Ma già quando Luigi Napoleone ed i suoi cugini erano dei perseguitati mazziniani fuggiaschi nel Ducato di Lucca, negli anni 1834-1837,  i legami con gli ex ambienti murattiani che facevano capo a Giuseppe Binda ed al Marchese del Gallo c’erano tutti. Nel 1831 Giuseppe Binda, ormai esule negli Stati Uniti, dette in prestito la sua villa di Segromigno in Monte, presso Lucca, a tre cospiratori, che erano il Bichi, frequentante il salotto del Buon Riposo di Seravezza di Enrichetta Angiolini, il Gherardi Angiolini, suo marito, e Michele Carducci, il padre del poeta Giosuè. Tre accesi mazziniani, come mazziniani in quel periodo erano anche molti napoleonidi superstiti, non ultimo proprio Luigi Napoleone. Sempre in epoca napoleonica, durante il Primo Impero, troviamo con buona probabilità il Marchese del Gallo avere rapporti confidenziali con una Dama vicina ai Bonaparte così come l’intera sua famiglia. Mi riferisco alla Marchesa Eleonora Bernardini di Lucca. Intima dell’Imperatrice Giuseppina, aveva conosciuto Luciano Bonaparte, come si evince dalle Sue carte. Ma anche Maria Carolina Bonaparte, la vedova di Gioacchino Murat, sempre come possiamo constatare nelle Sue carte. Fu caro al Marchese Gallo anche il bizzarro padre Gioacchino Prosperi, il conte lucchese in confidenza con la Marchesa Bernardini, che negli anni venti del XIX secolo era stato un padre Gesuita nel Piemonte di Carlo Felice e successivamente un patriota di stampo bonapartista, nonché padre Rosminiano, in Corsica? Se il Conte padre Prosperi rappresentò una sorta di patriota di raccordo tra lo Stato Piemontese e la Lucca di Carlo Ludovico di Borbone Parma, come appare dalle Sue carte, tutto lascia pensare che “Il Buon Prosperi” non fosse indifferente alle profferte “rivoluzionarie”, negli anni venti del XIX secolo, del plenipotenziario Marchese del Gallo. Proprio nel 1820, infatti, padre Grassi, il padre Gesuita piemontese in confidenza con padre Gioacchino Prosperi ( quest’ultimo uscì dall’Ordine Gesuita nel 1826 per divenire padre Francescano nonché di fede Rosminiana), nel suo peregrinare fu spedito proprio a Napoli, luogo sicuramente più deputato di altri a cambiamenti repentini e sulla scia di una rivoluzione moderata, che prevedeva una carta costituzionale ottroiata, come del resto avvenne in Francia qualche anno dopo. In quegli anni padre Prosperi era un padre Gesuita ma ciò non gli impedì di avvicinare quelle frange moderate che gli consentirono di cambiare vita e relazioni. E dunque il riferimento a padre Grassi potrebbe presagire queste particolari circostanze. Il moderato marchese del Gallo in effetti non potette non aver conosciuto e/o sentito rammentare questo ingombrante e contestato personaggio, il sacerdote lucchese padre missionario nella Corsica bonapartista di quegli anni, capace di avvicinare tutto e tutti. Il marchese del Gallo durante il Regno napoletano di Re Gioacchino Murat, aveva stretto amicizia con ogni probabilità anche con un patriota lucchese di stampo moderato ma non lontano da quegli ambienti sabaudi che mai abbandonarono fino alla sua caduta il tentativo di perorare la causa nazionale italiana, che Gioacchino Murat aveva fino alla sua morte rappresentato. E il marchese del Gallo accompagnò Re Gioacchino fino a Tolentino e mai smise di lavorare per questo. Mi riferisco al patriota Lorenzo Pierotti, che il 1° gennaio 1815 stava ancora perorando la causa di Re Gioacchino, vicino com’era nei suoi abboccamenti agli ambienti napoleonici sabaudi. Dunque si trattava di una realtà composita, quella del Marchese,  se la confrontiamo con la cittadina toscana. Una città Stato, Lucca, che per lungo tempo aveva avuto rapporti privilegiati con la città di Napoli e con i suoi patrioti. A conferma di ciò il coinvolgimento nel 1820 nei moti insurrezionali napoletani, in cui lo stesso Marchese del Gallo fu coinvolto, del patriota lucchese Carlo Massei, che ritroviamo infatti proprio in Napoli, dedito a fare esperienza in una fucina di idee e relazioni. Nel 1751 non era bastato che il Re Carlo di Borbone di Napoli si fosse scagliato contro la “Libera muratoria”, dopo che nel 1738 papa Clemente XII aveva scagliato i suoi fulmini della scomunica. Da Londra provenivano nel settecento gli impulsi all’organizzazione settaria. La “Massoneria speculativa” era nata sotto l’egida del suo protettore, San Giovanni Battista, che viene festeggiato il 24 giugno. Era stato anche il protettore dell’Ordine Templare ed era il Santo protettore dei Cavalieri di Malta. A Vittoria, dove aveva sede la Setta cui apparteneva il Marchese del Gallo, si ritiene che l’origine stessa della medesima fosse attribuibile agli interscambi commerciali con Malta e dunque al legame, presunto, con i suoi Cavalieri. Qui sede della Loggia fu proprio la chiesa locale di San Giovanni Battista, fatta erigere dal contessa Colonna, cui ho fatto cenno. In Lucca, altra particolare coincidenza, il palazzo appartenuto al marchese del Gallo, ribadisco, si trova in via del Gallo, strada adiacente a via del battistero, dove ha sede il vecchio Duomo lucchese longobardo dedicato a San Giovanni Battista. E dove tutti i musicisti lucchesi, in primis  i membri di casa Puccini, furono battezzati, come si evince dagli atti di battesimo. Troppe coincidenze, che non possono non far riflettere.  Apprendiamo che nel 1770 l’inglese Patrick Brydone, che apparteneva alla setta dei “Liberi Muratori”, attraverso Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari e massone, appassionato ricercatore di tesori d’arte fra le rovine di Camarina, entrò in contatto con alcuni “fratelli” di Vittoria. Dal piccolo porto di Scoglitti si imbarcò per una breve visita a Malta e da Scoglitti poi ripartì ala volta di Agrigento, dove ebbe altri contatti con alcuni massoni del luogo.  Nel 1795 un altro massone, il barone danese Frederick Munter, nel suo viaggio in Sicilia, incontrò il principe di Biscari e, innamoratosi di Camarina, conobbe alcuni vittoriesi appassionati di archeologia nonché massoni. A Napoli, peraltro, Munter era entrato in contatto con il “fratello” Mario Pagano, ispiratore della Repubblica partenopea e parente stretto del Labriola. La famiglia Labriola dalle carte pare coinvolta in queste dinamiche descritte. Vogliamo chiamarla coincidenza? Il miglior amico e confidente del protagonista della mia tesi, il muratore padre Gioacchino Prosperi è il professor Carlo Pagano Paganini, filosofo che nel XIX secolo fu un rosminiano docente di filosofia presso l’Università di Pisa. E impegnato per incarico del Duca Borbonico Carlo Ludovico di Borbone Parma nell’Archivio Storico della città di Lucca, oltre che docente presso il Real Collegio, che fungeva da Università nello Stato Lucchese e dove anche padre Gioacchino Prosperi insegnava storia. Ora i fratelli Paganini furono a lungo a Lucca durante il Principato baciocchiano, ospitati in Benabbio (Bagni di Lucca) a teatro dalla Principessa Elisa Baciocchi che li ebbe suoi amanti e che qui spesso si recava. In Benabbio aveva residenza anche la famiglia del patriota napoleonico Lorenzo Pierotti, le cui vicende ho descritto in un articolo. Di riflesso Mario Pagano è l’altrettanto famoso patriota partenopeo che ebbe un ruolo importante nella prima Repubblica Romana e che venne poi giustiziato. Carlo Pagano Paganini portava verosimilmente il cognome dei due rami della sua famiglia. Lui nacque in Lucca nel 1818, pochi anni dopo le vicende ascritte. Ho trovato presso la biblioteca nazionale di Lucca un sonetto che egli scrisse e pubblicò nel 1868 in occasione delle nozze tra Alessandro Morelli e Antonietta Pierantoni. Morelli è cognome napoletano ( chi non ricorda i celebri tenenti Morelli e Silvati coinvolti nelle vicende rivoluzionarie napoletane del 1820 – 21?)e la famiglia Pierantoni aveva anch’essa origini napoletane. Il padre Prosperi della mia tesi ed il Lorenzo Pierotti menzionati erano cugini dei Pierantoni. Lucca e Napoli, Lucca e gli ambienti musicali? Evidentemente nulla fu per caso!  II passaggio importante, difficile, ma anche stimolante, del ducato lucchese dal Principato Baciocchiano al Ducato Borbonico, altrettanto “movimentato” nella figura di Carlo Ludovico di Borbone Parma il quale, dopo la morte della madre reggente, ne fece una entità nazionale diversa rispetto a come viene descritta nei libri di storia.

L’ALTRA STORIA DEL SUD. IL TAVOLIERE DELLE PUGLIE ALLA FINE DEL SETTECENTO. Michele Eugenio Di Carlo il 9 marzo 2021 su Il Sudonline.it. Il primo figlio dell’avvocato fiscale della Regia Dogana Orazio Cimaglia, Natale Maria, era nato a Vieste nel 1735 e, pur trasferitosi in tenera età con la famiglia a Foggia, sarà l’unico a rimanere sempre in contatto con la terra natale. Nella pubblicazione “I Cimaglia del 700” Natale Maria Cimaglia risorge a nuova e più splendente luce, tratteggiato magnificamente da Carlo Oliva nella “Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli” che, edita nel 1814, attesta da subito la grande personalità e la somma rilevanza dell’uomo che, accusato ingiustamente, dovette rinunciare al Ministero di Grazia e Giustizia che il re Ferdinando IV di Borbone aveva in mente e nel cuore di serbargli. Il letterato di San Marco in Lamis, Pasquale Soccio, non ha alcun dubbio sul valore dell’attività storico-politica di Natale Maria Cimaglia, mettendone in evidenza la cultura illuministica e ritenendolo ideale discepolo di Pietro Giannone quanto a mentalità anticurialistica: “Chi nel pieno meriggio illuministico nell’ampio solco, giuridico e regalistico, maggiormente rifulse fu appunto questo Cimaglia col suo intenso lavoro professionale tra Napoli e la Capitanata, e con studi specifici, storici e legalistici”. Sensibile alle tematiche sociali, attento alle condizioni di vita estreme e precarie di contadini e braccianti in una società ostinatamente feudale, “egli freme e si loda che questi servi della gleba, affrancati da ogni assillo di fisco feudale, possono lavorare in proprio senza la condanna di un asservimento totale alla terra fino alla morte”. Lo storico Raffaele Colapietra menziona un’altra opera del 1790, intitolata “Della natura e sorte della cultura delle biade in Capitanata”, dedicata all’economista salentino Giuseppe Palmieri, scritta da Natale Maria Cimaglia, il cui genio è stato recentemente ricordato dall’insigne storico garganico, Tommaso Nardella, nel saggio dal titolo esplicativo: “Natale Maria Cimaglia: un illuminista garganico tardo settecentesco. Il segnalato testo del Cimaglia illustra le gravissime limitazioni dell’agricoltura dauna, ponendo nella giusta rilevanza la mancanza di manodopera quale fattore decisivo del mancato sviluppo agricolo, seppur in un contesto fortemente condizionato da una pastorizia predominante e privilegiata dal sistema fiscale della Regia Dogana con sede a Foggia. Lo stesso Saverio Russo, docente di storia all’Università di Foggia, rileva, nel testo del più affermato dei Cimaglia, «un’analisi ampia e circostanziata dei difetti del sistema cerealicolo della provincia del Tavoliere» che chiarisce e definisce «il segno dell’acquisita legittimazione della cerealicoltura» in sostituzione della solita, scontata e storica polemica contro la pastorizia. Il viestano Natale Maria Cimaglia non rinuncia al rilievo polemico sulla legge doganale voluta da re Alfonso d’Aragona, la quale «non potè mai de’ pugliesi farne un popolo di pastori, perché manca al pugliese la dura fibra di reggere a quella vita scitica». Natale Maria Cimaglia, osservatore privilegiato del territorio nella sua qualità di Avvocato dei locati poveri presso la Dogana, descrive le difficoltà che si incontrano nel mese di ottobre ad arare i campi, a causa della ricerca spasmodica e generica di improvvisati braccianti e operai, provenienti da qualsiasi area geografica e da qualsivoglia mestiere: «La povertà delle braccia è tale e tanta che, approssimandosi l’ottobre, ciascun massaro spedisce sopra le pubbliche strade i suoi capi d’ufficio per condurre all’aratro qualunque povero uomo s’incontri vagando per chiedere da vivere, sia egli di suo mestiere ciabattino, ferraio, falegname, carpentiere o altrimenti […] Gli operai pugliesi sono ordinariamente languidi, pigri, tardi, presuntuosi, ciarlieri, testardi, ladri. I forestieri avrebbero miglior carattere se non divenissero gl’imitatori de’ pugliesi testoché veggonsi con essi accumulati. Questo intanto è il popolo che assicura la sossistenza a gran parte della nazione». Emerge anche qui, chiaramente, il quadro desolante di un’agricoltura dauna sottomessa alla pastorizia, consegnata nelle mani di operai e braccianti disorganizzati, impreparati, inesperti, i quali, per di più, non essendo affatto i proprietari e i possessori delle terre, sono poco o nulla interessati ai risultati colturali, totalmente presi e angustiati dalle loro misere e precarie condizioni sociali ed economiche. E quel che ancor più aggrava lo stato dell’agricoltura viene desunto dalla disarmante descrizione del caratteristico e del tutto peculiare proprietario o possessore latifondista dauno: «I campi pugliesi non sono mai diretti e governati dall’uomo, al quale unicamente interessano. Questi […] hanno appena qualche equivoca idea dell’arte dell’agricoltura, appresa da’ loro stessi ignorantissimi villani, i quali guidano a tentoni i loro padroni, senzachè l’evento interessi mai il maestro. La povera gente che colla propria persona coltiva i piccoli campi costantemente professa diversi mestieri, tutti lontani dall’agricoltura ed i quali, come più interessanti, la tengono per la maggior parte lontana dalle campagne». Qualche anno più tardi Michelangelo Manicone, frate nato a Vico del Gargano, naturalista e scienziato, dalla «lungimiranza destinata purtroppo a essere sconfitta dalla insipienza di contemporanei e posteri», segue con ansia partecipe le vicende legate al sistema fiscale della Dogana di Foggia. E, a dimostrazione della rilevanza di Natale Maria Cimaglia e della comunione di vedute tra i due garganici, – non a caso definiti da Tommaso Nardella «illuministi tardo settecenteschi» – , nel testo La Fisica Daunica, manoscritto dal frate tra il 1803 e il 1809, pubblicato a cura di Loredana Lunetta e Isabella Damiani solo nel 2005, troviamo le stesse considerazioni, con semplici e isolate diversificazioni ortografiche e sintattiche, sulla «mancanza di braccia» e sull’ «ignoranza di cognizioni agrarie» di «padroni» e «villani» nel Tavoliere.

Viaggio nei segreti del Risorgimento. Un saggio per scoprire il lato più oscuro e dimenticato dell'Unità d'Italia. Matteo Sacchi - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. A 160 anni dall'Unità d'Italia è ancora complesso fare un ragionamento, sine ira et studio, sugli eventi che portarono alla nascita del nostro Paese. Facilmente si oscilla tra la narrazione oleografica, che fa del Risorgimento un epoca romantica popolata da una accolita di eroi, tutti patria e coraggio, e quella revisionista che trasforma i Savoia in feroci colonialisti a danno del Sud. Non è stupefacente. La prima narrazione è figlia di un Paese appena nato che dopo secoli dominazioni straniere doveva costruirsi un mito fondativo. La seconda narrazione mira a trovare una giustificazione, assolutoria, per spiegare il divario socio economico tra nord e sud. Entrambe attingono, quando ben condotte ed argomentate, ad un fondo di verità ma spesso scelgono di mettere altre verità sotto il tappeto. Ecco che allora può essere interessante la lettura del saggio che da oggi sarà in allegato con il nostro quotidiano: 1861. La storia del Risorgimento che non c'è sui libri di storia (pagg. 288, euro 8,50 più il prezzo de Il Giornale). I due autori, Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, hanno dato vita ad un lavoro con un taglio molto particolare. Hanno identificato criticità che il nostro Paese si porta dietro, in forma secolare, e hanno provato a rintracciarne l'origine proprio nel complesso meccanismo unitario. Quindi il libro è un libro a tesi e scientemente decide di esplorare alcune latebre del Risorgimento. Ad esempio un capitolo è tutto dedicato alle manovre meno note orchestrate da Camillo Benso di Cavour. Le strategie e le doti del Conte vengono elencate tutte. Tra queste anche quella di capire benissimo che l'unità d'Italia non era una faccenda italiana. E nemmeno una faccenda che poteva essere portata avanti senza solidi appoggi bancari internazionali. Cavour fu bravissimo a far entrare il Piemonte nel «cooncerto» delle potenze europee. Riuscì in sostanza a garantirsi un utilissimo appoggio franco inglese proprio mentre Ferdinando II re delle Due SIcilie sbagliava cavallo e scommetteva su un'alleanza con gli Zar. Cavour vinse così per i Savoia, anche se amava poco Vittorio Emanuele II, una difficile partita. Partita che nel resto del libro è descritta soprattutto nei suoi aspetti di accordi segreti e di manovre spionistiche. Con grande attenzione a personaggi fondamentali come Filippo Curletti, che fu l'uomo di punta delle attività coperte di Cavour, ma che difficilmente compaiono nei libri di storia. Risulta evidente che Cavour, con queste premesse, finì per lasciare in eredità al Paese non solo l'unità ma anche una serie di situazioni complesse e tutt'altro che trasparenti. Situazioni che se lui gestiva con un misto di genio e spregiudicatezza, politici meno accorti le avrebbero, nel tempo, fatte degenerare in suddittanza a interessi stranieri, tendenza ad azioni fuori dai normali canali istituzionali, sfiducia della popolazione verso le istituzioni... Ovviamente si tratta di un problema storiografico complesso che nessuno può risolvere d'incanto. Ma la sbirciata che Fasanella e Grippo fanno dare al lettore nel retrobottega, sporco, del Risorgimento è interessante.

Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio. C'è una terza via fra la vulgata neoborbonica e quella neosabauda? Eugenio Di Rienzo prova a percorrerla. Matteo Sacchi, Mercoledì 06/01/2021 su Il Giornale. Migliaia di uomini dispiegati sul territorio, scontri feroci, villaggi distrutti, una ferita sull'appena raggiunta unità d'Italia che si è cercato di coprire al più presto col belletto della retorica e l'oblio storiografico. Se ci si prende la briga di guardare cosa si nasconde sotto la frettolosa formula del «brigantaggio» post-unitario si va a sbattere su un fenomeno variegato e scomodo che solo una lettura miope potrebbe ridurre alla vulgata di una criminalità comune nata dalla povertà atavica delle regioni meridionali che solo la caduta dei Borbone di Napoli ha superficialmente tinto di moventi politici. Eppure la storiografia, spesso, è scivolata lontana dal tema o lo ha biecamente piegato a criteri ideologici di contrapposizione tra «sudisti» e «nordisti». Ecco che allora risulta utilissimo il breve saggio da poco pubblicato da Eugenio Di Rienzo: Il Brigantaggio post-unitario come problema storiografico (D'amico editore, pagg. 122, euro 14). L'ordinario di Storia Moderna dell'università di Roma si dedica con grande attenzione alle fonti coeve e mette subito in luce come idealtipi del brigante buono o al contrario riduzionismi criminalizzanti si sono sedimentati nel tempo. Molti dei contemporanei avevano le idee più chiare. Ad esempio negli scritti del generale Giuseppe Govone, uno dei maggiori artefici della repressione del banditismo politico, nelle sue memorie sul brigantaggio scriveva già nel 1863: «È vero che il partito che chiamasi liberale attribuiva tutte le cause del brigantaggio ai Comitati borbonici... Ma successivamente conobbi personalmente parecchie delle persone che erano state denunziate e vidi l'assurdità delle accuse, e quanta stima meritassero, invece, parecchie delle famiglie accusate... Famiglie che, in generale, erano tra le più ricche e rispettabili. Venne poi la rivoluzione del 1860. E chi era sotto, e covava invidia e odio, fece lega con la rivoluzione, e non tardò a rovesciare chi, in addietro, stava sopra. Alla rivoluzione i nuovi potenti si dissero liberali, e chiamarono borbonici gli altri». Insomma lo stesso Govone, il braccio duro della repressione, aveva chiaro in testa di essere stato trascinato in uno scontro dove nel vuoto del cambio di regime non tutto era limpido, anzi. Non fu il solo militare ad accorgersene. Alessandro Bianco conte di Saint-Jorioz -autore del volume Il brigantaggio alla frontiera pontificia del 1864- notava come Govone che fosse in corso una guerra di potere dove molti filopiemontesi avevano tutt'altro che comportamenti specchiati: «La plebe è manomessa in ogni maniera dai liberali, arrestata senza colpa e senza prove o indizi di colpevolezza, taglieggiata, malmenata, torturata e derubata con usure spaventevoli e scellerate, di cui non vi è memoria nel precedente reggimento dei Borbone». Anche al braccio duro della repressione era quindi chiaro quanto non stesse funzionando nella gestione del Sud. Quanto il tutto non fosse semplicemente riconducibile ad arretratezza culturale o «all'oro dei Borbone» utilizzato per sobillare i vecchi sudditi. E non solo guerra per la «roba». Le fonti d'epoca consentono di ricostruire anche il forte attaccamento che molti sudditi sentivano verso la «Patria napoletana». Sentimento che un'unificazione senza alcuna traccia di federalismo ferì in pieno. Ne fu testimone il duca di Maddaloni che pure aderì con entusiasmo, all'inizio, al nuovo regime entrando anche in parlamento: «Non vi ha solo borbonici a Napoli, vi ha piuttosto autonomisti e questi bisognava convertire perché, se ciò fosse stato, li avreste visti in un subito tutti aggrapparsi al governo piemontese». E invece «la polvere e il piombo piemontesi hanno il colore stesso e l'odore della polvere e del piombo borbonico». Quel federalismo mancato che tanti danni duraturi ha prodotto in Lombardia e Veneto tanti altri meno raccontati ne potrebbe aver prodotto a Sud. A partire proprio dalla spinta alla ribellione brigantesca. Ma questi sono solo alcuni degli spunti forniti da Eugenio Di Rienzo in questo volume che presenta molti altri documenti pressoché inediti e ripropone in appendice integralmente uno degli opuscoli più interessanti scritti in quegli anni: Analisi politica del brigantaggio attuale nell'Italia meridionale di Tommaso Cava de Gueva (pubblicato nel 1865). Davvero uno strumento utile per parlare di «brigantaggio» post-unitario sine ira et studio.

·        Il tradimento della Patria.

L'importanza del ricordo. Giordano Bruno Guerri il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Fin dalla più antica preistoria l'essere umano anche le specie che hanno preceduto il Sapiens Sapiens ha avuto cura dei propri morti. Secondo calcoli recenti, negli ultimi 200mila anni sono vissuti 107 miliardi di uomini e donne, quattordici volte la popolazione attuale del pianeta. Fin dalla più antica preistoria l'essere umano anche le specie che hanno preceduto il Sapiens Sapiens ha avuto cura dei propri morti: seppellendoli, cremandoli, affidandoli al mare, deponendoli in loculo o sarcofagi, mummificandoli, scarnificandoli. Addirittura, in alcune culture, con il cannibalismo, inteso come un modo per mantenere il defunto nel ciclo della vita. Ai re è sempre spettata una sepoltura solenne, e basta pensare alle piramidi egizie. Seguirono poi i grandi sacerdoti, i generali e naturalmente i ricchi, che volevano lasciare anche nella morte il ricordo di una vita opulenta. Delle decine di milioni di soldati caduti nelle battaglie, in genere non è rimasta memoria, se non per celebrare le glorie di una guerra e dei suoi condottieri. Soltanto in tempi relativamente recenti, con la leva di massa e una maggiore attenzione al popolo, quindi all'individuo, si è pensato di celebrare nel ricordo anche i caduti che non sarebbero passati alla storia. La Grande Guerra, come veniva chiamata quella che per noi oggi è la Prima guerra mondiale, fu una carneficina quale in mondo non ne aveva mai immaginate. Lasciò centinaia di milioni di orfani, vedove e genitori sopravvissuti ai loro figli, un fatto così straziante che non è stata neanche creata una parola per definirli. Così si pensò di onorare con una sepoltura simbolica tutti i caduti, in particolare quelli di cui non era possibile risalire neanche al nome. Fu Gabriele d'Annunzio a coniare l'espressione «Milite Ignoto» dal latino miles ignotus, per una cerimonia di cui sta per ricorrere il centenario. E d'Annunzio volle, personalmente, onorare i suoi compagni caduti disponendo che avessero un'urna intorno alla sua, nel Mausoleo che domina il Vittoriale degli Italiani. Sono dieci, e fino a pochissimo tempo fa, tre urne erano vuote. Una lo resterà per sempre, il pilota Antonio Locatelli, morto in combattimento e le cui spoglie non sono mai state trovate. È stata trovata, invece la salma di Riccardo Gigante, senatore e sindaco di Fiume: nel 1945 rifiutò di fuggire all'arrivo delle truppe titine e scomparve. I suoi resti erano in una fossa comune, insieme a molti altri. Sono stati identificati grazie alla prova del Dna e dal febbraio 2019 riposano dove erano destinati. L'ultima urna vuota è quella del sergente dei granatieri Antonio Gottardo, che venne ucciso da una scheggia nella schiena quando la corazzata Andrea Doria sparò due cannonate destinate a uccidere d'Annunzio, durante il Natale di Sangue del 1920. Sepolto finora a Fiume, il padovano Gottardo prima di questo Natale verrà accolto nel luogo che gli spetta. Giordano Bruno Guerri

L’anniversario. Quel milite ignoto da un secolo. Il 4 novembre 1921 la salma del soldato senza nome fu portata al Vittoriano. Per diventare un simbolo nazionale. Corrado Augias su La Repubblica il 24 ottobre 2021. Il 4 giugno 1911, in una mattinata all’inizio piovosa anche se si era alle soglie dell’estate, venne inaugurato a Roma il più grande monumento dell’era moderna: il Vittoriano – o Altare della Patria. Vittoriano si riferiva non ad una qualche vittoria bensì a Vittorio Emanuele II al quale era stato attribuito il titolo, non del tutto appropriato, di Padre della Patria.

Il capo dello Stato ha deposto una corona sulla Tomba del "soldato senza nome". Centenario Milite Ignoto, Mattarella: “Il pensiero va a chi ci ha lasciato l’Italia democratica”. Redazione su Il Riformista il 4 Novembre 2021. A cento anni dalla tumulazione del ‘soldato senza nome’ nel sacello dell’Altare della Patria, le cerimonie per il “Giorno dell’Unità Nazionale” e la “Giornata delle Forze Armate” partono dal ricordo di quell’importante momento storico, che unì l’Italia nell’omaggio a tutti i caduti in guerra. Questa mattina, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha deposto una corona sulla Tomba del Milite Ignoto in occasione del Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate. In occasione del centenario, si è voluto ripercorrere il viaggio del Milite Ignoto con un treno rievocativo partito da Aquileia e arrivato l’altro ieri a Roma. Lo stesso percorso fatto cent’anni fa.

Il pensiero di Mattarella

“In questo giorno il pensiero va a quanti hanno sofferto, sino all’estremo sacrificio, per lasciare alle giovani generazioni un’Italia unita, indipendente, libera, democratica”. Con queste parole, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato il solenne momento con un messaggio inviato al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. E nel ricordare tutte le vittime delle guerre, il capo dello Stato ha scritto: “L’intero popolo italiano guarda con sentimenti di commozione a tutte le vittime delle guerre. La loro memoria rappresenta il piu’ profondo e sincero stimolo ad adempiere ai doveri di cittadini italiani ed europei”.

In occasione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate, il capo dello Stato ha detto: “Si ricordano quest’anno quattro importanti anniversari: 160 anni dell’Unità d’Italia, 150 anni di Roma Capitale, 100 anni del trasferimento al Vittoriano della salma del Soldato Ignoto, 75 anni di Repubblica. Momenti fondamentali della nostra storia che troveranno solenne il 4 novembre, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, all’Altare della Patria”.

“Fratellanza tra cittadini e Forze Armate”

Mattarella ricorda poi che “il centesimo anniversario della traslazione del Soldato Ignoto all’Altare della Patria richiama alla coscienza nazionale l’immane sacrificio delle Forze Armate e del Paese intero nei conflitti che hanno attraversato la storia europea del ‘900″.

Nel ricordare il sacrificio delle vittime della Grande Guerra, il Capo dello Stato, nel messaggio inviato al titolare della Difesa Guerini, ha scritto: “La nostra storia è segnata dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale: nel dolore condiviso si è cementato un sentimento di fratellanza inestinguibile tra il Paese e i cittadini in uniforme. Oggi – ha aggiunto il presidente della Repubblica – gli eredi di quelle tradizioni confermano di un patrimonio di virtu’ civiche, di coeso, responsabilità’, a disposizione del Paese”.

Francesco andò in guerra. Marcello Veneziani il 4 novembre 2021. Si chiamava Francesco, veniva da Bisceglie, aveva vent’anni e una forte miopia. Non aveva uso di mondo e non conosceva l’uso delle armi, era gentile e remissivo, di buone maniere, educato a Roma nel collegio dei nobili ma vissuto nel paese natio, nel palazzo di famiglia, tra la campagna e la vita serena della provincia, al riparo dalla storia. Non aveva mai viaggiato e si trovò con una divisa addosso e un fucile tra le braccia, catapultato ai confini estremi del nord a combattere per la patria contro l’impero austroungarico nella Grande Guerra.

Non tornò più a casa, risultò poi disperso sul Carso nel ’17 e mai si trovò il suo corpo, i suoi genitori ne fecero una malattia. Fu uno dei tanti militi ignoti che dettero la vita, e non da volontari, per allargare i confini della patria. Andò in prima linea con l’aria di chi era capitato per pura sventura, con la nostalgia di casa, l’estraneità alla causa e l’incapacità di maneggiare fucili e mortai.

Sistemavo le carte di famiglia lasciate da mio padre, e mi sono imbattuto in un plico calloso e sformato, da cui fuorusciva una medaglia appesa a un logoro nastro tricolore e una croce di guerra col nastro azzurro. C’è pure una terza medaglia col nastro arcobaleno, come s’usa oggi per le bandiere della pace…

Ho scartato l’involucro, sciolto i nodi dell’oblio e ho trovato vergato da un inchiostro antico e da una doppia calligrafia rattrappita uno straziante carteggio di oltre cent’anni fa. Riguardava un suo fratello più grande, Francesco, partito per la Grande Guerra come altri due suoi fratelli, combattenti motivati, e suo padre anziano, nato prima dell’unità d’Italia. Ma lui è miope e cagionevole, non sa cosa sia combattere per le terre irredente. Francesco scrive una lettera a suo padre in cui narra i disagi, le sofferenze, le angherie che subisce. “Carissimo Padre, maledetto il giorno che arrivai qui” … Suo padre raccoglie la disperata richiesta di soccorso del figlio, chiede aiuto ai deputati locali ma i militari sul fronte non se li filano. Scrive allora al comando un accorato promemoria e decide di partire per il fronte per strappare suo figlio al destino di guerra e di morte. “Sofferente di malattie come rilevasi dal certificato del medico, vedi l’elenco delle imperfezioni fisiche, ha otto diottrie… non ha mai avuto da quando è alle armi, cioè da più di due anni, un solo giorno di licenza… lo costringono a lavori ingrati, a trasportare balle… lo strapazzano inviandolo sempre di scorta e ora perfino al fronte… gli hanno fatto firmare che le ferite subite nella vita militare non sono avvenute mentre era in servizio… lui sempre obbediente a tutto e verso tutti… un colonnello gli ha tirato il naso facendoglielo sanguinare dicendogli: tu non vuoi fare il soldato, tu non vuoi andare in prima linea”. Ma loro ce lo mandano e lui muore, anche lui da milite ignaro.

Non è una pagina epica di eroismo, semmai un caso patetico di umanissima fragilità e inadeguatezza alla vita aspra delle trincee e del fronte. Ma è struggente lo stridente contrasto tra l’oggettiva e inesorabile durezza del conflitto mondiale e la soggettiva e tenerissima dimensione affettiva, domestica e locale. È il tentativo disperato di un padre e una madre di salvare il loro figlio, tra suppliche e istanze per esonerarlo dall’evento cruciale, adducendo sofferenze varie e inattitudine alla vita, non solo militare…. L’illusione di un padre, notabile nel suo paese, di poter interloquire con le gerarchie militari e muoverli a compassione, ponendo problemi umani troppo umani, o sperando che la disarmata cortesia a cui era stato educato suo figlio, le premure di una famiglia di provincia del profondissimo sud, possano trovare udienza sensibile nei vertici militari, in piena guerra. Trovo nel plico raccolte con meticoloso dolore le foto spettrali del Carso, i luoghi dove Francesco perse la vita, e poi l’attestato solenne firmato dal re Vittorio Emanuele che Francesco è “Morto per la patria”, con le citazioni di Foscolo e di Virgilio a fianco dell’Italia turrita e dell’angelo della morte che fregiano il diploma funebre. La prima guerra mondiale riuscì a essere più crudele della seconda, un terribile macello che unì l’Italia ma non partorì un mondo migliore. Da quella guerra, oltre a milioni di morti, uscirono infatti sanguinose rivoluzioni, regimi totalitari, odi ideologici, campagne sventrate, economie collassate, vite mandate allo sbaraglio a combattere contro un nemico ignoto. Furono per la prima volta coinvolte popolazioni civili con la leva obbligatoria, poi le fucilazioni per diserzione e insubordinazione, le ferite procurate per non andare a combattere… Questo risvolto terribile della Grande Guerra non cancella ma accresce l’ammirazione per gli eroi e gli interventisti, i volontari e i patrioti che offrirono la loro vita per la propria patria, per la propria civiltà. E non cancella l’abnegazione dei soldati italiani riconosciuta anche dal nemico e da scrittori stranieri come Trevelyan, Wells, Kipling. Ma quell’ondata solleva ‘gli strati più antichi dell’umanità’ scrive Renato Serra caduto a Podgora: “Un movimento di popoli interi strappati alle loro radici…Il bene di quelli che restano non compensa il male abbandonato senza rimedio nell’eternità… una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile”.

Non ho raccontato le gesta di intrepidi eroi caduti per la patria che credevano in quel che facevano. E nemmeno la storia, atroce anch’essa, di tanti poveri fanti strappati alla vita contadina e operaia delle loro contrade e mandati a morire per Trento e Trieste. È una storia ancora diversa, di uno scorcio periferico d’Italia travolto dal conflitto mondiale. È la tragica opposizione tra il mondo di ieri, come lo definì Stefan Zweig, quel secolo decimonono col suo garbo e le sue ottuse delicatezze, e il ‘900, secolo delle masse mobilitate, della guerra totale, dei coscritti, delle rivoluzioni. Due epoche contigue ma incomunicanti, separate da una linea di fuoco e di sangue. Ma la storia vive lo stridore di questi lampanti anacronismi, non è solo quel grandioso affresco di condottieri ed eventi, è anche l’ordito pietoso di tante vite oscure e sepolte. Ambedue si ritrovano, come il diritto e il rovescio, nell’epopea del IV novembre. Fratelli d’Italia, anche se riluttanti. Renato Serra: “Dietro di me son tutti fratelli, anche se non li vedo e non li conosco bene”. MV, 4 novembre 2021

Il conflitto dimenticato dei forti: storia segreta della Grande Guerra. Alberto Bellotto su Inside Over il 3 novembre 2021. Nella Grande Guerra che infiamma l’Europa tra il 1914 e 1918 c’è un conflitto nel conflitto. È quello dei grandi forti che si lanciano cannonate, in particolare sull’Altipiano di Asiago. Se si pensa alla Prima guerra mondiale e alle tante forme che il conflitto ha assunto in Italia, difficilmente vengono alla mente le immagini di fortezze arroccate sulle montagne. Eppure proprio da uno di questi, il Forte Verena nel vicentino, alle quattro del mattino del 24 maggio 1915, parte il primo colpo di cannone che dà ufficialmente inizio alla guerra. Per i successivi tre anni questi forti hanno avuto destini più o meno avversi, ma secondo molti storici non sono mai stati decisivi nelle sorti della guerra e nello spostamento dei fronti. Nonostante questo hanno rappresentato comunque uno sforzo bellico ed economico notevole per i Paesi coinvolti con storie a tratti uniche. Gran parte dei forti italiani e austro-ungarici viene costruita diversi anni prima della guerra. Da un lato e l’altro del confine c’era una certa ostilità nonostante la firma della Triplice alleanza del 1882. I governi unitari italiani di fine secolo creano un comitato incaricato di pianificare la realizzazione di una serie di barriere difensive che vengono poi messe a cantiere tra il 1883 e 1896. L’obiettivo principale individuato dal comitato è quello di difendere le città di Verona e Venezia in Veneto, per questo viene progettato un sistema di difesa di valli e valichi. Tutto si arresta però nel 1896 quando l’Italia si imbarca nell’avventura coloniale in Eritrea. I progetti vengono congelati per otto anni, fino al 1904, quando, complice un miglioramento dei conti e maggiori innovazioni tecnico-militari, riparte la costruzione degli avamposti. Ma la vera accelerazione arriva a ridosso della guerra tra il 1808 e 1914 soprattutto dal lato austriaco. Vienna, sotto la spinta di Franz Conrad von Hötzendorf, capo di stato maggiore dell’esercito austriaco, si lancia in una vasta operazione di costruzione e fortificazione del suo confine meridionale. Conrad non era solo un sostenitore della guerra contro la Serbia, ma un fervente sostenitore che l’Italia sarebbe stata un problema e che fosse necessario attaccarla per prima. Nel 1908, ad esempio, prova a convincere l’imperatore Francesco Giuseppe ad attaccare per approfittare dello stato di debolezza nazionale causato dal terremoto di Messina senza però riuscite a convincere l’Imperatore. Passano tre anni e da Vienna arriva l’impulso finale per completare le fortificazioni. Secondo molti storici, questa “corsa” ai forti è una delle tante dimostrazioni di come la guerra sia già predisposta da tempo. Per averne un’idea plastica basta fare un viaggio in località Campo Gallina, oggi una zona montana tra le province di Vicenza e Trento, ma nel 1900 punto sensibile del confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico. Nella conca gli austriaci costruiscono in breve tempo uno dei centri nevralgici della Strafexpedition, la spedizione punitiva austriaca contro l’Italia per il tradimento e il passaggio con i nemici di Francia, Regno Unito e Russia. A oltre 1.800 metri d’altitudine viene costruita una vera e propria cittadella con tanto di cinema, chiese, ricoveri, magazzini, spaccio alimentare e ospedale, un complesso capace di ospitare fino a 25 mila uomini. Segno evidente di una premeditazione. Nei piani di Roma e Vienna i forti devono svolgere una doppia funzione, difensiva e offensiva. Il problema è che il Regno e l’Impero si presentano alla vigilia dello scontro in situazioni molto diverse. Per quanto riguarda il fronte italiano il fatto di aver iniziato la loro edificazione quasi trent’anni prima dello scoppio delle ostilità li rende superati dato che molti non hanno mura in calcestruzzo armato o cupole corazzate in acciaio. In più la particolare conformazione delle montagne costringe architetti e ingegneri “spacchettare” i forti collocando al di fuori delle strutture depositi, armerie o ricoveri per la guerra ravvicinata. Allo stesso modo polveriere e laboratori per i proiettili vengono posizionati in lunghi defilati allungando le linee di rifornimento. Il genio austriaco, diversamente, crea strutture molto più corazzate. Ironicamente già negli stessi anni del conflitto si sottolinea come i forti autrici siano realizzati soprattutto per reggere l’urto dei proiettili di grosso calibro, senza concentrarsi su aspetti più architettonici come fatto invece gli italiani. Ad essere diverse sono però le stesse filosofie di gestione dei forti. L’idea dell’Italia era stata quella di costruire una rete di fortezze capaci di colpire e martellare le artiglierie nemiche ma non le truppe. I forti austriaci invece sono collegati in maniera più organica e rispetto agli italiani sono capaci di fungere da presidio per la fanteria. In più Vienna li considera come strumento chiave per dare supporto alle truppe. Le fortezze italiane invece sono isolate, quasi come castelli medievali, ma a differenza possono essere conquistati con facilità. Dopo i primi successi nel 1915, il periodo più difficile per l’esercito italiano lungo la linea del fronte nell’Altipiano di Asiago arriva nella primavera del 1916 quando le forze austriache lanciano la spedizione punitiva contro il traditore italiano. Il fuoco di artiglieria che anticipa l’offensiva scatta il 14 maggio del 1916, quasi un anno dopo l’apertura delle ostilità. Nel giro di 15 giorni le truppe italiane ripiegano e le forze austriache arrivano ad affacciarsi sul fiume Brenta, prendendo parte della Val d’Assa, Arsero e entrando ad Asiago tra il 27 e 29. Successivamente Conrad è costretto a far ripiegare le truppe in posizioni più difendibili anche per una maggiore pressione in altri punti del fronte. Nonostante questo l’operazione ferma lo slancio italiano e anzi permette all’Impero di mettere piede sull’Altipiano e continuare a puntare alla Pianura Padana. In questo contesto il sistema dei forti si mostrò marginale nel fermare le operazioni belliche. Simbolicamente la storia di due forti racconta molto bene limiti e fragilità delle fortezze montane. Prendiamo proprio il forte Verena, quello da cui viene sparato il primo colpo della guerra. Costruito tra il 1910 e 1914, è il fiore all’occhiello del genio italiano, costruito con materiali all’avanguardia. Nei piani doveva essere la punta di diamante contro le forze austriache. Propio all’inizio delle ostilità è il punto privilegiato per tenere sotto tiro la linea del fronte sulla vicina piazza del Vezzena, dove si trovavano le forze austriache. Uno scenario ideale che gli vale il nome di “Dominatore dell’Altopiano”. Eppure il “dominatore” ha vita breve, per uno strano mix nel quale l’ingrediente fondamentale è la fortuna. Meno di un mese dopo l’inizio del conflitto, il 12 giugno, dalla piana del Vezzena, parte un colpo e un proiettile da 305mm arriva sul forte ed entra nella struttura. Qui le versioni divergono. Secondo alcuni penetra nel vano dell’ascensore del forte scoppiando all’interno delle casematte. Secondo altri il proiettile entra attraverso un’intercapedine aperta temporaneamente per combattere l’umidità presente all’interno. La deflagrazione, indipendentemente dal punto di ingresso, provoca la morte del capitano Umberto Trucchetti e di altri 40 soldati. La struttura regge il colpo ma i comandanti danno l’ordine di abbandonarla: una mossa che di fatto cambia tutto il piano difensivo che i forti come il Verena possono garantire alla linea del fronte. Un anno dopo la struttura cade nelle mani degli austro-ungarici durante la spedizione punitiva sancendo di fatto la fine del “dominatore”. Il colpo da 305 che sancisce la fine precoce del forte è arrivato da un settore chiave per le forze dell’Impero, quello della piana del Vezzena, “coperta” da almeno tre avamposti ravvicinati. Lo Spitz, usato come avamposto per osservare i movimenti in Valsugana, il forte Verle, il primo a finire nel mirino del Verena nel maggio del 1915, e soprattutto il forte di Luserna. Soprannominato “il Padreterno” per al sua sicurezza, è uno di quelli che subisce il fuoco delle artiglierie italiane più violento. Secondo una stima nelle prime fasi della guerra sono piovute sul forte qualcosa come 5 mila proiettili in poco meno di quattro giorni. Nonostante questo il forte regge e si guadagna anche il soprannome di “frontiera d’acciaio”. Lontano dai grandi teatri della guerra i forti e il fronte sull'Altipiano si conferma essere meno importante per gli esiti della guerra, se non per le operazioni difensive dell'esercito italiano. Già nel 1916, durante la Battaglia degli Altipiani, le fortezze, da una parte e dall'altra, mostrarono i limiti davanti a una guerra nuova, diventando un elemento di sfondo agli alterni rovesci del conflitto. Oggi di quelle fortezze restano i ruderi e i tentativi di recupero soprattutto in occasione del centenario della Grande Guerra, testimoni del sacrificio di migliaia di giovani gettati nel fuoco della guerra per espugnarli.

Festa del Milite Ignoto. "Così il Paese si unì in un momento difficile". Riccardo Pelliccetti il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Il centenario ad Aquileia. Mattarella: "Il dolore rinnovò la speranza nel futuro". Le note del Silenzio scandite da una tromba risuonano nel piazzale del Cimitero degli Eroi di Aquileia. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con passi decisi si avvicina alla corona d'alloro sorretta da due corazzieri, la tocca con delicatezza mentre un picchetto d'onore è sull'attenti. È l'omaggio ai Caduti in guerra, che si ripete poco dopo anche al Sacrario di Redipuglia, dove le Frecce tricolori hanno colorato di rosso-bianco-verde il cielo sopra il cimitero monumentale, che conserva le spoglie di 100mila soldati italiani caduti nella Prima Guerra Mondiale. Quello di ieri è stato l'ultimo atto delle celebrazioni per il centenario del Milite Ignoto. «Un dolore silente e raccolto unì il paese con rinnovata speranza nel futuro», sono state le parole di Mattarella. «La decisione di onorare la salma di un caduto senza nome e, idealmente, così, di tutti coloro che non avevano trovato nemmeno la consolazione di una tomba, pose in luce l'unità del Paese in un momento difficile, unendo in un sentimento di rispetto e di dolore i diversi atteggiamenti che avevano caratterizzato la società italiana di fronte alla guerra», ha aggiunto il presidente della Repubblica. Molti si domanderanno il perché di questa cerimonia ad Aquileia. Ebbene, bisogna tornare indietro di cent'anni, al 28 ottobre 1921, quando Maria Maddalena Blasizza in Bergamas venne chiamata a scegliere la salma del Milite Ignoto. Maria, che diventò la «madre d'Italia», aveva perso il figlio Antonio, giovane sottotenente, il 16 luglio 1916 durante la storica offensiva austroungarica, impropriamente detta Strafexpedition. Antonio Bergamas era caduto mentre guidava il suo plotone all'attacco sull'altipiano di Asiago. Si era arruolato come volontario nel Regio Esercito sotto falso nome perché era nato a Gradisca d'Isonzo che, come Trieste, era territorio dell'Impero Austroungarico ed era considerato un disertore. Il cimitero di guerra di Marcesina, dove fu sepolto, venne distrutto dai bombardamenti e Antonio diventò ufficialmente disperso. Terminato il conflitto, la madre Maria ebbe il triste compito di scegliere una salma tra i corpi di undici caduti non identificati, raccolti sui diversi fronti guerra. La cerimonia si svolse proprio ad Aquileia, nella Basilica patriarcale. Fu un rito straziante: la donna davanti alle undici bare allineate fece alcuni passi e si accasciò a terra, davanti alla decima bara, urlando il nome del figlio. Quella diventò la salma del Milite Ignoto. Maria partì assieme al feretro che doveva essere trasferito a Roma con un treno. Il viaggio durò quattro giorni e il convoglio fece 120 soste, accolto ogni volta da folle di persone che si inchinavano e pregavano. Il treno venne accolto nella capitale da Re Vittorio Emanuele III e il Milite Ignoto fu tumulato all'Altare della Patria il 4 novembre 1921. Ancora oggi, dopo cent'anni, la salma viene vegliata senza sosta da militari di tutte le armi. Maria Bergamas morì a Trieste nel 1953 e, un anno dopo, quando la città ritornò a essere italiana, la sua salma venne riesumata e sepolta nel Cimitero degli Eroi ad Aquileia, accanto a quei dieci militi ignoti su cui non cadde la scelta. Riccardo Pelliccetti

Il Milite Ignoto e la lezione al Paese diviso su tutto. Fausto Biloslavo il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Amor di Patria, sacrificio, unità e identità nazionale, libertà sono le pietre miliari scolpite nella nostra storia, che ancora oggi, 100 anni dopo, risuonano più che attuali nel ricordo del Milite ignoto. Amor di Patria, sacrificio, unità e identità nazionale, libertà sono le pietre miliari scolpite nella nostra storia, che ancora oggi, 100 anni dopo, risuonano più che attuali nel ricordo del Milite ignoto. Il 4 novembre di un secolo fa l'Italia vittoriosa nella Grande guerra, ma segnata nelle carni dalla tragedia di 651mila caduti, li onorava tutti chinando il capo davanti alle spoglie di un soldatino senza nome. Non un generale che dalle retrovie mandava al macello i suoi uomini o un politico che cavalcava la guerra senza avere mai sentito sibilare una pallottola. Il milite ignoto è un fante che aveva sputato sangue e sudore nel fango delle trincee scelto da una madre distrutta dal dolore per la perdita del figlio giovanissimo fra una sfilza di bare con i resti di caduti mai identificati. In tempi di pandemia, di rifiuto dei vaccini e di cortei No pass il soldatino senza nome dovrebbe ricordare a tutti, da una parte e dall'altra della barricata, il senso di comunità nazionale. E farci capire che maggioranza silenziosa o minoranza rumorosa, diritto dei tanti o egoismo di pochi dobbiamo vincere assieme la guerra invisibile che ancora tormenta l'Italia e il mondo intero. Il milite ignoto era un uomo del popolo che un po' costretto, un po' spinto dal patriottismo e dalla speranza di portare la pelle a casa ha fatto l'Italia con il suo sacrificio. Non è di destra, né di sinistra, ma un simbolo per tutti. Cento anni dopo possiamo e dobbiamo onorarlo ricordando che ci siamo battuti assieme contro il virus cinese, che ha falciato 130mila fratelli d'Italia, in gran parte con altre patologie, ma che senza la pandemia avrebbero potuto essere in gran parte ancora a lungo fra noi. E nella stragrande maggioranza cerchiamo di uscirne assieme con un vaccino, che necessariamente, non avendo la sfera di cristallo, deve essere un atto di fede nella scienza e di speranza. In tanti non ci credono e pensano di vivere in una «dittatura sanitaria» che limita la libertà via green pass. Non vanno demonizzati o considerati disertori da fucilare alla schiena come nel carnaio della Grande guerra. Pure loro, però, dovrebbero meditare sull'esempio del Milite ignoto, che non era un kamikaze e forse avrebbe voluto la libertà di scegliere se andare a morire sul Carso oppure no, ma è partito lo stesso fra mille dubbi e paure combattendo per liberarci da un nemico straniero. Da allora ad oggi con altrettanti dubbi e paure solo assieme, uniti, nel rispetto di tutti, senza egoismi o prevaricazioni, possiamo vincere la «guerra», come 100 anni fa.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le

​"Militari come burattini" o eroi da ricordare? Francesco Colafemmina il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. Ad Acquaviva delle fonti, in provincia di Bari, la memoria per i caduti della prima guerra mondiale diventa un vago ideale di fratellanza ed inclusione all'insegna del politicamente corretto. Ma la storia del Milite Ignoto nell'anno del suo centenario va riscoperta al di là di letture liberal e superficiali. Capita di visitare, in compagnia del direttore del Sacrario dei Caduti d’Oltremare, una mostra organizzata per il centenario della traslazione del Milite Ignoto ad Acquaviva delle fonti, in provincia di Bari, da scolaresche di elementari e medie. Ci si imbatte così in un caleidoscopio di bandiere della pace e arcobaleni, di simboli ambigui, di soldati descritti dai bambini come “burattini nelle mani dei potenti” o “marionette pilotate da chi ha potere”. Si fatica, purtroppo, a ritrovare il senso di un centenario smarrito al di là della storia, in un culto della pace che travolge anche i suoi difensori, quelle Forze Armate che celebriamo ogni 4 Novembre, quale presidio della nostra Repubblica. I bambini assorbono, elaborano le storie che vengono loro narrate. O semplicemente coprono di simboli e colori un vuoto narrativo, una storia che spesso gli adulti non sanno più raccontare. Forse mancano ormai i nonni, quei “combattenti e reduci” che ricordo ancora, da piccolo, celebrare il giorno della Vittoria con una antica bandiera e qualche elmetto Adrian superstite. Forse manca lo stupore. Anche quello di intellettuali e femministe dinanzi ad un fenomeno unico nel panorama editoriale italiano, forse in quello europeo. Mi riferisco al corale racconto Ignoto Militi (Idrovolante Edizioni, pp.201, euro 18) a cura di Cristina Di Giorgi e Bianca Penna. 17 donne, la più piccola di soli 13 anni, la più grande di 80, narrano la vicenda degli undici ignoti caduti nei principali campi di battaglia della Grande Guerra, le cui salme sostarono nella Basilica di Aquileia nell’ottobre del 1921 in attesa che la mamma di un soldato disperso, Maria Bergamas, scegliesse quale di quei resti mortali avrebbe rappresentato per la Nazione tutti i caduti sull’Altare della Patria. Sono racconti, quelli di Ignoto Militi, nei quali la narrazione si unisce alla storia, puntellati da attente bibliografie e precisi richiami storici. Ma soprattutto potenti affreschi di cuori femminili contemporanei, fatti di coraggio, valori, e una immediata capacità evocativa. C’è un modo nuovo di commemorare il centenario del Milite Ignoto in questa pubblicazione niente affatto retorica, una ventata di freschezza e passione. Forse perché, per citare il racconto dedicato all’ignoto di Castagnevizza del Carso, della Penna: “il vento assomiglia a una donna che sussurra da lontano. Forse una di quelle che stanno a casa e si chiedono cosa ne sarà di loro, dei loro uomini, delle loro famiglie, e fanno scendere lacrime calde dai loro occhi incantati mentre cuciono sapientemente bandiere verdi bianche e rosse pungendosi le mani con gli aghi. Quelle bandiere saranno stese sulle bare, sono fatte di amore e di sangue”. Si può dunque raccontare una storia che unì, e continua ad unire l’Italia, rifuggendo dalle strumentalizzazioni, dalla volontà di riempire con concetti moderni, ideologie sospese, falsi storici, un racconto che ci viene ancora tramandato da chi la guerra l’ha vissuta negli occhi dei propri padri, dei propri nonni. O dei propri zii, come nel racconto di Caterina Rovere (classe 1941) e delle sue due figlie, dedicato allo zio Matteo che perse la vista sul Grappa perché sprovvisto di maschera antigas durante un attacco chimico degli austriaci. Resta però quel profondo senso di inadeguatezza di tanti genitori (ed insegnanti) nel raccontare ai nostri figli una storia che ci sembra alle volte troppo lontana, anche se continua a vivere in luoghi che conosciamo bene, come il Vittoriano. E qui ci offre qualche risposta l’ultimo racconto, il dialogo fra una madre e una tredicenne dal titolo Mamma, cos’è la Patria? di Giorgia Clementi. Giorgia sa che “non si risponde mai alle domande di un’adolescente di getto. Quel che noi adulti diciamo loro quando ci chiedono qualcosa resta scolpito nella loro mente come una verità assoluta. Quindi bisogna pensare molto bene a come dare seguito ai loro quesiti”. E alla domanda della figlia risponde: “La Patria, figlia mia, è la signora Maria! Andiamo a trovare suo figlio e capirai…”. Quel figlio è il Milite Ignoto e forse non c’è modo più spontaneo, affettuoso e deciso di ricordarlo che andando a trovarlo ogni tanto, a Roma come in ogni paese d’Italia, dove un cannone o un obice sono al fianco di lapidi coi nomi scritti fitti e in piccolo. Nomi non di burattini, ma di eroi. Che difesero la Patria, non un vago, petaloso, ideale di fratellanza ed inclusione. Francesco Colafemmina

L'indifferenza mediatica per il Milite Ignoto e i luoghi comuni sulla Grande Guerra. Oltre il masochismo culturale, una verità storica da onorare. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 29 ottobre 2021. 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Per adesso, il Centenario della traslazione e tumulazione del Milite Ignoto è quasi del tutto oscurato mediaticamente da un evento come il G 20: il rapporto di proporzione storica, valoriale, morale ed estetica che intercorre tra i due eventi è fornito in modo plastico dal raffronto architettonico fra le sedi romane ospitanti: da un lato il Vittoriano, dall’altro la "Nuvola di Fuksas". Non c’è altro da dire. Cercheremo quindi, in queste righe, di raccontarvi un po’ di verità su una pagina del nostro passato largamente mistificata dalla storiografia - anche recente - come la nostra guerra mondiale VITTORIOSA. Dobbiamo sottolinearlo, a costo di indulgere per un attimo ad un afflato “retorico”, perché se chiedete ai nostri ragazzi chi ha vinto il Primo conflitto mondiale, nella maggioranza dei casi vi risponderanno che “l’abbiamo persa”. Tanto per fornire un'idea sul masochismo culturale italiano, di ovvia matrice politica, basti pensare che su Caporetto sono stati pubblicati circa 200 libri contro i 15 dedicati alla vittoria finale di Vittorio Veneto. I luoghi comuni ormai sedimentati nella pur scarsa coscienza collettiva di quel conflitto annoverano i soliti “ufficiali ottusi e incompetenti che mandavano inutilmente a morire i loro uomini; diserzioni di massa e fucilazioni spietate; Caporetto archetipo universale della disfatta” …A un’analisi adulta e distaccata dei dati e dei documenti, emerge una realtà ben più complessa, in molti casi del tutto opposta. In pochi sanno, ad esempio, che l’Esercito italiano, fu l’unico, tra quelli dell’Intesa, a rimanere costantemente all’offensiva fin dall’inizio della guerra. Ancor meno noto, il fatto che il Regio esercito produsse le maggiori conquiste territoriali, così come si ignora che i Caduti italiani (600.000) furono meno di quelli francesi (1.397.800), russi (c.a 2.000.000), britannici (886.939), tedeschi (2.050.897), austro-ungheresi (1.100.000), considerando anche l’entrata in guerra un anno dopo. I danni culturali maggiori alla nostra memoria eroica sono stati prodotti da un film su tutti: «Uomini contro» (1970) del regista comunista e dichiaratamente antimilitarista Francesco Rosi che, a sua volta, riportò su pellicola il romanzo «Un anno sull’altipiano» di Emilio Lussu, un antifascista che nel 1936 prese parte alla Guerra civile spagnola, nel fronte antifranchista e, dopo l’8 settembre ’43, passò nelle file della Resistenza. Fu proprio nel ’36, al ritorno dalla Spagna, che - dietro invito del socialista Gaetano Salvemini - scrisse il suo libro più famoso. Non un diario di guerra scritto a caldo, dunque, ma un romanzo steso ben 18 anni dopo la fine del conflitto che per sua stessa ammissione, era un testamento politico scritto contro il regime. Facendo salvo il loro valore artistico, «Un anno sull’altipiano» e la sua trasposizione cinematografica «Uomini contro» restituiscono, in buona parte, un ideologico “condensato di atrocità” permeato da una visione emotiva e dai chiari intenti propagandistici, piuttosto che un panorama (anche statisticamente) obiettivo di ciò che fu la Grande Guerra per i soldati italiani. Ad esempio, se, nel film, le scene relative ai disertori fucilati commuovono chiunque, è necessario sottolineare che le condanne emesse dai tribunali militari, stando ai numeri ufficiali, furono appena 750 su circa 5 milioni di uomini in armi, un dato che rivela il basso tasso di criminalità dell’Esercito Italiano. Fra queste condanne capitali, oltre alle imputazioni relative alla codardia di fronte al nemico, ve ne furono anche altre per crimini comuni. Per quanto riguarda i fucilati spiega Davide Zendri, del Museo Storico Italiano della Guerra di Trento - il nostro istituto ha promosso un convegno: i soldati del Regio Esercito, nella stragrande maggioranza dei casi fecero sempre il loro dovere. Quanto alle condanne capitali, in altri eserciti alleati, come in quello francese, se ne comminarono grossomodo altrettante». E’ pur vero che nel Regio esercito vigeva una severa disciplina, ma questo era dovuto a fattori che ne imponevano necessariamente l’adozione considerando il pericolo mortale che correva il Regno d’Italia, non solo per la guerra, ma anche perché il Paese, da poco unificato, era percorso da fermenti socialisti che ne minavano la coesione. Inoltre, il basso livello socio-culturale della truppa, formata per la maggior parte da contadini (che, pure, furono alfabetizzati dalle scuole reggimentali) richiedeva l’applicazione di regole chiarissime, con sanzioni dal forte potere deterrente. Bisogna considerare che le insubordinazioni e le diserzioni avrebbero potuto compromettere la sopravvivenza dell’intera macchina militare italiana, quindi non è corretto giudicare con la sensibilità odierna quel particolare ed emergenziale contesto storico né tantomeno, senza la consapevolezza tecnico-militare necessaria. Un’altra serie di cliché riguarda il generale Luigi Cadorna, maresciallo d’Italia e Capo di Stato Maggiore dell’Esercito dal luglio del ’14 al novembre del ’17. Al Pentagono è ritenuto uno dei più grandi strateghi militari del '900, i comandanti nemici di allora lo consideravano un leone, ma da noi viene visto come una specie di macellaio. Un dato su tutti riporta la giusta temperatura: le condanne a morte per diserzione comminate sotto il suo comando furono inferiori – proporzionalmente alla durata dell’incarico – a quelle comminate sotto il suo successore, Maresciallo Diaz. In ogni caso, le fucilazioni dei disertori e degli ammutinati non possono essere imputate ai Comandanti supremi, in quanto furono decretate dai tribunali militari dopo regolari processi. Quindi, per favore, basta con questa leggenda nera del “Cadorna-boia”, così come deve finire quella del Cadorna “incompetente, ancorato a visioni militari ottocentesche che mandò al massacro i nostri militari e, dopo la disfatta, si scaricò dalle responsabilità dando la colpa ai soldati”. Per risparmiare vite umane, Cadorna ribadì con nuove circolari alla "Libretta rossa" come fosse necessario avvicinarsi al nemico velocemente e a sbalzi, o con lo scavo di gallerie, trincee o movimenti notturni. Soprattutto, creò gli Arditi, antenati delle nostre Forze Speciali che sbloccarono la stasi della guerra di trincea. A proposito, quella che è passata alla storia col nome di “libretta rosso” era un’istruzione generica diramata dal Gen. Cadorna nel 1915 dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”. Conteneva dei precetti estremamente moderni e adeguati al combattimento di trincea che non si discostavano da quanto praticato negli altri eserciti dell’Intesa e degli Imperi Centrali. Ancora, Caporetto, dovuta all’improvviso e inaspettato crollo interno della Russia zarista, tra l’altro, non fu minimamente una “disfatta”, come ci si ostina voluttuosamente a ripetere, dato che fu coinvolto solo il 10% dell'Esercito. Si può parlare di "sconfitta" o di "ritirata", al massimo: per “disfatta” si intende una sconfitta militare che fa perdere l’intera guerra (come quella di Teutoburgo, ad esempio) mentre Caporetto, paradossalmente, segnò l’inizio della nostra riscossa. Il comandante austriaco Krauss scrisse: «Cadorna venne sottoposto ad inchiesta e dovette giustificarsi dinnanzi a delle nullità. Questo è il destino dei più grandi soldati. Perciò sia qui reso a quest'uomo l'onore che gli è dovuto; egli fu della guerra il più grande, il più ragguardevole nemico». Tra l’altro, altri paesi (Francia, Russia) si guardano bene, invece, dal nominare le loro "Caporetto", terribilmente più gravi. Il Generalissimo fu l'unico capo di Stato maggiore alleato a ragionare in termini modernissimi di «guerra di coalizione» cercando di coordinarsi con i suoi omologhi dell'Intesa che, pure, non lo amavano. La sua strategia, attenta ai rapporti di forze, perdurò per tutta la guerra italiana e condusse alla Vittoria. I documenti (relazione del Gen. Del Fabbro allo Stato Maggiore), da poco riemersi, dimostrano come egli avesse previsto in largo anticipo uno sfondamento nemico, tanto da fortificare, in anticipo di anni, la linea del Piave per consentire ripiegamento e arroccamento perfetti, come poi avvenne. La sua destituzione fu, in realtà, un favore al nemico: scriveva il Comandante supremo asburgico Conrad: «Siamo riusciti a rovesciare Cadorna. Questo è il maggior vantaggio conseguito da tutta l'operazione. Cadorna, come un vecchio leone, prima di cedere ci ha sferrato una zampata sul Piave. Egli ha saputo rianimare gli italiani e noi abbiamo assistito ad un fenomeno che ha del miracoloso». Caporetto segnò la fine per gli Austroungarici che si spinsero troppo in avanti in territorio italiano, persero il contatto con la loro logistica e si arenarono clamorosamente sulla linea del Piave. Da lì in poi fu un logoramento continuo finché il generale Diaz, succeduto a Cadorna, attese il momento giusto per dare loro il colpo di grazia il 4 novembre '18. Lo storico Aldo Mola ha stimato in una percentuale del 70% il merito del Cadorna nell' aver risolto vittoriosamente per l'intera Intesa la Grande Guerra. Le famose "spallate" da lui ordinate non furono affatto inutili, ma richieste dai nostri alleati in un'ottica strategica del teatro europeo, servivano a distogliere armate tedesche dal fronte occidentale e a logorare gli austroungarici. Un nemico interno di Cadorna fu, invece, il Governo che sperava, secondo una faciloneria che si sarebbe ripetuta nella storia, di risolvere la guerra in pochi mesi. Peraltro, gli lesinava materiali e mezzi, tanto che i nostri artiglieri dovevano persino economizzare i colpi d' artiglieria. Ecco perché gli i primi assalti fallivano, con gravi perdite, poiché i cannoni non riuscivano ad aprire brecce sufficienti nei reticolati nemici. Oltretutto, l'Esercito era scarsamente addestrato, ma fu messo in piedi da Cadorna in pochissimo tempo. Altri nemici interni erano i socialisti che spandevano disfattismo e incitavano alla renitenza alla leva, tanto che la II Armata, in buona parte arresasi a Caporetto, era considerata "marcia" dallo stesso duca d' Aosta, comandante “invitto” della III. Quindi come vedete, siamo stati defraudati completamente del nostro vero passato, così come oggi veniamo defraudati di una celebrazione verso il Milite Ignoto al quale l’intera Nazione dovrebbe rendere omaggio, mettendo in secondo piano TUTTO IL RESTO.

Ghiaccio e sangue: l’altra guerra che flagellò gli Alpini sugli altipiani. Inside Over il 5 novembre 2021. L’inverno tra il 1916 e 1917 è quello più difficile. A tutti, dai comandi agli uomini al fronte, è ormai chiaro che la guerra sarà lunga, logorante e senza svolte significative. Lungo la linea che divide Regno d’Italia e Impero degli Asburgo, dall’Adamello fino al Carso e all’Isonzo, gli eserciti si fronteggiano a colpi di assalti frontali. Ma in alcuni punti di questo lungo fronte i soldati devono combattere anche contro le avversità della natura. Uno dei punti più sensibili è l’Altipiano di Asiago.

La battaglia degli Altipiani

L’entrata in guerra dell’Italia contro gli Imperi centrali viene “salutata” proprio dall’altipiano veneto con un colpo di mortaio da Forte Verena il 24 maggio 1915 e l’inizio delle ostilità sembra dare ragione alle forze italiane. Poi però arriva il maggio del 1916, quando l’esercito di Vienna dà il via all’Offensiva di primavera, nota in Italia come Strafexpedition, la spedizione punitiva che l’Impero lancia contro il Regno d’Italia, colpevole di aver tradito la triplice Intesa.

In un mese, dal 15 maggio al 16 giugno, le forze nemiche lanciano una vasta operazione sull’altipiano con l’obiettivo di dilagare nella Pianura Padana, tagliando così in una sacca le armate italiane impegnate sull’Isonzo, il fronte più sanguinoso e violento che toglieva forze a Vienna mentre era impegnata più a nord contro l’Impero russo. L’urto è tremendo: in cinque giorni l’Italia registra perdite per circa 15 mila soldati, tra morti, catturati e dispersi e molti forti della linea difensiva italiana finiscono nelle mani degli austriaci.

Asiago in fiamme nel maggio del 1916 

A fine mese le truppe della 3a armata austriaca marciano sulle macerie del centro di Asiago e arrivano a intravvedere la pianura. Da est arrivano però notizie molto dure per Vienna dall’Offensiva Brusilov lanciata lungo il fronte orientale. Il capo di stato maggiore Franz Conrad von Hötzendorf impone uno stop alla Strafexpedition e costringe gli uomini a ritirarsi lungo una linea maggiormente difendibile.

A quel punto l’esercito italiano fa confluire uomini e pezzi di artiglieria verso l’Alto vicentino per lanciare la controffensiva. Il 16 giugno iniziano le operazioni, ma nelle settimane successive le conquiste si limitano a registrare la ritirata austriaca e il posizionamento su linee difensive simili a quelle di inizio maggio. Poi in autunno le nevi precoci creano una nuova insidia: quella con la quotidianità dura della guerra di posizione ad alta quota.

Le “tregue” informali

In tutto l’arco alpino nell’inverno del 1916, tra la fine di novembre e dicembre, inizia a scendere una quantità di neve insolita. Alla fine della stagione si arriverà a un picco di 16 metri. Un pesante manto bianco si estende su trincee e ricoveri e sfonda i tetti di molti ripari di fortuna dei soldati. Il freddo e la quantità di neve diventano così i veri nemici, tanto da creare strane alleanze. È così che tra le vette dell’Altipiano di Asiago alcuni alpini della 62ª compagnia del Btg. Bassano stringono una tregua informale coi combattenti vicini, un gruppo di soldati austriaci. I primi offrono pane bianco e qualche barretta di cioccolato, mentre gli altri regalano sigarette. Non solo. Concluso lo scambio, la strana compagnia decide che fa troppo freddo per combattere e che è meglio unire le forze per far un po’ di legna nella terra di nessuno che separa i due schieramenti. “In quell’inverno c’era tanta e tanta neve che non si udì un colpo di fucile, niente”, ha ricordato qualche anno fa lo scrittore asiaghese Mario Rigoni Stern, “Erano in linea montanari altopianesi e montanari austriaci della Stiria e si scambiarono gli attrezzi per andare nel bosco a tagliare la legna per riscaldarsi”. Ma tregue simili non mancano. Anzi proprio sul fronte di Asiago si verifica un episodio unico in tutto il conflitto mondiale, in Italia come nel resto d’Europa. È settembre e una compagnia di soldati italiani si lancia per conquistare postazioni austriache, una batteria di mitragliatori apre il fuoco e risparmia solo pochi di loro. A quel punto dalla trincea imperiale le armi si fermano e arrivano poche parole in un italiano stentato: “Basta bravi soldati, non fatevi ammazzare così”. L’episodio non è un’invenzione, ma un fatto fugace documentato da storici e autori, come si legge anche nel libro Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu.

Nel gelo della trincea

Lontano dalle “tregue” c’è la lotta quotidiana con un ambiente ostile, spesso con strumenti inadeguati. È il caso degli scarponi, fondamentali in guerra come in marcia, soprattutto in ambienti montani. Ai soldati vengono date scarpe chiodate a volte con fondo in legna che hanno pochissima presa su rocce e terreni ghiacciati e soprattutto grande dispersione di calore. Le suole in gomma dura più utili e robuste sarebbero arrivate solo più avanti negli anni Trenta. Persino il cordame è un problema. Fatto in larga parte di canapa tende a inzupparsi d’acqua e a diventare difficile da maneggiare per salire o scendere dai versanti delle montagne. Una cosa banale quanto pericolosa che rendeva ogni operazione molto difficoltosa. E poi c’era il gelo. Agli uomini impegnati nei fronti alpini vengono consegnati manuali per evitare quelle che in gergo venivano definite “congelazioni”, cioè la perdita di arti per il freddo. In questi opuscoli si raccomanda di assumere ogni ora un certo quantitativo di superalcolici come grappa o cognac, ma anche di vestire sempre capi in pelliccia dai materiali più nobili fino a suggerire di usare pelle di gatto o topo. Ma nei testi si chiede ai soldati di eseguire anche movimenti periodici degli arti per tenere attiva la circolazione. Nell’inverno del ’16 le temperature sprofondano a picco a -30 o 40 gradi sotto zero e diventano un vero incubo che intacca anche le forniture di viveri. I tempi lunghi, dalla preparazione alla consegna ai soldati, fanno sì che spesso arrivino cibi e zuppe congelate agli uomini in prima linea. Come si legge in molti diari dal fronte, spesso i soldati lamentano la mancanza di viveri commestibili, soprattutto a ridosso di un’attacco. La lunga linea degli approvvigionamenti comporta anche la razionalizzazione dell’acqua. L’Altipiano di Asiago non ha fiumi o torrenti e accumula acqua soprattutto grazie al disgelo primaverile. Per questo i soldati si buttano sulla neve e la usano per abbeverarsi, ma questo ha pesanti effetti sul fisico. Gli episodi di dissenteria nella truppa sono frequenti insieme ad altre patologie dovute a condizioni igieniche precarie. In compenso è su quelle vette, durante la guerra, che inizia a circolare una nuova bevanda. I comandi danno disposizioni di dare alle truppe grandi quantità di caffè per aiutare a mantenere uno stato vigile durante le lunghe attese tra un attacco e l’altro. Non è un caso, come raccontano molte cronache dell’epoca, che una volta tornati a casa dal fronte molti di loro chiedano alle mogli il caffè, di fatto dando il via a una piccola rivoluzione dei consumi.

L’eroismo nelle avversità

Parlare della Grande guerra a partire dalle difficoltà di soldati nei gelidi inverni sembra una forzatura, un elemento accessorio, ma in realtà sono i numeri stessi di quegli anni sanguinosi a sottolineare come la “guerra al freddo” non fosse secondaria. Come ha evidenziato in un’intervista Stefano Morosini, dell’Università Statale di Milano, nel conflitto alpino, da entrambi i lati del fronte, i caduti furono in prevalenza legati a eventi naturali, cioè morti per congelamento e valanghe rispetto ai caduti in combattimento.

Un contesto simile rende molto più eroica ogni impresa perché richiede sforzi superiori a tutti i soldati. Oggi siamo abituati a dare per scontati equipaggiamenti e vestiti per proteggerci dal freddo, ma non si poteva dire lo stesso in quegli anni. Una scalata diventava un’impresa ardua, una notte al bivacco una dura lotta contro il rischio di morire assiderati e persino i pasti diventavano un miraggio. E intanto, a pochi metri di distanza, si sentiva il respiro pesante dei nemici, che sotto la stessa neve cercavano un modo per scaldarsi e non pensare agli italiani pronti ad attaccare.

La “guerra bianca” dell’Adamello: un duello ad alta quota tra ghiacci e tenebre. Andrea Muratore su Inside Over il 2 novembre 2021. Un enorme tricolore sventola sul versante meridionale dell’Adamello: la grande bandiera issata a sei metri d’altezza a 3.539 metri di quota sulla cima della vetta che domina la Valcamonica celebra dal 2018, centenario della fine della Grande Guerra, l’elezione della montagna bresciana a territorio sacro d’Italia. L’Adamello fu tra il 1915 e il 1918 teatro delle più estreme azioni condotte da truppe del Regio Esercito e uomini dell’Impero austro-ungarico sul fronte italiano, la “guerra bianca” combattuta tra ghiacci, anfratti delle montagne, tunnel sotterranei e altipiani.  Battaglie ad alta quota caratterizzarono l’intero complesso delle Dolomiti e delle Alpi Retiche meridionali. Ma nessun versante ebbe la stessa salienza e la stessa continuità di combattimenti in condizioni estreme del versante bresciano dell’Adamello e del prospiciente tratto montano alto-atesino, che segnavano ai tempi il confine di Stato ad alta quota. Quello che animò la punta nord della provincia di Brescia fu un duello svoltosi su postazioni di roccia e ghiaccio ad oltre 3000 metri di quota, in condizioni ambientali e climatiche difficilissime, su un ristretto fronte che dall’Adamello conduceva al rilievo dell’Ortles-Cevedale attraverso il Passo del Tonale, per tutti i tre anni e mezzo del conflitto tra Roma a Vienna.

L’inferno bianco dell’Adamello

La “guerra bianca” dell’Adamello fu una battaglia tra gelo e tenebre. Una sfida proibitiva ai limiti della sopravvivenza in cui le truppe italiane ed austriache combattevano sia le une contro le altre sia contro il comune nemico delle condizioni naturali avverse. L’alta montagna era sia fonte di protezione durante le fasi in cui le truppe erano sulla difensiva, offrendo ripari e ancoraggi naturali, che ostacolo per operazioni coperte condotte spesso nelle ore notturne, attraverso una guerra di minature e incursioni che reclamava vittime tra le truppe alpine dei due schieramenti. Soprattutto, era causa di possibili minacce naturali: l’inferno bianco impose un durissimo tributo di sangue. Il crollo dei seracchi, le tormente di neve, lo sganciamento delle valanghe provocarono decine di migliaia di morti su tutto il fronte alpino e non risparmiò l’Adamello.

Non si contarono le morti per gli inedia e assideramenti legati a un contesto in cui, sopra i 3mila metri di quota, l’inverno poteva durare sino ad otto mesi ininterrotti e portare con sé nevicate abbondanti da ottobre a maggio, con accumuli superiori ai 10 metri in ogni settore. La temperatura proibitiva oscillava mediamente in questo periodo dai -10° ai -20°, con punte minime di -40°. Inoltre  il sistema medico-sanitario, che pure agiva al massimo delle proprie possibilità ed era considerato all’avanguardia, si trovava a dover gestire con pochissime risorse una logistica complessa, comprendente trasporto, cura e ricovero  di migliaia e migliaia di uomini sfiancati da una malattia o feriti da colpi di artiglieria.

Sull’Adamello tutte le azioni italiane condotte dal 4° e dal 5° Reggimento Alpini e dai fanti della 1ª Armata con sede a Verona, furono agli ordini del generale Roberto Brusati prima (1915-1916) e di Guglielmo Pecori Giraldi poi (1916-1918). Esse tendevano sostanzialmente a scardinare, direttamente o indirettamente, il caposaldo austriaco dei Monticelli, in modo da permettere alle truppe del Regio Esercito di occupare il Passo del Tonale e dominare le vallate alleggerendo i fronti orientali.

Alpini e imperiali, un duello cavalleresco

Gli austriaci, che altrove nel contesto della Gebirskrieg (“guerra di montagna”) avevano provato a muovere all’offensiva, per larga parte del conflitto si mantennero sulla difensiva appoggiandosi alle retrovie della Festung Trient, la fortezza di Trento che dominava il saliente vicino all’Adamello. Le forze imperiali avevano il proprio nerbo nelle k.k. Gebirgstruppe (Truppe da Montagna), incardinate su battaglioni di fanteria reclutati direttamente nella regione imperiale del Tirolo che conoscevano dettagliatamente il territorio e rafforzate dalle forze della milizia di leva (Standschützen). Gli austriaci sul fronte dell’Adamello si erano arroccati e, nonostante un rafforzamento delle frontiere minore di quello compiuto sull’Isonzo, avevano comunque disposto trinceramenti e scavato numerose caverne lungo la linea del fronte che collegava i Monticelli alle alture del Tonale orientale, contribuendo anche a consolidare le loro posizioni sui Passi Paradiso, Castellaccio e Lagoscuro che dominavano la conca di Ponte di Legno.

Offensive, colpi di mano, scalate notturne dei canaloni alpini, azioni di incursione si alternarono per tre anni in una guerra sfiancante concentrata in settori ben precisi, in cui ogni picco, ogni crinale, ogni vetta rappresentava un nuovo caposaldo strategico da conquistare e consolidare. La campagna primaverile del 1916, ad esempio, fu completamente assorbita dall’assalto italiano al Ghiacciaio del Mandrone, compiuto dai montanari lombardi del 4° Alpini, dotati dei più moderni ritrovati tecnologici e estremamente addestrati. Partendo dal rifugio Giuseppe Garibaldi, ancora oggi crocevia importante per gli alpinisti situato a 2.500 metri di quota sul versante Nord dell’Adamello nel comune camuno di Edolo, gli alpini si impegnarono per settimane nel marzo e nell’aprile 1916 a consolidare le proprie posizioni nella vasta area di “terra di nessuno” che intendevano poter sfruttare. Il capitano Natale Calvi addestrò i suoi uomini all’utilizzo degli sci facendone il primo reparto d’assalto di alpinisti sciatori, un anticipatore del leggendario battaglione “Monte Cervino”. e guidò di persona una serie di ricognizioni esplorative assieme ai suoi ufficiali e sottufficiali conducendo alla conquista del Monte Fumo, di Cresta Croce e del Ghiacciaio del Mandrone.

Tra l’aprile 1916 e il 1917 la battaglia si concentrò a quote estreme, attorno ai 3.400 metri del Corno di Cavento, occupato dagli italiani ma poi investito dall’azione di numerosi reparti d’assalto austriaci attraverso azioni di incursione, gallerie e assalti contro gli alpini a quote proibitive. Per più volte la cima del Corno fu contesa tra i due eserciti nel corso di due anni, e gli austriaci desiderosi di contrattaccare utilizzarono anche l’artiglieria pesante, che nel settembre 1917 investì e rase completamente al suolo l’abitato di Ponte di Legno.

Fu questo l’unico episodio veramente controcorrente di una battaglia che, nella sua immensa tragicitià, fu condotta da entrambe le parti con valore.  Alpini e Kaiserjäger si fronteggiarono per tre anni e mezzo pagando il rischio di generare valanghe, di cadere vittime delle tormente e di subordinare l’addestramento militare ala preparazione alpinistica e la resistenza fisica. I soldati nemici erano, sotto il profilo sociale e identitario, molto più simili tra di loro di quanto fossero, sullo stesso fronte, gli uomini provenienti da parti diverse dei rispettivi Stati che si scontrarono sull’Isonzo: uomini di montagna, abituati a obbedire, dotati di un enorme attaccamento alla propria terra e di un grande senso del dovere, che si combattevano con onore e senza odio tenendo quasi sempre comportamenti cavallereschi.

La fine della “guerra bianca”

Nel 1918 il fronte italiano tenne di fronte alle conseguenze della battaglia di Caporetto dopo la quale, nei mesi successivi, il 13 giugno gli austriaci sferrarono un ultimo attacco per cercare di rompere le linee italiane anche sul fronte dell’Adamello. La Lawine Expedition (“offensiva valanga”) mirava a sfondare le linee del Regio Esercito, portò alla riconquista del Corno nell’ultima vittoria asburgica ma esaurì le forze imperiali, dato che in conseguenza a quanto accaduto sul resto del fronte dopo l’estate si avviò il riflusso. A inizio novembre, mentre a Vittorio Veneto crollava la resistenza degli imperiali, gli austriaci lasciarono il Tonale. Gli Alpini dilagarono da tutti gli anfratti, il crollo del fronte portò all’abbandono della fortezza di Trento di cui l’Adamello doveva essere l’inespugnabile guardiano.

La “guerra bianca” delle tenebre, dei ghiacci e del silenzioso e muto eroismo degli alpini di entrambi gli schieramenti si concluse lasciando dietro di sé i morti conservati nelle nevi e nei ghiacci, i forti abbandonati e le montagne scavate a perenne memoria del passaggio degli italiani e degli imperiali sulle vette dell’Adamello. A oltre un secolo di distanza, è difficile trovare nella storia bellica un esempio analogo di combattimenti prolungati condotti in condizioni tanto proibitive per un lasso di tempo tanto lungo. La storia della guerra bianca dell’Adamello desta ammirazione ma anche un pensiero profondo circa l’assurdità tragica che seppe raggiungere la Grande Guerra. Ma dimostra anche quanto siano vere le parole che, decenni dopo, un grande alpinista come Walter Bonatti pronunciò testimoniando il legame tra uomo e vette: “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”. E la storia di coloro che si arroccarono sull’Adamello, si identificarono con la sua geografia, subirono le conseguenze della sua natura inclemente lo testimonia.

Dopo 94 anni, ecco il discorso dimenticato di Cadorna riabilitato e Maresciallo d'Italia. Parole che spiegano il senso della nostra ultima guerra risorgimentale. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Mentre sotto la Porta dell’Inferno di Rodin vortica il sabba mondialista, rubando la scena alla più sacra delle celebrazioni nazionali, romba, come un tuono lontano, la voce dei grandi personaggi che hanno fatto la nostra storia. Vi proponiamo un documento che non si vede da quasi cent’anni: il discorso – riportato dal Corriere della Sera - con cui, dieci anni dopo la Grande Guerra, il generale Luigi Cadorna riceveva il bastone di Maresciallo d’Italia, il massimo grado militare, insieme al suo omologo Armando Diaz. Il Principe della Guerra e il Duca della Vittoria, come vennero chiamati all'epoca. Come scrivevamo, figura largamente incompresa del nostro Risorgimento, questo generale scolpito nel granito delle sue valli piemontesi, si sobbarcò la parte dura - e a volte durissima - del lavoro per farci vincere la Grande Guerra.  Uno stratega studiato ancor oggi nelle accademie militari americane, che è stato infangato dalla propaganda nostrana e da facili vulgate storiografiche fino a farlo passare per un boia, isterico, ottuso, fragile di nervi. Era un uomo di ben altra pasta e quanto affermiamo è documentato in modo abbastanza completo. Documento plastico della mistificazione, l’omissione continua della seconda parte del suo famoso bollettino di Caporetto. Se nella prima parte, sferzava la pusillanimità di alcuni reparti mal comandati e minati nel morale dai socialisti, nella seconda (sempre censurata dagli storici e dai giornalisti) lodava la fedeltà e la resistenza degli altri. Fu grazie al suo ruggito che il Regio Esercito poté rimettersi in riga, ripiegare in perfetto ordine sulla Linea del Piave che lui stesso aveva fortificato con anni di anticipo e che avrebbe piegato il nemico asburgico. Ma siccome siamo abituati a fermarci solo all’apparenza, a prestar federe alle fole emotive e alle visioni parziali di certa propaganda, il generale che ha vinto per il 70% la guerra europea (secondo una stima dello storico Aldo Mola) viene da noi trattato come una pezza. Eppure, il 14 giugno 1925, a Padova, quando ancora i cuori delle madri, delle mogli, e i moncherini dei mutilati ancora sanguinavano, a soli dieci anni di distanza dalla fine del massacro europeo, in tanti seppero riconoscere che quella durezza di Cadorna era necessaria, vitale, indispensabile. per gestire un fronte immenso con un esercito impreparato. E quella folla gli tributò – racconta il Corriere – acclamazioni assordanti. La riabilitazione completa dell’ex Comandante supremo fu dovuta – paradossalmente – alle pressioni di un combattente che alla guerra aveva regalato già porzioni importanti del suo corpo, il Grande Mutilato Carlo Delcroix. Così, dunque, lo introdusse il Ministro di Giustizia Alfredo Rocco, uno dei più importanti giuristi italiani, sintetizzando in poche frasi di bronzo il suo comando: “E’ gloria vostra o maresciallo Cadorna , l’esercito formato nella penuria di tutto, l’offensiva generosa e temeraria contro un nemico già pronto in tutta la sua potenza; la difesa tenace della porta alpina violata, la vendetta nel piano, fulminea, che si chiamò Gorizia, fiore rosso di passione e di sangue; e la lotta furibonda sulla via di Trieste aspettante e l’ascesa tormentosa dell’Alpe Giulia; Monte Santo, San Gabriele, Monte Nero, Altipiano della Bainsizza. Batté poi l’ora grigia della non meritata sventura, ma la ritirata sapiente e l’arresto meditato sul Piave e il comandamento di resistere o morire è una gloria vostra Maresciallo. Nessuno, vogliamo gridarlo di fronte al mondo, può contendere questa fronda alla vostra corona!”. L’anziano generale prese così la parola e pronunciò il suo discorso che vi riportiamo in fondo per intero. Questo passaggio è particolarmente significativo: “…L’azione e i meriti dei singoli saranno discussi e giudicati poi, dai posteri più liberi e sciolti dalle passioni del tempo; ma sin d’ora il vostro atto che segue quello del Governo del Re , consacra anche in fronte all’avvenire lo spirito unico che animò i comandanti, che collegò i loro sforzi e i loro disegni che li guidò nei momenti più gravi e che oggi li unisce in un sentimento che trascende le ambizioni personali di fronte alla maestà della Patria vittoriosa. E in noi, comandanti, esalta sopra tutto il valore unico costante dei soldati. Poiché - e lo sento con fierezza - gli onori fatti a me in quest'ora vanno oltre la mia persona; vanno al combattente italiano di tutte le  battaglie e di tutte le vittorie; vanno ai vivi e ai morti; a quei milioni di silenziosi eroi a cui ho chiesto il sacrificio di ogni cosa più cara; a cui ho detto che bisognava esser pronti a morire per un altissimo scopo, che essi forse non vedevano sempre, ai quali ho dovuto far spargere il sangue, anche quando il successo pareva lontano, l'offensiva  temeraria, e la lotta senza via d'uscita; coi quali ho anche usato a volte parole dure, dettate dalla necessità e non dal cuore; ai quali non ho potuto dare singolarmente il premio che si meritavano, ma che sento oggi uniti a me e compartecipi della giustizia che mi è resa.” Leggete di seguito il resto del discorso, ascoltate le sue parole, e avrete percezione diretta e personale su quanto sia veritiera la leggenda nera che è stata cucita addosso a questo grande grande comandante, 

Il discorso completo: “Altezza Reale, è con animo profondamente commosso dai ricordi della guerra che dai cittadini di questa nobilissima Padova ricevo oggi le insegne della più alta dignità militare offertemi in commemorazione dei miei giorni in cui, dieci anni orsono, ubbidendo al comando di S.M. il Re, io mossi per guidare l’esercito verso l’adempimento di quei voti nazionali   che ci sono stati lasciati in retaggio dalla generazione del Risorgimento. Le promesse di quelle memorabili giornate della Storia d’Italia non sono state deluse. Il giuramento di ridare alla Patria le sue naturali frontiere e di elevare la nostra dignità morale in un cimento che fu la prova del fuoco di tutti i popoli è stato mantenuto e sciolto a Vittorio Veneto. L’impeto generoso di una nazione levatasi in armi con un sentimento patrio che fondendo tutte le classi, le regioni e le fedi ci lasciò intravedere nell’ora del sacrificio l’ideale di un’Italia concorde, ha spezzato il nostro secolare nemico. Il sangue di cui siamo debitori di ben più che di una conquista materiale di territori non è stato sparso invano. Per questo sento di poter anch’io con tranquilla coscienza accettare oggi i segni di un riconoscimento che va alla fede con cui credetti nelle virtù militari del nostro popolo cercare di preparare in una febbrile vigilia un esercito degno dei destini del mio Paese. Ma mi è grato che quest’atto di riconoscenza mi sia reso insieme all’altro Comandante supremo delle forze combattenti che riassume nel suo nome (Diaz della Vittoria n.d.r.) come in simbolo imperituro la Vittoria italiana e che nelle onoranze rese nello stesso giorno, con lo stesso animo ad entrambi si riaffermi così quella unità spirituale che lega il primo giorno del nostro intervento al compimento glorioso dell’aspra lotta  e illumina coi bagliori della vittoria i lunghi e logoranti anni del Carso. La guerra è stata una, la gloria una sola, e nessuno vorrebbe pesarne gelosamente la parte che gli spetta sulle bilance della storia. Mi basta di sentire, di sapere per accettare il vostro omaggio che coi miei compagni d’arme ho fatto tutto ciò che era in mio potere per obbedire al comando della Patria per tener alto l’onore dell’esercito, per non piegare nelle ore buie che in ogni guerra sono fatali, per difendere con inflessibile volontà questo sacro suolo, assumendo responsabilità terribili di fronte al giudizio degli uomini e al giudizio di Dio. L’azione e i meriti dei singoli saranno discussi e giudicati poi, dai posteri più liberi e sciolti dalle passioni del tempo; ma sin d’ora il vostro atto che segue quello del Governo del Re , consacra anche in fronte all’avvenire lo spirito unico che animò i comandanti, che collegò i loro sforzi e i loro disegni che li guidò nei momenti più gravi e che oggi li unisce in un sentimento che trascende le ambizioni personali di fronte alla maestà della Patria vittoriosa. “E in noi, comandanti, esalta sopra tutto il valore unico costante dei soldati. Poiché - e lo sento con fierezza - gli onori fatti a me in quest'ora vanno oltre la mia persona; vanno al combattente italiano di tutte le  battaglie e di tutte le vittorie; vanno ai vivi e ai morti; a quei milioni di silenziosi eroi a cui ho chiesto il sacrificio di ogni cosa più cara; a cui ho detto che bisognava esser pronti a morire per un altissimo scopo, che essi forse non vedevano sempre, ai quali ho dovuto far spargere il sangue, anche quando il successo pareva lontano, l'offensiva  temeraria, e la lotta senza via d'uscita; coi quali ho anche usato a volte parole dure, dettate dalla necessità e non dal cuore; ai quali non ho potuto dare singolarmente il premio che si meritavano, ma che sento oggi uniti a me e compartecipi della giustizia che mi è resa.” Ma questa cerimonia mentre ravviva i nostri ricordi nella stessa città che della guerra fu uno dei centri bersagliati ed eroici, che conserva a titolo di gloria le sue ferite, non deve essere un semplice sguardo gettato a un periodo superato, come a cosa lontana, ma anche una promessa fatta all’avvenire. Dieci anni or sono, iniziando la lotta contro il nemico, io potevo a molti, dentro e fuori i nostri confini, sembrare un illuso dal troppo facile ottimismo nelle virtù militari di un’Italia che ancora non aveva fatto le sue grandi prove e che i suoi nemici speravano incapace di affrontarle e vincerle. Eppure, la fede nelle forze antiche e nuove di un popolo come l’italiano era in me così salda e cosciente da farmi affermare che la nazione avrebbe saputo battersi contro eserciti di tradizione e di preparazione secolari per conquistare quella posizione nella storia che solo le grandi guerre consacrano in modo definitivo. Oggi mentre ricevo le insegne di un comando che è premio di quella fede, guardando verso il domani, sento di poter rinnovare con accresciuta fiducia il mio presagio in quei destini della Nazione che spero e credo potranno essere conseguiti per le vie pacifiche del lavoro e della collaborazione con altri popoli. Dalla grande prova di questo decennio, al quale non sono mancate le ombre e le disillusioni, io esco però con la convinzione sicura che il popolo italiano non sarà inferiore alle speranze dei suoi esaltatori e dei suoi martiri. Combattendo si è rivelato a se stesso e ha mostrato le possibilità della sua grandezza nella continuità di una tradizione per cui giunse in un secolo di lotta, dalla servitù a Vittorio Veneto. E sono certo che nulla potrà ormai spezzare quella unità morale che è a base di quella anche territoriale e che fu definitivamente consacrata nel sangue sui campi di battaglia. Qualunque possano essere le divisioni amare e gli inevitabili conflitti di idee non è più possibile che gli italiani dimentichino i giorni in cui furono un fuoco solo e un’anima sola, nelle trincee e sotto il fuoco nemico, che si sentano indifferenti o, peggio, ostili gli uni agli altri dopo aver conosciuto il cameratismo e la colleganza di quattro anni di sacrifici in comune. E so che a un appello supremo in nome della Patria, per la difesa dell’onore e della vita nazionale, l’Italia del 24 maggio 1915, potrebbe ribalzare col più ardente spirito, quale si rivelò in quei giorni, rispondendo al comando con un unico grido, dai marescialli ai combattenti di ieri: “W il Re! W l’Italia!”

Navi, fanti e MAS: la Marina italiana nella Grande Guerra. Lorenzo Vita su Inside Over il 3 novembre 2021. La Grande Guerra è per molti italiani “distante” dal mare. Nel pensiero e nella memoria dei libri di storia, la guerra si combatteva sui monti, sulle pietraie del Carso, tra le trincee lorde di fango e sangue e sotto le incessanti detonazioni dei proiettili nemici. Non le onde del mare, ma le vette delle Alpi, a fare da scenografia a quel sacrificio di migliaia di uomini. Non i cannoni delle corazzate e delle navi, ma le mitragliatrici poste dall’altra parte della trincea i simboli del nemico e della morte. Per un Paese che ha visto il suo più grande tributo di sangue sugli altipiani e che aveva come obiettivo strategico terminare, idealmente, le guerre di indipendenza con Trento e Trieste, non può essere diversamente. La terra, le montagne, le trincee hanno in larga parte forgiato una generazione, mietuto una quantità infinita di morti e costruito una mitologia nazionale che va dal Piave a Caporetto fino a Vittorio Veneto. Un’epopea nazionale che fa della terraferma il suo vero sacrario. Tuttavia la Marina Militare, o meglio l’allora Regia Marina, ebbe un ruolo più silenzioso ma non meno importante per la vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Perché se le trincee, le catene montuose e i fiumi erano le frontiere dei due eserciti che si scontravano nella logorante guerra di posizione, era in mare, nell’Adriatico, l’altro fronte in cui combattevano l’Italia e l’Impero austro-ungarico. Ed era lì che passava gran parte della sopravvivenza di un impero che aveva solo una costa da cui poter ricevere rifornimenti: quella balcanica. La componente marittima delle Forze Armate italiane ebbe da subito un compito complesso. Innanzitutto perché il nemico, cioè l’Austria-Ungheria- era a poche miglia dai propri porti. Non si trattava dunque di spedizioni lontane dai propri arsenali e dalla popolazione civile, ma un avversario che si trovava dall’altra parte dell’Adriatico. Un mare che, oltre alla prossimità tra Paesi rivieraschi, offriva anche coste molto diverse tra loro, con quella italiana che ha una conformazione molto più regolare rispetto a quella frastagliata e densa di insenature dell’area balcanica. La Regia Marina si trovava pertanto a dover fronteggiare  non solo un avversario temibile (per quanto la componente più pericolosa e moderna, quella dei sommergibili, era in larga parte attesa dall’industria tedesca), ma anche una triplice sfida. Agli uomini della flotta italiana – non solo imbarcati – era richiesto di colpire il naviglio nemico, proteggere le coste italiane e, infine, bloccare le vie rifornimento dell’Impero dal Mediterraneo: in pratica Otranto doveva essere un punto di strozzatura ideale per frenare l’approvvigionamento del nemico. Un complesso sistema strategico cui si aggiunse anche l’avvento della componente aerea della Regia Marina, con gli idrovolanti che compirono innumerevoli missioni su tutto il fronte (si parla di 36mila operazioni). Esisteva dunque un piano di operazioni marittimo diversificato. Da una parte quello strategico del controllo dell’Adriatico (oltre a quello più sconosciuto dei laghi) e delle principali basi e città dell’Alto Adriatico, a cominciare da Venezia. In questo caso, non va dimenticato anche il coinvolgimento della Marina francese e di quella britannica, preoccupate del Mediterraneo come lo era anche la Marina tedesca. Dall’altra parte, il secondo piano di operazioni, che poi è quello rimasto più limpido nella memoria collettiva, era dato da una serie di missioni dall’elevato simbolismo e che confermavano un aumento delle capacità tattiche della Regia Marina. I marinai italiani vengono così ricordati per le missioni contro le basi navali austriache nell’alto Adriatico, in particolare con l’impiego dei MAS (Motoscafo Anti Sommergibile). Con questo nuovo tipo di unità, armata di mitragliatrice, siluri e bombe, i militari ingaggiarono con la Marina austriaca una guerra logorante, i cui più importanti episodi furono l’affondamento della Wien, la cosiddetta “beffa di Buccari“, l’affondamento della Szent Istvan, passata agli onori come l’Impresa di Premuda (missioni guidate dal comandante Luigi Rizzo). Infine, sullo scadere della Grande Guerra, l’ultima missione: l’affondamento della corazzata Viribus Unitis nel porto di Pola da parte di Raffaele Rossetti Raffaele Paolucci. Una missione “non convenzionale” – preludio delle più importanti operazioni delle forze speciali – che chiuse l’impegno della Marina nella Grande Guerra, visto che solo due giorni dopo l’Austria-Ungheria firmò l’armistizio con l’Italia. Missioni che rimasero scolpite nell’immaginario di tante persone, anche per la presenza di quello che poi divenne il “poeta-vate” Gabriele d’Annunzio. E che se il passare del tempo rischia di vedere sfumare nella percezione delle nuove generazioni, non devono essere abbandonate: perché parte di una memoria collettiva che serve a ricordare cosa fu quella Grande Guerra per gli italiani.

Il Milite Ignoto che vinse la Grande Guerra e fece terminare il massacro per l'Europa. Una settimana dopo Vittorio Veneto la Germania si arrese. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 26 ottobre 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. “Tutto sopportò e vinse il Soldato. Perciò al Soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione. Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio”. Sono parole dell’allora colonnello Giulio Douhet - uno dei più geniali teorici militari al mondo - scritte sulla rivista da lui fondata, Il Dovere, nel 1920, due anni dopo la fine vittoriosa della Grande Guerra. Grazie al suo intervento, l’Italia ebbe il proprio Milite Ignoto che ci apprestiamo a celebrare il prossimo 4 novembre nel Centenario della sua traslazione e tumulazione. A questo proposito, vale la pena di ricordare che la Prima guerra mondiale L'HANNO VINTA GLI ITALIANI, non solo per se stessi, ma per tutta la Triplice Intesa, britannici, americani, francesi compresi. Il dato è oggettivo: appena sei giorni dopo la nostra vittoria finale sull' Austria-Ungheria a Vittorio Veneto (4 novembre 1918) la Germania del Kaiser, travolta dal panico, preda di ammutinamenti e diserzioni di massa, firmò l'armistizio, a Compiègne, l'11 novembre 1918. Il tracollo tedesco fu dovuto al fatto che la resa dell'Austria-Ungheria avrebbe reso possibile agli Italiani invadere la Germania dalla Baviera, aprendo un altro fronte meridionale che sarebbe stato del tutto insostenibile. Ciò è dimostrato dagli accordi armistiziali con l'Austria, che contemplavano proprio tale possibilità. In quel contesto, l'apporto franco-britannico alla sconfitta degli Imperi centrali fu pressoché nullo, dato che mentre noi vincevamo al Sud, i nostri alleati, sul fronte occidentale, attendevano in piena stasi l'intervento degli Americani, pianificando grandi manovre per il 1919, ANCORA IN PREVISIONE DI UN LUNGO ANNO DI GUERRA. In questo modo, a dirla tutta, gli Italiani hanno risparmiato la vita anche di circa un milione fra militari e civili Austriaci, Tedeschi e Ungheresi  (che in quattro anni di guerra 1914-’18 avevano già totalizzato circa 4 milioni di morti). Capite?  In sostanza, l'Italia, scesa nel conflitto UN ANNO DOPO rispetto a Francia e Gran Bretagna, con una funzione “secondaria”, ha vinto l'intera Grande Guerra togliendo UN ANNO PRIMA le castagne dal fuoco per tutti e interrompendo il massacro. Certamente, alla vittoria finale hanno concorso tutti i paesi dell’Intesa, con grossi sacrifici, ma così come alla Russia non si può contestare il primato di essere entrata a Berlino e di aver sconfitto la Germania nel 1945, così oggi all’Italia si deve riconoscere il merito di aver vinto e fatto terminare il Primo conflitto mondiale. Un fatto che, nella retorica politicamente corretta di oggi, non viene quasi mai ricordato, forse perché ritenuto poco “inclusivo”. Di sicuro non include l’onore alla nostra Nazione. Ci dispiace per gli aedi del pensiero unico, ma noi abbiamo come primario e ineludibile DOVERE quello di onorare i nostri nonni e bisnonni che si sono sacrificati per la Patria, e se un secolo fa i confini della stessa erano considerati SACRI E INVIOLABILI, non è che possiamo cambiare la storia a posteriori e fingere che i nostri soldati al fronte cercassero “il dialogo con le altre culture europee” o “stessero costruendo l’Europa unita”. I nostri avi hanno combattuto e vinto gli austro-ungheresi, allora nemici. PUNTO. Il loro sacrificio va ricordato in quel contesto storico, e se oggi abbiamo pacifici rapporti con l’Austria, e col resto dei paesi europei lo dobbiamo al fatto che, proprio per il sangue sparso dai nostri antenati, abbiamo maturato la consapevolezza che è preferibile la pace alla guerra. Così, la ricorrenza del Milite Ignoto ci ricorda quell’uomo al quale ininterrottamente tutti gli Italiani possono tributare omaggio, finalmente senza divisioni o partigianerie. Non è un eroe nazionale, non un grande generale, né un Re, nemmeno un Presidente della Repubblica. Forse era un umile contadino della Campania, o un montanaro del Piemonte, un irredentista trentino, o un pescatore abruzzese... Vi è anche una possibilità su 200.000 - tanti furono i corpi non identificati al termine della Grande Guerra - che si possa trattare proprio di quel sottotenente figlio di Maria Bergamas, la madre che scelse una delle 11 salme raccolte sotto le volte della basilica di Aquileia. Non lo sapremo mai. Ed è giusto così.

I cento anni del Milite Ignoto. La memoria e la storia. Vincenzo Grienti su Avvenire il 25 ottobre 2021. Aquileia, 28 ottobre 1921. E’ una donna a scegliere la salma tra le undici che rappresentavano i diversi fronti su cui l'Italia aveva combattuto il primo conflitto mondiale. Era la madre di Antonio Bergamas, sottotenente del Regio Esercito, originario di Gradisca d’Isonzo, suddito austro-ungarico, che sotto mentite spoglie era passato a combattere con gli italiani cadendo sul campo di battaglia. Cento anni dopo si fa memoria di quel giorno ad Aquileia. Da lì partì il viaggio sulla linea ferroviaria che toccò Venezia, Bologna, Firenze e Roma. Un treno che a velocità moderatissima passava di stazione in stazione dando l’opportunità alla popolazione di onorare il caduto simbolo. “Fu un giorno necessario. La prima guerra mondiale è stata una guerra di massa che ha prodotto una morte di massa e, di conseguenza, un lutto di massa in milioni di famiglie, le cui coscienze sono state marchiate da un dolore incommensurabile – spiega Luciano Zani, storico della Sapienza Università di Roma -. A questo dolore era necessario dare una risposta e uno sfogo, una ragione e un senso. Il lutto di massa ha generato il culto di massa dei soldati caduti, comune a tutti i paesi coinvolti nella guerra. La sacralizzazione della nazione ha accompagnato la guerra e provato a giustificare i sacrifici fatti per la patria. Quel giorno, e i giorni successivi fino al 4 novembre, sono stati un rito collettivo, preparato e pianificato con cura, ma anche spontaneo e partecipato da centinaia di migliaia di italiani, che resero onore alla bara contenente i resti del milite ignoto, scelto da Maria Bergamas tra undici salme, a nome di tutte le madri e le vedove d'Italia. La scelta di un soldato senza nome, tra i milioni di caduti e dispersi senza nome, fu l'idea che consentì di conciliare il rispetto dell'individualità di ogni singolo soldato e l'impossibilità di restituirla a ognuno di loro”. Poi il 4 novembre 1921 la salma giunse a Roma, all'Altare della Patria. Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto, che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro fu portato a Santa Maria degli Angeli. Momenti intensi tra culto e memoria che cento anni dopo sottolineano il senso di una celebrazione che si rinnova attorno al monumento dedicato al Milite Ignoto anche in migliaia di Comuni italiani.“La celebrazione dei soldati morti, con nome e senza nome, nella prima guerra mondiale non dovrebbe soltanto farne il simbolo della morte sacrificale per la salvezza della patria e della perenne resurrezione dei caduti nella memoria collettiva della nazione – prosegue Zani -. La memoria diretta di quegli anni è morta con l'ultimo reduce scomparso. E' tempo di dare la parola alla storia. E la storia ci dice che quel rito del 4 novembre 1921 fu purtroppo una parentesi di silenzio, di raccoglimento e di lutto tra due epoche storiche. La prima, con la guerra, segnò il suicidio dell'Europa, soprattutto quella imperiale, e la catastrofe della sua civiltà: una crisi demografica spaventosa, una intera "generazione perduta", circa dieci milioni di morti e un ingente numero di mutilati e invalidi, milioni di profughi e di deportati a causa della ridefinizione dei confini degli Stati; la perdita del primato economico dell'Europa. La seconda epoca – aggiunge lo storico - vide in Italia l'appropriazione indebita da parte del fascismo del combattentismo e dei miti della guerra e della vittoria, la traduzione dell'epopea della trincea in forme violente di politica armata e militarizzata, la rapida torsione dei valori nazionali in nazionalismo estremo fino al trionfo del fascismo con le sue nuove guerre. Allora ogni Comune d'Italia che voglia dare la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto dovrebbe parlare ai giovani del sacrificio dei caduti come necessità della pace e non esaltazione della guerra”. Un ricordo, quello dei caduti di tutte le guerre che richiama ad essere "custodi della memoria e costruttori di storia" per citare il 29° Congresso dell'Associazione nazionale reduci dalla prigionia e loro familiari appena concluso a Roma, ma anche un invito rivolto ai giovani per capire il passato e lavorare per il futuro facendo tesoro delle testimonianze dei nonni e dei bisnonni che, come gli IMI, gli internati militari italiani, dopo l’8 settembre 1943 e la firma dell’armistizio, preferirono scegliere la prigionia dicendo "no" al nazifascismo attraverso la loro resistenza senza armi. “Gli Internati Militari Italiani ci hanno raccontato più volte, nelle loro memorie scritte e orali, che per sopravvivere dignitosamente in un lager non bastano il cibo per sfamarsi e una coperta per difendersi dal freddo” sottolinea Luciano Zani, ma servono "calorie spirituali". Da quelle più semplici e immediate: “Una preghiera come conferma e conforto nella fede, un sorriso o un gesto di solidarietà di un compagno di baracca, la lettura di un libro, l’arrivo di una cartolina o di una lettera dei propri cari” a quelle “più elaborate e complesse, collettivamente pensate e realizzate: la musica, la poesia, la pittura, il teatro, lo sport, il gioco in tutte le sue forme”. Nutrire il cervello, anche se lo stomaco protesta, dice Zani ricordando le sofferenze degli Internati militari italiani, “serve a vincere la spersonalizzazione voluta dai tedeschi, la riduzione a numero e ad arnese da lavoro. Recuperare il passato, Shakespeare, Mozart, nel lager modella un nuovo e diverso presente, che chi avrà un futuro potrà vivere e rivivere come il proprio passato, sottratto al potere dell’indifferenza e della deumanizzazione”. Lo sa bene Michele Montagano, 100 anni il 27 ottobre, sottotenente degli alpini nei giorni che seguirono l’8 settembre 1943. Il suo “no” a collaborare con i nazifascisti lo portò alla prigionia e all’internamento come gli altri 650mila militari italiani. Oggi il suo ricordo va ai caduti di tutte le guerre e all’importanza “di non dimenticare” chi ha dato la vita per l’Italia. “In mille occasioni ho raccontato la mia storia che rimane ancora viva nella mia vita, così come su migliaia di altri miei compagni che, come me, hanno condiviso un destino dietro il filo spinato, sottoposti a violenze e umiliazioni e affrontando momenti difficili e molto duri per aver detto NO alla collaborazione con il nazifascismo – ha avuto modo di dire più volte Montagano -. Ogni volta che rendo la mia testimonianza, ci tengo a sottolineare che, pur essendo difficile perdonare, sono riuscito a passare attraverso il tragico mondo concentrazionario senza odiare nessuno, neppure i nazisti, anche se loro, per quasi venti lunghi mesi, hanno cancellato dal consorzio umano il nome del tenente Michele Montagano, sostituendolo con il numero 27539 come IMI e con il numero 370 come politico KZ”. Nei giorni in cui Montagano compie cento anni cade l’anniversario di Aquileia. Una coincidenza che richiama alla memoria quella “inutile strage” che fu la Grande Guerra, per citare Benedetto XV, e la tragedia della Seconda guerra mondiale che chiamò al fronte Montagano e altri giovani italiani alcuni dei quali non tornarono più. Un insegnamento per le giovani generazioni affinché custodiscano la memoria per costruire la storia futura di un mondo in pace e senza conflitti.

Il Milite Ignoto. Ecco come, cento anni fa un corpo dimenticato diventò simbolo della Nazione. Matteo Sacchi il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Ossa sparse, mescolate. Brandelli di corpi immarcesciti e misti alla terra, povere cose che un tempo erano vita, carne, sangue, persone. Ossa sparse, mescolate. Brandelli di corpi immarcesciti e misti alla terra, povere cose che un tempo erano vita, carne, sangue, persone. Povere cose a cui è difficile dare una sepoltura, un nome. E che dai campi di tutta Europa, dove la natura inizia a reimpossessarsi delle trincee e delle «terre di nessuno», interrogano le coscienze dei vivi. Levano loro il sonno. Questo l'amara veglia di un'Europa che entrata, sonnambula, nel Primo conflitto mondiale non riesce più ad assopire il senso di colpa, milioni di morti e cinque anni dopo. Senza contare le centinaia di migliaia di madri, padri, figli che continuano ad invocare che almeno il disperso, colui che non è mai tornato dall'inferno del campo di battaglia, possa dirsi morto, possa riposare in pace. Così nasce, e si diffonde tra i Paesi che hanno partecipato al conflitto, l'idea del Milite ignoto. Di un corpo anonimo che si faccia simbolo. Che incarni tutte le sofferenze della nazione e, in qualche modo, dia pace a chi pace non può più avere. Nel caso italiano il milite ignoto, prescelto tra 11 bare anonime, venne alla fine tumulato nel Vittoriano il 4 novembre del 1921, cento anni fa. Il trasporto della salma dalle zone del fronte verso Roma si trasformò in una costante mobilitazione di masse. In un momento di presa di coscienza collettiva, di catarsi ma anche di tensione. Perché il corpo di quel soldato senza nome rivestì, per un intero popolo, significati molto diversi. Per capirli è di grande aiuto il libro che verrà pubblicato proprio il 4 novembre per i tipi della Leg: Il milite ignoto. Storia e mito di Laura Wittman (euro 20, pagg. 278). Il volume, che vanta anche un corposo materiale fotografico, racconta nel dettaglio tutta la vicenda. Ma sopratutto il clima complesso in cui si sviluppò. A partire dalla proposta lanciata dal colonnello Giulio Douhet che diede il via alla vicenda. «Tutto sopportò e vinse il nostro soldato. Tutto. Dall'ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri che sin dal principio cominciarono a meravigliarsi del suo valore, quasi che gli italiani fossero dei pusillanimi, alla calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità... Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio». Come si vede già da questa formulazione dell'agosto 1920 - Douhet sostenne sempre che l'idea non era sua ma che nasceva direttamente dal basso, dai combattenti - sotto la figura del Milite si muovevano anche idee di critica e di contestazione verso la politica del governo. Spaziavano dal pacifismo al rifiuto della vittoria mutilata che animava la ribellione dannunziana. Non a caso d'Annunzio declinò, come spiega la Wittman, la partecipazione alle cerimonie ufficiali anche se dedicò al Milite pagine accorate dell'edizione 1921 del suo Notturno: «Dentro la basilica di Aquileia una madre dolorosa sceglieva tra le undici bare innominate quella che sta per discendere nel monumento...». Le forze politiche tentarono di sterilizzare e di incanalare questi sentimenti quando, in fine, licenziarono quasi all'unanimità il progetto di legge per la «Sepoltura della salma di un soldato ignoto», presentato alla Camera dei deputati il 20 giugno 1921, pochi giorni prima delle dimissioni del quinto governo Giolitti. Si procedette in fretta, ma spostando il luogo dell'inumazione al meno problematico altare della Patria, lontano da salme di Re. Giunti al dunque, il 4 agosto, Luigi Gasparotto, ministro della Guerra del nuovo governo Bonomi, chiese agli oratori di rinunciare a pronunciare discorsi e proseguire «senza abuso di parole», anche per evitare interventi antimilitaristi. Anche così il carico di emozione e di dolore, che si materializzarono attorno all'evento, furono, nel caso italiano, troppo forti per essere ridotti ad una formula univoca e governativa. Non ci riuscì del resto nemmeno, negli anni successivi, la propaganda di un fascismo che voleva farsi Stato. Uno dei pregi del testo della Wittman è proprio quello di scoperchiare, e raccontare nel dettaglio, queste tensioni emotive sotterranee. A partire dal fatto che la tomba «celebra l'essenza più profonda e primitiva del corpo a discapito dell'identità... come per dire che le parole erano state annientate». E quella corporeità straziata, che doveva essere di tutti, richiese difficili equilibri, sospesi tra il burocratico e il sacrale, tra la paura della morte e il senso di cameratismo, tra l'apotropaico e la retorica. Si creò una apposita commissione per recuperare undici corpi. E quasi dar sostanza ad un'altra frase dannunziana: «Voi gente lorda e greve di sotterra, voi in quel punto non eravate se non fiamma celere, non eravate se non anima splendida, come in un Resurressi». E perché il «corpo mistico» fosse scelto a caso si cavillò di bare assolutamente uguali, si discusse di posizioni, di chiodi, di venature del legno. Solo il caso, attraverso gli occhi di una madre che aveva perso il figlio in guerra senza riaverne le spoglie, doveva scegliere, nella basilica di Aquileia, questo Alter Christus senza nome. Il compito toccò, il 28 ottobre 1921, a Maria Maddalena Bergamas. Avrebbe dovuto rappresentare l'Italia orbata dei suoi figli (altri Paesi avevano preferito un uomo per la scelta), posare il fiore bianco sulla bara prescelta. Fuori programma, si fermò davanti alla seconda delle undici bare, in preda a improvviso dolore, «come se avesse visto il corpo al suo interno», si strappò il velo e lo gettò sulla cassa. Nessuna trascendenza ma un lutto oscuro e ctonio. Quasi una chiamata dal mondo dei morti. Era l'inizio del lungo percorso che portò il Milite a Roma. La nazione aveva un simbolo che poi sarebbe stato tirato a destra dal fascismo e a sinistra dalla Resistenza. Ma per molti che andarono a vederlo passare era «il figlio senza nome della nazione...» che «si era alzato ed è disceso nel suo cammino come un fiume». E tanto doveva bastare per chi aveva perso tutto, persino un corpo su cui piangere. Il resto era e resta vuota retorica.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a ti

QUANDO LUCHINO VISCONTI E FLORESTANO VANCINI PROVARONO A RISCRIVERE LA STORIA CINEMATOGRAFICA DEL RISORGIMENTO. Michele Eugenio Di Carlo (pubblicato sul quotidiano l'Attacco il 18 settembre 2021). Nel 1954, il milanese Luchino Visconti con “Senso” , l’adattamento cinematografico di una novella di Camillo Boito , aderisce alla critica gramsciana sul Risorgimento, prendendo definitivamente le distanze dai toni celebrativi e propagandistici e presentando una visione esclusivamente antiretorica e critica. Antonio Gramsci che, tra l’altro, nel 1920 su “Ordine Nuovo” scrive che «Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce, che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti». Il regista Florestano Vancini, nel 1972, con il film “Bronte” , abbatte definitivamente il mito consolidato che la tradizione italiana aveva costruito intorno al periodo risorgimentale. Un periodo che viene visto da Vancini come denso di aspettative deluse e di occasioni mancate, a partire dalla non partorita repubblica democratica sostituita da una monarchia sabauda asfittica, come visto, sia sul piano delle libertà che su quello della giustizia sociale. La critica alle carenze e alle omissioni del mondo accademico diventa esplicita e matura negli ambienti intellettuali, tanto che Fulvio Orsitto scrive: “Pur non sanando del tutto il rapporto problematico che la storiografia accademica, la settima arte si avviava ad acquisire la maturità necessaria per provare ad effettuare una vera e propria invasione di campo e per offrire pellicole storiche finalmente degne dello status delle fonti […] Pertanto, seppure con metodi d’indagine e d’espressione diversi dalla ricerca storica classica, un’opera come Bronte rappresenta il vertice espressivo di quell’ansia di realtà che ben rappresenta l’approccio nei confronti della storia esercitata dagli intellettuali italiani nel corso degli anni Sessanta ”. Vancini non esita a ribaltare luoghi comuni e stereotipi e ricostruisce la storia con una nuova visione prospettica: quella dei vinti e dei ceti sociali deboli, con un’ottica che, collegando l’epoca risorgimentale all’attualità, ne mette in rilievo tratti tipici e comuni quali la lotta di classe, le pulsioni repressive, la corruzione dei livelli politici e burocratici, il ruolo dei capitali e delle diplomazie europee. In “Bronte”, secondo Sergio Toffetti, “si incrociano il meridionalismo progressista, la revisione storica dell’impatto sociale dell’unificazione italiana, le ricerche d’archivio sugli aspetti più controversi dell’epopea garibaldina e quel cinema di impegno civile, nato con Francesco Rosi ed Elio Petri […] che utilizza la finzione ed il racconto cinematografico […] per portare alla luce la faccia nascosta del potere ”. Quel potere, appunto dalla «faccia nascosta», che ha saputo sapientemente occultare la vera storia del Risorgimento e che sull’epopea garibaldina ha costruito un mito, che Vancini nel film “Bronte” vuole ricondurre sui binari della realtà storica. Fulvio Orsitto, docente presso la California State University, esperto in Storia del cinema italiano, curatore per l’editore Vecchiarelli di un pregevolissimo testo che analizza compiutamente il rapporto tra cinema italiano e Risorgimento, ammette che il cinema italiano, da quello muto delle origini a quello contemporaneo, presenta come vocazione costante nel tempo quella di occuparsi della storia. Una vocazione che non nasconde la tentazione di guardare al passato per offrire soluzioni alla società del presente e per delineare al meglio gli orizzonti del futuro. Addirittura, Guido Cincotti , il primo studioso, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, a materializzare analiticamente il rapporto stretto ma controverso tra il cinema italiano e il Risorgimento, manifesta la netta impressione che la nascita stessa della cinematografia avvenga nel segno del Risorgimento. È del tutto evidente agli specialisti che il cinema muto degli inizi del Novecento abbia una inclinazione unicamente celebrativa dell’Italia liberale al potere sin dall’unificazione. La prova più evidente di questa tendenza quasi pedagogica è il film “La presa di Roma” di Filoteo Alberini , che nel 1905 celebra Crispi e la monarchia sabauda con una rievocazione agiografica che sconfina nel fantastico e nel mitologico, avente l’unico intento di mettere al riparo da ogni possibile rivendicazione l’autorità di quello stato che proviene chiaramente in linea retta dal processo unitario risorgimentale. È l’epoca in cui la letteratura risorgimentale si evolve nella sua trascrizione cinematografica. È, ad esempio, il caso del romanzo diventato best seller “Il Dottor Antonio” di Giovanni Ruffini e di “Cuore” di Edmondo De Amicis , per il quale vengono presentate varie versioni dal 1911 al 1916. Su questo periodo, in cui la Destra liberale torna al potere prima con Zanardelli poi con Giolitti, Roberto Balzani ne “Il Risorgimento nell’Italietta”, chiarisce che l’uso propagandistico e celebrativo dell’iconografia risorgimentale ha un doppio effetto: il primo perché «il Risorgimento ne esce in parte secolarizzato, privato di ogni asperità polemica, e quasi addomesticato»; il secondo quando «si trasforma in oggetto di culto a disposizione di una nuova, bene visibile, “divinità laica”, la patria».

Ricordato l'80° dell'europeista Manifesto di Ventotene, dimenticati i 200 anni di Anita Garibaldi. Andrea Cionci Libero Quotidiano l'1 settembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Per uno di quegli strani paradossi della storia, nel periodo in cui maggiormente si tende a rivalutare la figura femminile, è stata del tutto dimenticata dalle Istituzioni l’eroina delle eroine italiane, la creola brasiliana Anita Garibaldi, nel 200° della nascita. Stessa sorte era toccata, in luglio, alla principessa Cristina di Belgiojoso  nel 150° della morte. Queste donne straordinarie forse scontano la pecca di aver tessuto i destini del nostro Risorgimento, come vere “Parche” in tricolore. E la storia patria, si sa, non va più di moda. Ad Anita è stato preferito l'80° del Manifesto di Ventotene dei fratelli massoni Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Così - ironia - l’omaggio più importante a lei tributato resta ancor oggi il monumento bronzeo sul Gianicolo, a Roma, opera di Mario Rutelli, voluto e inaugurato nel 1932 da Mussolini alla presenza dei Sovrani: “Il governo fassista – declamava il Duce con l’inconfondibile accento romagnolo - rappresenta Anita galoppante, come guerriera che insegue il nemico, e madre, che protegge il figlio” . Ma, realmente, Anita seppe coniugare queste due anime così apparentemente lontane? Negli ultimi decenni, spesso è stata dipinta come una sorta di pasionaria proto-femminista, anche attingendo a un’aneddotica quasi del tutto priva di riscontri storici. Della sua vita, prima dell’incontro con Garibaldi, si sa pochissimo, se non che era nata intorno al 30 agosto 1821, figlia di un mandriano di Laguna, nello Stato brasiliano di Santa Catarina. Nel luglio 1839, era già sposata con Manuel Duarte de Aguiar quando incontra Giuseppe Garibaldi: i due si innamorano perdutamente e già in ottobre la diciottenne Anita è imbarcata su una nave. Per dieci anni condividerà l’inquieta e pericolosa vita di Garibaldi combattendo al suo fianco, in ruoli di difesa munizioni o persino in attacchi navali e terrestri. Un anno dopo, durante la battaglia di Curitibanos, viene catturata dalle truppe imperiali brasiliane: ottenuto il permesso dal comandante nemico di cercare il cadavere del suo uomo sul campo di battaglia, ruba un cavallo e riesce a scappare. Era infatti una straordinaria cavallerizza, tanto che, si dice, perfezionò  lo stesso Garibaldi nell’arte di cavalcare. Nello stesso anno, nasce il primogenito Domenico Menotti chiamato così in onore del patriota modenese Ciro Menotti. Pochi giorni dopo il parto, gli imperiali circondano la sua casa, uccidono le sentinelle e tentano di farla prigioniera, ma Anita, con il neonato in braccio, scappa da una finestra, monta in sella e si dilegua nel bosco dove riesce a sopravvivere per quattro giorni, senza viveri e con il bimbo al petto, finché Garibaldi e i suoi non la trovano. Proprio da quel pargoletto discende donna Costanza Ravizza Garibaldi che ci racconta: “Menotti, che la ebbe fino ai nove anni, la ricordava come una madre dolcissima. Fu una donna che seppe adattarsi a qualunque situazione: quando c’era da combattere, combatteva come un uomo, e quando c’era da fare la mamma stava in casa e badava ai figli. Di lei ci sono rimaste poche “reliquie”: in famiglia conserviamo il piatto da lei usato fino a pochi giorni prima di morire di febbri, al 5° mese di gravidanza, durante la ritirata dalla sconfitta Repubblica Romana, nel 1849. Poi uno scialle, un vestito e un paio di forbici da sarta, conservati in vari musei del mondo. Ma l’esempio che lascia alle donne di oggi è quello di una donna a tutto tondo: adattarsi, , affrontare la vita con forza e coraggio, senza lamentarsi e mantenere il nostro carisma femminile, che non coincide col «diventare uomini», ma nel rimanere quello che siamo”. Un grazie all’Istituto Internazionale di Studi e la Società Mutuo Soccorso “Giuseppe Garibaldi” che il 3o agosto hanno omaggiato le spoglie dell’Eroina dei Due Mondi presso il suo monumento.

Storia di Peppino Jr. Garibaldi, che finì in cella con Pertini e Saragat. Il nipote dell’eroe dei due mondi fu arrestato dai nazisti e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Solo l’8 settembre lo salvò dal plotone di esecuzione. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 agosto 2021. Il Messico è pieno di vie e piazze dedicate a Garibaldi. Una si trova proprio al centro della capitale. Ma non è il Giuseppe Garibaldi che viene subito da pensare. Parliamo del nipote. Si chiama anche lui Giuseppe, ma veniva chiamato Peppino, naturalizzato in Josè. Suo padre, Ricciotti Garibaldi – nato in Uruguay – era il figlio, appunto, di Giuseppe Garibaldi e Anita. La storia di Ricciotti è degna di nota. Figlio quartogenito del grande eroe dei Due Mondi, era salito sul treno Roma – Sulmona per inaugurare la nuova impresa ferroviaria, in veste di deputato dell’appena nato Regno D’ Italia. Ma il treno si fermò in una minuscola stazione per ricostruire le sue scorte di carbone e intraprendere le nuove salite verso l’Abruzzo: Riofreddo. La temporanea sosta a Riofreddo, piccolo comune romano, bastò a Ricciotti per sceglierlo come luogo di un futuro investimento. Il figlio di Giuseppe Garibaldi comprò un terreno e iniziò a costruire le fondamenta per quella che doveva essere una dimora estiva. I fatti andarono diversamente. L’avventatezza di Ricciotti Garibaldi negli affari era proverbiale e in pochi anni costò al battagliero figlio dell’eroe dei Due Mondi, tutto il proprio capitale. Secondo la legge dell’epoca, a Ricciotti venne lasciata in dotazione solo la proprietà di minor valore, per permettergli di sopravvivere al proprio disastro. Per l’Italia, Ricciotti e la sua numerosa famiglia dovevano scegliere di vivere a Riofreddo oppure emigrare. L’arrivo nel piccolo paese della provincia romana venne però salutato con entusiasmo dal nucleo familiare. Ricciotti aveva sposato a Londra Constance Hopcraft, una donna dotata di grandissimo carattere, capace di sostenere spesso con le sue sole forze l’intera famiglia. E con lo stesso impeto, Costanza trasformò le tre stalle presenti sul terreno al momento dell’acquisto in quella che nel tempo sarebbe diventata Villa Garibaldi, oggi sede di un suggestivo museo. A pensare che prima ancora di conoscere sua moglie, a Londra Ricciotti ebbe la possibilità di andare a trovare Karl Marx e Engels. La sua popolarità fra circoli operai e anarchici aumentò e, dopo la morte di Giuseppe Mazzini, assieme a qualche mazziniano e a qualche garibaldino, fondò, nell’agosto 1872, riunendo 300 persone al teatro Argentina, l’associazione dei Franchi cafoni o “associazione dei Liberi Cafoni”, denominazione con richiami contadini, e probabilmente di ispirazione bakuniana con cui avrebbe voluto riunire i democratici italiani per organizzare la “democrazia pura”. Il nome dell’organo di stampa del movimento, “Spartacus”, è indicativo dei propositi rivoluzionari dell’associazione, che tra i suoi obiettivi poneva quello del suffragio universale. L’associazione ben presto assunse i caratteri di associazione di ideali socialisti finendo in poco tempo per essere disciolta dalla questura romana. Tutti i figli di Ricciotti mantennero fede al mito di nonno Giuseppe. Tutti si impegnarono, a vario titolo nelle cause indipendentiste, irredentiste, nazionaliste. Alcuni scelsero strade opposte, altri morirono da eroi negli assalti alla baionetta sul fronte trentino. Ma tra loro spicca il primogenito Giuseppe (detto Peppino), nato a South Jarra, in Australia, che fece dei viaggi e dell’impegno politico il proprio credo. Allievo del collegio tecnico di Fermo, fuggì per arruolarsi col padre nella spedizione del 1897 in Grecia durante la guerra greco- turca e in seguito si stabilì a Buenos Aires. Nel 1903 offrì i suoi servizi in Sudafrica nelle guerre boere come volontario per l’esercito britannico e poi combatté in Venezuela contro Cipriano Castro durante la cosiddetta Rivoluzione liberatrice. Arrivò in Messico all’inizio del 1911 per unirsi alle forze maderiste, quelle capeggiate da Madero, considerato un paladino della democrazia messicana e propugnatore di profonde riforme sociali. Partecipò a diverse battaglie nello stato di Chihuahua, tra cui la battaglia di Casas Grandes contro l’esercito federale di Porfirio Díaz, dopodiché raggiunse il grado di generale attirandosi persino le ire del celebre anarchico Pancho Villa, che gli giurò vendetta e tentò di addirittura di eliminarlo fisicamente. Successivamente fu nominato capo della cosiddetta Legione Straniera, che riunì una quarantina di individui e in cui lavoravano volontari di diverse nazionalità. Tanti erano italiani. Ma la sua designazione, inizialmente, creò malcontento. Quando trionfò la rivoluzione maderista, Garibaldi decise di lasciare il Messico. Andò in Grecia nel 1912 per combattere nella prima guerra dei Balcani contro la Turchia, e vi rimase fino al 1913. Ma non finisce qui. Ora viene il bello, ed è una storia poco conosciuta. Il buon Peppino decise di tornare in Italia nel 1922 e assieme a un altro nipote di Garibaldi, fondò il Movimento “Italia Libera” per opporsi all’avanzare fascista, che però non ebbe successo. A quel punto fondò anche una vera e propria banda armata con l’intento di uccidere Benito Mussolini e rovesciare il regime che si stava instaurando. Diverse qui sono le ricostruzioni storiche, ma pare che tale banda fosse appoggiata da Domizio Torriggiani, Gran Maestro della Massoneria Italiana e dal fratello Ricciotti. Un tentativo di colpo di Stato, intensificato dopo il ritrovamento del deputato socialista Giacomo Matteotti. Sul piano per eliminare Mussolini c’era pieno accordo tra i fascisti dissidenti e i partiti di opposizione. Il piano fallì, la dittatura si instaurò e Peppino fu costretto a fuggire negli Stati Uniti. Furono anni bui, rischiarati solo da un matrimonio, che sarà molto felice, con Maddalyn Nichols, una giovane americana appartenente ad una famiglia importante. Peppino dovette tuttavia condurre una vita modesta, e ricorse all’aiuto della sorella Josephine ( Giuseppina), per ritornare in Italia nel 1940. Il fratello Ricciotti tenta di riunire la famiglia sotto l’egida di Peppino per pesare sulla situazione interna italiana. Anche quello fu l’ennesimo fallimento. Nel 1943 Peppino Garibaldi fu arrestato per ordine della Wehrmacht tedesca e detenuto al carcere romano di Regina Coeli, in via della Lungara, a Trastevere. Da ricordare che in quel carcere romano, dalla caduta di Mussolini ( luglio 1943), vennero detenuti i vecchi fedeli del Duce, gerarchi e dirigenti. Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre invece, e la conseguente occupazione nazista di Roma, il carcere venne governato dalle SS tedesche che si impegnarono a torturare gli oppositori nel terzo braccio. In quel carcere vi rinchiusero giornalisti, politici, ebrei, scrittori, gente comune. Si ritroverà, nel sesto braccio, arrestato il 20 novembre del 1943, Carlo Ginzburg, scrittore, esponente del Partito d’azione. Non uscirà vivo di li. Morirà in seguito alle torture riportate dopo un pestaggio ad opera dei fascisti. Tra gli antifascisti chiusi nel sesto braccio c’erano anche Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, entrambi partigiani, socialisti, odiati dai fascisti e trasferiti in quell’ala del carcere in attesa della fucilazione. I due futuri presidenti della repubblica riusciranno ad evadere. Ma Peppino Garibaldi no e fu in attesa della fucilazione. Solo la liberazione di Roma lo salvò da una fine tragica. Dopo la guerra, condusse vita riservata e morirà a Roma il 19 maggio 1950. Da povero.

L’ALTRA STORIA DEL SUD. Così l’Inghilterra aiutò Garibaldi. Michele Eugenio Di Carlo su SudOnLine il 12 maggio 2020. Uno dei più dettagliati resoconti della spedizione garibaldina – tanti ne hanno tratto informazioni senza citare la fonte – resta quello di Giacinto de’ Sivo. Con precisione assoluta lo scrittore di Maddaloni descrive l’apparato di sicurezza che il Governo aveva disposto per proteggere la Sicilia dall’invasione ritenuta certa: quattro fregate a vapore, due a vela, nove piroscafi da guerra, che navigavano incessantemente lungo le coste siciliane. Considerate anche le forze di Polizia e le Guardie Urbane, supporre che Giuseppe Garibaldi, nel caso fosse riuscito a sbarcare, potesse andare oltre Marsala non era proprio possibile. Per de’ Sivo era del tutto chiaro: la forza di Garibaldi era stata costruita a tavolino, in particolare dalla potentissima macchina della propaganda inglese. E quanto Cavour, convintosi a favorire la spedizione, cercò di metterne a capo Nino Bixio, «allora dolentissimo il Nizzardo, scordò la venduta patria, e scrisse umilissime lettere al La Farina, scongiurandolo d’aiutarlo… ». Sicuramente era stata proprio l’azione di mediazione di Giuseppe La Farina a spingere Garibaldi ad incontrare Camillo Cavour e Vittorio Emanuele II a Bologna il 2 maggio, al fine di addivenire ad un accordo, come già supposto dallo storico Pietro Pastorelli. Ed è così che «quel marinaio già dalla stampa mazziniana magnificato, quasi promesso da’ fati, per patti segreti tra reggitori di popoli potenti, con l’oro del Piemonte indebitato a posta, doveva lanciarsi a portar guerra civile nelle Sicilie». Mentre tutta Genova era in fermento per i preparativi della partenza, le proteste del ministro degli Esteri napoletano ottenevano l’effetto di far sì che «Cavour si storcea, mendicava parole, e prometteva d’impedire l’andata». E quando dalla Prefettura di Genova si manifestarono le preoccupazioni circa le responsabilità di preparativi alla luce del sole per una invasione militare che nessuno aveva autorizzato, «venne il La Farina con lettere del Cavour al prefetto e nessuno fiatò; anzi s’ebbero aiuti manifesti». De’ Sivo svela anche i retroscena dell’accordo segreto tra la società di navigazione Rubattino. Un accordo che era stato siglato con un atto di vendita dei bastimenti Piemonte e Lombardo a Torino nello studio del notaio Badigni, mentre la propaganda sabauda faceva passare l’episodio della presa dei due bastimenti come un’azione violenta di Bixio allo scopo, attestato dallo stesso Garibaldi, di allontanare i sospetti di complicità dal Governo di Torino. Informato della partenza della spedizione garibaldina, il Governo napoletano con una comunicazione dell’8 maggio informava il luogotenente Castelcicala che, tra le varie eventualità, Marsala era il luogo più probabile dello sbarco. Tra l’altro, il generale Letizia, vecchio carbonaro, due giorni prima dello sbarco si era portato a Marsala per poi, inspiegabilmente, ripiegare su Palermo via Mazara del Vallo, mentre gli subentrava Landi. La costa marsalese era controllata via mare dalla fregata a vela Partenope e da due navi a vapore, la Stromboli al comando del capitano Acton e la Capri diretta dal capitano Caracciolo, entrambi avvertiti della possibilità non remota di un approdo dei garibaldini a Marsala. La sera del 10 maggio due vascelli inglesi avevano avuto l’ordine di lasciare il porto di Palermo e di dirigersi verso Marsala: l’Argo al comando di Ingrham e l’Intrepid al comando del capitano Marryat. Il Piemonte e il Lombardo giunti nei pressi di Marsala erano stati avvistati e la loro presenza era stata immediatamente comunicata ai vascelli napoletani. Dopo l’una di pomeriggio, presenti i due “legni” inglesi, Garibaldi dava l’ordine di sbarcare nel porto di Marsala. Al sopraggiungere tardivo dello Stromboli, mentre erano in atto le operazioni di sbarco, l’inglese Ingrham comunicava ad Acton che doveva necessariamente imbarcare personale inglese presente a terra prima che iniziasse il cannoneggiamento dei legni garibaldini. Un’operazione che richiese tanto di quel tempo da impedire l’azione della flotta borbonica. De’ Sivo ha scritto che già il 12 maggio il ministro Carafa protestava in tutta Europa « per l’atto di pirateria consumato contro il reame, e preparato in territorio di Stato amico», non mancando di elencare con precisione i fatti, i mezzi e le armi utilizzati, i luoghi della raccolta fondi e dell’arruolamento dei volontari e chiedendo che fossero denunciate le responsabilità di promotori, autori e complici dell’invasione avvenuta in totale violazione del diritto internazionale che regolava i rapporti tra Stati indipendenti. La replica all’appello delle Due Sicilie non si fece attendere, infatti Prussia, Austria, Russia e Francia protestarono. Nonostante le richieste di chiarimento e le accuse provenienti da tutta l’Europa, Cavour «s’armò di bugie» e l’ambasciatore piemontese Villamarina a Napoli dichiarò che i sospetti di complicità del Governo di Torino con l’avventura garibaldina erano non solo falsi, ma ingiuriosi. Sul foglio ufficiale, il 17 maggio, il Governo sardo-piemontese dichiarava sfacciatamente la propria estraneità, la totale disapprovazione dell’impresa di Sicilia, oltre allo stretto rispetto per il diritto internazionale. La documentazione registrata sin dai primi anni da de’ Sivo, comprovante le complicità di Torino e di Londra nella spedizione garibaldina, non è mai stata presa in seria considerazione dalla storiografia ufficiale liberale. I documenti di de’ Sivo non potevano essere diffusi, in particolare nel periodo successivo all’unità acquisita, quando il Sud in continuo stato d’assedio subiva l’oltraggio della Legge Pica e un medico al seguito dell’Esercito Italiano lanciava spudoratamente le sue teorie pseudoscientifiche sull’atavismo delle popolazioni meridionali. Eppure le fonti documentali utilizzate da de’ Sivo sono quelle conservate oggi negli archivi diplomatici di mezza Europa. La lettera del 12 maggio citata da de’ Sivo, ripresa nei Carteggi di Camillo Cavour, come chiarisce lo storico Eugenio Di Rienzo, fu consegnata da Carafa agli ambasciatori Salvatore Pes di Villamarina e all’inglese Hudson, e inoltrata celermente alle diplomazie europee. Essa esprimeva un «categorico e durissimo giudizio di condanna sulle responsabilità della Mediterranean Fleet». La lettera ebbe, come sostenuto da de’ Sivo, l’immediato sostegno di gran parte degli Stati europei, come documentato peraltro da Nicodeme Bianchi. Il ministro degli Esteri russo Gorčakov, convocato il 14 maggio l’ambasciatore inglese John Fiennes Crampton, elevava una vibrata protesta, mentre l’ambasciatore russo a Torino comunicava minacciosamente che solo la distanza geografica aveva impedito alla Russia di difendere con le armi il Regno delle Due Sicilie (circostanza citata dallo stesso de’ Sivo). Il giorno stesso, il ministro degli Esteri francese Thouvenel chiedeva spiegazioni all’ambasciatore inglese Cowley sulla palese violazione del diritto internazionale; il giorno 15, il Primo Ministro austriaco, Johann Bernhard von Rechberg, trasmetteva una nota a Londra e Parigi dalla quale si evinceva che Piemonte e Gran Bretagna erano ritenuti responsabili di aver organizzato e favorito la spedizione garibaldina, mentre il 17 dello stesso mese la Prussia proponeva un accordo ad Austria e Russia per tutelare il diritto internazionale leso dal Piemonte con il beneplacito inglese. Sulla questione rimasta controversa il ministro Russel fu costretto a difendersi nello stesso Parlamento inglese. Il 17 maggio, come risulta nei resoconti dei dibattiti parlamentari inglesi (Hansard’s Parliamentary Debates) citati da Di Rienzo, Russel andava incontro ad un duro scontro che proveniva dai banchi parlamentari dell’opposizione e dalla stessa maggioranza, a seguito dell’intervento del deputato George Hope che chiedeva di far cessare l’ ignobile sottoscrizione su suolo inglese a favore della Sicilia in rivolta promossa dal ferrarese Alberto Mario, marito della giornalista del “London Daily News” Jessie White. Una sottoscrizione alla quale avevano contribuito anche elementi in vista del partito whig e, persino, alcuni ministri. La mancata risposta del Governo spingeva il deputato tory Richard Malins a denunciare che la legislazione vietava la raccolta di fondi su suolo inglese per finanziare imprese militari straniere e che se il principio era applicato per le grandi Potenze straniere non poteva non esserlo per il Regno delle Due Sicilie. Il deputato Ralph Bernal, insoddisfatto delle repliche governative, poneva l’accento sulla gravità delle informazioni riportate dalla stampa europea che vedeva un diretto coinvolgimento della Gran Bretagna nell’illegittima spedizione armata di Garibaldi. Come spiega ancora Di Rienzo, la presenza della flotta inglese nel mare di Sicilia era vista come una minaccia concreta sia dagli ufficiali della Marina napoletana sia da Francesco II, consapevoli che il Governo Palmerston non si sarebbe tirato indietro qualora si fosse verificato un benché minimo incidente di natura militare lungo le coste siciliane. Sicuramente la decisione di approdare a Marsala, laddove vi era una discreta presenza di attività produttive e commerciali inglesi, era stata concordata da Garibaldi con i referenti del Governo inglese. Il 4 marzo 1861, quando nel Regno delle Due Sicilie ai garibaldini mandati in congedo era subentrato l’Esercito Sardo-piemontese e l’Italia stava per essere unificata sotto le insegne dei Savoia, il deputato John Pope Hennessy riaccendeva la discussione contestando al Governo inglese di aver interferito nella vittoriosa impresa garibaldina, sostenendola militarmente, finanziariamente e diplomaticamente. Secondo Pope le due navi della flotta inglese erano presenti nella rada del porto di Marsala col preciso intento di fornire il supporto necessario ad assicurare lo sbarco a Marsala degli uomini in camicia rossa. Pochi erano i dubbi sul coinvolgimento inglese nella conquista militare del Regno delle Due Sicilie; dubbi che si affievolirono del tutto quando lo stesso Pope, nella seduta parlamentare citata, rese nota la lettera con cui Vittorio Emanuele II aveva ringraziato il Governo inglese. Non a caso Eugenio Di Rienzo, accademico esperto, direttore della “Nuova Rivista Storica”, noto docente di Storia Moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma, rende i dovuti meriti al prezioso lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici: «Che la longa manus del ministero whig abbia potentemente contribuito (soprattutto ma non soltanto con un supporto economico) al successo della ‘liberazione del Mezzogiorno’ è un’ipotesi che la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filoborbonica». SudOnLine 12 maggio 2020 

Estratto dell’articolo di Luciano Murgia per pu24.it il 14 luglio 2021. Viviamo settimane che hanno visto undici azzurri in campo, gli altri in panchina e milioni di italiani davanti alle Tv cantare Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa, Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò…Perché fratelli d’Italia? Perché i massoni si chiamano fratelli ed erano massoni sia Goffredo Mameli, l’autore del testo, sia Michele Novaro che lo musicò. Mameli si rivolgeva prima di tutto ai fratelli massoni, protagonisti del Risorgimento, che lottarono fino a morire, come Mameli a soli 22 anni, per liberare l’Italia dalla monarchia sabauda e per abbattere lo Stato pontificio. Mameli era mazziniano, Mazzini era massone, come Giuseppe Garibaldi. Due grandi che hanno fatto l’Italia, con la complicità – è giusto riconoscerlo – di grandi potenze. Potete immaginare i Mille che partono da Quarto e sbarcano a Marsala senza la complicità della flotta inglese?

«Il dito di Villari e la luna di Fiume. Celebrare la breccia di Porta Pia: un nostro dovere. Quell’evento impose l’Italia sul palcoscenico d’Europa». L’altra storia. la verità su Mazzini e Pisacane di Michele Eugenio Di Carlo. Pubblicato il 9 settembre 2020 su «Il Sud On Line». Anche Ennio Lorenzini con il film Quanto è bello lu murire acciso del 1975, come Florestano Vancini tre anni prima con Bronte, mette in scena un Risorgimento moderno, dove la realtà prende il posto delle illusioni agiografiche e collega direttamente il fallimento degli ideali e dei valori risorgimentali alla crisi sociale e politica degli anni Settanta del Novecento. Il periodo in cui il film di Lorenzini è girato è quello violento del terrorismo che renderà necessario la costituzione di un governo di unità nazionale. Un periodo nel quale, in analogia a quello seguente il Risorgimento, si spengono tante illusioni, quelle nate dalla stagione del Sessantotto. Un periodo nel quale, come scrive Renato Ventura, Assistant Professor presso l’Università di Dayton negli Stati Uniti, studioso della letteratura italiana contemporanea, «… i protagonisti della vita politica e sociale sono gli studenti, i lavoratori, le donne, che sulle piazze italiane ripropongono diversi modelli interpretativi del Risorgimento, ovviamente in controtendenza con la narrativa classica dei patrioti risorgimentali quali eroi che si immolano per un ideale di patria e unità della nazione». Lorenzini visualizza la spedizione di Carlo Pisacane del 1857 in netto contrasto con la storiografia ufficiale sabauda e in antitesi con una letteratura che Ventura elenca e giudica di «scarso valore artistico». Alla costruzione dell’identità nazionale aveva contribuito non poco il poeta marchigiano Luigi Mercantini, diventato noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla drammatica spedizione di Pisacane, graditi agli ambienti governativi per la forte valenza patriottica e nazionalistica, divulgati attraverso la scuola per il notevole valore didattico-pedagogico fino ai nostri giorni. Qualsiasi studente delle Elementari e delle Medie era costretto ad imparare a memoria almeno il celebre ritornello della poesia di Mercantini: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!», al fine di perpetuare nella memoria storica popolare miti falsificati e di incidere intimamente nell’animo dei giovani valori e ideali che proprio il Risorgimento aveva tradito. Utile a questo proposito riproporre un breve excursus storico che si riferisce alla Spedizione di Sapri, al di là della retorica risorgimentale. Appare significativo, innanzitutto, che secondo lo scrittore di fine Ottocento Raffaele De Cesare, la spedizione di Sapri, organizzata da Carlo Pisacane, non avrebbe turbato i sonni di Ferdinando II quanto l’opuscolo di Antonio Scialoja, l’esule napoletano che aveva criticato le finanze del Regno delle Due Sicilie. Lo storico Giacinto De’ Sivo ha raccontato i particolari dell’organizzazione dell’impresa che avrebbe dovuto sollevare le popolazioni rurali contro la dinastia regnante dei Borbone, sin da quando, in maggio, la giovane letterata inglese Jessie White proveniente da Londra raggiungeva il Regno di Sardegna. Non da sola, visto che «con lei anco era giunto, e travestito s’appiattava in Genova, il Mazzini stesso, che moveva tutto». Pisacane, esule napoletano, aveva combattuto a Brescia e a Roma e nello scontro di Velletri del 1849 era stato «capo dello stato maggiore» di Giuseppe Garibaldi. Di idee socialiste e rivoluzionarie, era convinto che il regime costituzionale piemontese nuocesse all’Italia più di quello del «Ferdinando tiranno». È lo stesso de’ Sivo a ricordare che Pisacane, «a mostrar coscienza di libertà», prima di partire per la sua impresa aveva scritto un Testamento politico del tutto slegato dalle idee mazziniane, che proponeva una vera rivoluzione anche nei riguardi del regime costituzionale piemontese, che Pisacane giudicava del tutto insufficiente a far risorgere l’Italia e addirittura teso a ritardarlo . La storia avrebbe dato ragione a Pisacane per come l’unità d’Italia sarebbe stata più tardi realizzata, lasciando da parte le istanze popolari e piegandole agli interessi di aristocratici e borghesi. Già dopo il 1849, il gruppo facente capo a Pisacane si era staccato da Giuseppe Mazzini per percorrere la strada del socialismo rivoluzionario. La critica di Pisacane a Mazzini, poco o affatto analizzata da storici e letterati liberali, è feroce. Francesco Valentini ne ha evidenziato esattamente gli aspetti salienti: «A Mazzini Pisacane rimprovera di non aver visto l’ascesa della plebe e il suo irriducibile contrasto con la borghesia, cioè di non aver inteso la rivoluzione come rivoluzione del povero, e, quanto all’ideologia mazziniana, la considera come suscettibile di involuzioni aristocratiche-pedagogiche». Vista la distanza da Pisacane, la presenza clandestina a Genova di Mazzini, richiamata da de’ Sivo, non sembra doversi collegare direttamente alla spedizione di Sapri, giacché probabilmente finalizzata ad approfittarne per provocare tumulti in alcune città del Regno di Sardegna, che – ricordiamo – aveva condannato Mazzini alla pena di morte. Ma Pisacane per la storiografia ufficiale dell’epoca e per la letteratura filo-sabauda doveva assumere solo le vesti di eroe, martire e patriota, e oscurate dovevano apparire le profonde divergenze da Mazzini e persino da Garibaldi. Nella prefazione del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, pubblicata a Bologna nel 1894, Napoleone Colajanni scrive testualmente: «Carlo Pisacane, come possono farlo oggi i più avanzati socialisti, combatte Giuseppe Mazzini; ma se egli si mostra severo contro la sua dottrina (specialmente nella parte che rispecchia il misticismo cristiano e la vana speranza di farne una leva per la rigenerazione sociale) e contro il suo metodo (e non sempre le sue accuse sono giuste), è sempre pieno di affetto e di rispetto per la persona», inoltre «nel propugnare la formola libertà e associazione da sostituirsi a quella mazziniana Dio e popolo e all’altra francese libertà, uguaglianza e fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i repubblicani italiani». Il 25 giugno 1857 il piroscafo Cagliari, appartenente alla compagnia genovese Rubattino, salpava da Genova al comando del capitano Antonio Sitria con trentadue uomini, tra i quali due macchinisti inglesi convinti all’impresa da una lettera della White. L’epilogo della spedizione è noto, la mattina del 2 luglio gli scampati ad uno scontro del giorno precedente furono sorpresi nel bosco di Sanza, dove le guardie urbane uccisero in uno scontro a fuoco Pisacane, mentre i superstiti furono aggrediti dalla popolazione accorsa al suono delle campane. Singolare destino per «quei liberatori di popolo cacciati dal popolo come belve». Il 4 luglio il Conte di Groppello, ambasciatore piemontese a Napoli, comunicava al Conte di Cavour la sorprendente resistenza della popolazione: «La banda dovunque passò […] trovava avversione grandissima nella popolazione»; circostanza che per de’ Sivo costituiva una testimonianza storica manifesta «che i Borboni sì tiranni gridati fuori, eran nel regno amati, e difesi dai tiranneggianti». Nel suo film Lorenzini valuta attentamente il mancato coinvolgimento delle masse rurali e lo relaziona alla carente presenza al Sud di una classe intellettuale, oltre che ad un Partito d’Azione non maturo e scadente nell’elaborazione politica. Antonio Gramsci ne darà conferma annotando che «Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola ˗ limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano ˗ con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che non conoscessero l’esistenza stessa» . Una disattenzione nei riguardi delle masse contadine del Sud che non sarà colmata, nonostante Gaetano Salvemini, dal ceto dirigente e intellettuale del Partito Socialista, poco propenso ad occuparsi fondatamente della irrisolta ripartizione dei terreni per favorire la piccola proprietà contadina. La critica di Gramsci a questo proposito sarà dura e definitiva. D’altro canto, il Conte di Cavour, subito dopo la fallita impresa di Pisacane, tramite il Conte Groppello, ambasciatore a Napoli, si era affrettato ipocritamente a far pervenire la sua disapprovazione per un atto che fingeva di ritenere criminoso, mentre si accingeva a chiedere la restituzione del piroscafo con l’aiuto dell’ambasciatore inglese Hudson a Torino. Un atto sfrontato che non sfuggiva all’attento de’ Sivo, il quale avrebbe poi scritto che «chi facea professione di cacciar d’Italia ogni mano straniera, chiamava or Francesi or Inglesi negli italici piati». Infatti, il nuovo governo inglese, ritenuta illegittima la cattura del piroscafo genovese, prendeva inaspettatamente le difese del Regno di Sardegna chiedendone la restituzione tramite la mediazione del Governo svedese. L’8 giugno 1858, Ferdinando II, in maniera del tutto divergente dalla sua condotta precedente nei rapporti con la Gran Bretagna, poneva fine alla contesa facendo sapere di «non aver mai pensato d’aver forze da opporre ad Inghilterra». Evidente come il diverso atteggiamento del sovrano napoletano era condizionato dalla circostanza che il “nemico” Palmerston non era più il Primo Ministro alla guida del Governo inglese. A distanza di un secolo e mezzo, uno degli storici accademici più accreditati sui rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e le Potenze Europee tra il 1830 e il 1861, Eugenio Di Rienzo, ha scritto sulla vicenda che la diplomazia napoletana si era rivelata incapace «di fronteggiare le manovre di Cavour che, contra legem, aveva preteso e ottenuto, il 22 giugno 1858, la restituzione del Cagliari». (Pubblicato il 9 settembre 2020 «Il Sud On Line»)

Pisacane proibito (Parte Prima) di Edoardo Vitale il  21/6/2021 su Golfonetwork.it. Dura, la vita dello storico. Con le tracce di esistenze umane che raccoglie, abbozza figure più o meno verosimili, separandole o accostandole fino a formare un mosaico coerente. Il colore che dà a ciascuno di quei tasselli diventa poi una sentenza inesorabile che magari riassume in una sola nota cromatica il significato di una vita. E se il risultato non soddisfa, la tentazione di forzare le tessere nel mosaico con una limatina o addirittura di aggiungerne o farne sparire qualcuna è forte. Può, così, accadere che esistenze umane, nella loro dignità e complessità, vengano ridotte a caricature. Ci sono scrittori manichei che disegnano un mondo bicolore diviso fra angeli e demoni, in cui i nobili spiriti stanno tutti da una parte, mentre l'altro lato della strada brulica di sordide creature scarsamente umane. Di solito c'è odio ideologico dietro queste semplificazioni. Traspare dalla terminologia: da un lato, crudeltà, ferocia, ignominia, grettezza, corruzione, superstizione, spergiuro, infamia, vigliaccheria, barbarie, dall'altro, generosità, apostolato, martirio, umanità, fede, lealtà, onestà, eroismo, civiltà. Sembra incredibile, ma ancora oggi certi stucchevoli romanzi d'appendice vengono spacciati per verità indiscutibili, senza rispetto per gli esseri umani ridotti a marionette di un noioso teatrino. Lo si vede dai libri di scuola, le cui pagine dedicate al cosiddetto risorgimento sono per lo più roboanti sinfonie celebrative in cui il suono prevalente è quello, assordante, dei tromboni. Solo da pochi anni si può leggere qualche ricostruzione scolastica meno faziosa, ma del resto occorre pur concedere qualcosa a una presa di coscienza dell'opinione pubblica, che porta spesso i professori a dover fronteggiare alunni coraggiosi, pronti a chiedere loro conto delle sciocchezze che insegnavano. Chi, come me, gira tutto il Mezzogiorno per far aprire gli occhi alla gente almeno sulle menzogne più grosse, riscontra differenze evidenti da una zona all'altra. In provincia di Napoli, ad esempio, specie nella zona vesuviana, i pregiudizi sono meno accentuati e le tesi storiche anticonformiste incontrano un diffuso e immediato favore, anche fra i giovani. Le istituzioni, anche scolastiche, sono più aperte all'ascolto e spesso i nostri interventi generano entusiasmo. Nella parte più meridionale del Cilento, invece, la musica cambia. Con qualche lodevole eccezione, arcigne conventicole di storici locali considerano quasi una provocazione che si vada a contestare la versione ufficiale "a casa loro". In quei luoghi, infatti, alligna ancora l'erbaccia altrove rara del conformismo di stampo ottocentesco. Intorno al nume tutelare, Carlo Pisacane, fiorisce un artigianato storico degno del "realismo socialista" di epoca staliniana, con pennelli amorevoli che dipingono ritratti simili a immaginette sacre. Panzane sesquipedali vengono sospinte in cielo come fragili mongolfiere. L'industria delle celebrazioni si appoggia a onnipresenti vestali, che magari si misurano in simpatici battibecchi da strapaese per stabilire se l'Eroe sia sbarcato cento metri più a sud o più a nord, ma che non si appassionano troppo all'indagine sui finanziatori dell'impresa o sui legami internazionali dell'ardimentoso rivoluzionario. Tutti, comunque, regolarmente si ricompattano per lamentarsi dell'insufficiente rilievo che la storiografia ufficiale riserba alle molteplici rivolte e congiure cilentane. Sta di fatto che il confronto è iniziato. E ne potranno scaturire solo conseguenze positive, perché chi sostiene una tesi in buona fede non può temere di metterla alla prova. Facciamola, allora, qualche nostra considerazione su questo "padre del Risorgimento". Nasce a Napoli il 22 agosto 1818 dal duca Gennaro Pisacane di San Giovanni e da Nicoletta Basile De Luna. Come molti altri rampolli di famiglie aristocratiche, intraprende la carriera militare, prima alla Scuola militare di San Giovanni a Carbonara, poi all'Accademia della Nunziatella, dove era allievo anche il fratello maggiore Filippo, che raggiunse il grado di tenente del reggimento degli Ussari e che rimase sempre fedele al re legittimo anche dopo l'invasione delle Due Sicilie. A 21 anni non ancora compiuti Carlo è nominato alfiere del Reggimento Fanteria di Linea "Borbone". Tutto sembra far presagire una brillante carriera militare; ma occorre mettere nel conto la sua indole inquieta. È da supporre che goda di notevole considerazione, se viene chiamato a collaborare alla costruzione della ferrovia Napoli-Caserta; non assiste, però, alla sua inaugurazione perché, a seguito di contrasti con un capitano, è trasferito a Civitella del Tronto, "residenza di frontiera". Qui allaccia una relazione con una donna sposata, Gaetanella Michilli, che la tradizione orale descrive come di bellezza non comune. Preziose informazioni sui fatti si rinvengono nell'opera di Carino Gambacorta, Storia di Civitella del Tronto, Edigrafital, Teramo, 2° ediz., 1992. Il marito Emidio Fiorentini, avendo sospettato la cosa, li sorprende nella notte del 4 febbraio 1843 e ferisce la moglie, soccorsa subito dal fabbro Luigi Curzi, che provvede a chiamare il medico Alessio De Pacificis. Fiorentini viene assolto dalla Gran Corte Criminale, non essendovi istanza di punizione dalla parte offesa. Gaetanella morirà tre anni dopo, l'8 febbraio 1846, "per vizi tubercolari in cui degenerò la infiammazione flemmonosa al polmone, e per cause estranee alla ferita", come clinicamente accertato e successivamente confermato dalla Facoltà medica dell'Università di Napoli. Strano che l'alfiere Pisacane non risulti essere stato ferito né aver provato a soccorrere la donna. Sta di fatto che si fa circa sei mesi di carcere, periodo insolitamente lungo per un'accusa di adulterio, venendo poi scarcerato "per la rinuncia dell'istanza fatta dall'un coniuge a pro dell'altro", il che "giova al complice". Nel frattempo gli amici influenti scendono regolarmente in campo. Ovviamente la storiografia apologetica sorvola su tali interrogativi ed anzi, autoinvestendosi di competenze peritali straordinarie (perché esercitate a oltre un secolo di distanza), sentenzia che la ferita arrecata dal marito influì certamente nella morte della povera ragazza. Riottenuta la libertà, lo scavezzacollo cede il posto al bravo studioso di arte militare; così Pisacane scrive una Memoria sulla frontiera Nord Orientale del Regno di Napoli, che invia al generale Carlo Filangieri. Alla fine dell'anno gli viene affidata la progettazione del corso Maria Teresa (oggi Corso Vittorio Emanuele) a Napoli. Difficile pensare che abbia potuto ottenere l'incarico senza la benevolenza di Ferdinando II. La sua vita sembra nuovamente indirizzarsi verso brillanti mete professionali. Ma che nelle vene gli scorra sangue bollente è ancora una volta dimostrato dalla sua adesione alla sottoscrizione promossa da Giuseppe Mazzini per donare una sciabola d'onore a Giuseppe Garibaldi, il quale nel frattempo, secondando come sempre le mire britanniche, si stava battendo in Sud America, nella guerra che condusse all'indipendenza dell'Uruguay dall'Argentina. Il 12 ottobre 1846 il Nostro viene accoltellato in via san Gregorio Armeno. Per una minoranza di studiosi si sarebbe trattato di una spedizione punitiva organizzata dal marito della Michilli, morta da appena due mesi. Ma questa ipotesi non tiene conto del fatto che la sua vita sentimentale continua ad essere spericolata. In quello stesso anno ha allacciato infatti un altro legame adulterino, con la bella ventiseienne Enrichetta Di Lorenzo, moglie di un suo cugino banchiere, Dionisio Lazzari. Costei, madre di tre figli, lo assiste durante la sua convalescenza. Si affaccia allora prepotentemente un'altra spiegazione del suo ferimento: la vendetta del cugino per una relazione già in atto. Tanto più che il Lazzari, forse timoroso di essere a sua volta perseguito per tentato omicidio, non denuncerà mai gli amanti. Sta di fatto che l'8 febbraio 1847 Carlo Pisacane ed Enrichetta Di Lorenzo, muniti di passaporti falsi, intestati a due domestici, fuggono via mare. La sua carriera nell'esercito, che poteva essere costellata di successi, si interrompe. Peraltro, la disciplina militare, oggettivamente non gli si addice, se già a quel tempo pensa ciò che scriverà in una lettera del 1851 (questo e altri dati interessanti si rinvengono nell'introduzione di Giuseppe Galzerano a La Rivoluzione di Carlo Pisacane, a cura di Aldo Romano, Galzerano editore, 2002), ossia che la sola forma di governo giusta e sicura è l'anarchia di Proudhon; forse ignorando che il pensatore francese respingeva la stessa idea di un governo. Sorge a questo punto spontanea una domanda: come è possibile che un elemento di simpatie rivoluzionarie, caratterialmente ribelle e insofferente alla disciplina e alle regole, che aveva già conosciuto le patrie galere, resosi protagonista di ripetuti episodi che anche il diritto attuale valuta negativamente, ma che legge e morale di quei tempi condannavano severamente, potesse aver conservato il suo grado militare e addirittura ricevere prestigiosi e delicati incarichi fino a quando, per sua esclusiva scelta, si rese disertore? Dando per scontato il talento tecnico del giovane Pisacane, possibile che l'esercito delle Due Sicilie non fosse in grado di individuare e scartare soggetti dalle potenzialità eversive così spiccate? Per quanto assurdo possa sembrare, la risposta dev'essere: possibilissimo; anzi, vedremo più avanti come l'irrequieto sovversivo abbia addirittura accarezzato l'idea di rientrare nei ranghi dell'esercito napoletano. Ma Pisacane, a modo suo, è un idealista. Non di quelli che portano alle estreme conseguenze i princìpi etici espressi dalla comunità: la sfera di valori che riconosce non discende dalla tradizione, ma si sostanzia nell'elaborazione personale di idee circolanti negli ambienti settari e rivoluzionari: "Non bisogna fare mai come gli altri: volere è potere!" (Epistolario, pag. 156-57) L'amore fra uomo e donna, nella lunga lettera ai parenti che scrive prima di imbarcarsi, è un bene sacro, che merita ogni sacrificio. Per conseguirlo e difenderlo è lecito, anzi giusto e doveroso: corteggiare una donna sposata, madre di tre figli, la cui frequentazione era facilitata dalla parentela con il marito; disertare dall'esercito violando il giuramento militare; espatriare in modo fraudolento adoperando passaporti falsi. L'amore fra madre e figli, invece, sembra appartenere a una dimensione subordinata e il relativo rapporto deve cedere di fronte all'apoteosi dell'amore romantico (del resto con quel marito, dice di Enrichetta liquidando sbrigativamente il problema, per i figli avrebbe potuto fare ben poco). Si noti che le vicende familiari della Di Lorenzo suscitarono scandalo e riprovazione anche in ambienti "progressisti" dove si apprezzava l'esempio di Giuditta Sidoli, che nel 1833, rimasta vedova da qualche anno, non aveva esitato ad abbandonare l'amato Mazzini a Marsiglia per tornare in Italia e Ricongiungersi con i figli (Emma Scaramuzza, Politica e amicizia. Relazioni, conflitti e differenze di genere, FrancoAngeli Storia, 2010, pag. 172). Comunque, i dilemmi struggenti che la vita gli presenta, Carlo Pisacane li risolve in un modo molto diverso da ciò che la morale corrente a quel tempo suggeriva e in parte ancora oggi suggerisce. Del resto dichiarava di aborrire l'esempio altrui. Quindi ciascuno deve costruirsi una propria morale, mai conformandosi al comune sentire. Non si può negare che, nel turbine delle passioni, Pisacane fa una scelta radicale e la difende con parole ardenti e ammalianti, scritte in francese (non si sa se per disprezzo del mondo che lo circonda o perché spera che il suo epistolario sia letto anche all'estero), che i suoi apologeti sbandierano appassionatamente. La sua concezione assoluta dell'amore non può lasciare indifferenti. Non possiamo, però, negare che anche verso una donna che non rappresentava il suo ideale amoroso (anzi, dichiarò successivamente di essere stato sempre innamorato di Enrichetta), Gaetana Michilli, si è comportato in modo spregiudicato e risoluto. Questa ragazza sfortunata, oggetto fugace della passione senza scrupoli del turbolento militare napoletano, lasciò la vita troppo presto per poterci lasciare qualche testimonianza sulla sua triste vicenda. A differenza degli agiografi liberali, noi crediamo che nessuno possa azzardare con certezza un giudizio morale su un altro essere umano. Ci limitiamo a notare che introdurre in una casa o in una caserma un individuo eccentrico (excentrique), incline a slanci di travolgente furore "romantico" era un azzardo da evitare. Ma la tragica morte di Pisacane ha ancora più accresciuto il fascino dei suoi scritti, sicché è gioco facile, per chi ne ha fatto un santo "laico" (rectius, ateo), fingere di stracciarsi le vesti ogni volta che qualcuno cerca di osservare con obiettività la sua parabola terrena. Parabola che nell'inverno del 1847 lo porta con Enrichetta, dopo l'attraversamento di un Tirreno in tempesta, prima a Civitavecchia, poi a Livorno, dove ottengono due nuovi passaporti napoletani. Efficienza organizzativa notevole. Vale forse la pena di ricordare come la città toscana - amata da Garibaldi, nel 1864 Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, il quale spinse la moglie Francesca e la figlia Clelia a prendervi casa e gratificata dal privilegio raro (per i centri non grandi) di essere designata da un termine apposito nella lingua inglese, Lighorn - vantasse "un indiscutibile primato: quello di essere stato l'unico centro in Italia dove l'attività libero-muratoria non si è mai interrotta, neppure quando la massoneria è stata messa al bando dal governo lorenese, durante la Restaurazione" (Gustavo Raffi, prefazione a La massoneria a Livorno, Il Mulino, 2006; Firenze e la Toscana: Quello che non si osa dire, di Antonio Giangrande).

In quel luogo così vivace, dunque, sapienti mani amiche confezionano per i due fuggiaschi innamorati i documenti necessari a proseguire il viaggio. L'ispettore di polizia inviato dal governo napoletano giunge nella città labronica quando la nave con i due amanti è già ripartita, e non gli resta che saldare diligentemente il conto della locanda in cui avevano alloggiato a sbafo, sequestrare il bagaglio e tornare mestamente nella capitale da solo. L'agognata Londra, meta della coppia, ha però solerti funzionari che non sorvolano sulla loro condizione di adulteri con passaporti falsi, e sul fatto che Carlo è anche disertore del suo esercito. Comunque la macchina dell'estradizione non si mette in moto, perché ai due fuggiaschi viene amichevolmente consigliato, per evitarla, di ripassare la Manica. Comincia così il periodo francese. A Parigi, l'ambasciatore napoletano, Duca di Serracapriola, fa avvicinare Carlo ed Enrichetta da persone che pazientemente cercano di indurli ad abbandonare la strada della latitanza sperando nella clemenza del Sovrano. Tutto vano; i due appaiono assolutamente irriducibili. In particolare, Carlo esclude di poter tornare sui suoi passi, perché il pentimento appartiene a chi agisce senza riflettere. Però questo sovversivo tutto d'un pezzo non si vergogna di chiedere - ovviamente senza esito - un passaporto all'Ambasciatore del Regno delle Due Sicilie! Nella ville lumière, Carlo diviene frequentatore della casa del generale Guglielmo Pepe, ove incontra molti esuli italiani, oltre che intellettuali transalpini. Ecco come da una passione amorosa può scaturire una catena causale di eventi, che alla fine conduce un giovane ribelle proprio nel luogo adatto a sublimare i suoi impulsi trasgressivi: un autentico vivaio di rivoluzionari. In questo ambiente pieno di fermenti, Pisacane matura una decisione che determina un vero e proprio colpo di scena: si arruola nella Legione straniera francese per combattere in Algeria! Scrive al fratello Filippo: "il mio destino è Affrica". Per realizzare il suo obiettivo, si avvale dell'intercessione (oggi si direbbe raccomandazione) del duca di Montebello, ministro della marina francese e vecchio amico della famiglia Pisacane quando era stato ambasciatore a Napoli (sarà anche appartenuta alla nobiltà "decaduta", ma com'era ben introdotta negli ambienti di potere la famiglia dell'anarchico errante!). Per la destinazione africana si adopera invece, in modo determinante, la famiglia Di Lorenzo. Come si vede, i figli di papà non disdegnano affatto i vantaggi dell'appartenenza a famiglie influenti. In quegli ultimi mesi del 1847 le richieste di aiuto ai potenti si fanno frenetiche. Fra esse spicca una missiva singolarissima, datata 6 novembre, che con sfrontatezza incredibile scrive al solito, paziente ambasciatore napoletano a Parigi: "Eccellenza, avendo abbandonato il mio posto, non solamente ho perduto l'onore di essere compreso nel nobile corpo ove appartenevo, ma non sono neanche degno d'implorare come Suddito la Sovrana Clemenza.// L'E.V. conosce la mia presente situazione la quale mi obbliga a cercare un'occupazione per vivere; e conservando vivo l'amore per la carriera che ho intrapresa dall'infanzia, ho chiesto servire in Africa come straniero. Imploro, Eccellenza, la sua alta protezione onde questo esilio che io utilizzo cercando istruirmi nel mio mestiere, presentato da Lei ai piedi del Trono, mi valga col tempo il perdono ed un posto di soldato nelle file della Regia Armata Napoletana". Per quanto inverosimile ci possa apparire, è proprio l'adamantino e fiero rivoluzionario che si abbassa a scrivere queste servili invocazioni, di fronte alle quali appaiono più onorevoli quelle che nel film comico Non ci resta che piangere Massimo Troisi e Roberto Benigni rivolgono a Savonarola. Forse per un profeta della morale fai-da-te anche la dignità è un valore tradizionale privo di senso. Evidentemente, Pisacane suppone che l'ambasciatore, il quale già gli ha dimostrato umanità e pazienza, intercederà con forza presso il Re; che il fratello Filippo sosterrà la genuinità del suo pentimento; che Ferdinando II acconsentirà senz'altro a reintegrarlo nell'esercito e, magari nel grado; con quella indulgenza che, tante volte manifestata, finiva per collocare nei gangli dell'amministrazione civile e militare molti accaniti odiatori della monarchia borbonica. Dimenticava probabilmente, il Sovrano, che il giuramento prestato nelle società segrete è molto più difficile da trasgredire rispetto a quello reso al Re dinanzi a Dio. Dobbiamo, a questo punto, constatare che, a parte il disprezzo per ogni regola, molte sono le contraddizioni e i lati oscuri di questa storia. Fermiamoci un attimo a riflettere. Come è possibile, ad esempio, che la sua amatissima Enrichetta, nel frattempo in dolce attesa, venga da Pisacane abbandonata per una lunga e rischiosa avventura militare? Qualcosa non torna. Molti, anche di orientamento risorgimentalista (Emma Scaramuzza, cit.; Agenzia Giornalistica 9 Colonne, direttore Paolo Pagliaro, Donatella Massara, sito Graphomania) riferiscono di una breve relazione di Enrichetta con l'amico e compagno di studi di Pisacane Enrico Cosenz; ma la collocano nel 1850, mentre l'arruolamento nella Légion Étrangère è del 21 ottobre 1847. Che pensare? Forse è nelle ristrettezze economiche, che va ricercata la causa determinante della drastica scelta. Ma a noi interessa di più la valenza politica di questo arruolamento nel famoso corpo di mercenari. La Legione Straniera francese fu fondata dal re Luigi Filippo di Francia il 10 marzo 1831, a supporto della sua guerra di conquista dell'Algeria. E quando Pisacane presenta la richiesta di arruolamento è impegnata nella guerra coloniale che vede come avversario l'emiro Abd-el-kader, fondatore di un regno indipendente nella parte centrale ed occidentale dell'Algeria. Il 23 dicembre 1847 il capo indipendentista si arrende al generale Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière, ponendo così fine all'esistenza del suo dominio che entrò a far parte dell'Algeria francese. Ancora oggi, Abd-el-kader è considerato il padre della patria algerina. Quindi il nostro rivoluzionario, strano (si fa per dire) ma vero, si schiera per il colonialismo delle potenze europee contro l'anelito alla libertà e all'indipendenza di un popolo. Tuttavia, purtroppo per l'irrequieto duchino, e forse anche per noi, quando egli giunge nel paese nordafricano, ad Orano, il 16 dicembre 1847, gli algerini erano sul punto di arrendersi. Che noia la vita del mercenario quando le armi tacciono! Rivela tutta la sua desolazione in una lettera al fratello, vergata il 23 febbraio 1848 dal campo di Sidi BelAbbes: "Veniva in Africa per cercare un diversivo nella guerra alla mia passione; al mio arrivo è cominciata la pace e finite tutte le probabilità di avanzamenti. Noi passiamo la vita in ozio completo sotto una tenda, e sono condannato, io, di leggere le notizie del mio paese come uno straniero. Io preferisco tutto a questo mio presente martirio: desiderando di cercare avventure altrove, mi succede trovarmi lontano da quelle del mio paese. Io potrò subito venire in congedo, ma mi mancano i mezzi". Queste sconcertanti dichiarazioni indicano che l'uccisione di altri uomini veniva da Carlo Pisacane considerata come un efficace rimedio a uno stress emotivo. Vengono in mente le parole che Emma Scaramuzza riferisce alla sua compagna Enrichetta De Lorenzo, ma che calzano perfettamente anche all'amante: la libertà dei sentimenti e la ricerca individuale della felicità sono concepite come una sorta di legge di natura, che nessuna vieta consuetudine poteva conculcare (Emma Scaramuzza, cit.). In altri termini, l'individuo si pone al centro del mondo ripudiando le convinzioni e le regole accettate dalla comunità. E peggio per chi diventa un ostacolo alla realizzazione individuale. Tuttavia, per fortuna dei rivoluzionari, vi sono persone che si prestano ad aiutarli. O perché li ritengono utili ai propri scopi, o per fedeltà proprio ai princìpi etici della comunità e alle istituzioni tradizionali che essi hanno ripudiato. Un colonnello francese appoggia in modo decisivo la sua domanda di congedo e il fratello borbonico gli fornisce le risorse economiche per tornare in Italia: "Questa felicità la debbo a te. Mio caro fratello; il favore che tu mi rendi è di un valore inapprezzabile." Comunque, nessuno sia così ingenuo da illudersi: appena un anno e mezzo dopo l'ineffabile lettera a Serracapriola ritroviamo l'implorante "Suddito" (che nel frattempo ha rinunciato alla "Sovrana Clemenza") impegnato a Velletri a combattere contro la "Regia Armata Napoletana", in cui poco prima aveva ambito a tutti i costi di essere riammesso e nelle cui fila militano, oltre allo stesso fratello Filippo, diversi suoi ex compagni di corso alla Nunziatella. La traiettoria di vita dell'irruente sovversivo comincia ad apparire come una linea di sangue.

Pisacane proibito (Parte Seconda) di Edoardo Vitale il  21/6/2021 su Golfonetwork.it. È bastato ragionare su Carlo Pisacane partendo da fatti riferiti da storici liberali e da dichiarazioni dello stesso rivoluzionario o di chi condivideva le sue battaglie antiborboniche per scatenare l'accusa di aver (addirittura!) fatto partire una "macchina del fango". Addebito paradossale, ove si consideri che l'unica vera macchina da 160 anni funzionante a pieno regime, quasi sempre col denaro pubblico, è quella, mastodontica, che distribuisce (fra l'altro) patenti di eroismo civile a chi assecondava i disegni dei rivoluzionari del tempo e di infamia subumana a chi vi si opponeva in qualsiasi modo, sorvolando sugli aspetti "scomodi" del cosiddetto risorgimento e verniciando di retorica azioni che non sempre lo meritano. Noi vogliamo riflettere pacatamente anche sull'avventura di Pisacane, senza trascurarne i lati oscuri. E continueremo a farlo perché sentiamo la ricerca della verità e la difesa della libertà di espressione come doveri civici fondamentali. Né questo può mai far venir meno il rispetto e la comprensione: di cui avrebbe grande bisogno una storia non avvelenata dall'odio. Ma sappiamo che questa regola così elementare non è condivisa da chi divide personaggi antichi e attuali in angeli e demoni, secondo un criterio di convenienza ispirato a finalità a volte non confessabili, non solo politiche. Procediamo, dunque, nella nostra disamina, osservando come, man mano che la traiettoria di vita di Carlo Pisacane si avvicina al suo sanguinoso epilogo, cresca un sentimento di malinconia e di raccapriccio per una giovane esistenza lanciata verso il sacrificio. Ma anche per le altre vite che, direttamente o indirettamente, saranno travolte da questo slancio. Nel suo febbrile peregrinare, Pisacane non si rammarica di aver abbandonato gli agi legati all'ambiente familiare, però la disponibilità economica e le amicizie influenti della sua famiglia altolocata gli tornano utili molto spesso. Intanto, è il fratello "borbonico" che lo aiuta a tornare in Italia. Aiuto discutibile, visto che non gli serve per riprendere la carriera nell'esercito napoletano, come lasciava supporre la sua lettera in cui implorava il perdono di Re Ferdinando II, ma per combattere i suoi ex commilitoni. Un'altra bella spinta nella stessa direzione gli viene dal colonnello francese Mellinet, evidentemente anch'egli sensibilizzato grazie all'influenza familiare, che lo aiuta a lasciare la Legione Straniera. Infatti il servizio in Algeria, divenuto tranquillo essendo stata stroncata la guerriglia patriottica di Abd-el-Kader, ormai lo annoiava a morte. Nel frattempo, il 16 febbraio 1848, mentre militava in Africa, gli era morta la figlia Carolina. Nel marzo di quello stesso anno riabbraccia Enrichetta che gli dà forza per affrontare i nuovi cimenti e lo segue a Milano. Lì si arruola nell'esercito lombardo e con la sua compagnia ha uno scontro vittorioso con gli austriaci. Rimane ferito, ma la sua donna gli è vicina. Si sposta a Lugano e poi in Piemonte. L'8 marzo del 1849, passando per Livorno, la coppia arriva a Roma per dare una mano al governo repubblicano. Lui da combattente, lei da infermiera. Fare clic sull'immagine per ingrandire Il fratello Filippo rischia lo scontro armato con lui quando, a Velletri, come componente della cavalleria napoletana, se lo trova di fronte quale capo di stato maggiore dell'esercito romano comandato dal generale Pietro Roselli. Si trattava di una guerra la cui violenza era accresciuta dall'odio ideologico, dobbiamo dire soprattutto da parte dei "liberali". Lo stesso Roselli, nelle sue Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri avvenuto il 19 maggio 1849, racconta come alcuni soldati napoletani e siciliani, catturati mentre si ritiravano a Velletri e ormai inermi, furono presi a colpi di baionetta dai repubblicani, i quali, rimproverandoli per non essersi schierati contro "la comune patria", parecchi ne uccisero e parecchi ne ferirono gravemente. Condotta contraria all'umanità e all'onor militare, che non è escluso abbia colpito anche qualcuno che era stato commilitone di Carlo Pisacane nell'esercito regio. Così si comportavano i nuovi compagni d'arme dell'ex alfiere di Ferdinando II, re da lui definito "vile tiranno", di cui però, soltanto un anno e mezzo prima (lettera del 6 novembre 1847), implorava "come Suddito" la "Sovrana Clemenza". Va aggiunto che durante la guerra per Roma Carlo Pisacane entra in contrasto con Giuseppe Garibaldi, insofferente alla disciplina organizzativa che egli, come capo di S.M., intendeva imprimere all'armata repubblicana. Dopo che i francesi hanno rovesciato la Repubblica e riportato a Roma il Papa, è arrestato e poco dopo liberato, grazie, questa volta, all'interessamento della famiglia di Enrichetta. Riprende il suo peregrinare seguendo le vie dell'esilio dei rivoluzionari: Marsiglia (viaggiando insieme col liberale cilentano Antonio Galotti), Ginevra e Svizzera (via Germania e Prussia), Londra. In Inghilterra è accolto come eroe. Segue Genova, ove alloggia in una casa di collina dotata di ricca biblioteca, fa ginnastica e irrobustisce le sue convinzioni socialiste. Lì incontra altri esuli cilentani. Il 28 novembre 1852 nasce sua figlia Silvia, che non fa battezzare. La nascita è nascosta ai parenti della madre. Nel 1854 muore il patrigno di Carlo, generale Tarallo, che gli faceva avere una somma ogni mese. Vive quindi poveramente. Nel 1856 trova lavoro collaborando a costruire la ferrovia di Mondovì. Sempre in quell'anno fonda il periodico La libera Parola. Insomma, una vita incredibile, sempre in movimento, tra pericoli, viaggi, incontri straordinari. In cui vi sono alcune costanti. Innanzitutto, l'odio e il disprezzo per i regimi conservatori e per i valori della società tradizionale. Poi la convinzione che qualsiasi mezzo vada adoperato per abbatterli. Rimprovera al generale francese Oudinot di aver negato il bombardamento della città di Roma, proprio in quanto riconosce che sarebbe stato suo diritto ricorrervi. Un'altra costante è l'inserimento in una immensa rete di solidarietà, che si irradia dalle capitali delle potenze imperialistiche di matrice liberale, Londra e Parigi, alle irrequiete Genova e Marsiglia, a Malta; dall'ospitale Svizzera, ai centri italiani di transito e partenza di esuli e congiurati, come Livorno e Civitavecchia. Addirittura in Algeria, nella Legione Straniera, in mezzo a "molti spostati turbolenti", abbondano gli esuli politici. Un imponente movimento internazionale, in cui anche i più accesi nazionalisti sono legati da una solidarietà che trascende di gran lunga le proprie identità, in quanto nasce dall'avversione irriducibile contro l'ordine tradizionale. Cui non si riconosce alcun aspetto positivo e che è visto come una mostruosità da abbattere. Anzi, va sottolineato che quando vi sono popoli che nella ricerca della libertà e dell'indipendenza si battono contro le potenze capitalistiche e liberali, i sovversivi di quel tempo non esitano a schierarsi con queste ultime. È il caso appunto di Carlo Pisacane che in Algeria si arruola fra i mercenari della Légion Étrangère per combattere gli indipendentisti guidati da Abd-el-Kader, considerato il padre della patria algerina. Analoga scelta di campo, del resto, aveva fatto in Sud America Giuseppe Garibaldi; strenuo difensore degli interessi britannici. Fare clic sull'immagine per ingrandire Questi legami si concretizzano in una formidabile struttura organizzativa, che con efficacia e rapidità procura alloggi, denaro, passaporti falsi, armi. In una lettera del giugno 1856 a Giuseppe Fanelli, colui che fa conoscere a Bakunin il pensiero rivoluzionario di Pisacane, questi dice chiaramente che "non sarebbe difficile trovar danaro" per una spedizione nel Napoletano, a condizione di spiegarne bene l'utilizzo a chi lo può fornire. Infatti, aggiungiamo noi, chi dispone di ingenti somme di denaro le elargisce soltanto quando è sufficientemente sicuro che vengano impiegate per un obiettivo a lui vantaggioso. Le maglie di questa rete che attraversa i confini di tutti gli stati si infittisce per la sovrapposizione di un'altra rete, pure importante ed efficace, quella della solidarietà familiare e di ceto (nobiltà e ricca borghesia). Gli entourages di Carlo ed Enrichetta riescono a contattare ambasciatori, funzionari, ufficiali napoletani e stranieri, e a far pervenire ai loro protetti risorse economiche, anche se non sempre con la necessaria continuità. In ogni caso, il fatto che aiutarli significasse spesso oggettivamente facilitare azioni aggressive e violente nei confronti del Regno delle Due Sicilie e potenzialmente rischiosissime anche per i diretti interessati non sembra sia stato un problema per nessuno, a cominciare dall'amato fratello, Filippo, personalmente rimasto fedele alla monarchia. Intanto, si va consolidando in lui la convinzione che per realizzare il "risorgimento italiano" non ci si debba affidare a prìncipi o a partiti, dovendosi piuttosto ottenere l'appoggio di tutta la nazione. Un'eventuale vittoria di Luciano Murat renderebbe il Regno delle Due Sicilie "una provincia della Francia". Mentre se la spada della liberazione d'Italia fosse brandita da Vittorio Emanuele di Savoia si cadrebbe in "una nuova catastrofe": "Il volgo accetta il linguaggio dei fatti, e non ragiona sull'avvenire: vedendo cacciato il Bomba, proclamata una nuova dinastia, si sottometterà molto più volentieri a chi gli promette immediata tranquillità, che a noi che dichiariamo guerra all'Austria" (lettera a Fanelli del 15 settembre 1856). Invece, partendo dal territorio più vasto, quindi dal regno del Sud, occorre che un gruppo di patrioti, anche esiguo, infligga un colpo terribile alla monarchia borbonica, mediante una spedizione che infonda nelle popolazioni il coraggio di rovesciare la tirannia di Ferdinando II. Mazzini è ovviamente coinvolto e altrettanto il comitato insurrezionale napoletano, di cui è parte l'amico Giuseppe Fanelli. La rete sovversiva comincia a sprizzare scintille nell'asse Londra, Genova, Napoli, Malta (lettera del 16 aprile 1856 a Fanelli). Garibaldi, in un primo tempo d'accordo sulla necessità di una spedizione, si tira indietro. Per lui, senza l'appoggio del governo piemontese non si fa nulla. Sarà coerente quattro anni dopo, quando quell'appoggio se lo assicurerà ben prima di salpare da Quarto. Il cambio di regime nelle Due Sicilie non agita i pensieri di chi lavora nelle campagne o nelle fabbriche, ma costituisce un appetibile obiettivo nelle stanze più o meno segrete dei congiurati liberali e nelle sfarzose sale del potere capitalista e imperialista. Carlo Pisacane si compiace del fatto che Lord Palmerston garantisce il non intervento inglese nel caso di instaurazione a Napoli di un governo repubblicano (lettera a Fanelli del 24 marzo 1857). Quindi di questa congiura era stato informato il primo ministro britannico, che dimostra di vederla di buon occhio! Si confermano l'efficienza della rete e l'albionica coerenza nell'appoggio alla pirateria contro le comunità da sottomettere. Pisacane ormai è lanciato come la locomotiva di Guccini e Mazzini lo sprona, mentre gli esuli cilentani a Genova lo sconsigliano. Secondo il liberale moderato Mazziotti, l'impresa fu "una follia commessa contro il parere di tutti e all'insaputa di tutti; ma è stata una magnanima follia" (lettera di Mazziotti a Francesco De Siervo del 26 luglio 1857). Precisa Carmine Pinto che Mazzini e Pisacane ebbero contro il parere di tutti i nazionalisti radicali, come Garibaldi, Bertani, Saffi, Medici, degli esuli meridionali più influenti, come Cosenz, Conforti, Crispi e Musolino, e dei liberali in carcere nel Sud, come Spaventa o Settembrini. Tutti consideravano folle un tentativo del genere, la cui disorganizzazione era evidente. Come luogo dello sbarco pensa in un primo tempo a Palinuro, poi sceglie Sapri. Di là ci si dirigerà ad Auletta, per formare "massa". Il rivoluzionario Pisacane sa fare tesoro dell'esperienza del cardinale Ruffo nella riconquista antifrancese del 1799. Il suo desiderio è che si pugnalino tutti gli appartenenti alla polizia e al "partito regio". Stila un Proclama per l'esercito, promettendo ai militari, oltre a "uno splendido avvenire", "un'agiata ed onorata esistenza" e l'elezione degli ufficiali da parte della truppa. Il 4 giugno 1857 si riuniscono a Genova Giuseppe Mazzini, Carlo Pisacane, Agostino Castelli, Giovanni Nicotera di Sambiase (Lametia Terme), pare entrato su consiglio di Cavour (!), Giambattista Falcone di Acri (Cosenza), i tarantini Vincenzo Carbonelli e Nicola Mignogna, Rosolino Pilo di Palermo e il napoletano Enrico Cosenz. Si decide di partire il 10 perché i "postali" per Cagliari e Tunisi della Rubattino partono da Genova ogni mese il 10 e il 25. Pisacane infatti ha già contattato la Rubattino, favorito dal fatto che a Napoli ne era rappresentante Carlo Di Lorenzo, padre della sua amata. Si raggiunge un accordo nel senso che a Pisacane sarà consegnato il piroscafo Cagliari, a condizione che la società di navigazione non ne risulti compromessa. Si pongono le basi per la commedia che si consumerà a bordo del natante, stucchevole precedente di quella, analoga, che si replicherà nel maggio 1860 sul Piemonte e sul Lombardo. "Impadronitisi" del vapore, secondo un copione su cui sorvoliamo per non offendere l'intelligenza dei lettori, i sovversivi saranno raggiunti in alto mare da Rosolino Pilo con una goletta carica di armi; quindi andranno a Ponza dove libereranno i carcerati e li porteranno con sé a Sapri per dare inizio alla rivolta. Accade però che la barca di Pilo finisce in una tempesta e l'equipaggio è costretto a gettare le armi a mare. La partenza è rimandata. Carlo Pisacane, allora, con audacia (era un condannato per diserzione) si imbarca su un "postale" di linea e da Genova raggiunge Napoli, da cui è assente da oltre un decennio. Deve avvisare il comitato partenopeo del rinvio dell'impresa. Incontra Fanelli e gli altri e, dopo un momento di avvilimento, riprende entusiasmo. La spedizione partirà, secondo il calendario della Rubattino, nella nuova data del 25 giugno! Da Genova, informa Fanelli che "il materiale" è stato "rimpiazzato". Gli manda poi una lettera di istruzioni, che però arriverà a Napoli in ritardo. Scrive il suo Testamento politico e lo consegna alla giornalista inglese Jessie White. Il mazziniano Adriano Lemmi, denominato il "banchiere del risorgimento", gli consegna ventiduemila lire. Come riferisce il Galzerano, "mille sterline sono raccolte a Londra da Emily Hawkes, diciassettemila franchi da Mazzini e a Genova sono raccolti altri milleduecento franchi da Casimiro De Lieto e da altri. Di denaro ne verrà consumato molto: quasi in ogni lettera a Fanelli si fa riferimento ad ingenti somme che gli vengono spedite." La figura di De Lieto è emblematica: apparteneva a una famiglia di commercianti liberali e filofrancesi; fuggito a Londra dopo il fallimento dei moti del 1821, vi rimase oltre dieci anni; nel 1847 fu promotore di una rivolta in Calabria; condannato a morte e poi, su richiesta della moglie (figlia di un ricco commerciante genovese), graziato dal re Ferdinando II. Con l'amnistia concessa dallo stesso "tiranno", nel gennaio 1848, riacquistò la libertà, mostrando la sua riconoscenza col partecipare attivamente alla sanguinosa giornata antimonarchica del 15 maggio 1848. Continuò da Reggio a ordire sommosse, finché non decise di emigrare, prima in Toscana, poi a Genova, sempre garantendo la sua partecipazione e il suo sostegno finanziario alla rivoluzione liberale. La rete, che pullula di ricchissimi notabili, ha deciso che vale la pena di investire un po' delle sue immense risorse in questa spedizione che, per quanto azzardata, potrà quanto meno costituire una prova generale del prossimo assalto e nel caso di malaugurato fallimento, infoltire il pantheon degli eroi della rivoluzione. Lo spazio di un articolo non consente di ripercorrere nei dettagli la spedizione di Sapri. Mi limito ai fatti salienti e a qualche considerazione. Il 25 giugno, al tramonto, l'imbarco di Genova è gremito. Tutti fingono di non conoscersi, ma fino a un certo punto, perché, "sfidando la polizia", ma non certo i pericoli dell'impresa, è venuto a salutare i partenti un tale Giuseppe Mazzini. Enrichetta, da parte sua, doveva rimanere a Genova per essere utile nei moti che vi si prevedevano imminenti. Sorvolo, come preannunciato, sulla messinscena del dirottamento, accompagnato da una "nobile" dichiarazione con cui si scagiona l'equipaggio da ogni colpa. I protagonisti presenti sul vascello sono in tutto 25, di cui sette genovesi, tre anconetani, un orvietano, ecc. Il piroscafo issa la bandiera rossa, segnale non di rivoluzione, ma di avaria alle macchine; altri - forse incoraggiati dalla poesia di Mercantini - dicono il tricolore, ma sarebbe stato stupido attirare l'attenzione. Poco plausibile - ma in ogni caso altamente significativo - quello che dichiara il console inglese a Napoli, ossia che fino a Ponza il piroscafo batté bandiera inglese. Nemmeno stavolta Rosolino Pilo riesce a portargli le armi, ma niente paura: nella stiva del Cagliari - che combinazione! - ce n'è un grosso carico. Sbarcati a Ponza, i quattro che vanno ad aiutare la nave in avaria, fra cui il Comandante di porto, vengono presi in ostaggio. Pisacane allora sbarca, assale il posto di guardia e libera i detenuti. Per occupare la torre ove alloggiavano le truppe e le famiglie degli ufficiali, i suoi uomini uccidono un giovane tenente, Cesare Balsamo, che, facendo fino in fondo il suo dovere, si oppone agli invasori con la sciabola sguainata. A noi il compito di trarlo per sempre dall'anonimato in cui la storiografia liberale lo ha relegato, e segnalarlo all'amorevole ricordo della nostra gente. Fare clic sull'immagine per ingrandire La stragrande maggioranza dei detenuti liberati erano delinquenti comuni. Ernesto Maria Pisacane, discendente di Carlo e grande conoscitore delle vicende del suo avo, ha affermato che la liberazione dei detenuti comuni fu un errore. Io ritengo che si colleghi a una strategia comune a tutte le rivoluzioni senza popolo. In mancanza di sostegno popolare - o meglio, avendo tra i propri sostenitori quasi esclusivamente nobili imborghesiti, possidenti, notabili, con l'aggiunta di chi dipende da loro e non può dire loro di no, mentre i ceti meno abbienti rimangono estranei od ostili ai progetti di rovesciamento dei regimi tradizionali - diventa indispensabile aprire le carceri. Solo così si può portare il gruppo dei rivoltosi a un'entità numerica tale da poter sfidare i difensori dello status quo. Garibaldi fece altrettanto e, anzi, si assicurò l'alleanza dei picciotti in Sicilia e della camorra a Napoli. Sta di fatto che i carcerati fatti evadere erano molti di più dei 323 che salirono sul Cagliari. Si può immaginare che cosa possono aver fatto gli altri rimasti a Ponza, prima che le truppe delle Due Sicilie, dopo l'encomiabile viaggio in barca fatto da alcuni volenterosi a Gaeta per avvertire le autorità, ristabilissero l'ordine nell'isola. Partiti da Ponza all'alba del 28 giugno, i sovversivi arrivano a Sapri nel tardo pomeriggio dello stesso giorno. Durante il viaggio Pisacane avrà avuto il suo daffare a indottrinare rapidamente i detenuti comuni, e a rincuorare tutti con false notizie circa le migliaia di insorgenti che li aspettavano per unirsi a loro (duemila già a Sapri!) e la certa insurrezione di Napoli. Quando gli invasori sbarcano, dei duemila compagni di sommossa non c'è traccia. Anche perché da mesi lo stato maggiore rivoluzionario del Principato Citra era stato arrestato, compreso Giovanni Matina, l'ideatore del piano d'azione fatto proprio da Pisacane. Il grido lanciato nella notte, "L'Italia agli italiani!" non riceve nessuna risposta. Il Cagliari riparte e viene subito sequestrato dalla marina borbonica, che ovviamente arresta l'equipaggio. Giunto nella sua terra, Carlo Pisacane, sebbene convinto che la proprietà sia un furto, va innanzitutto a cercare un ricco barone della zona, liberale fra i protagonisti e i finanziatori (con 1000 ducati d'oro) del 1848, Giovanni Gallotti, per ottenere denaro e aiuto. Ma quando bussa alla sua porta, portando con sé una guardia doganale fatta prigioniera, non lo trova, e i familiari gli dicono di non volere essere coinvolti nella sua azione. Nicotera e Falcone, intanto, con un'altra squadra di "patrioti", vanno a cercare il prete Vincenzo Peluso per ucciderlo e vendicare, così, la morte di Costabile Carducci. Non avendolo trovato, si limitano ad appiccare il fuoco al portone e a prendere a colpi di scure le porte. A Sapri, in un "immenso deserto di indifferenza", trova solo le vane promesse di un altro esponente della famiglia Gallotti, il sacerdote Filomeno, fratello di Giovanni, e l'adesione del loro domestico Mansueto Brandi. Liberano tre carcerati e si recano a Torraca, preceduti dal Brandi che cerca in ogni modo di tranquillizzare la gente, intenta a festeggiare i Santi Pietro e Paolo alla presenza del vescovo. Pisacane legge in piazza un proclama, in cui, preso atto della freddezza della popolazione, per convincere la gente a rischiare la vita con lui prospetta un'inesistente adesione dell'esercito alla sua azione e l'imminente insorgenza prima delle province e poi della capitale. Aderisce solo un taverniere, tale Vincenzo Cioffi, che rifocilla i rivoluzionari. Viene abbattuto il palo del telegrafo, e intanto alcuni galeotti riprendono a fare il loro mestiere. La banda prosegue per Padula; a Casalbuono Pisacane va a cercare non una famiglia di oppressi, ma un altro barone, De Stefano. A Casalbuono si verifica un terribile episodio: un seguace di Pisacane, Eusebio Bucci, prende del pane dalla commerciante Giulia Novellino pagandolo 16 anziché 36 grana. Pisacane dà la differenza e lo sottopone a un "consiglio di guerra", che lo giudica colpevole e lo condanna alla fucilazione, immediatamente eseguita. Delle due l'una: o il racconto è infedele, nel senso che Bucci fece qualcosa di ben più grave che pagare meno del dovuto, il che conferma la pessima moralità di molti improvvisati sovversivi, oppure la reazione dei sodali di Pisacane fu di una crudeltà assolutamente sproporzionata. Quindi la versione "edificante" riportata dagli storici liberali fa acqua da tutte le parti. A Padula, come al solito, si rivolgono al barone del luogo, Ferdinando Romano, che li ospita. Il paese, sguarnito di truppe, era deserto: gli uomini al lavoro nei campi e i galantuomini chiusi nelle case. Pisacane riesce a incontrare solo un gruppetto di "galantuomini" e qualche prete. Comunque la caserma viene assaltata, carte e registri vengono bruciati, le guardie urbane disarmate, stemmi e immagini del re distrutte. Il mattino del 1° luglio arrivano i soldati delle Due Sicilie, al comando del colonnello Ghio. Al di là delle versioni agiografiche, che disperatamente cercano di saturare i colori per angelicare i rivoltosi e demonizzare i difensori, aggiungendo presunte frasi edificanti dei rivoluzionari o raccapriccianti particolari della repressione, sta di fatto che chi si introduce nel territorio di uno Stato per rovesciarne il governo non può aspettarsi di essere accolto col tappeto rosso. E questo certamente non si aspettava Pisacane, che da militare era ben consapevole del rischio legato ad ogni azione di forza. Proprio lui che aveva riconosciuto al suo nemico Oudinot il diritto di bombardare Roma! Solo la faziosità ideologica può negare la legittimità dell'intervento di chi, come il tenente Balsamo a Ponza, è obbligato a difendere le istituzioni per le quali opera. E qui erano in gioco anche l'ordine e l'incolumità pubblica, in quanto coloro che sbarcavano, in armi, erano in gran parte delinquenti comuni, in molti casi desiderosi di tornare a operare nella loro provincia natìa, ed erano spesso conosciuti dalla gente, che ne aveva giustamente paura. E il fatto che la popolazione, rischiando la vita, aiuti la polizia a debellare una banda armata composta in gran parte da uomini con l'abito da reclusi, non può che essere lodato da chi non è affetto da cieco pregiudizio. Se vi sono stati episodi di ferocia, sono senz'altro da condannare, ma l'essenza dell'evento è questa. Sulle circostanze in cui Pisacane ha trovato la morte le versioni sono molte e l'individuazione di quella vera trascende di molto le finalità di questo articolo. Le raffigurazioni apologetiche della morte di Pisacane lo vedono nell'atto di soccombere, armato, a popolani e gendarmi; eppure si afferma che egli e i suoi fossero, se non disarmati, già praticamente inermi. Tuttavia non risulta che si fossero arresi, né che avessero deposto le armi. La tesi del suicidio di Pisacane, pure prospettata (anche dall'Enciclopedia Treccani), è oggi minoritaria. E poco si armonizza con la sua indole combattiva che abbiamo imparato a conoscere. Fare clic sull'immagine per ingrandire La versione del sotto-capo urbano Sabino Laveglia nel suo rapporto sui fatti di Sanza è che i sovversivi avanzavano sparando. La sua testimonianza è poco utile, essendo egli fortemente interessato a sopravvalutare la pericolosità dei propri avversari. La versione maggiormente celebrativa recita che alle prime fucilate sessanta rivoltosi si danno a fuga precipitosa e sventolano pezze bianche in segno di resa, mentre Nicotera cerca invano di farli desistere. E che, viceversa, la trentina di uomini rimasti con Pisacane avrebbe voluto reagire all'assalto dei paesani e dei gendarmi, ma qui interviene la frase esemplare attribuita a Carlo in punto di morte: "Non si versa mai sangue fraterno!". Quand'anche ci si volesse attenere a questa versione, sembrerebbe molto improbabile che le parole di Pisacane, ammesso che siano state pronunciate, avessero indotto tutti i compagni a dare chiari segni di resa. Ed è difficile fermare una folla inferocita ed eccitata nel momento dello scontro. In verità, se dell'attendibilità di Laveglia si può legittimamente dubitare, altrettanto inaffidabile è la testimonianza del giudice Gaetano Fischetti, il quale avalla la tesi dell'assassinio di persone inoffensive che si erano già arrese: egli, infatti, racconta i fatti in pieno regime sabaudo, e ci sarebbe voluto un coraggio da leone per contraddire la versione data da Nicotera al processo. Invece la santificazione di Pisacane è molto opportuna per un funzionario che ha fatto carriera nel regime borbonico e manifestato compiacimento per l'esito dello scontro di Padula, e ora deve riconquistare la fiducia dei nuovi governanti. Altre versioni circolano dell'uccisione di Pisacane. Come quella del gendarme Gaetano Enter, il quale disse di averlo personalmente colpito a morte in risposta a due colpi di fucile sparatigli dal noto rivoluzionario. Un'altra ricostruzione dei fatti è stata tramandata oralmente nella zona, differenziandosene solo nell'individuazione dell'uccisore. In realtà, nessuno sa con precisione come veramente siano andate le cose, almeno nell'ultima ora dell'esistenza terrena di Carlo Pisacane. Sappiamo che un gruppo di rivoluzionari sbarcati nel territorio del Regno, commettendo una serie di violenze e uccidendo un giovane ufficiale, hanno fatto uscire dal carcere di Ponza moltissimi detenuti, in massima parte comuni, e con circa trecento di essi, unitisi al gruppetto dei liberali, si sono portati in armi sulla costa del Principato Citra, col proposito di scatenarvi una rivolta. Sappiamo anche che presso Sanza un gruppo di gendarmi, capitanati da Sabino Laveglia, si opposero allo sbarco come il dovere loro imponeva, ottenendo l'appoggio di parte della popolazione. Sebbene la banda dei rivoltosi si presentasse più debole, non c'è dubbio che lo scontro rappresentasse comunque un rischio per chi aveva scelto di parteciparvi, anche da parte realista. Quindi bisogna avere l'onestà intellettuale di riconoscere che i gendarmi e i popolani ebbero del coraggio. Se poi nell'azione vi furono degli eccessi, vanno certo condannati; come del resto bisogna condannare il massacro di inermi prigionieri borbonici consumato dai liberali repubblicani a Velletri. Di certo, all'arrivo di Garibaldi in zona, tre anni dopo, Sabino Laveglia, il fratello Domenico, il farmacista Filippo Greco Quintana e Giuseppe Citera, furono presi e fucilati da un "liberale", tale Cristoforo Ferrara di San Biase, frazione di Ceraso. Incredibilmente, nel raccontare l'evento, c'è chi parla di "processo" fatto dallo stesso boia. Il che fa capire perfettamente quale concetto di giustizia abbiano certi esaltatori del risorgimento. Io penso che Carlo Pisacane, il quale inneggiava all'uccisione immediata, per accoltellamento, di ogni appartenente al partito borbonico, e, ovviamente, dei poliziotti, non avrebbe mai preteso né pensato di non trovare opposizione armata. Era un militare serio e non avrebbe accettato versioni dolciastre e strumentali della sua estrema vicenda terrena, che fu sbocco coerente del suo pensiero. Ma su questo rifletteremo prossimamente. (Edoardo Vitale)

"Garibaldi? Era juventino". Ecco perché...Simone Savoia il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. Assalto post-futurista, sberleffo partenopeo, pernacchio di eduardiana memoria: tutto questo è il Garibaldi juventino. Il 7 settembre 1860 Giuseppe Garibaldi faceva il suo ingresso a Napoli, dove era giunto comodamente in treno. Marcia trionfale sulla Marina, sosta al Duomo per il ‘Te Deum’, breve discorso alla folla a Largo di Palazzo (oggi piazza del Plebiscito) e poi passaggio del cosiddetto ‘Spiritussant’, lo Spirito Santo, cuore artigiano di via Toledo. Presenti in testa al corteo anche il ministro di polizia del Regno delle Due Sicilie Liborio Romano e il camorrista Salvatore De Crescenzo, Tore e’ Crescienzo, i cui sgherri gestirono l’ordine pubblico durante l’evento. Un momento che un dipinto a china del pittore boemo Franz Wenzel Schwarz realizzato tra il 1860 e il 1875 racconta in un tripudio di popolo con tricolori dell’Italia sabauda levati al vento. Sullo sfondo testimone muto e austero lo splendido Palazzo Doria D’Angri a separare con la sua dimensione monumentale le prospettive di via Sant’Anna dei Lombardi e della stessa via Toledo. Proprio dall’edificio neoclassico che vide l’opera di architetti come Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga, Garibaldi proclamò l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. In pratica quel giorno Napoli cessò di essere Capitale di Stato, sebbene il suo ruolo in Italia resterà davvero di primo piano almeno fino alla fine della Grande Guerra nel 1918. Certo, chi lo avrebbe mai detto al Generale, all’Eroe dei due mondi, che 161 anni dopo alcuni napoletani con un blitz lo avrebbero tesserato d’ufficio con la Juventus. Infatti ieri mattina, 23 giugno 2021, alcuni esponenti del movimento “Napoli Capitale” con un blitz hanno messo sulle spalle della statua di Garibaldi in Piazza Mancini, proprio dal lato opposto rispetto alla stazione ferroviaria centrale, un’enorme maglietta bianconera con la scritta “Garibaldi era juventino”. Alle 8 gli addetti comunali hanno ceduto il neojuventino sul mercato, togliendogli la casacca non colorata. Il 15 giugno scorso una maglietta, quella con il numero 10 di Diego Armando Maradona, aveva acceso la campagna elettorale per le comunali con Giuseppe Conte in atto di interposto pentimento per la fede bianconera del candidato Pd-5Stelle Gaetano Manfredi. L’ex Presidente del Consiglio l’aveva ricevuta in omaggio sventolandola a beneficio di telecamere, fotografi e cittadini. Assalto post-futurista, sberleffo partenopeo, pernacchio di eduardiana memoria: tutto questo è il Garibaldi juventino. Perché unisce in una sintesi ultra popolare le due avversioni forse più epidermiche, sanguigne e accorate dei napoletani: la Juventus e il Risorgimento sabaudo. Sulla prima nulla quaestio, come da brocardo giuridico: niente da dire. La Juventus è il compendio ideale che funge da contenitore di tutto ciò che al napoletano resta sullo stomaco: il Nord Italia, la Fiat, il potere degli Agnelli, il potere nel calcio, la vittoria a ogni costo. Il 3 novembre 1985 con una memorabile e impossibile punizione delle sue (la barriera non era assolutamente a distanza regolamentare) Maradona stese i bianconeri ed entrò definitivamente nel cuore dei napoletani. Il 6 aprile 1975 l’ex giocatore napoletano Josè Altafini segna a due minuti dalla fine il gol del 2 a 1 per la Juventus sul Napoli, risultato che sarà decisivo per far vincere ai bianconeri uno scudetto sul filo di lana proprio davanti ai napoletani. I tifosi azzurri non la perdoneranno al campione brasiliano, lo ribattezzeranno ‘core ‘ngrato’, cuore ingrato, come una canzone di inizio Novecento resa famosa da Enrico Caruso. Metteteci i trasferimenti alla Vecchia Signora dei napoletanissimi Ciro Ferrara (estate 1994) e Fabio Cannavaro (estate 2004, ma il difensore non era più del Napoli dal 1995). Aggiungeteci anche, già che ci siete, che i tifosi di ‘quelli là’, quando battono il Napoli cantano a squarciagola “O’ surdato ‘nnammurato”, segno però che la cultura napoletana conquista davvero tutti senza distinzioni e confini. Ecco spiegata in parte una rivalità inestinguibile. Sul Risorgimento e il Sud si aprirebbe un capitolo troppo lungo per questa sede. Certamente un ritrovato impegno politico economico e culturale sul Mezzogiorno d’Italia e sulla sua metropoli più rappresentativa darebbero nuova linfa a una dimensione nazionale dell’Italia, svuotando così la palude di isolazionismi e secessionismi. Quella statua di Giuseppe Garibaldi non è mai stata troppo amata dai napoletani. Dopo la morte di Maradona (25 novembre 2020) in molti proposero di abbatterla e sostituirla con una dedicata al Pibe de Oro. Altri ancora vorrebbero vedere su quel piedistallo Ferdinando II, il Re Bomba, ma anche il creatore delle officine di Pietrarsa. Eppure il Generale Garibaldi è lì dal 7 settembre 1904, 44 anni esatti dopo l’ingresso delle camicie rosse a Napoli, quando l’opera del maestro fiorentino Cesare Zocchi fu inaugurata in pompa magna e prese il posto della fontana dedicata alla sirena Partenope che oggi fa bella mostra di sé in piazza Sannazaro. Come emerge dalla significativa biografia dell’Eroe dei due Mondi a cura di Indro Montanelli e Marco Nozza, Garibaldi girò il mondo alla ricerca di cause per le quali combattere, sempre sentendosi italiano. E la sua fu una predilezione soprattutto per i Sud del mondo e per la liberazione dei popoli oppressi. Fu un personaggio davvero globale in un mondo e in un’epoca che ancora ignoravano quest’orizzonte che oggi è nelle cose. Ci sentiremmo perciò di dubitare che Garibaldi sarebbe stato tifoso della Juventus. Più probabilmente avrebbe tifato per squadre come il Nizza, l’Ajaccio, il Cagliari, il Boca, il Genoa. E forse, chissà, anche il Napoli. Di sicuro avrebbe fatto l’impossibile per arruolare un eroe e un paladino del pueblo e dei Sud del mondo come Maradona. Per cui l’azione dei futuristi di “Napoli Capitale” ha diversi meriti: ci restituisce un Garibaldi più pop che mai, figura viva e contemporanea più che mai in un’Italia contemporanea in cui scarseggiano i simboli in cui identificarsi (perfino la Nazionale di calcio non ha leader riconosciuti). E forse può dare ulteriore spazio a una divulgazione del Risorgimento che, pur con i diversi orientamenti storiografici, resta l’unica vera tradizione nazionale italiana. Aspettiamo che il Napoli vinca il terzo scudetto della sua storia. Vedrete che Giuseppe Garibaldi indosserà magicamente la casacca biancazzurra sorridendo nascosto dalla folta barba…

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione Italiana Sommelier, munito di videocamera e microfono per vigneti e cantine d'Italia. Tifoso del Napoli e della Polisportiva Apollosa 1981. In emotiva partecipazione anche per il Benevento Calcio. Troppo ottimista per essere pessimista. Troppo pessimista per essere ottimista

LE BUGIE PARTIGIANE DI BARBERO AL FESTIVAL DELLA MENTE. Paolo Asti (Portavoce Nazionale CulturaIdentità) il 5 Settembre 2021 su culturaidentita.it su Il Giornale. Non ne possiamo più di storici come Barbero, invitati negli anni al Festival della Mente per raccontare tutta la storia del mondo, da quella medievale fino a quella contemporanea, quasi che nel mondo scientifico non esistessero delle competenze specialistiche tali da rendere impossibile agli storici di occuparsi di tutto lo scibile vissuto dall’uomo. Ormai Barbero è l’appuntamento che il pubblico attende come lo Spritz della sera, buono bianco, con il campari o aperol, a seconda dei gusti, ma sempre con l’orgoglio di avere la tessera del partito comunista con la firma di Berlinguer. Niente di male per carità, perché ognuno ha il diritto di essere orgoglioso per quel che gli pare, ma quello che ci attendiamo da anni è che il Festival della Mente faccia cultura grazie al confronto, invece, qualsiasi sia il tema, la visione è sempre a senso unico. Ho molto apprezzato come il sindaco di Sarzana Cristina Ponzanelli ha gestito nei giorni scorsi il centesimo anniversario dei Fatti del 21 luglio del ’21, partecipando e garantendo, nei vari appuntamenti, la pluralità del dibattito, andando anche per alcuni aspetti contro parte della sua maggioranza. E’ questo lo stile che vorremmo da un’istituzione pubblica e da chi si occupa della direzione artistica di un festival. Invece, nel momento in cui si cerca di compiere un revisionismo o del riduzionismo vergognoso, alla Montanari, ecco che Barbero ci racconta sulla stampa nazionale che: “il Giorno del Ricordo è una tappa di una falsificazione storica”. Consiglio a Barbero e a tutti quelli che lo seguono di riascoltare il discorso del Presidente Mattarella di due anni fa nella giornata dedicata alle vittime di quelle barbarie e in particolare un passo: “Non si trattò come afferma qualche storico revisionista o riduzionista di una ritorsione ai torti subiti dai fascisti perché tra le vittime ci furono uomini, impiegati, operai e prelati quanto più lontani dal fascismo e fino anche militanti comunisti, verso cui si riversò un odio intollerabile etico e sociale…” Uno storico che afferma: “i partigiani titini stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata.” non afferma una convinzione frutto della ricerca e della libertà di pensiero ma un falso con cui un qualsiasi studente verrebbe invitato a tornare un’altra volta a ridare l’esame di storia contemporanea. L’auspicio per la prossima edizione è quello di invitare, se non un contradditorio che capisco non rientri nello stile del Festival , almeno qualche storico che, come scrive Maurizio Crippa vice direttore del Foglio, riferendosi alle risposte all’intervista di Barbero a Il Fatto quotidiano come “ .. ubriacatura ideologica. Un’intervista al barolo, si sarebbe detto un tempo, oggi più banalmente un’intervista al Barbero.”

L’altra storia del Sud. Caro professor Barbero, su Garibaldi e l’unità diciamola tutta…di Michele Eugenio Di Carlo su nuovarivistastorica.it. Pubblicato il 4 marzo 2020 su «Il Sud on line».

Professor Alessandro Barbero, essendo lei uno degli storici medievisti più accreditati, perché non lascia la storia del nostro processo unitario a specialisti già in evidente difficoltà? In un suo famoso intervento divulgato dal canale YouTube dal titolo “La verità su Garibaldi”, lei tentando di riproporre la figura dell’“Eroe dei due mondi” dice molte verità. Ma da quelle stesse verità che lei racconta, omettendone altre che le dirò, il personaggio Garibaldi al vaglio attento dello studioso e dello storico, al di là delle “leggende truffaldine”, non esce affatto fortificato come repubblicano, come patriota, come politico. Lasci allora che un modesto studioso non accademico, non “educato” a frequentare studi televisivi importanti e spesso definito impropriamente “neoborbonico”, spieghi cosa Lei non ha vagliato, forse intenzionalmente, della figura di Garibaldi. Il Giuseppe Garibaldi, ricordato in tutta Italia con statue, intitolazioni di vie e di piazze, godeva di uno stretto legame che lo vincolava alla Gran Bretagna, potenza coloniale che aveva forti interessi politici e commerciali da difendere nel Mediterraneo e che non si era mai fidata di Ferdinando II scatenandogli contro una spietata campagna denigratoria, i cui effetti persistono ancora oggi nei testi di storici assurdamente ancorati ad una storiografia ufficiale liberale sabauda. L’idea di preparare una invasione militare in Sicilia non era stata di Garibaldi. In una lettera del 5 maggio ad Agostino Bertani, pubblicata l’8 maggio 1860 sul “Pungolo”, è lo stesso Garibaldi a renderlo noto. Anche per Camillo Benso Conte di Cavour, non era il momento propizio per sostenere i moti siciliani e impegnarsi nell’organizzazione di una spedizione militare in Sicilia, per le ragioni che lei stesso ha esposto. Infatti, il suo collega Pietro Pastorelli, professore emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Roma “La Sapienza” e presidente della Commissione del Ministero degli Esteri per la pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani, dopo aver consultato l’ultima edizione completa dei Carteggi di Cavour e i documenti editi dagli archivi inglesi, francesi, e prussiani, non ha lasciato alcun dubbio sul fatto che sia stato il Regno Unito ad incoraggiare e sostenere l’azione militare in Sicilia. Gentile professor Barbero, il ruolo della Gran Bretagna non è un elemento irrilevante nella ricostruzione storica della figura di Garibaldi. Le critiche della Gran Bretagna al trattato franco-sardo del 24 marzo erano note, l’annessione della Savoia e di Nizza alla Francia aveva raggelato i rapporti tra Londra e Parigi e indotto il Governo inglese ad emettere un giudizio di totale inaffidabilità sul Conte di Cavour. Il pericolo che si potessero riaprire le porte d’Oriente alla Russia a cui il Regno delle Due Sicilie era particolarmente legato e che la Francia potesse allargare la sua influenza anche in Italia meridionale, mettevano in discussione l’egemonia economica e commerciale della Gran Bretagna nel Mediterraneo. Già il 5 aprile Cavour, sospettando l’azione inglese nell’insurrezione di Palermo, contattava telegraficamente d’Azeglio, ambasciatore a Londra, affinché indagasse su un’eventualità del genere. Qualche giorno dopo d’Azeglio, sempre in contatto con il Primo Ministro inglese Palmerston, riferiva al Conte che l’atteggiamento di sfiducia nei suoi riguardi non era affatto mutato e che ulteriori altre annessioni italiane favorite dalla Francia non sarebbero state accettate dall’Inghilterra. Pastorelli deduce dai comportamenti la linea seguita dagli inglesi; una linea che si risolse nel sostenere con un accordo segreto l’operazione militare di Garibaldi nel sud Italia senza nemmeno contattare il Primo Ministro sabaudo di cui Palmerston non si fidava. Naturalmente, il sostegno a Garibaldi doveva essere negato anche di fronte all’evidenza per evitare reazioni di Francia, Austria, Russia e Prussia. Il 30 aprile, il ministro degli Esteri inglese Russel trasmetteva all’ambasciatore Hudson le istruzioni sulla linea politica che il Governo torinese avrebbe dovuto seguire per andare incontro agli interessi inglesi. Londra desiderava il non intervento di Torino nelle questioni riguardanti il Regno delle Due Sicilie, perché convinta che un intervento diretto del Piemonte avrebbe comportato l’intervento armato dell’Austria e per reazione quello della Francia a difesa di Torino. Un’eventualità del genere avrebbe comportato l’ulteriore cessione di territori italiani alla Francia (Liguria o Sardegna) e uno squilibrio nella prevalenza inglese del Mediterraneo. Questa la ragione precisa per cui l’Inghilterra si apprestava a sostenere l’impresa azzardata e “piratesca” di Garibaldi. Ed era questo anche il motivo per cui Garibaldi cambiava diplomaticamente atteggiamento nei riguardi di Cavour, dopo la frattura dei loro rapporti seguita alla cessione di Nizza. Finanche lo storico Giuseppe Galasso ha apprezzato il comportamento opportunistico di Garibaldi in quel frangente, scrivendo che aveva «lucidamente inteso le condizioni» che potevano agevolare la sua impresa, mantenendo a ogni costo «il rapporto con Torino, per averne l’appoggio diplomatico e militare». A questo punto professor Barbero, il Garibaldi socialista, repubblicano di cui lei parla già appare come una figura sfumata e dai contorni ambigui. Non solo perché tradisce i suoi ideali, ma perché come scrive il suo compianto collega Galasso è costretto a dimostrare «di non procedere nel Mezzogiorno ad alcuna sovversione dell’ordine sociale, garantendo insieme l’opinione pubblica europea e la borghesia meridionale». Garibaldi, temendo impedimenti e ostacoli, vince la forte inimicizia e scrive a Cavour un messaggio per coinvolgerlo nell’impresa. Convocato il 2 maggio a Bologna, incontra Vittorio Emanuele II e Cavour, illustra i piani dell’impresa, conferma l’appoggio inglese, riceve l’approvazione sotto copertura del Re e del Primo Ministro. Professor Barbero, l’altro suo collega Eugenio Di Rienzo, accademico esperto, direttore della “Nuova Rivista Storica”, noto docente di Storia Moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma, riprendendo una lettera di Massimo d’Azeglio all’ammiraglio Carlo Pellion, conte di Persano, riporta alla luce che il vero piano affidato da Cavour all’ammiraglio era quello di condurre «una guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II». Da quanto riportato si evince chiaramente che il Conte sosteneva un’azione illegale, contro il diritto internazionale, temendone le ripercussioni a livello europeo. Quindi, il compito di Persano non era quello dichiarato di avversare il progetto, ma di fornire assistenza a Garibaldi e a tutte le spedizioni successive di uomini e di mezzi, ponendo tutti gli impedimenti possibili alla reazione della flotta borbonica, anche al costo di continuare a corrompere gli ufficiali napoletani favorendone il trasferimento sotto le insegne della Marina dei Savoia. Professor Barbero, come Lei riferisce, i Mille non erano Mille, ma è bene chiarire che Garibaldi è uno strumento in mano alla Gran Bretagna, affiancata da un Regno di Sardegna che agisce in maniera indegna. Professor Barbero, il tanto vituperato legittimista Giacinto de’ Sivo si sbaglia forse quando, parlando di Cavour, afferma che era un «ipocrita istigatore di guerra civile cui fingeva di deplorare, accennava a italianità, quasi non fossero italiani i combattenti pel diritto. Per esso erano italiani e compatrioti i ribelli, i traditori e i codardi che gli vendevano la patria […] »? Prof. Barbero, Garibaldi nelle sue “Memorie” così descrive l’approdo a Marsala dell’11 maggio 1860: «… la presenza di due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci; e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera d’Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto». Professor Barbero, non la colpisce profondamente constatare che «l’eroe dei due mondi», il rivoluzionario Garibaldi, si riteneva «beniamino» di coloro i quali avevano issato in mezzo mondo la bandiera di quella Gran Bretagna che era ritenuta la più grande potenza coloniale e imperialistica al mondo, che solo da qualche anno aveva abolito lo schiavismo e il traffico di carne umana, che non esitava a passare per le armi i suoi nemici interni e esterni, che manteneva in condizioni di estrema povertà le classi proletarie, che permetteva che milioni di suoi sudditi emigrassero per la fame, che aveva un sistema carcerario tra i peggiori al mondo? Professor Barbero, non desta in Lei nessuna impressione il fatto che chi progettava di unificare l’Italia dal gioco straniero si affidava pienamente alla Gran Bretagna nel tentativo di sopraffare una legittima monarchia perfettamente italiana? Un Garibaldi non poteva andare oltre le semplici dichiarazioni di affezione, amicizia, simpatia e rivelare chiaramente quale fosse stato il ruolo degli inglesi nella spedizione anche se, come spiega ancora il suo collega Di Rienzo, la presenza della flotta inglese non solo nel mare di Sicilia era vista come una minaccia concreta sia dagli ufficiali della Marina napoletana sia da Francesco II e quasi sicuramente la decisione di approdare a Marsala era stata concordata da Garibaldi con i referenti del Governo inglese. E a proposito dei soldi necessari all’impresa bisogna anche qui chiarire meglio il ruolo della Gran Bretagna e della Massoneria. Infatti il 4 marzo 1861, quando l’Italia stava per essere unificata, il deputato John Pope Hennessy riaccendeva la discussione e contestava al Governo inglese di aver interferito nella vittoriosa impresa garibaldina, sostenendola militarmente, finanziariamente e diplomaticamente, mentre ufficialmente caldeggiava ipocritamente la linea del non intervento negli affari italiani. Secondo Pope le due navi della flotta inglese erano presenti nella rada del porto di Marsala col preciso compito di fornire il supporto necessario ad assicurare lo sbarco a Marsala degli uomini in camicia rossa. Pochi erano i dubbi sul coinvolgimento inglese nella conquista militare del Regno delle Due Sicilie; dubbi che si affievolirono del tutto quando lo stesso Pope rese nota la lettera con cui Vittorio Emanuele II aveva ringraziato il Governo inglese. Professor Barbero, come Lei afferma, Garibaldi “socialista” non piaceva a Karl Marx. Marx ed Engels seguirono con attenzione l’azione di Garibaldi, ma solo inizialmente, anche perché sono noti i loro giudizi negativi sull’evoluzione politica italiana. E d’altronde, come poteva piacere a Marx il Garibaldi che supportato da ambienti finanziari e politici inglesi finiva per consegnare il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e alla casta politico-militare dei Savoia, che trattarono il sud Italia come fosse una colonia, instaurandovi un feroce regime repressivo? Professor Barbero, anche sul fatto che la figura di Garibaldi è stata proposta più volte nella storia dalla sinistra come icona positiva – da ultimi i comunisti svizzeri – ha totalmente ragione, ma non c’è da esserne soddisfatti. Pensi quanto sia stata potente la macchina della propaganda agiografica messa in piedi dai governi liberali dopo il processo unitario, se anche la sinistra non è riuscita a distinguere il Garibaldi “socialista” da quello che consegna la conquista militare a Vittorio Emanuele II. Professor Barbero, non si può, d’altro canto, non registrare l’utilizzo strumentale che ne fece anche il fascismo. Fulvio Orsitto, docente accademico esperto di cinema, senza mezzi termini, considera la seconda fase della cinematografia, quella definita «fascista», un periodo storico in cui «la ricostruzione della storia patria si svolge in modo funzionale agli interessi di un regime che intende essere considerato la logica conclusione del processo risorgimentale». Un Risorgimento manipolato strumentalmente al fine di nazionalizzare le masse, dato che non poteva sfuggire all’intellettualità fascista come il cinema fosse un potente mezzo di comunicazione, piegabile ad uso propagandistico, e che il potere poteva efficacemente utilizzare per indottrinare e ideologizzare le masse. Emblematica di questa maniera romantica e fantastica di rappresentare il Risorgimento è il film “1860”, diretto da Alessandro Blasetti nel 1934. Daniele Fioretti, peraltro, docente alla Miami University, non nutre alcun dubbio sulla circostanza che Blasetti non si era affatto proposto di fornire un quadro storico verosimile del Risorgimento, ma una banale celebrazione agiografica dell’epopea garibaldina con un intento smaccatamente propagandistico. Il pericolo concreto fu allora persino avvertito dal filosofo tedesco Walter Benjamin: la storia e le tradizioni erano diventate lo strumento della classe dominante, mentre compito dello storico era proprio quello di sottrarre la storia a questo tipo di manipolazione. Egregio professor Barbero, non Le sembra un ammonimento più che mai attuale. Per finire professor Barbero, – mi riferisco ai suoi giudizi sulle “leggende truffaldine” della sua ultima visita a Napoli – si convinca anche Lei relativamente a quanto ha affermato il suo collega specialista della materia Eugenio Di Rienzo: il lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici del Risorgimento è prezioso. Infatti, tornando a Garibaldi, su una delle questioni centrali della “avventura” in Sicilia, Di Rienzo ha affermato che la longa manus del ministero whig ha «potentemente contribuito (soprattutto ma non soltanto con un supporto economico) al successo della ‘liberazione del Mezzogiorno’», aggiungendo lucidamente «che la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza» un’ipotesi «che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filoborbonica».

Lamberto Duranti - Alessandro Barbero: la Storia. Facebook il 14 giugno 2021.

STORIA E CRITICA STORICA. Si nota, purtroppo, che troppi commenti sono solo insulti o affermazioni senza documentazione, questo va contro ogni logica storica e contro il senso civico. Nel caso di Giuseppe Garibaldi c'è un particolare accanimento, forse perché i grandi personaggi fanno ombra o forse perché Garibaldi ha di fatto unito l'Italia o per qualche altro motivo? Chi insulta dovrebbe invece spiegare le sue ragioni e farlo con documentazioni o semplicemente affermare che è contrario all'unità della penisola italiana o spiegare altre ragioni. Sempre restando su Garibaldi ricordiamo che a Parigi c'è una via importante intitolata "Boulevard Garibaldi", una Piazza Garibaldi con statua e anche una stazione del Metro Garibaldi, perché Garibaldi fu l'unico a vincere una battaglia contro l'Esercito Prussiano, che aveva sbaragliato quello francese. Per concludere chi fa affermazioni senza fonti e/o insulta, andrebbe immediatamente allontanato da qualsiasi gruppo, perché agisce contro lo studio della storia, che si fonda su fatti dimostrati e dimostrabili e che dà il giudizio sulla base della globalità dei fatti, le opinioni personali non sono storia. Termino affermando che le stesse regole valgono per personaggi come Ferdinando II o Francesco II, sì alla critica storica documentata, ma assolutamente no agli insulti, chiunque sia il personaggio in questione.

Michele Eugenio Di Carlo. Facebook il 14 giugno 2021. Carissimi, lasciamo perdere retorica e agiografica. Su Garibaldi ci sono tanti documenti che attestano chi sia stato in realtà e cosa abbia voluto e fatto per davvero. Lasciamo stare i romanzi e le poesie alla Dumas, Abba, Mercantini e andiamo al Carteggio Cavour, ai documenti diplomatici in particolare inglesi, peraltro riportati da storici della Sapienza come Pastorelli e Di Rienzo. Partiamo dall'incontro di Bologna del 2 maggio 1860, quando Garibaldi incontra Cavour con cui aveva rotto i rapporti per la cessione di Nizza. Perché incontra Cavour? Lo fa per non essere ostacolato nella spedizione dei Mille e per confermare a un riluttante Cavour che ha dietro di sé la Gran Bretagna. Non che Cavour non lo sapesse: Palmerton non voleva più avere a che fare con Cavour dopo della cessione di Nizza e della Savoia e temeva che Cavour cedesse ulteriori territori ai francesi con la conquista militare del Sud. In altre parole a muovere Garibaldi, contro la volontà dei Savoia che obtorto collo devono accettare l'interferenza inglese, sono gli interessi della Gran Bretagna nel Mediterraneo. Da quel momento i preparativi da Quarto non vengono ostacolati e l'ordine dato all'ammiraglio sabaudo Persano di fermare Garibaldi è solo finto. Nei fatti, pienamente documentati, Garibaldi sarà sostenuto dagli inglesi e anche dai riluttanti Savoia. È questo, il 2 maggio 1860, il momento in cui Garibaldi rinuncia ai suoi ideali repubblicani e rivoluzionari in favore della monarchia sabauda. E persino la regina Vittoria e il marito, che avevano una pessima considerazione di Garibaldi, né risultano rinfrancati. 

Quando Garibaldi ringraziò Lipari: trovata una lettera inedita. La scoperta del Centro studi eoliano: "Proclamate il governo italiano di Vittorio Emanuele". La Repubblica il 29 dicembre 2020. E' tornata alla luce una lettera inedita di Giuseppe Garibaldi ai cittadini di Lipari,: fu inviata dal Comando generale dell'Esercito Nazionale in Sicilia e fu scritta da Milazzo il 23 luglio 1860, al culmine della conquista della Sicilia. La scoperta si deve al ricercatore storico Pino La Greca ed è stata annunciata dal Centro studi eoliano, per salutare il nuovo anno quando festeggerà il 40° anniversario della fondazione. Questo il testo della lettera: "Ai cittadini di Lipari. Io vi ringrazio il nome della Patria per la generosa risoluzione. Proclamate il Governo Italiano di Vittorio Emanuele ed eleggetevi un governatore alla maggioranza dei voti, al quale io conferisco temporaneamente poteri illimitati. Mantenetevi in corrispondenza col Prodittatore in Palermo per via di Milazzo, e con me, mentre soggiornerò in quest'isola". La lettera, spiega una nota del Centro studi eoliano, era conservata e trascritta dal notaio eoliano don Rosario Rodriguez e fa parte dei documenti del fascicolo relativo alle indagini sull'omicidio del sindaco neo borbonico Giuseppe Policastro che Pino La Greca sta studiando "per poter riscrivere una delle pagine più oscure della nostra storia più recente".

PRIMO RISORGIMENTO. QUANDO LA CARBONERIA UNÌ IL NAPOLETANO MASTRILLI, I PIEMONTESI CELESTINO E FIORENZO GALLI E IL LIVORNESE PIETRO JANER. Elena Pierotti su ilsudonline.it l'11 aprile 2021. I Chierici Regolari Somaschi sono un istituto religioso maschile di diritto ed i Suoi membri, chiamati Somaschi, presero il loro nome dal luogo dove ebbe inizio la loro attività. L’Ordine servita fu fondato intorno al 1534 e si dedicò prioritariamente all’istruzione e all’educazione cristiana. A Roma, a partire dal 1595 fu fondato e retto dai padri Somaschi il collegio Clementino, che deve il suo nome a Papa  Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini. Nel 1798, con l’arrivo di Napoleone, il collegio fu soppresso, con relativa vendita di molti suoi beni all’asta. Dopo l’epoca napoleonica molti dei beni appartenuti al collegio Clementino dei Padri Somaschi furono recuperati ed il collegio riaprì. Prima degli eventi Rivoluzionari francesi e a seguire napoleonici il collegio aveva ospitato come allievo anche Marzio Mastrilli, il futuro marchese del Gallo, che fu plenipotenziario non solo dei Sovrani borbonici ma anche di Giuseppe Bonaparte ed a seguire di Gioacchino Murat, quando questi ultimi furono posti da Napoleone a regnare sul Regno di Napoli. “Era stato lo zio materno Caracciolo ad indirizzare il Marchese per la sua educazione al celebre Collegio romano. Dopo la fine del periodo napoleonico e l’avvento della Restaurazione, vicedirettore del collegio da poco riaperto divenne il chierico Regolare Somasco piemontese Francesco Galli, zio dei noti patrioti Celestino e Fiorenzo. Quel collegio e quell’Ordine ritornarono in primo piano per sostenere quei patrioti dediti al rinnovamento politico della Penisola. Dobbiamo leggere attentamente la vita di tali personaggi per comprendere cosa fu davvero il nostro Risorgimento. E comprendere quanto la loro educazione, anche religiosa, fosse stata essenziale nelle dinamiche politiche del periodo. I padri Somaschi e la loro opera educativa ebbero sicuramente un peso rilevante nelle vicende. Marzio Mastrilli, più conosciuto come Marchese del Gallo, non fu sicuramente un carbonaro. Si lasciò tuttavia coinvolgere, dopo che si era ritirato a vita privata nel 1815, all’indomani della caduta di Murat, nelle vicende rivoluzionarie napoletane del 1820-1821. Fu infatti nominato membro della giunta provvisoria di governo e nell’agosto del 1820 inviato a Vienna nella veste di ambasciatore straordinario. Ma il suo viaggio venne interrotto a Klagenfurt e per questo dovette rientrare. Trascrivo testualmente: “In novembre[1820] fu nominato luogotenente generale di Sicilia; non ebbe il tempo di recarvisi, in quanto chiamato a ricoprire la carica di ministro degli Affari esteri nel governo nominato dopo la caduta del primo, in dicembre. In quello stesso mese fu delegato dal Parlamento, secondo il dettato della costituzione, ad accompagnare in tale veste Ferdinando, ora Re del Regno delle Due Sicilie, al congresso di Lubiana. Il Re si imbarcò su nave britannica ma, appena giunto in Toscana, fu preso in consegna dai suoi tutori, il francese Blacas e l’austriaco L. Von Lebzetern. Al Mastrilli, giunto via terra, fu ordinato di seguire il Sovrano a una giornata di distanza. Fu bloccato una prima volta a Mantova il 5 gennaio, l’8 ripartì per Gorizia, ove giunse l’11. Qui fu bloccato in un albergo, sorvegliato costantemente e con divieto di comunicare con chicchessia. Qualche corriere di passaggio ebbe il coraggio di portare sue lettere al reggente Francesco. Finalmente il congresso, una volta predisposta la messa in scena, permise al Re di chiamare il Mastrilli, senza segretari, presso di sé a Lubiana. Giunto qui il 30 gennaio, il Mastrilli fu ammesso alla presenza del Re e informato, in un colloquio attentamente origliato da Alvaro Ruffo, del totale cedimento regio alle richieste dei suoi alleati. Fu poi invitato ad assistere, quale privato, senza diritto di parola, alla lettura degli atti finali del congresso – per la verità amputati dei rilievi critici francese ed inglese auspice Blacas – perché riferisse ai suoi connazionali la perfetta unanimità degli alleati del Re. Non avendo diritto di parola, il Mastrilli dichiarò che avrebbe chiesto gli ordini al suo Re e riferito a Napoli quanto aveva sentito. Tornato a Napoli il Mastrilli riferì fedelmente al reggente, con vari gradi di moderazione ad altri interlocutori istituzionali. Voleva assolutamente dimettersi dal governo, nel quale aveva ripreso le sue funzioni di ministro degli Affari esteri. Essenzialmente tentò di riaprire il discorso o la via, del tutto impraticabili, della protezione francese in cambio di una riforma costituzionale a Napoli. Riteneva, probabilmente a ragione, che la carboneria si proponesse non la conquista dello Stato, bensì il dominio e il controllo carbonaro sullo Stato tramite le proprie strutture parallele. La proposta costituzionale moderata era stata però respinta con forza dalla carboneria nel dicembre 1820. Era ormai assurdo ritentare la via francese, dopo aver constatato che nelle ineludibili mani di Blacas qualsiasi (presunto) tentativo di una politica autonoma veniva ignorato o deviato. Più seriamente volle, con l’invio di persona gradita, ispirare al Re, allora a Firenze, un atteggiamento più dignitoso, meno succube, o perlomeno distinto d quello austriaco, ma gli sforzi suoi e dei ministri francese e britannico furono inutili. Dopo la caduta del Regno costituzionale il Mastrilli rimase lontano da qualsiasi attività politica [….]”. In quello stesso periodo in Lucca era al potere la dinastia collaterale dei Borbone Parma. La sovrana era Maria Teresa, ma a breve sarebbe divenuto Re il figlio di questa, il Duca Carlo Ludovico. Proprio durante la rivoluzione napoletana di quegli anni si trovava in Napoli un personaggio che fu poi di fede mazziniana e che ebbe un importante ruolo politico nella sua città. Col Duca avrà un rapporto di amore-odio, nel senso che il Duca si servirà di lui nel 1832 in Corsica, ufficialmente per fare l’agronomo, ma sottobanco, visti i risvolti bonapartisti e mazziniani dell’Isola, come si evince dalle carte, in altra veste. E tuttavia lo monitorerà sempre in via ufficiale. Sto parlando dell’avvocato Carlo Massei, che di madre faceva Burlamacchi. I Burlamacchi sono stati i riformati ginevrini che avevano lasciarono Lucca nel cinquecento ma di cui un ramo collaterale restò in città. Carlo Massei nel 1816 conseguì la laurea dottorale in Legge all’Università di Bologna a pieni voti. Sulla scia di tali risultati, provenendo, il nostro, anche per parte paterna, da antica famiglia nobiliare lucchese, si trasferì subito dopo a Roma, dove fu avviato alla pratica legale dal giureconsulto Cavi ed ebbe modo di frequentare anche lo studio dell’avvocato Bonadosi. Nel febbraio del 1822 fu iscritto nell’albo degli avvocati di Roma. Il soggiorno romano fornì al Massei l’occasione per allargare le proprie conoscenze e incontrare studiosi delle più disparate discipline tra cui Giulio Cordero di San Quintino, storico, numismatico, archeologo molto conosciuto a Lucca, insieme col quale nel giugno 1820 intraprese un soggiorno a Napoli. Qui ebbe modo di entrare in contatto con le idee liberali e di osservare con interesse l’ordinato compiersi della Rivoluzione Napoletana.

Giovanni Sforza, ramo cadetto degli Sforza di Montignoso, in una sua celebre pubblicazione nelle osservazioni che ne trae di storico ed erudito si limitò a trattare il Massei ed il suo rapporto con Cordero di San Quintino come una semplice collaborazione sul piano culturale. Ma visto lo spessore del celebre padre Barnabita piemontese quale era il Cordero, di estrazione nobiliare, che ebbe contatti con tutta la nomenclatura europea, soprattutto inglese, ed il proseguo della carriera di Carlo Massei, possiamo escludere che si trattò di una semplice visita a Napoli di stampo culturale. Oltretutto in quegli anni in Lucca un padre Gesuita, anche lui di estrazione nobiliare, padre Gioacchino Prosperi, che apparteneva agli stessi ambienti da cui il Massei proveniva, si trovava a Torino ed era in comunione con i D’Azeglio, l’Abate Peyron, gli stessi Sovrani Sabaudi, Monsignor Giovan Pietro Losana, ossia tutti personaggi che erano sicuramente vicini al Cordero di San Quintino. Il mazzinianesimo del Massei ed il cattolicesimo liberale cui Prosperi aderì una volta uscito dall’Ordine gesuita nel 1826 e trasferitosi successivamente in Lucca, la sua città, non sono affatto, sempre come appare dalle carte, l’un contro l’altro armati, e bene definiscono questo passaggio napoletano del Massei, del 1820. Prosperi, quando fu accusato di Giansenismo dai cattolici intransigenti, rispose sempre prontamente con pubblicazioni che la Chiesa Corsa e la Chiesa Toscana dell’epoca ben sapevano in cosa consistevano le sue “predicazioni” Corse. Oltretutto Prosperi, come appare in una lettera presente all’Archivio di Stato di Lucca, era un fra’ massone. Ancora nel 1843 Carlo Massei lo troviamo impegnato in situazioni rivoluzionarie in Cefalonia, da mazziniano, per conto del Duca Carlo Ludovico di Borbone Parma , e di altri Sovrani della penisola che collaboravano alacremente, non facendo Asburgo, in situazioni decisive del periodo per tutto lo Stivale. Leggiamo dalla biografia del Massei: “Proprio l’evoluzione della situazione politica del Regno delle Due Sicilie e soprattutto l’apertura [non dimentichiamo i forti legami del Cordero di San Quintino con Londra e degli interessi inglesi nella vicenda] spinsero il Massei a prolungare fino alla fine di quell’ottobre del 1820 il suo soggiorno in Napoli. Il Massei prese a seguire quotidianamente le sedute dei deputati napoletani e riuscì anche a stringere amicizia con Carlo Poerio. Rientrato a Roma nell’ottobre del 1820, il Massei proseguì l’attività forense, che dal 1822 potette esercitare autonomamente. La morte del padre lo costrinse a far ritorno a Lucca, dove si vide però negato il diritto di svolgere la professione senza aver prima superato un esame di ammissione all’albo locale. Cercò allora fortuna nell’attività imprenditoriale e, dal dicembre del 1829, divenne amministratore locale della comunità di Capannori, presso Lucca, della quale fu nominato Gonfaloniere. I trascorsi napoletani e l’attitudine a non accettare imposizioni lo esposero però ai sospetti della polizia ducale, impegnata in quegli anni a seguire ogni notizia di fantomatiche cospirazioni [formalmente questo era il comportamento dei sovrani di antico regime]. Il Massei fu così segnalato tra i referenti lucchesi di una non ben definita congiura che avrebbe coinvolto anche esponenti liberali del granducato di Toscana. Fu perciò colpito da un decreto di espulsione, prontamente amnistiato dal duca Carlo Ludovico di Borbone”. Tale riabilitazione avverrà nel 1833, quando già un anno prima il Massei fu comunque in Corsica per conto del Duca Carlo Ludovico in qualità di agronomo. Ma L’agronomia, viste le carte, nascondeva altre manovre politiche. Il Duca infatti, come appare da numerose lettere, più che incostante era impegnato sottobanco in situazioni che avrebbero potuto agevolare la formazione in Italia di uno Stato federale, magari sotto l’egida papale. Il Suo protestantesimo non cozzava affatto con alcune frange ecclesiastiche cattoliche, come padre Gioacchino Prosperi, rispedendo le accuse contro se stesso al mittente, aveva di fatto definito e pubblicato. Mazzini e i mazziniani, cui si erano legati gli stessi napoleonidi in vista della ricostituzione in Italia di un Santo Regno Italico[10] dove la Corsica sarebbe entrata, di diritto, come Regno autonomo nella futura congregazione, in Lucca erano di casa in quel periodo. Non solo il Duca ospitò nel 1834 in Benabbio (Bagni di Lucca) in incognito Carlo Luciano Bonaparte e suo fratello, entrambi figli di secondo letto di Luciano Bonaparte e altri numerosi patrioti ricercati mazziniani; ma nel 1837 anche Luigi Napoleone, futuro Napoleone III, fu ospite del Duca nella medesima località. Fu sempre il Duca che inviò padre Gioacchino Prosperi nel 1839 a “predicare” in Corsica per agganciare tutti e tutto, soprattutto i membri del partito bonapartista Corso, come appare nelle lettere del religioso. Dunque il Massei faceva parte di questo ingranaggio. Di cui il Mastrilli, duca del Gallo, visti i suoi trascorsi, ed i legami profondi con i Borbone Parma, dovette aver fatto parte; o comunque esserne bene a conoscenza. Un ingranaggio che, come appare dai documenti dovette essere anche ben oleato. Infatti il nome di Carlo Massei viene affiancato sempre in un documento a quello degli Allegrini, editori Fiorentini che in Lucca fecero base, ma anche in Livorno, e che furono vicini a Mazzini e a Domenico Guerrazzi. Quando Antonio Mordini, nella lettera rintracciata, si rivolge a questi patrioti, nel 1843, li chiama Amici, perché tali erano, gli Amici del Popolo di  guerrazziana memoria. Tra i seguaci di Guerrazzi a Livorno ci fu anche  Pietro Janer, amico fraterno di due piemontesi, all’epoca celebri, Fiorenzo e Celestino Galli, nipoti dell’allora vice Rettore del Collegio Clementino di Roma, Francesco Galli. iI Collegio romano dove Marzio Mastrilli aveva studiato prima delle vicende Rivoluzionarie, retto dai padri Somaschi, ritorna dunque, poiché fu lo stesso collegio che vide i fratelli Galli e lo stesso Janer essere sostenuti nella loro fuga a Londra dallo zio dei Galli, Francesco, quando ricopriva l’incarico di vicerettore. Si potrebbe obiettare che fu una coincidenza. Che lo zio aiutò i nipoti per amore filiale. Ma i fatti portano in altra direzione. Nel 1839 a Lucca giunse una lettera, presente anche questa all’Archivio di Stato, dell’editore piemontese Pietro Rolandi e del Vate Gabriele Rossetti, anche lui napoletano d’adozione, entrambi fuggiti a Londra per le questioni rivoluzionarie del periodo Risorgimentale. La lettera inviata a un patriota lucchese, mazziniano, che era stato per diversi anni un consulente del British Museum di Londra e che qui aveva sposato una signora inglese, trasferitosi proprio quell’anno nella sua città, e di ciò non abbiamo precisi ragguagli, porta i saluti dei nomi più prestigiosi del fuoriuscissimo italiano del tempo. Mi riferisco a  Beolchi, Miglio, Arrivabene, Panizzi, Pepoli, Janer. Ma soprattutto conferma che il Duca lucchese ed i suoi collaboratori erano vecchie conoscenze di questi patrioti perché il Duca spesso si recava a Londra, ufficialmente solo per questioni legate ai suoi traffici librari e numismatici, tanto da aver stretto serrati legami con lo stesso direttore del British Museum, il fuoriuscito Antonio Panizzi.  Addirittura, nella lettera Pietro Rolandi, l’editore, definì nel dettaglio all’amico lucchese cui era indirizzata, Pier Angelo Sarti [questo il nome del fuoriuscito rientrato a Lucca] tutte le tappe tedesche di un suo recente viaggio sul continente, viaggio peraltro pericoloso per un patriota ricercato dalla polizia in ambito internazionale, e del suo incontro in Prussia proprio con Carlo Ludovico, che spesso si recava dal Re di Prussia, protestante, monitorato in questi spostamenti costantemente dal Principe di Metternich. Ritornerei dunque ai padri Somaschi. Un patriota piemontese, padre Gioacchino De Agostini, che dismise l’abito talare proprio per sposare nel 1849 la figlia di Fiorenzo Galli, Adelaide Galli Dunn, peraltro cugina per parte materna del pittore David, il celebre ritrattista di Napoleone Bonaparte, era in comunione con padre Calandri, il Rettore a Lugano dei padri Somaschi e confidente di Alessandro Manzoni, come appare dai carteggi. Quell’Alessandro Manzoni con cui, leggendo le carte di padre Gioacchino Prosperi ed il suo atto di morte, la comunione, con lui anche parentale, non dovette essergli estranea. Padre Gioacchino Prosperi e l’amico Padre De Agostini erano stati in Piemonte colleghi e negli anni quaranta del XIX secolo confidenti nelle lettere. Apprendiamo quindi che i cattolici liberali furono al centro, prima ancora che Pio IX desse il là ad una politica volta a guardare al nuovo, delle questioni politiche del periodo, collaborando con quello che lo stesso padre Prosperi chiamò “laicismo italo-sardo ancora fastidiosamente vantaggioso”. Il Laicismo italo-sardo era quello mazziniano, e naturalmente non ne furono estranei i sovrani della penisola, che di casata non facevano Asburgo. Tra questi i Borbone di Napoli, i Bonaparte mazziniani del tempo, in particolare i figli di Luciano Bonaparte e il loro cugino Luigi Napoleone, futuro Napoleone III. Ciò appare dai molti documenti rintracciati. Negare questa volontà e queste manovre, volte a inseguire un federalismo comune, significa negare l’evidenza dei fatti. Nel 1840 e poi nei due anni successivi, come appare sempre da documenti rintracciati, Paolo Fabrizi, della Lega Italica e seguace mazziniano, organizzò una spedizione di mille uomini, anticipando quanto farà Giuseppe Garibaldi qualche anno dopo. Operazione fallita quella di Paolo Fabrizi, abortita sul nascere. Gli furono vicini nell’operazione un Pacchiarotti milanese e Ribotti di Moliere, piemontese, che avrà un ruolo decisivo anni dopo anche nelle mosse cavouriane. Ed insieme a lui patrioti arruolati in Corsica e tra le forze napoletane perché i patrioti Corsi di quegli anni, sulla scia di Murat e delle sue gesta, si unirono profondamente, sempre come possiamo leggere nelle carte, con i patrioti napoletani. Per definire le vicende trascrivo letteralmente quanto segue: “ Pur di carattere eclettico e con molteplici interessi, Pietro Janer spesso al centro di intraprese commerciali, dalle quali tuttavia non riuscì a ottenere grande fortuna, fu viceversa per la natura libertaria e la vocazione patriottica che sembravano informare ogni sua attività, nei primi anni Venti dell’ottocento, al centro di una fitta rete di relazioni tra esuli, commercianti e letterati patrioti comprendente numerosi personaggi, non solo livornesi, che animavano la scena sommersa dell’opposizione politica dei governi restaurati. In particolare aveva stretto sincera amicizia con Giuseppe Gargantini, esule a Lugano e del quale, durante gli anni 1821-23, divenne uno dei referenti nel Granducato di Toscana. Anche più intensa e profonda appare la relazione con Fiorenzo Galli, patriota piemontese rifugiato e combattente in Spagna, già agli inizi del 1822 compilatore, con B.C..Aribau, della rivista catalana El Europeo. La loro corrispondenza si infittì quando Galli, rifugiatosi a Roma dopo la sconfitta del governo costituzionale spagnolo, decise di recarsi a Londra, Lo Janer, che condivideva con Lui ideali e aspirazioni patriottici, divenne l’unico suo punto di riferimento italiano. Fu egli a smistare la posta verso lo zio Francesco Galli, vicedirettore del collegio Clementino di Roma, e non fornì all’amico solo suggerimenti sulla vita dei conoscenti comuni, ma anche e soprattutto inviò importanti informazioni, spunti e componimenti per mantenere attiva, all’interno della rete degli esuli militanti, la circolazione delle idee di libertà. Per lo Janer come per moltissimi altri scrittori del momento, il ricorso alla letteratura era pertanto al tempo stesso lo strumento per manifestare il proprio impegno civile e il mezzo per aggirare le invadenti censure austricanti […] Tra il 1832 e il 1833 si trasferì a Londra (Adelaide Galli Dunn, figlia di Fiorenzo Galli nacque a Londra nel 1833), allacciando feconda amicizia col poeta vastese ma napoletano d’adozione Gabriele Rossetti”. La memoria corre a Lugano (penso a padre Calandri, il padre Somasco che fu in amicizia col genero di Fiorenzo Galli, ossia l’editore ed erudito Gioacchino De Agostini di Torino); penso a quegli ambienti inglesi che protessero l’agente murattiano Giuseppe Binda nel 1815 nella sua fuga a Londra dopo aver tenuto in mano le lettere del marchese del Gallo. Ossia a Lord Holland, che sostenne col Duca borbonico Carlo Ludovico il suo ruolo di plenipotenziario ed al contempo visitò a Roma, questo fino al 1838, anno della sua morte, Letizia Bonaparte, madre di Napoleone Bonaparte e nonna di quei napoleonidi che finanziavano le imprese mazziniane. Penso a Carlo Pepoli, la cui famiglia con i Bonaparte ebbe legami, anche familiari, e che si rifugiò a Londra in comunione, come appare nella lettera a due mani di Gabriele Rossetti e Pietro Rolandi rintracciata, con tutti i fuoriusciti del periodo. Rileggere le carte del Primo Risorgimento a volte avvicina davvero le varie parti della penisola sicuramente più dell’Impresa garibaldina. E guardare ai cattolici liberali con occhi diversi stimola un’analisi critica diversa e maggiormente definita.

·        Storia d’Italia.

Tra Pearl Harbor e Salò. La strana alleanza tra l’Italia e il Giappone. Marco Valle su Inside Over il 17 dicembre 2021. L’ottantesimo anniversario dell’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 7 dicembre 1941 con lo scatenamento – casuale, indotto, voluto, provocato? –  della guerra del Pacifico poco o pochissimo ha arricchito la vastissima documentazione. Con qualche eccezione, come il solido lavoro di Tommaso de Brabant, giovane ma già promettente ricercatore, sul fitto quanto controverso intreccio politico-diplomatico tra Tokyo e Roma (e poi Salò). La lupa e il Sol Levante (Passaggio al bosco, Firenze) ripercorre con agile scrittura e ottime fonti l‘incontro/confronto tra due ambiziose medie potenze durante le tempeste del Novecento. Un rapporto, al netto delle retoriche propagandistiche (più italiane che nipponiche), sempre sferragliante sui binari della real politik, quel realismo politico in ogni epoca e tempo avvicina o distanzia gli Stati a seconda delle loro convenienze e interessi. Il dialogo italo-giapponese non fece eccezione. Ma andiamo per ordine. All’indomani dell’Unità, la pirocorvetta Magenta – impegnata nella prima circumnavigazione del globo della Regia marina (870 giorni, dall’autunno 1865 alla primavera 1868) – raggiunse il Giappone al comando del savoiardo Vittorio F. Arminjon. Attraccata l’unità nella baia di Yedo l’ufficiale, per l’occasione anche ministro plenipotenziario, stipulò il 25 agosto 1866 il primo trattato commerciale tra Italia e Giappone; nel corposo documento (23 articoli, 6 regolamenti commerciali, una convenzione addizionale) lo shogun Yoshinobu concedeva ai nostri connazionali il diritto di operare e risedere nei porti nipponici aperti al commercio estero e la possibilità  di acquistare bachi da seta (necessari all’industria serica lombarda e piemontese in crisi a causa di un’epidemia in Europa). Un buon affare oltre che una efficace dimostrazione di diplomazia e la prima di numerose missioni navali – in tutto 20 tra il 1870 e il 1896 – in Giappone e Corea. Un inizio promettente seguito da due importanti crociere del duca di Genova nel 1872 e nel 1879. Grazie anche alla presenza del principe di casa Savoia, come ricorda il professore Alessandro Mazzetti, si aprirono prospettive decisamente interessanti: “Gli scambi commerciali raggiunsero il valore di 2,5 milioni di dollari d’argento e l’Italia fu scelta come prima tappa europea della famosa missione militare del generale Oyama. Furono visitate le fabbriche d’armi di Napoli, Torino, La Spezia e qualche tempo dopo furono richiesti dal governo giapponese esperti e materiali per l’organizzazione dell’arsenale di Osaka, I telemetri scelti per le artiglierie nipponiche furono realizzati dalla Galileo di Firenze”. In più si cercò (e si ottenne) l’appoggio dei giapponesi per l’installazione di una stazione commerciale a Taiwan, prodromica ad un futuro insediamento coloniale. Ambizioni, progetti e affari che purtroppo evaporarono in breve tempo. L’Italia del tempo – un Paese ancora rurale, mal infrastrutturato e diretto da un ceto politico irrimediabilmente terragno e provinciale – non era pronta per avventure oltremare. Come si evince dai numeri, la stessa apertura nel 1869 del canale di Suez, porta liquida verso l’Asia e formidabile acceleratore economico globale, si era rivelata un’occasione perduta: i traffici italiani lungo l’idrovia rimasero a lungo irrilevanti: solo il 2,7 dei passaggi totali tra 1870 e il 1890. Un dato pesante, causato dall’arretratezza tecnologica della Marina mercantile ancora vincolata al legno e alla vela e nel primo decennio unitario, i piroscafi a vapore costituivano solo il 2 per cento della flotta e le navi in ferro non superavano le 25 unità. Molto ancora restava da fare per trasformare il patrio Stivale, riprendendo la bella immagine tratteggiata da Stefano Jacini, in un “grande ponte sorgente verso l’Oriente” e presto il Paese del Sol Levante si eclissò rapidamente dagli sguardi della nostra diplomazia, molto attenta a non turbare gli interessi delle potenze maggiori (Gran Bretagna in primis), e per gli italiani colti il Giappone rimase sino ai primi anni del Novecento un posto remoto e fascinoso, uno scenario quasi favolistico o poco più. Come sopra accennato, a “mostrar bandiera” in quei mari lontani s’incaricò la Regia marina. In perfetta solitudine. A risvegliare gli interessi politici e commerciali italiani fu la guerra russo-giapponese del 1905, un vero cambio di paradigma. Nel febbraio 1904 i giapponesi – “scordandosi”, come a Pearl Harbor nel ’41, la dichiarazione di guerra – attaccarono la flotta russa alla fonda a Port Arthur: in soli dieci minuti piccole siluranti immobilizzarono le principali unità della possente squadra del Pacifico consegnando così all’ammiraglio Togo il sea control dell’intero scacchiere. Il colpo finale arrivò il 27 maggio dell’anno seguente. In meno di 24 ore la flotta nipponica annientò la squadra di soccorso zarista giunta dal Baltico dopo otto mesi di navigazione. Fu Tshushima la grande battaglia navale che distrusse il mito dell’invincibilità russa e annunciò il tramonto della primazia europea nel Far East. Nuovo e inatteso protagonista della scena mondiale, il Giappone divenne presto troppo ingombrante per gli anglo-americani e un possibile interlocutore per tutte le medie potenze “revisioniste” dell’assetto tracciato a Versailles nel 1919. Tra queste l’Italia mussoliniana, che si avvalse dell’appoggio di Tokyo nelle varie conferenze per il disarmo navale; una sintonia che nel 1936 portò i due Paesi – insofferenti dell’ordine fissato a Versailles sui teatri che per loro contavano: il Mediterraneo per l’Italia, il Pacifico per il Giappone – a non firmare il Trattato di Londra scardinando così un altro punto chiave dell’ordine internazionale del tempo. In questo come in altri casi – e Tommaso De Brabant ben lo spiega nel suo denso lavoro – si trattò di convergenze provvisorie attuate nel segno del pragmatismo e non di un percorso lineare d’avvicinamento politico. L’intermittente politica asiatica di Roma privilegiò sempre l’India e i riferimenti del movimento indipendentista (Gandhi, Tagore, Bose) e in una lunga fase la Cina di Chiang Kai-shek mentre il robusto filo-nipponismo mussoliniano maturò, si vedano i lavori di Renzo De Felice, solo in un secondo, tragico momento. A partire dal 1936, rimossi i forti contrasti emersi durante la crisi d’Etiopia, le distanze tra i due governi si raccorciarono sino a stringersi formalmente con il patto Anti-Comintern del 1937 e la firma del patto Tripartito nel 1940.  Due passaggi, al netto dell’enfasi propagandistica, poco rilevanti in uno scenario mondiale ormai in vorticoso movimento. Infine, l’entrata in guerra dei giapponesi il 7 dicembre 1941 che agli occhi di un sempre più preoccupato Mussolini divenne una provvidenziale sponda politica prima per tentare di ridiscutere gli equilibri interni dell’Asse e poi, dopo l’evidente crisi sul fronte russo e l’intervento americano, l’unica strada per una soluzione politica del conflitto mondiale. E qui, riprendendo i lavori di Eugenio Di Rienzo e Emilio Gin, Franco Bandini e Piero Buscaroli, De Brabant ritrova il bandolo della matassa. Mentre il dittatore germanico si dispiaceva per il crollo anglosassone a Singapore, Mussolini comprese presto l’inutilità della “crociata antibolscevica” in Russia (avesse evitato di spedire sul Don i nostri soldati sarebbe stato meglio…) e tentò d’inserirsi  – come si evince dalle verifiche archivistiche di Di Rienzo e Gin – nella mediazione sotterranea tra Mosca e Berlino. Una situazione d’attesa. Hitler iniziò a rinviare la decisione in attesa di una vittoria decisiva per trattare da posizioni di forza. Il nodo centrale rimase il controllo dell’Ucraina – il granaio d’Oriente – e i pozzi del Caucaso. La tremenda battaglia di Kursk dell’agosto 1943 chiuse la questione. La parola tornò alle armi. La guerra era perduta, definitivamente. Ma ancora nel suo rifugio sul lago Mussolini continuò a guardare ad Oriente alla ricerca di una speranza. Qualsiasi speranza. Come nota l’autore, per mesi il “fantasma del Garda” continuò ad incontrare la delegazione nipponica in cerca di una soluzione. Qualsiasi soluzione. Nella nota del 26 marzo 1944 su Corrispondenza repubblicana, il capo del fascismo commentò con entusiasmo la notizia che le truppe dell’imperatore Hirohito avevano varcato, in una disperata offensiva, la frontiera indiana, entusiasmando gli indipendentisti anti britannici. “La politica del Giappone, e diciamo ‘politica’ nel senso più intelligente, registra un clamoroso successo, dovuto alla fiducia che il governo di Tokyo è riuscito a suscitare nelle popolazioni indiane […]  I confini sono stati superati. La ruota del destino corre. In questa guerra piena dell’imprevisto e dell’imprevedibile, si è aperta dopo quella del Pacifico, la fase indiana…”. Il 22 febbraio 1945 Mussolini ricevette il generale Shimuzu, l’ultimo rappresentante giapponese in Rsi, che lo rassicurò (o almeno sembra…) sulle sorti delle trattative con le potenze nemiche. L’ultima illusione, poi il silenzio.

Mario Bernardi Guardi per "Libero quotidiano" il 12 dicembre 2021. «Io sono io» amava dire Virginia Verasis, contessa di Castiglione. Bella, anzi bellissima. Ma tutt' altro che impossibile, visto che ebbe una cinquantina di amanti. Tra cui un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, un imperatore, Napoleone III Bonaparte, il bel diplomatico Costantino Nigra, ministri, banchieri, giornalisti. Tutti affascinati da quella "seduttrice seriale" (così la definisce Benedetta Craveri nella bella biografia La contessa. Virginia Verasis di Castiglione, Adelphi, pp. 452, euro 24). Disposta a tutto per raggiungere i suoi scopi, infrangeva i cuori e incendiava i sensi. Altera ed algida, per decenni signoreggiò di corte in corte, spesso ostentando un sovrano disdegno per quelli che spasimavano per lei. Fino a un vero e proprio delirio di onnipotenza che diventò cupa depressione quando la sua immagine cominciò a incrinarsi e prese il via una inarrestabile decadenza.

ANTESIGNANA Ma prima di allora la buona stella aveva sfolgorato alla grande e più che mai brillò quando il cugino Camillo Benso di Cavour la convinse, senza far troppa fatica, a portarsi a letto l'Imperatore Napoleone III. Per una buona causa, è ovvio: quella col contrassegno sabaudo, che prevedeva la lotta all'Austria e l'indipendenza della Lombardia e del Veneto. Anche l'Unità d'Italia? Bè, il Porco Re (così Virginia chiamava il Savoia, visti i suoi irrefrenabili appetiti sessuali) e il conte di Cavour non ci pensavano ancora: ma forse lei, sì, perché era una buona patriota e ci teneva ad essere ammirata anche per la sua intelligenza politica. Del resto, ne darà prova anche in seguito, nel 1870, quando, dopo la "breccia di Porta Pia", attiverà amicizie e arti diplomatiche per evitare che il Papa Pio IX, sdegnato dell'affronto sabaudo, abbandonasse Roma. Difficile, di fronte a una personalità del genere, bilanciare luci ed ombre. Meglio, come ha fatto Benedetta Craveri, disegnare il profilo di una donna che, a metà Ottocento, «prefigurò le celebrità da rotocalco ..., interpretando tutti i ruoli del repertorio teatrale (...) e dosando con sapienza le sue performance». Una Diva, in anticipo sui tempi, che, tra l'altro, intuì la potenza espressiva della fotografia, affidando la propria bellezza a un gran numero di ritratti. Mentre, come segnala la Craveri, svariati documenti inediti conservati in archivi italiani e francesi, consentono di ricostruire la sua personalità e la sua vita. Insieme alla ricca corrispondenza, che, all'insegna della più spregiudicata schiettezza, ebbe con un vecchio amico di famiglia, il principe Giuseppe Poniatovski, uomo politico del Secondo Impero. E anche a lui - pur chiamandolo "il Vecio"non avrebbe negato i suoi favori. Ma, come si è detto, li concesse a tanti, da sapiente ammaliatrice che irretiva con la sua sensualità ma restava sempre padrona di sé.

I GENITORI Nata nella Firenze granducale, "la città più gaia d'Italia", il 22 marzo 1837, Virginia era figlia di Filippo Oldoini, spezzino, diplomatico sabaudo, e di Isabella Lamporecchi, di agiata e onorata famiglia. Dunque, educazione e frequentazioni di ottimo livello. Ma mentre al babbo Virginia vuole un gran bene (in seguito, quando stringerà legami con politici e governanti, cercherà in ogni modo di favorire la sua carriera), lo stesso non può dirsi per mamma. Isabella ha "voglia di tenerezza", ma la figlia con lei non si confida punto, o molto poco. E sarà così anche in seguito quando il matrimonio di Virginia, andata sposa a diciassette anni, naufragherà miseramente. E sì che suo marito, il conte torinese Francesco Verasis di Castiglione, diplomatico sabaudo, aveva e avrà sempre per lei una vera e propria devozione, e si ingegnerà in ogni modo per salvare il decoro familiare. Niente da fare. Virginia che, già nel 1855, tre mesi dopo avergli dato un figlio, Giorgio, gli ha messo le corna, lo umilia con la sua indifferenza e quando la coppia si trasferisce a Torino lei fa quel che le pare. Non ha nessuna voglia di essere una sposa e una madre "esemplare". Del resto, il povero conte, non si avvede delle corna o finge di non vederle. E i genitori non hanno voce in capitolo di fronte a quella figlia che sfugge a ogni controllo. E che dunque accetterà di buon grado il ruolo di seduttrice dell'Imperatore Napoleone III, l'unico che può favorire le ambizioni "italiane" del "Porco Re" e di Camillo di Cavour. Una volta in Francia, su "mandato" istituzionale, Virginia, un ballo a corte dopo l'altro, sfolgora per la sua bellezza. Così, lo sciupafemmine Napoleone, ammaliato, e ovviamente facendo il calcolo dei propri interessi "europei", un passo dopo l'altro si consacra alla causa risorgimentale. Per la scostumata Virginia ci saranno alti e bassi, tonfi e trionfi. In ogni caso, avrà il suo bel posto nella Storia e nell'"immaginario" tricolore.

Milena Gabanelli - Il tesoro dei Savoia e i gioielli della regina Margherita dimenticati in Banca d'Italia. Andrea Ducci e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2021. Lo scorso 5 giugno è stato il settantacinquesimo anniversario. Uno scrigno pieno di gioielli giace sepolto nel caveau di Bankitalia da ben oltre mezzo secolo senza che nessuno ne rivendichi la proprietà. È il 5 giugno del 1946, il referendum ha appena decretato la fine della monarchia, quando la cassa centrale della Banca d'Italia prende in consegna un tesoro registrato sotto il nome «gioie di dotazione della Corona del Regno». A riceverlo in custodia è l'allora governatore della Banca, Luigi Einaudi. L'economista, che poi sarebbe diventato, ironia della storia, il primo presidente della Repubblica, è colui che si fa carico di incontrare l'ultimo Re d'Italia, Umberto II, per formalizzare il passaggio di consegna dei gioielli. 

Cosa c'è nello scrigno

È un cofanetto rivestito in pelle a tre piani e protetto da 11 sigilli (5 del Ministero della Real Casa, 6 della Banca d'Italia) dove sono custoditi 6.732 brillanti e 2 mila perle di diverse misure montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Le pietre sono di peso e taglio diverso per un totale di quasi 2 mila carati. Tra i gioielli figurano, per esempio, un raro diamante rosa montato su una grande spilla a forma di fiocco, così come i lunghi collier di perle indossati dalla regina Margherita. Einaudi, nei suoi diari, annota alcuni dettagli sul contenuto del cofanetto: «Vi è il celebre diadema della Regina Margherita, portato poi dalla Regina Elena. Vi sono altri monili, fra cui quelli della principessa Maria Antonia. Trattasi in ogni caso di gioie le quali hanno avuto una storia particolare nelle vicende di Casa Savoia». Appartengono allo Stato o agli eredi? Trascorsi tre quarti di secolo resta un mistero italiano il perché tanto tempo non sia stato sufficiente per stabilire, una volta per tutte, la proprietà di quelle gemme. Nel verbale di consegna restituito al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, c'è scritto: «Si affidano in custodia alla cassa centrale, per essere tenuti a disposizione di chi di diritto, gli oggetti preziosi che rappresentano le cosiddette gioie di dotazione della Corona del Regno». Una formula volutamente vaga che accontenta Umberto II e lascia spazio alla possibilità che, come scrive Einaudi, quei gioielli spettino alla famiglia Savoia e non allo Stato. Nel corso dei decenni gli eredi del Re di Maggio non li hanno mai rivendicati nel timore che una richiesta di restituzione alimentasse un'ondata di risentimento, tanto più visto che i maschi di casa Savoia fino al 2003 non hanno potuto rimettere piede in Italia. In cuor loro però sono convinti che debbano essere restituiti, poiché, almeno una parte dei gioielli, erano regali e acquisti personali dei vari membri di casa Savoia e non beni assegnati al re per l'adempimento delle sue funzioni, posti cioè al servizio dell'ufficio del sovrano. «L'attuale premier Draghi, quando era governatore della Banca d'Italia, in occasione di una nostra conversazione, aveva dato la sua disponibilità a prendere in considerazione la vicenda. Poi lui stesso ha cambiato ruolo. Forse con questo governo il dialogo potrebbe essere più semplice», osserva Emanuele Filiberto di Savoia, nipote di Umberto II, che comunque aggiunge: «Mio nonno scrisse a chi di diritto, e ad avere quel diritto sono gli eredi. I gioielli sono di casa Savoia e ci dovrebbe essere una restituzione, poi, come ho sempre ripetuto, andrebbero esposti in Italia perché fanno parte della storia italiana». 

Decide la presidenza del Consiglio

Sul versante opposto nessuna presa di posizione è stata assunta da parte degli innumerevoli governi che si sono susseguiti dal 1946. Nella Costituzione, la tredicesima disposizione finale e transitoria specifica: «I beni esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli». La confisca, scattata nel dopoguerra, su quasi tutto il patrimonio dei Savoia (beni mobili e immobili), però non è mai stata esercitata su quei gioielli. Per un lungo periodo il cofanetto custodito in Via Nazionale è stato sottoposto anche a un vincolo della Procura della Repubblica di Roma: per un'eventuale apertura serviva il via libera dei giudici. Nel 2002 questo vincolo è stato rimosso. Nel 2006 il deputato piemontese Raffaele Costa, scrive all'allora governatore di Bankitalia, Mario Draghi, e chiede il prestito dei gioielli in occasione di una mostra durante le Olimpiadi di Torino. Il governatore a sua volta si rivolge alla presidenza del Consiglio, in quanto organo deputato a dare il via libera, e soltanto dopo risponde con una lettera a Costa. «In seguito all'interessamento della presidenza del Consiglio dei ministri, la Procura della Repubblica di Roma ha affermato il venir meno dell'indisponibilità che non consentiva né l'esibizione dei gioielli, né l'avvio delle procedure per la loro riconsegna», spiega la lettera che, tuttavia, rammenta la consueta formula: «La Banca d'Italia attende dal segretariato della presidenza del Consiglio dei ministri indicazioni sui comportamenti da tenere da parte dell'Istituto in qualità di depositario». Indicazioni che ad oggi non sono mai arrivate, tarpando le ali ai musei e curatori di mostre che nel tempo si sono candidati per accogliere ed esporre i beni della corona italiana. Quanto valgono quei gioielli? Una stima è difficile. Dal giorno della consegna del cofanetto, rivestito in pelle, una sola volta è stato possibile ispezionare e inventariare il contenuto. Nel 1976 la Procura di Roma, in seguito a una bizzarra storia che circolava in merito alla manomissione e al trafugamento di alcune spille appartenenti ai beni della corona, aveva deciso di rompere i sigilli. Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso qualche anno più tardi dalla mafia, aveva disposto un'ispezione per constatare che tutto fosse in ordine, la verifica si era rilevata così un'occasione per fare catalogare e inventariare i gioielli dalla maison Bulgari. Dalla perizia della Procura risultano, come detto, 6.732 brillanti e 2 mila perle di diverse misure montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Le perle, in assenza di luce e aria, è probabile che siano in buona parte morte o annerite, ma all'epoca il gioielliere romano aveva valutato le pietre e le perle, escludendo quindi le montature e il valore storico, in almeno 2 miliardi di lire, circa 18 milioni di euro attuali secondo la rivalutazione Istat. Il valore commerciale è però potenzialmente 15 volte maggiore. In base alle valutazioni applicate nelle aste di Sotheby' s per i gioielli appartenuti a regine e principesse, il contenuto del cofanetto potrebbe valere attorno ai 300 milioni. Infatti lo scorso maggio a Ginevra è stata battuta all'asta una piccola tiara appartenuta alla moglie di Amedeo I di Savoia per 1,6 milioni di dollari. 

Il mistero della mancata esposizione

Un patrimonio che potrebbe giustificare un museo o un'esposizione permanente sul modello di quanto avviene, per esempio, nel Regno Unito, dove i celebri gioielli della Corona concorrono a rendere la Torre di Londra, che li ospita, uno dei siti più frequentati dai turisti: circa 3 milioni di visitatori paganti all'anno nel periodo precedente la pandemia. Per le gemme dei Savoia sembra non arrivare mai il tempo per essere esposte, così come capitato per altre ragioni alla collezione di statue e marmi antichi appartenente ai Torlonia, sepolta in un seminterrato per oltre mezzo secolo. Resta il fatto che dal 1946 a oggi non è mai stato deciso chi abbia diritto a ritirare il cofanetto depositato 75 anni fa. Quanto tempo deve impiegare un Paese per stabilire la legittima proprietà di un bene a un erede o, eventualmente, restituirlo alla collettività in modo che possa beneficiarne? La stessa Banca d'Italia, con tutti gli spazi che ha, potrebbe allestire un museo aperto al pubblico. 

Storia. Tutti scontenti: 11 novembre 1918, come finì la Prima guerra mondiale. Da Focus. Ecco come gli accordi di pace stipulati alla fine della Prima guerra mondiale hanno preparato il terreno alla Seconda guerra mondiale. I leader politici che trattarono alla conferenza di pace di Versailles del 1919.

Da sinistra: il generale francese Ferdinand Foch, il Primo ministro francese Georges Clemenceau, il Primo ministro britannico Lloyd George, il Premier italiano Vittorio Emanuele Orlando e il Ministro degli esteri del Regno d'Italia Sidney Costantino Sonnino. Everett Collection / Shutterstock

Alle 11 del mattino dell'11 novembre 1918 finiva la Prima guerra mondiale: la Germania, infatti, stava firmando in quel momento un umiliante armistizio, su un vagone ferroviario vicino a Compiègne. Ma la Grande guerra aveva seminato morte e devastazione in tutta Europa, e gli accordi di pace, mal gestiti, prepararono il terreno a un nuovo conflitto ancora più cruento. La pace del 1918, i trattati e le promesse furono solo una tregua nel corso di uno scontro che sarebbe durato fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

MAI UMILIARE IL NEMICO. Può un trattato di pace alimentare un conflitto peggiore di quello a cui pone fine? Certo: qualsiasi accordo postbellico tende d'altronde a lasciare molti scontenti, soprattutto tra gli sconfitti. Quel che avvenne nel 1919, però, è una specie di record. Il trattato di pace che sancì la fine della Grande guerra lasciò infatti amareggiati sia i vinti sia i vincitori, ponendo addirittura le basi per l'ascesa del nazismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. L'errore più grave commesso nella stesura del documento? Dimenticare l'antico suggerimento di non umiliare mai il nemico – in questo caso la Germania – che non si è in grado di annientare del tutto.

I "QUATTRO GRANDI". Il conflitto si era chiuso l'11 novembre 1918, con la firma dell'armistizio da parte della Germania, e il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace che doveva ridisegnare la geografia politica mondiale, regolando i rapporti tra vincitori e vinti. A tal fine, si diedero appuntamento i portavoce di decine di nazioni con in prima fila i "quattro grandi", ossia i delegati delle maggiori potenze vincitrici: Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti. In rappresentanza dei primi tre Paesi vi erano i premier Georges Clemenceau, David Lloyd George e Vittorio Emanuele Orlando, mentre per gli statunitensi partecipava il presidente Woodrow Wilson.

I lavori terminarono il 21 gennaio 1920, ma il giorno "clou" fu il 28 giugno 1919, data della firma del cosiddetto Trattato di Versailles, composto da 440 articoli divisi in 16 parti e così chiamato poiché siglato nella celebre reggia francese. Prima di vedere la luce, il documento fu anticipato da aspre discussioni tra i quattro grandi, che dibatterono a lungo sui confini da assegnare alle varie nazioni e, soprattutto, sulla punizione da riservare alla Germania, considerata responsabile assoluta del conflitto. A scontrarsi furono in particolare Clemenceau, animato da pura sete di vendetta, e Wilson, che sembrava avere visioni più equilibrate.

UNA PACE SENZA VINCITORI. Il premier francese avrebbe voluto smembrare l'Impero tedesco, quello austro-ungarico e quello ottomano – l'Impero russo era invece stato abbattuto dalla Rivoluzione d'ottobre del 1917 – per spartirsene i territori con la Gran Bretagna. Il presidente statunitense mirava invece a una "pace senza vincitori" che si basasse sul principio di autodeterminazione dei popoli. In breve, ogni popolazione sottomessa a una forza straniera avrebbe dovuto scegliere, su base prevalentemente etnica, la propria identità nazionale e le proprie forme di governo. Così, si pensava, sarebbe evaporato ogni motivo di tensione internazionale.

Queste idee erano state riassunte da Wilson nei celebri "quattordici punti", serie di propositi snocciolati in un discorso tenuto nel gennaio 1918, a guerra in corso, davanti al senato statunitense. In proposito, Clemenceau commentò caustico: "Mi dà ai nervi coi suoi 14 punti, quando lo stesso buon Dio si è contentato di dieci". Tra le altre cose, Wilson proponeva di annullare ogni trattato segreto prebellico (caldeggiando una nuova diplomazia "trasparente"), garantire la libera navigazione, favorire gli scambi commerciali, ridurre gli armamenti, liberare ogni territorio occupato con la forza, rettificare le frontiere secondo criteri per l'appunto etnici anziché politici e, in ultimo, creare una "Lega delle Nazioni" per promuovere la cooperazione tra Stati in vista di una pace il più duratura possibile.

UMILIAZIONE TEDESCA. Alla fine prevalsero molte delle idee wilsoniane, ma se la pace fu teoricamente senza vincitori, i "vinti" ci furono eccome. La Germania subì infatti la temuta vendetta della Francia, nazione che più di altre aveva patito gli effetti del conflitto. L'idea era quella di annientare i tedeschi e infliggere loro anche un sonoro schiaffo morale, intenzione evidente fin dalla scelta del luogo per la firma del trattato di pace: la Galleria degli Specchi di Versailles, già sede nel 1871 della proclamazione dell'Impero tedesco dopo la sconfitta subita dai francesi nella guerra franco-prussiana. Per completare la rivincita, la Francia si riprese l'Alsazia e la Lorena, regioni che aveva perso proprio in quel conflitto.

Alla Germania, costretta a sottoscrivere il trattato finale, fu inoltre tolto ogni possedimento coloniale e furono imposte grosse restrizioni in ambito militare: la leva obbligatoria fu sospesa, l'esercito fu ridotto a centomila unità (altre limitazioni riguardarono la marina, mentre l'aviazione fu eliminata) e furono messi al bando gli armamenti pesanti. Non solo: la Germania dovette demilitarizzare la Renania, territorio al confine con la Francia, e concedere a quest'ultima l'occupazione della Ruhr, regione ricca di miniere di carbone. I tedeschi furono infine obbligati a lasciare alla Polonia il territorio della città di Danzica, con relativo sbocco sul Mar Baltico (il "corridoio polacco"). Il capitolo più pesante fu, tuttavia, quello delle riparazioni di guerra: lo Stato tedesco fu obbligato al pagamento di ben 132 miliardi di marchi oro, cifra smodata la cui entità gettò il Paese in uno stato di angoscia e inquietudine, alimentando una profonda crisi economica e i peggiori propositi di vendetta.

TUTTI SCONTENTI. La colpa della guerra, oltre che sui tedeschi, ricadde naturalmente sui loro alleati, in primis l'Austria-Ungheria e l'Impero ottomano, con i quali i trattati di pace furono firmati rispettivamente nel settembre 1919 e nell'agosto 1920. A rappresentare la realtà ottomana, già moribonda, rimase solo la Turchia, che dal 1923 sarà peraltro guidata e "de-ottomanizzata" dal leader nazionalista Mustafa Kemal. Il resto dei territori passò invece sotto l'amministrazione di francesi e inglesi. Allo stesso modo, la pace firmata con gli austriaci portò allo smembramento del loro impero, alla creazione di nuovi Stati autonomi e alla concessione all'Italia di molteplici territori. Tra questi non c'era però la Dalmazia, nonostante fosse stata promessa agli italiani alla vigilia dell'ingresso in guerra (1915). Il motivo? Gli Stati Uniti di Wilson non ritennero valido il trattato segreto che aveva sancito tale accordo (Patto di Londra), proprio in virtù della sua "segretezza". Caddero inoltre nel vuoto le rivendicazioni italiane sulla città di Fiume (oggi in Croazia), e così il malcontento investì anche il Belpaese, pur uscito vincitore dal conflitto. A masticare amaro furono però anche i trionfatori francesi e inglesi: i primi non gradivano di essersi dovuti in parte piegare ai dettami di Wilson, mentre i secondi si sentivano messi in secondo piano dagli stessi francesi. Molti britannici criticarono inoltre le condizioni imposte ai vinti e l'assenza di un piano di ripresa economica. Tra le voci di dissenso spicca quella dell'economista John Maynard Keynes, che nel volume Le conseguenze economiche della pace (1919) parlò di "pace cartaginese", rievocando i duri obblighi postbellici imposti dai Romani ai Cartaginesi al termine della Seconda guerra punica (III secolo a.C.). Se all'epoca la forza di Roma era bastata a garantire la pace, il timore era che in questo caso le potenze occidentali stessero invece gettando i semi di nuove guerre. Su questo punto risultò profetica l'affermazione di Ferdinand Foch, generale francese che nel 1920, commentando il Trattato di Versailles, affermò: "Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni".

UN'EREDITÀ LETALE. Neanche gli americani, entrati tra l'altro in guerra solo nel 1917, ne uscirono soddisfatti, tanto che il senato a stelle e strisce, pervaso da un latente desiderio "isolazionista", rifiutò l'adesione alla neonata Società delle Nazioni prevista dai quattordici punti di Wilson. A ogni modo, la nuova organizzazione intergovernativa, che avviò i lavori già nel 1920, con sede a Londra e poi a Ginevra, vide l'immediata partecipazione di oltre 40 nazioni e, pur non riuscendo a garantire la pace (anche perché dotata di limitati poteri di arbitrato), pose le basi della futura Organizzazione delle Nazioni Unite (che ne prese il posto nel 1945), oltre a valere a Wilson il Nobel per la Pace 1919. Tra le ambivalenti eredità del Trattato di Versailles, un notevole impatto lo ebbe il controverso principio di autodeterminazione dei popoli, che portò sia a un arricchimento nel campo del diritto internazionale sia alla nascita di pericolosi sentimenti ultranazionalisti. Oltre a non assicurare la pace (negli anni dopo il conflitto molti Stati europei conobbero rivoluzioni e nuove guerre), il trattato ebbe inoltre il demerito di nutrire il mostro nazista. Nella sua ascesa al potere, Hitler cavalcò infatti la voglia di rivalsa popolare per le condizioni inflitte dai vincitori, invocando dapprima la nascita di una Grande Germania che riunisse ogni popolo tedesco (in base proprio al principio di autodeterminazione) e scatenando poi, dal 1939, un nuovo conflitto di portata mondiale. Prima vittima illustre fu la Francia, alla quale la Germania rese pan per focaccia: i francesi dovettero infatti firmare la resa, nel 1940, nello stesso vagone ferroviario in cui i rappresentanti dell'Impero tedesco si erano arresi nel novembre 1918. Un altro frutto avvelenato della pace di Versailles.

Questo articolo è tratto da "Frutto avvelenato" di Matteo Liberti, pubblicato su Focus Storia 145 (novembre 2018) disponibile solo in formato digitale. Leggi anche l'ultimo numero di Focus Storia ora in edicola. 11 novembre 2021

La migrazione dei Lombardi in Sicilia. Nel medioevo siciliano, una vasta comunità di Lombardi si stabilì in alcune zone strategiche dell’isola, su invito dell’imperatore Federico II. Samuele Schirò su palermoviva.it. Secondo le logiche moderne, la presenza di una comunità lombarda in Sicilia suonerebbe perlomeno come una controtendenza. Eppure è quello che accadde nel 1237, durante il regno dello Stupor Mundi, l’Imperatore Federico II di Svevia. Vediamo cosa accadde. 

Alla morte dell’Imperatore Enrico IV il piccolo Federico, erede al trono ancora minorenne, fu affidato alla custodia del Papa Innocenzo III. In questo frangente il papato cercava di riaffermare alcuni dei suoi antichi diritti sul Regno di Sicilia, scontrandosi con le truppe tedesche, appoggiate dalle comunità musulmane ancora presenti nell’isola. Le battaglie continuarono finché Federico non divenne maggiorenne e fu quindi incoronato Re di Sicilia. Nonostante il clima di maggiore stabilità, le frange saracene in Sicilia continuarono a ribellarsi ed erano spesso causa di rivolte che rappresentavano un pericolo per l’integrità dello stato. Per questo motivo nel 1220 Federico raccolse le forze per muovere guerra contro le comunità musulmane e, una dopo l’altra, tutte le roccaforti arabe caddero sotto i colpi dell’esercito svevo. I superstiti arabi non furono sterminati, come era uso a quel tempo, Federico infatti decise di risparmiare loro la vita, deportandoli nella città pugliese di Lucera, in cui piano piano si riorganizzarono in una fiorente comunità, stavolta fedele all’Imperatore. Il risultato di queste deportazioni, fu lo svuotamento di alcune grandi città site in posizioni strategiche, prima tra tutte Corleone, il punto di passaggio tra Palermo e le zone rurali della Sicilia. Qualche anno dopo, nel 1237, Federico II a capo delle fazioni ghibelline, mosse guerra ai guelfi della Lega Lombarda, composta da un gruppo di comuni dell’Italia settentrionale. Durante queste battaglie, alcune comunità provenienti dai territori lombardi (soprattutto dall’Oltrepò Pavese e da alcune province dell’attuale Piemonte) si opposero alla Lega e decisero di unirsi a Federico. Questo gruppo di Lombardi fedeli all’Imperatore, capitanati da Oddone da Camerana, vollero allontanarsi dalle loro terre d’origine (circondate da comuni ostili) e chiesero dunque asilo a Federico II, che concesse loro dei possedimenti in Sicilia. Dapprima si stabilirono a Scopello (dove però si trovarono in difficoltà a causa dell’incapacità di difendere quel decisivo tratto di mare) ed in seguito nella spopolata Corleone e in altre città dell’entroterra, dove invece prosperarono fino a formare delle forti e nutrite comunità. Negli anni successivi, la Curia di Corleone contribuì alla crescita della città, concedendo alle nuove famiglie arrivate dalla Lombardia, proprietà e terreni edificabili. In seguito, nel 1282, la comunità Lombarda di Corleone si rivelò una preziosissima alleata di Palermo nella Guerra del Vespro, che si concluse con la cacciata degli Angioini dalla Sicilia.

 Samuele Schirò. Direttore responsabile, redattore e fotografo di Palermoviva. Amo Palermo per la sua storia e cultura millenaria.

Storia. Dalla genetica la risposta definitiva: gli Etruschi erano Italici. Franco Capone il 14 ottobre 2021 su Focus.it. Recenti analisi genetiche escludono che gli Etruschi provenissero dall'Anatolia, e indicano che erano originari della nostra penisola, dove difesero la loro identità dalle invasioni dei Kurgan, i cavalieri delle steppe asiatiche. Il sarcofago degli sposi, al Museo del Louvre. Datato al VI secolo a.C., è molto simile a quello conservato al Museo di Villa Giulia (Roma): entrambi sono stati scoperti nella necropoli della Banditaccia, a Cerveteri, segno che fu forse la mano di un unico artista a crearli. Non vennero da Oriente a fondare la loro raffinata civiltà, e a parlare una strana lingua. Ebbero invece origine in Italia centrale, negli stessi territori da cui intrapresero la lavorazione del ferro, i commerci marittimi e la loro rivoluzione agricola. Gli Etruschi erano un popolo autoctono, italico sin dall'inizio: questo è quanto chiarisce uno studio pubblicato su Scienze Advances, il più completo finora condotto sul DNA antico degli Etruschi. CONFRONTO DECISIVO. La ricerca coordinata da Cosimo Posth, del Max Planck Institute in collaborazione con esperti di vari atenei, da quelle di Tubinga e Jena alle università di Ferrara, Firenze e Napoli, ha riguardato la mappatura del genoma di 82 individui dell'Italia centrale e meridionale vissuti in un periodo compreso fra l'800 a.C. e il 1000 d.C. I soggetti inquadrabili come Etruschi condividevano il loro patrimonio genetico con i Latini: nulla a che fare avevano con tipi genetici del Vicino Oriente. Questo almeno fino all'inizio dell'età imperiale romana, quando poi la globalizzazione del Mediterraneo portò in Italia gente da fuori, mentre in età Medievale ci pensarono i Longobardi ad aggiungere varietà genetica. La ricerca vuole dunque principalmente essere risolutiva dell'enigma sulle origini degli Etruschi, cioè di un dibattito che va avanti da molti secoli. 

ERODOTO E DIONIGI. Già fra i Greci si formarono nel tempo due scuole di pensiero. Secondo lo storico e geografo Erodoto (484-425 a.C.), gli Etruschi provenivano dall'Isola di Lemnos (Lemno), di fronte all'Anatolia, dove si erano stabiliti in precedenza, venendo in origine dalla Lidia (oggi Turchia meridionale). Secondo Dionigi di Alicarnasso, storico e insegnante di retorica (60-7 a.C.) non si erano invece mai mossi dall'Italia centrale, essendosi evoluti sul luogo. A Erodoto avevano dato ragione in tempi moderni le analisi genetiche effettuate da Alberto Piazza, dell'Università di Torino: confrontando il DNA di persone viventi della zona di Volterra e altre città di origine etrusca con gli abitanti dell'isola di Lemnos era emersa una grande affinità genetica fra le due popolazioni. Non solo: a Lemnos un tempo si parlava una lingua non indoeuropea molto simile all'etrusco. Il nuovo studio coordinato dal Max Planck chiarirebbe ora che questa affinità si creò non in origine, ma in un secondo momento, durante l'espansione commerciale etrusca nel Mediterraneo. A Lemnos potevano esserci stati un emporio e poi una colonia etrusca. 

RESISTENZA ANTICA. Ma qui si apre un altro enigma: se gli Etruschi erano affini ai Latini, perché parlavano una lingua totalmente diversa, addirittura non appartenente alla famiglia delle lingue indoeuropee? Tanto più che gli autori dello studio, hanno anche individuato negli Etruschi esaminati una componente genetica di un popolo delle steppe asiatiche ereditata nell'età del rame. Cioè molto probabilmente appartenente al popolo dei Kurgan, proprio quello che portò in Europa la lingua proto indoeuropea con le sue invasioni a cavallo - e che secondo la ricostruzione dell'antropologa Marija Gimbutas instaurò i culti di divinità guerriere in sostituzione delle vecchie dee madri del Neolitico, dando origine a società patriarcali. I Cavalli Alati di Tarquinia (IV secolo a.C.). Trovati a pezzi, circa un centinaio, presso l'Ara della Regina di Tarquinia nel 1938, erano parte della decorazione frontale dell'edificio sacro. «Questa persistenza negli Etruschi di una lingua non indoeuropea, combinata con un ricambio genetico, mette in discussione il semplice presupposto che i geni siano corrispondenti alle lingue», dice a Focus.it David Caramelli, docente di antropologia all'Università di Firenze, che ha partecipato allo studio: «e ci suggerisce uno scenario che potrebbe avere comportato l'assimilazione di antichi Latini da parte della comunità linguistica etrusca, forse durante un prolungato periodo di mescolanza nel secondo millennio a.C.». I geni dei Kurgan finirono in modo significativo anche negli Etruschi «attraverso i Latini o in modo diretto durante le precedenti invasioni di questi cavalieri delle steppe asiatiche», spiega Caramelli, «ma la comunità linguistica etrusca ebbe la forza e l'autorevolezza di resistere assieme ai suoi costumi». Mantenne in pratica diverse caratteristiche culturali del Neolitico, come una religione ancora in parte animista, ben distinta rispetto a quelle dei vicini, e una posizione di rilievo della donna nella società, cosa rivelatasi inconcepibile per Greci, Romani e gli altri popoli patriarcali dell'antichità. 14 ottobre 2021 Franco Capone

Il silenzioso suicidio di Roma. Andrea Muratore il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel saggio "Gli ultimi giorni dell'impero romano" Michel De Jaeghere indaga le ragioni che portarono al crollo di Roma nel 476. Sottolineando come quello dell'Urbe fu un suicidio più che un tracollo dovuto a fattori esterni. Roma ascese nel fragore e declinò nel silenzio e negli intrighi. Gli ultimi tempi dell'Impero romano, visti a secoli di distanza, appaiono come una storia complessa e intricata, al cui interno si leggono al tempo stesso intrighi, bassezze, piccole e grandi tragedie umane, sussulti improvvisi e barlumi della gloria che fu dei "figli di Marte". Abbiamo seguito Roma e la sua traiettoria come grande potenza dal momento dell'impresa di Cesare e del suo trionfo, apripista per la trasformazione della Repubblica in impero. L'Urbe ha poi raffinato la sua capacità di leggere con taglio pienamente "geopolitico" il contesto internazionale, ma anche la più grande potenza del mondo antico fu destinata al collasso. La rotta di Adrianopoli è da considerarsi la vera cesura per Roma, ha fatto venire meno l'inerzia favorevole nei confronti delle tribù barbare annullando ogni illusione circa la possibilità di tenere coeso un impero che poco più di cent'anni prima Aureliano, il "restauratore" aveva salvato dall'implosione. Roma ha avuto, come abbiamo visto, precursori e estremi difensori; principi illuminati e comandanti imbelli; eroi e traditori; uomini d'arme e teorici politici. Anche negli ultimi tempi l'Impero romano d'Occidente, avente come capitale non più un'Urbe relegata a ombra di sé stessa ma Ravenna, tentò di dimostrare al mondo che i suoi tempi non erano finiti. Tentò di farlo, soprattutto, grazie all'estremo tentativo di Ezio, "ultimo dei romani", di opporsi al declino irreversibile dell'Urbe a cavallo tra la prima e la seconda metà del V secolo. Figure come Ezio sono emblematiche della storia che è raccontata nel saggio Gli ultimi giorni dell’impero romano, scritto dal giornalista e saggista storico francese Michel De Jaeghere, direttore del bimestrale Figaro Histoire. De Jaghere separa la storia dalla narrazione, mostra la compresenza tra un declino sistemico dell'Impero romano d'Occidente, sempre meno coeso politicamente, etnicamente e militarmente, e la presenza di poche, luminose figure decise, con il proprio talento o la forza della disperazione, a svolgere il ruolo di katechon, dei poteri frenanti che con la loro visione strategica o con azioni personali hanno potuto influire sulla rapidità con cui si dispiegavano precisi processi storici tesi all'inevitabile declino dell'Urbe. Per De Jaeghere la caduta dell’Impero Romano d’Occidente più che dall’irruzione ed occupazione di territori imperiali da parte di popoli germanici fu causata da una crisi interna sistemica: l'Impero morì per consunzione e collasso sistemico, non per occupazione militare o distruzione da parte di agenti esterni. Non fu un boato, ma un silenzioso tonfo quanto avvenuto nel 476, anno in cui con la deposizione dell’Imperatore Romolo Augusto (detto “Augustolo” in senso dispregiativo e di piccolezza, se messo a confronto con l’autorità dei suoi predecessori) da parte del comandante Odoacre, secondo le varie fonti di stirpe erula o gotica, de iure scomparve una creatura politica che de facto era da tempo ridotta a un ectoplasma. De Jaeghere racconta la spirale declinante fatta di un'imposizione esagerata di tasse vessatorie sui cittadini dell'Impero ritenuta vitale per sostenere un apparato militare sempre più multietnico, di una crescente corruzione sistemica, del declino dell'autorità politica culminato nel dispotismo senza regole degli ultimi decenni dell'Impero. L'aumento dell'insicurezza sociale, politica, economica favorì un declino demografico su cui si innestò l'inserimento continuo di tribù barbare chiamate a rimpolpare i ranghi dell'esercito. Solo in un modo si può estinguere una civiltà, diceva Arnold Toynbee: attraverso il suo suicidio, che avviene quando nessuno crede più all'idea che l'aveva edificata. E questo accadde a Roma. Ove i grandi fari dell'ultimo secolo di storia imperiale, in Occidente, da Teodosio ad Ezio, appaiono come figure tragicamente avulse dalla storia che andava inevitabilmente dispiegandosi. De Jaeghere ha il merito di ricordare storiograficamente che tra le cause del declino non vi fu la diffusione del cristianesimo. La tesi secondo cui i cristiani, con il loro messaggio di amore e di pace, avrebbero reso l'Impero debole di fronte ai barbari - per non risalire a polemisti pagani dei primi secoli come Celso - è stata diffusa dall'Illuminismo, con Voltaire e con lo storico inglese Edward Gibbon. Ma, come ricorda De Jaeghere, è totalmente fuorviante: innanzitutto, nei primi decenni del quinto secolo i cristiani nell'Impero romano d'Occidente erano solo il dieci per cento della popolazione, risultando la maggioranza nell'Impero d'Oriente, che resisterà alle invasioni e sopravvivrà per mille anni. E soprattutto, il cristianesimo aveva penetrato anche i nuovi entrati nel territorio dell'Urbe. Attraverso il cristianesimo, non a caso, furono i vigorosi e più giovani popoli barbari a portare avanti la nostalgia e il ricordo di una romanità che si era essiccata nel corso dei secoli. Non a caso riproponendo il nome di Roma a fianco di un nuovo Impero, questa volta "Sacro" oltre che "Romano" diversi secoli dopo. Non riuscendo però a costruire che una pallida copia di ciò che seppe diventare l'Urbe nel lungo millennio che la vide assurgere al dominio del Mediterraneo. Prima di spegnersi quasi senza colpo ferire.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Dagospia il 5 novembre 2021. Estratto dell’introduzione di “Il grande racconto di Roma antica e dei suoi sette re”. Do Giulio Guidorizzi (ed. il Mulino), pubblicato da “il Messaggero”. Dal bordo del lago di Nemi incoronato di alberi si può vedere, poco lontana, la cima del monte Cavo, dove sorgeva il santuario di Iuppiter Latiaris, il tempio più venerato dai Latini. Sotto, uno specchio di acque cupe e il santuario di Diana, altro luogo sacro dei popoli albani. In lontananza, si scorgono la pianura e una striscia di mare. Quando la luna si leva sopra il lago, la si può vedere riflessa nel mare, nel lago, oltre che alta nel cielo, e gli abitanti del posto chiamano questo spettacolo «la triplice luna»: tre lune, tre volte il viso di Diana. Da Nemi, da quel bosco dove per secoli si celebrò il sanguinario rito nel corso del quale un sacerdote entrava in carica uccidendo il predecessore, prende avvio il Ramo d'oro di James George Frazer, un vertiginoso tuffo nel mondo delle origini, il libro che ha fondato l'antropologia culturale. Diana Nemorensis: la Diana del bosco. Come scrive Frazer, «chi ha veduto una volta quell'acqua raccolta nel verde seno dei colli albani non potrà dimenticarla mai più». Il mondo della civiltà romana inizia qui. (...) Il sette è il numero magico per eccellenza, tale da conferire a ogni elenco una qualità di perfetta compiutezza, che lo rende definitivo, icastico, esemplare: sette sono le note, i mari, i giorni della settimana, i colori dell'arcobaleno, i Sapienti di Grecia, ma anche i colli su cui fu costruita Roma e i re che la governarono nei due secoli iniziali della sua storia. Roma fu fondata, secondo la tradizione, nel 753 a.C.; il 21 aprile di quell'anno un uomo chiamato Romolo tracciò un solco sulla cima del Palatino; nel 509 a.C, duecentoquarantaquattro anni anni più tardi, l'ultimo re, il perfido Tarquinio, fu cacciato, e da allora ebbe inizio la respublica, e con essa la libertas: mai nessun re avrebbe più regnato su Roma. Bastava anche solo dare adito al sospetto di volersi fare re per incorrere nella condanna a morte a furor di popolo. Se questi personaggi si sono impressi in modo indelebile nella memoria collettiva, l'unico che abbia mai portato ufficialmente il titolo di «re di Roma» nella storia successiva è il figlio di Napoleone, lo sfortunato Aiglon che fu nominato tale alla nascita e morì in esilio a Vienna appena ventunenne, senza aver mai messo piede nella Città Eterna. Napoleone, l'imperatore repubblicano, per una strana nemesi della storia, o forse perché a sua volta affascinato da queste grandi figure di re agli inizi della gloria di Roma, aveva voluto che anche suo figlio venisse annoverato fra esse. Duecentoquarantaquattro anni e sette soli re (in realtà otto, se consideriamo anche Tito Tazio, re dei Sabini, che per qualche tempo fu coreggente con Romolo). È improbabile che ognuno di loro abbia regnato in media trentacinque anni; si può pensare che l'elenco si sia consolidato sulla cifra canonica attraverso l'eliminazione di figure minori. Ma quello che conta, ai fini di questo libro, è ciò che i Romani volevano conservare nella loro memoria. La loro mitologia non si nutriva delle imprese di eroi guerrieri o viaggiatori, uccisori di mostri e fondatori di città. Non vantava Achille né Ulisse o Teseo, solo indirettamente celebrati poi dai poeti latini. Il popolo che viveva tra i boschi e i fiumi del Lazio, in mezzo a collinette e laghetti vulcanici, non ricercava lo splendore delle storie, come i Greci, che si collocavano al centro politico e commerciale del mondo mediterraneo, circondati da antiche civiltà con cui intrattenevano fitti scambi. I re di Roma non ebbero neppure un Omero che ne celebrasse le imprese, né i Romani una casta di bardi, come erano gli aedi greci, che cantassero le vicende delle origini, esaltando aspirazioni e tradizioni del loro popolo. Dunque, ci restano i sette re: Romolo fondò la città, Numa Pompilio si dedicò alla sua organizzazione religiosa e Tullo Ostilio a quella militare, Anco Marzio la dotò di un porto e di un ponte sul Tevere, l'opera di costruzione della città fu proseguita dai primi due re etruschi, Tarquinio Prisco e Servio Tullio, mentre il terzo, Tarquinio il Superbo, uno dei più famigerati villains della storia di tutti i tempi, si macchiò di tali nefandezze pubbliche e private da suscitare la ribellione del popolo e la soppressione della monarchia. A mano a mano che si procede, la mescolanza di elementi leggendari e mitici si dipana sempre più verso la storia, anche se è la storia oscura e un po' romanzata delle origini: ma è anche vero che i Romani delle epoche successive continuavano ad avere sotto gli occhi le opere dei loro primi re, le mura di Servio Tullio o il ponte di Anco Marzio. A parte Romolo, il leggendario fondatore figlio del dio Marte, a sua volta venerato come un dio col nome di Quirino in seguito alla sua morte soprannaturale, e il quasi altrettanto favoloso Numa, intimo di una ninfa al punto, secondo alcuni, di sposarla, gli altri re escono passo dopo passo dalla dimensione del mito per entrare nella storia, contribuendo ognuno per la propria parte alla creazione delle diverse istituzioni su cui si sarebbe fondata, nel corso dei secoli, la grandezza di Roma: l'esercito, i comizi, il senato, le magistrature, le leggi.

Storie Romane . Il Circo Massimo. La valle che si trovava ai piedi del Palatino, dove Romolo aveva fondato la città di Roma, era paludosa, ma molto ampia. Il primo re creò subito un asylum per accogliere gli stranieri. Infatti la città appena nata era formata da fuggitivi, schiavi liberati, contadini e pastori; un’estrazione tutt’altro che nobile. Poi si appellò ai popoli vicini per rinfoltire le sue schiere, tuttavia mancava ancora un elemento fondamentale: le donne. Perciò invitò i vicini sabini ad assistere ad una corsa di carri nell’area in cui sarebbe sorto il circo Massimo, una conca tra il Palatino e l’Aventino.

Il ratto delle sabine

Romolo voleva unire romani e sabini, ma molti non erano d’accordo. Perciò decise di usare la forza: i sabini sarebbero stati invitati con l’inganno e le donne prese con la forza, per unire il seme romano col ventre sabino. I romani si prepararono dunque a compiere il rapimento in cui tutti i sabini erano distratti dalla corsa; moltissimi erano i presenti, curiosi di vedere la nuova città. L’atto, studiato e repentino, fu un successo, mentre tra i sabini scoppiava in panico: «Quando giunse il momento dello spettacolo, mentre l’attenzione e gli occhi di tutti su quello erano concentrati, allora secondo il piano prestabilito cominciò il tumulto, e al segnale convenuto i giovani romani si gettarono a rapire le vergini. Per gran parte furono rapite a caso, secondo che a ciascuno capitavano sotto mano, ma alcune che si distinguevano per bellezza, destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della plebe cui era stato affidato quest’incarico. Narrano che una fanciulla di gran lunga superiore alle altre per la bellezza dell’aspetto fu rapita dalla squadra di un certo Talassio, e ai molti che domandavano dove mai la portassero ripetutamente gridavano, perché nessuno le recasse molestia, che la portavano a Talassio; da allora in poi questo grido divenne rituale nelle cerimonie nuziali. Dopo che sui giochi fu gettato lo scompiglio e lo spavento, i genitori delle vergini afflitti fuggono, lamentando la violazione del patto di ospitalità e invocando il dio del quale erano venuti a celebrare la festa e i giochi, rimanendo poi ingannati in dispregio della legge divina e della parola data. […] Ma lo stesso Romolo andava in giro a convincerle che ciò era avvenuto per la superbia dei genitori, i quali avevano negato il diritto di matrimonio ai loro vicini; esse tuttavia sarebbero state considerate come mogli legittime, e avrebbero condiviso con gli uomini il possesso di tutti i beni, della cittadinanza, e dei figli, cosa di cui nessun’altra è più cara all’umano genere; placassero dunque lo sdegno, e offrissero il loro animo a coloro cui la sorte aveva concesso il corpo. Spesso da un’offesa nasce poi un maggiore affetto, ed esse avrebbero trovato i mariti tanto più premurosi, in quanto ciascuno, oltre all’adempiere i suoi doveri di sposo, si sarebbe sforzato di non far sentire la lontananza dei genitori e della patria. Alle parole di Romolo si aggiungevano le blandizie dei mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa, argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili.» TITO LIVIO, AUC, I, 9, 10-16

Al segnale convenuto Romolo e i suoi estrassero le armi e catturarono le figlie dei ceninensi, crustumini, anemnati e sabini, lasciandone fuggire i padri. Ovviamente il gesto dei romani creò grande imbarazzo nei sabini e nei popoli vicini, che reclamavano vendetta; Romolo, che giustificava il gesto poiché tutte le donne catturate erano vergini o non sposate (tranne Ersilia), dovette affrontare anche delle razzie, con successo: «L’animo delle rapite si era ormai molto calmato, ma i loro padri più che mai accendevano i concittadini con manifestazioni di lutto, pianti e lamenti. Né contenevano nelle loro città gli sdegni, ma si riunivano da ogni parte presso Tito Tazio, re dei Sabini; colà affluivano le ambascerie, perché il prestigio di Tazio era grandissimo in quella regione. I Ceninesi, i Crustumini e gli Antemnati erano fra i popoli colpiti da quella offesa; ad essi parve che Tazio e i Sabini tardassero troppo ad agire, e quindi si accordarono di intraprendere la guerra da soli. Neppure i Crustumini e gli Antemnati si muovevano abbastanza in fretta per l’ardore e l’ira dei Ceninesi, perciò il popolo di Cenina da solo invade il territorio romano. Ma mentre disordinatamente devastano le campagne, viene loro incontro con l’esercito Romolo, e con un facile scontro dimostra che vana è l’ira senza la forza. Sbaraglia e mette in fuga l’esercito nemico, lo insegue in rotta, uccide il re in battaglia e lo spoglia, e dopo la morte del condottiero dei nemici prende la città al primo assalto. Quindi ricondotto l’esercito vincitore, Romolo, che era uomo valoroso nelle imprese e non meno abile nel metterle in mostra, salì sul Campidoglio recando appese ad un’asta appositamente fabbricata le spoglie del condottiero nemico ucciso, e depostele ivi presso una quercia sacra ai pastori, offrendo il dono delimitò i confini di un tempio in onore di Giove e assegnò al dio l’appellativo dicendo: «O Giove Feretrio, io vincitore Romolo re regie armi ti porto, e ti consacro un tempio in questo spazio, che ora mentalmente ho delimitato, come sede per le spoglie opime che i posteri seguendo il mio esempio ti porteranno dopo aver ucciso i re e i condottieri nemici». Questa è l’origine del tempio che primo fra tutti fu consacrato a Roma. Gli dèi vollero poi che né vane fossero le parole del fondatore del tempio, laddove proclamò che i posteri avrebbero recato colà le spoglie, né la gloria di quella offerta fosse diminuita da un grande numero di partecipi: due volte sole in seguito, in tanti anni e con tante guerre, furono conquistate le spoglie opime, tanto rara fu la fortuna di quell’onore.» TITO LIVIO, AUC, I, 10, 1-7

Romolo sposò proprio Ersilia e offrì alle donne tutti i diritti ma non la possibilità di tornare tra i sabini. Dopo aver sconfitto ceninensi, antemnati e crustumini, i sabini attaccarono Roma e presero il Campidoglio, attaccando poi battaglia al lago Curzio. Durante lo scontro le donne sabine si gettarono nella mischia per separare i contendenti. I due eserciti si separarono e Romolo e il sabino Tito Tazio deposero le armi, condividendo il regno unito di romani e sabini; tuttavia Tazio morì poco tempo dopo e i romani assorbirono i sabini, per distinguersi dai quali, tra i romani, si facevano chiamare quiriti: «Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall’altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli… e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo.» PLUTARCO, VITE PARALLELE, VITA DI ROMOLO, 19, 1-3

Il luogo deputato ai ludi

La prima sistemazione della Valle Murcia (l’area compresa tra Palatino e Aventino in cui i romani avevano attirato i sabini) per corse dei carri risale all’epoca dei Tarquini, ma fu solo con Giulio Cesare che l’area ricevette un’adeguata sistemazione architettonica; fino ad allora infatti la struttura era stata principalmente in legno. Il monumento fu poi restaurato da Augusto in seguito ad un incendio e vi aggiunse un obelisco di Ramses II preso in Egitto (poi spostato da papa Sisto V in piazza del Popolo nel XVI secolo, ora chiamato obelisco Flaminio). Successivamente l’imperatore Costanzo II vi aggiunse un secondo obelisco nel 357, portato durante i festeggiamenti dei suoi vicennalia a Roma, posto sulla spina. Oggi si trova dietro la basilica di San Giovanni in Laterano.

Altri restauri furono fatti da Tiberio e Nerone, mentre Tito costruì un arco al centro del lato corto, divenendo un’entrata monumentale integrata nel circo. Durante il principato di Nerone fu forse l’epicentro delle fiamme che avvolsero Roma nel luglio del 64:

« Iniziò in quella parte del circo che confina lungo il Palatino e il Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe che contenevano prodotti altamente infiammabili, divampò subito violento, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza, visto che non esistevano palazzi con recinti o templi cinti con mura o qualcosa che potesse fermare le fiamme. » TACITO, ANNALI, XV, 38, 2

Dopo un’altro grave incendio sotto Domiziano, ne venne completata la ricostruzione da Traiano, a cui si deve il grosso della forma attuale, il quale completò la monumentalizzazione del sito. Successivamente ci furono importanti restauri sotto Antonino Pio, Caracalla e Costantino. Il circo rimase in uso fino al 549, anno in cui Totila presenziò alle ultime corse. Lungo oltre 600 metri e largo 140, il Circo Massimo poteva ospitare forse 250.000 mila spettatori, circa un quarto o un quinto della popolazione di Roma al suo apice, nel II secolo d.C., ed era usato principalmente per le corse di quadrighe. Era collegato direttamente al palazzo imperiale sul Palatino con dei tunnel (in cui venne ucciso Caligola), perciò l’imperatore poteva accedervi senza uscire “di casa”. La facciata esterna era composta di tre ordini, quello inferiore di altezza doppia e ad arcate. La cavea poggiava su muratura, che ospitava passaggi e scale per raggiungere i sedili, ambienti di servizio e le botteghe (da cui partì l’incendio neroniano). Le corse vedevano gareggiare dodici quadrighe (carri a quattro cavalli), con diverse squadre rappresentate da colori a competere (azzurri, verdi, rossi, bianchi), solitamente di sette giri, con sette delfini da cui sgorgava acqua e sette uova a scandire il compiersi dei giri. Lunga la spina c’erano anche vari tempietti ed edicole. Infine dodici carceres, ossia batterie di partenza, erano allineate obliquamente per garantire una partenza uniforme e possedevano un meccanismo che garantiva l’apertura simultanea. «Costoro consacrano tutta la loro vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri ed agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la mèta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché chi sostiene, come è naturale, una tesi, chi un’altra. Fra costoro quelli che son vissuti a lungo e godono di maggiore autorità grazie alla loro età, giurano per i loro capelli bianchi e le rughe che lo stato non potrà più sussistere se nella prossima gara non balzerà per primo fuori dai cancelli del circo quell’auriga che ognuno favorisce, e non riuscirà a correre rasente alla mèta con la coppia di cavalli di punta. In un simile marciume di negligenza, quando spunta il giorno desiderato dei giochi equestri ed il sole ancora non splende in tutta la sua luminosità, tutti in massa s’affrettano al circo correndo precipitosamente, tanto che superano in velocità i cocchi che scenderanno in gara. Moltissimi, in preda a conflitti interni sull’esito ed ansiosi per le loro speranze, trascorrono le notti vegliando.» AMMIANO MARCELLINO, STORIE, 28, 4, 29-31

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Il ratto delle sabine.  Storie Romane il 15 settembre 2021. Dopo la fondazione di Roma Romolo creò un asylum per accogliere gli stranieri. Infatti la città appena nata era formata da fuggitivi, schiavi liberati, contadini e pastori; un’estrazione tutt’altro che nobile. Il primo re si appellò dunque ai popoli vicini per rinfoltire le sue schiere, tuttavia mancava ancora un elemento fondamentale: le donne. Perciò invitò i vicini sabini ad assistere ad una corsa di carri nell’area in cui sarebbe sorto il circo Massimo, all’epoca ancora paludosa. «Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì.» STRABONE, GEOGRAFIA, V, 3,2

«Già la potenza di Roma era così solida da poter fare fronte in guerra a qualsiasi delle città confinanti, ma mancando le donne la sua grandezza sarebbe durata lo spazio di una generazione, non avendo né speranza di prole in patria né facoltà di connubio con i vicini. Allora per consiglio del senato Romolo mandò ambasciatori alle genti vicine, a chiedere alleanza e diritto di matrimonio per il nuovo popolo: dicevano che anche le città, come ogni altra cosa, nascono dal basso; poi quelle che sono aiutate dalla virtù e dagli dèi raggiungono grande potenza e fama; sapevano che gli dèi avevano assistito il sorgere di Roma e che la virtù non sarebbe mancata, quindi non disdegnassero di mescolare, uomini con altri uomini, il sangue e la stirpe. In nessun luogo l’ambasceria fu accolta benevolmente; a tal punto disprezzavano e insieme temevano per sé e per i discendenti quella così grande potenza che cresceva in mezzo a loro. I più congedavano i Romani domandando se mai avessero aperto un asilo anche per le femmine: quello davvero sarebbe stato un degno accoppiamento. La gioventù di Roma mal sopportò l’affronto, e decise senza indugio di ricorrere alla violenza; per offrire a questa tempo e circostanze opportune, Romolo dissimulando l’interna amarezza preparò a bello studio dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre, cui diede il nome di Consuali. Quindi fa bandire lo spettacolo presso i vicini, e lo allestiscono con la maggior grandiosità di cui allora fossero capaci, per accrescerne la fama e l’attesa. Molta folla accorse, attirata anche dal desiderio di vedere la nuova città, soprattutto dalle città più vicine, da Cenina, da Crustumerio e da Antemna; venne poi tutta la popolazione dei Sabini con i figli e le mogli. Invitati ospitalmente nelle abitazioni, dopo aver osservato la posizione, le mura e il gran numero degli edifici, si stupirono che in così breve tempo già tanto Roma si fosse sviluppata.» TITO LIVIO, AUC, I, 9, 1-9

Romolo voleva unire romani e sabini, ma molti non erano d’accordo. Perciò decise di usare la forza: i sabini sarebbero stati invitati con l’inganno e le donne prese con la forza, per unire il seme romano col ventre sabino. I romani si prepararono dunque a compiere il rapimento in cui tutti i sabini erano distratti dalla corsa; moltissimi erano i presenti, curiosi di vedere la nuova città. L’atto, studiato e repentino, fu un successo, mentre tra i sabini scoppiava in panico: «Quando giunse il momento dello spettacolo, mentre l’attenzione e gli occhi di tutti su quello erano concentrati, allora secondo il piano prestabilito cominciò il tumulto, e al segnale convenuto i giovani romani si gettarono a rapire le vergini. Per gran parte furono rapite a caso, secondo che a ciascuno capitavano sotto mano, ma alcune che si distinguevano per bellezza, destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della plebe cui era stato affidato quest’incarico. Narrano che una fanciulla di gran lunga superiore alle altre per la bellezza dell’aspetto fu rapita dalla squadra di un certo Talassio, e ai molti che domandavano dove mai la portassero ripetutamente gridavano, perché nessuno le recasse molestia, che la portavano a Talassio; da allora in poi questo grido divenne rituale nelle cerimonie nuziali. Dopo che sui giochi fu gettato lo scompiglio e lo spavento, i genitori delle vergini afflitti fuggono, lamentando la violazione del patto di ospitalità e invocando il dio del quale erano venuti a celebrare la festa e i giochi, rimanendo poi ingannati in dispregio della legge divina e della parola data. Non migliore speranza nella loro sorte né minore sdegno avevano le rapite. Ma lo stesso Romolo andava in giro a convincerle che ciò era avvenuto per la superbia dei genitori, i quali avevano negato il diritto di matrimonio ai loro vicini; esse tuttavia sarebbero state considerate come mogli legittime, e avrebbero condiviso con gli uomini il possesso di tutti i beni, della cittadinanza, e dei figli, cosa di cui nessun’altra è più cara all’umano genere; placassero dunque lo sdegno, e offrissero il loro animo a coloro cui la sorte aveva concesso il corpo. Spesso da un’offesa nasce poi un maggiore affetto, ed esse avrebbero trovato i mariti tanto più premurosi, in quanto ciascuno, oltre all’adempiere i suoi doveri di sposo, si sarebbe sforzato di non far sentire la lontananza dei genitori e della patria. Alle parole di Romolo si aggiungevano le blandizie dei mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa, argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili.» TITO LIVIO, AUC, I, 9, 10-16

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Da "Specchio - la Stampa" il 21 settembre 2021. Erano molteplici gli insulti e le parolacce nell'antica Grecia. Eccone alcuni: Barùmastos, "dalle tette pesanti"; Boiotòs, "beota" (i greci credevano che gli abitanti della Beozia fossero molto poco intelligenti e quindi stolti): Bolbitòomai, "puzzare di merda bovina"; Graosòbes, "amante di vecchie"; Dulomìktes, "trombaschiavi"; Engortùnoomai, "essere stupido come un cretese di Gortina"; Xulokùmbe, "donna con la grazia di un barcone". Alcune delle parolacce contemporanee arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, "sterco" e "meretrice". Il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei. Sui muri di Pompei, tra le altre cose, si legge infatti: "Appollinare, medico di Tito, in questo bagno egregiamente cagò"; "Che gioia inculare!"; "Piangete ragazze, il mio cazzo vi ha abbandonato. Ora incula i culi. Fica superba addio!"  Nel Medioevo l'epiteto peggiore era quello di "villano", che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo. Nella Firenze di Dante, invece, ci si divertiva a dare al prossimo del "mal ghibellino cacato", cui si poteva rispondere con "sozzo guelfo traditore" o, all'occorrenza geografica, con "sozzi marchisani" o "sozza romagnola" La sottile arte del turpiloquio era assai praticata nella civiltà classica Le imprecazioni più in voga tra i Greci erano "per il cane!", "per la capra!", "per l'aglio!" Anche i Romani non erano troppo pudichi L'insulto più comune era "sporco sannita"

Andrea Marcolongo per "Specchio - la Stampa" il 21 settembre 2021. È difficile per noi contemporanei, abituati da oltre due millenni a idealizzarli e a venerarli, immaginare gli Antichi intenti ad insultarsi e a prendersi a male parole in mezzo alle strade di Atene e di Roma. Eppure, tra una discussione filosofica e una tragedia a teatro, i Greci e i Romani non se le mandavano certo a dire: non furono solo epiteti e poesie ciò che la Musa cantò da Omero in poi, ma anche molte, coloritissime parolacce. Sconcerta scoprire che la poco sottile arte del turpiloquio - etimologicamente dal latino, il "parlare impiegando un linguaggio osceno" - sia venuta al mondo con la comparsa stessa dell'uomo, che a quanto pare ha iniziato a mandare a quel paese i suoi simili non appena scoperta la posizione eretta. Se i resti archeologici rinvenuti in Mesopotamia non ci consentono di ricostruire le espressioni più colorite della Preistoria, è però certo che gli antichi Egizi amassero insultarsi senza sosta: l'interpretazione di alcuni geroglifici attesta come, già a partire dal III millennio a.C., il popolo del Nilo avesse sdoganato la bestemmia e l'insulto osceno, mettendo in dubbio la casta condotta delle madri di certe divinità o la loro prestanza sessuale. In greco antico, la parolaccia si diceva aiscrologia, ossia "discorso turpe", "vergognoso", anche se i Greci ebbero ben poca vergogna a coniare termini e espressioni che ancora oggi farebbero arrossire la più avvelenata delle lingue. Nessuna di queste parolacce, ovviamente, si apprende al liceo classico, dove si ha piuttosto la tendenza a immaginare Platone, Sofocle, Aristotele e tutti gli altri intenti a carezzarsi verbalmente con sottilissime metafore e raffinatissimi epiteti. Se al liceo non mi sono mai immaginata Omero intento ad insulare un passante o a litigare con un pescivendolo al mercato, né mai nella storia i versi più sboccati dei poeti greci hanno trovato posto nelle antologie scolastiche, sottoposte a quella che può essere a ragione definita una censura linguistica, tutti noi liceali abbiamo avuto più di un attimo di turbamento scoprendo le parolacce riportate con dovizia di esempi nel dizionario di greco che abbiamo tenuto tra le mani per almeno cinque anni. Ricordo ancora oggi le risatine, i commenti imbarazzati e i giochi di parole oscene dei miei compagni quando, nel bel mezzo di una versione, cercando nel Rocci chissà quale ortodosso sostantivo inciampavamo all'improvviso in una parolaccia greca cosi turpe e scurrile da mettere a disagio l'insegnante, che per eleganza fingeva di non sentire come s' insultavano Platone e gli altri. Le offese più taglienti, e per questo più indimenticabili, sono state persino recentemente raccolte in un libro edito da Melangolo, intitolato Come s' insultavano gli Antichi. Dire le parolacce in greco e in latino, curiosa opera di Neleo di Scelpsi (nom de plume dietro il quale si nasconde Francesco Chiossone, giovane esperto di filosofia antica e curatore appassionato di classici greci e latini). E dunque cosa si urlavano dietro i cittadini più irascibili di Atene e di Roma? Senza scadere nella volgarità, le espressioni più in voga tra i Greci erano "per il cane!", "per la capra!", "per l'aglio!" - e se un "per Zeus!" è imprecazione già omerica, bisogna riconoscere come i Greci, a differenza degli Egizi, non amassero scherzare troppo con gli dei. Alla trivialità urbana bisogna poi aggiungere il tocco di stile di letterati e poeti classici, che lasciarono un segno non solo nella letteratura, ma anche nel turpiloquio. Pitagora ad esempio, nel VI secolo a.C., credendo che la matematica fosse una manifestazione diretta della realtà, imprecava addirittura con i numeri - l'offesa suprema sarebbe stata dare a qualcuno "del numero 4". Maestro indiscusso della parolaccia fu senz' altro il poeta lirico Archiloco che già nel VII secolo a.C., nei suoi giambi, non le mandava certo a dire - alcune sue offese a sfondo sessuale sono irripetibili, perlomeno in questa sede. Sempre ai Greci va riconosciuto il merito della prima barzelletta con parolacce, protagonista un eunuco, riportata nel Philogelos, un'antologia di barzellette in greco del IV secolo d.C. Dall'altro lato del Mediterraneo, i Romani non erano certo più pudichi dei Greci: alcune delle contemporanee parolacce arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, che credo non valga la pena di tradurre. I graffiti rinvenuti sui muri di Pompei dimostrano come non tutti i discorsi dei Romani fossero tratti direttamente da Cicerone: il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei, meritando un posto più in un bagno dell'Autogrill che in una biblioteca. A livello più poetico, c'è da rallegrarsi che Catullo sia passato alla storia per il suo odi et amo e non per le male parole con cui, una volta rifiutato, prese a schiaffi verbali il destinatario del suo amore, secondo forse solo a Marziale, un altro poeta che, nelle sue satire, si divertiva a ricoprire d'insulti i politici del suo tempo come nel peggiore dei lupanari. Un vizio, quello della parolaccia, che ha poi attraversato i secoli e le epoche storiche. Se a Roma l'insulto più comune era dare dello "sporco sannita" a qualcuno, in riferimento al popolo dei Sanniti che strenuamente si era opposto al potere della SPQR, nel Medioevo l'epiteto peggiore era quello del "villano", che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo. Nella Firenze di Dante, infine, ci si divertiva a dare al prossimo del "mal ghibellino cacato", cui si poteva rispondere con "sozzo guelfo traditore" o, all'occorrenza geografica, con "sozzi marchisani" o "sozza romagnola". E se oggi l'uso della parolaccia è stato sdoganato in contesti più che insospettabili, concludo con un paradosso: la nostalgia dell'italico insulto. Sono poche le lingue straniere che possiedono più male parole del nostro italiano: per accorgersene, basta trasferirsi all'estero e parlare un altro idioma che, per comparazione al nostro, non potrà che risultare, in certi contesti, un poco pedante, ingessato, scolorito. Vivendo a Parigi e parlando tutto il giorno francese, dell'italiano mi manca tutto, compreso il suo turpiloquio - e così, se proprio devo, non rinuncio qualche volta a infarcire i miei discorsi con i colori, anche verbali, del nostro Tricolore.

La conquista della Magna Grecia. Il conflitto con Taranto. Logozzo Maria Teresa il 24 gennaio 2021 su bunus.it. Ormai imminente la guerra con Pirro e i suoi alleati magnogreci, i Romani mobilitarono otto legioni e le truppe dei socii, per un totale di 80.000 uomini, dividendo le forze in quattro eserciti.

Il primo esercito, comandato da Lucio Emilio Barbula, si stanziò a Venosa per impedire a Sanniti e Lucani di congiungersi con le truppe di Pirro.

Il secondo esercito sarebbe rimasto a protezione di Roma, nell’eventualità che Pirro avesse tentato di attaccarla.

Il console Tiberio Coruncanio comandava il terzo esercito, con il compito di tenere impegnati gli Etruschi e per scongiurare loro possibili alleanze con Pirro.

Infine il quarto esercito, comandato da Publio Valerio Levino e forte di circa 20.000 uomini, di cui circa 8-10.000 legionari, avrebbe avuto il compito di attaccare Taranto e invadere la Lucania. 

Ai Romani, Pirro contrappose 20.000 fanti pesanti tra falangiti e alleati, 3.000 cavalieri (comprendenti i rinomati cavalieri della Tessaglia), 2.000 arcieri greci, 500 frombolieri rodensi e 20 elefanti da guerra.

Il re dell’Epiro, cresciuto tra i grandi eserciti ellenistici, vedeva i Romani solo come un popolo barbaro tra i tanti popoli per lui barbari che abitavano l’Italia centrale.

Ma quando scorse per la prima volta le legioni romane costruirsi un accampamento provvisorio, secondo Plutarco rimase stupito dalla loro organizzazione.

“La disposizione di questi barbari non è barbara, ma li vedremo alla prova”, avrebbe detto il re a Megacle, un suo fidato attendente.

Pirro intendeva bloccare l’avanzata romana verso sud, scongiurando in questo modo un’alleanza di Roma con le colonie greche di Calabria.

I due eserciti avanzarono l’uno contro l’altro in Lucania, accampandosi infine vicino ad Eraclea (odierna Policoro), presso il fiume Siri.

La battaglia di Eraclea

Il re epirota schierò le sue truppe in posizione difensiva, lungo la sponda del fiume.

Valerio Levino non avrebbe rischiato di vedersi soverchiare dalle forze avversarie, attendendo che all’avversario arrivassero gli enormi rinforzi vantati dalla città greca di Taranto.

Ordinò quindi ai suoi di guadare il fiume.

Pirro, per evitare di essere circondato a ridosso del Siri, ordinò alle sue truppe di arretrare.

Il re dell’Epiro passò poi al contrattacco, decidendo di usare la tattica preferita da Alessandro Magno dell’incudine e del martello: la falange al centro, egli stesso al comando della cavalleria tessala sulla destra, pronto a colpire l’ala avversaria.

Gli elefanti sarebbero rimasti agli estremi del suo schieramento. Per Pirro, i pachidermi sarebbero stati la chiave per scongiurare eventuali accerchiamenti da parte dei Romani.

L’avanzamento combinato della falange al centro e della cavalleria a destra, contro il fianco sinistro avversario, era ormai ben nota in seno agli eserciti ellenistici, prevedibile e pressoché in disuso.

Tuttavia in Italia, dove gli eserciti dei grandi regni orientali non avevano mai messo piede (se si esclude l’avventura dello zio di Pirro, Alessandro il Molosso), tale tattica era probabilmente piuttosto inusuale, motivo per cui Pirro decise di affidarvisi.

La cavalleria tessala era sostanzialmente una cavalleria leggera, come la maggioranza delle cavallerie elleniche.

Sarebbe stato assai arduo, considerata la minore forza d’urto, che questa cavalleria potesse riuscire nell’intento di scompaginare e spingere con la sua carica il fianco nemico verso il centro, verso la falange in avanzata.

Pirro tentò l’attacco a destra, ma sbagliando il momento dell’attacco, lasciando ai Romani il tempo di rafforzare il proprio fianco con uno schieramento compatto di cavalieri romani e alleati.

Il re dell’Epiro non si perse d’animo, invertendo i ruoli dei suoi contingenti. Ordinò alla falange di attaccare, facendo pressione sul centro per spingerlo verso il fianco, verso la sua cavalleria. Tuttavia, la falange non era solitamente addestrata per compiere una simile manovra.

Addestrati a tenere serrati i ranghi fino al momento dell’impatto, attenti a mantenere un passo costante, i falangiti si videro costretti ad aumentare pericolosamente il passo, col rischio di sfaldare la formazione e arrivare all’urto con minore potenza.

Un’impresa anche per dei soldati esperti, a maggior ragione dovette esserlo per una formazione eterogenea come era quella di Pirro, costituita da uomini di diversa provenienza: Epiroti, Greci, Tarantini e altri Magnogreci.

La falange di Pirro subiva intanto i lanci dei pila romani, i giavellotti pesanti di origine etrusca, e per questa totalmente non nuovi. Ma i falangiti erano abituati ad avanzare in ordine chiuso per difendersi dagli attacchi dei proietti nemici, e la selva di sarisse levate verso il cielo forniva un minimo di schermo contro queste armi.

I Romani, nell’andare incontro alla falange avversaria, erano schierati secondo la più mobile e dinamica formazione manipolare, con i manipoli (due centurie) capaci di muoversi l’uno a prescindere dall’altro.

La battaglia di Eraclea fu la prima occasione nella quale le legioni romane e la falange di tipo macedone si scontravano: solo il primo di tanti confronti tra i Romani e gli eserciti ellenistici, almeno per quanto riguarda la falange fino alla battaglia di Pidna, nel 168 a.C. 

Non abbiamo descrizioni dirette che ci dicano come fu l’impatto tra le legioni e la falange, ma dovette essere una difficile prova per entrambi i fronti: gli Epiroti e alleati stupiti dalla capacità di movimento dei manipoli, la difesa dei Romani fornita dai loro grandi scuta; i Romani stessi incerti nel resistere al muro compatto della falange, impossibilitati ad arrivare a contatto dal terribile muro di sarisse.

Ogni legionario con la sua spada avrebbe dovuto affrontare almeno i due falangiti con le loro lunghe sarisse in prima fila, nonché quelli delle file immediatamente successive.

Non potendosi avvicinare con la sua spada al nemico, il legionario si trovava in enorme difficoltà, cercando piuttosto un più stretto corpo a corpo, per il quale il suo armamento era perfettamente studiato (particolarmente il grande scudo oblungo, unito a spade adatte sia ai fendenti che alle stoccate come i corti xiphos italici e le spade La Tene B di origine gallica).

Gli scontri andarono avanti per ore. Gli schieramenti avanzavano e indietreggiavano come onde, senza che l’uno riuscisse a prevalere sull’altro.

Secondo Plutarco, “Si narra che i due eserciti si misero in fuga e si inseguirono alternativamente per sette volte”. 

Si discute se a ogni impatto seguisse una semplice pressione, più forte ora da una parte, ora dall’altra, oppure anche una mischia vera e propria.

Essendo difficile richiamare i propri soldati, una volta in mezzo alle fila avversarie, inquadrarli e passare a nuova carica, è probabile che all’impatto ci si limitasse a pressare il nemico.

Tuttavia è anche vero che i Romani alternavano i propri hastati con i propri principes, pertanto l’ondeggiare potrebbe essere stato dovuto alla spinta delle prime fila e al rallentamento nei momenti dell’avvicendarsi delle fila stesse.

Bisognava dare una svolta alla battaglia. Sui fianchi della falange, Pirro fece entrare in azione gli elefanti.

Dettaglio di un famoso piatto del III sec. a.C., raffigurante un elefante da guerra, conservato al museo etrusco di Villa Giulia. 

I Romani non avevano mai visto degli elefanti prima di allora, e li chiamarono “buoi lucani” (come riportano Varrone e Plinio il Vecchio).

I pachidermi, a detta di Livio, incutevano paura nei legionari, impedendo loro di combattere al meglio delle loro possibilità.

Oltre ai Romani, a essere atterriti erano i loro cavalli, terrorizzati dalla mole e dall’insolito odore dei grandi pachidermi. Incontrollabili, i destrieri dell’esercito romano si diedero alla fuga, provocando una strage.

Floro, a tal riguardo, afferma: “Tutto si sarebbe concluso, se gli elefanti non si fossero slanciati avanti, trasformando la battaglia in spettacolo; i cavalli, spaventati sia dalla grandezza sia dalla bruttezza di quelli, sia contemporaneamente dall’odore insolito e dal barrito, sospettando che quelle belve a loro sconosciute fossero più temibili di quanto erano, provocarono la fuga e strage per ogni dove”.

L’intervento degli elefanti disperse la cavalleria romana e ne limitò l’operatività.

Ora la cavalleria tessala, comandata personalmente da Pirro, era finalmente libera di muoversi sul campo di battaglia per tentare nuovamente un più efficace attacco all’esercito dei Romani e socii sulle ali.

Ma il re dell’Epiro quasi incontrò il suo destino. Con la sua clamide color porpora ricamata in oro, era un facile bersaglio.

Un prefetto della cavalleria dei socii di nome Oblaco tentò di affrontare Pirro, caricandolo da solo.

Una delle guardie del re riuscì ad avvertire quest’ultimo, ma Oblaco riuscì a farsi sotto.

Il cavallo di Pirro venne colpito e abbattuto. Il re sparì per un po’ di tempo, poi tornò sul campo. Ci fu una grande confusione, a un certo punto sembrò che il re fosse morto: la sua clamide era stata vista cadere nella polvere. Lo sconforto assalì i soldati.

Ma il re era ancora vivo. Con un diverso equipaggiamento, ricomparve e percorse i ranghi del suo esercito, riportando il vigore nelle proprie truppe.

Dopo l’abbattimento del suo cavallo, Pirro era riuscito a ripiegare montando su un nuovo animale. Una volta messosi più al sicuro, aveva scambiato il proprio equipaggiamento con quello del suo più fido amico, Megacle, per non correre ulteriori rischi.

Ma proprio il fidato Megacle, nel corso del combattimento, era stato infine ucciso.

I Romani erano pressati da ogni dove, impossibilitati a reagire.

Levino, con la cavalleria dispersa e la fanteria sotto pressione sul centro e sui fianchi, optò per l’unica soluzione sensata: la ritirata.

Levino decise di non trincerarsi nemmeno nel suo accampamento, che verrà saccheggiato dal nemico. 

Roma non si piega

La battaglia si fermò solo per la sopravvenuta oscurità.

Le fonti sono estremamente variabili nell’elencare le perdite dei due schieramenti, tra morti, feriti, prigionieri. Dai 7.000 ai 15.000 per i Romani, dai 4.000 ai 13.000 per Pirro.

Prendendo per verosimili le cifre più basse è evidente come, nel conteggio totale delle forze disponibili ai due eserciti, le perdite epirote siano state molto più pesanti.

Pirro lo sapeva, poiché secondo Diodoro Siculo ebbe a dire che “se avesse sconfitto ancora i Romani in un’altra battaglia, non gli sarebbe rimasto più nemmeno uno dei soldati che avevano preso parte alla sua spedizione”.

Secondo altre fonti il re dell’Epiro, alla fine dello scontro, così come quando all’inizio li aveva visti porre il campo, era rimasto davvero colpito dal valore dei soldati romani.

Per Eutropio, “Pirro catturò milleottocento Romani e li trattò col massimo riguardo, e seppellì i cadaveri. E avendo visto questi che giacevano con le ferite riverse e il volto truce anche da morti, si dice che rivolse le mani al cielo con queste parole: che sarebbe potuto essere il padrone del mondo intero, se gli fossero toccati tali soldati”.

Anche se sanguinosa, la vittoria di Pirro rimaneva pur sempre una vittoria.

Il re lasciò ai suoi soldati il bottino racimolato sul campo, cullandosi nell’idea, come dice Plutarco “di aver sconfitto il grande esercito dei Romani con le sole forze proprie e dei tarantini”.

Forse, più che l’illusione, era il valore politico della vittoria di Eraclea ad allietare Pirro.

I popoli dell’Italia meridionale, che avevano atteso l’evolversi degli eventi, rimasti impressionati dalla determinazione e dal valore del re epirota, aderirono apertamente alla sua causa.

Le perdite subite da Pirro vennero così rimpiazzate con contingenti di Lucani, Bruzi e Messapi.

Anche alcune città magnogreche si schierarono con Pirro e gli inviarono rinforzi. Crotone e Locri Epizefiri cacciarono le guarnigioni romane e si unirono al re.

Vista la situazione di netto dominio, Pirro volle spingere i Romani a trattare.

In un vero sfoggio di forza, risalì la Penisola, fino a una sessantina di chilometri da Roma.

I due consoli non avrebbero potuto intervenire efficacemente: Levinio era fermo a Venosa a far riprendere il suo esercito, mentre Coruncanio era impegnato in Etruria.

Plutarco ben sintetizza le intenzioni del re: “Riteneva che conquistare la città – Roma – e ottenere la vittoria non fosse affare da poco e che fosse impossibile con le forze di cui disponeva, mentre un trattato di pace o amicizia dopo la vittoria gli avrebbe apportato moltissima gloria”. 

I Romani, tuttavia, erano diversi dagli altri popoli italici, e non avevano alcuna intenzione di trattare.

A mandare in fumo i piani di Pirro fu direttamente il Senato romano, per mezzo del suo rappresentante Appio Claudio Cieco (cieco lo era davvero), il costruttore della via Appia.

Il senatore incitò i suoi colleghi alla guerra, affermando che non si poteva lasciare impunito un nemico che aveva sconfitto le legioni romane e che si trovava ancora sul suolo italico.

Venne mandato come ambasciatore l’ex console Fabricio Luscino, semplicemente per trattare la restituzione dei prigionieri.

Pirro dissimulò, rispondendo di non essere venuto fin lì per mercanteggiare, ma per decidere la contesa sui campi di battaglia. Consegnò i prigionieri senza alcun riscatto, ma come un dono da parte sua.

Secondo Dionigi di Alicarnasso, pare che ci sia stato un tentativo andato a vuoto di corruzione, con l’offerta di Pirro di un quarto del suo regno nei confronti di Luscino, passato alla storia come il più integerrimo dei censori. Sembra tuttavia un particolare poco verosimile, che mal si adatta al Pirro che restituiscono le fonti.

Il re epirota, non avendo ottenuto ciò che voleva da Fabricio, inviò a sua volta a Roma il suo fidato consigliere, Cinea. Oltre a ricondurre i prigionieri restituiti a Roma, Cinea avrebbe dovuto fare un ulteriore tentativo per chiedere la pace e mantenere lo status quo che si era venuto a creare. 

Tuttavia, fallì anche questo secondo tentativo. Non solo il Senato non volle saperne, ma considerò i prigionieri romani “infami”, poiché catturati con le armi in pugno, e per questo dovevano essere addirittura allontanati.

A Pirro non rimaneva che cercare uno scontro decisivo che obbligasse Roma a piegarsi. Dal canto suo, Roma doveva prendere tempo.

Durante l’inverno seguente, l’Urbe si preparò alla ripresa del conflitto.

Leggi anche

La conquista della Magna Grecia. (3) La battaglia di Ascoli Satriano (279 a.C.)

La conquista della Magna Grecia. (4) La battaglia di Maleventum e la fine della guerra (275 a.C.)

Bibliografia

Quello che non ci dicono. Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti, che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico). Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

STORIE ROMANE. L’impero romano e le sue province. «Sebbene il popolo gli offrisse con grande insistenza la dittatura, egli, piegato in ginocchio, tiratasi giù dalle spalle la toga e denudatosi il petto, supplicò di non addossargliela.» SVETONIO, AUGUSTO, 52

Nel 27 a.C. il senato diede a Ottaviano, ormai unico padrone di Roma, il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato). Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae. «Augusto assunse cariche ed onori anche prima del tempo legale, alcune poi nuove ed a vita. Si pigliò il consolato a diciannove anni, avvicinando a Roma minacciosamente le sue legioni e inviando chi lo chiedesse per lui a nome dell’esercito; e poiché il Senato si mostrava esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettò indietro il mantello, mostrando l’impugnatura della spada, e non esitò a dire in piena Curia: «Lo farà questa, se non lo farete voi». Esercitò il secondo consolato dopo nove anni, e il terzo con l’intervallo di un solo anno; i successivi, fino all’undicesimo, tutti di séguito. Dopo averne rifiutati molti che gli venivano conferiti, chiese egli stesso, dopo un lungo intervallo – erano trascorsi diciassette anni – il dodicesimo, e, due anni dopo, il tredicesimo: voleva accompagnare nel Foro rivestito della suprema magistratura i due figli Gaio e Lucio per il loro tirocinio, ciascuno a suo turno. I cinque consolati centrali – dal sesto al dodicesimo – li esercitò per tutto l’anno, gli altri, invece, o per nove mesi, o per sei o per quattro o per tre; il secondo, poi, per pochissime ore: il primo di gennaio sedette per un po’ sul seggio curule dinanzi al tempo di Giove Capitolino, poi rinunciò alla carica, mettendo un altro al suo posto. Non tutti i consolati inaugurò a Roma: il quarto in Asia, il quinto nell’isola di Samo, l’ottavo e il nono a Tarragona.» SVETONIO, AUGUSTO, 26

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L’Italia 

«Regolata in questo modo la capitale e le faccende della capitale, ripopolò l’Italia con ventotto colonie da lui stesso dedotte, le dotò variamente di opere e di rendite pubbliche, e in certo modo le uguagliò alla capitale, almeno in parte, per diritto e dignità. Escogitò infatti questa forma di votazione: i decurioni delle colonie, restando ciascuno nella sua colonia, davano i loro voti per i magistrati della capitale, e per il giorno delle elezioni li mandavano a Roma sigillati. Perché non venisse mai meno la disponibilità di persone per bene e la prolificità del popolo, accettava gli aspiranti al servizio come cavalieri anche dietro segnalazione ufficiale delle singole città, e a quei plebei che, nelle sue visite alle varie regioni, gli dimostrassero di avere figli o figlie, assegnava mille sesterzi per ognuno.» SVETONIO, AUGUSTO, 46

Augusto suddivise l’Italia in undici regioni, dando un primo assetto amministrativo alla penisola. La parte più importante era la città di Roma, soggetta al prefetto dell’Urbe, senatore più alto in grado e primo dopo l’imperatore. Ai cittadini italici era stata data in blocco la cittadinanza romana ed erano esenti da ogni forma di imposta diretta, cui erano soggetti i soli provinciali e cittadini romani non di ius italicum. La Sicilia e la Sardegna erano, fin dalle guerre puniche, province propretorie. A partire dal II secolo la gestione di aree più vaste delle singole regioni venne affidata a dei consolari, mentre alla fine del III secolo Diocleziano abolì ogni privilegio ed equiparò l’Italia a ogni altra provincia, facente parte in questo caso della diocesi Italiciana, che comprendeva però anche le isole. L’Italia venne sostanzialmente divisa in due, con la parte a nord chiamata Annonaria (perché forniva l’annona all’esercito, che a differenza del Principato aveva dei reparti sulle Alpi) e Suburbicaria (da Roma in giù), perché doveva fornire grano e viveri al popolo di Roma.

L’organizzazione del Principato

La prima provincia romana, ovvero il primo territorio extra-italico, era stata la Sicilia, ottenuta in seguito alla prima guerra punica ed era amministrata da un propretore, ossia un ex pretore che faceva le veci di un pretore. La riduzione di un territorio in provincia comportava la sua totale sottomissione alla res publica, che la gestiva come cosa propria; tale dominio tuttavia comportava spesso prevaricazioni da parte dei senatori che gestivano le province (in quanto dotati di un imperium supremo in loco), in quanto l’unica assemblea che poteva giudicarli era il senato. Le province, la più grande unità amministrativa romana all’infuori dell’Italia, erano a loro volta divise in circoscrizioni amministrative spesso dette conventus; talvolta in questi conventus venivano create colonie romane, il che faceva sì che alcune circoscrizioni fossero composte in maggioranza di cittadini romani. In ogni caso lo scopo di una provincia era di arricchire Roma, motivo per cui queste erano soggette a tassazione diretta (vectigal) e anche a intensivo sfruttamento della terra: nel corso del tempo i senatori infatti craearono enormi latifondi in questi territori. «Si fece carico lui stesso delle province più importanti e che non era né facile né senza rischio che fossero governate da magistrati con potere annuale; le altre lasciò ai proconsoli per sorteggio. Alcune, tuttavia, mutò talvolta di categoria, e spesso visitò sia le une sia le altre. Alcune città federate, che per la loro sfrenatezza precipitavano nella rovina, privò della libertà; altre indebitate, alleggerì del loro carico, o, disastrate dal terremoto, fondò di nuovo, o, se potevano vantare meriti verso il Popolo Romano, premiò con la cittadinanza romana. Non c’è, io credo, alcuna provincia – tranne l’Africa e la Sardegna – che egli non abbia visitato. Una volta sconfitto Sesto Pompeo, mentre egli si preparava a raggiungere queste due province partendo dalla Sicilia, incessanti e pericolose tempeste glielo impedirono; poi non ci fu più occasione o motivo di recarvisi. I regni di cui si impadronì per diritto di guerra – tranne pochi – o restituì a quelli a cui li aveva tolti, o li assegnò a personalità straniere. I re alleati egli legò anche tra loro stessi con reciproci vincoli di parentela, sempre pronto a conciliare e a favorire parentele ed amicizie. Ebbe a cuore tutti quanti, come membra e parti dell’impero, usando persino assegnare un tutore ai troppo piccoli di età o troppo deboli di mente, in attesa che crescessero o rinsavissero. Insieme con i suoi educò ed istruì i figli di moltissimi personaggi.» SVETONIO, AUGUSTO, 47-48 

Augusto creò una divisione di rango tra le province, che non furono più tutte sullo stesso piano: quelle più interne vennero date ai senatori, lasciando una parvenza di istituzioni repubblicane, mentre quelle più esterne, a contatto con i barbari e i regni orientali, dove erano state stanziate le legioni, vennero prese sotto il diretto controllo dell’imperatore, con la scusa di garantire la pace e la sicurezza della repubblica, che però di fatto era dominata da lui, detentore di tutto il potere militare tramite imperium proconsulare maius et infinitum e anche civile in virtù della sua tribunicia potestas. Le province senatorie continuarono a essere amministrate dai proconsoli o prepretori come in passato, affiancati da questori di rango senatorio per la gestione finanziaria. Quelle imperiali invece erano affidate dall’imperatore a suoi delegati, sempre senatori, ma chiamati legati Augusti pro praetore (delegati dell’Augusto con potere propretorio), di norma un ex console o un ex proconsole e venivano affiancati da procuratores Augusti, procuratori imperiali, che gestivano le finanze delle province. Unica eccezione era l’Egitto, governato da un prefetto equestre (praefectus Alexandreae et Aegypti) di diretta nomina da parte del Principe; al contempo le legioni egiziane erano comandate da cavalieri, prefetti, e non senatori, legati. Resterà l’unica provincia con tale statuto fino all’aggiunta della provincia di Mesopotamia sotto Settimio Severo, anch’essa retta da prefetti equestri e le cui legioni erano comandate anch’esse da prefetti. Tuttavia a partire da Claudio le province di nuova acquisizione (Raetia, Noricum, Mauretania Tingitana, Mauretania Cesariensis, Alpes Maritimae, Alpes Cottiae, Alpes Poeninae, Thracia, Cappadocia, Iudaea, Sardinia) vennero rette da procuratores Augusti, ossia la massima carica del cursus honorum per un cavaliere a partire proprio da questo imperatore. Queste province avevano tuttavia la caratteristica di non avere legioni al proprio interno (che erano ancora comandate tranne nei casi sopra menzionati da senatori) ma al massimo reparti di auxilia e inoltre in queste province il procuratore accentrava in sè anche le competenze finanziarie. In ogni caso non bisogna pensare che le province senatorie fossero “libere” dal controllo imperiale, che comunque sceglieva i rappresentati senatori di queste province. Inoltre molte province vennero suddivise nel corso del tempo, per evitare usurpazioni e l’accentramento di troppe legioni. Comunque ogni provincia poteva cambiare di statuto a seconda del volere imperiale e nel corso del tempo le province imperiali e procuratorie fagocitarono quelle senatorie.

L’esercito del Principato 

«Quanto alle truppe di terra, legioni e reparti ausiliari distribuì nelle varie province; di flotte, ne dislocò una a Miseno e un’altra a Ravenna, a presidio dell’Adriatico e del Tirreno. I restanti effettivi assegnò in parte alla difesa di Roma, in parte alla sua difesa personale, dopo aver congedato il corpo dei Calagurritani, che aveva tenuto sino alla vittoria su Antonio, e quello dei Germani che aveva tenuto accanto a sé tra gli altri armati sino alla catastrofe di Varo. Però non permise che ci fossero in Roma più di tre coorti, per di più senza una specifica caserma; le altre coorti usava far andare, sia per gli alloggiamenti invernali, sia per quelli estivi, nelle cittadine vicine. Tutti quanti i soldati, dovunque fossero, li legò ad un determinato regolamento di stipendi e di premi, fissando, secondo il grado di ciascuno, la durata del servizio militare e i benefìci del congedo definitivo, perché dopo il congedo non si sentissero sollecitati, o dall’età o dalla miseria, ad azioni sovversive. Perché bastassero sempre, e senza difficoltà, i fondi per mantenerli e per premiarli, costituì una cassa militare, alimentata da nuove imposte. Per essere poi più rapidamente e facilmente avvertito e informato di tutto ciò che avvenisse nelle singole province, dapprima dispose a brevi distanze, sulle strade militari, delle giovani staffette, poi delle vetture. Questa seconda soluzione apparve più comoda: quelli che da qualche luogo portano lettere, se non c’è cambio, possono essere anche interrogati, se le circostanze esigono qualche provvedimento.» SVETONIO, AUGUSTO, 49

In seguito alla fine delle guerre civili e la sconfitta di Marco Antonio, Ottaviano aveva ereditato circa 60 legioni, molte delle quali arrese dopo Azio e molte altre decimate e con ranghi tutt’altro che pieni. Per riorganizzare questa enorme mobilitazione di forze armate, ormai professionali e direttamente stipendiate da lui, decise di accorpare molte legioni (da qui quelle che portano il nome di gemina, ossia gemella) e scioglierne altre, dando ai veterani le terre promesse, arrivando al numero di 28. Si stima che circa 150.000 cittadini militassero nelle legioni e altrettanti non cittadini, peregrini (stranieri che vivevano nelle province sottomesse a Roma) e barbari, negli auxilia, coorti e ali ausiliarie che diventarono stabili ma mai accorpate in unità tattiche superiori alle 1.000 unità (le coorti e ale dette miliaria o le equitatae, ossia miste di fanti e cavalieri). A questi si aggiungevano i marinai della flotta, collocata in larga parte a Miseno in Campania e Classe, vicino Ravenna. Esistevano anche piccole flotte minori come ad Alessandria ma il Mediterraneo era ormai pacificato dopo la campagna di Pompeo contro la pirateria. In totale dunque l’esercito romano nel I-II secolo d.C., al netto di successivi nuovi reclutamenti e creazione di nuovi reparti, contava all’incirca 400-450.000 uomini, sparsi in un territorio che andava dalla Britannia (conquistata da Claudio e che contava in media ben 3 delle circa 30 legioni) alla Mesopotamia. Ottaviano, ottenuto il titolo di Augusto nel 27 a.C., continuò ad espandere la repubblica romana, che formalmente manteneva in vigore, con una parvenza di continuità costituzionale. Di fatto ormai Roma era sotto il suo controllo politico e militare, avendo ottenuto l’imperium proconsulare maius et infinitum. Durante tutto il suo principato i romani si espansero nel Norico, Illirico, Pannonia, Spagna e Germania; quest’ultima tuttavia fu persa nella sua parte oltre il Reno dopo la disfatta di Teutoburgo. Pertanto le legioni furono impegnate fino all’epoca di Tiberio in continue campagne militari, specialmente nella zona renana e danubiana. Al termine di queste lunghe campagne militari, che portarono il limes al Reno e al Danubio (e pacificarono la Spagna dopo secoli), le legioni vennero collocate inizialmente in zone non troppo vicine alla frontiera, seppure in province imperiali (ovvero sotto la giurisdizione dell’imperatore: all’incirca tutte quelle che confinavano con le popolazioni barbariche). Alcune legioni erano raggruppate in campi che ne contenevano più di una; molte erano in Germania e nell’Illirico, pronte a intervenire in caso di necessità. Come ha detto giustamente Luttwak, queste legioni avevano un potere deterrente enorme: bastava il loro stazionamento e il timore dell’intervento romano, aiutato da una serie di stati clienti limitrofi e gli auxilia, per evitare gli sconfinamenti nelle province. Tuttavia a mano a mano le legioni (e le coorti e ali ausiliarie) vennero spostate sempre più lungo il confine (spesso coincidente coi fiumi naturali, come il Reno e il Danubio, mentre in oriente generalmente erano più vicine alle città), che divenne fortificato e sempre meno permeabile a spostamenti di popolazione incontrollati. Domiziano infine dispose, per evitare accentramenti militari e di finanze (conservate negli accampamenti per pagare le legioni) che avrebbero stimolato alcuni governatori a ribellarsi, decise di vietare accampamenti che contenessero più di una legione. Oltre alle legioni, gli auxilia e i marinai della flotta erano presenti a Roma 9 coorti di pretoriani (poi diventate 10). Augusto le aveva stanziate in varie regioni italiane, ma già Tiberio decise di raggrupparle a Roma nei castra pretoria. In suo onore presero come simbolo lo scorpione, segno zodiacale dell’imperatore. Augusto creò anche un corpo di vigiles, divisi in 7 coorti (una ogni due quartieri in cui era divisa la città), reclutate perlopiù tra liberti, che avevano il compito di garantire la sicurezza dell’Urbe e fungere da pompieri all’occorrenza, demolendo gli edifici pericolanti per evitare il propagare delle fiamme. Infine tre coorti urbane (diventate poi cinque), sotto il controllo del prefetto dell’Urbe, un senatore, e quindi svincolate formalmente dal principe, completavano le forze di polizia di Roma. L’imperatore aveva a sua disposizione per la sua difesa personale non solo i pretoriani, ma anche le guardie del corpo germaniche, usate per la prima volta da Cesare, chiamati germani corporis custodes, all’incirca 500-1.000 uomini, delle vere e proprie guardie private, perlopiù di origine batava. Sciolte dopo Nerone, furono riformate da Traiano come equites singulares, dei cavalieri scelti reclutati tra i migliori soldati a cavallo dell’impero. Erano alloggiati in un castra nel luogo dove oggi sorge la basilica di San Giovanni. Proprio l’accampamento, ormai inutile dopo lo scioglimento anche dei pretoriani dopo Costantino, funse da fondamenta per una delle prime basiliche di Roma.

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Cosa faceva ridere i Romani. Il Post il 14 settembre 2021. Alcuni meccanismi delle commedie latine sono invecchiati – hanno duemila anni, del resto – ma altri sono ancora rintracciabili nella comicità contemporanea. Ricostruire il senso dell’umorismo di un certo popolo e di un certo periodo storico è spesso quasi impossibile: o perché mancano elementi di contesto per cogliere le battute oppure perché, più banalmente, sono arrivati fino a noi pochissimi testi originali. Gli antichi Romani sono un’eccezione: abbiamo un’idea piuttosto precisa di come si viveva a Roma, e soprattutto sono state conservate decine di commedie degli autori più apprezzati. Un recente articolo su Antigone, una rivista online che si occupa di letteratura greca e latina, ha messo in relazione il senso dell’umorismo di allora con il nostro, evidenziando differenze e similitudini. L’articolo di Antigone è stato scritto da Orlando Gibbs, ricercatore del Trinity College di Cambridge specializzato nelle commedie latine. Le commedie di cui si occupa Gibbs sono state scritte fra il Terzo e il Secondo secolo a.C., quando Roma era ancora una Repubblica, dai due più famosi commediografi latini, Plauto e Terenzio. Queste commedie hanno alcune caratteristiche precise che le rendono uniche, come ad esempio il fatto che venissero recitate in strada o in teatri provvisori in legno, che fossero frequentate da tutte le classi sociali, e che fossero perlopiù ambientate in Grecia, dato che la commedia veniva percepita come un genere di derivazione greca. Ma per il resto, osserva Gibbs, i meccanismi comici che funzionavano allora sono comprensibili anche da noi, sebbene risultino un po’ triti (dopotutto, hanno più di duemila anni). Gibbs ne ha individuati quattro che possiamo ritrovare anche nelle rappresentazioni comiche di oggi. Il primo, ben noto a chi ha studiato a un certo punto del suo percorso scolastico la letteratura latina, è quello dei personaggi stereotipati. Il pubblico romano non era sommerso di prodotti culturali e artistici come lo spettatore contemporaneo, e per essere intrattenuto aveva bisogno di riferimenti certi: in moltissime commedie, dice Gibbs, erano presenti personaggi con connotazioni molto evidenti come «il soldato arrogante ma incompetente, l’untuoso arrampicatore sociale, la prostituta meschina, il servo astuto, il vecchio senza senso dell’umorismo», e così via. Personaggi stereotipati, anche se di genere diverso, si possono trovare anche nelle fiabe che raccontiamo ancora oggi ai bambini: molte seguono per esempio lo schema individuato dall’antropologo russo Vladimir Propp e prevedono personaggi come l’aiutante, la principessa-premio, il donatore, il falso eroe. Alcuni personaggi stereotipati dei romani sono comunque giunti fino a noi: la figura del servo astuto o servus callidus, che trama contro l’anziano padrone e spesso parteggia con i più giovani, è sovrapponibile a quella di Iago nei drammi di William Shakespeare o più di recente a quella dell’elfo domestico Dobby nella saga di Harry Potter. Nell’antica Roma come oggi, poi, le caratteristiche dei personaggi sono esplicitate anche nei loro nomi. In Plauto troviamo decine di personaggi dai nomi “parlanti” come il protagonista del Soldato fanfarone, Pyrgopolinices, che in greco si può tradurre con “distruttore di città”. Ancora oggi esistono tantissimi nomi parlanti nella cultura popolare. Il protagonista del cartone animato dei Pokemon, per esempio, si chiama Ash Ketchum: il suo cognome richiama il verbo inglese catch, “catturare”, cioè l’azione più famosa riconducibile ai Pokemon, seguita da una sillaba che si pronuncia in modo simile a ‘em, cioè loro, il complemento oggetto. A volte il nome parlante prende in giro una caratteristica fisica del personaggio: nell’Eunuco di Terenzio uno dei personaggi si chiama Gnatho, letteralmente “mascellone”. Il secondo meccanismo comico sopravvissuto fino ad oggi è lo schema che prevede una frase spiazzante, una pausa, e la spiegazione – inconsueta e perciò buffa – della frase spiazzante. In una delle prime commedie di Plauto il giovane innamorato Charinus si rivolge al pubblico e dice: musca est meus pater, “mio padre è come una mosca”; nil clam illum potest haberi, “non gli puoi nascondere niente”. Ancora oggi è l’impianto tipico delle barzellette più comuni, come per esempio tutte quelle che iniziano con “Qual è il colmo per…?”: al protagonista succede o dice qualcosa di inaspettato, il narratore fa una pausa, e poi fornisce una spiegazione buffa. Il terzo meccanismo è quello che Gibbs chiama “il gioco”, cioè una situazione prolungata in cui succede qualcosa di incongruo e che viene risolta nel finale. Nella Gomena di Plauto a un certo punto c’è uno schiavo che risponde svogliatamente licet, “okay”, a ogni richiesta del padrone, che gli chiede se davvero risponde così a ogni sua richiesta. A quel punto lo schiavo rivolge una serie di domande puntuali al padrone, il quale anche lui risponde sempre licet, e lo schiavo gli domanda: “davvero rispondi sempre così?”. Il “gioco” può prendere diverse forme, anche se solitamente si basa sul dialogo fra due personaggi e alcune ripetizioni: in una scena del film Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo, per esempio, un medico se la prende con Aldo perché prova più volte a fare una diagnosi del malore capitato a Giacomo senza essere un medico; alla fine, però, la diagnosi del medico sarà identica a quella fornita da Aldo. Il quarto meccanismo è forse quello più contemporaneo, e prevede la cosiddetta “rottura della quarta parete”: cioè quell’espediente per cui uno dei personaggi interrompe la finzione della scena e si rivolge direttamente al pubblico, uscendo dalla narrazione e prendendone le distanze, cosa che gli consente di scherzarci sopra. Nelle commedie latine succedeva più volte, e nella maggior parte dei casi l’intera narrazione era descritta e anticipata da un prologo recitato da un personaggio: Gibbs spiega che probabilmente lo si deve al fatto che prima dei tempi di Plauto e Terenzio le commedie venivano improvvisate dagli attori, che si limitavano a seguire un canovaccio. In un contesto del genere, in equilibrio fra rappresentazione e realtà, rompere la quarta parete era un espediente come un altro per fare ridere. Oggi è uno dei meccanismi principali della stand-up comedy, in cui i comici parlano in piedi e da soli davanti a un pubblico scherzando spesso sulla propria condizione e la propria performance, come se la stessero commentando. Ogni tanto capita di vederlo anche nelle serie tv comiche: la protagonista di Fleabag, per esempio, parla spessissimo verso la telecamera rivolgendosi allo spettatore. Una differenza notevole fra la comicità di allora e quella di oggi è che ai tempi dei Romani le commedie venivano organizzate e sovvenzionate dall’aristocrazia, dominata da uomini e protettrice dello status quo della società: per questo nelle commedie non esiste o quasi traccia di pensieri radicali, e gli espedienti comici normalizzano situazioni che oggi troviamo soltanto nella comicità di natura conservatrice, come l’oggettivazione della donna o l’insulto razzista. Filtrando tutto questo, però, molti elementi essenziali della comicità, allora come oggi, rimangono simili.

L'ultimo imperatore. Andrea Muratore il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. Costantino XI fu l'ultimo sovrano di Costantinopoli e a tutti gli effetti l'ultimo imperatore romano. La sua epopea umana è stata contraddistinta da una profonda commistione di eroismo e tragicità. Costantino XI Paleologo, ultimo imperatore bizantino e dunque ultimo sovrano che si potè fregiare della continuità con la tradizione della Res Publica, è figura al contempo eroica e tragica. Eroica, perché interpretò le virtù militari e civili della romanità al tramonto della pars orientis, di quell'impero di lingua greca e cristianità ortodossa i cui leader mai avevano cessato di definirsi Romanoi anche dopo la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre nel 476. Tragica, perché il suo breve regno, durato dal 1449 al 1453, si concluse con il cataclisma della caduta di Costantinopoli in mano all'Impero ottomano. Evento la cui valenza strategica fu oscurata dal profondo peso simbolico: Costantino ereditò dal fratello e predecessore Giovanni VIII un impero ridotto a una sovranità limitata, schiacciato tra Europa e Asia dai turchi in avanzata, messo all'angolo dalla subalternità economica e commerciale nei confronti delle potenze mediterranee (Venezia e Genova), dilaniato sul piano sociale e religioso dalla divisione del clero e dalle tentazioni di una riconciliazione della Chiesa ortodossa con Roma. Si trovò a assistere al tramonto definitivo di una storia durata più di mille anni, quella dell'Impero che era stato "scudo di Cristo" in Oriente, faro di civiltà, al tempo stesso affascinante punto di riferimento e rivale implacabile per le corti occidentali. Fernand Braudel avrebbe definito Costantinopoli “una città isolata, un cuore, rimasto miracolosamente vivo, di un corpo enorme da lungo tempo cadavere”, ma l'ultimo dei 182 imperatori succedutisi tra Oriente e Occidente da Augusto in avanti seppe difendere l'onore della tradizione fino all'ultimo. "Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la fede, la patria, la famiglia e il basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la vostra vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrificio della mia stessa vita". Le parole dell'ultimo discorso tenuto da Costantino XI di fronte alla folla e ai militari riuniti a Costantinopoli davanti a Santa Sofia alla vigilia dell'assalto decisivo ottomano, in quel 29 maggio 1453 che sancì la caduta della città, sono entrate nella storia. Così come è entrata nella storia la parabola di un uomo cui la storia impose il grave tributo di essere, suo malgrado, testimone di una disfatta e sua stessa vittima, quando in secoli precedenti il valore guerriero di Costantino avrebbe decisamente potuto trovare sfogo ben più attivo quando l'Impero godeva di migliore salute. Prima di ascendere al trono Costantino XI aveva provato un'ultima, disperata dimostrazione della forza e della capacità militare di Bisanzio guidando le forze della provincia semi-autonoma greca del Despotato di Morea, mettendo più volte in difficoltà gli Ottomani, contrastando anche i sovrani occidentali insediati nelle terre greche: nel 1430, da despota di Morea, Costantino aveva occupato le città di Atene e Tebe, costringendo il duca Neri II Acciaiuoli a riconoscerlo come suo signore e a pagargli tributi annuali, consegnando nuovamente il controllo dell'Attica ai bizantini. Le scorribande ottomane avrebbero presto depotenziato questi tentativi, giunti fuori tempo massimo. Come Ezio al tramonto della prima Roma, anche Costantino XI era un signore guerriero arrivato troppo tardi per fermare un destino storico ormai scritto: troppa la sproporzione di forze con i turchi, troppi i danni subiti nel corso di due secoli seguiti alla Quarta Crociata sul fronte economico, strategico, commerciale dalle potenze navali d'Occidente, sempre più fragile la base demografica dello Stato, sempre più risicate le sue forze. Conscio del limitato numero di soldati a sua disposizione, 5.000 bizantini e poco più di 2.000 latini per un totale di 7.000 uomini, che avrebbero dovuto difendere ventidue chilometri di mura da un esercito di 160mila ottomani Costantino XI non volle però cedere alle pressioni del sultano Mehmet II quando, nell'aprile 1453, dopo due anni di preparativi mise sotto assedio la Regina delle Città. Ci fu come un eroismo misto a senso del tragico, come detto, nell'azione politica e militare dell'ultimo Paleologo. Conscio che il suo destino dovesse compiersi, con onore, assieme a quello della città di cui era sovrano. "Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra", dichiarò Costantino XI ai suoi uomini mentre le icone venivano portate in processione, i genovesi del comandante Giovanni Longo Giustiniani si schierarono, coraggiosamente, a fianco degli alleati-rivali bizantini presidiando la Porta di San Romano, Santa Sofia diventava teatro di cerimonie ecumeniche. Mehmet e il suo esercito avevano sacrificato una quantità notevole di forze, si stima che nell'assedio i morti ottomani siano stati oltre quattro volte le dimensioni dell'intero esercito cristiano (30mila caduti), ma alla lunga la sproporzione delle forze, le spregiudicate tattiche turche fondate sull'utilizzo congiunto dell'assedio via terra e via mare e la presenza di innovative bocche da fuoco ebbero la meglio sulle mura teodosiane e sulla resistenza dei difensori. Il 29 maggio 1453 si compì il destino di Costantinopoli, finì definitivamente dopo oltre 2200 anni qualsiasi continuità formale con la Res Publica nata sui sette colli di Roma e finita in riva al Bosforo, le truppe ottomane entrarono nella città e Mehmet la trasformò nella capitale del suo impero. Nell'ultima battaglia Costantino XI si immolò, combattendo fino all'ultimo cercando di guidare un disperato contrattacco finale contro i conquistatori. Le cronache riconducono alla zona della Porta Aurea o ai diretti dintorni di Santa Sofia il luogo della morte in battaglia di Costantino. Chi non era vicino a lui in quel momento era il gran logoteta Giorgio Sfranze, fedele compagno del "basileus", che in quel momento era lontano dalla battaglia e che nella sua Cronaca del 1477 scrisse: "Il mio signore e imperatore, di felice memoria, il signore Costantino, cadde ucciso, mentre io mi trovavo in quel momento non vicino a lui, ma in altra parte della città, per ordine suo, per compiervi un'ispezione". Morì armi in pugno, desideroso fino all'ultimo di essere all'altezza dei suoi avi. Consegnando sé stesso e l'Impero alla storia mentre la bandiera turca con la mezzaluna sventolava nella città a breve destinata a essere rinominata a Istanbul. Eroismo e tragedia assieme: Costantino XI riassunse sentimenti contraddittori, ma divenne un'icona di coraggio e amor patrio. Tanto da essere venerato come santo dalla Chiesa ortodossa ed essere poi preso ad esempio da quei guerriglieri greci che nel XIX secolo insorsero contro la Sublime Porta riconquistando la libertà per il loro Paese e infiammando tutta l'Europa. Riportando in vita, nella memoria collettiva, colui che seppe essere interprete dei migliori valori della Res pubblica nell'ultima ora della romanità.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Storie Romane.  Le atroci morti degli imperatori romani. Furono ben pochi gli imperatori romani a morire di morte naturale o per malattia, specialmente a partire dal III secolo; molti furono uccisi o a tradimento o per sollevazioni militari. Ma alcuni di essi, particolarmente odiati, furono trucidati in modo atroce.

Vitellio.

Uno tra i primi Cesari ad essere scannati fu l’imperatore Vitellio, in gioventù amico intimo di Nerone. I suoi atteggiamenti dispotici furono mal tollerati dal popolo di Roma, provato dalla guerra civile dell’anno dei quattro imperatori. «Domestici e soldati erano privi ormai di ogni freno, ma egli volgeva a scherzo le loro ruberie e le loro insolenze; e quelli del suo seguito, non contenti dei conviti imbanditi dovunque a spese pubbliche, affrancavano gli schiavi secondo il loro capriccio, ripagando quanti tentavano di fare opposizione con bastonature e sferzate, spesso con ferite e non di rado con la morte. Quando visitò i campi dove si era combattuto [a Bedriaco], mentre non pochi inorridivano al lezzo dei cadaveri in decomposizione, egli ebbe l’ardire di rincuorarli con questa battuta spregevole: «Ha sempre un buonissimo odore il nemico ucciso, meglio ancora se è un concittadino». Però, per l’orribile fetore, bevve davanti a tutti una gran sorsata di vino, e vino fece distribuire agli astanti.» SVETONIO, VITELLIO, 10

Mentre Vitellio faceva il suo ingresso in Roma, il 1 luglio del 69 le legioni orientali acclamavano imperatore ad Alessandria, in Egitto, Tito Flavio Vespasiano, inviato qualche anno prima da Nerone a domare la rivolta giudaica. La guerra, di cui restava principalmente l’assedio di Gerusalemme fu demandata al figlio Tito, mentre anche le legioni danubiane (quasi la metà dell’esercito imperiale) passavano in massa dalla parte di Vespasiano, visto come vendicatore di Otone che inizialmente avevano appoggiato. Antonio Primo, comandante delle forze di Vespasiano, venne allo scontro con i vitelliani nuovamente a Bedriaco, dove dopo un ferocissimo scontro durato tutta la notte quest’ultimi ebbero la peggio. Antonio aveva la strada spianata verso Roma, dove Vitellio, in preda al panico cercò prima di abdicare, ma poi, abbandonato da tutti venne massacrato: «Avevano già fatto irruzione i primi drappelli dell’esercito nemico e, non trovando nessun ostacolo sul proprio cammino, frugavano – come avviene – dappertutto. Lo trascinarono fuori dal suo nascondiglio e, senza riconoscerlo, gli domandarono chi fosse e se sapesse dov’era Vitellio. Tentò di ingannarli con una menzogna; ma poi, vistosi scoperto, non la smetteva più di pregarli perché lo prendessero in custodia, e magari in prigione, con la scusa che doveva fare certe rivelazioni e che ne andava della vita stessa di Vespasiano. Alla fine, con le mani legate dietro la schiena e un laccio passato attorno al collo, seminudo, con la veste a brandelli, fu trascinato verso il foro, fatto segno, per quanto è lunga la Via Sacra, a gesti e parole di ludibrio. Gli torcevano il capo tirandolo per i capelli, come si fa con i criminali, con la punta di una spada premuta sotto il mento perché mostrasse il volto senza abbassarlo. C’era chi gli gettava sterco e fango e chi gli gridava incendiario e crapulone. La plebaglia gli rinfacciava anche i difetti fisici: e in realtà aveva una statura spropositata, una faccia rubizza da avvinazzato, il ventre obeso, una gamba malconcia per via di una botta che si era presa una volta nell’urto con la quadriga guidata da Caligola, mentre lui gli faceva da aiutante. Fu finito presso le Gemonie, dopo esser stato scarnificato da mille piccoli tagli; e da lì con un uncino fu trascinato nel Tevere.» SVETONIO, VITELLIO, 17

Caligola

Prima di lui anche Caligola era stato ammazzato, con evidente efferatezza, il 24 gennaio del 41 d.C. Inizialmente accolto con ogni onore, in quanto figlio di Germanico e in contrapposizione all’osteggiato dal senato Tiberio, si comportò inizialmente con grande rispetto verso lo stato e i senatori. Ma pochi mesi dopo, colpito da un’improvvisa malattia, per poco non morì. Pare che l’uomo che ne uscì fuori divenne un’altra persona, privo di scrupoli e sempre pronto a ignorare le esigenze altrui. « Si decise di assalirlo [Caligola] in occasione dei giochi palatini a mezzogiorno, proprio quando avrebbe lasciato lo spettacolo, e la parte principale dell’azione fu reclamata da Cassio Cherea, il tribuno di una coorte pretoriana che Gaio, senza nessun riguardo per la sua età avanzata, aveva l’abitudine di insultare, come uomo molle ed effeminato: ora, quando gli chiedeva la parola d’ordine, Caligola rispondeva «Priapo» o «Venere», ora, quando, per un motivo qualsiasi, gli tendeva la mano da baciare, gli faceva un gesto o un movimento osceno. […] Il nono giorno prima delle calende di febbraio [il 24 gennaio del 41 d.C.], verso l’una, Caio [Caligola] era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti. Visse ventinove anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi e diciotto giorni. Il suo corpo fu portato di nascosto nei giardini di Lamia e, semicombusto su di un rogo allestito in gran fretta, fu coperto d’un leggero strato di terra. In seguito, le sorelle, tornate dall’esilio, lo riesumarono, lo cremarono e gli diedero sepoltura. Risulta che prima che ciò avvenisse, i custodi dei giardini erano perseguitati dai fantasmi e che, nella casa in cui era stato ucciso, non trascorse notte senza qualche motivo di terrore, finché la casa stessa non fu distrutta da un incendio. Insieme a Caio fu uccisa anche la moglie, Cesonia, trafitta da un centurione e la figlia, sfracellata contro un muro.» SVETONIO, CALIGOLA, 56-59

Commodo

Dopo diverse congiure sventate, Commodo fu strangolato da Narciso, il gladiatore con cui si allenava, dopo un primo tentativo di avvelenarlo. La congiura era stata organizzata da Marcia, concubina dell’imperatore, e Emilio Leto, prefetto al pretorio. Pare che un ragazzino con cui giocava l’imperatore, ribattezzato da lui Filocommodo, trovò un foglietto di carta, e non sapendo leggere lo usava per giocare. Lo diede poi a Marcia, che lesse su quel foglio la lista di persone che l’imperatore voleva far uccidere, e c’era anche lei. La congiura fu organizzata rapidamente, ma riuscì (ce n’erano state diverse negli anni precedenti). Era il 31 dicembre 192 d.C. Il primo gennaio del 193 sarebbe diventato imperatore il prefetto dell’Urbe Pertinace, già comandante durante le guerre marcomanniche. «Sotto la spinta di questo stato di cose – sebbene troppo tardi – il prefetto Quinto Emilio Leto e la sua concubina Marcia ordirono una congiura per assassinarlo. E in un primo tempo gli somministrarono del veleno: ma poiché questo non si mostrava efficace, lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi.» HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 17, 1-2

Eliogabalo

Altro imperatore poco amato dai soldati (in particolare i pretoriani) e dal senato era Eliogabalo, reo di atteggiamenti troppo femminili e poco virili, che mal si addicevano alla virtù guerresca romana. Se le fonti dicono il vero, fece dei disastri a livello amministrativo, imponendo ovunque persone solo in base ai suoi gusti estetici e mai in base alle loro capacità, e inoltre di ogni estrazione sociale, sovvertendo ogni ordine gerarchico: «Assunse alla prefettura del pretorio un saltimbanco, che aveva già esercitato a Roma la sua arte, creò prefetto dei vigili l’auriga Gordio, e prefetto all’annona il suo barbiere Claudio. Promosse alle rimanenti cariche gente che gli si raccomandava per l’enormità delle parti virili. Ordinò che a sovrintendere alla tassa di successione fosse un mulattiere, poi un corriere, poi un cuoco, e infine un fabbro ferraio. Quando faceva il suo ingresso nei quartieri militari o in senato, portava con sé la nonna, di nome Varia – quella di cui s’è detto precedentemente –, perché dal prestigio di lei gli venisse quella rispettabilità che da se stesso non poteva guadagnarsi; né prima di lui, come già dicemmo, alcuna donna ebbe mai a mettere piede in senato, così da essere invitata a partecipare alla redazione dei decreti, e a dire il proprio parere. Durante i banchetti si prendeva vicino soprattutto i suoi amasii, e godeva molto ad accarezzarli e palparli in maniera lasciva, né alcuno più di loro era pronto a porgergli la coppa, dopo che aveva bevuto.» HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 12, 1-4 

I soldati, e specialmente i pretoriani, non riuscirono a tollerare a lungo questi comportamenti, rivolgendo le loro speranze nei confronti di Alessandro, cugino di Eliogabalo, che era stato nominato Cesare: «I soldati, dal canto loro, non potevano più sopportare che una tale peste di uomo si mascherasse sotto il nome di imperatore e, prima in pochi, poi a gruppi sempre più numerosi, si consultarono reciprocamente, tutti volgendo le loro simpatie verso Alessandro, che già aveva ottenuto il titolo di Cesare dal senato, ed era cugino di questo Antonino; avevano infatti in comune la nonna Varia, da cui Eliogabalo aveva preso il nome di Vario.» HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 10, 1

Ormai cresceva il partito che supportava Alessandro e Eliogabalo temeva per la sua vita. Diede ordine a ogni senatore di allontanarsi dalla città, dopo aver mandato via, dietro richiesta dei soldati, i soggetti ritenuti più inadatti della sua corte. Infine, i pretoriani, non sopportandolo più, lo massacrarono, l’11 marzo del 222: «Ma i soldati, e particolarmente i pretoriani, sia perché ben conoscevano – essi che già avevano cospirato contro Eliogabalo – sia perché vedevano apertamente l’odio che egli nutriva contro di loro […] e fatta una congiura per liberare lo Stato, prima di tutto i suoi complici […] con un tipo di morte […] dato che alcuni li uccidevano dopo averli evirati, altri li trafiggevano dal di sotto, perché la morte risultasse conforme al tipo di vita. Dopo di che fu assalito lui pure e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Per colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché però il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non avesse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo. Per ordine del senato fu cancellato dalle iscrizioni il nome di Antonino, che egli aveva assunto pretestuosamente, volendo apparire figlio di Antonino Bassiano, e gli rimase quello di Vario Eliogabalo. Dopo la morte fu chiamato il «Tiberino», il «Trascinato», l’«Impuro» e in molti altri modi, ogniqualvolta capitava di dover dare un nome ai fatti della sua vita. E fu il solo fra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca, ed infine precipitato nel Tevere.» HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 16, 5; 17, 1-6

Storie Romane è totalmente gratuito.

STORIE ROMANE. Silla. Lucio Cornelio Silla nacque nel 138 a.C. a Roma; apparteneva ad un ramo della gens Cornelia tra i meno influenti nell’Urbe. Alcuni vociferavano che ottenne le ricchezze per entrare in senato seducendo ed ereditando da un’anziana ricca prostituta. Nel 107 a.C. divenne infine questore di Gaio Mario, dando il via alla sua straordinaria carriera politica.

Dalla guerra giugurtina alla guerra sociale 

Proprio grazie all’intervento di Silla, che convinse il re della Mauretania Bocco a passare dalla parte dei romani, Mario riuscì a portare a termine la guerra numidica. Bocco infatti riuscì a convincere ad un incontro Giugurta, dove venne catturato e consegnato a Mario. Negli anni seguenti Silla continuò ad essere uno degli ufficiali superiori di Mario durante le campagne contro cimbri e teutoni, specialmente nella battaglia dei Campi Raudii. Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano grazie ai suoi successi, nonostante venisse accusato di aver corrotto gli elettori. Al termine della pretura, nel 96 a.C., gli fu data la Cilicia: «Dopo l’anno di pretura, [Silla] fu inviato in Cappadocia. Motivo ufficiale della sua missione era il porre di nuovo sul trono Ariobarzane I. In verità egli aveva il compito di contenere e controllare l’espansione di Mitridate, che stava acquisendo nuovi domini e potenza non inferiori a quanti ne aveva ereditati.» PLUTARCO, VITA DI SILLA, 5

Silla approfittò della posizione di potere, essendo il più alto magistrato in zona, per trattare direttamente con i parti sui confini della regione: «Silla soggiornava lungo l’Eufrate, quando venne a trovarlo un certo Orobazo, un parto, quale ambasciatore del re degli Arsacidi. In passato non c’erano mai stati rapporti di sorta tra i due popoli. Tra le grandi fortune toccate a Silla, va ricordata anche questa. Egli fu infatti il primo romano che i Parti incontrarono, chiedendo alleanza e amicizia. In questa occasione si racconta che Silla fece disporre tre sgabelli, uno per Ariobarzane I, uno per Orobazo e uno per sé, e li ricevette mettendosi al centro tra i due. Di questa situazione alcuni lodano Silla, perché ebbe un contegno fiero di fronte a due barbari, altri lo accusano di impudenza e vanità oltre misura. Il re dei Parti, da parte sua, mise poi a morte Orobazo.» PLUTARCO, VITA DI SILLA, 5

Ritornato a Roma, Silla comandò insieme a Mario alcuni degli eserciti impegnati nella guerra sociale; grazie anche alla cattura di Aeclanum, capitale degli irpini, Silla ottenne il consolato per l’88 a.C. 

La guerra civile

Ottenuto poi il comando della guerra mitridatica, Silla dovette affrontare le resistenze di Mario, che con la forza si fece assegnare il comando della guerra grazie all’intervento del tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo. In quel momento Silla si trovava in Italia meridionale in attesa di imbarcarsi: decise di prendere le legioni più fedeli a lui e di marciare su Roma. Mario e i suoi, spaventati da una mossa inaudita, decisero di fuggire, mentre Silla, entrato nell’Urbe, cerca di ristabilire il potere del senato a danno dei comizi e dei tribunati della plebe. Silla decise poi di ripartire per l’oriente, mentre Mario rientrava a Roma, abolendo tutte le decisioni di Silla e facendolo dichiarare hostis publicus; tuttavia Mario morì in quello stesso 86 a.C.

La prima guerra mitridatica

«[Mitridate] aveva invocato come pretesto alla guerra davanti al nostro legato, Gaio Cassio Longino, il fatto che le frontiere erano state violate da Nicomede di Bitinia. Del resto insuperbito da un’enorme ambizione, ardeva dal desiderio di occupare l’intera Asia e se poteva anche l’Europa Gli davano speranza i nostri problemi: credeva che fosse il momento favorevole, poiché eravamo distratti dalle guerre civili e in lontananza Mario, Silla, Sertorio che mostravano indifeso il fianco dell’Impero.» FLORO, COMPENDIO DI TITO LIVIO, I, 40,3-4

Silla nel frattempo era arrivato in Grecia, dove Atene era appena caduta per mano di Mitridate, concentrato ad eliminare ovunque i mercanti romani e italici. Quando Silla riprese la città di Atene fu una massacro: «Seguì ad Atene un grande e spietata strage. Gli abitanti erano troppo deboli per scappare, per mancanza di nutrimento. Silla ordinò un massacro indiscriminato, non risparmiando donne o bambini. Era adirato per il fatto che si erano così improvvisamente uniti ai barbari [mitridatici] senza causa, ed avevano mostrato una tale animosità verso lo stesso [comandante romano]. La maggior parte degli Ateniesi, quando sentirono l’ordine dato, si scagliarono contro le spade dei loro aggressori volontariamente. Alcuni presero la via che sale per l’Acropoli, tra i quali lo stesso tiranno Aristione, il quale aveva bruciato l’Odeon, in modo che Silla non potesse avere il legname a portata di mano per bruciare l’Acropoli.» Molti dei sopravvissuti furono poi venduti come schiavi. Silla prese poi il Pireo, mentre Archelao, comandante di Mitridate, fuggiva in Tessaglia: «[…] i legionari romani, spronati dall’ardore del loro comandante, dalla gloria e dal pensiero che erano ormai prossimi a conquistare le mura nemiche, continuarono nel loro assalto. Archelao, rimasto sorpreso dalla loro persistenza insensata e folle, abbandonò le mura a loro e se ne andò verso quella parte del Pireo, che era stata maggiormente fortificata e circondata su tutti i lati dal mare, tanto più che Silla non aveva alcuna nave per attaccarla.» APPIANO, GUERRE MITRIDATICHE, 40

Seguirono due battaglie, a Cheronea ed Orcomeno, nell’86 a.C., dove i romani ebbero la meglio sui pontici, il cui esercito venne completamente distrutto.

Battaglia di Cheronea

«Quando [Silla] vide il nemico accampato in una regione rocciosa vicino a Cheronea, dove non c’era alcuna possibilità di fuga per coloro che fossero risultati sconfitti, prese possesso di un’ampia pianura nelle vicinanze, ed elaborò un piano, dove le sue forze avrebbero potuto costringere Archelao a combattere quando lo avessero voluto, e dove la pendenza della pianura avrebbe favorito i Romani, sia in caso di attacco, sia in caso di ritirata.»

«Archelao che non immaginava di combattere in quel momento, ragione per cui era stato negligente nella scelta del luogo del suo accampamento. Ora che i Romani stavano avanzando, si accorse tristemente e troppo tardi della sua posizione estremamente negativa, e mandò avanti un distaccamento di cavalleria per impedire il movimento [romano]. Il distaccamento fu però messo in fuga e distrutto tra le rocce. Egli quindi mandò 60 carri falcati, sperando di spezzare la formazione delle legioni romane e farle a pezzi per l’urto [del suo attacco]. I Romani aprirono i loro ranghi ed i carri si incunearono tra le file con il loro slancio fino alla parte posteriore [dello schieramento], ma prima che potessero tornare indietro, furono circondati e distrutti dai giavellotti della retroguardia.» Appiano, Guerre mitridatiche, 42 

«[Silla] colmò velocemente l’intervallo che divideva i due schieramenti ed in tal modo tolse efficacia alla carica dei carri falcati, che raggiungono la loro massima forza d’urto solo dopo una lunga “carica”, dando loro velocità e impeto necessario alla rottura attraverso la linea avversaria. Se la carica inizia da breve distanza risultano inefficaci e deboli […]. I primi carri partirono così debolmente e lentamente, che i Romani li respinsero, per poi batter loro le mani, scoppiando a ridere e chiedendo un “bis”, come sono soliti fare alle corse nel circo. Intervennero quindi le forze di fanteria. I barbari protesero in avanti le loro lunghe aste, e tentarono di serrare i loro scudi insieme, per mantenere la loro linea di battaglia unita e compatta, mentre i Romani lanciarono i giavellotti, e quindi impugnarono le spade, cercando di colpire le aste nemiche lateralmente, per poter venire ad un “corpo a corpo” il più velocemente possibile, nello stato di furore in cui si trovavano.» Plutarco, Vita di Silla, 18, 2-4 

«Archelao a questo punto decise di lanciare una “carica” di cavalleria contro l’armata romana, riuscendo ad incunearsi tra la stessa e spezzando così lo schieramento romano in due ora completamente circondati, anche per il ridotto numero dei Romani. I Romani, seppure circondati da ogni parte, combatterono con grande con coraggio. I distaccamenti di Galba ed Ortensio, che si trovavano in maggiori difficoltà per l’attacco a loro diretto dallo stesso Archelao, reagirono con il più alto senso di responsabilità e valore.» «Quando le due ali dello schieramento di Archelao cominciarono a cedere, anche il centro non riuscì più a mantenere la posizione e si diede alla fuga in modo disordinato. Poi tutto quello che Silla aveva previsto, capitò al nemico. Non avendo spazio per girarsi o un campo aperto per fuggire, molti si rifugiarono tra le rocce inseguiti [dai Romani]. Alcuni di loro caddero nelle mani dei Romani. Altri con più saggezza fuggirono verso il loro accampamento. Archelao si mise allora di fronte a loro sbarrandone l’ingresso, ed ordinò loro di girarsi ad affrontare il nemico, poiché così dimostravano la più grande inesperienza all’esigenza di combattere. Le truppe allora gli obbedirono con grande prontezza, ma non avevano più né i generali, né altri comandanti ad allinearli, o dare ordini che li ponessero nel reparto a cui appartenevano, ma erano sparsi in totale confusione, poiché inseguiti erano andati a trovarsi in un posto troppo stretto per fuggire o per combattere, furono quindi uccisi senza alcuna resistenza da parte loro, non potendo reagire; altri invece furono calpestati dai loro stessi amici nella confusione generale. E così molti tentarono, ancora una volta, la fuga verso le porte del campo, attorno alle quali si sono ammassati. […] Infine Archelao, avendo lasciato trascorrere troppo tempo rispetto a quello necessario, aprì le porte dell’accampamento ricevendo i fuggiaschi in modo disordinato. Quando i Romani videro ciò, per loro fu una manna, poiché fecero irruzione nell’accampamento insieme ai fuggitivi, ed ottennero una vittoria completa.» Appiano, Guerre mitridatiche, 43-44 

Battaglia di Orcomeno

«Tra tutte le pianure della Beozia, questa è la più grande e più bella, che inizia dalla città di Orcomeno e si sviluppa piana e priva di alberi, fino alle paludi in cui il fiume Melas si perde. Questo fiume sgorga sotto l’acropoli della città di Orcomeno, e si tratta dell’unico fiume greco navigabile e di grande portata fin dalle sue fonti, entrando in piena verso il solstizio d’estate, come il fiume Nilo, e genera piante come quelle che vi crescono senza frutto. Il suo percorso è breve, tuttavia, e scompare nella vicina palude generando dei laghi, mentre una piccola parte di esso si unisce per un breve tratto con il vicino fiume Cefiso, nei pressi della palude adatto a produrre la famosa canna per flauti.» Plutarco, Vita di Silla, 20.4-5 

«Allora Silla scese da cavallo, afferrò un’insegna e si aprì un varco attraverso i fuggitivi in direzione del nemico, gridando: “Possa avere io, o Romani, una morte onorevole qui, ma voi, quando vi chiederanno dove avete abbandonato il vostro comandante ricordatevi di dire loro: a Orcomeno”. Queste parole fecero sì che i fuggitivi tornassero sui loro passi, mentre due coorti si radunarono sull’ala destra per venirgli in aiuto: Silla allora le condusse contro il nemico e lo mise in fuga. Poi retrocedette un poco, e dopo aver saziato i suoi soldati con del cibo, ancora una volta riprese lo scavo della fossa, che doveva servire ad isolare il nemico. Ma i barbari lo attaccarono di nuovo con maggior ordine di prima, Diogene, figliastro di Archelao, che combatté valorosamente lungo la loro “ala destra”, cadde gloriosamente, mentre i loro arcieri, erano talmente pressati dai Romani, da non avere lo spazio per scaricare i loro archi e da prendere le loro frecce a piene mani, per colpire [i Romani] come fossero delle spade a distanza ravvicinata. Alla fine furono però rinchiusi nel loro accampamento e vi trascorsero la notte in modo assai triste per il grande numero dei loro morti e feriti.» Plutarco, Vita di Silla, 21.2-3 

«I Romani, protetti dai loro scudi, stavano demolendo un certo angolo del campo nemico, quando i barbari saltarono giù dal parapetto interno e si fermarono intorno a questo angolo con le spade sguainate per cacciare gli invasori. Nessuno osava entrare fino a quando il tribuno militare, Basillus, per primo saltò all’interno del campo e uccise l’uomo di fronte a lui. Poi tutto l’esercito lo seguì. Seguì una vera e propria carneficina dei barbari.» Appiano, Guerre mitridatiche, 50 

Conseguenze

«Quando Mitridate seppe della sconfitta a Orcomeno, rifletté sull’immenso numero di armati che aveva mandato in Grecia fin dal principio, e il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza di ciò, decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori condizioni possibili. Quest’ultimo ebbe allora un colloquio con Silla in cui disse: “il padre di re Mitridate era amico tuo, o Silla. Fu coinvolto in questa guerra a causa della rapacità degli altri comandanti romani. Egli chiede di avvalersi del tuo carattere virtuoso per ottenere la pace, se gli accorderai condizioni eque“.» Appiano, Guerre mitridatiche, 54 

L’esercito pontico, completamente distrutto, condusse Mitridate a trattare. Il trattato di Dardano, dell’85 a.C., riconsegnò ai romani il dominio sulla Grecia e l’Asia minore occidentale, oltre al versamento, secondo Plutarco, di 2.000 talenti e 70 navi: «Una volta passato in Asia, Silla trovò Mitridate supplicante e disposto a fare ciò che voleva. Gli impose il pagamento di una somma di denaro e la consegna di una parte delle sue navi. Lo costrinse quindi a ritirarsi dall’Asia e dalle altre province che aveva occupato. Riprese i prigionieri, punì coloro che avevano disertato ed i colpevoli. Ordinò infine a Mitridate di rimanere dentro i confini del regno paterno, del Ponto.» Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 23.6

«[Silla rispose ad Archelao] “Se fu fatta un’ingiustizia a Mitridate, o Archelao, egli avrebbe dovuto mandare un’ambasciata per dimostrare come fu offeso, invece di mettersi dalla parte del torto, sconfinando su vasti territori che appartengono ad altri, uccidendo un numero così immenso di persone, togliendo i tesori pubblici e sacri della città, confiscando proprietà private di coloro che egli distrusse. Si è comportato in modo perfido sia con i suoi amici, proprio come con noi, molti dei quali mise a morte, tra cui i Tetrarchi che aveva condotto insieme ad un banchetto, insieme alle loro mogli e figli, sebbene non avessero commesso alcun atto ostile contro di lui. Verso di noi fu mosso da un odio innato, piuttosto che una reale necessità di guerra, portando ogni genere di calamità su gli Italici in tutta l’Asia, torturando e uccidendo tutti quelli della nostra razza, insieme con le loro mogli, i loro figli e servitori. Un tale odio ha portato questo uomo all’Italia, ed ora pretende amicizia per suo padre! Un’amicizia che hai dimenticato finché non sono stati uccisi 160.000 armati tra le tue truppe!”. […] “Invece di trattare per la pace, dovrei essere assolutamente implacabile verso di lui, ma per il vostro bene [rivolto ad Archelao] mi impegno ad ottenere da Roma il suo perdono, se si pente realmente. Ma se lui sta giocando in modo ipocrita di nuovo, vi consiglio, o Archelao, di guardarvi le spalle. Pensate a quali rapporti avete, oggi, tra voi e lui. Tenete a mente come egli ha trattato gli suoi altri amici e di come [noi Romani] abbiamo invece trattato il [re] Eumene [di Pergamo] ed il [re] Massinissa [di Numidia].”[…] “Se Mitridate consegna a noi tutta la flotta in vostro possesso, se ci consegnerà tutti i nostri generali, gli ambasciatori, i prigionieri, i disertori e gli schiavi fuggitivi; se restituirà le loro case agli abitanti di Chio ed a tutti gli altri che egli ha condotto nel Ponto; se rimuoverà i suoi presidi da tutti i luoghi, ad eccezione di quelli dove era già presente dello scoppio delle ostilità; se vorrà pagare il costo della guerra sostenuta per causa sua, e rimanere contento dei domini che aveva in precedenza, io spero di convincere i Romani a dimenticare le ferite che ha fatto loro.”» Appiano, Guerre mitridatiche, 54-55 

La dittatura e il ritiro dalla vita politica

Alla morte di Cinna, nell’84 a.C., Silla rientrò a Roma, ottenendo anche l’appoggio di Gneo Pompeo, figlio di Strabone, che aveva guidato gli eserciti romani durante la fase finale della guerra sociale. Nel novembre dell’82 a.C. Silla entrò a Roma dopo aver sconfitto i populares (appoggiati dai sanniti) a Porta Collina. Morti entrambi i consoli, Silla venne eletto dittatore a tempo indeterminato dai comizi centuriati grazie alla lex Valeria de Sulla dictatore. Silla possedeva poteri straordinari, compreso il diritto di condannare a morte, presentare leggi, scegliere i magistrati, effettuare confische, fondare città e colonie. Forte della sua posizione Silla decise di riformare la repubblica. Prima di tutto emanò delle liste di proscrizione, mettendo a morte gli oppositori politici; tra loro rischiò anche di finire Cesare (sua zia era moglie di Mario), che riuscì a fuggire in oriente. In sostanza Silla decise di intraprendere una politica di restaurazione del senato a scapito dei cavalieri e dei populares. Il senato venne portato a 600 membri, mentre veniva fissato il cursus honorum: la questura portava automaticamente alla cooptazione nell’assemblea. Seguiva l’edilità o il tribunato della plebe, la pretura e il consolato. Al senato venne anche restituito il controllo dei processi (quindi nel caso di malversazioni i senatori si giudicavano tra di loro), dato dai Gracchi ai cavalieri. Silla venne rieletto console nell’80 a.C., ma proprio quando era all’apice della carriera politica, nel 79 a.C., decise di abbandonare il potere e ritirarsi a vita privata, morendo nel 78 a.C. Dopo la morte di Silla e la fine delle proscrizioni, iniziò la carriera politica del giovane Cesare, poco più che ventenne. Il discendente di Venere era infatti nipote di Gaio Mario e genero di Cinna, entrambi avversari della fazione sillana, e per questo venne proscritto dal dittatore. Era già in fuga verso Brindisi quando l’intercessione della madre Aurelia e delle vestali lo salvò; Silla infine cedette alle lamentele, esclamando “vedo molti Marii in un solo Cesare” (nam Caesari multos Marios inesse). «Ma finalmente, per intercessione delle vergini Vestali, di Mamerco Emilio e di Aurelio Cotta, suoi parenti ed affini, ottenne il perdono. Pare certo che Silla, quando lo supplicarono i suoi più intimi amici, e uomini di altissimo rango, per qualche tempo oppose un rifiuto; ma poiché essi tenacemente insistevano, finalmente si lasciò piegare, ma dichiarò – o per ispirazione divina o per riflessione personale – che l’avessero pure vinta e se lo tenessero pure, purché sapessero che quello che essi tanto volevano salvo, un giorno o l’altro sarebbe stato la rovina proprio di quel partito degli ottimati che essi insieme con lui avevano difeso: in Cesare c’erano molti Marii.»

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STORIE ROMANE. Massimino, l’imperatore gigante. «Si narra che Massimino fosse nato in un villaggio della Tracia confinante col territorio dei barbari, figlio inoltre di padre e madre barbara, l’uno Goto di origine, l’altra Alana. Si dice che il padre si chiamasse Micca, e la madre Ababa. Questi nomi Massimino nei primi tempi li palesava liberamente, ma in seguito, quando giunse al potere, volle che fossero tenuti nascosti, perché non apparisse che l’imperatore era nato da genitori entrambi di stirpe barbarica. Nella sua prima fanciullezza fece il pastore, talvolta anche capeggiando i compagni nell’affrontare i briganti e nel difendere i suoi dalle loro incursioni. Compì il suo primo servizio militare nella cavalleria. Era infatti imponente per la sua prestanza fisica, famoso per il suo valore fra tutti i soldati, bello nel suo aspetto virile, duro nel suo comportamento, rude, superbo, sprezzante, spesso nondimeno capace di senso di giustizia.» HISTORIA AUGUSTA, MASSIMINO IL TRACE, 1, 5-7; 2, 1-2

Un semibarbaro? La sua prestanza fisica era proverbiale; si diceva fosse alto oltre 2 metri (un’altezza spaventosa per l’epoca) e che avesse una forza micidiale. Aveva cominciato la carriera militare sotto Settimio Severo, come cavaliere, cominciando a scalare i ranghi. Ma quando Caracalla fu assassinato si ritirò, deluso, a vita privata, per poi tentare di rientrare in servizio, senza successo, sotto Eliogabalo. Tuttavia è bene precisare che la fonte principale su di lui è l’Historia Augusta, fonte notoriamente faziosa e filosenatoria, che va dunque presa con le dovute precauzioni: «Risulta che spesso egli bevesse in un giorno un’anfora capitolina di vino, che mangiasse fino a quaranta libbre di carne o, come sostiene Cordo, addirittura sessanta. Come si sa per certo, egli non assaggiò mai legumi e quasi mai bevande fredde se non per necessità di bere. Spesso raccoglieva le gocce del suo sudore collocandole in calici o in un vasetto, e così poteva mostrarne due o tre sestari. Sotto Antonino Caracalla ricoprì a lungo il grado di centurione e più volte ebbe ad occupare tutte le altre cariche militari. Sotto Macrino, per il profondo odio che nutriva contro l’uomo che aveva ucciso il figlio del suo imperatore, abbandonò la milizia e si acquistò in Tracia, nel villaggio dove era nato, dei possedimenti ed esercitò sempre il commercio con i Goti. Era straordinariamente benvoluto dai Goti, come se fosse un loro concittadino. Tutti gli Alani che si spingevano sino alla riva del fiume, lo trattavano come un amico, scambiando vicendevolmente dei doni. Ma quando Macrino fu ucciso assieme a suo figlio, non appena apprese che era divenuto imperatore Eliogabalo, quale figlio di Antonino, egli, che era ormai un uomo maturo, si recò da lui e gli chiese che egli pure avesse a tenerlo nella stessa considerazione che aveva avuto nei suoi riguardi il nonno di lui Severo. Ma nulla poté ottenere con quel sozzo individuo; si dice infatti che Eliogabalo gli rispose con una battuta sconcia: «Dicono, o Massimino, che tu una volta abbia lottato vittoriosamente con sedici, venti e trenta soldati: potresti farcela per trenta volte con una donna?». Allora egli, al sentire quel principe infame esordire in tal modo, decise di ritirarsi dall’esercito.» «Ricevuto dunque il comando della legione, cominciò immediatamente ad addestrarla. Ogni quattro giorni ordinava delle manovre in armi, in cui i soldati conducevano tra loro combattimenti simulati. Ogni giorno ispezionava le spade, le lance, le corazze, gli elmi, gli scudi, le tuniche e tutte le loro armi; provvedeva personalmente financo alle loro calzature, proprio in modo tale da presentarsi ai soldati come un padre. A certi tribuni, poi, che lo rimproveravano dicendogli: «Perché ti affatichi tanto, visto che ormai hai un grado tale da permetterti di raggiungere il comando in capo?», si dice rispondesse: «Ma io, quanto più sarò in alto, tanto più mi darò da fare». Egli stesso si cimentava nella lotta con i soldati, abbattendone, sebbene già avanti negli anni, cinque, sei o sette. Così tutti quanti lo invidiavano, e ci fu un tribuno particolarmente arrogante, di grande corporatura e provato valore – e perciò tanto più tracotante – che gli disse: «Non è poi una gran cosa quella che fai, tu, tribuno, a vincere i tuoi soldati»; al che egli rispose: «Vuoi che ci battiamo?»; e avendo l’avversario accettato, lo mandò steso a terra colpendolo con il palmo della mano in pieno petto, mentre quello gli si stava gettando contro, e immediatamente esclamò: «Avanti un altro, ma che sia un tribuno!». Era, come riferisce Cordo, un uomo di tali proporzioni che superava di un dito gli otto piedi di altezza, e aveva un pollice così grosso che poteva usare come anello il braccialetto di sua moglie. Sono ormai praticamente di dominio pubblico certi aneddoti, come il fatto che era in grado di trascinare un carro a quattro ruote a forza di braccia, di muovere da solo una carrozza carica di gente, di buttar giù i denti a un cavallo tirandogli un pugno, o di spezzargli i garretti sferrandogli un calcio, di frantumare pietre di tufo, di spaccare in due piante non troppo annose, e che, insomma, era chiamato da taluni Milone di Crotone, da altri Ercole, da altri Anteo. Alessandro, che pure sapeva giudicare i veri meriti delle persone, impressionato da un uomo che si segnalava per tali imprese, gli conferì – per sua propria disgrazia – il comando di tutto l’esercito, tra la soddisfazione diffusa di tutti i tribuni, i generali, i soldati. Fu così che Massimino ricondusse l’esercito, che si era in gran parte infiacchito sotto Eliogabalo, al regime di vita militare da lui instaurato.» HISTORIA AUGUSTA, MASSIMINO IL TRACE, 4, 1-8; 6,1, 7,2

Quando, durante la campagna germanica di Severo Alessandro l’imperatore preferì trattare con i barbari i soldati non ci pensarono due volte ad acclamare loro principe il forzuto Massimino, che eliminò il contendente, dando inizio all’anarchia militare (235-284). Divenuto imperatore con la sola forza delle armi, Massimino non andò a Roma per ottenere l’appoggio del senato, anzi, continuò la guerra contro i germani e in particolare gli alemanni. Inoltre cambiò tutti (o quasi) i funzionari di Alessandro: «Infatti, per nascondere le sue basse origini, fece uccidere tutti coloro che ne erano a conoscenza, molti anche tra i suoi amici, che spesso in passato, mossi a pietà della sua povertà, gli avevano fatto generosi doni. In effetti non vi fu mai al mondo un essere così crudele, che riponeva ogni sua fiducia nella propria forza fìsica, come ritenesse di non poter essere ucciso. Fu così che, mentre lui si credeva praticamente immortale a motivo della sua prestanza fisica e della sua grande forza, un attore di mimi – a quanto raccontano – recitò a teatro in sua presenza dei versi greci che in latino suonavano così: «Anche chi non può essere ucciso da uno solo, da molti può essere ucciso. L’elefante è grande, e viene ucciso, il leone è forte, e viene ucciso, la tigre è forte, e viene uccisa: guàrdati dai molti, se non temi i singoli». E questi versi furono recitati alla presenza stessa dell’imperatore. Ma quando egli chiese agli amici che cosa significava quanto aveva recitato l’attore, gli fu risposto che quello cantilenava antichi versi scritti contro uomini violenti, e lui, da quel barbaro Trace che era, ci credette. Non voleva aver vicino alcun nobile, governava né più né meno che al modo di Spartaco o Atenione. Inoltre mise a morte in vari modi tutti i funzionari di Alessandro. Cercò di sopprimere le disposizioni che costui aveva emanate. E nel suo sospettarne gli amici e i collaboratori, divenne ancor più crudele. Già per indole portato a conformarsi al modo di agire di una belva, fu reso ancora più duro e sanguinario dalla congiura ordita contro di lui da un certo Magno, un ex console, il quale, assieme a molti soldati e centurioni, aveva tramato per assassinarlo, mirando ad impadronirsi del potere. E le modalità del complotto erano queste: dato che Massimino voleva passare nel territorio dei Germani gettando un ponte, si era stabilito che i congiurati lo attraversassero con lui, dopo di che il ponte venisse abbattuto ed egli, trovandosi ormai alla loro mercé in territorio barbarico, fosse così ucciso, mentre Magno avrebbe assunto il potere. C’è infatti da ricordare che Massimino, non appena divenuto imperatore, aveva intrapreso ogni sorta di campagne militari, conducendole con grande energia e sfruttando la sua perizia nell’arte bellica, volendo salvaguardare la reputazione che si era guadagnato, e superare agli occhi di tutti la fama di Alessandro, che lui aveva ucciso. Perciò anche da imperatore, teneva ogni giorno in esercizio i suoi soldati, e lui stesso era sempre in armi, offrendo continuamente all’esercito dimostrazioni di ciò che sapeva fare con la forza del suo braccio e con la sua resistenza fisica. E quanto a codesta congiura si insinua pure che sia stato Massimino stesso a simularla, onde aumentare i pretesti per esercitare la sua crudeltà. Sta di fatto che egli mise a morte tutti i congiurati senza processo, senza accusa, senza delatore, senza difesa, proscrisse i beni di tutti, né bastarono a saziarlo più di quattromila vittime.» HISTORIA AUGUSTA, MASSIMINO IL TRACE, 9, 1-8; 10, 1-6

Il senato, non sopportando più Massimino, decise allora di scegliere come imperatore il governatore d’Africa, Gordiano, che era insorto contro Massimino. Ma la rivolta fu placata nel sangue dal governatore della Numidia Cappelliano: «Quando Massimino venne a conoscenza di questo decreto senatorio, uomo feroce di sua natura qual era, arse d’ira a tal punto che lo si sarebbe creduto non un uomo, ma una belva. Si scagliava contro le pareti, talora si buttava a terra, lanciava urla inconsulte, dava di piglio alla spada, quasi che con quella potesse uccidere il senato, si strappava la veste regale, percuoteva i servi di corte, sì che, se non si fosse tolto di mezzo, avrebbe addirittura – come riferiscono certuni – cavato gli occhi al proprio figlio giovinetto. Il motivo della sua collera nei confronti del figlio era che egli, non appena proclamato imperatore, gli aveva ordinato di andare a Roma, e quello invece, per il suo eccessivo attaccamento al padre, non lo aveva fatto; ora, lui era convinto che se il figlio si fosse trovato a Roma, il senato non avrebbe osato prendere alcuna iniziativa. Alla fine gli amici riuscirono a trascinarlo, furioso com’era, nella sua stanza. Ma, incapace di dominare il suo furore, si dice che, per dimenticare quel pensiero, il primo giorno si riempì di vino a tal punto da non ricordare più che cosa fosse accaduto.» «Ma Gordiano in Africa si trovò fin dall’inizio a dover fronteggiare l’opposizione di un certo Capeliano, che aveva deposto dal governo della Mauritania. Mandò allora contro di lui il suo giovane figlio, ma, essendo rimasto questi ucciso nel corso di una sanguinosissima battaglia, egli stesso si tolse la vita impiccandosi, conscio che Massimino era molto potente, mentre gli Africani, oltre a non disporre di forze valide, erano per giunta al contrario assai poco fidati. Allora Capeliano, risultato vincitore in nome di Massimino, mise a morte e proscrisse tutti i fautori di Gordiano in Africa, senza risparmiare alcuno, proprio come se operasse all’evidenza queste cose eseguendo la volontà di Massimino. Distrusse inoltre città, saccheggiò templi, distribuì tra i soldati i doni votivi, fece strage fra la plebe e i maggiorenti delle città. Egli stesso cercava poi di conciliarsi il favore dei soldati, predisponendosi ad assumere il potere, nel caso che Massimino fosse morto.» HISTORIA AUGUSTA, MASSIMINO IL TRACE, 17, 1-5; 19, 1-5 

Massimino aveva forse sottovalutato la rivolta. Nonostante la sconfitta di Gordiano padre e figlio, il senato continuò a osteggiarlo, nominando imperatori due senatori, Pupieno e Balbino, associando a loro Gordiano III (nipote di Gordiano I) come Cesare. La rivolta dei Gordiani era nata anche perché la guerra in Germania aveva spinto Massimino ad aumentare le tasse, e i senatori non erano più disposti a pagare le guerre di un imperatore che li oltraggiava. Massimino, tornando in Italia per affrontare il senato, assediò la ribelle Aquileia. Subì ingenti perdite; fu allora che i soldati si ammutinarono, uccidendolo. Era il 238 d.C., e aveva regnato solo tre anni: «Allora Massimino, presumendo che la guerra andasse per le lunghe per via dell’inerzia dei suoi, mise a morte, proprio nel momento che sarebbe stato meno opportuno, i suoi generali. Con il che accrebbe vieppiù il risentimento dei soldati contro di lui. A ciò si aggiungeva il fatto che si trovava a corto di vettovagliamenti, giacché il senato aveva mandato a tutte le province e ai custodi dei magazzini un dispaccio con l’ordine che nessun tipo di rifornimento cadesse nelle mani di Massimino. Aveva inoltre inviato per tutte le città elementi che erano stati in passato pretori e questori, con l’incarico di predisporre in ogni luogo misure di sicurezza, e di difendere ogni cosa dagli attacchi di Massimino. E così si ebbe che l’assediante stesso venne a trovarsi nelle critiche condizioni di un assediato. Frattanto si spargeva la notizia che il mondo intero si era dichiarato concordemente ostile a Massimino. Perciò i soldati che avevano i loro cari sul monte Albano, presi da timore, verso mezzogiorno, in un momento di pausa del combattimento, uccisero Massimino e suo figlio, mentre erano coricati sotto la tenda, e, infilate le loro teste in cima a due picche, ne fecero mostra agli Aquileiesi. Allora nella vicina città vennero immediatamente abbattute le statue e i busti di Massimino, e il suo prefetto del pretorio fu ucciso assieme ai suoi amici più in vista. Le loro teste, inoltre, furono inviate a Roma.» HISTORIA AUGUSTA, MASSIMINO IL TRACE, 23, 1-7

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Storie Romane. Tiberio, l’imperatore che non voleva esserlo. La gens Claudia era una delle antiche e più prestigiose della storia romana: Appio Claudio Cieco costruì l’Appia e il primo acquedotto, Claudio Nerone console sconfisse Asdrubale che si stava ricongiungendo ad Annibale sul Metauro nel 207 a.C., il padre di Tiberio invece aveva guidato la flotta cesariana nella guerra alessandrina. Cinquantenne, mentre la madre Livia aveva solo quindici anni, era pretore mentre si combatteva a Filippi; seguì gli Antoniani durante il tentativo di rivolta di Fulvia e la guerra di Perugia, che però si risolse in un disastro e consegnò l’Italia a Ottaviano. Sostenitore di Antonio fino alla fine, scampò riparando in Grecia; fu solo quando Antonio e Ottaviano si riappacificarono che poté tornare in Italia.

L’imperatore che non voleva esserlo

Ritornato a Roma, il padre di Tiberio ricevette da Ottaviano la richiesta di avere in moglie Livia Drusilla, allora diciannovenne e incinta di sei mesi. Il marito fu felice di darla al futuro imperatore, per riappacificarsi con lui. Quest’ultimo aveva già spostato la tredicenne Claudia, figliastra di Antonio, da cui aveva divorziato per sposare Scribonia, imparentata con Sesto Pompeo, sperando di tenerlo a bada in Sicilia. Ma nel frattempo Pompeo era già passato dalla parte di Antonio. Tuttavia Scribonia gli aveva dato l’unica figlia, Giulia, che nasceva nello stesso giorno del divorzio. Molti maliziosi sostennero già in antichità che Druso, il figlio che Livia portava in grembo, fosse figlio illegittimo di Ottaviano, ma in realtà i due non si incontrarono prima del concepimento. Ma, mentre Druso venne cresciuto in casa di Ottaviano, Tiberio rimase con il padre, che morì quando aveva nove anni; fu il giovanissimo Tiberio a pronunciare la sua laudatio funebris dai rostri. Solo allora seguì il fratello nella casa di Ottaviano. Pochi anni dopo, guidò insieme a Marco Claudio Marcello – nipote di Ottaviano – il carro che precedeva quello del trionfo del nipote di Cesare. Nel 25 a.C. Ottaviano, che aveva appena ricevuto il titolo onorifico di Augusto, inviò in Spagna (che fu pacificata solo in quegli anni) i sedicenni Tiberio e Marcello come tribuni militari; seguì il cursus honorum come questore, poi comandando nell’inverno del 21-20 a.C. un esercito in Armenia, regione in bilico tra romani e parti, riuscendo a far incoronare Tigrane III come re cliente. Seguì la carriera politica ottenendo infine la pretura e seguendo Augusto in Gallia (16-13 a.C.), per aiutarlo nell’organizzazione della nuova provincia, per poi fare insieme una campagna punitiva oltre il Reno. Nel 15 a.C. Tiberio, insieme al fratello Druso, condusse i romani contro i reti, spingendo la frontiera romana fino al Danubio. Dal 12 al 9 a.C., subito dopo la morte di Agrippa, Tiberio condusse i romani contro i ribelli dalmato-illirici. La campagna, durissima, fu infine un successo, e gli venne concessa da Augusto un’ovazione e la processione per la via Sacra con le insegne trionfali, sebbene non fosse formalmente un trionfo. Poco dopo, nel 9 a.C., il fratello Druso morì, dopo una caduta da cavallo, mentre si trovava in Germania. Tiberio lo raggiunse rapidamente, appena in tempo per vederlo morire. Fu lui stesso a riportare il corpo a Roma e pronunciarne l’elogio funebre. Successivamente, nell’ 8-7 a.C., venne inviato di nuovo in Germania da Augusto, rafforzando il confine. Augusto aveva avuto una predilizione fin dall’inizio per Marcello (figlio di Ottavia, sua sorella), coetaneo di Tiberio, a cui aveva dato in sposa la figlia Giulia avuta con Scribonia. Ma Marcello morì nel 23 a.C., e Agrippa nel 12 a.C. (che aveva sposato Giulia subito dopo). Alla morte di Agrippa Augusto decise di dare la figlia Giulia in sposa all’unico discendente possibile: il figliastro Tiberio, che nel 12 a.C. la sposò, costringendolo a ripudiare Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, e da cui aveva avuto un figlio, Druso minore. I caratteri di Giulia e Tiberio erano però opposti: tanto licenziosa lei, quanto riservato lui; il rapporto si guastò quasi subito, quando morì loro figlio ancora infante. Nonostante questo Augusto decise di concedergli nel 6 a.C. la tribunicia potestas, il potere che conferiva la vera e propria dignità imperiale (si diventava in questo modo intoccabili e si aveva diritto di veto su qualsiasi decisione del senato). Ma Tiberio si ritirò in esilio volontario a Rodi. Infine anche i figli di Agrippa, Gaio e Lucio Cesare, morirono entrambi prematuramente; Lucio nel 2 d.C., ammalatosi, morì a Marsiglia, a soli 19 anni. Gaio due anni più tardi, nel 4 d.C., a 24 anni, per le ferite riportate durante la guerra in Armenia (Tigrane IV era stato ucciso e molti nobili armeni rifiutavano di riconoscere il re filoromano Ariobarzane), che gli avevano teso un’imboscata durante l’assedio di una fortezza. Il 26 giugno del 4 d.C. Augusto decise infine di adottare Tiberio (che nell’1 d.C. era tornato a Roma) come suo successore, a a patto che adottasse il nipote Germanico, figlio di Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse avuto già un figlio, Druso minore, avuto dalla prima moglie Vipsania. Contemporaneamente, per festeggiare, venne fatto un largo donativo all’esercito. Negli anni seguenti Tiberio combatté con notevoli successi in Germania, che i romani stavano ormai conquistando (almeno la parte a ovest dell’Elba), poi nell’Illirico, ancora in rivolta, e di nuovo in Germania, dopo il disastro di Varo che aveva perso tre legioni nella selva di Teutoburgo, nel 9 d.C. Pare che Augusto vagasse per il palazzo sbattendo la testa contro le porte e urlando: “Varo, rendimi le mie legioni!”, temendo un’invasione germanica fino in Italia. «E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, [Augusto] acconsentì ad adottarlo solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un caso di così grande importanza; credo piuttosto che abbia accuratamente pesato le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell’interesse dello stato, e che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l’unico sostegno del popolo romano.» «Mentre si parlava di queste cose e di altre simili, le condizioni di salute di Augusto si aggravavano e alcuni sospettavano la moglie di assassinio. Poiché s’era sparsa la voce che pochi mesi prima Augusto, confidatosi con pochi e accompagnato dal solo Fabio Massimo, si fosse recato a Pianosa per incontrare Agrippa; ivi, tra lacrime e dimostrazioni reciproche d’affetto, era sorta la speranza che il giovane potesse esser reso alla famiglia dell’avo. Fabio Massimo avrebbe riferito il fatto alla moglie Marcia, questa a sua volta a Livia. Cesare ne sarebbe stato informato. E non molto tempo dopo, spentosi Fabio – non si sa se di morte volontaria – ai funerali si sarebbe udita Marcia accusare piangendo se stessa d’esser stata la causa della morte del marito. Comunque sia andata, Tiberio era appena arrivato nell’Illirico, quando fu richiamato precipitosamente da una lettera della madre. E non è stato mai chiaro se abbia trovato Augusto in fin di vita, nei pressi di Nola, o già spirato. Livia infatti teneva il palazzo e le vie sbarrate con rigorosa custodia sì che di tanto in tanto correvano voci d’un miglioramento; fino a che, presi i provvedimenti che il momento esigeva, si seppe nello stesso momento che Augusto era deceduto e che Tiberio assumeva il potere.»SVETONIO, TIBERIO, 21; TACITO, ANNALI, I, 5

Imperatore

Nel 12 d.C. Tiberio celebrò il suo trionfo per la guerra illirica; nel 13 ottenne di nuovo la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius. Mentre Tiberio si recava in Illirico per riorganizzare la provincia, nell’estate del 14, venne richiamato urgentemente perché Augusto stava morendo a Nola. Il 19 agosto l’imperatore morì; il 17 settembre Tiberio convocò il senato per leggerne il testamento, in cui lasciava come eredi il figlio adottivo e la moglie. Pare che Tiberio venne supplicato dai senatori di prendere il titolo del padre adottivo e che lui inizialmente rifiutò; non sappiamo se per modestia, o per altri motivi, ma infine accettò, non volendo lasciare la res publica priva di un capo. «Il primo avvenimento del nuovo principato fu l’assassinio di Agrippa Postumo; benché preso alla sprovvista e inerme, non fu facile al centurione, che pure era uomo d’animo fermo, sopprimerlo. Tiberio in Senato non fé cenno dell’accaduto, fingendo che fosse un ordine del padre, il quale avrebbe ordinato al tribuno incaricato della custodia di non indugiare a uccidere Agrippa, non appena egli fosse giunto al giorno estremo. Senza dubbio Augusto aveva deplorato amaramente l’indole selvatica del giovane per ottenere che il Senato ne sancisse con un decreto l’esilio, ma non s’era mai spinto fino alla condanna capitale per uno dei suoi, né si poteva credere che avesse voluto spento il nipote per la sicurezza del figliastro; piuttosto che Tiberio e Livia, il primo per paura, la seconda per odio di matrigna, avessero affrettato l’omicidio del giovane, sospetto all’uno, inviso all’altra. Al centurione che, conforme all’uso militare, gli annunziò d’aver eseguito l’ordine, Tiberio disse di non averglielo ordinato affatto e che si doveva render conto del fatto al Senato. Al che Crispo Sallustio, che era a parte dei segreti era stato lui a mandare l’ordine scritto al centurione – temendo d’esser ritenuto responsabile, sia che mentisse sia che deponesse la verità, cose egualmente pericolose, ammonì Livia «che non era opportuno mettere in piazza i segreti di famiglia, i pareri degli intimi, gli ordini impartiti ai militari, né svigorire l’autorità del principato di Tiberio con il deferire ogni cosa al Senato. La logica del potere è questa: i conti tornano soltanto se si rendono a uno solo». A Roma intanto consoli, senatori, equestri si precipitarono a prestare ossequio, ciascuno quanto più altolocato, tanto più pronto a simulare; atteggiato il volto a non mostrarsi né lieto per la morte del principe né troppo spiacente per l’avvento del nuovo, esprimevano al tempo stesso lacrime ed esultanza, rammarico e adulazione. I consoli Sesto Pompeo, Seio Strabone e Sesto Apuleio giurarono per primi fedeltà a Tiberio; dopo di loro Caio Turrano, quello Prefetto delle coorti pretoriane, questo dell’Annona. Subito dopo il Senato, l’esercito e il popolo. Tiberio intanto non prendeva una iniziativa se non attraverso i consoli, come al tempo della repubblica, quasi fosse insicuro del suo potere; persino l’editto con il quale convocò i padri nella curia lo promulgò con la sola intestazione dell’autorità tribunicia che aveva ricevuta da Augusto. Breve l’editto e molto misurato: intendeva consultare i senatori a proposito delle onoranze da rendere al padre; quanto a lui, non si sarebbe allontanato dalla salma: questa sola, tra le funzioni pubbliche, si assumeva. Ma, non appena Augusto ebbe chiuso gli occhi, egli dettò la parola d’ordine ai pretoriani da imperatore, pretese sentinelle, armi e tutto ciò che si addice a una corte; si fece accompagnare da armati, sia che si recasse al foro o al Senato. Inviò messaggi agli eserciti come chi è in possesso del principato, mostrandosi esitante solo quando parlava in Senato. La ragione principale consisteva nel timore che Germanico, al comando di tante legioni e immense forze ausiliarie nonché estremamente amato dal popolo, preferisse aver subito il potere, anziché aspettarlo e Tiberio cercava di apparire chiamato ed eletto dalla repubblica, anziché per le manovre d’una moglie e l’adozione d’un vecchio. In seguito fu chiaro che s’era mostrato incerto per indagare le intenzioni dei notabili; e conservava nella mente espressioni dei volti e parole, interpretandole a loro danno. 8. Il primo giorno non permise si parlasse d’altro che delle esequie di Augusto, il cui testamento, recato dalle Vergini Vestali, designò eredi Tiberio e Livia; questa, adottata nella famiglia Julia, assumeva il titolo di Augusta; come secondi eredi, i nipoti e pronipoti, in terzo luogo i cittadini più eminenti, che per la maggior parte gli erano invisi, ma per ostentazione e gloria presso la posterità. Lasciò poi legati all’uso dei privati, tranne che settantacinque milioni di sesterzi alla plebe e al popolo, mille nummi ciascuno ai militari delle coorti pretoriane, cinquecento ciascuno a quelli delle coorti urbane, trecento ai legionari e alle milizie dell’Urbe. Poi si parlò delle onoranze funebri. Le più solenni parvero quelle proposte da Asinio Gallo, che il feretro passasse sotto l’arco trionfale e, secondo Lucio Arrunzio, lo precedessero i titoli delle leggi emanate e i nomi dei popoli vinti. Valerio Messalla aggiunse la proposta che si rinnovasse ogni anno il giuramento a Tiberio, al che questi gli chiese: te l’ho forse suggerito io? e quello a protestare d’averlo detto di testa sua, ché anzi per tutto ciò che riguardava lo Stato non si sarebbe mai valso d’altra opinione che della propria, anche a rischio di offendere: la sola forma di adulazione che mancava. I senatori poi a una voce gridarono che il corpo doveva esser portato al rogo su le loro spalle. Cesare acconsentì con misurata alterigia e con un editto ammonì il popolo che non si avventurasse, com’era accaduto per eccessiva devozione, ai funerali del divo Giulio, a voler cremare la salma di Augusto nel Foro anziché in Campo Marzio, luogo deputato a quest’uso. Il giorno dei funerali si vide uno schieramento di forze a presidio dell’ordine. Ridevano quelli che avevano assistito personalmente – o l’avevano sentito raccontare dai genitori – a quel giorno di servitù ancora acerba o di libertà recuperata in modo infausto, quando l’assassinio del dittatore Cesare era parso ad alcuni un avvenimento nefasto, ad altri invece estremamente fausto: e ora, ci voleva davvero un servizio d’ordine per far sì che si svolgessero senza incidenti le esequie d’un vecchio principe, che governava già da tanto tempo, con gli eredi già al potere! Si fece un gran parlare di Augusto, i più meravigliandosi di cose futili: che fosse morto lo stesso giorno in cui aveva assunto il potere e proprio a Nola, nella stessa casa, nella stessa camera in cui s’era spento suo padre Ottavio. Alcuni celebravano il numero dei suoi consolati, tanti quanti quelli di Valerio Corvo e Caio Mario messi assieme, la potestà tribunicia esercitata ininterrottamente per trentasette anni, il titolo d’imperatore ottenuto ventuno volte e altri onori, ripetuti e nuovi. Le persone di giudizio lodavano o criticavano in vario modo la sua esistenza: per alcuni era stato spinto alla guerra civile dalla devozione verso il padre e dalla situazione della repubblica, nella quale in quel momento non c’era legge che vigesse e, del resto, le guerre civili non si possono né preparare né combattere con mezzi legali. Dicevano che aveva fatto molte concessioni sia ad Antonio sia a Lepido pur di vendicarsi su gli assassini del padre. Mentre questo invecchiava nell’inerzia, quello degenerava nei piaceri, non vi fu altro rimedio alle discordie della patria se non il governo di uno solo. E tuttavia non aveva retto la repubblica da re o da dittatore, ma con il solo titolo di principe; l’impero aveva avuto per confini l’Oceano e fiumi lontani; legioni, province, flotte, composta insieme ogni cosa, regnava il diritto verso i cittadini, la moderazione verso gli alleati; l’urbe stessa splendidamente abbellita; raramente s’era fatto ricorso alla forza, al fine di assicurare la tranquillità di tutti. Alcuni al contrario dicevano che la devozione verso il padre e la situazione della repubblica erano state un pretesto; che per avidità di potere mediante largizioni aveva sollevato i veterani, ancora adolescente e semplice privato aveva adunato un esercito, corrotto le legioni del console, simulando d’esser sostenitore del partito di Sesto Pompeo. Poi, quando – a seguito d’un decreto del Senato – aveva usurpato i fasci e i diritti del pretore, caduti Irzio e Pansa, uccisi dal nemico, oppure Pansa per un veleno iniettato nella ferita, Irzio per mano dei suoi soldati per una trama ordita da chi si era impadronito degli eserciti di entrambi. Estorse il consolato, benché il Senato fosse contrario, volse contro la repubblica le armate tolte ad Antonio; la proscrizione dei cittadini, le spartizioni dei campi non furono lodate neppure da quelli che le eseguirono. Fossero pure Cassio e i due Bruti immolati all’odio del padre, benché sia sacro dovere rinunziare agli odii privati per il bene pubblico, ma Pompeo fu ingannato con una parvenza di pace, Lepido sotto il velo dell’amicizia; quanto poi ad Antonio, adescato con l’accordo di Brindisi e di Taranto e le nozze con la sorella, pagò con la morte quella insidiosa parentela. Indubbiamente, dopo questi fatti vi fu pace, ma grondante sangue: le sconfitte di Lollio e di Varo e a Roma le uccisioni di Varrone, Egnazio e Julo. Né ci si asteneva dai fatti privati: la moglie portata via a Nerone e consultati per ischerno i pontefici, se potesse sposarsi secondo il rito una donna che aveva concepito ma non ancora partorito; le dissipazioni di Q. Tedio e di Vedio Pollione; e infine Livia, madre funesta per la repubblica, matrigna funesta per la casa dei Cesari. Non aveva lasciato nulla per le onoranze agli dèi, mentre aveva voluto esser adorato nei templi da flàmini e sacerdoti nell’aspetto d’un dio. Tiberio, inoltre, non l’aveva assunto a successore per affetto o sollecitudine verso la repubblica, ma avendone intuito la boria e la crudeltà, aveva voluto procurarsi gloria attraverso un paragone ignobile. Pochi anni prima, infatti, quando aveva chiesto al Senato di conferire la potestà tribunicia a Tiberio per la seconda volta, benché nel suo discorso gli facesse onore, s’era lasciato sfuggire qualche allusione alle maniere, alla condotta e ai costumi di lui che sembrava volerlo scusare, ma in realtà lo riprovava. Comunque, celebrate le esequie secondo il costume, ad Augusto furono decretati un tempio e culto divino.» TACITO, ANNALI, I, 6-11

Inizialmente il prestigio di Tiberio fu messo a dura prova dal nipote Germanico, che portò a termine diverse campagne a nord, recuperando due delle tre aquile di Teutoburgo e sconfiggendo Arminio ad Idistaviso. Germanico venne richiamato, non sappiamo se perchè Tiberio effettivamente temeva che la sua popolarità avrebbe messo a repentaglio il suo posto come imperatore, e inviato in oriente. A Germanico fu concesso un imperium proconsulare maius su tutto l’oriente da parte del senato, mentre Tiberio gli affiancava il burbero Gneo Calpurnio Pisone, nominato proconsole della Siria e suo ex collega nel consolato del 7 a.C. I due entrarono ben presto in conflitto e Germanico morì forse avvelenato dallo stesso Pisone già nel 19 d.C. Morto Germanico, venne scelto come successore il figlio Druso minore. Al tempo stesso acquisiva potere il prefetto al pretorio Lucio Elio Seiano, dopo la decisione di Tiberio di stanziare le nove coorti pretorie, prima sparse in tutta Italia, nei castra pretoria al limite di Roma. Seiano sedusse la moglie di Druso, Claudia Livilla, e poco tempo dopo, nel 23, Druso morì avvelenato. Ancora una volta i sospetti ricaddero su Tiberio, che però probabilmente era ancora una volta estraneo al delitto, in cui era coinvolta Livilla. Mentre Seiano spadroneggiava a Roma, Tiberio, rimasto senza eredi (Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, era nato nel 19 d.C. e il suo gemello, Germanico Gemello, era morto nel 23; inoltre non si era certi della paternità e alcuni supponevano che il padre fosse Seiano) e più che sessantenne, decise di ritirarsi in Campania e specialmente a Capri. Nel frattempo Seiano prese il potere a Roma, diventando in tutto e per tutto il capo dello stato. L’unione con Livilla credeva di aprirgli le porte per la successione, e nel 31 ottenne il consolato insieme all’imperatore. Ma fu proprio allora che Antonia minore, vedova di Druso maggiore e madre di Germanico e Claudio, inviò una lettera a Tiberio in cui paventava che Seiano fosse in procinto di effettuare un colpo di stato. Tiberio nominò segretamente Macrone, a capo delle coorti urbane, prefetto al pretorio e informò anche le coorti di vigiles, di arrestare Seiano. Con l’inganno, Macrone, dopo avergli detto falsamente che gli era stata conferita la tribunicia potestas, si congedò. Entrato in senato, venne letta una lettera di Tiberio, in cui alla fine improvvisamente comandava di arrestare Seiano. Il console Mummio Regolo procedette all’arresto, e poco dopo Macrone si presentò nei castra pretoria come nuovo prefetto. Seiano, portato nel Carcere Mamertino, venne condannato a morte dopo un rapido processo e strangolato, insieme ai suoi figli.

La morte di Tiberio

Tiberio trascorse i suoi ultimi anni a Capri, nella villa Iovis. Quando dovette procedere al testamento, erano ormai rimasti solo due eredi: Tiberio Gemello, quindicenne, e di cui si dubitava della paternità, il nipote Claudio, fratello di Germanico e figlio di Druso maggiore, mai preso in considerazione poiché zoppo e balbuziente, e il nipote Caio, detto poi Caligola, figlio di Germanico, amatissimo dal popolo, che poco più che ventenne sembrava la scelta migliore. Tiberio nel 37 lasciò Capri, forse per passare i suoi ultimi giorni a Roma, ma si fermò poco prima di entrare in città, forse titubante della reazione del popolo. Dopo un primo malore, fu portato a Miseno, dove fu creduto morto. Tacito riporta che venne infine soffocato:

«Il diciassettesimo giorno prima delle Calende di aprile, gli mancò il respiro e si credette che avesse cessato di vivere; già Caio Cesare, in mezzo a una folla di persone festanti, usciva a cogliere le primizie del potere, quando improvvisamente gli si riferì che Tiberio aveva recuperato la voce e la vista e chiamava qualcuno che gli portasse da mangiare per riprendersi dal deliquio. Si sparse il terrore e mentre gli altri si disperdevano qua e là, e chi si fingeva triste e chi mostrava di non saper nulla; Caio Cesare [Caligola] immobile, muto, caduto dal culmine delle speranze, si aspettava imminente chissà quale condanna. Macrone senza tremare ordinò di soffocare il vecchio sotto un cumulo di coperte e di allontanarsi dalla porta. Così finì Tiberio, a settantotto anni.» TACITO, ANNALI, VI, 50

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Storie Romane. Quinto Fabio Massimo. Quinto Fabio Massimo Verrucoso, detto il temporeggiatore, nacque attorno il 275 a.C. Era discendente della gens Fabia, nipote di Quinto Fabio Massimo Gurgite e bis-nipote di Quinto Fabio Massimo Rulliano; quest’ultimo aveva vinto (dopo l’immolazione tramite devotio dell’altro console Publio Decio Mure) la battaglia di Sentinum del 295 a.C. che pose fine alla terza guerra sannitica e diede il via all’egemonia romana in Italia.

Carriera politica. La carriera politica del Verrucoso, il cui soprannome era dato da una verruca sul labbro superiore, iniziò a decollare nel 233 a.C. quando trionfò sui liguri e dedicò un tempio ad Onore e Virtù. Plutarco narra che Fabio fosse di temperamento mite e lento nel parlare e in genere dal carattere forte e deciso. Nel 265 a.C. era stato augure, ma non è chiaro il ruolo svolto durante la prima guerra punica. Probabilmente era stato questore nel 237 o 236 e edile curule attorno al 235, per raggiungere il consolato nel 233. Nel 230 a.C. ottenne infine la censura e un secondo consolato nel 228 a.C. Probabilmente in quel periodo (attorno al 221) ottenne la prima dittatura poiché Livio narra che quella del 217 fu la seconda (considerando un buco nei fasti consolari per quella data e l’assenza di quella parte di Livio). Fabio venne inviato come ambasciatore a Cartagine (insieme a senatori importantissimi in seguito come Marco Livio Salinatore e Lucio Emilio Paolo) dopo la resa di Sagunto in Spagna, assediata da Annibale, per capire se le azioni del cartaginese fossero appoggiate dalla madrepatria. Alla fine del discorso di Fabio, che chiedeva spiegazioni, i cartaginesi accettarono la guerra: «[…] Perciò, smettetela di citare Sagunto e l’Ebro, e una buona volta il vostro animo dia alla luce ciò che da tanto tempo cova in sé!». Allora il Romano, fatta una piega con la toga, disse: «Qui vi portiamo la guerra e la pace; delle due cose, prendete quella che volete». Sùbito dopo queste parole, non meno fieramente gli fu risposto con grida che desse quella che volesse; ed avendo egli per contro lasciato andare la piega e detto che dava la guerra, tutti risposero che la accettavano e l’avrebbero combattuta con il medesimo ardimento con cui l’accettavano.» TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXI, 18, 12-14

Fabio Massimo, tornato a Roma, fu inviato allora in Spagna per cercare l’appoggio delle popolazioni locali; i bargusi accettarono, ma i volciani risposero sdegnosamente: «Come potete avere la sfacciataggine, Romani, di chiederci di preferire la vostra amicizia a quella dei Cartaginesi, dal momento che coloro, i quali così hanno fatto, sono stati traditi da voi, gli alleati!, più crudelmente di quanto siano stati annientati dai Cartaginesi, cioè dai nemici? Vi propongo di cercare alleati là dove nulla si sa della sventura di Sagunto; per i popoli della Spagna le rovine di Sagunto saranno un mònito tanto memorabile quanto luttuoso, a non fidarsi mai della lealtà dei Romani e dell’alleanza con essi». TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXI, 19, 9-10

Abbandonata la Spagna, da cui i romani non ricevettero più aiuto, Fabio si rivolse ai galli, che rifiutarono anch’essi: «[…]gli ambasciatori romani non ottennero parole più benevole da nessun’altra assemblea della Spagna. E così, inutilmente percorsa la Spagna, passarono in Gallia. Qui si presentò loro uno spettacolo straordinario e terribile, poiché essi vennero all’assemblea in armi, secondo l’usanza gallica. Dopo che gli ambasciatori, esaltando la gloria e il valore del popolo romano e la grandezza dell’impero, ebbero chiesto loro di non lasciar passare attraverso il loro territorio e le loro città il Cartaginese, qualora questi portasse guerra all’Italia, si levò, a quanto si racconta, una così grande risata generale con mormorii di disapprovazione, che a stento i magistrati e gli anziani poterono calmare i giovani; a tal punto sciocca e impudente pretesa sembrò il proporre che i Galli, per tener lontana la guerra dall’Italia, la tirassero addosso a sé stessi e abbandonassero al saccheggio i loro campi al posto di quelli altrui. Calmato finalmente lo strepito, fu risposto agli ambasciatori che non esistevano nei confronti dei Galli né benemerenze da parte dei Romani né offese dei Cartaginesi […]» TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXI, 19,11 – 20,5

La seconda guerra punica e la seconda dittatura. Dopo l’arrivo in Italia di Annibale e la sconfitta del Trasimeno nel 217 a.C., in quello stesso anno Massimo venne nominato dittatore. La sua scelta, a differenza dei predecessori, fu di attendere ed evitare lo scontro diretto, dove Annibale sembrava invincibile, lasciandolo libero di scorrazzare ma seguendolo sempre da vicino e stando pronto a fare piccole sortite, ma ponendo il campo in zone rialzate e impervie dove la cavalleria numida non avrebbe potuto dispiegare la sua forza. Nonostante l’opposizione la tattica si rivelò vincente e si guadagnò il sopranome di cuntactor (dice Ennio che qui cunctando restituit rem, “temporeggiando ripristinò lo stato), ossia “temporeggiatore”: «Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia [con Annibale]. […] Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio […] ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica.» POLIBIO, STORIE, III, 89, 3-4

Tuttavia le critiche verso la sua strategia restavano forti e il magister equitum Marco Minucio Rufo, alla guida dei suoi detrattori, cercarono nuovamente di tornare ad affrontare Annibale, mentre il tribuno della plebe Marco Metilio presentava una legge per dividere in parti uguali il potere tra il dittatore e il suo vice, come se fossero stati due consoli. La legge fu comunque accettata e votata dai comizi e ratificata dal senato (si ebbero così due dittatori), ma quando Rufo fu quasi ucciso da Annibale e il suo esercito in forte pericolo vennero salvati dall’intervento risolutivo di Massimo, l’ex magister equitum lasciò la sua carica lasciando di nuovo la dittatura a Fabio, che però la rimise al termine dei sei mesi di mandato. Dei due consoli che seguirono, Lucio Emilio Paolo seguì i suoi insegnamenti, mentre Gaio Terenzio Varrone, più avventato, guidò i romani nel disastro di Canne del 216 a.C. Dopo quest’ultima battaglia Fabio venne nominato pontefice (insieme a Quinto Cecilio Metello e Quinto Fulvio Flacco) e nel 215 consul suffectus, ossia sostituto, dopo la rinuncia di Marco Claudio Marcello. Fabio e l’altro console Tiberio Sempronio Gracco si divisero l’esercito: il temporeggiatore iniziò l’assedio di Capua dove Annibale, dopo aver preso la città, si dedicava ai famosi ozi. Fabio, rieletto console nel 214 a.C., continuò la guerra in Campania e riconquistò Casilinum. Nel 213 fu legato di suo figlio Quinto Fabio Massimo, eletto console. Narra Livio che: “Il padre si recò nell’accampamento a Suessula come legato del figlio. Mentre il figlio gli stava venendo incontro e i littori, per riverenza verso la dignità di lui, precedevano senza parlare, il vecchio, dopo aver già oltrepassato a cavallo undici fasci, allorché il console ordinò al littore che gli era più vicino di far attenzione e quegli gridò ad alta voce che scendesse da cavallo, soltanto allora smontando, disse: «Ho voluto, figlio, far la prova se eri ben consapevole di essere tu console.»” TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXIV, 44, 9-10

Nel 211 a.C. Annibale abbandonò Capua e si diresse verso Roma; fu allora, nel terrore generale, che venne proposto di richiamare ogni esercito per difendere l’Urbe. Massimo però stemperò la paura e fece in modo che i romani, imperterriti, continuassero l’assedio di Capua, dove i capuani erano ormai allo stremo senza l’aiuto cartaginese: «Prima che succedesse ciò, avendo scritto Fulvio Fiacco al Senato a Roma che si era saputo dai disertori che così sarebbe avvenuto, gli animi degli uomini furono variamente impressionati a seconda dell’indole di ciascuno. Come avviene in una situazione così densa d’incognite, essendosi riunito subito il Senato, P. Cornelio che aveva il soprannome di Asina, dimentico di Capua e di ogni altra circostanza intendeva richiamare a difesa della città tutti i generali e gli eserciti dall’intero territorio italiano; Fabio Massimo giudicava disonorante retrocedere da Capua e spaventarsi e farsi strapazzare in giro al cenno e alle minacce di Annibale: il quale se vincitore a Canne tuttavia non aveva osato marciare su Roma, adesso proprio lui avrebbe vagheggiato la speranza d’impadronirsi della città di Roma? Veniva non per stringere d’assedio Roma, ma per liberare Capua dall’assedio. Giove testimone dei patti infranti da Annibale e gli altri dèi avrebbero difeso Roma con quell’esercito che era presso la città. Il conciliante parere di P. Valerio Fiacco superò queste divergenze d’opinione, costui con l’occhio attento all’una e all’altra cosa ritenne che si dovesse scrivere ai generali che erano davanti a Capua quale difesa disponesse la città; essi stessi dovevano sapere quante truppe guidava Annibale o di quanta fanteria ci fosse bisogno per assediare Capua. Se uno dei due capitani e una parte dell’esercito potesse essere mandata a Roma così che Capua potesse essere regolarmente assediata dal generale che rimaneva e dall’esercito, Claudio e Fulvio decidessero di comune accordo a chi dei due toccasse assediare Capua, a quale venire per difendere dall’assedio la patria romana.» TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXVI, 8, 1-8

Nel 210 a.C., dopo una lunga diatriba tra il dittatore Quinto Fulvio Flacco e i tribuni della plebe sull’eleggibilità di quest’ultimo a console, il senato si risolse a prendere l’iniziativa e diede il via libera: fu così eletto console Flacco per la quarta volta insieme a Fabio Massimo per la quinta. A quest’ultimo, nominato anche princeps senatus, fu affidata la guerra contro Taranto e a Flacco la Lucania e il Bruzzio. Taranto venne riconquistata, sebbene la cittadella non fosse mai caduta, tanto che il governatore Marco Livio Macato vantava anni dopo la vittoria. Fabio avrebbe risposto: “tu non l’hai mai persa, io non l’ho mai riconquistata” (Plutarco, Fabio Massimo, 23). Tutte le statue degli dei furono lasciate a Taranto tranne una statua di Ercole, antenato della gens Fabia, che venne posta in Campidoglio.

Negli ultimi anni di guerra Fabio non svolse più incarichi importanti, essendo ormai anziano e messo in secondo piano dalla figura di Scipione. Morì nel 203 a.C., poco prima della vittoria di Zama e la fine delle ostilità. «Quinto Fabio Massimo, figlio di Quinto, due volte dittatore, cinque volte console, censore, due volte interrè, edile curule, due volte questore, due volte tribunus militum, pontefice, augure; durante il primo consolato sottomise i Liguri per i quali ottenne il trionfo; durante il terzo e quarto (consolato) mise un freno al bellicoso Annibale (che aveva ottenuto) tante vittorie; (fu eletto) dittatore con magister equitum Minucio, che il popolo aveva posto allo stesso livello del comando del dittatore; egli era venuto in aiuto all’esercito sconfitto e fu chiamato per nome dall’esercito di Minucio come un padre; console per la quinta volta occupò Taranto; trionfò come comandante prudentissimo della sua epoca ed espertissimo nelle questioni militari; fu eletto abitualmente princeps senatus per due lustri.» CIL XI, 1828, PROVENIENTE DA ARRETIUM

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Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Inizialmente #Caligola si comportò come un buon #imperatore ma in seguito ad una grave malattia divenne completamente pazzo. E’ possibile ricondurre la figura di Massimo Decimo Meridio a Tiberio Claudio Pompeiano, che nacque in Siria, ad Antiochia, attorno al 125. Figlio di Tiberio Claudio Quinziano, cavaliere romano; fu il primo della sua famiglia (che aveva ricevuto la cittadinanza sotto Claudio con ogni probabilità) a ottenere il rango senatorio. Divenne console suffetto nel 162, preludio al suo incarico come governatore della Pannonia Inferiore intorno al 167. Probabilmente distintosi nella guerra partica di Lucio Vero e Avidio Cassio (161-166), entrò nelle simpatie di Marco Aurelio. Mentre Pompeiano era governatore della Pannonia Inferiore (grossomodo l’Ungheria attuale), difese il limes danubiano dall’invasione di 6000 longobardi. Quando iniziarono i primi attacchi dei marcomanni (che portarono alle seguenti guerre marcomanniche), aiutò Lucio Vero e Marco Aurelio nella difesa, debilitata dalla peste antonina che imperversava (probabilmente vaiolo, portato in occidente dai distaccamenti – vexillationes – delle legioni inviate in oriente per la campagna partica).

Nel 169 Marco Aurelio decise di dargli in moglie la figlia Lucilla, precedentemente sposata con Lucio Vero, collega (sebbene in posizione inferiore) di Marco Aurelio come imperatore e recentemente ammalatosi e morto nel gennaio dello stesso anno quando i due imperatori si erano ritirati ad Aquileia per l’inverno. In tal modo Pompeiano divenne figlio adottivo di Marco Aurelio, proseguendo la tradizione del principio dell’adozione vigente nella dinastia antonina a partire da Nerva (96-98), che adottò Marco Ulpio Traiano. L’imperatore propose a Pompeiano il titolo di Cesare, che preludeva ad una sua possibile successione come imperatore, ma il siriano rifiutò. Tuttavia Pompeiano divenne comandante della guerra marcomannica insieme a un altro veterano, Pertinace (divenuto poi imperatore dopo la morte di Commodo, nel 193). I successi di Pompeiano gli fecero ottenere un secondo consolato, questa volta ordinario, nel 173. Alla morte di Marco Aurelio, nel 180, la guerra era quasi conclusa, ma #Commodo decise di stipulare la pace con i barbari e tornare a Roma. Pompeiano allora si ritirò a vita privata. Nel 21 d.C. i legionari romani si trovarono ad affrontare dei ribelli gallici guidati da Giulio Floro e Sacroviro ad Augustodunum (Autun). Tra loro moltissimi erano male armati, ma c’erano anche dei gladiatori completamente corazzati, dalla testa ai piedi, i crupellari. 

L'imperatore guerriero che restituì la gloria a Roma. Andrea Muratore il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. Aureliano fu il restauratore di Roma contro usurpatori e barbari. La sua epopea imperiale è tra le meno conosciute, ma è fondamentale per capire la storia dell'Urbe. Soldato tra i soldati, ultimo imperatore prima della divisione dei domini di Roma tra Oriente e Occidente a cercare di opporsi alle spinte centrifughe che dilaniavano la Res Publica, stratega politico di non secondario spessore Aureliano è stato uno dei più importanti eredi dei Cesari, nonostante oggigiorno la sua parabola umana e di governo sia spesso sottovalutata negli studi sull'Urbe. In questi mesi su Il Giornale abbiamo approfondito i lati più salienti della storia della Roma antica in grado di fornire lezioni e visioni al presente: abbiamo seguito Roma dal momento dell'impresa di Cesare e del suo trionfo, apripista per la trasformazione della Repubblica in impero, all'estremo tentativo di Ezio, "ultimo dei romani", di opporsi al declino irreversibile dell'Urbe a cavallo tra la prima e la seconda metà del V secolo. La rotta di Adrianopoli (378) era stata la vera cesura per Roma, facendo venire meno la sua capacità di leggere con taglio pienamente "geopolitico" il contesto internazionale. Roma ha avuto, come abbiamo visto, precursori e estremi difensori; principi illuminati e comandanti imbelli; eroi e traditori; uomini d'arme e teorici politici. Un solo comandante della storia antica romana ha potuto essere, nella sua vita, un vero e proprio restauratore. Un imperatore capace di invertire, nel breve lasso di pochi anni, una situazione che si presentava drammatica e anticipatoria di un irreversibile declino: Aureliano. Nativo di Sirmio, città della Pannonia posta nell'attuale Serbia, Lucio Domizio Aureliano (214-275) portò avanti nel corso dell'intera vita una condotta basata su un duplice presupposto: da un lato, l'irrinunciabile rigore militare, proprio di chi mirava a resistere e fare carriera nella Roma sconvolta nel III secolo dall'anarchia militare, dalla continua faida tra tribuni, comandanti e usurpatori che aveva precipitato nel caos l'Impero portando la gloria bellica delle legioni dei "figli di Marte" a trasformarsi in una dura lotta fratricida. Dall'altro, un fervente zelo religioso legato al culto del Sol Invictus, che per il futuro restauratore dell'Urbe si sostanziava in una forma di monoteismo missionario e in grado di unificare, anche come fattore amalgamante sul piano umano e politico, le varie differenti forme di politeismo sparse per la Res Publica, accomunate dalla presenza della venerazione di figure associate all'astro (Helios, El-Gabal, Mitra, Apollo). In una Roma sconvolta dalle guerre civili, da epidemie e invasioni di popoli esterni, da una crisi di sfiducia apparentemente irreversibile, in una fase in cui le legioni acquisivano centralità e potere sostituendosi al Senato come strumento di proclamazione degli imperatori Aureliano tra Oriente e Occidente dal 234 in avanti portò avanti una carriera militare che ebbe un'accelerazione nell'ora più buia dell'Impero, quella apertasi tra la caduta dell'imperatore Valeriano (260) come prigioniero dei Sasanidi e la graduale insorgenza di usurpatori nell'era del figlio Galieno, che sarebbe morto nel 268. Aureliano, tribuno militare e comandante della Legio VI Gallicana, in quegli anni si distinse per un vero e proprio dono dell'ubiquità: lo si trovava, a distanza di poche settimane, dapprima a supervisionare i rafforzamenti delle roccaforti a Bisanzio e in seguito sul Danubio o sul Reno a combattere contro i Franchi e i Goti; non trascurava, nel frattempo, la partita politica, sostenendo dopo la morte di Gallieno l'ascesa al trono del suo patrono Claudio il Gotico, alla cui morte per peste, nel 270, Aureliano si ritrovò investito dell'autortità imperiale. La storia fa gli uomini e gli uomini fanno la storia: raramente singole figure hanno la capacità di invertire il flusso caotico degli eventi. Vista retrospettivamente, l'era di Aureliano imperatore, durata soli cinque anni prima del suo assassinio, avvenuto nel 275 per un complotto ordito da uno dei suoi segretari per una vendetta privata, è una folgore nel cuore della storia della crisi del III secolo. Cinque anni di battaglie, lotte e strategie di lungo periodo assicurarono le premesse perché Diocleziano e Costantino, nei decenni successivi, rilanciassero l'assetto dell'impero. Garantendo di fatto almeno due secoli di storia alla costruzione dei Cesari. Aureliano appariva essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso. Guidando personalmente gli eserciti a marce forzate appariva in grado di tamponare ogni minaccia e di reggere la pressione di un contesto che aveva portato l'impero a subire tre minacce convergenti: sul limes renano e danubiano, le continue scorribande delle tribù barbare; a Occidente, la nascita dell'Impero delle Gallie, governato da generali e usurpatori ribelli a Roma dal 260 al 274; a Oriente, la secessione del Regno di Palmira avviata da Zenobia, vedova del Persicus Maximus Settimio Odenato, che aveva difeso le province romane dalle incursioni sasanidi dal 262 al 268 e della cui gloria riflessa la sovrana approfittava. Quella di Aureliano fu a tutti gli effetti una strategia difensiva condotta in profondità, con dinamismo e attenzione. L'imperatore accorciò le linee di difesa dell'Impero, ordinò la dolorosa evacuazione della Dacia conquistata da Traiano, riportò l'impero al di qua del Danubio, cinse con mura solida Roma e le altre maggiori città, segno di una cautela da non confondere con introversione, mosse a tutto campo le armate per ricordare a tutti i cittadini che non doveva esserci contraddizioni tra le parti della Res Publica. Il suo fu l'estremo tentativo di ricordare a tutti la necessità di mantenere coeso l'Impero, e nulla poteva supportare questa sua volontà meglio dell'ultimo periodo di volo prolungato delle aquile delle legioni. Nel 271 Aureliano schiantò a Fano, sul Metauro, gli Alemanni che avevano invaso l'Italia, distruggendone poi l'esercito nella successiva battaglia di Pavia; subito dopo, si dedicò alla soppressione della rivolta di Zenobia. Nella marcia di avvicinamento dall'Italia all'attuale Siria, batté altri due popoli barbari, Goti e Carpi che gli muovevano contro, ed attraversato il Danubio uccise il capo dei Goti, Cannabaude, per poi ordinare di fortificare le Alpi Giulie per difendere le vie d'accesso che da Pannonia e Dalmazia portavano in Italia; tra il 272 e il 273 schiacciò Zenobia e il suo regno ribelle, che aveva nel frattempo minacciato l'integrità di Roma includendo Cilicia, Siria, Mesopotamia, Cappadocia ed Egitto e mettendo a repentaglio la prosperità e la sicurezza alimentare della Res Publica. Subito dopo, fu sventata una nuova incursione dei Carpi oltre il Danubio e fu raggiunto con loro un accordo di coesistenza; precipitandosi da Oriente a Occidente Aureliano, infine, soppresse la ribellione dell'Impero delle Gallie nel 274. L'esercito di Aureliano marciava coeso di vittoria in vittoria. Tra i soldati regnava il culto unificante del Sol Invictus, dominava la certezza della vittoria e la speranza di poter, con la riunificazione dell'Urbe, porre fine a decenni di guerre e sconvolgimenti. Anticipando le mosse di Costantino sul Cristianesimo, Aureliano promosse il culto solare come forte elemento di coesione culturale e politica dell'Impero, conscio della necessità di nuovi riferimenti politici, culturali, religiosi. La sua stagione fu caratterizzata da un'inversione delle fortune declinanti di Roma che ben si riflettono nella serie di titoli concessi al generale-imperatore dal Senato: Dacicus Maximus, Gothicus Maximus, Parthicus Maximus, Palmyrenicus maximus, Adiabenicus, Parthicus maximus, Persicus maximus. In un'espressione, come sintetizzò la zecca di Lione nel conio seguito alla caduta dell'impero delle Gallie, Restitutor Orbis, il restauratore di un ordine sociale e politico che si riteneva dover durare per sempre come ordinatore del mondo conosciuto. Aureliano, visto col senno di poi, fu vincitore o sconfitto? A favore della prima idea, vi è sicuramente la continuità storica bisecolare che, pure in una fase di graduale degenerazione, l'impero visse, proseguita per un altro millennio a Costantinopoli; a favore della seconda, il fatto che la riunificazione imposta con le armi fu, di fatto, il presupposto per le future scelte di decentramento operate da Diocleziano prima e, in prospettiva, da Teodosio un secolo dopo. Certamente alla rapidità del fulmine di guerra che gli consentì di riunificare l'impero Aureliano univa la consapevolezza della necessità di trovare nuovi fattori di coesione per una costruzione millenaria. E in un certo senso uno dei suoi grandi meriti fu di seminare, col Sol Invictus, la consapevolezza che poi avrebbe raccolto il cristianesimo, diffusosi a macchia d'olio tra III e IV secolo nei territori di Roma. Un altro segno di come, tutt'altro che indirettamente, le imprese del guerriero nativo della Pannonia abbiano contribuito a plasmare anche il mondo in cui viviamo oggi.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Giulia Ronchi per Artribune.com l'11 luglio 2021. Quanto di quello che sappiamo oggi sull’imperatore romano Nerone è realmente accaduto, e quanto è leggenda? Una grande mostra al British Museum di Londra cercherà di fare chiarezza su questo personaggio controverso, attraverso nuovi esiti pervenuti dalle ultime ricerche su reperti archeologici e fonti storiografiche. “Nero: the man behind the myth", in programma dal 27 maggio al 24 ottobre 2021, indaga la storia del quinto imperatore romano, al potere per quattordici anni, attraverso più di 200 oggetti, tra manoscritti, sculture, gioielli e manufatti: un racconto che va dall’ascesa al potere e passa per tutta la sua vicenda politica, in un momento di profondo cambiamento sociale all’interno dei vasti possedimenti dell’Impero Romano. In mostra la collezione di reperti del British Museum, ma anche tanti prestiti rari provenienti da varie parti d’Europa, di cui la maggior parte sarà esposta per la prima volta in Inghilterra. Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (Anzio, 37 – Roma, 68), nato come Lucio Domizio Enobarbo, è l’ultimo discendente maschio del primo imperatore Augusto di Roma, appartenente alla dinastia giulio-claudia. Salito al potere a soli sedici anni, ha regnato nel primo periodo assieme alla madre Agrippina e con l’aiuto del filosofo Seneca; anche se il suo comportamento ebbe certamente stravaganze ed eccessi di dispotismo e violenza (fece uccidere sua madre, la sua prima moglie e presumibilmente la sua seconda moglie), gli esperti sono oggi inclini a rivedere parzialmente la figura di folle tiranno con cui è passato alla storia. Il caso più eclatante riguarda l’incendio di Roma, che si dice abbia appiccato con l’obiettivo di ricostruire la città ed edificare la propria maestosa residenza, la Domus Aurea, fatto su cui gli studiosi moderni tendono oggi a discolparlo. Alla sua morte (Nerone si suicidò a causa delle numerose ribellioni da parte di funzionari militari), la sua memoria è stata cancellata dai documenti ufficiali e il suo nome diffamato al fine di legittimare la nuova élite al potere. L’immagine del Nerone tiranno giunta fino a noi sarebbe stata quindi opera, 50 anni dopo la sua morte, degli storici Tacito e Svetonio, ulteriormente riscritta un secolo dopo da Lucio Cassio Dione. Ci troviamo, quindi, di fronte a un falso storico su cui si basa la sfida degli studiosi, a cui oggi spetta il compito di discernere la realtà dall’invenzione. «I visitatori si chiederanno, chi era Nerone? Un giovane sovrano capace di conciliare le esigenze contrastanti in un momento di grandi cambiamenti o uno spietato maniaco matricida?», spiegano dal British Museum. «Nerone conquistò un ampio consenso popolare grazie alle sue politiche, ai giochi, agli spettacoli e ai grandi progetti di costruzione, in netto contrasto con coloro che tramandarono la sua storia, dando origine all’immagine che abbiamo tutt’oggi di un tiranno pazzo». «Il Nerone del nostro immaginario è una figura completamente artificiale, costruita già 2000 anni fa. È affascinante svelare come e perché ciò è stato fatto», spiega Thorsten Opper, Curatore del dipartimento Antica Roma del British Museum. «La mostra rivela una società prospera e dinamica, ma piena di tensioni interne, scoppiata in una violenta guerra civile dopo la morte di Nerone. Gli oggetti raccontano queste storie, in modo netto e immediato». Il museo ha riaperto oggi, 17 maggio, e sarà possibile acquistare i biglietti per "Nero: the man behind the myth" dal 27 maggio (mentre già da prima si potrà prenotare l’accesso gratuito alla collezione permanente del British Museum).

Altro che incendiario: un Nerone così non l’avete mai visto. Marisa Ranieri Panetta su L'Espresso il 21 giugno 2021. Una monumentale mostra al British Museum e la riapertura dell’ala est della Domus Aurea raccontano l’altra storia dell’imperatore. A distanza di duemila anni ci si continua a interrogare sulla figura di Nerone. Esecrato dagli storici latini e greci, che hanno scritto decenni o secoli dopo, torna sulla scena per ristabilire il suo vero ruolo. Il British Museum di Londra ha infatti da poco inaugurato la mostra “Nerone: l’uomo dietro il mito”, con oltre duecento reperti conservati nello stesso museo e provenienti da varie istituzioni europee, divisi in dieci sezioni. Affreschi da Pompei, statue della famiglia e dei componenti della dinastia, gioielli, monete, rilievi, le fiamme virtuali e i suoni dell’incendio: dall’ascesa al trono fino alla morte (54-68 d.C.) raccontano Nerone all’interno di una visione politica, culturale e sociale, che restituisce verità diverse dalla vulgata storica e dai luoghi comuni. A rileggere la figura dell’ultimo imperatore giulio-claudio si era già impegnata Roma, giusto dieci anni fa, nella rassegna allestita tra Colosseo, Palatino e Foro romano. Nei luoghi dove Nerone aveva vissuto, si riconoscevano la sua complessa figura, distorta dagli storici posteriori, e le sue valenze nell’urbanistica, nell’innovazione dei linguaggi formali, nell’introduzione di strutture architettoniche private e civili, rimaste riferimento per costruzioni fino al Rinascimento.

Nerone, contrastato dall’oligarchia senatoria, amato dal popolo, non fece guerre per nuove conquiste. Inviò, con successo, i suoi esperti generali a sedare sommosse e ristabilire supremazie, e proprio in Inghilterra – nel 60 d.C. - le legioni al comando di Svetonio Paolino sconfissero l’indomita Boudicca, regina degli Iceni, che lo storico greco Cassio Dione definiva «terribile d’aspetto». A quel periodo risale un tesoretto ritrovato a Colchester (Camulodunum), presente nella mostra di Londra: monete, bracciali, anelli e orecchini d’oro, medaglie militari d’argento che i proprietari romani avevano nascosto, in un sacco, sotto il pavimento della loro casa. Come tanti altri, si erano stabiliti in Britannia dopo le conquiste dell’imperatore Claudio e Camulodonum era diventata una colonia; ma non sopravvissero agli aspri combattimenti, e la stessa Boudicca si tolse la vita per il disonore. Gli inglesi l’hanno celebrata, insieme alle due figlie, con una statua equestre a Londra, nell’estremità occidentale del ponte di Westminster, così come i francesi hanno fatto con Vercingetorige, erigendogli sculture in varie località: entrambi considerati eroi e alfieri della libertà nazionale. Ma nelle sale del British non troneggia l’antica regina, bensì un imperatore amante della bellezza, del grandioso, della spettacolarità. Si può seguire la sua vita iniziando da una statua che lo ritrae ragazzino: viso già paffutello, i capelli pettinati secondo la moda, la «bulla» - amuleto dei giovanissimi romani - che gli pende dal collo, un rotolo scritto in una mano (dal Louvre). La madre Agrippina Minore, artefice della sua salita al trono dopo l’adozione da parte dell’imperatore Claudio, appare nella mostra in una statua a figura intera (arriva dalla Centrale Montemartini di Roma) che fa trasparire la sua avvenenza e la forte personalità. Accusata di ansia di potere, è stata vittima del figlio che aveva contribuito a far salire sul trono; ma, all’epoca, chi osteggiava il monarca o minacciava di destituirlo non trovava clemenza (il cristiano Costantino non sarà da meno). L’accusa di incendiario, tra le altre che vengono attribuite a questo imperatore, è rimessa in discussione, anzi rigettata a Londra. Nerone - ne conviene la maggior parte degli storici moderni - è colui che «approfittò» delle fiamme per realizzare la sua reggia, ma pure il primo piano urbanistico della capitale con materiali ignifughi, strade più larghe, altezza ridotta degli edifici, portici di protezione agli isolati, maggiori punti di approvvigionamento idrico. Lo stesso Tacito, nettamente ostile alla figura di Nerone, non è sicuro che il grande incendio sia scoppiato dolosamente nel giugno del 64 d.C.; le fiamme si sviluppavano facilmente e continuamente a Roma per l’ossatura lignea di tanti quartieri e il fuoco che alimentava illuminazione, riscaldamento e cottura dei cibi. L’imperatore, che già aveva pensato a ingrandire il palazzo sul Palatino, lo fece incrementare? Sicuramente non era nella capitale quando si propagarono le fiamme e, arrivato di corsa, aprì i suoi giardini per accogliere i sinistrati. Comunque, sempre al dire di Tacito, i suoi provvedimenti «graditi per la loro utilità, portarono anche ornamento e decoro alla nuova città». La Domus Aurea fu realizzata su quelle macerie, inglobando proprietà imperiali e case preesistenti, su un’area di decine di ettari (circa 80), che comprendeva Esquilino e Oppio, parte del Celio, Palatino e la valle centrale, dove si scavò un lago artificiale (prosciugato da Vespasiano, vi erigerà il Colosseo). Si può avere un’idea del fasto ornamentale e della concezione architettonica della Domus neroniana nel cosiddetto Padiglione del Colle Oppio (in origine su due piani): la parte cospicua, e meglio conservata, della dimora arrivata fino a noi. Di giardini, fontane, terme, portici e materiali preziosi, di cui parla il biografo Svetonio, si sono perse le tracce; ma quanto è rimasto intatto delle strutture murarie, fa intuire la grandiosità del progetto e la ricchezza degli apparati decorativi. In concomitanza con la mostra dedicata alle grottesche e a Raffaello (vedi: “Metti Raffaello a casa di Nerone”), dal 23 giugno l’ala est del complesso, la sola percorribile nella sua interezza, si riaprirà alle visite. Con molte novità. Eliminati i ponteggi che riempivano gli ambienti, rispristinati molti affreschi, chi entrerà nel palazzo di Nerone ora potrà apprezzarne meglio il progetto e l’esecuzione. Sappiamo che tutto questo edificio, prima che l’imperatore Traiano lo chiudesse per farne il basamento delle sue terme, era inondato di luce: i raggi del sole si riflettevano sulle dorature di stucchi e affreschi, facendo risaltare i colori accesi. Per rievocare la luminosità originaria, si è appena installato un sistema di accensione a tempo, che seguirà lo spostamento dei visitatori. «Il sole sembra entrare finalmente nella Domus Aurea», dichiara Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo. «La nuova illuminazione simula la luce naturale in alcuni ambienti, come il grande Criptoportico, evidenziando murature dipinte e prospettive. Qui, la sistemazione dei punti-luce ci ha fatto scoprire anche un escamotage degli antichi architetti: le alte finestre a bocca di lupo erano di fronte ad altre poste più in basso, in modo da far filtrare il chiarore solare in vani retrostanti bui». Il primo vano che si incontra entrando dal consueto ingresso, è denominato di Polifemo. Al centro della volta a cupola, rivestita di pomici e conchiglie per simulare una grotta, compare infatti un mosaico dove Ulisse offre al ciclope una coppa di vino. Era destinato ai ricevimenti e l’acqua scendeva dall’apertura ancora visibile nella parete per raccogliersi in una vasca (evocata dal colore azzurro). Il muro dalla parte opposta non esisteva ai tempi di Nerone: come illustra un pannello, davanti agli ospiti si apriva un porticato a colonne e un giardino. Proseguendo, anche se mancano i rivestimenti marmorei, si resta colpiti dalla maestosità dell’impianto: coperture a volta alte fino a tredici metri, sale su sale, e le pitture che si stendono su soffitti, corridoi, e pareti. Tra quelli ripristinati si trova un quadretto con l’insolito soggetto di pane e carne (sembra prosciutto); ma sono le “grottesche” che hanno sbrigliato la fantasia dei decoratori, ad attirare sempre l’attenzione. «L’attività dei restauratori ha evidenziato la raffinatezza di questi affreschi», fa notare Francesca Guarneri, l’archeologa responsabile del monumento. «Grande è infatti la cura dei dettagli, non solo negli ambienti principali, ma anche nei corridoi e nei locali di passaggio, come dimostra la resa dei fiori in un vano vicino la Sala della Volta Dorata». Nel nuovo allestimento del percorso compaiono delle statue: si trovavano nei magazzini, ma provengono da questi ambienti. Nerone amava l’arte, la danza, la musica, il teatro, predilezioni che facevano inorridire l’establishment tradizionalista e nella sua reggia non poteva mancare il ciclo statuario delle Muse. Potremo così vederne alcune: Tersicore quasi integra, e un busto mutilo di Talia: accanto ad altri capolavori, rendevano le sale in successione una galleria di opere d’arte. Nei depositi è apparso pure un altro busto, che sarà esposto, riconoscibile come amazzone (un seno è nudo, l’altro è coperto). Era un soggetto caro a Nerone. Racconta Plinio il Vecchio che si portava sempre dietro il bronzetto di un’amazzone «dalle belle gambe».

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 26 maggio 2021. Nerone: l' imperatore folle che amava esibirsi in pubblico, che suonava e cantava davanti a Roma avvolta dalle fiamme. L' incestuoso tiranno e persecutore che uccise la madre, la prima moglie e forse anche la seconda. Oppure no? Secondo la mostra allestita dal 27 maggio al British Museum e intitolata Nero: the man behind the myth (L' uomo dietro al mito), questa immagine che per secoli ci è stata tramandata altro non è che il risultato di notizie false e tendenziose o, come le chiameremmo oggi, fake news. Informazioni volutamente errate o incomplete, volte ad assicurare ai posteri la damnatio memoriae cui il famigerato imperatore era stato condannato dal Senato romano. «Decenni di ricerca hanno messo in luce che questa immagine è basata su testi prodotti da storici non neutrali. Oggi disponiamo di prove che dimostrano come la popolazione fosse invece dalla sua parte. Non potremo mai ricostruire la figura completa di Nerone poiché ci è rimasta solo la letteratura contraria. Il resto è sparito. L' intento dell' esposizione è quello di rendere disponibile queste scoperte a un pubblico più ampio possibile e contemporaneamente promuovere un approccio critico all' informazione», ci spiega la curatrice Francesca Bologna. Con l'esperta italiana abbiamo ripercorso questi elementi di novità che contribuiscono se non a riabilitare la figura di Nerone, quantomeno a porci delle domande. «Per evitare di compiere lo stesso errore degli antichi dobbiamo essere onesti e riconoscere che le nozioni di cui disponiamo sono faziose. Il punto di vista del popolo, per esempio, era ben diverso da quello degli storici, membri dell' élite senatoriale». Ci sono evidenze archeologiche che lo dimostrano. Come un poema su un muro che narra dei doni fatti da Nerone al tempio di Venere a Pompei, dove il nome di imperatore che compare più di frequente è proprio il suo. Per non parlare dei tantissimi specchi con il suo ritratto. E poi abbiamo i testi: «Anche gli storici sono costretti a dire qualcosa di positivo, ogni tanto spiega l' esperta con un sorriso Tacito ci conferma che Nerone non poteva essere responsabile del celebre incendio poiché non si trovava nemmeno a Roma in quel momento (64 d.C, ndr)». Aggiunge inoltre che le nuove regole per ricostruire la città da lui introdotte avevano portato a un miglioramento dei quartieri abitativi più popolari. Duecento pezzi provenienti in gran parte dall' Italia tra cui la statua di Agrippina dei Musei capitolini, diversi oggetti dal parco archeologico del Colosseo che si riferiscono alla Domus Transitoria e Domus Aurea, affreschi da Pompei e dal museo Nazionale di Napoli, oltre all' unica statua rimasta che rappresenta Nerone in età adulta a figura intera ovvero un bronzetto proveniente da Venezia , ripercorrono la vita dell' imperatore, salito al trono all' età di soli sedici anni e morto suicida a trenta. Resta la questione femminile da chiarire: perché questi atroci omicidi? Per passione? Per vendicarsi di congiure e tradimenti? Le motivazioni politiche sarebbero le più sensate, ci spiega, ma non sapremo mai la verità. E gli storici, ancora una volta, sono responsabili di questa confusione. «Le donne in epoca giulio claudia avevano raggiunto un' influenza mai vista prima nella Roma imperiale. E per questo l' ordine senatoriale era in uno stato di costante agitazione. Queste protagoniste sono sempre descritte negativamente: incestuose, insidiose, complottiste, traditrici. A meno che non fossero dimesse casalinghe. Un po' come accade talvolta anche oggi conclude nonostante siano passati duemila anni». Un' altra storia da riscrivere o, per lo meno, da approfondire.

Alberto Angela, un pazzesco ribaltone storico: "Tutto falso". Nerone e l'incendio di Roma, quello che non vi hanno mai detto. Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. È da ieri in libreria con Harper Collins il nuovo libro di Alberto Angela L'Inferno su Roma. Il grande incendio che distrusse la città di Nerone, il secondo volume della Trilogia di Nerone nel quale viene raccontato il grande incendio che investì la Città Eterna nel 64 d.C. "La belva si è svegliata - si legge nel libro - è cresciuta, si nutre, si riproduce... e si muove in cerca di altro cibo". È lui il protagonista indiscusso di questo libro e artefice del colossale incendio che cambia per sempre Roma. Un fatto storico famosissimo e, sorpresa, falso per metà. "Al tempo di Nerone le fake news funzionavano meglio: c'è ancora chi crede che sia lui il responsabile del grande incendio che distrusse Roma", spiega il conduttore di Ulisse, ultimo (e non troppo fortunato) programma educativo di Rai1. "Nerone era ad Anzio, le fiamme scoppiarono in una delle arcate, io ho immaginato a causa della caduta di una lucerna ma non sappiamo cosa sia accaduto davvero". Quell'incendio, devastante, ha segnato il futuro di Roma e forse dello stesso Impero romano. "Questo non è un romanzo, è un libro storico e tecnico, per il quale ho chiesto la consulenza di archeologi, storici antichi, vigili del fuoco, meteorologi. Ho cercato di entrare nella mente dei romani attraverso i personaggi che appaiono nel libro". "Quando leggo un libro di storia sento la necessità che ci sia la verità, ho bisogno di conoscenza, altrimenti mi sento tradito - spiega il figlio di Piero Angela, oggi il più autorevole divulgatore della tv italiana - e per questo, nei libri ma anche nei programmi televisivi, lo stile coinvolgente è sempre nutrito dai fatti storici. Del resto studiando il passato si può scoprire se stessi e capire come interpretare la nostra epoca per indirizzarci verso il futuro". "È indubbio - conclude - quanto questo incendio abbia costituito una sorta di spartiacque, creando un prima e un dopo, con inevitabili ripercussioni anche sul presente: quello che i turisti vedono oggi a Roma è frutto diretto e indiretto dell'incendio, dopo la distruzione Nerone fece un nuovo piano regolatore e nacque una città diversa: al centro l'imperatore costruì la sua imponente Domus Aurea addirittura con un grande lago. Quando dopo Nerone arrivò Vespasiano, quest'ultimo restituì l'area alla collettività, prosciugò il lago e fece costruire il Colosseo: senza l'incendio, chissà dove sarebbe nato e quale struttura avrebbe avuto questo monumento".

Laura Larcan per il Messaggero il 26 giugno 2021. Il Colosseo come non è stato mai visto prima. Una prospettiva nuova, quasi da grandangolo, dove tutto sembra ancora più amplificato. Dal basso, da un ventre fitto di corridoi, murature, pilastri, archi e canali d' acqua, con gli occhi all'insù, a scalare a volo d' uccello la cavea fino all' attico che sfiora i cinquanta metri. È la magia dei sotterranei dell'Anfiteatro Flavio, monumento nel monumento, cuore della macchina da spettacoli più grande dell'antichità, che diventano visitabili da oggi con un nuovo percorso lungo una passerella di oltre 170 metri che si snoda come un serpente a regalare un affaccio inedito su 15 mila metri quadrati di strutture ipogee, mai viste prima. Un capitolo nuovo per il monumento icona di Roma e d' Italia scritto grazie al restauro finanziato da Diego Della Valle con il Gruppo Tod' s, seconda tappa del più vasto piano di interventi al centro della convenzione tra il Ministero della Cultura e la maison dell'imprenditore marchigiano.

IL LABIRINTO I sotterranei appaiono come un labirinto di murature, tasselli di quattrocento anni di storia. Si passa sotto archi, si accarezzano pilastri, si scoprono volte e canali pieni d'acqua. Il laterizio si alterna al tufo, alla pietra gabina (prelevata dalla città di Gabi perché ignifuga), fino al travertino. Il restauro è stata l'occasione per una revisione totale delle strutture murarie per documentare tutte le diverse fasi edilizie. Tracce di incendi, crolli, ricostruzioni. Monumento tanto famoso, il Colosseo, quanto ancora sconosciuto. I sotterranei raccontano l'altra vita del Colosseo sotto l'arena, la dimensione infernale che dobbiamo immaginare affollata di umanità al servizio dello spettacolo, segnata dal lavoro pesante degli schiavi, dall'ingresso dei gladiatori che entravano nelle viscere dell'anfiteatro attraverso il tunnel di collegamento con il Ludus Magnus (la palestra), le gabbie delle belve, i meccanismi d' azione dei montacarichi-ascensori. «Nella prima fase ce n'erano 28, poi col tempo, a seguito di crolli, incendi e ristrutturazioni ne costruirono 60», spiega Federica Rinaldi, responsabile del Colosseo. Tutto appariva alla luce di fiaccole, in spazi saturi di odori acri, fango e sudore, avvolti dalla penombra. L'attesa di chi sfidava la sorte, la fatica di chi orchestrava la magia del divertimento. Questa era la dimensione infernale del Colosseo, prologo al sangue dell'arena. Alla morte. Il grande show per il popolo che si assiepava sulle gradinate degli spalti, per la plebe confinata all'ultimo livello sotto l'attico, e per la corte imperiale seduta sul grande palco nobile.

LE TRASFORMAZIONI «I lavori sono partiti nel dicembre del 2018 grazie al sostegno di Tod's - racconta la direttrice del Parco archeologico del Colosseo Alfonsina Russo - Hanno interessato strutture che si estendono per mezzo ettaro, coinvolgendo 81 operatori per 7000 giornate lavorative nel segno della multidisciplinarietà. Gli ipogei, d'altronde - continua la Russo - seguono la storia di 400 anni dall'80 d.C., quando venne inaugurato il Colosseo, fino all'ultimo spettacolo del 523, e le trasformazioni delle murature hanno assecondato funzioni e gusti dei diversi imperatori. Tutti i dati raccolti con il restauro - conclude l'archeologa - sono stati catalogati in una piattaforma informatica e sono confluiti in un sistema digitale, strumento indispensabile ora per la manutenzione».

LE SCOPERTE Non sono mancate piccole sorprese, come alcuni graffiti di insoliti motivi floreali in una porzione di muro, ancora tutto da studiare e analizzare. Un traguardo frutto di un grande lavoro di squadra, partito sotto l'egida di Rossella Rea e preso in consegna da Federica Rinaldi, Martina Almonte, Barbara Nazzaro, Maria Bertoli, Elisa Cella, Simona Morretta, Angelica Pujia, Valentina Milano e Luciana Festa. I sotterranei vanno letti come una cittadella incorniciata da due corridoi anulari e attraversata da tunnel paralleli: un sistema che permetteva al personale di correre da un lato all' altro al servizio dell'arena.

LE APP Oggi il percorso scandito in sei tappe raccontate in App, parte dalla Porta Libitinaria (dove uscivano i morti) alla Porta Triumphalis (dove uscivano i vincitori). L'emozione è fortissima. «Quando iniziai il mio primo mandato - ricorda il Ministro della cultura Dario Franceschini - Della Valle aveva già avviato l'operazione sul Colosseo. Rimasi allibito come quel gesto, anziché un'ovazione, suscitò polemiche. Anche questo ci ha spinto ad approvare le norme dell'Art Bonus, ma il loro è vero mecenatismo e liberalità perché lo hanno fatto prima, senza godere dei nuovi sgravi fiscali. Oggi l'Art Bonus ha raccolto 500 milioni di euro - conclude il ministro - ma è ancora poco, soprattutto sono piccoli donatori, non grandi imprese». L' appello è servito. 

Storie Romane. Ave Caesar, Morituri te salutant. Durante il principato di Claudio si verificò un curioso evento, che avrebbe creato uno dei più grandi disguidi della storia. Un gruppo di gladiatori, pronti a combattere, lo salutarono “Ave Caesar! Morituri te salutant”; il saluto, casuale, viene creduto ancora come solito dai più.

L’evento. Quando Claudio fece prosciugare il lago Fucino (per ampliare le terre coltivabili in zona, decise, prima di svuotarlo, di organizzare una naumachia. Tuttavia accadde un increscioso incidente frutto di un disguido: i combattenti gridarono: “Ave imperator, morituri te salutant!“. Claudio, che era un intellettuale, rispose sottilmente: “non è detto”. Quelli che dovevano combattere capirono che erano stati graziati; si scatenò una scenetta semicomica, con l’imperatore, zoppo, che li inseguiva incitandoli a combattere. Alla fine il combattimento si svolse ma il prosciugamento del lago fu un disastro:«Inoltre, dovendo far prosciugare il lago di Fucino, prima vi fece allestire una naumachìa. Ma, poiché ai combattenti che gli dicevano: «Ave, Cesare, coloro che si accingono a morire ti salutano!», egli aveva risposto: «Non è detto!», nessuno voleva più combattere, deducendo da quella battuta di essere stato graziato. Allora egli, dopo avere esitato a lungo se farli uccidere tutti col ferro e col fuoco, alla fine balzò giù dal suo posto e corse lungo il lago, caracollando in modo alquanto ridicolo, e li spinse a combattere, vuoi con minacce, vuoi con preghiere. In questo spettacolo si affrontarono una flotta sicula e una rodiese, di dodici triremi ciascuna e il segnale di tromba fu emesso da un Tritone d’argento che, grazie ad un congegno meccanico, era emerso dal centro del lago.» SVETONIO, CLAUDIO, 21

La stessa versione è riportata da Cassio Dione in greco secondo cui avrebbero detto: “χαΐρε, αΰτοκράτορ· οί άπολούμενοί σε άσπαζόμεθα“.

« Nello stesso periodo, fu condotto a termine il taglio del monte tra il lago del Fùcino e il fiume Liri; e affinché la grandiosità dell’opera fosse vista da un gran numero di persone, fu allestita una battaglia navale nel lago. Lo stesso aveva fatto una volta Augusto, scavando uno stagno nei pressi del Tevere, ma con natanti di stazza inferiore e con minore dovizia. Claudio armò triremi, quadriremi e diciannovemila uomini e lo spazio fu cinto da zattere, a impedire fughe disordinate, lasciando tuttavia ampiezza sufficiente allo sforzo dei remi, all’abilità dei timonieri, al rapido corso delle navi e alle vicende abituali delle battaglie. Sulle zattere erano imbarcati manipoli delle coorti pretoriane e davanti a loro erano stati costruiti parapetti, dai quali potessero manovrare catapulte e balestre. Il resto del lago era occupato da marinai della flotta, su navi coperte. Le rive, i colli a guisa di teatri erano gremiti d’una folla innumerevole, affluita dai municipi dei dintorni e dalla stessa Roma, per il desiderio di assistere o per omaggio all’imperatore. Questi, che indossava uno splendido paludamento, e poco lontano Agrippina, in clamide dorata, presiedettero allo spettacolo. Il combattimento si svolse tra delinquenti, che tuttavia si batterono con animo da prodi, e solo dopo molte ferite furono esonerati dal proseguire il massacro. Ma quando terminò lo spettacolo e si aprì il canale, fu evidente la negligenza con la quale era stato eseguito il lavoro, perché il letto non era abbastanza profondo rispetto al fondo del lago. Di conseguenza, trascorso qualche tempo, gli scavi furono approfonditi e per attirare ancora una gran folla fu offerto uno spettacolo di gladiatori e furono costruiti ponti per uno scontro di fanti. Presso il punto dove scaturiva l’acqua del lago fu imbandito un banchetto, ma si sparse il terrore in tutti i presenti, perché prorompendo le acque trascinavano via tutto ciò che era dattorno, mentre sconvolgevano quel che si trovava più lontano e il fragore faceva paura. Agrippina si affrettò a sfruttare la paura di Claudio e accusò l’appaltatore dell’opera, Narcisso, di avidità e di profitto illecito. Ma quello non sopportò in silenzio le accuse e le rinfacciò la sua arroganza e le mire troppo alte.»TACITO, ANNALI, XII, 56-57 

La realtà

Di solito i gladiatori si esibivano a coppia; il loro spettacolo era il momento culminante della giornata nell’anfiteatro: alla mattina c’erano le venationes (i combattimenti tra cacciatori e belve), a mezzogiorno le esecuzioni capitali (in questo caso l’arena fungeva da piazza pubblica) e poi nel pomeriggio i combattimenti tra gladiatori. Le condanne a morte potevano essere molto fantasiose, con ad esempio un condannato che interpretava Icaro, con delle ali di cera e veniva lanciato dal punto più alto del Colosseo; si poteva anche essere condannati a combattere come gladiatori.

Avvenivano anche distribuzioni di cibo per gli spettatori che passavano dunque l’intera giornata nell’anfiteatro, distribuiti in settori differenti a seconda del censo, della classe sociale e del sesso: nel Colosseo sedevano nei posti migliori, più in basso e vicini all’arena, l’imperatore, poi i senatori, le vestali, i cavalieri e via via salendo diminuiva il rango sociale, fino ad arrivare alle donne e agli schiavi. Dunque, giunti al pomeriggio entravano in scena i gladiatori: di solito il numero di coppie, in base ai dati archeologici ed epigrafici, era compreso tra 6 e 12, ma in alcuni casi, come i giochi trionfali di Traiano, si giungeva ad ingaggiarne molti di più. Anche la durata dei munera era variabile: alcuni si concludevano in giornata, altri andavano avanti per settimane. I combattimenti in gruppo (gregatim) in genere riguardavano i condannati a morte. Questi spettacoli, oltre a seguire regole ben precise (c’era sempre un arbitro – chiamato summa rudis e un assistente- a controllare che il combattimento fosse leale e nelle regole, pronto a dividere la coppia con un bastone, più o meno come accade oggi nel pugilato – paragone ancora più calzante se si considera che i gladiatori combattevano a petto nudo), erano regolamentati anche negli armamenti: gli abbinamenti tra armaturae erano sempre gli stessi. e quattro armaturae più diffuse erano: i secutores che affrontavano i reziari e i mirmilloni contro i traci. I reziari, i più particolari in assoluto, erano muniti di una rete e un tridente: se catturavano l’avversario questo non aveva scampo; d’altro canto i secutores erano molto mobili e potevano evitare facilmente la rete. I mirmilloni erano i più corazzati, con uno scudo rettangolare e un pesante elmo che però rendeva difficoltosa la vista; i traci avevano la tipica spada ricurva in punta. L’elmo del secutor era simile a quello del mirmillone, ma era sferico e liscio, per far scivolare la rete e non farla rimanere impigliata. C’erano anche altri tipi di gladiatori, meno diffusi ma non per questo meno particolari: l’oplomaco combatteva come un oplita greco, con scudo rotondo e lancia, e generalmente combatteva con il mirmillone. Il provocator aveva un equipaggiamento simile al mirmillone, ma aveva uno scudo più piccolo e una placca di protezione sul torace. C’erano poi i cavalieri (equites) e gli essedarii (soldati dal carro), ma entrambi combattevano a piedi: i primi con uno scudo tondo, elmo, un pugnale e una tunica (unici gladiatori ad averla); gli essedarii pugnale, scudo ovale ed elmo con paraguance. Provocator, equites e essedarii combattevano in modo simmetrico: sempre contro la loro stessa armatura. C’era poi il bimachairos (o arbelas), che aveva un’arma offensiva per ogni mano e combatteva generalmente contro il reziario. In epoca repubblicana sono menzionati anche il sannita e il gallo, di cui però non si conosce con esattezza l’equipaggiamento. Gli abbinamenti potevano tuttavia variare: il mirmillone poteva anche combattere col secutor, ad esempio. La lunghezza e la grandezza dell’equipaggiamento inoltre non era standardizzata, come di norma nel mondo antico. Infine, era possibile che ci fossero dei gladiatori scaeva, ossia mancini (cosa impossibile nell’esercito), particolarmente apprezzati da Commodo. All’inizio del munus si distribuivano tra il pubblico i cosiddetti libelli, degli opuscoli sui gladiatori che sarebbero scesi nell’arena. Prima di ogni combattimento i duellanti venivano presentati per nome e categoria di appartenenza, origini e carriera agonistica. Inoltre si cercava di far combattere gladiatori con la stessa forza e esperienza per rendere il combattimento equilibrato. Dopo aver verificato che l’equipaggiamento fosse a posto, i gladiatori indossavano l’elmo, le fanfare squillavano e e gli arbitri davano il via al combattimento. A seconda della categoria ci si muoveva più o meno (il trace e il secutor erano più agili), ma comunque i colpi dovevano essere pochi e precisi, sia perché si rischiava di stancarsi presto sia perché ci si poteva esporre troppo. Non esistevano tempi prestabiliti o pause: era l’arbitro a decidere quando e se queste dovevano avvenire. Inoltre sappiamo che potevano dividere i due lottatori e far riprendere il combattimento ma non sappiamo in basi a quali regole. L’esito prevedeva quattro possibilità: pareggio (stantes missi), morte di uno dei due contendenti, oppure uno dei due chiedeva la resa e poteva essere o ucciso o risparmiato. Il primo esito era il più raro, tuttavia non impossibile: durante l’inaugurazione del Colosseo nell’ 80 d.C. due gladiatori combatterono così a lungo che alla fine chiesero entrambi la resa, nello stesso momento, ottenendola. Generalmente il combattimento, però, si concludeva con la richiesta di resa all’arbitro di uno dei due gladiatori; i motivi potevano essere i più disparati, forse erano feriti, stanchi, disarmati etc. L’organizzatore (e nel caso del Colosseo l’imperatore) doveva decidere, mentre il pubblico chiedeva di graziare o uccidere il gladiatore arreso che, se aveva combattuto bene, di solito otteneva di aver salva la vita. In caso contrario il vincente uccideva il perdente, di solito con un colpo diretto al cuore. In base ai dati archeologici ed epigrafici sappiamo che nel I secolo l’80% degli incontri terminava con la grazia per il perdente, percentuale che diminuì drasticamente nel III secolo, diventando grossomodo la metà. A partire da Augusto furono comunque vietati i combattimenti sine missio, ossia all’ultimo sangue. E’ possibile, infine, che le armi non fossero appuntite ma solo affilate, per evitare una fine rapida dello scontro: in alcuni casi si fa riferimento infatti a dei permessi per usare armi “appuntite”.

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STORIE ROMANE. I soldati dell’Urbe.

Nel corso del tempo il confine sacro della res publica venne esteso dalla città di Roma fino al fiume Rubicone, al tempo di Silla. Era tradizione che solo chi espandesse i confini dello stato potesse ampliarlo. Di conseguenza, essendo un limite invalicabile, nessuno poteva varcarlo in armi pena l’infrangere delle regole umane e divine.

Dopo la fine della repubblica e l’instaurazione del Principato, Augusto si dotò di nove coorti di pretoriani, distribuite però in varie città d’Italia. A Roma stavano le soli coorte urbane e i vigiles, creati dall’imperatore. Fu Tiberio il primo a stabilire in modo permanente delle truppe a lui fedele nei pressi dell’Urbe, accorpando le nove coorti di pretoriani ed stabilendole nei castra praetoria. 

I castra praetoria: i pretoriani

«In tutta Italia Tiberio dispose qua e là distaccamenti militari più numerosi di prima. A Roma costituì una caserma in cui venissero alloggiate le coorti pretoriane, che fino a quel momento non avevano sede fissa ed erano sparse qua e là in diversi alloggiamenti.» SVETONIO, TIBERIO, 37

I pretoriani erano un corpo scelto, nato sotto la repubblica e arruolato saltuariamente dal comandante di turno tra i soldati che componevano le legioni che lo seguivano, specialmente a partire dal III secolo a.C. Cesare utilizzò la legio Decima come sua fedele, alla stregua di guardia pretoriana, mentre Augusto le diede la sua struttura definitiva di nove coorti. Tiberio le spostò, dietro consiglio del prefetto al pretorio Seiano, nei nuovi castra praetoria tra il Viminale e l’Esquilino. Le coorti erano comandate da due prefetti al pretorio e ogni coorte aveva al comando un tribuno (mentre nelle legioni un tribuno comandava forse due coorti). Il numero di nove coorti era significativo poiché significava poco meno di una legione, dando l’apparenza che non ci fossero truppe in Italia. Sotto la dinastia giulio-claudia la prefettura al pretorio divenne l’apice della carriera equestre, divenendo poi nei secoli una delle figure più importanti in assoluto. I pretoriani inoltre, in onore di Tiberio, ottennero il simbolo dello scorpione (suo segno zodiacale). La loro paga era superiore a quella della legione, avevano una ferma di soli 16 anni (contro i 20 dei legionari) e, perlomeno nei primi due secoli dopo Cristo, raramente si allontanavano da Roma (mentre nel III secolo divennero truppe che seguivano l’imperatore). La paga era stata fissata da Augusto a 750 denari annui, il triplo delle legioni. Con Domiziano era arrivata a 1.000, per salire a 1.500 con Settimio Severo e 2.500 con Caracalla, senza contare i numerosi donativi che ricevevano saltuariamente e all’elezione di un nuovo principe (emblematica è la vendita della porpora a Didio Giuliano): «Non c’era rimedio se non entrare nell’esercito a condizioni ben chiare: che ciascuno prendesse un denario al giorno, che il servizio avesse termine dopo sedici anni e non si fosse tenuti sotto le armi ancora, ma esser pagati sùbito, al campo. Le coorti dei pretoriani percepivano due denari a testa e dopo sedici anni se ne tornavano a casa; affrontavano forse pericoli più gravi? lunge da lui denigrare le milizie urbane, ma erano loro a vivere accanto a genti feroci e dalle tende si scorgeva il nemico.» TACITO, ANNALI, I, 17

Le coorti vennero sciolte e riformate a più riprese: il primo fu Vespasiano nel turbolento anno dei quattro imperatori, seguito poi da Settimio Severo, che le sciolse con infamia per aver venduto la porpora a Didio Giuliano e riformandole (con effettivi doppi, ovvero coorti di 1.000 e non 500 uomini) con elementi pannonici a lui fedeli: infatti a partire dal III secolo declinò anche in questo reparto la componente italica scemò progressivamente fino a scomparire. Anche il numero di coorti variò: Vitellio che le aveva portate a 1.000 uomini, ne aveva formate 10; Vespasiano le riportò a nove di 500 uomini, per poi tornare definitivamente dieci da Domiziano. I pretoriani vennero infine sciolti da Costantino dopo la vittoria di Ponte Milvio, rei di aver appoggiato Massenzio e di aver combattuto per lui all’ultimo sangue.

Le coorti urbane e i vigiles

Augusto decise anche di riorganizzare la città di Roma, dividendola in quattordici quartieri. Ogni due c’era una coorte di vigili, per un totale di 7. Questo era un nuovo corpo organizzato dal princeps per mantenere l’ordine pubblico. Arruolati perlopiù tra liberti, non erano armati. Ogni coorte aveva sette centurie e il loro comandante era un praefectus vigilium: «Augusto suddivise l’area della città in quartieri e rioni, e stabilì che agli uni sovrintendessero magistrati annuali estratti a sorte, agli altri dei commissari scelti tra la plebe della zona. Contro gli incendi escogitò guardie notturne e vigili; per far fronte alle inondazioni del Tevere, fece allargare e ripulire il letto del fiume, ormai intasato da detriti e ristretto dall’estensione degli edifici.» SVETONIO, AUGUSTO, 30

Molti degli strumenti che avevano i vigili erano infatti adatti più a domare gli incendi, abbattendo spesso gli edifici, come lampade, secchi, scope, siphones (una sorta di idranti in cuoio), asce, ramponi, zappe, seghe, pertiche, scale e corde, centones (coperte bagnate). Oltre ai vigiles stazionavano a Roma anche tre coorti urbane, l’unico corpo che restava sotto il controllo diretto del senato, essendo comandante dal prefetto dell’Urbe. Alla morte di Caligola il senato tuttavia non riuscì a ripristinare la repubblica poiché i pretoriani, maggiori in numero, avevano già acclamato Claudio imperatore: «Infatti i consoli avevano occupato il foro e il Campidoglio insieme al Senato e alle coorti urbane, con l’intenzione di reinstaurare la libertà repubblicana. Claudio, convocato in Senato dai tribuni della plebe per esprimere il suo parere, rispose che «era impedito da cause di forza maggiore». Il giorno seguente, però, poiché il Senato era troppo lento nel perseguire i suoi intenti, vuoi per stanchezza, vuoi per dissensi interni, e la folla d’intorno chiedeva insistentemente che le venisse dato un governatore unico e faceva proprio il suo nome, [Claudio] consentì che l’esercito, riunito in assemblea, gli prestasse giuramento. Promise a ciascuno quindicimila sesterzi e fu il primo tra i Cesari a comprare la fedeltà dell’esercito.» SVETONIO, CLAUDIO, 10

Inizialmente forse anch’esse erano nei castra praetoria, ma successivamente, da Settimio Severo, vennero spostate in una caserma separata nella VII regio Augustea, la Via Lata, attorno l’attuale Piazza di Spagna.

I germani corporis custodes e gli equites singulares

A dispetto di quanto di possa credere, la guardia principale dell’imperatore era formata dai germani corporis custodes, in numero di circa 2.000, reclutati tra i germani e fedeli direttamente alla persona dell’imperatore. Già Cesare aveva cominciato questa moda, che divenne la norma durante l’impero; Nerone sdoppiò perfino questa guardia, donando una parte degli effettivi alla madre, mentre Svetonio narra che Caligola per primo reclutò alcuni traci: «Mal sopportava la madre che disapprovava e rimproverava con molta severità quanto egli facesse o dicesse, e in un primo tempo cercò di renderla impopolare, mostrando per finta l’intenzione di abdicare al comando e di ritirarsi a Rodi, poi la privò di tutti gli onori, di ogni potere, le tolse la scorta personale di soldati germanici e la fece allontanare dalla sua presenza e poi anche dalla reggia.» SVETONIO, NERONE, 34 

Con la fine della dinastia giulio-claudia la guardia fu sciolta, venendo poi riformata all’epoca da Traiano nel corpo regolare degli equites singulares, reclutati tra i migliori cavalieri dei reparti ausiliari. Truppe ufficiali e speciali a tutti gli effetti, nonché guardie dell’imperatore, seguirono l’imperatore ispanico durante le guerre daciche. Stazionavano in due caserme, una sul Celio, rinvenuta a fine Ottocento, mentre la seconda caserma, costruita al tempo di Settimio Severo in Laterano, fu usata da fondamenta per la basilica di San Giovanni in Laterano dopo che Constantino sciolse sia questo corpo che i pretoriani.

Castra peregrina e misenatium

Ultimi ma non ultimi erano i castra peregrina e i castra misenatium. Quest’ultimo ospitava i marinai di stanza a Miseno e distaccati a Roma per azionare il velario del Colosseo. Nei castra peregrina, situati sul Celio, nei pressi della Basilica di Santo Stefano Rotondo, probabilmente ospitavano i servizi segreti dell’impero, ovvero speculatores (esploratori o addetti allo spionaggio) e frumentarii (corrieri o polizia segreta). Quest’ultimi da Adriano erano diventati veri e propri agenti segreti e polizia segreta, che osservavano di nascosto la vita civile per conto dell’imperatore. Erano comandati dal princeps peregrinorum, attestato da evidenze epigrafiche. Infine recentemente è stato trovato presso lo scavo della stazione Amba Aradam-Ipponio un castrum della prima metà del II secolo, forse di Adriano, provvisto di pavimenti a mosaico e pareti affrescati, oltre tubature in piombo. Non è chiaro ancora l’utilizzo del castrum sebbene l’archeologa Rossella Rea abbia ipotizzato che ospitasse i servizi segreti, quali speculatores e frumentarii.

La legio II Parthica

Infine Settimio Severo reclutò tre nuove legioni, di cui una, la legio II Parthica, venne stanziata vicino Roma, nei castra Albana. Sebbene questa legione spesso seguisse l’imperatore nelle sue campagne, aumentò ulteriormente il peso delle truppe di stanza nei pressi dell’Urbe, che complice il raddoppio degli effettivi dei pretoriani raggiunse al tempo dei Severi numeri mai visti prima di allora: non solo per la prima volta una legione era vicino Roma, ma l’imperatore disponeva di un vero e proprio esercito personale a sua disposizione.

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I crupellarii. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Nel 21 d.C. i legionari romani si trovarono ad affrontare dei ribelli gallici guidati da Giulio Floro e Sacroviro ad Augustodunum (Autun). Tra loro moltissimi erano male armati, ma c’erano anche dei gladiatori completamente corazzati, dalla testa ai piedi, i crupellari: «Vi aggregarono gli schiavi destinati al mestiere di gladiatore, che avevano, secondo la pratica di quella gente, un’armatura completa: li chiamano «Crupellarii», poco adatti a menar colpi, ma impenetrabili a quelli degli avversari.[…] Un po’ di resistenza opposero gli uomini catafratti di ferro, poiché le corazze reggevano ai colpi di lancia e di spada; ma i soldati, impugnati scuri e picconi, come per sfondare una muraglia, facevano a pezzi armature e corpi; alcuni con pertiche e forche abbattevano quelle masse inerti che, prostrate a terra, incapaci d’un minimo sforzo per rialzarsi, erano abbandonate lì come morte.» (Tacito, Annali, III, 43-46)

I gladiatori. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  L’amore dei romani per i gladiatori (il cui nome deriva dalla parola gladius, la spada romana: “portatori di gladio”) divenne viscerale fin dal II secolo a.C., tanto che il poeta Terenzio nel 160 a.C. si vide il pubblico abbandonare la sua commedia Hecyra (“La Suocera”) perché si era sparsa la voce che nei pressi si teneva uno scontro di gladiatori. L’importanza di questi “giochi” (munera) è testimoniata anche dalle molte testimonianze di autori contemporanei nel corso dei secoli, come Cicerone, Orazio, Tito Livio, Seneca, Marziale, Tertulliano e Agostino d’Ippona, a denotare la trasversalità e la continuità di questa usanza. Celebre è anche la ribellione del gladiatore Spartaco, che fu tra gli episodi più traumatici del I secolo a.C. per la repubblica romana e di sicuro la più grande rivolta schiavista di epoca romana. Gli spettacoli si dividevano in ludi scaenici (teatrali) e ludi circenses (corse di carri), dedicati alle divinità, in date prestabilite; i giochi gladiatori invece erano munera, che in latino significa dovere: era uno spettacolo dovuto da un magistrato o da un privato (editor) al popolo e non in onore degli dei. I gladiatori, che erano schiavi (anche cittadini liberi si potevano dare per un certo periodo in schiavitù), prigionieri di guerra, condannati etc. si addestravano nelle scuole gladiatorie in tutto l’impero, gestite dai lanistae, la cui professione veniva considerata altamente infamante. Sotto Adriano si vietò anche di vendere schiavi a un lanista a meno che non si fossero macchiati di qualche reato.Questi munera, oltre a seguire regole ben precise (c’era sempre un arbitro – chiamato summa rudis e un assistente- a controllare che il combattimento fosse leale e nelle regole, pronto a dividere la coppia con un bastone, più o meno come accade oggi nel pugilato – paragone ancora più calzante se si considera che i gladiatori combattevano a petto nudo), erano regolamentati anche negli armamenti: gli abbinamenti tra armaturae erano sempre gli stessi. Le quattro armaturae più diffuse erano: i secutores che affrontavano i reziari e i mirmilloni contro i traci. I reziari, i più particolari in assoluto, erano muniti di una rete e un tridente: se catturavano l’avversario questo non aveva scampo; d’altro canto i secutores erano molto mobili e potevano evitare facilmente la rete. I mirmilloni erano i più corazzati, con uno scudo rettangolare e un pesante elmo che però rendeva difficoltosa la vista; i traci avevano la tipica spada ricurva in punta. L’elmo del secutor era simile a quello del mirmillone, ma era sferico e liscio, per far scivolare la rete e non farla rimanere impigliata. C’erano anche altri tipi di gladiatori, meno diffusi ma non per questo meno particolari: l’oplomaco combatteva come un oplita greco, con scudo rotondo e lancia, e generalmente combatteva con il mirmillone. Il provocator aveva un equipaggiamento simile al mirmillone, ma aveva uno scudo più piccolo e una placca di protezione sul torace. C’erano poi i cavalieri (equites) e gli essedarii (soldati dal carro), ma entrambi combattevano a piedi: i primi con uno scudo tondo, elmo, un pugnale e una tunica (unici gladiatori ad averla); gli essedarii pugnale, scudo ovale ed elmo con paraguance. Provocator, equites e essedarii combattevano in modo simmetrico: sempre contro la loro stessa armatura. Infine faceva la sua comparsa nell’arena il bimachairos (o arbelas), che aveva un’arma offensiva per ogni mano e combatteva generalmente contro il reziario. In epoca repubblicana sono menzionati anche il sannita e il gallo, di cui però non si conosce con esattezza l’equipaggiamento. Gli abbinamenti potevano tuttavia variare: il mirmillone poteva anche combattere col secutor, ad esempio. La lunghezza e la grandezza dell’equipaggiamento inoltre non era standardizzata, come di norma nel mondo antico. Infine, era possibile che ci fossero dei gladiatori scaeva, ossia mancini (cosa impossibile nell’esercito), particolarmente apprezzati da Commodo.

La ribellione. Nel 21 d.C. in Gallia, sotto il principato di Tiberio, scoppiò una violenta sollevazione contro le tasse da pagare (l’imperatore era noto tra l’altro per la sua avarizia), sotto la guida dei romano-galli, di cittadinanza recente, Giulio Floro e Giulio Sacroviro (il nome Giulio indicava una cittadinanza acquisita ai tempi di Cesare o Augusto; infatti i loro antenati l’avevano ottenuta come premio per la fedeltà a Roma), il primo capo dei Treviri e il secondo degli Edui. Entrambi fomentavano il popolo gallico contro le tasse romane, la crudeltà del governo romano, facendo leva su un sentimento ricorrente nella storia romana e non. Inoltre, poiché era appena morto Germanico, molto amato in Gallia, esacerbavano ulteriormente i moti di rivolta ricordandone la grandezza. Propugnavano dunque di recuperare la libertà perduta: in poco tempo molti li seguirono nei moti di rivolta. I turoni furono sconfitti da una legione inviata da Visellio Varrone, legato della Germania inferiore; quest’ultimo insieme a Gaio Silio mise insieme un esercito e affrontò i rivoltosi ad Augustudunum (Autun). Silio spazzò via i ribelli, male armati. Tuttavia la sorte non fu felice con lui, poiché nel 24, rientrato a Roma, si suicidò dopo le accuse ricevute (e prima del processo) di essere stato un partigiano dei rivoltosi; infatti purtroppo era stato un partigiano dell’ormai caduto in disgrazia Germanico (sua moglie Sosia Gallia era stretta amica di Agrippina maggiore, moglie di Germanico). Sacroviro invece si suicidò: “(21. d.C.) Quello stesso anno le città della Gallia, per l’entità dei debiti contratti, tentarono una rivolta, i cui promotori più indomiti furono Giulio Floro dei Treviri e Giulio Sacroviro degli Edui. Erano ambedue di nobile stirpe e per la fedeltà mostrata dai loro antenati dotati della cittadinanza romana, all’epoca in cui la si concedeva di rado e soltanto come premio al valore. In conciliaboli segreti, adunarono i più fieri o quelli che per povertà o per paura si trovavano nella situazione di dover delinquere; si accordarono di sollevare Floro i Belgi, Sacroviro i Galli più vicini. Sia per mezzo di incontri privati sia di adunanze, parlavano della necessità di ribellarsi per l’infierire delle imposte, l’alto prezzo dell’usura, la crudeltà e l’arroganza dei governatori; affermavano che tra le truppe, da quando avevano appreso la morte di Germanico, serpeggiava il malcontento; che era il momento opportuno per recuperare la libertà, se si considerava che il loro paese era florido mentre l’Italia era povera, imbelle la plebe dell’Urbe e solo valido nell’esercito il nerbo straniero. Quasi non vi fu città che rimanesse indenne da quei germi di rivolta; i primi a insorgere furono gli Andecavi, poi i Turoni, ma vennero domati dal legato Acilio Aviola, che fece venire una coorte da Lione, dove si trovava il presidio. I Turoni furono battuti da una legione mandata da Visellio Varrone, legato della Germania Inferiore, al comando dello stesso Aviola e di alcuni primati Galli, i quali prestarono aiuto al fine di nascondere la propria defezione e dichiararla in seguito. Persino Sacroviro si fece vedere a capo scoperto incitare a combattere a favore dei Romani, per dar prova, diceva, del suo valore. I prigionieri, però, riferirono che s’era esposto per farsi riconoscere e non esser colpito dai dardi. Tiberio, consultato su questo fatto, non si curò dell’accusa; e la sua indecisione alimentò la guerra. Frattanto Floro persisteva nei suoi progetti e incitava un’ala di cavalleria, formata di reclute arruolate a Treviri e addestrate secondo la nostra disciplina, a massacrare i mercanti romani e dar inizio alla guerra. Pochi cavalieri furono corrotti, la maggior parte però rimase al suo posto. La massa degli indebitati e dei clienti invece prese le armi e cercava di portarsi sulle alture chiamate Ardenne, quando le legioni appartenenti ai due eserciti, che Visellio e C. Silio avevano fatto avanzare da sentieri opposti, li fermarono. Quella moltitudine disordinata fu dispersa da Giulio Indo che fu mandato avanti con un corpo scelto; era della stessa città di Floro ma contrario a lui e per questo più bramoso di dimostrare le sue capacità. Floro sfuggì ai vincitori nascondendosi in luoghi segreti, ma quando s’accorse che i soldati erano appostati davanti a tutte le uscite, si uccise. E fu la fine della rivolta dei Treviri. La ribellione degli Edui fu più grave, poiché la popolazione era più ricca e il presidio in grado di soffocarla si trovava più lontano. Sacroviro aveva occupato la capitale Augustodunum con coorti armate, per aggregare i figli delle famiglie più nobili delle Gallie, che risiedevano nella città per compiere gli studi e per mezzo di essi, tenuti come ostaggi, assicurarsi l’appoggio dei genitori e dei parenti; subito distribuì ai giovani armi fabbricate segretamente. Erano quarantamila, la quinta parte dei quali armata come i nostri legionari, gli altri con spiedi e coltelli e con le frecce usate dai cacciatori. Si aggregarono a loro schiavi destinati a diventare gladiatori, tutti coperti di ferro, come usa da loro. Li chiamano grupellari e non sono molto abili nel colpire, ma invulnerabili ai colpi. Queste forze erano avvantaggiate dal consenso non ancora esplicito delle città vicine e dall’aperta simpatia dei singoli, nonché dalla discordia dei comandanti romani, tra i quali si disputava su chi avrebbe comandato le operazioni. Finì che Varrone, invalido per l’età, cedette il comando a Silio, che era nel fiore degli anni. A Roma intanto correva voce che non soltanto gli Edui e i Treviri ma sessantaquattro città galliche s’erano liberate, che avevano indotto i Germani a unirsi a loro, che le Spagne erano infide, tutte notizie che, come sempre avviene, venivano credute più gravi del vero. I migliori si affliggevano per amore della repubblica, molti invece per insofferenza del presente e desiderio di cambiamenti si rallegravano, anche se ne andava della loro sicurezza; e se la prendevano con Tiberio, il quale, in simili frangenti, consumava le sue energie a leggere le denunce degli accusatori. Che forse anche Sacroviro sarebbe stato denunciato al Senato per il reato di lesa maestà? esistevano finalmente uomini che sapevano fermare con le armi quelle lettere sanguinarie. Una pace così miserabile tanto valeva cambiarla, fosse pure con una guerra. Tiberio con tanto maggiore impegno si mostrava imperturbabile, non cambiava la sua residenza né appariva preoccupato, e in quei giorni si comportò come il solito o per grandezza d’animo o perché era in possesso di notizie sicure che la situazione era tollerabile e meno grave di quanto si diceva. Intanto Silio mosse alla testa di due legioni, precedute da una schiera di ausiliari; devastò i villaggi dei Sequani, che si trovavano al confine ultimo del territorio, attigui agli Edui e loro alleati in armi. Poi si diresse su Augustodunum a marce rapide, con i signiferi in gara tra di loro; e anche i soldati semplici, frementi d’impazienza, rifiutavano il riposo consueto e le soste notturne: che guardassero in faccia i nemici e fossero visti da loro, era sufficiente per vincere. A dodici miglia dalla città, apparve con le sue truppe Sacroviro in campo aperto. Aveva collocato all’avanguardia gli uomini coperti di ferro, ai lati le coorti, alla retroguardia quelli semi inermi. Egli, in mezzo ai capi, avanzava su uno splendido cavallo, rammentava le antiche glorie dei Galli e tutte le sconfitte che avevano inflitte ai Romani; quanto sarebbe stata onorevole la libertà ai vincitori, e intollerabile ai vinti subire per la seconda volta la schiavitù. Ma non parlò a lungo né a uomini di buon animo; poiché si avvicinavano le legioni in formazione di battaglia e quei cittadini raccogliticci, inesperti di guerra, non avevano più né occhi per guardare né orecchie per ascoltare. Silio al contrario, benché la speranza che si era ripromessa lo dispensasse dall’incitare i suoi, tuttavia andava gridando che era vergognoso per loro, che avevano sconfitto i Germani, marciare ora contro i Galli come se si fosse trattato di veri nemici. Recentemente una sola coorte è stata sufficiente per vincere i ribelli Turoni, un’ala per i Treviri, e poche squadre di questo stesso esercito hanno sbaragliato i Sequani. Ora sconfiggete gli Edui, quanto più ricchi e avvezzi a gozzovigliare, tanto più imbelli, e risparmiate quelli che scappano. A queste parole si levò un grido altissimo, la cavalleria accerchiò il nemico, la fanteria lo aggredì frontalmente e ai fianchi non vi fu resistenza. Gli uomini vestiti di ferro procurarono qualche indugio, perché coperti di lastre resistevano alle aste e alle spade; ma i soldati impugnarono scuri e picconi, quasi dovessero abbattere un muro e così spaccarono corazze e corpi, altri con pertiche e forconi gettavano a terra quelle moli inerti; e li lasciavano lì distesi, come cadaveri, senza che facessero il minimo sforzo per alzarsi. Sacroviro prima si rifugiò ad Augustodunum, poi, temendo la resa della città, si diresse verso una fattoria non lontana, con pochi fedelissimi. Qui si tolse la vita e gli altri si uccisero a vicenda; la casa, incendiata dal tetto, fu il loro rogo. Allora finalmente Tiberio comunicò al Senato per lettera che la guerra era incominciata e conclusa. Non tolse né aggiunse nulla alla verità, ma disse che la vittoria si doveva al merito dei legati, fedeli e valorosi, e alle sue direttive. Spiegò poi per quale ragione non si erano recati sul posto delle operazioni né lui né Druso; magnificò la grandezza dell’impero, tale che non sarebbe stato dignitoso per i principi partire per la sollevazione di uno o due popoli e lasciare la città dalla quale si dipartiva il governo del mondo. Ora che non si poteva attribuire a paura, sarebbe partito per controllare personalmente la situazione e ristabilire l’ordine. I senatori decretarono voti per il suo ritorno, rendimenti di grazie ed altre cerimonie. Solo Cornelio Dolabella, per superare gli altri, si spinse a un’adulazione forsennata: propose che, al ritorno di Tiberio dalla Campania, fosse accolto con l’ovazione. Arrivò subito una seconda lettera di Cesare nella quale dichiarava che, dopo aver soggiogato in gioventù genti ferocissime e aver accettato e rifiutato tanti trionfi, non si riteneva così sprovvisto di gloria da aver bisogno, ora che era vecchio, del futile premio d’una passeggiata nei dintorni di Roma.” TACITO, ANNALI, III, 40-47

"La città e l'impero. Una storia del mondo romano dalle origini a Teodosio il Grande", di Giovanni Alberto Cecconi ed edito da Carocci editore , indaga la storia di Roma sotto molteplici aspetti. «Una storia generale che tratta da una molteplicità di prospettive la complessa e millenaria vicenda della città di Roma e dell’impero da essa fondato. Vi sono messi a fuoco e in interazione reciproca eventi e processi sociali, prassi politica e ideologia del potere, dinamiche religiose, rapporti tra governo centrale, province e città. Questa nuova edizione, ampiamente riveduta, tiene conto delle scoperte di nuovi importanti documenti e degli sviluppi del dibattito storiografico.»

Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Nella battaglia del fiume Sabis del 57 a.C. contro i Nervii i romani erano sul punto di soccombere, accerchiati e pressati da più parti. Fu lo stesso Cesare, vista la morte di quasi tutti gli ufficiali a farsi strada tra i manipoli e riorganizzarli portandosi in prima linea: «Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.» (Cesare, De bello Gallico, II, 25-26)

Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  «Silla soggiornava lungo l'Eufrate, quando venne a trovarlo un certo Orobazo, un parto, quale ambasciatore del re degli Arsacidi. In passato non c'erano mai stati rapporti di sorta tra i due popoli. Tra le grandi fortune toccate a Silla, va ricordata anche questa. Egli fu infatti il primo romano che i Parti incontrarono, chiedendo alleanza e amicizia. In questa occasione si racconta che Silla fece disporre tre sgabelli, uno per Ariobarzane I, uno per Orobazo e uno per sé, e li ricevette mettendosi al centro tra i due. Di questa situazione alcuni lodano Silla, perché ebbe un contegno fiero di fronte a due barbari, altri lo accusano di impudenza e vanità oltre misura. Il re dei Parti, da parte sua, mise poi a morte Orobazo.» (Plutarco, Vita di Silla, 5) «I soldati di Antonio, anche una volta privati del loro capo, si ostinarono a combattere a lungo da valorosi e, disperando della vittoria, si lottava ormai per la morte. #Ottaviano #Cesare, desideroso di accattivarsi con le parole chi poteva togliere di mezzo col ferro, gridando in continuazione e mostrando che Antonio era fuggito chiedeva per chi e con chi combattessero. Ma quelli, avendo combattuto a lungo con un comandante assente, abbassate sommessi le armi cedettero la vittoria, e Ottaviano Cesare promise vita e perdono ancor prima che pensassero ad implorarli; fu evidente che i soldati fecero la parte di un valorosissimo comandante, i il comandante quella di un codardissimo soldato, al punto che potresti domandarti se avrebbe moderato la vittoria a suo piacimento o ad arbitrio di Cleopatra poiché si volse in fuga dietro una decisione di lei.» (Velleio Patercolo, storia romana II, 85) Il 2 agosto 31 a.C. vincendo ad Azio Ottaviano diventava il padrone assoluto di Roma. "Vinta dunque la Germania, inviò a #Roma, sia al senato sia al popolo, una lettera da lui personalmente dettata, che suonava così: «Non possiamo, o senatori, descrivere a parole tutto ciò che è stato da noi compiuto. Per uno spazio di quaranta o cinquanta [quattrocento o cinquecento] miglia abbiamo incendiato i villaggi dei Germani, abbiamo portato via il loro bestiame, abbiamo catturato prigionieri, abbiamo ucciso soldati, abbiamo combattuto in palude. Saremmo arrivati alle selve, se la profondità delle paludi non ci avesse impedito il passaggio»." (HISTORIA AUGUSTA, MASSIMINO, 12, 1-11) « Quintilio Varo si mostrò più coraggioso nell’uccidersi che nel combattere […] e si trafisse con la spada » VELLEIO PATERCOLO, STORIA ROMANA, II, 119, 3

Ave #Settembre! Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Settimo mese dell'originario calendario romano (che iniziava a marzo), mantiene nel nome l'origine di settimo mese (e permane anche ottobre, novembre e dicembre). Sia l'imperatore Caligola che Domiziano cercarono di chiamarlo Germanico, senza riuscirci (il primo in onore del padre, il secondo come epiteto personale per le sue campagne in Germania): infatti poco dopo la loro morte si tornò a chiamarlo Settembre. Anche Commodo provò a rinominarlo, senza successo. Nel mese di settembre si svolgeva una delle più importanti festività romane, i ludi romani, in onore di #Giove Ottimo Massimo. Era inoltre il mese dedicato alle prime vendemmie. « Dopo la fondazione #Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì. » STRABONE, GEOGRAFIA, V, 3,2

Romolo. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  L’origine della storia di Roma si lega a doppio filo con la storia di Romolo, da cui la città prende il nome. Roma deriva con ogni probabilità dall’etrusco Ruma, mammella (a ricordare la storia della lupa) o dal nome che portava il fiume Tevere, Roma, trasposto all’intero agglomerato urbano in via di definizione.

Il mito di Roma. Tuttavia la storia si perde nella leggenda e non è dato sapere se il nome di Romolo derivi da quello della città o se la città abbia preso il nome del primo rex. Riguardo la data di fondazione storici e archeologi convengono che la Roma romulea sia stata fondata attorno alla metà dell’VIII secolo a.C.: la data del 753 a.C. appare non solo plausibile, ma perfino verosimile. Infatti indagini archeologiche condotte negli ultimi anni concordano nel forte sviluppo urbanistico nell’area della zona del Palatino e tutt’attorno nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., sintomo di un rafforzamento politico di quelli che prima dovevano essere solo dei villaggi, sviluppatisi fin dall’inizio dell’età del ferro sui colli di quella zona del Tevere, particolarmente importante per gli scambi commerciali.

Nascita di un popolo. « Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, interrogati mediante aruspici, chi avrebbe dato il nome alla città e chi vi avrebbe regnato. Per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi dodici quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re entrambi. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dallo scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s’impossessò del potere e la città prese il nome del suo fondatore. » T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 7

Romolo avrebbe riunito quindi alcune tribù, se non famiglie, che vivevano attorno al Palatino, dove avrebbe stabilito la sua dimora. Il seguente leggendario ratto delle sabine (i sabini abitavano nei pressi della città) entrava nell’ottica della creazione di una nuova entità statale (laddove era impossibile stringere patti e alleanze), tendenzialmente aperta a tutti.

Il latium vetus. « Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori più importanti. […] » T. Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9

Infatti già con Romolo abbiamo un asylum che raccoglie esuli e stranieri a Roma: l’urbe è una città aperta a tutti, fin dall’inizio. Saranno re stranieri a prendere il potere dopo i primi quattro re romani, e stranieri diventeranno cittadini romani e guideranno la res publica in futuro. Inoltre Romolo creò il primo pomerium, secondo la leggenda tracciato da lui stesso (cosa che ripeterà simbolicamente Costantino nel ri-fondare Bisanzio come Costantinopoli 1000 anni dopo), ossia il primo confine sacro invalicabile in armi.

Fine di un rex « Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì. » STRABONE, GEOGRAFIA, V, 3,2

Romolo crea anche il primo senato, composto di 100 membri, i patres (da cui il nome patrizi). Successivamente raddoppiato, quando Romolo divise il regno con il re sabino Tito Tazio (la popolazione fu divisa tra sabini e quirini, i primi romani) in seguito alla pace concordata al termine delle ostilità per il ratto delle sabine. 

« Da una parte supplicavano i mariti [i Romani] e dall’altra i padri [i Sabini]. Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri. » T. Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13

La popolazione, con l’arrivo dei sabini, venne divisa in tre tribù: i ramnes, i luceres e i tities, e si formò la prima, primitiva legione, di circa 6000 uomini e 600 cavalieri. In seguito alla morte di Tito Tazio il governo di Romolo si fece sempre più assoluto e dispotico a occhio dei senatori, tanto che questi, indispettiti, lo eliminarono. Dopo trentotto anni di regno Romolo sarebbe asceso in cielo, secondo la tradizione. Il racconto serviva probabilmente a mascherare il suo omicidio da parte dei senatori, che lo avrebbero poi fatto a pezzi, smembrandolo e nascondendo ognuno di essi una parte del suo corpo, seppellito in varie zone della città . Si era infatti macchiato di derive assolutiste, mal tollerati dai padri coscritti. A comunicare l’evento sarebbe stato Proculo Giulio, il più antico antenato conosciuto della gens Iulia: «Stamattina o Quiriti, verso l’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. […] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell’arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.» TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 16

«Fu dunque un fanciullo amabile, intelligente, affabile con i genitori, caro ai loro amici, ben accetto al popolo, gradito al senato: ciò che gli giovò ad acquistarsi la simpatia generale. Non apparve mai indolente nello studio, né pigro a compiere atti di benevolenza o restio a mostrarsi liberale o tardo a gesti di clemenza, almeno finché visse sottomesso ai genitori. Insomma, se talvolta vedeva dei condannati gettati in pasto alle fiere, piangeva o volgeva altrove lo sguardo; ciò che gli conquistò grande affetto da parte del popolo.» HISTORIA AUGUSTA, #CARACALLA, 1, 3-5

«[#Commodo] nacque insieme col fratello gemello Antonino il 31 agosto dell’anno in cui erano consoli suo padre e suo zio paterno, a Lanuvio, dove si dice sia nato anche il nonno materno. Faustina, mentre era gravida di Commodo e di suo fratello, sognò di partorire dei serpenti, fra i quali però uno era particolarmente feroce. Dopo che poi ebbe dato alla luce Commodo e Antonino, quest’ultimo – che pure gli astrologi predicevano avere, secondo il corso degli astri, lo stesso destino di Commodo – a soli quattro anni morì.» (Historia Augusta, Commodo, 1, 2-4)

Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Commodo nacque il 31 agosto del 161, nello stesso anno in cui Marco Aurelio e Lucio Vero diventarono imperatori. Fu l’unico dei figli maschi sopravvissuti di Marco, mentre la sorella Lucilla sposò Lucio Vero, a cui era stata promessa lo stesso anno (e che sposò poco tempo dopo) e, quando questo morì, Tiberio Claudio Pompeiano, uno dei principali comandanti durante le guerre marcomanniche, dietro pressione ancora una volta del padre Marco Aurelio. Quando Marco Aurelio morì, il 17 marzo del 180, Commodo aveva appena diciott’anni; nonostante l’Historia Augusta si mostri risoluta nel mostrarlo come un depravato dedito solo ai piaceri, Erodiano invece mostra come Marco Aurelio fosse titubante nel dare il potere al figlio, che semplicemente non era pronto per il suo compito. Il padre non se la sentì di non confermare il figlio come successore.

Il culmine della seconda guerra macedonica fu la battaglia di Cinocefale (197 a.C.) in cui Tito Quinzio Flaminino sconfisse l'esercito del re macedone Filippo V. Quest'ultimo aveva schierato la falange in un'ala destra e sinistra a causa del terreno non del tutto adeguato alla falange. Mentre la sua ala destra respingeva i manipoli romani in forte difficoltà, Flaminino lanciò l'attacco contro l'ala sinistra macedone che si stava ancora schierando, mandandola in rotta. I romani allora ruotarono e attaccarono i restanti macedoni sul fianco. Quest'ultimi, vistisi persi, alzarono le sarisse in segno di resa, ma il gesto era sconosciuto ai romani che continuarono a macellarli con i loro gladi. La battaglia finì in un bagno di sangue, con decine di migliaia di morti e prigionieri macedoni. Flaminino d'altro canto, anch'egli all'oscuro del senso di alzare le sarisse, quando fu informato cercò di fermare il massacro ma era ormai troppo tardi.⁣⁣

Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Nel 301 d.C. #Diocleziano promosse un editto dei prezzi per placare l’inflazione e ripristinare una forte moneta d’argento, ma non riuscì nel suo scopo. L’editto dei prezzi di Diocleziano. Divenuto imperatore, Diocleziano riuscì finalmente a porre fine all’anarchia militare che da cinquant’anni era parte integrante dell’impero. Decise fin da subito di associare a sé un suo collega d’armi, un soldataccio di nome Massimiano, cui diede l’occidente. Il suo scopo era tenere a bada le rivolte e le infiltrazioni barbare, mentre in Britannia Carausio governa l’isola come usurpatore, seguito poi da Alletto. Sarà soltanto Costanzo Cloro a porre fine alla ribellione, nel 296, riportando infine l’impero alla sua unità e stabilità. «Nello stesso periodo il cesare Costanzo Cloro combatté in Gallia con fortuna. Presso i Lingoni in un solo giorno sperimentò la cattiva e la buona sorte. Poiché i barbari avanzavano velocemente, fu costretto ad entrare in città, e per la necessità di chiudere le porte tanto in fretta, da essere issato sulle mura con delle funi, ma in sole cinque ore arrivando l’esercito fece a pezzi circa sessantamila Alemanni.» EUTROPIO, BREVIARIUM AB URBE CONDITA, 9, 23

Infatti la situazione in Gallia necessitava di un controllo continuo e costante, sia per le minacce interne dei bagaudi (solo pochi anni prima la Gallia si era distaccata dall’impero sotto Postumo e Tetrico, ritornando all’impero solo grazie ad Aureliano), sia per le minacce ai confini di franchi, burgundi e alemanni; anche la Britannia e l’Africa erano fonte di preoccupazione. Nel frattempo, già dal 287, Diocleziano e Massimiano avevano assunto i soprannomi rispettivamente di Iovio ed Erculio, a denotare sia la superiorità del dalmata sul suo collega, sia il tentativo di instaurare un’aura di sacralità nell’imperatore romano. Il culto del sole, introdotto da poco da Aureliano, rimase diffuso, ma passò in secondo piano. Ed è proprio in questo periodo infatti che viene introdotto il rito orientale della proskynesis, ossia della prostrazione di fronte l’imperatore, seguendo un ordo salutationis. L’adoratio dell’imperatore seguiva infatti un rituale preciso; anche ciò che lo circondava divenne sacro: l’assemblea il sacrum concistorum e la camera da letto il sacrum cubiculum, con un addetto che era tra i massimi ministri dell’impero tardoantico, il praepositus sacri cubiculi, primo funzionario nella Notitia Dignitatum dopo i prefetti al pretorio e i magistri militum.

La tetrarchia. Dopo un incontro avvenuto a Milano nel 290-91, mentre la città diveniva sede sempre più stabile di Massimiano (con Diocleziano che si stabiliva principalmente a Nicomedia in Asia Minore), nel 293 Diocleziano decise di suddividere ulteriormente l’impero, stabilendo una regola che secondo lui avrebbe garantito la sicurezza di successione, evitando guerre civili e proteggendo meglio i confini: la tetrarchia. Ogni Augusto avrebbe scelto un Cesare, a lui subordinato, che gli sarebbe subentrato nella carica, divenendo Augusto e scegliendo un nuovo Cesare e così via. I primi due Cesari sarebbero stati Galerio per Diocleziano e Costanzo Cloro per Massimiano, cui vennero affidate anche alcune regioni dei due Augusti, per “prepararli” all’amministrazione dell’impero. Di conseguenza l’intero assetto amministrativo provinciale venne riorganizzato in base alle nuove esigenze: le province vennero in larga parte sdoppiate, divenendo più piccole, e anche le cariche politiche e militari vennero divise, con i praesides (già introdotti tra il finire del II e il principio del III secolo: aumentando le cariche svolte da cavalieri si creò questa figura “generica”) a reggere l’amministrazione e i duces a comandare le forze militari, seguendo l’idea che così sarebbe stato più difficile innescare una guerra civile. Inoltre le province furono raggruppate in diocesi, in numero di 12, rette da vicari dei prefetti al pretorio (che dopo Costantino diventeranno cariche puramente civili); l’Italia stessa venne equiparata al rango di provincia, perdendo i precedenti privilegi che gli concedeva in precedenza lo ius italicum, unificando anche la tassazione all’interno dell’impero. L’Italia faceva parte della diocesi Italiciana. A differenza delle altre ebbe due vicarii, uno a Milano, con controllo delle province di funzione militare, come la Rezia e il Norico e l’annona militare, e uno a Roma, con controllo sul sud Italia e le isole. Infatti l’Italia del nord era detta annonaria perché doveva fornire l’annona militare, cosa cui era esclusa quella meridionale, detta suburbicaria, che invece doveva rifornire la città di Roma. Da questa divisione trasse vantaggio la città di Milano, che crebbe esponenzialmente, venendo costruite nuove mura, il palazzo imperiale, terme, anfiteatro, circo e dimore sfarzose.

L’editto dei prezzi. Uno degli scopi di Diocleziano era quello di riportare stabilità economica, rivalutando la moneta argentea, creandone una simile al denario neroniano per peso (nel III secolo la moneta era arrivata ad essere solo bagnata nell’argento e Aureliano era riuscito a riportare l’argento nella moneta al 5%: infatti le sue monete segnavano la scritta XX I, ossia per venti parti di metallo una di argento). Tuttavia l’effetto fu contrario alle intenzioni, portando a una drammatica inflazione, con il prezzo dell’argento che saliva, spingendo infine l’imperatore a promulgare un edictum de pretiis nel 301 d.C., dove l’imperatore stabiliva pedissequamente il prezzo di ogni merce. Pochi anni prima Diocleziano aveva emesso una nuova moneta, l’argenteo, dal valore di 100 denari e dal peso del denario neroniano (1/96esimo di libbra), il cui scopo era quello di ridurre l’inflazione. L’argenteo dioclezianeo valeva 100 denari, il nummus argentato 25, il bronzo radiato 4, il bronzo 1-2 (2 l’antoniniano, 1 il denario). L’aureo, che era arrivato a 833 denari, fu sostituito dal solido dal valore di 1000 denari (sarà poi Costantino a virare l’economia su un nuovo tipo di solido).In questo quadro di nuova crisi economica (ormai perdurante da quasi un secolo) Diocleziano decide di promulgare una lunga lista di prezzi, nel tentativo di obbligare i cittadini romani a rispettarli e pertanto a frenare le spinte inflazionistiche. L’obiettivo non era quello di congelare i prezzi, ma di darne un tetto massimo, per evitarne speculazioni. Ma neanche questo ebbe effetto, favorendo il contrabbando e finendo rapidamente in disuso. La questione monetaria sarà risolta solo da Costantino, che adotterà la moneta aurea come moneta di riferimento, il nuovo solidus, lasciando libero il prezzo dell’oro: la situazione si stabilizzerà a scapito dei piccoli consumi. Altro aspetto della politica diocleziana furono le persecuzioni religiose nei confronti dei cristiani, ritenuti un pericolo per l’ordine e la stabilità dell’impero. Dietro il fervore di Diocleziano c’era probabilmente Galerio, fortemente anticristiano, e il cui peso politico era molto aumentato dopo la vittoriosa campagna persiana. Dal 24 febbraio del 303 venne instaurata una feroce persecuzione anticristiana, terminata solo da Galerio nel 311 (riconoscendo che era impossibile fermare il cristianesimo, poiché sembravano giovare delle persecuzioni); i cristiani furono interdetti dai pubblici uffici e perseguitati se non avessero rinnegato la loro religione. I tetrarchi affermavano infatti che la loro figura oramai divina non fosse conciliabile con il cristianesimo, portatore di divisioni e contrapposizioni sociali.

Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Il #gladio, portato sul fianco destro, per avere una rapida estrazione che non impacciasse lo scutum dopo il lancio del pilum, era lungo circa 60 cm in media, con una lama affilatissima e larga, fatta appositamente per pugnalare a morte. L’arma era talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti, durante la seconda guerra macedonica, a Cinocefale, nel 197 a.C.: «Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.» LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXXI, 34

Il modello ispanico, il primo, aveva praticamente sempre una lama di più di 60 cm, risultando tutt’altro che corto. Veniva utilizzato per colpi di punta micidiali, specialmente all’inguine, zona generalmente poco protetta e le cui ferite erano mortali. Successivamente, a partire dall’impero, vennero introdotti il modello Magonza e Pompei, leggermente più corti; il primo aveva una forma particolare con la lama ondeggiata, più stretta al centro e più larga in punta, mentre il secondo era semplicemente una versione più piccola dell’hispaniensis.

STORIE ROMANE. Il Pilum. Il pilum era il giavellotto usato dai legionari prima del corpo a corpo. Lanciato a breve distanza, aveva lo scopo di trafiggere l’uomo che si difendeva dietro lo scudo. Se questo non avveniva, era comunque impossibile continuare a combattere con il pilum incastrato, e se si provava a toglierlo si piegava o spezzava: «I Romani, lanciando dall’alto i giavellotti, riuscirono facilmente a rompere la formazione nemica e quando l’ebbero scompigliata si gettarono impetuosamente con le spade in pugno contro i Galli; questi erano molto impacciati nel combattimento, perché molti dei loro scudi erano stati trafitti dal lancio dei giavellotti e, essendosi i ferri piegati, non riuscivano a svellerli, cosicché non potevano combattere agevolmente con la sinistra impedita; molti allora, dopo aver a lungo scosso il braccio, preferivano buttare via lo scudo e combattere a corpo scoperto.» CESARE, DE BELLO GALLICO, I, 25

Un’arma devastante

Sebbene il racconto di Cesare ci dica che lo scopo era quello di piegarsi, Plutarco nella vita di Mario descrive come, per evitare che i barbari riutilizzassero i pila non andati a segno, avesse fatto inserire uno dei due rivetti che tenevano fisso il ferro in legno per far sì che dopo il lancio si spezzasse e diventasse inutilizzabile. Però l’accorgimento di Mario sembrerebbe circostanziato e non reiterato nel tempo, poiché non trova conferme in altri fonti, anzi tutti i pila utilizzati in battaglia e ritrovati hanno la punta piegata. Anche in questo caso non si direbbe un accorgimento quello di far piegare la punta quanto una conseguenza del peso della lancia conficcata nello scudo. «Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, e come i barbari li videro, non più timidi o pochi in numero, come invece si aspettavano. Per cominciare, ciò mandò in frantumi la fiducia dei Galli, i quali credevano di essere loro ad attaccare per primi. Poi i  velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione, prima che avessero preso posizione con lo schieramento abituale, al contrario schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. Quando infine Camillo condusse i suoi soldati all’attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all’attacco. Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendo i colpi [dei Galli] sulle parti dello scudo che erano protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre i loro scudi furono perforati e appesantiti dai giavellotti [romani]. I Galli allora abbandonarono effettivamente le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, cominciarono misero subito mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli che si trovavano in prima linea, mentre gli altri fuggirono ovunque nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo. Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galli. Essi avevano potentemente temuto questi barbari, che li avevano conquistati in un primo momento, più che altro credevano che ciò fosse accaduto in conseguenza di una straordinaria disgrazia, piuttosto che al valore dei loro conquistatori.» (PLUTARCO, VITA DI CAMILLO, 41, 3-6.) 

Stando al racconto di Plutarco, quindi, i romani avrebbero adottato quest’arma dopo la disfatta dell’Allia e il sacco di Roma a opera di Brenno. L’arma sarebbe dunque nata in ambito etrusco e poi adottata dai romani specificatamente per arrestare i celti. L’arma sarebbe stata talmente buona da diventare iconica del legionario romano; tuttavia altri hanno collocato la prima apparizione agli scontri con i sanniti, avvenuti alcuni decenni dopo e mutuata da loro insieme alle loro tattiche belliche, come l’adozione del manipolo e l’abbandono della falange. Quel che è certo è che nel IV secolo a.C. il modo di combattere romano muta profondamente, per influssi celtici e sanniti; i romani d’ora in poi si dimostreranno maestri nell’adattarsi al nemico e carpirne i segreti e le strategie vincenti, come faranno poi con Pirro, stando a Frontino, quando copiarono l’idea dell’accampamento fortificato e la perfezionarono. Il pilum era composto da un’asta in legno lunga mediamente 150-190 cm, con una lunga punta in ferro e una punta piramidale. Questo tipo di estremità consentiva di penetrare a fondo lo scudo e di uccidere il nemico o perlomeno di rendere inutilizzabile lo scudo: «… e poiché incastrano la parte di ferro del pilum fino a metà dell’asta [di legno] stessa, fissandolo poi con numerosi ribattini, la congiunzione risulta così ferma e la sua funzionalità è assicurata, che usandolo, prima che si allenti l’incastro, si spezza il ferro, malgrado nel punto di congiunzione con l’asta di legno abbia una grandezza di un dito e mezzo. Tale e tanta è la cura con cui i Romani mettono insieme i due pezzi.» POLIBIO, STORIE, VI, 23, 11

La tattica manipolare prevedeva dunque le legioni schierate in tre linee a scacchiera, con davanti i veliti armati alla leggera, poi gli hastati, i principes e i triarii. Hastati e principes erano dotati del nuovo pilum (come suggerisce il nome gli hastati originariamente dovevano avere solo scudo e lancia). Aprivano la battaglia i veliti che creavano scompiglio, poi subentravano gli hastati, più giovani e prestanti, che lanciavano il pilum e attaccavano corpo a corpo. Venivano poi sostituiti dai principes e se la situazione si metteva veramente male entravano in campo i triarii. Successivamente, alla fine del III secolo a.C., venne anche adottato il gladio come arma da taglio. L’uso del pilum, portato generalmente in numero di due insieme a qualche altro tipo di giavellotto più leggero e missile, non era però scontato; in situazioni particolari o di eccezionale foga come la battaglia di Filippi del 42 a.C., si poteva passare direttamente all’uso del gladio. Racconta Cesare nel momento culmine dell’assedio di Alesia che: «Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un’insegna durante i combattimenti… i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l’arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi… Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l’esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga… Se i legionari non fossero stati sfiniti… tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.» CESARE, DE BELLO GALLICO, VII, 88 

Tatticamente il pilum aveva comunque una gittata molto corta, essendo piuttosto pesante, e veniva lanciato a circa 10-15 metri di distanza dal nemico e subito dopo si estraeva il gladio mentre lo si caricava. Prevedeva perciò un’alta dose di allenamento e coordinazione per essere usato efficacemente e soprattutto portava i romani ad attaccare quasi sempre e stare raramente sulla difensiva. Tuttavia in situazioni particolari come nel caso di Arriano, che all’epoca di Adriano si dovette difendere contro la sola cavalleria catafratta alana, si poteva usare in modo più creativo: «Al centro la XV Legione tiene l’intero fianco destro estendendosi ben oltre […] dato che i suoi uomini sono molto più numerosi. La parte rimanente del lato sinistro è occupata completamente dalla XII Legione […]. Essi sono schierati con la profondità di otto uomini e in ordine chiuso. I primi quattro ranghi sono legionari, armati di pilum, che ha una punta di ferro lunga e affusolata, Il primo rango li tiene davanti a sé come difesa, così che se il nemico viene vicino a loro, essi conficchino la punta di ferro nei petti dei loro cavalli. Gli […] uomini dietro a questi del terzo e quarto rango scagliano una salva di pila ovunque trovino un bersaglio, ferendo i cavalli e trafiggendo i cavalieri, e quando un pilum è conficcato in uno scudo o in un corsetto corazzato e si piega, a causa della morbidezza del ferro, rendono il cavaliere impacciato. I ranghi successivi sono giavellottieri. Un nono rango dietro di essi è costituito da arcieri appiedati[…]. Le macchine da guerra sono schierate dietro ciascuna ala in modo da tirare al nemico che carica dal più lontano possibile, così pure da dietro l’intera linea di battaglia. L’intera cavalleria è schierata assieme dietro la fanteria, divisa tra ausiliari e otto coorti di cavalleria. Le coorti di cavalleria hanno di fronte a sé la fanteria e gli arcieri come protezione. Le rimanenti sei coorti di cavalleria sono al centro […]. Di queste, gli arcieri a cavallo prendono posizione subito dietro la linea di battaglia per tirare sopra di essa […]. Attorno a Senofonte si pone la guardia di cavalleria e circa 200 uomini della fanteria pesante, le guardie del corpo, e in particolare i centurioni aggregati alla cavalleria della guardia o i comandanti delle guardie del corpo, così pure i decurioni della cavalleria della guardia. Attorno a lui anche un centinaio di giavellottieri leggeri della guardia, in modo che osservando l’intera linea di battaglia, essi possano muoversi e porre rimedio a qualsiasi problema dovesse porsi alla sua attenzione.» ARRIANO, EKTAXIS KATA ALANON, 13-24)

Nel corso del tempo il pilum diventò sempre più pesante: si aggiunse nel I secolo d.C.. una palla di piombo all’attaccatura della parte di ferro per aumentarne il potere di penetrazione. Ma, proprio per affrontare nuovi tipi di nemici, tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., i romani cominciarono ad abbandonarlo per tornare alla lance e nuovi tipi di armi da lancio, come lo spiculum, una sorta di combinazione tra il pilum e le lance germaniche, o le plumbatae, delle piccole punte di freccia lanciate a mano.

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Storia Romana. La spatha. Nel corso della seconda guerra punica i romani entrarono in contatto con le popolazioni celtibere che utilizzavano una micidiale arma: il gladio. Adottato da Scipione per le sue legioni diverrà l’iconica spada del legionario romano (e dal cui nome verrà la parola “gladiatore“), fino ad essere rimpiazzato tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo d.C. da un’arma creata dai romani, simile ma diversa, la spatha.

Una nuova arma. Nata infatti come variante di cavalleria del gladio (serviva infatti una spada più lunga per combattere a cavallo), divenne infine anche l’arma dei legionari romani. Non è ben chiaro come, perché ed esattamente quando la spatha abbia rimpiazzato del tutto il gladio, ma molte ipotesi a riguardo sono state fatte. Si può supporre che siano occorsi una serie di fattori concorrenti:

una decadenza di addestramento, che permetteva l’utilizzo di un’arma che veniva più menata con fendenti che con rapide stoccate come il gladio;

il maggiore afflusso di reclute germaniche nell’esercito avrebbe portato all’adozione di spathae più lunghe e armi ad asta come lance che avrebbero soppresso l’utilizzo combinato di pilum e gladio;

un semplice cambio di moda a favore di armi differenti, che permettevano di tenere il nemico più lontano e quindi rischiare meno di essere feriti ma probabilmente anche di lanciare attacchi meno micidiali;

un tentativo di opporsi con maggiore efficacia ad attacchi a cavallo e a combattimenti più in ordine sparso che in ranghi serrati.

Probabilmente tutte le opzioni messe insieme sono vere e spiegano anche il mutamento di modo di combattere dalla fine del II secolo d.C. che diviene sempre più falangitico, con la ripresa della lancia a sfavore del pilum, corredata da dardi più piccoli come lo spiculum o la plumbata e al progressivo abbandono nel III secolo di scutum rettangolare (per tornare a quello ovale) e lorica segmentata. Nel complesso il modo di combattere diviene più statico quando in formazione aperta e al contempo più flessibile nei piccoli scontri, riflettendo l’ambivalenza di necessità cui andava incontro l’impero nel difficile periodo di crisi del III secolo. Al contempo non è da escludere un peggiore addestramento e l’influenza di reclute dalle zone di confine, anche perchè l’equipaggiamento tende a uniformarsi sempre più con quello degli ausiliari visti nella colonna di Traiano. Evidentemente anche l’estensione della cittadinanza a tutti voluta da Caracalla deve aver rimescolato le carte, rendendo popolari metodi di combattimento fino ad allora barbarici, e che nel III secolo complice la crisi diverranno inarrestabili anche per gli imperatori romani. Infine bisogna considerare anche il costo di queste nuove armi: sicuramente scudi ovali, lance e forse anche spathae (oltre alle armature non più segmentate) costavano decisamente meno di quelle dell’epoca di Traiano e degli Antonini, a corroborare la pesante crisi economica e non solo sociale e militare che investiva l’impero. Nonostante tutto l’impero romano ancora nel III secolo era una macchina da guerra micidiale quando comandata efficacemente. Non solo, molti tipi di spathae trovate sono molto più lunghe che larghe, lasciando proprio suggerire l’utilizzo per infilzare più che menare fendenti, come i vecchi gladi. Molti tra gli elmi e gli scudi trovati nel III secolo (come quello di Dura Europos) sono tra i migliori mai realizzati; nonostante la crisi l’esercito romano si dimostrava ancora il migliore.

Le lame. Le spade romane ritrovate sono numerosissime e quasi tutte in un luogo piuttosto insolito, ovvero le torbiere danesi. Ne sono state rinvenute a centinaia, probabilmente offerte come doni votivi, o da ex soldati ritornati alle loro case o armi prese come bottino ai romani (in entrambi i casi denoterebbe la qualità e la ricercatezza dell’arma). La lunghezza media era tra i 60 e i 90 centimetri, all’incirca una ventina più di un gladio del I-II secolo, ma solo una decina più di alcuni dei primi gladi di tipo ispaniensi, con una larghezza di soli 4-6 centimetri in media. Le proporzioni in alcuni casi sono di 23:1, che si rifanno più a stocchi del XVI e XVII secolo che non a spade medievali, rinforzando l’ipotesi che l’arma doveva essere usata ancora di punta ma che, a causa degli scudi ovali, non veniva più nascosta dietro lo scudo prima del colpo per non mostrarne la provenienza al nemico. In ogni caso alcune spathae sono ancora più lunghe, raggiungendo anche il metro di lunghezza. Le dimensioni generose in confronto al gladio costrinsero anche i soldati romani a portarla a sinistra e non più a destra, legata a una bandoliera, metodologia già adottata nel II secolo per il gladio.

I principali tipi di spathae sono:

Straubing / Nydam, utilizzato fino alla prima metà del IV secolo, lungo 65-80 cm e largo circa 4,5, con lama molto più lunga che larga, dalla sezione romboidale, adatta al colpo di punta.

Lauriacum / Hromowka (II-III secolo), dalla lama di circa 55-65 cm, più simile al gladio, aveva sgusci multipli e punta triangolare, il che fa supporre un uso di punta.

Illerup / Wyhl (fine III secolo-V), più grosse e lunghe, di qualità più grossolana.

Osterbunken / Kemathen (IV-V secolo), con rapporto lunghezza simile al Lauriacum, leggermente più lunghe, dalla punta triangolare ma anche in questo caso di qualità leggermente inferiore.

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Il terzo imperatore. Le condizioni di Tiberio peggiorarono nel 37 e il 16 marzo morì a Miseno. Alcuni insinuarono che ripresosi dopo un grave malore, venne fatto soffocare senza scrupoli dal prefetto Macrone, che già aveva acclamato Caligola come imperatore.

Caligola, venticinquenne, era nel pieno delle forze e largamente amato in quanto figlio di Germanico, mentre su Tiberio Gemello, quindicenne, c’erano molti dubbi. Il senato annullò il testamento di Tiberio, riconoscendo Caligola come unico imperatore:

La morte di Tiberio. «Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, tuttavia, tra le are e le vittime e le fiaccole ardenti, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro e lo apostrofava, oltre che con nomi ben auguranti, «stella», «pulcino», «pupo», «figlio». E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre centosessantamila vittime.»(Svetonio, Caligola, 13-14)

«Dopo aver declamato in pubblico l’orazione funebre di Tiberio e dopo avere celebrato il funerale con grande solennità, subito si affrettò verso Pandataria [Ventotene] e Ponza, per portar via di là le ceneri della madre e del fratello, nonostante vi fosse una terribile tempesta, affinché ancor più spiccasse la sua pietà filiale e vi si avvicinò con grande devozione e con le sue stesse mani le mise nelle urne cinerarie. Inoltre, con una messinscena altrettanto spettacolare, le portò ad Ostia, avendo issato a poppa un vessillo, e di lì, lungo il Tevere a Roma, facendo trainare la nave dai cavalieri più insigni e in pieno giorno, in mezzo alla folla, le fece portare su due lettighe nel Mausoleo, istituì in loro onore riti funebri con celebrazioni pubbliche annuali e inoltre, in onore di sua madre istituì giochi circensi e un carpento [un cocchio] per trasportare in processione la sua effigie. Inoltre, per commemorare il padre, chiamò Germanico il mese di settembre.» (Svetonio, Caligola, 15)

I primi mesi di Caligola furono improntati al buon governo: Fece allontanare dalla città i cinedi che praticavano orribili atti di libidine, facendosi convincere a fatica a non farli gettare in mare. Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri. Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio. Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui. Riesaminò con severità e attenzione, ma sempre con moderazione, i cavalieri romani e privò pubblicamente del cavallo chi si fosse macchiato di qualche misfatto o ignominia e fece soltanto tralasciare di nominare negli elenchi coloro che avevano commesso colpe minori. Per alleviare il lavoro dei giudici, aggiunse una quinta decuria alle quattro precedenti. Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi. Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni. Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. Risarcì a molti i danni d’incendio. Quando restituì ad alcuni re i loro domini, rese loro anche il ricavato dei tributi e il reddito prodotto nell’interregno, come nel caso di Antioco Commageno, al quale restituì cento milioni di sesterzi confiscatigli. Per sembrare favorire al massimo ogni buon esempio, donò ottantamila sesterzi a una liberta che, sottoposta a terribili torture, non aveva confessato le colpe del suo padrone. Per questo gli venne attribuito, tra gli altri riconoscimenti, un clìpeo d’oro che una volta l’anno i collegi sacerdotali dovevano recare in Campidoglio seguiti dai senatori in processione, mentre un coro di nobili fanciulli e giovinette celebrava le sue virtù con un canto modulato in versi. Si deliberò inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile, come segno di una rifondazione di Roma. (Svetonio, Caligola, 16)

L’assolutismo. Dopo un primo periodo idilliaco di governo in collaborazione con il senato, nell’ottobre del 37 venne colpito da una grave malattia. Quando si riprese non fu più lo stesso: «[…] non passò molto tempo e l’uomo che era stato considerato benefattore e salvatore […] si trasformò in essere selvaggio o piuttosto mise a nudo il carattere bestiale che aveva nascosto sotto una finta maschera» (Filone di Alessandria, De Legatione ad Gaium, 22)

«Affetto sin dall’infanzia dall’epilessia, nell’adolescenza, pur sopportando abbastanza la fatica, tuttavia talvolta, per collassi improvvisi, non ce la faceva neanche a camminare, stare in piedi, tirarsi su e reggersi dritto. Era consapevole egli stesso della sua debolezza mentale, tanto da pensare talvolta di ritirarsi e curarsi la mente. Si crede che la moglie Cesonia gli avesse propinato un filtro amoroso che lo aveva reso folle. Era afflitto soprattutto dall’insonnia e non dormiva mai più di tre ore a notte e neanche queste tranquille bensì agitate da incubi strani, come quando gli sembrò di vedere il fantasma del mare parlare con lui. Quindi, stufo di star disteso gran parte della notte senza dormire, soleva invocare e attendere l’alba, standosene seduto sul letto oppure percorrendo i lunghissimi porticati.» (Svetonio, Caligola, 50)

Non è chiaro quale fosse stata la causa, ma da allora il modo di governare cambiò completamente: cominciò a governare in modo assolutistico, senza tenere più in considerazione il senato, che anzi dispregiava; arrivò anche a considerare di dare il consolato al suo carissimo cavallo Incitatus: «Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.» (Svetonio, Caligola, 55) 

Caligola divenne insomma autoritario e dispotico, mettendosi contro praticamente tutti. Venne accusato di adulterio, di uccidere per divertimento, di dilapidare il tesoro pubblico (che reintegrava uccidendo senatori e intascandone le proprietà); infine giunse nel 40 a far porre per disprezzo una sua statua colossale nel tempio di Gerusalemme, causando quasi una rivolta. Si sentiva in tutto e per tutto un dio: Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina. (Svetonio, Caligola, 22)

Caligola fece annettere la Mauretania, uccidendo suo cugino Tolomeo di Mauretania, discendente di Antonio e Cleopatra. Fu poi divisa in Mauretania Tingitana e Mauretania Cesariensis. Militarmente reclutò due nuove legioni, la XV Primigenia e la XXII Primigenia, ammassando truppe sul Reno, senza però fare nulla. Portò poi l’esercito sul mare, di fronte la Britannia: “Infine, come se volesse porre fine alla guerra, schierato l’esercito lungo le spiagge dell’Oceano e disposte le baliste e le macchine senza che alcuno sapesse o potesse avere idea di cosa intendesse fare, improvvisamente ordinò di raccogliere conchiglie e riempirne gli elmi e i mantelli, dicendo: «Sono le spoglie dell’Oceano che spettano al Campidoglio e al Palazzo». Per lasciare un segno di questa vittoria, fece erigere un’altissima torre dalla quale, come da quella di Faro, di notte dovevano lampeggiare i fuochi per illuminare la rotta ai naviganti. Dopo aver annunciato ai soldati una ricompensa di cento denari ciascuno, come se avesse superato ogni altro esempio di generosità, disse: «Andate in letizia, andate in ricchezza».” (Svetonio, Caligola, 46) 

Morte. Le continue stravaganze ed eccessi di Caligola non potevano durare a lungo nella Roma del I secolo d.C. Attiratosi le antipatie di senatori e soldati, era solo una questione di tempo. La morte giunse infine il 24 gennaio del 41 d.C., per mano dei pretoriani, con l’appoggio del senato: « […] verso l’una, Caio era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti.» (Svetonio, Caligola, 58)

Finita la guerra annibalica con la vittoria di Zama, #Scipione nel 199 diventò censore, princeps senatus e di nuovo console nel 194. Insolitamente per l’epoca si ritirò a vita privata, ma nel 190 accettò di andare come legato del fratello Lucio e Gaio Lelio, entrambi consoli, in Grecia, ad affrontare Antioco III, re dei Seleucidi. Dopo la vittoria a Magnesia del fratello Scipione Asiatico si ritirò a vita privata, rispedendo indietro le accuse mosse da Catone il Censore che lo accusava di peculato in seguito alla pace di Apamea. Sarebbe morto a Literno, dove la sua tomba lanciava una pesante invettiva allo stato romano, che non gli era stato riconoscente: «Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes» «Patria ingrata, non avrai mai le mia ossia» VALERIO MASSIMO, V, 3, 2

STORIE ROMANE. La pazzia di Caligola. Gaio Giulio Cesare Germanico era figlio di Germanico. Quest’ultimo era figlio di Druso maggiore, fratello di Tiberio e Antonia minore, nipote di Augusto. Il suo nome era in realtà Giulio Cesare e il cognomen di Germanico lo ricevette per i meriti del padre Druso in Germania. Germanico era amatissimo dai soldati e morì ancora giovane in Siria in circostanze misteriose, forse dietro ordine del geloso Tiberio.

Un imperatore promettente 

Pertanto quando l’imperatore morì e Caligola (il cui soprannome “piccola caliga” era stato dato dai soldati per via delle scarpette militari che indossava al seguito del padre negli accampamenti) venne acclamato come Cesare, si negò anche di applicare il testamento del defunto imperatore, che adottava anche il nipote Tiberio gemello. Il senato e il popolo romano furono in visibilio per il nuovo imperatore, che si prospettava uno dei migliori, visti anche i suoi primi atti: «E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre centosessantamila vittime. Quando poi, dopo alcuni giorni, si trasferì nelle isole vicine alla Campania, si fecero voti per il suo ritorno e nessuno trascurò la benché minima occasione di testimoniare la propria premura per la sua incolumità. Quando si ammalò, mentre tutti vegliavano di notte intorno alla reggia sul Palatino, vi fu chi fece voto di combattere con le armi per la sua guarigione e chi offrì la propria vita in cambio della sua, esponendo un cartello col voto espresso. A quell’immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Infatti Atrabano, re dei Parti, che sempre aveva manifestato odio e disprezzo per Tiberio, chiese spontaneamente di essergli amico e venne a colloquio col legato consolare e, quando ebbe attraversato l’Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all’effigie dei Cesari. Del resto anch’egli alimentava il favore delle genti con ogni forma di popolarità. Dopo aver declamato in pubblico l’orazione funebre di Tiberio e dopo avere celebrato il funerale con grande solennità, subito si affrettò verso Pandataria e Ponza, per portar via di là le ceneri della madre e del fratello, nonostante vi fosse una terribile tempesta, affinché ancor più spiccasse la sua pietà filiale e vi si avvicinò con grande devozione e con le sue stesse mani le mise nelle urne cinerarie. Inoltre, con una messinscena altrettanto spettacolare, le portò ad Ostia, avendo issato a poppa un vessillo, e di lì, lungo il Tevere a Roma, facendo trainare la nave dai cavalieri più insigni e in pieno giorno, in mezzo alla folla, le fece portare su due lettighe nel Mausoleo, istituì in loro onore riti funebri con celebrazioni pubbliche annuali e inoltre, in onore di sua madre istituì giochi circensi e un carpento per trasportare in processione la sua effigie. Inoltre, per commemorare il padre, chiamò Germanico il mese di settembre. In seguito, con un’unica delibera del Senato, conferì alla nonna Antonia tutti gli onori che erano stati conferiti a Livia Augusta; assunse come collega nel consolato lo zio Claudio, fino ad allora semplice cavaliere romano, adottò il fratello Tiberio lo stesso giorno in cui quello assunse la toga virile e lo denominò principe della gioventù. In onore delle sue sorelle decretò che a tutti i giuramenti si aggiungesse la formula: «Non considererò me stesso e i miei figli più cari di Caio e delle sue sorelle» e allo stesso modo nelle relazioni dei consoli fece aggiungere la frase: «Che sia di buon augurio e di buona fortuna a Caio Cesare e alle sue sorelle». Con mossa egualmente popolare, graziò i condannati e i confinati e concesse indulgenza a tutte le imputazioni che fossero rimaste in sospeso dal periodo precedente. Fece bruciare tutti gli atti processuali relativi alle cause della madre e dei fratelli, dopo averli fatti raccogliere tutti nel foro, affinché nessun delatore o testimone avesse a temere ancora, e dopo aver chiamato a testimoni gli dèi che egli non ne aveva letto né toccato alcuno. Rifiutò di accettare un libello che denunciava rischi per la sua incolumità, contestando che non aveva fatto nulla per cui potesse essere odiato da qualcuno e disse di non avere orecchie per i delatori. Fece allontanare dalla città i cinedi che praticavano orribili atti di libidine, facendosi convincere a fatica a non farli gettare in mare. Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri. Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio. Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui. Riesaminò con severità e attenzione, ma sempre con moderazione, i cavalieri romani e privò pubblicamente del cavallo chi si fosse macchiato di qualche misfatto o ignominia e fece soltanto tralasciare di nominare negli elenchi coloro che avevano commesso colpe minori. Per alleviare il lavoro dei giudici, aggiunse una quinta decuria alle quattro precedenti. Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi. Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni. Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. Risarcì a molti i danni d’incendio. Quando restituì ad alcuni re i loro domini, rese loro anche il ricavato dei tributi e il reddito prodotto nell’interregno, come nel caso di Antioco Commageno, al quale restituì cento milioni di sesterzi confiscatigli. Per sembrare favorire al massimo ogni buon esempio, donò ottantamila sesterzi a una liberta che, sottoposta a terribili torture, non aveva confessato le colpe del suo padrone. Per questo gli venne attribuito, tra gli altri riconoscimenti, un clìpeo d’oro che una volta l’anno i collegi sacerdotali dovevano recare in Campidoglio seguiti dai senatori in processione, mentre un coro di nobili fanciulli e giovinette celebrava le sue virtù con un canto modulato in versi. Si deliberò inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile, come segno di una rifondazione di Roma.» SVETONIO, CALIGOLA, 14-16

Tuttavia pochi mesi dopo l’inizio del suo principato Caligola cadde gravemente malato e per poco non rischiò di morire; non sappiamo quali siano state le sue reali condizioni di salute e cosa abbia causato tutto ciò, ma tutte le fonti sono concordi nell’identificare il principe venuto dopo la lunga degenza come un mostro: «Finora ho parlato più o meno del principe; mi resta ora di parlare del mostro. Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina. Non voleva essere ritenuto, né detto nipote di Agrippa, in quanto questi non era nobile e si adirava se qualcuno, in un discorso o in un carme inseriva costui tra le figure dei Cesari. Diceva in giro che sua madre era nata da un rapporto incestuoso tra Augusto e sua figlia Giulia. Non contento di infamare così Augusto, vietò di celebrare con feste solenni le vittorie di Azio e di Sicilia, come funeste e rovinose per il popolo romano. Definiva la sua bisnonna Livia Augusta un Ulisse travestito da donna e osò anche accusarla, in una lettera al Senato, di ignobiltà, come se fosse nata da un avo materno, decurione di Fondi, mentre da documenti pubblici risulta che Aufidio Lurcone ricoprì cariche politiche a Roma. Alla nonna Antonia negò un’udienza privata, da lei richiesta, a meno che non fosse presente anche il prefetto Macrone. Con tali umiliazioni e dinieghi ne causò la morte, se addirittura, come pensano alcuni, non la fece avvelenare. Quando morì non le rese alcun onore e assistette alla sua cremazione dal triclinio. Fece uccidere suo fratello, Tiberio, quando questi meno se l’aspettava, inviandogli all’improvviso un tribuno militare e spinse Silano, suo suocero, ad uccidersi tagliandosi la gola con un rasoio. Addusse come pretesto, nel caso del suocero, il fatto che costui non aveva voluto seguirlo, una volta che egli si era imbarcato con mare assai agitato ed era rimasto a Roma, nella speranza di assumere il potere se gli fosse successo qualcosa durante la tempesta; nel caso del primo, il fatto che il suo alito emanava odore di medicinale, come se facesse uso di antidoti per premunirsi da un suo avvelenamento. In realtà, Silano aveva voluto evitare, non tollerandolo, il mal di mare e il disagio della navigazione e Tiberio aveva usato un medicamento perché affetto da una tosse insistente e sempre più ostinata. Risparmiò lo zio Claudio solo per farne il suo zimbello. Aveva abitualmente rapporti incestuosi con tutte le sue sorelle e in pieno banchetto a turno ne faceva sdraiare una alla sua destra, mentre teneva a fianco, dall’altro lato, la moglie. Si dice che abbia sedotto la sorella Drusilla, ancora vergine, quando ancora indossava la pretesta, e una volta fu anche sorpreso dalla nonna Antonia, che li allevava in casa sua, mentre giaceva con lei. Dopo averla data in sposa a Lucio Cassio Longino ex console, gliela portò via e la tenne con sé, pubblicamente, come una moglie legittima e, una volta che si era ammalato, la nominò erede dei suoi beni e del suo potere. Quando Drusilla morì, proclamò la sospensione dell’amministrazione della giustizia e in quel periodo fu ritenuto delitto capitale ridere, lavarsi, cenare con i genitori o con la moglie e i figli. Non sopportando tuttavia il dolore, partì all’improvviso di notte da Roma, andò in Campania, da lì si diresse a Siracusa e di nuovo tornò subito indietro, facendosi crescere i capelli e la barba. Da quel giorno in qualunque circostanza, anche nelle assemblee pubbliche e presso i militari, giurò solo sul nume di Drusilla. Non amò con eguale intensità e considerazione le altre sorelle, anzi spesso le fece prostituire ai suoi amasii e poi, proprio per questo potè più facilmente farle condannare come adultere e complici di una congiura ai suoi danni, nel processo contro Emilio Lepido. Inoltre, non soltanto rese pubbliche le lettere scritte di loro pugno, che era riuscito a raccogliere con l’inganno e con la violenza, ma consacrò a Marte Vendicatore tre spade approntate per la sua uccisione, facendovi incidere sopra un’epigrafe. È difficile discernere se sia stato più infame nel contrarre o nello sciogliere o nel gestire i suoi rapporti coniugali. Ordinò di portare da lui Livisa Orestilla, dopo aver assistito alle sue nozze con Caio Pisone ma, dopo alcuni giorni, la ripudiò e la relegò per due anni poiché gli era sembrato che in quel periodo di tempo la donna avesse ripreso i rapporti con il primo marito. Altri raccontano che, invitato al banchetto nuziale, aveva intimato a Pisone che gli stava di fronte: «Non stare così addosso a mia moglie!» e che se l’era portata via dal convito all’improvviso e il giorno dopo aveva dichiarato in un editto di essersi procurato una moglie seguendo l’esempio di Romolo e di Augusto. Avendo sentito dire che la nonna di Lollia Paolina, moglie di Caio Memmio, ex console e comandante dell’esercito, era stata una donna bellissima, fece venire subito dalla provincia Lollia e, toltala al marito, la sposò. Quasi subito dopo, la ripudiò e le vietò per tutta la vita di avere rapporti sessuali con alcuno. Amò invece più intensamente e con maggior costanza Cesonia che non era particolarmente bella, né giovane, ed aveva già avuto tre figlie da un altro marito, ma era sfrenatamente sensuale e dissoluta e spesso la mostrò ai soldati al suo fianco a cavallo, con la clamide, lo scudo e l’elmo e la mostrò anche nuda ai suoi amici. La onorò del titolo di moglie appena ebbe partorito e in quello stesso giorno si dichiarò suo sposo e padre della bambina appena nata. Poi portò in giro per tutti i templi delle dee quella bambina, che chiamò Giulia Drusilla, e la pose in grembo a Minerva raccomandandole di nutrirla e di allevarla. La riteneva del suo seme se non altro perché ne riconosceva i segni della crudeltà, che in lei era già fin da allora tale da spingerla a graffiare e ficcare le dita negli occhi dei bambini che giocavano con lei. Sarebbe futile e di poca importanza aggiungere a tutto questo in che modo abbia trattato parenti e amici: Tolomeo, figlio del re Giuba e suo cugino (era infatti anche lui nipote di Marco Antonio, essendo nato da sua figlia Selene) e soprattutto Macrone e la stessa Ennia, che l’avevano aiutato a prendere il potere. A tutti questi, per diritto di parentela e a ricompensa dei loro meriti, fu data una morte cruenta. E non ebbe maggior rispetto o umanità verso il Senato: ad alcuni che avevano rivestito altissime cariche fece la concessione di correre in toga presso il suo cocchio per molte miglia e di stare ai suoi piedi o alla spalliera, con un tovagliolo alla cintola, mentre egli cenava; altri, dopo averli fatti ammazzare di nascosto, continuò a farli convocare, come se fossero vivi e dopo alcuni giorni, dichiarò, mentendo, che si erano suicidati. Sospese l’incarico ai consoli che si erano dimenticati di annunziare al pubblico il suo giorno natale e lo Stato rimase per tre giorni senza la sua più alta carica. Fece flagellare il suo questore, indiziato di congiura, avendo fatto gettare sotto i piedi dei soldati la veste che gli era stata strappata di dosso, affinché potessero poggiarvisi più saldamente per frustarlo. Con eguale disprezzo e violenza trattò anche gli altri ordini. Irritato dal chiasso della folla che occupava i posti gratuiti del Circo nel bel mezzo della notte, fece scacciare tutti a bastonate. In quello scompiglio rimasero schiacciati più di venti cavalieri romani e altrettante matrone, oltre un numero imprecisato di altre persone della folla. Durante i ludi scenici, per creare la rissa tra la plebe e i cavalieri, dava le elargizioni prima del tempo previsto, affinché i posti riservati ai cavalieri fossero occupati dai più poveri. Durante alcuni spettacoli gladiatori, talvolta faceva togliere il velario quando il sole era più ardente, non permetteva a nessuno di uscire e, eliminato l’allestimento ordinario, offriva al pubblico bestie macilente, gladiatori scadentissimi e vecchissimi, talora gladiatori per burla, padri di famiglia noti per un qualche difetto fisico. Spesso minacciò di affamare il popolo, dopo aver fatto chiudere i granai pubblici. In questi modi rivelò al massimo la sua indole crudele. Poiché le bestie da dare in pasto alle fiere destinate allo spettacolo costavano troppo care, fece dare loro da sbranare alcuni condannati e, passando in rassegna le prigioni, senza guardare le note di alcuno, ordinò di farli uscire tutti, «da quel calvo a quell’altro calvo», standosene soltanto in mezzo al portico. Pretese che un tale che aveva promesso di battersi come gladiatore per la guarigione dell’imperatore, mantenesse il voto e stette a guardarlo mentre combatteva con la spada e non lo fece smettere finché non risultò vincitore e solo dopo essersi fatto pregare a lungo. Un altro che, per lo stesso motivo, aveva fatto voto di uccidersi, lo consegnò a dei ragazzi affinché cinto di verbene e bende sacre, lo spintonassero da un rione all’altro fino a farlo precipitare da un’altura. Condannò molti cittadini di onorevole condizione, dopo averli sfregiati col marchio d’infamia, ai lavori forzati nelle miniere e nella lastricazione delle strade, o li fece rinchiudere in gabbia costringendoli a stare a quattro zampe, come bestie, altri li fece segare in due e non per gravi colpe, magari perché avevano giudicato male un suo spettacolo o non avevano mai giurato sul suo genio. Costringeva i genitori ad assistere alla tortura dei figli e ad un genitore che aveva addotto il pretesto di un’indisposizione per sottrarsi, fece mandare una lettiga; un altro, subito dopo averlo fatto assistere al supplizio, lo invitò a pranzo e lo provocava a ridere e scherzare, con ogni tipo di allettamento. Fece battere con le catene in sua presenza per svariati giorni un organizzatore di spettacoli e di cacce, e lo fece uccidere solo quando il lezzo della sua testa, per le ferite marcite d’infezione, divenne insopportabile. Fece bruciare vivo in mezzo all’arena dell’anfiteatro il compositore di un’atellana, per un verso di senso ambiguo. Ordinò di far ritirare dall’arena un cavaliere romano, condannato ad esser dato in pasto alle belve, che si proclamava innocente: gli fece strappare la lingua e poi lo mandò di nuovo nell’arena. Una volta, poiché aveva chiesto a un tale che tornava da un lungo esilio, come fosse solito passare il tempo laggiù e quello, per adularlo, gli aveva risposto: «Pregavo sempre gli dei di far morire Tiberio, come poi è accaduto, e che divenissi tu imperatore», pensando che anche quelli condannati da lui all’esilio chiedessero in preghiera la sua morte, mandò degli emissari nelle isole per ucciderli tutti. Essendogli venuta la voglia di fare a pezzi un senatore, istigò alcuni affinché, appena fosse entrato nella Curia, lo assalissero, proclamandolo nemico pubblico e dopo averlo trafitto con gli stili, lo dessero da straziare alla folla e fu pago solo dopo aver visto le membra e gli arti e le viscere di quello trascinati per le strade e poi ammucchiate davanti a sé. E aggiungeva all’atrocità delle sue azioni quella delle parole. Diceva che la cosa che più lodava e approvava della propria indole era, per usare un suo termine, la ἀδιατρεψίαν (cioè l’impudenza). Alla nonna Antonia che lo rimproverava, come se non bastasse solo disobbedire, disse: «Ricordati che a me è concesso fare ogni cosa e contro chiunque!». Quando stava per uccidere il fratello e sospettava che quello, temendo d’essere avvelenato, prendesse un antidoto, disse: «Un antidoto contro Cesare?». Minacciava le sorelle che aveva relegato in esilio, dicendo che egli oltre alle isole possedeva anche le spade. Un ex pretore, da Anticira, dove si era ritirato per motivi di salute, aveva chiesto insistentemente di potere prolungare il congedo. Caligola, avendo ordinato di ucciderlo, soggiunse che a una persona alla quale non era giovato per tanto tempo l’elleboro, sarebbe giovato un salasso di sangue. Quando ogni dieci giorni firmava l’elenco dei prigionieri da torturare, diceva che egli «regolava i conti». Avendo condannato contemporaneamente dei Galli e dei Greci, si vantava di «aver soggiogato la Gallogrecia». Non permise che si suppliziasse alcuno se non con colpi brevi e frequenti, per via di quel suo precetto noto e spesso da lui ribadito: «Ferisci in modo che senta di morire!». Una volta, avendo fatto punire per un errore di nominativo una persona diversa, disse che anche quello aveva meritato eguale sorte. Di tanto in tanto andava ripetendo quel verso di una tragedia: Odino, purché temano. Spesso inveì contro tutti i senatori allo stesso modo, appellandoli clienti di Seiano, delatori di sua madre e delle sue sorelle, tirando fuori i documenti che aveva fatto finta di bruciare, difendendo la efferatezza di Tiberio come inevitabile se si doveva prestar fede a così tanti accusatori. Denigrò spesso l’ordine dei cavalieri come dedito agli spettacoli del Circo. Adirato con la folla che plaudiva contrariamente alle sue preferenze, esclamò: «Ah, se il popolo romano avesse una sola testa!». Quando venne richiesto il ladro Tetrinio, disse che erano Tetrinii anche quelli che lo richiedevano. Cinque reziari tunicati che combattevano in gruppo erano stati vinti da altrettanti avversari senza opporre alcuna resistenza. Avendo ordinato che fossero uccisi, uno di loro, afferrata di nuovo la fiocina, uccise tutti i vincitori: egli allora condannò come esecrabile quella strage e imprecò contro quelli che avevano tollerato un simile spettacolo.» SVETONIO, CALIGOLA, 22-30

Forse l’imperatore era impazzito, forse era già pazzo, o forse semplicemente molte delle fonti essendo scritte da senatori sono ostili nei suoi confronti per partito preso, o forse tutte le cose messe insieme. Si fece costruire perfino delle enormi navi nel lago di Nemi, dove passava il tempo libero, che vennero poi ritrovate durante il periodo fascista quando il lago fu prosciugato (e successivamente distrutte durante la seconda guerra mondiale in circostanze non del tutto chiaro). E’ difficoltoso distinguere la propaganda dalla realtà, ma è estremamente probabile sia che la malattia abbia compromesso le sue facoltà mentali, sia che nei suoi modi di fare ci fosse una deliberata sfida al senato: «Eguale crudeltà, sia negli atti che nelle parole, mostrava anche quando si dedicava agli svaghi ed era intento al gioco o a banchettare. Spesso, mentre pranzava e sbevazzava, faceva svolgere in sua presenza interrogatori con torture, e un soldato abile a decapitare mozzava il capo ad alcuni prigionieri tratti dal carcere. A Pozzuoli, mentre si dedicava a quel ponte da lui escogitato, di cui abbiamo parlato prima, dopo aver invitato molti dalla riva ad avvicinarglisi, improvvisamente li gettò tutti in mare e con remi e pali ricacciò in acqua quelli che cercavano di salvarsi aggrappandosi ai timoni. A Roma, durante un banchetto pubblico, affidò immediatamente al carnefice un servo che aveva rubato una lamina d’argento da un letto tricliniare, e ordinò che le mani gli fossero mozzate e appese al collo e che fosse portato in giro tra i convitati così conciato, preceduto da un cartello che spiegava il motivo di quella punizione. Trafisse con un pugnale un gladiatore mirmillone che era venuto dalla palestra per addestrarlo al combattimento con armi spuntate: quando questi si lasciò cadere spontaneamente a terra, egli lo trafisse e poi andò in giro correndo con la palma in mano a mo’ di vincitore. Una volta, condotta una vittima all’altare, egli, con le vesti succinte da sacerdote sacrificatore, librato in aria il maglio, ammazzò il sacerdote che doveva sgozzare la vittima. Durante un assai lauto banchetto, scoppiò improvvisamente a ridere e ai consoli seduti al suo fianco, che gli chiedevano perché mai ridesse in tal modo, rispose: «Di cos’altro se non del fatto che a un mio solo cenno voi due potreste essere immediatamente sgozzati?». Tra le varie sue beffe, una volta, stando in piedi presso la statua di Giove, chiese ad Apelle, un attore tragico, chi dei due gli sembrasse più grande e, poiché quello esitava, lo frustò e mentre l’attore lo supplicava, egli magnificava quella voce come dolcissima perfino nei gemiti. Ogni volta che baciava il collo della moglie o di un’amante qualsiasi, soggiungeva: «Un collo così bello sarà spezzato appena lo vorrò». E a volte soleva anche ripetere che anche con le corde avrebbe cercato di far confessare alla sua Cesonia perché mai l’amasse tanto. E con livore e cattiveria pari a tale arroganza e crudeltà, perseguitò quasi tutti gli uomini d’ogni età. Fece abbattere e rompere le statue degli uomini illustri che Augusto aveva fatto trasportare dalla piazza del Carìipidoglio alquanto angusta, al Campo Marzio, in modo tale che, in seguito, quando furono restaurate, non si poterono ricostruire le iscrizioni e vietò di erigere alcuna statua ad alcun uomo ancora vivo in alcun luogo se non con il suo consenso o per sua iniziativa. Pensò persino di far distruggere i poemi omerici, chiedendosi «perché mai non dovesse esser lecito a lui ciò che lo era stato per Platone, che aveva bandito Omero dalla sua repubblica ideale». E poco mancò che non facesse togliere da tutte le biblioteche i libri e le immagini di Virgilio e Tito Livio, criticando l’uno come privo d’ingegno e di scarsissima cultura, l’altro come prolisso e trascurato nella narrazione storica. Anche dei giureconsulti spesso diceva in giro che aveva intenzione di abolire ogni uso della loro scienza e che egli «avrebbe fatto in modo, sì, per Ercole, che nessuno oltre lui amministrasse la giustizia». Tolse ai cittadini più nobili gli antichi stemmi gentilizi: ai Torquati la collana; ai Cincinnati il ricciolo; ai Pompei, di antica stirpe, l’appellativo Magno. Dopo aver invitato dal suo regno Tolomeo (del quale ho già parlato) e dopo averlo accolto con i dovuti onori, lo fece uccidere per la sola ragione che quello, al suo ingresso nell’anfiteatro, in occasione di uno spettacolo gladiatorio fatto allestire da Caligola, aveva attirato su di sé l’attenzione di tutti col suo splendido mantello di porpora. Ogni volta che gli capitavano davanti giovani belli, dai bei capelli, ne deturpava l’aspetto, facendo radere loro la nuca. Esio Proculo, figlio di un primipilo, per la sua notevole mole e bellezza fisica, era soprannominato Colossero: Caligola lo fece arrestare all’improvviso, mentre assisteva a uno spettacolo e lo costrinse a duellare prima con un gladiatore trace e subito di seguito con un oplòmaco e, poiché era riuscito entrambe le volte vincitore, ordinò di incatenarlo immediatamente, di trascinarlo per i rioni della città, mostrandolo alle donne ricoperto di stracci, e poi sgozzarlo. Nessuno per lui fu tanto povero o disgraziato da non trovare il modo di recargli danno. Istigò contro il sacerdote principale di Diana Nemorense, poiché da molti anni ormai era in carica, un avversario più vigoroso. Un giorno in cui si teneva uno spettacolo gladiatorio, poiché l’essedario Porio, mentre affrancava un suo schiavo per festeggiare il successo riportato nel combattimento, era stato applaudito dalla folla con particolare entusiasmo, Caligola si slanciò dagli spalti contro di lui con tale foga che, inciampando nell’orlo della toga, ruzzolò per i gradini, esecrando indignato che un popolo, signore delle genti, per una cosa così insignificante tributasse più onore a un gladiatore che ai prìncipi deificati o a lui stesso, vivo e presente. Non rispettò né il suo né l’altrui pudore. Si racconta che abbia avuto relazioni scandalose con Marco Lepido, con il pantomimo Mnestere e con alcuni ostaggi. Valerio Catullo, giovane di famiglia consolare, raccontava in giro di averlo posseduto e di essersi sfiancato in quegli amplessi. Oltre ai rapporti incestuosi con le sorelle e alla sua ben nota passione per la prostituta Pirallide, non risparmiò donna alcuna di rango elevato: le invitava per lo più a cena con i loro mariti, le faceva sfilare ai suoi piedi, le esaminava con cura e a lungo, come fanno i mercanti di schiavi, sollevandone con la mano il volto, se alcune, vergognandosi, chinavano il mento. Poi, quando gli veniva l’uzzolo, uscito dalla sala del triclinio, faceva chiamare quella che aveva trovato più piacente e poco dopo tornava in sala con i segni ancora evidenti dell’amplesso lascivo, e pubblicamente esprimeva elogi o critiche elencando pregi e difetti del corpo della donna e dell’amplesso. Ad alcune, a nome del marito, se costui era assente, comunicava il ripudio e ordinava che venisse registrato agli atti. Nel dissipare, fu superiore in ingegno a qualsiasi scialacquatore. Ideò un nuovo tipo di bagni e straordinarie qualità di cibi e di cene, sì che si lavava con unguenti caldi e freddi, sorbiva preziosissime perle sciolte nell’aceto, faceva imbandire pani e vivande d’oro agli invitati, ripetendo spesso che o si era un uomo frugale o si era Cesare. E persino lanciò alla plebe dall’alto della Basilica Giulia, per alcuni giorni, monete in gran quantità. Fece costruire anche navi liburniche a dieci ordini di rematori con poppe incastonate di gemme, vele variopinte, con dovizia di terme, portici e triclinii e grande varietà di viti e di alberi da frutta, a bordo delle quali, sdraiato, banchettava di giorno, tra danze e musiche, navigando lungo le coste della Campania. Quando si faceva costruire ville e palazzi, senza alcun senso della misura, desiderava soprattutto la realizzazione di opere ritenute impossibili: costruire moli in acque di mare agitate e profonde, fendere rupi di pietra durissima, portare i campi all’altezza delle colline mediante terrapieni, spianare i gioghi dei monti con opere di scavo, il tutto con eccezionale rapidità, poiché ogni indugio si pagava con la vita. Per non elencare ogni cosa, in meno di un anno, dissipò immense ricchezze e l’intero tesoro di Tiberio, duemila e settecento milioni di sesterzi. Prosciugato il patrimonio, avendo bisogno di ricchezze, si diede alle ruberie, escogitando in maniera assai astuta ogni forma di calunnie, di aste giudiziarie e di tributi. Non riconosceva il diritto di cittadinanza ai discendenti di coloro che l’avevano ottenuta per sé e per i propri posteri, eccettuati i loro figli. Sosteneva infatti che non si dovessero intendere come posteri quelli che venivano dopo il primo grado e, se gli portavano come prove i diplomi del Divo Giulio o del Divo Augusto, li stracciava in quanto vecchi e obsoleti. Denunciava come false le dichiarazioni di quei censi che, per un qualsiasi motivo, successivamente fossero aumentati. Annullò i testamenti dei primipilari che, dall’inizio del principato di Tiberio, non avevano nominato come eredi né quello né lui stesso, in quanto esempi di ingratitudine ma ritenne nulli e vani anche i testamenti di chi, a detta di qualcuno, aveva deciso di nominare erede l’imperatore. Instillò in tutti una tale paura, che lo nominavano erede, insieme ai loro familiari, anche persone a lui sconosciute e dei genitori lo inserirono, insieme ai propri figli, nei loro testamenti ed egli osava anche dire che lo avevano preso in giro, se continuavano a vivere dopo il testamento e a molti di loro fece recapitare manicaretti avvelenati. Giudicava le cause solo dopo aver fissato la somma per la cui acquisizione si doveva procedere, e solo una volta ottenutala si levava la seduta. Inoltre, non sopportando anche il più piccolo indugio, una volta arrivò a condannare con una sola sentenza più di quaranta imputati di cause diverse e si vantò con Cesonia, che si era appena ridestata, di aver fatto tutto questo nel tempo che lei riposava dopo pranzo. Faceva mettere all’asta ciò che rimaneva dopo gli spettacoli e lo esponeva e lo vendeva fissando lui stesso i prezzi e facendoli salire a tal punto che alcuni, costretti a comprare a un prezzo altissimo e avendo perso così tutti i loro beni, si tagliarono le vene. È ben noto che una volta Caio avvertì il banditore di non lasciarsi sfuggire l’ex pretore Aponio Saturnino che, sonnecchiando lì tra i sedili, chinava ogni tanto il capo in avanti, come se annuisse, e non si ultimò la licitazione se non quando, senza che quello lo sapesse, gli furono aggiudicati tredici gladiatori per nove milioni di sesterzi.» SVETONIO, CALIGOLA, 32-38

Gli atteggiamenti sempre più orientaleggianti, la lussuria, la mancanza di contegno, tipica del mos maiorum, condussero il principe, forse in parte impazzito, alla lotta aperta col senato, deridendolo affidando al suo cavallo preferito, Incitato, le insegne di console. La misura era ormai colma e nel 41, d’accordo con i pretoriani, i senatori decisero di sbarazzarsi dell’imperatore: «Favorì chi gli stava a cuore, fino alla follia. Inviava baci all’attore di pantomimo Mnestere, anche durante lo spettacolo e se qualcuno faceva anche un minimo rumore mentre quello danzava, lo faceva trascinare presso di sé e lo flagellava con le sue stesse mani. A un cavaliere romano che dava fastidio, fece notificare l’ordine di partire senza il minimo indugio per Ostia e recare al re Tolomeo, in Mauritania, un plico il cui contenuto era: «Non fare né bene né male al latore della presente». Nominò a capo della sua guardia del corpo germanica alcuni Traci. Alleggerì l’armatura dei mirmilloni. A uno di essi, di nome Colombo, che aveva vinto il combattimento ma era rimasto leggermente ferito, fece stillare nella piaga un veleno che poi chiamò Colombino. Fu trovato infatti insieme agli altri veleni così denominato con una scritta di suo pugno. Era accanito sostenitore dei Verdi tanto che spesso si intratteneva a cena nelle scuderie e, durante una di queste gozzoviglie, diede vari doni per un valore di due milioni di sesterzi all’auriga Eutico. Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.» SVETONIO, CALIGOLA, 55

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Scipione Africano: dall’apogeo al declino. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Nel 204 a.C. Scipione era sbarcato in Africa, dopo che anche gli ultimi aiuti cartaginesi per Annibale in Italia erano falliti (il fratello Asdrubale era stato sconfitto da Livio Salinatore e Claudio Nerone presso il Metauro nel 207 a.C. e la sua testa era stata poi lanciata nel campo di Annibale). Anche Annibale fu costretto a fare ritorno in Africa, ormai senza rifornimenti e l’aiuto delle popolazioni italiche, in parte rimaste fedeli a Roma in parte punite da quest’ultima e tornate dunque sotto l’egida romana. Scipione, compresa e messa in pratica la tattica di Annibale che faceva largo uso della cavalleria numidica per accerchiare il nemico, riuscì a far passare dalla sua parte anche il principe numida Massinissa, a cui fu promesso il trono, al momento tenuto da Siface, alleato con i cartaginesi. La sua cavalleria sarà fondamentale per la vittoria romana. Il senato cartaginese richiamò Annibale che sbarcò ad Hadrumetum, più di trent’anni dopo aver lasciato l’Africa, nel 203 a.C., con i suoi 15.000 veterani della campagna d’Italia.

Zama e la fine della seconda guerra punica. I cartaginesi, mentre organizzavano un nuovo esercito per Annibale, sicuri di vincere, rifiutarono le condizioni di pace di Scipione. I due eserciti si incontrarono nei pressi di Zama, la cui posizione non è del tutto sicura. Scipione aveva circa 35.000 uomini, di cui più di 4.000 erano cavalieri numidi. L’esercito di Annibale era forse leggermente più numeroso, circa 45-50.000 uomini stando a Livio e Polibio (12.000 mercenari liguri, celti, baleari e mauri, 15.000 libici e cartaginesi, 15.000 veterani e forse 4.000 macedoni, più 4.000 cavalieri di cui la metà numidi e 80 elefanti). Annibale tentò anche di trovare un accordo di pace il giorno prima della battaglia, chiedendo un incontro con Scipione, che avvenne, ma nel quale il romano rifiutò ogni resa che non fosse incondizionata. Il cartaginese schierò gli elefanti davanti e la cavalleria ai fianchi, lasciando i 15.000 veterani come riserva, più indietro di uno stadio, circa 200 metri, in modo che potessero intervenire se ce ne fosse stato il bisogno. Scipione schierò l’esercito secondo il triplex acies manipolare, con i veliti davanti e la cavalleria, più numerosa ai fianchi. Gli elefanti guidarono la carica cartaginese, ma i veliti riuscirono a creare scompiglio e a ritirarsi negli spazi dei manipoli dietro di loro, opportunamente lasciati in colonna e non a scacchiera come al solito per permettere agli elefanti imbizzarriti di passare senza causare perdite. Un’altra parte degli elefanti, impazziti per il frastuono che facevano i romani per spaventarli, ripiegarono contro l’ala sinistra cartaginese, creando il caos tra i numidi di Annibale. Già scompaginati, questi furono attaccati dai cavalieri di Massinissa, mandandoli in rotta. Altri elefanti scapparono verso l’ala destra cartaginese, causando caos anche nella cavalleria punica, che venne affrontata e messa in rotta da quella italica comandata da Lelio. Forse Annibale aveva studiato il piano fin dall’inizio: permettere alla sua cavalleria di ritirarsi e farsi inseguire per vincere la battaglia con la fanteria, più numerosa, e nel caso impiegare i veterani per dare il colpo di grazia ai romani. Gli astati ebbero inizialmente la meglio ma Annibale poteva contare su più fanteria e lanciò nella mischia anche i veterani, mentre Scipione ordinava ai triari di collocarsi ai fianchi e proteggere i principi. La battaglia fu estremamente furiosa e i legionari di Scipione, in parte sopravvissuti delle legioni cannensi, fecero di tutto per resistere, altrimenti sarebbe stato proibito loro di tornare in Italia. Scipione, costretto dall’inferiorità numerica, dovette lasciare i triari larghi alle estremità, mentre i veterani di Annibale si battevano strenuamente. Fu allora, quando i romani cominciavano ad arretrare, che Lelio e Massinissa fecero il loro ritorno sul campo di battaglia, cogliendo alle spalle i veterani di Annibale. Stavolta era veramente la fine: l’esercito cartaginese era in fuga e Scipione era appena diventato l’Africano e il primo a battere Annibale. Le condizioni di pace romane saranno durissime e piegheranno Cartagine per i successivi 50 anni, costretta a versare un tributo nel complesso di 10.000 talenti. Inoltre doveva:

consegnare la Spagna a Roma

evacuare i territori numidi

consegnare tutti gli elefanti e i prigionieri di guerra

ridurre la flotta a sole 10 triremi

non arruolare truppe tra galli e liguri

consultare Roma per ogni decisione politica in campo internazionale

Per Cartagine era la fine (e la fine del pagamento dei tributi e la paura di una sua rinascita porteranno alla terza guerra punica, la presa di Cartagine e la sua distruzione nel 146 a.C.), per Roma, nonostante le gravissime perdite della seconda guerra punica, era l’inizio dell’espansione nel Mediterraneo. Annibale restò a Cartagine, ma quando temette di essere venduto ai romani fuggì in oriente, prima da Antioco III, il quale venne sconfitto sonoramente dai romani a Magnesia nel 189 a.C., e poi dal re di Bitinia Prusa. Quando Tito Quinzio Flaminino, vincitore di Cinocefale, venne a sapere che si trovava in Bitinia, chiese al re di consegnarlo ai romani. Prima che potesse farlo Annibale si tolse la vita con del veleno. Era probabilmente il 183 a.C., lo stesso anno in cui sarebbe morto Scipione Africano.

Fine della vita politica dell’Africano. Finita la guerra, Scipione nel 199 diventò censore, princeps senatus e di nuovo console nel 194. Insolitamente per l’epoca si ritirò a vita privata, ma nel 190 accettò di andare come legato del fratello Lucio e Gaio Lelio (che comandava la cavalleria romana a Zama), entrambi consoli, in Grecia, ad affrontare Antioco III, re dei Seleucidi. Infatti Antioco III, che voleva conquistare la Grecia, aveva tra le proprie fila Annibale. Per Scipione il cartaginese era la sua nemesi. Nonostante l’Africano fosse ammalato, nel 189 a.C. a Magnesia, in Asia Minore, i romani vinsero. Antioco, pur di compiacere i romani, era disposto a consegnare il cartaginese, che fuggì alla corte del re di Bitinia, Prusa. I romani, tuttavia, ossessionati dal cartaginese, cercarono di assassinarlo, ma prima di riuscirci Annibale si tolse la vita con del veleno. Era all’incirca il 183 a.C. Nel frattempo Lucio, fratello dell’Africano, aveva ottenuto il soprannome di Asiatico. Publio si ritirò a vita privata in Campania, a Literno, dopo che Catone lo accusò di aver comprato una pace favorevole con il re seleucida Antioco III. Per uno strano scherzo del destino morì anch’egli nel 183 a.C., cinquantenne, ormai distrutto dalle accuse di Marco Porcio Catone che in quello stesso 184 era stato eletto censore. La sua tomba lanciava una forte accusa contro la patria che riteneva lo avesse tradito: «Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes» «Patria ingrata, non avrai mai le mia ossia»

VALERIO MASSIMO, V, 3, 2

Questo è il ritratto che ne fa Polibio: « A mio avviso, Publio aveva un carattere e tenne una linea di condotta molto simile a quella del legislatore spartano Licurgo. […] [non dobbiamo credere che] Publio abbia dato alla propria patria un impero del genere, lasciandosi guidare dalle suggestioni di sogni e di presagi. Al contrario, poiché entrambi ritenevano che la maggior parte degli uomini non accettasse facilmente ciò che ha dello straordinario, e neppure avesse il coraggio di affrontare i pericoli senza il benestare degli Dei, […] Publio fece in modo che gli uomini che aveva sotto il suo comando diventassero più coraggiosi e pronti ad affrontare i rischi delle imprese di guerra, convincendoli che i suoi piani fossero ispirati dagli Dei. » POLIBIO, STORIE, X, 2.8-10 

Nel maggio del 330 d.C. veniva inaugurata la nuova città di #Costantinopoli, costruita per volere dell’imperatore sulla vecchia #Bisanzio. La posizione strategica tra l’Europa e l’Asia aveva colpito #Costantino durante la guerra con #Licinio, decidendo di farne la sua nuova capitale. La città, che guardava verso oriente e il #cristianesimo, fu costruita su 7 colli come una nuova Roma, ed ebbe il suo senato. Divenne infine capitale definitiva dell’#imperatore d’oriente nel V secolo e da allora sarà la capitale dell’impero bizantino fino al 1453 (tranne l’occupazione latina tra 1204 e 1261), difesa dalle mura teodosiane costruite per volere del prefetto al pretorio Antemio. Le mura teodosiane furono costruite all’inizio del V secolo d.C., sotto l’imperatore Teodosio II, di cui abbiamo anche il codice teodosiano, la più importante raccolta di leggi romane dopo il codice di #Giustiniano. Inizialmente Costantinopoli era protetta dalle mura erette da Costantino, ma l’espansione della città e le minacce barbariche spinsero il governo imperiale ad erigere una seconda cerchia di mura ancora più massiccia. Divennero dunque le più grandi mura romane mai costruite. Nel corso dei secoli le mura subirono ulteriori modifiche, divenendo infine un triplice sbarramento per terra e per mare (con anche una catena tirata nel Corno d’Oro) che rese inespugnabile la città – grazie anche all’invenzione del fuoco greco – fino alla IV crociata, nel 1204. Successivamente, nel 1261 i #bizantini riuscirono a riprendere la città e la tennero fino al 1453, quando dopo quasi due mesi di assedio cadde in mano ottomana. Ancora oggi si possono vedere i segni dei cannoneggiamenti turchi. «Sabino, affrontando i proiettili e ricoperto di dardi, non frenò il suo slancio prima di essere arrivato in cima e di aver sbaragliato i nemici. Infatti, i giudei, sbigottiti dalla sua forza e dal suo coraggio, e anche perché credettero che a dar la scalata fossero stati di più, si diedero alla fuga […] [Sabino] mise un piede in fallo e, urtando contro una roccia, vi cadde sopra […] con un gran colpo. I giudei si voltarono indietro e, avendo visto che era solo e per di più caduto, si diedero a colpirlo da tutte le parti. Quello, levatosi su un ginocchio e riparandosi con lo scudo, dapprincipio si difese e ferì molti di quelli che gli si avvicinavano; ma ben presto per le molte ferite non poté più muovere la destra e alla fine, prima di spirare, fu sepolto sotto un nugolo di dardi[…] Degli altri undici, tre che erano già arrivati in cima furono colpiti e uccisi a colpi di pietra, mentre gli altri otto vennero tirati giù feriti e ricondotti nell’accampamento. Quest’azione si svolse il terzo giorno del mese di Panemo (giugno).»

#Traiano otterrà una grande vittoria, tanto che: «Decebalo dopo essersi presentato dinanzi Traiano, si prostrò a terra supplice e gettò a terra le armi.» «Questo maraviglioso tempio, secondo il sentimento comune, [...] si disse #Pantheon, perché era dedicato a tutti li Dei immaginati da' Gentili. Nella parte superiore [...] erano collocate le statue delli Dei celesti, e nel basso i terrestri, stando in mezzo quella di Cibele; è nella parte di sotto, che ora è coperta dal pavimento, erano distribuite le statue delli dei penati. [...] Bonifazio IV. per cancellare quelle scioccherie, e sozze superstizioni, l'an. 607. purgatolo d'ogni falsità gentilesca, consagrollo al vero Iddio in onore della ss. Vergine, e di tutti i santi Martiri; perciò fece trasportare da varj cimiteri. carri di ossa di ss. Martiri, e fecele collocare sotto l'altare maggiore; onde fu detto s. Maria ad Martyres» (Giuseppe Vasi, Itinerario istruttivo per ritrovare le antiche e moderne magnificenze di Roma, 1763)

ll 30 agosto del 526 moriva #Teoderico, re degli ostrogoti e padrone dell'Italia dal 493. Dopo aver sconfitto #Odoacre, inviato dall'imperatore Zenone, aveva ottenuto il controllo dell'Italia, governandola, almeno nei primi anni, in collaborazione con il senato romano: le cariche amministrative erano tenute dai romani e l'esercito era formato dai #goti. I quali erano stanziati perlopiù nel nord Italia e lungo l'Adriatico, con chiara valenza difensiva. Non solo, Teodorico (educato a #Costantinopoli) controllava praticamente l'antica diocesi Italiciana (cui aggiunse la Provenza), in sostanziale continuità con l'impero tardoantico. Sceglieva anche uno dei due consoli, mentre l'altro era riservato all'imperatore d'oriente. Elogiato dai contemporanei romani, come Cassiodoro, venne chiamato addirittura Augustus da un senatore, su un'epigrafe per la bonifica del Decennovio. Nel 500 tenne il festeggiamento dei tricennalia a Roma, come facevano gli imperatori romani, presenziando anche ai giochi nel Circo Massimo e facendo distribuzioni di pane. Nella prima lettere delle Variae, tramandateci da Cassiodoro, Teoderico chiedeva infine, come suo primo atto ufficiale, di procurarsi la porpora per tingere le sue vesti: era il colore riservato agli imperatori romani. Pochi anni dopo Cassiodoro si spingerà a scrivere che Atalarico, figlio di Amalasunta, fosse il princeps occidentis, in contrapposizione dunque all'imperatore, princeps orientis. Tuttavia la fine di #Atalarico e Amalasunta, mal visti dalla nobilità gotica, che spesso aveva usato la violenza per appropriarsi di beni e terreni romani, portarono alla rottura con la corte orientale, facilitata ulteriormente dai progetti di #Giustianiano, che infine dopo una lunga e devastante guerra (535-553), detta greco-gotica, riconquistò l'Italia, assegnandole nuovamente lo status di provincia e ripristinando i vecchi privilegi e leggi tramite la Prammatica Sanzione. Ma solo pochi anni dopo, nel 568, sarebbero arrivati i #longobardi, ponendo fine all'unità della penisola.

Dopo la distruzione di Alba Longa ad opera del re Tullio Ostilio, i notabili cittadini vennero cooptati nel senato di Roma. Tra di loro c’era anche la gens Qunctia: «Frattanto Roma si ingrandisce sulle rovine di Alba. Il numero dei cittadini fu raddoppiato; venne aggiunto alla città il monte Celio, e per invogliare ad abitarlo Tullo vi pose la sede della reggia, e vi abitò stabilmente. Ammise poi nel senato le principali famiglie albane, perché anche questa parte dello stato crescesse: i Giulii, i Servili, i Quinzi, i Gegani, i Curiazi, i Cleli; e fissò come sede delle adunanze per il consesso così accresciuto la curia che fino al tempo dei nostri padri fu chiamata Ostilia. Infine, per incrementare le forze di tutti gli ordini con l’apporto del nuovo popolo, formò dieci squadroni di cavalleria con uomini albani, accrebbe gli effettivi delle vecchie legioni di fanteria nella stessa proporzione e ne costituì delle nuove.» TITO LIVIO, AUC, I, 30, 1-3

Le origini. Lucio Quinzio Cincinnato (“il riccioluto”) nacque attorno al 520 a.C.; il primo a ricoprire il consolato fu il fratello Tito Quinzio Barbato nel 471, 468 e 465. Cincinnato divenne console nel 460 per la prima volta come consul suffectus (sostituto di Publio Valerio Publicola, morto durante gli scontri con Appio Erdonio), nonostante i timori dei plebei. Infatti il figlio di Cincinnato, Cesone Quinzio, era stato allontanato da Roma da poco. Quest’ultimo si era fatto promotore della parte dei patrizi nella lotta contro i plebei e aveva una tale presenza fisica da far fuggire tutti; finché non venne accusato di omicidio negli scontri che seguirono e, dopo il processo, allontanato da Roma: «Vi era un giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva saputo aggiungere molti meriti militari e un’arte oratoria che lo rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta la città, più pronto di lingua e di mano. Quando si piazzava in mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli attacchi dei tribuni e del popolo. Più volte, quando egli ebbe in mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la plebe (il popolo) fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge non c’era speranza. […]Tito Quinzio Capitolino Barbato, che era stato tre volte console, ricordava i molti titoli di merito di Cesone e della famiglia, affermando che mai nemmeno a Roma si era avuto un ingegno così grande e precoce valore. Cesone era stato suo soldato di prima fila e aveva combattuto il nemico proprio sotto i suoi occhi. Spurio Furio ricordava che Cesone, mandato da Quinzio Capitolino era corso in suo aiuto in un frangente di grande pericolo; si diceva convinto, anche che nessuno più di Cesone avesse contribuito a risollevare le sorti della battaglia. Lucio Lucrezio, console l’anno precedente, e le cui gloriose imprese erano ancora ben vive nella memoria di tutti, divideva i suoi meriti con Cesone, ricordava gli scontri, enumerava le sue splendide azioni in missione e sul campo di battaglia. […] Volscio gridava queste accuse in tutte le occasioni, e l’animo della gente ne fu tanto inasprito che poco mancò che Cesone fosse linciato dal popolo. Virginio ordina che sia arrestato e messo in carcere. I Patrizi oppongono violenza a violenza. […] I tribuni cui Cesone si era appellato esercitano il diritto di intercessione con una decisione che accontenta tutti: si oppongono alla sua carcerazione, deliberano che l’imputato compaia in giudizio e che, in previsione di una sua possibile fuga, fornisca una garanzia in denaro al popolo. […]Virginio volle tenere lo stesso i comizi, ma i suoi colleghi cui era stato interposto appello, sciolsero l’adunanza. Con grande rigore la cauzione fu richiesta al padre il quale fu costretto a vendere tutti i suoi beni e ad andare a vivere per un po’ di tempo in un tugurio, oltre il Tevere, quasi fosse stato condannato al confino.» TITO LIVIO, AUC, III, 11-13

Cincinnato era dunque in aperto scontro con i tribuni della plebe per la sorte del figlio quando venne eletto. Decise subito di arruolare l’esercito per fare la guerra a equi e volsci, ma i tribuni si opposero. Il console rispose: «Ma noi non abbiamo bisogno di alcuna leva perché quando Publio Valerio diede le armi alla plebe per riconquistare il Campidoglio, tutti hanno giurato di radunarsi agli ordini del console e di non sciogliersi mai senza suo ordine. Quindi ecco il nostro editto: voi che avete giurato, dovete trovarvi domani presso il lago Regillo.» TITO LIVIO, AUC, III, 20

I cittadini, costretti a votare nei comizi sotto giuramento militare, non avrebbero dunque potuto opporsi al volere di Cincinnato e votare la lex Terentilia, che voleva limitare i poteri dei consoli. Il console comunque non pose veti e si rimise al senato che deliberò, nel suo interesse, che la legge non doveva essere votata, ma che l’esercito non doveva essere convocato. I consoli non si ripresentarono per le elezioni successive ma i tribuni lo fecero, scatenando l’ira dei patrizi, che volevano rieleggere Cincinnato, il quale rifiutò. Vennero eletti consoli Quinto Fabio Vibulano per la terza volta e Lucio Cornelio Maluginense: «Allora, dopo che il console ebbe riferite le richieste dei tribuni e della plebe, il senato prese la seguente deliberazione: né i tribuni dovevano presentare la legge per quell’anno, né i consoli condurre l’esercito fuori della città; per il futuro poi il senato giudicava anticostituzionale che fossero prorogate le magistrature e fossero rieletti gli stessi tribuni. I consoli si sottomisero alla decisione del senato, ma i tribuni furono rieletti, malgrado le proteste dei consoli. Anche i patrizi allora, per non cedere in nulla alla plebe, volevano anch’essi far rieleggere console Lucio Quinzio. Ma il console tenne il discorso più violento di tutto l’anno, dicendo: «Debbo ancora meravigliarmi, o senatori, se la vostra autorità è nulla presso la plebe? Voi stessi la sminuite, dal momento che, avendo la plebe calpestata la decisione del senato circa la proroga delle cariche, anche voi volete violarla, per non rimanere indietro in impudenza alla folla, come se in questo consistesse l’aver maggior potere nella città, nel dimostrare maggior leggerezza e licenza! Poiché è certo cosa più leggera e più vana il venir meno ai decreti e alle deliberazioni proprie che a quelle altrui. Imitate pure, o senatori, la turba dissennata, e voi, che dovreste essere di esempio agli altri, peccate pure seguendo l’esempio altrui, anziché dare agli altri l’esempio di agire rettamente, purché a me sia concesso di non imitare i tribuni e di non consentire ad essere proclamato console contro un decreto del senato. Te poi, o Gaio Claudio, io esorto affinché anche per parte tua cerchi di stornare il popolo romano da questa illegalità, e riguardo a me ti convinca di questo, che io non giudicherò avermi tu impedito il conseguimento della carica, ma piuttosto aver accresciuta la gloria del mio rifiuto ed evitata l’impopolarità che mi deriverebbe da una proroga». Allora concordemente prescrissero che nessuno votasse Lucio Quinzio come console; se qualcuno l’avesse votato, avrebbero considerato come nullo quel voto. Furono eletti consoli Quinto Fabio Vibulano per la terza volta e Lucio Cornelio Maluginense. In quell’anno si tenne il censimento; ma a causa dell’occupazione del Campidoglio e della morte del console si ritenne contrario alla religione il compiere la purificazione finale.» TITO LIVIO, AUC, III, 21,2-22,1

La dittatura. «Durante il seguente anno, a causa del blocco di un esercito romano sul monte Algido a circa dodici miglia dalla città, Lucio Quinzio Cincinnato, che possedeva soltanto quattro acri di terra e lo coltivava con le proprie mani, venne nominato dittatore. Egli trovandosi al lavoro impegnato nell’aratura, si deterse il sudore, indossò la toga praetexta, accettò la carica, sconfisse i nemici e liberò l’esercito.» EUTROPIO, BREVIARIUM AB URBE CONDITA LIB. I,17

Nel 458 a.C. il console Lucio Minucio Esqulino Augurino era rimasto assediato nel suo accampamento durante la guerra contro gli equi, mentre l’altro console Gaio Nauzio Rutilo, che combatteva i sabini, non poteva portargli aiuto. Fu allora che si decise di eleggere Cincinnato come dittatore, mentre si trovava ai Prata Quinctia a coltivare personalmente la terra. «Una grande moltitudine di Sabini giunse fin quasi alle mura di Roma saccheggiando e devastando: le campagne furono rovinate, e nella città si sparse il terrore. Allora la plebe prese le armi senza fare difficoltà; fra le vane proteste dei tribuni furono arruolati due grandi eserciti. Uno Nauzio lo condusse contro i Sabini, e posto il campo ad Ereto, con piccole scorrerie, per lo più con incursioni notturne, ricambiò la devastazione nel territorio sabino, con tanta rovina che in paragone il territorio romano sembrava quasi intatto dalla guerra. Minucio non ebbe la stessa fortuna né la stessa energia nella condotta delle operazioni; infatti, dopo aver posto il campo a breve distanza dal nemico, pur senza aver subito alcun grave rovescio si manteneva timoroso dentro gli accampamenti. Quando i nemici si accorsero di ciò, la loro audacia crebbe per l’altrui paura, come suole avvenire, e assalirono di notte il campo; ma visto che l’assalto diretto aveva dato scarsi risultati, il giorno seguente si diedero a costruire opere di fortificazione tutto intorno.Prima che le fortificazioni circondando interamente il campo romano chiudessero ogni via di uscita, cinque cavalieri passando fra i posti di guardia nemici recarono a Roma la notizia che il console era assediato col suo esercito. Nulla poteva capitare di più inatteso ed impensato; perciò così grande fu lo sgomento e la trepidazione come se i nemici assediassero la città, non gli accampamenti. Richiamarono in patria il console Nauzio, ma non offrendo la sua persona bastante garanzia, e sembrando necessario nominare un dittatore che rimediasse alla critica situazione, venne prescelto all’unanimità Lucio Quinzio Cincinnato. Conviene che prestino attento orecchio coloro i quali disprezzano ogni altra cosa che non sia la ricchezza, e non ritengono esservi posto per un grande onore e per la virtù, se non dove sovrabbondano le ricchezze: l’unica speranza dell’impero del popolo romano, Lucio Quinzio, coltivava un podere di quattro iugeri, che ora si chiama prato Quinzio, oltre il Tevere, dirimpetto a quel luogo dove ora vi sono le banchine del porto. Colà, sia che appoggiato alla pala stesse vangando, o sia che arasse, comunque mentre era intento alla fatica dei campi, come concordemente viene tramandato, i messi, dopo aver scambiato il saluto, lo pregano di ascoltare con la toga gli ordini del senato, augurando che ciò tornasse in bene a lui e alla repubblica. Rimase allora stupito, e domandando: «Che c’è di nuovo?», ordinò alla moglie Racilia di portargli sùbito la toga dalla capanna. Appena deterso il sudore e la polvere e indossata la toga si fece avanti, i messi congratulandosi con lui lo salutano dittatore, lo chiamano in città e gli espongono in quale pericolo si trovi l’esercito. Una navicella era stata preparata per Quinzio a spese dello stato, e giunto al di là del fiume lo accolsero i tre figli venuti ad incontrarlo, poi altri parenti e amici, e infine gran parte dei senatori. Stretto da tutta questa gente e preceduto dai littori fu scortato a casa. Anche la plebe accorse in gran folla; ma essa non era altrettanto lieta alla vista di Quinzio, giudicando il potere dittatoriale eccessivo, e l’uomo più autoritario di quanto il potere già di per sé comportasse. In quella notte in città non si fece che vegliare. Il giorno seguente il dittatore, giunto nel foro prima dell’alba, nominò maestro della cavalleria Lucio Tarquizio, di stirpe patrizia, che pur essendo stato costretto a prestare servizio come fante per la sua povertà, tuttavia era giudicato di gran lunga il più valoroso in guerra fra i giovani romani. Insieme al maestro della cavalleria si presentò all’assemblea, ordinò la sospensione degli affari civili, fece chiudere le botteghe per tutta la città, proibì a chiunque di dedicarsi ad occupazioni private. Poi ordinò a tutti gli uomini in età di portare le armi di trovarsi armati nel Campo Marzio prima del tramonto del sole con cibi pronti per cinque giorni e con dodici paletti per il vallo; i cittadini che non erano più in età di combattere dovevano cuocere i cibi per i loro vicini mobilitati, mentre questi preparavano le armi e andavano a procurarsi i paletti. Così i giovani corsero alla ricerca dei pali: li presero nel primo luogo che capitava, senza che alcuno lo impedisse; tutti si trovarono per tempo a disposizione secondo gli ordini del dittatore. Quindi, schierato l’esercito in formazione di battaglia più che di marcia, per fronteggiare ogni evenienza, il dittatore in persona guida i fanti, il maestro della cavalleria i suoi cavalieri. Ad entrambe le formazioni erano stati dati gli ammonimenti richiesti dalla circostanza: affrettassero il passo, perché era necessario far presto, in modo da giungere a contatto del nemico nella notte; il console e l’esercito romano erano assediati, e già da tre giorni erano tagliati fuori dall’esterno; non si sapeva che cosa potesse portare ogni notte ed ogni giorno: spesso in un solo minuto si decideva l’esito di grandi avvenimenti. Per compiacere ai capi, anche i soldati fra loro gridavano: «Alfiere, più presto!», «Soldati, statemi dietro!». A mezzanotte giunsero sull’Algido, e quando si accorsero di essere ormai vicini al nemico arrestarono la marcia. A questo punto il dittatore, fatto un giro d’esplorazione a cavallo ed esaminata l’estensione e la forma degli ’ accampamenti, per quanto si poteva vedere di notte, ordinò ai tribuni militari di far radunare i bagagli in un sol punto, e di far poi tornare i soldati ai loro reparti con le armi e i pali. Gli ordini furono eseguiti; poi, mantenendo lo schieramento tenuto durante il cammino, il dittatore dispone tutto l’esercito in lunga fila intorno al campo nemico, e dà ordine di levare tutti insieme il grido di guerra quando sia dato il segnale, e subito dopo di scavare la fossa e di piantare i pali dello steccato nel tratto che ciascuno aveva davanti a sé. Alla spiegazione degli ordini seguì il segnale della tromba: i soldati eseguono il comando. Il grido risuona tutto intorno ai nemici, oltrepassa i loro quartieri e giunge nell’accampamento del console, recando in un campo il terrore, nell’altro un grande entusiasmo. I Romani si esprimono a vicenda la loro gioia: sono grida di concittadini, sono arrivati i soccorsi; e provocano minacciosamente il nemico dai posti di guardia avanzati. Il console dice che non si deve attendere oltre: quel grido di guerra significa che i concittadini non solo sono giunti, ma hanno iniziata l’azione, e non c’è dubbio che già il campo nemico viene attaccato dall’esterno; pertanto dà ordine ai suoi di prendere le armi e di seguirlo. La battaglia comincia nella notte: col grido di guerra gli assediati annunciano alle legioni del dittatore che anche da quella parte si è iniziata la lotta. Già gli Equi si accingevano ad impedire che le opere di fortificazione fossero circondate, quando gli assediati scatenarono il loro attacco; allora, per impedire che riuscissero ad aprirsi un varco attraverso ai loro accampamenti, rivoltisi da quelli che stavano fortificandosi contro gli attaccanti, lasciarono che il lavoro continuasse indisturbato per tutta la notte, e combatterono contro il console fino all’alba. Allo spuntar del giorno già erano completamente circondati dal vallo del dittatore, e facevano difficoltà a reggere all’urto di un solo esercito. Allora l’esercito di Quinzio, che sùbito appena terminato il lavoro aveva ripreso le armi, assalì il vallo nemico. Qui infuriò una nuova battaglia, mentre la precedente non aveva perduto d’intensità. Allora presi fra due fuochi i nemici passarono dalla lotta alle preghiere, supplicando da un lato il dittatore e dall’altro il console di non voler spingere la vittoria fino alla loro completa distruzione, e di lasciarli scampare disarmati. Il console li rimandò al dittatore, il quale duramente aggiunse delle clausole disonoranti: ordinò che gli fossero consegnati legati il comandante Gracco Clelio e gli altri capi, e impose l’abbandono della città di Corbione: del sangue degli Equi egli non aveva bisogno; potevano andarsene, ma, perché confessassero infine che la loro gente era stata sottomessa e domata, dovevano passare sotto il giogo. Il giogo è fatto di tre aste, due piantate a terra, ed una legata sopra a quelle trasversalmente: sotto a questo giogo il dittatore fece passare gli Equi.» TITO LIVIO, AUC, III, 26,1-29,11

Il dittatore radunò l’esercito e riuscì ad arrivare in soccorso ad Augurino. Romani ed equi si combatterono alla battaglia del Monte Algido, che vide la vittoria dei romani. Cincinnato distribuì il bottino e le punizioni ai soldati, mentre Lucio Minucio, che aveva ricevuto una corona d’oro, deponeva la carica di console e rimase sotto al comando del dittatore. Il quale, celebrato il trionfo, dopo soli sedici giorni, depose la dittatura nonostante durasse sei mesi. Cincinnato tornò dunque a coltivare la sua terra. Tra il 451 a.C. e il 449 a.C. vennero redatte le dodici Tavole: in quell’occasione il decemviro Appio Claudio ostacolò apertamente l’elezione di Cincinnato per il 450. Nel 445, dopo l’approvazione della lex Canuleia, che abrogava l’impedimento di matrimonio tra patrizi e plebei approvato dalle XII tavole. Fu allora che Gaio Claudio, zio di Appio, tentò di eliminare i tribuni della plebe: Tito Quinzio Capitolino Barbato e Cincinnato si opposero. Nel 439 su indicazione di Barbato, console per la sesta volta, Cincinnato venne eletto dittatore per la seconda volta. Spurio Melio aveva infatti cercato di farsi nominare rex; Cincinnato scelse come magister equitum Gaio Servilio Strutto Ahala «Il giorno seguente, allorché disposto un servizio di guardia discese nel foro, la plebe rivolse gli sguardi su di lui meravigliata e stupita, e mentre Melio stesso e i suoi seguaci comprendevano che contro di loro era diretta la forza di un così alto potere, e coloro che non erano a conoscenza del complotto monarchico si domandavano quale pericolo, quale guerra improvvisa avesse richiesto i poteri dittatoriali, e un Quinzio a capo della repubblica ad ottant’anni compiuti, il maestro della cavalleria Servilio, mandato dal dittatore, disse a Melio: «Il dittatore ti chiama». Poiché quello intimorito domandava che cosa volesse, Servilio gli notificò che doveva difendersi e giustificarsi davanti al senato dell’accusa mossagli da Minucio; Melio allora si ritrasse fra la schiera dei suoi, e dapprima guardandosi intorno tergiversava; poi, quando il littore per ordine del maestro dei cavalieri stava per condurlo via, fu sottratto all’arresto dai suoi seguaci, e fuggendo implorava la protezione della plebe romana, dicendo che una congiura dei patrizi voleva la sua rovina, perché aveva beneficato la plebe; pregava che lo soccorressero nell’estremo pericolo, e non lo lasciassero trucidare davanti ai loro occhi. Mentre così gridava, Servilio Aala lo raggiunse e lo uccise, e macchiato di sangue, cinto da una schiera di giovani patrizi, annuncia al dittatore che Spurio Melio, chiamato alla sua presenza, aveva subito la giusta punizione per aver respinto il littore e sobillata la folla. Allora il dittatore disse: «Sia gloria a te, o Gaio Servilio, per aver liberata la repubblica». Poi, essendo il popolo in tumulto e incerto su come giudicare il fatto, diede ordine di convocare l’assemblea, e proclamò che Melio era stato ucciso giustamente, anche se fosse stato innocente del reato di aspirare al regno, perché chiamato dal maestro della cavalleria non si era presentato al dittatore. Egli era salito al tribunale per istruire il processo, e dopo che fossero stati esaminati tutti gli elementi della causa Melio avrebbe avuta una sorte conforme alle risultanze; ma poiché si apprestava a ricorrere alla violenza per sottrarsi al giudizio, con la violenza era stato punito. Né era da trattarsi alla stregua di un cittadino un uomo che, nato in un popolo libero, sotto l’impero del diritto e delle leggi, in una città dalla quale sapeva che erano stati cacciati i re, e dove in quel medesimo anno, scopertasi una congiura per riaccogliere nella città i membri della famiglia regale, erano stati decapitati dal padre i nipoti del re, figli del console liberatore della patria; dalla quale il console Collatino Tarquinio per l’impopolarità del nome era stato costretto a deporre la carica e ad andare in esilio; nella quale alcuni anni dopo era stato giustiziato Spurio Cassio per aver ordito un complotto per giungere al regno; nella quale poco addietro i decemviri erano stati condannati alla perdita dei beni, all’esilio, alla morte, per la loro tirannica prepotenza, proprio in questa città lui, Spurio Melio, aveva nutrito speranza di regno. E che uomo era? Per quanto nessuna nobiltà, nessuna carica, nessun merito potesse aprire la via della tirannide ad alcuno, almeno i Claudii e i Cassii si erano insuperbiti per i loro consolati e decemvirati, per gli onori propri e degli avi, per lo splendore della famiglia, fino ad ambire l’illecito: ma Spurio Melio, che avrebbe potuto desiderare più che sperare il tribunato della plebe, ricco accaparratore di frumento, aveva sperato di comperare con due libbre di farina la libertà dei suoi concittadini, e aveva creduto di poter indurre in schiavitù il popolo vincitore di tutte le genti vicine col gettargli del pane, sì che la città accettasse di sopportare come re, fornito delle insegne e del potere del fondatore Romolo, nato da un dio e accolto fra gli dèi, lui che a stento avrebbe tollerato come senatore! Più che un delitto, un mostruoso prodigio si doveva considerare quel fatto, e il suo sangue non era sufficiente ad espiarlo, se non si distruggevano i tetti e i muri entro cui era stata concepita tanta follia, e non si vendevano all’incanto quei beni, contaminati quale moneta per la compera del regno. Ordinava pertanto ai questori di vendere i suoi beni a beneficio del pubblico erario. Ordinò poi che fosse distrutta subito la sua casa, affinché l’area rimanesse a ricordo del nefando progetto sventato; il luogo fu poi chiamato Equimelio. A Lucio Minucio fu fatto dono fuori della porta Trigemina di un bue dalle corna dorate, senza che la plebe fosse contraria, poiché Minucio aveva distribuito alla plebe il frumento di Melio al prezzo di un asse per moggio. Presso alcuni storici trovo riportato che questo Minucio passò dalla classe patrizia a quella plebea, e che cooptato come undicesimo tribuno della plebe sedò la rivolta sorta dall’uccisione di Melio. Ma è poco attendibile che i patrizi abbiano lasciato aumentare il numero dei tribuni, e che un tale esempio sia stato introdotto proprio da un patrizio, e inoltre che una volta ottenuta questa concessione la plebe non l’abbia più conservata, o almeno non abbia cercato di conservarla. Ma soprattutto dimostra la falsità dell’iscrizione posta sotto la sua immagine una legge emanata pochi anni prima, la quale vietava ai tribuni di cooptare un collega.» TITO LIVIO, AUC, IV, 14,1-16,4

Gli scontri tra patrizi e plebei sarebbero continuati ancora fino al 367 a.C., con l’approvazione delle leges Liciniae Sextiae e avrebbe visto fino ad allora una situazione di compromesso, con l’elezione o dei consoli patrizi di sei tribuni militum consulari potestate.

STORIE ROMANE. La decimazione – la più terribile pena militare romana. «Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per scherno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.» TACITO, ANNALI, I, 22-23

I centurioni erano dunque la più grande fonte di preoccupazione per i soldati e li temevano spesso e volentieri, come nel caso di “cedo alteram“, che venne massacrato dai suoi stessi soldati durante la rivolta pannonica seguita alla morte di Augusto. Tuttavia esistevano punizioni ben più esemplari di queste, che arrivavano perfino a condurre il malcapitato legionario alla morte. «Presso i Romani, le leggi puniscono con la morte non solo la diserzione, ma anche alcune piccole mancanze e, ancor più delle leggi, incutono paura i comandanti; essi, però, distribuendo anche ricompense ai valorosi evitano di apparire spietati da parte di chi viene punito.» GIUSEPPE FLAVIO, GUERRA GIUDAICA, III, 5.7.103

“Domandando a ciascuno dove fossero le insegne e dove le armi, decapitò, dopo averli fustigati, i soldati rimasti senza armi, i signiferi che avevano perso l’insegna e inoltre i centurioni e i soldati scelti che avevano abbandonato il proprio posto. Quanto agli altri, uno su dieci fu estratto a sorte e giustiziato”. TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, II, 59

«Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per scherno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.» TACITO, ANNALI, I, 22-23

I centurioni erano dunque la più grande fonte di preoccupazione per i soldati e li temevano spesso e volentieri, come nel caso di “cedo alteram“, che venne massacrato dai suoi stessi soldati durante la rivolta pannonica seguita alla morte di Augusto. Tuttavia esistevano punizioni ben più esemplari di queste, che arrivavano perfino a condurre il malcapitato legionario alla morte. «Presso i Romani, le leggi puniscono con la morte non solo la diserzione, ma anche alcune piccole mancanze e, ancor più delle leggi, incutono paura i comandanti; essi, però, distribuendo anche ricompense ai valorosi evitano di apparire spietati da parte di chi viene punito.» GIUSEPPE FLAVIO, GUERRA GIUDAICA, III, 5.7.103

“Domandando a ciascuno dove fossero le insegne e dove le armi, decapitò, dopo averli fustigati, i soldati rimasti senza armi, i signiferi che avevano perso l’insegna e inoltre i centurioni e i soldati scelti che avevano abbandonato il proprio posto. Quanto agli altri, uno su dieci fu estratto a sorte e giustiziato”. TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, II, 59

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Dare la vita come esempio. Tacito descrive così il servizio militare del suo tempo. Il legionario deve praticamente pagarsi tutto, e ben lontani sono, nel I secolo d.C., i tempi dei grossi bottini che integravano la paga. In seguito gli imperatori saranno costretti a sempre più larghi donativi: «Il servizio militare è, nella sua sostanza, faticoso e non rende nulla: l’anima e il corpo si valutano dieci assi al giorno e con questi si deve pagare gli indumenti, le armi, le tende, oltre a salvarsi dalle sevizie dei centurioni o per comprare qualche esenzione da qualche fatica.» TACITO, ANNALES, I, 17

E in effetti proprio in quest’epoca comincia a venir meno anche una pratica antichissima e che era stata in auge soprattutto nei primi secoli della repubblica: la decimazione. «Da Augusto venne mantenuta la più severa disciplina: dove i suoi legati non ottennero, se non a fatica e solo durante i mesi invernali, il permesso di andare a trovare le loro mogli. […] Congedò con ignominia l’intera X legione, poiché ubbidiva con una certa aria di rivolta; allo stesso modo lasciò libere altre, che reclamavano il congedo con esagerata insistenza senza dare le dovute ricompense per il servizio prestato. Se alcune coorti risultava si fossero ritirate durante la battaglia, ordinava la loro decimazione e nutrire con orzo. Quando i centurioni abbandonavano il loro posto di comando erano messi a morte come semplici soldati, mentre per altre colpe faceva infliggere pene infamanti, come il rimanere tutto il giorno davanti alla tenda del proprio generale, vestito con una semplice tunica, senza cintura, tenendo in mano a volte una pertica lunga dieci piedi, oppure una zolla erbosa.» SVETONIO, AUGUSTO, 24

Nonostante il tentativo di Augusto di ripristinare gli antichi valori e usanze repubblicane, in un’apparente restaurazione della res publica, la pratica venne meno nei decenni successivi, anche se pare che Caligola la volesse applicare, mentre invece sappiamo che certamente venne usata da Corbulone all’epoca di Nerone durante la sua campagna contro i parti, ma non venne più usata dopo Galba (68 d.C.), che proprio in virtù della sua durezza e austerità venne abbandonato dai suoi e ucciso.  «Infine, come se volesse porre fine alla guerra, schierato l’esercito lungo le spiagge dell’Oceano e disposte le baliste e le macchine senza che alcuno sapesse o potesse avere idea di cosa intendesse fare, improvvisamente ordinò di raccogliere conchiglie e riempirne gli elmi e i mantelli, dicendo: «Sono le spoglie dell’Oceano che spettano al Campidoglio e al Palazzo». […] Dopo aver annunciato ai soldati una ricompensa di cento denari ciascuno, come se avesse superato ogni altro esempio di generosità, disse: «Andate in letizia, andate in ricchezza». 47. Da quel momento, non pensò ad altro che alla celebrazione del suo trionfo. »  SVETONIO, CALIGOLA, 46-47

«Prima di allontanarsi dalla provincia, prese una decisione di infame atrocità: trucidare le legioni che avevano mosso una sollevazione dopo la morte di Augusto, poiché avevano allora assediato suo padre, Germanico, e lui stesso bambino. A stento fu convinto a revocare tale decisione improvvisa ma non si potè evitare in alcun modo la sua ostinazione a volerle decimare. Pertanto, dopo avere convocato quelle legioni ad assemblea, senza armi, e aver fatto deporre loro anche la spada, li fece circondare da un drappello di cavalleria. Ma, quando si accorse che la maggior parte di loro, insospettita, si allontanava per andare a riprendere le armi, per difendersi in caso di violenza, allora abbandonò di corsa l’assemblea e partì immediatamente per Roma. Qui scaricò tutta la sua rabbia sul Senato e con minacce cercò di impedire la propagazione di tanto disonorevoli azioni e lamentava che il Senato, tra l’altro, lo aveva defraudato del trionfo dovuto, nonostante che, proprio poco tempo prima, avesse ingiunto che non si dovesse mai rendergli alcuna onoranza, pena la morte.» SVETONIO, CALIGOLA, 48 

Come funzionava la decimazione. Il primo caso attestato di decimazione è narrato da Tito Livio durante la guerra contro i Volsci del 471 a.C., quando i romani fuggirono dal nemico abbandonando le insegne. Pare che il console Appio Claudio Sabino: «Con corsa così precipitosa fra mucchi di cadaveri e di armi si diedero alla fuga, che i nemici si stancarono di inseguire prima che i Romani di fuggire. Il console, dopo essere corso dietro ai suoi richiamandoli invano, riuscito finalmente a radunarli dopo la fuga disordinata, pose il campo in territorio sicuro. Convocata poi l’assemblea si scagliò non a torto contro l’esercito che aveva mancato alla disciplina militare e abbandonate le insegne, e chiedendo ad uno ad uno dove fossero le insegne e le armi, fece frustare e decapitare i soldati che erano senz’armi e gli alfieri che avevano perduto le insegne, ed inoltre i centurioni e i soldati scelti che avevano abbandonato il loro posto: il resto della truppa fu condannato alla decimazione.» TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, II, 59

Tuttavia questa pratica, seppure famosa, venne usata solo in casi eccezionali e da comandanti particolarmente duri, per affermare l’ordine e la disciplina; era in pratica la forma di punizione militare suprema, che coinvolgeva l’intero esercito, reo di aver abbandonato le posizioni, ed era ben più grave delle pene inflitte ai singoli, come la flagellazione con bastoni (punigatio), la fustigazione per essersi addormentato durante la guardia (fustuatium) o avere un pessimo congedo alla fine del servizio (missio ignominiosa). Aveva infatti lo scopo di servire da memoria per i sopravvissuti, per spingerli a combattere fino alla morte qualora si fosse presentata nuovamente una situazione analoga e in generale a combattere con più vigore e forza, rispettando gli ordini dei comandanti. “Allorquando capiti che di queste stesse colpe si macchino parecchi uomini, o che alcuni manipoli, completamente pressati dai nemici, abbandonino i loro posti, i romani non ritengono opportuno condannare tutti quanti alla bastonatura o a morte, ma trovano una soluzione utile e al contempo terribile. Il tribuno raduna la legione e conduce in mezzo quelli che hanno abbandonato il posto; quindi li rimprovera aspramente e infine tra tutti quegli uomini colpevoli di codardia ne sorteggia a volte cinque, a volte otto e a volte venti, tenendo sempre presente il numero totale dei colpevoli, in modo che i sorteggiati ne costituiscano la decima parte. Costoro li fa bastonare senza pietà, nel modo che abbiamo detto, mentre a tutti gli altri fa dare una misura di orzo invece che di grano e poi ordina loro di accamparsi fuori dello steccato, dove non c’è niente a proteggerli. Di conseguenza, dato che il pericolo e il timore del sorteggio incombe allo stesso modo su tutti, poiché non si sa a chi dovrà toccare e dato che la punizione di mangiare orzo ricade su tutti in modo uguale, per ispirare terrore e reprimere il loro errore è stata adottata proprio la migliore pratica possibile.” POLIBIO, STORIE, VI, 38

Tra le decimazioni più famose ci fu certamente quella di Crasso verso i soldati sconfitti da Spartaco. In ogni caso il comandante tramite i suoi tribuni e centurioni divideva i reparti coinvolti nell’ammutinamento, manipoli o coorti e li schierava privi di armi. Veniva fatto passare di mano in mano un sacchetto pieno di pietre colorate, di nero o di bianco; chi estraeva il sasso sbagliato era condannato all’esecuzione, ma dai propri compagni di reparto, il contubernium, la più piccola unità tattica da battaglia (formata da 8 uomini che condividevano tutto, compreso i pasti e la tenda). Dato che chi si rifiutava di uccidere il proprio compagno veniva ucciso sul posto, alla fine i commilitoni giustiziavano il povero sfortunato, lapidandolo. Era in pratica un modo sia per punire il comportamento, costringendoli a uccidere un compagno, sia un modo di unirsi a una sorta di giustizia collettiva ed epurarsi per il proprio errore sul campo di battaglia, condannando coloro i quali – in modo aleatorio – venivano giudicati colpevoli. Tuttavia i malcapitati che avevano dovuto uccidere un altro legionario erano anche condannati a mangiare orzo, cosa considerata infamante poiché era il cibo solitamente riservato agli animali.

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STORIE ROMANE. La coorte. L’organizzazione dell’esercito romuleo prevedeva una legione divisa in centurie censitarie. Tale regola venne mantenuta dall’esercito repubblicano, reclutato per classi e diviso in manipoli di hastati, principes, triarii, velites ed equites. Un manipolo riuniva due centurie di circa 80 uomini (60 per i triarii) e formava l’unità tattica base. Tuttavia l’emergere di nuove minacce durante la seconda guerra punica, condusse Scipione ad adottare una nuova formazione, mutuata in parte dagli alleati italici che già la usava: la coorte.

Dal manipolo alla coorte

Durante la repubblica i romani avevano adottato nuove tattiche da etruschi, sanniti, greci e celti, formando così il loro modo di combattere: due (poi quattro) legioni, affiancate da altrettanti alleati italici, ognuna schierata su tre linee di hastati, principes e triarii. Davanti c’erano i veliti che ingaggiavano una scaramuccia col nemico, mentre i cavalieri erano ai fianchi. I legionari erano disposti a scacchiera, con i principes pronti a colmare i vuoti e sostituire gli hastati se necessario, con i triari alle loro spalle in ginocchio, pronti a combattere. Quest’ultimi entravano in battaglia solo se strettamente necessario: «Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.» T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI VIII, 8, 9-12

Una legione era composta dunque da circa cinquemila uomini, suddivisi in 10 manipoli di hastati, principes e triarii ciascuno, comandati da centurioni: «Da ciascuna di queste classi, ad eccezione per quella dei più giovani, i tribuni scelgono, in base al merito, dieci ufficiali subalterni (centuriones priores); poi ne scelgono altri dieci (centuriones posteriores). Tutti loro sono chiamati centurioni e quello che è stato scelto per primo, entra a far parte del consiglio militare […] non si può sapere come si comporti un comandante o cosa possa succedergli, e comunque, le necessità della guerra non ammettono scuse, essi hanno come obbiettivo che il manipolo non rimanga mai senza un comandante. » POLIBIO, STORIE, VI, 24, 1-2; 7

Però questo schieramento, per quanto bilanciato, era effettivo solo in campo aperto e contro nemici che combattevano lealmente: contro Annibale, la falange o gli elefanti era spesso messo in pericolo, complice la poca flessibilità dei comandanti romani. Fu proprio tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. che Scipione fece adottare due innovazioni fondamentali alle legioni: il gladio e la coorte. 

Una nuova formazione

Combattendo in Spagna, in condizioni difficili e spesso tatticamente sconosciute ai romani, Scipione si rese conto di dover modificare qualcosa. Fece adottare ai suoi soldati una spada iberica che sembrava micidiale, il gladio (i cui primi modelli sono appunto chiamati “hispaniensis“), che se usato correttamente, di punta, provocava ferite micidiali. In secondo luogo per affrontare episodi di guerriglia e di bassa intensità decise di appropriarsi dell’unità tattica della coorte, usata fino ad allora dai soli socii italici. La coorte, che contava circa 500 uomini, raggruppava in sé i tre manipoli di hastati, principes e triarii, permettendo dunque una maggiore flessibilità tattica: infatti non era usata solamente in azioni secondarie, ma anche sul campo di battaglia principale. Tuttavia perchè questo divenisse la norma bisognerà attendere la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. Ma i semi erano ormai piantati e i romani cominciavano a comprendere l’importanza della flessibilità tattica e di azioni fuori dagli schemi. Da allora infatti si comincerà ad uscire dagli schemi della classica azione di hastati-principes-triarii, per passare ad azioni più complesse, come per esempio usare i triarii per fermare la cavalleria o staccare principes e/o triarii per compiere un aggiramento su un fianco o rispondere ad un tentativo di aggiramento. Per giungere alla piena adozione della coorte si dovette attendere la riforma dell’esercito di Gaio Mario, i cui presupposti erano già stati lanciati dai Gracchi. Il nuovo esercito, formato da capite censi, ovvero nullatenenti, non disponeva di equipaggiamento (ormai già fornito dallo stato da qualche decennio e quindi già in parte uniformato) ed era inquadrato direttamente in coorti, essendo venuti meno i presupposti della leva in base al censo (mentre permaneva questa divisione dei comizi, dove le prime 98 centurie più ricche avevano il potere di decidere nei comizi centuriati, avendo la maggioranza assoluta essendo 193 in totale; non solo, le 18 centurie di cavalieri e 80 della prima classe votavano per prime).

La riforma di Mario

Dopo l’elezione al consolato del 107 a.C., Gaio Mario, che aveva intenzione di porre fine alla Guerra Giugurtina, decise di arruolare anche i capite censi, ossia i proletari che non disponevano di proprietà, poiché il grosso dell’esercito precedentemente in Africa al comando di Metello era impegnato altrove, al comando dell’altro console Lucio Cassio Longino, per affrontare la minaccia dei germani che stavano migrando dal nord, in particolare i cimbri. Contravvenendo all’organizzazione secolare dell’esercito romano, formato da contadini-soldato, Mario arruolò dunque chiunque, promettendo bottino e paga. Le armi e uno stipendio sarebbero stati forniti dalla repubblica (già Gaio Gracco, nel 123 a.C., aveva fatto approvare una lex militaris, in cui si sanciva che l’equipaggiamento doveva essere fornito dallo stato). L’episodio era già avvenuto prima, in situazioni d’emergenza, ma da allora divenne la norma. «Mario si accorse che gli animi della plebe erano pieni di entusiasmo. Senza perdere tempo caricò le navi di armi, stipendio per i soldati e tutto ciò che era utile, ordinando a Manlio di imbarcarsi. Egli intanto, arruolava soldati, non come era nell’uso di quel periodo, per classi sociali, ma anzi accettando tutti i volontari, per la massima parte nullatenenti (capite censi).» GAIO SALLUSTIO CRISPO, BELLUM IUGURTHINUM, LXXXVI

La “riforma” era l’epilogo di una serie di avvenimenti che avevano visto i soldati romani distanti per molto tempo dalle loro terre nel corso del II secolo a.C., quando Roma si espanse in tutto il Mediterraneo. Già Tiberio Gracco e Gaio Gracco avevano provato a ridistribuire le terre ai contadini romani, togliendole ai latifondisti (che se appropriavano, favoriti dai lunghi periodi di lontananza), venendo fortemente ostacolati – e infine uccisi – dall’aristocrazia senatoria, che formava in larga parte i latifondisti che volevano colpire. La soluzione di Mario risolveva in modo opposto il problema, sostanzialmente permettendo a chiunque di arruolarsi e di sostituire dei contadini-soldati che combattevano per difendere le loro proprietà e la res publica con dei soldati volontari professionisti, che combattevano per il soldo, il bottino e il loro comandante. E infatti proprio nel I secolo a.C. gli eserciti saranno reclutati da grandi figure senatorie e a loro legati, combattendo in numerose guerre civili, finché non uscirà vincitore Ottaviano. L’esercito così riformato vedeva una ferma di sedici anni (estesa poi a vent’anni e sotto Augusto a venticinque, di cui gli ultimi cinque come veterani); al congedo si riceveva anche un’appezzamento di terreno, che permetteva – paradossalmente – proprio di trasformare in proprietari terrieri coloro i quali inizialmente non lo erano. I veterani venivano inoltre spesso insediati in blocco in un territorio, diventando anche da congedati “clienti” politici dei generali che li avevano arruolati. Un tassello successivo fu la decisione di Mario, nel 101 a.C., dopo aver sconfitto cimbri e teutoni, di concedere la cittadinanza romana a tutti gli italici che avevano militato nelle sue legioni. Di lì a poco sarebbe scoppiata anche la guerra sociale, con gli italici che ottennero infine grazie alla Lex Iulia de civitate e la Lex Plautia Papiria la cittadinanza romana (a sud del Po, a nord ottennero con la Lex Pompeia la cittadinanza latina e solo sotto Augusto quella romana).

La tattica della coorte

La coorte dunque raggruppava i tre manipoli di hastati, principes e triarii, mentre i velites scomparivano. L’equipaggiamento era ormai lo stesso, e non esistevano più le lance dei triarii: tutti usavano lorica hamata, scutum ovale oblungo, pilum, gladio, elmo, cingulum e pugio. Occasionalmente si usavano piume o crini di cavallo per l’elmo e schinieri per le gambe. Permaneva tuttavia la divisione in manipoli, almeno inizialmente, da un punto di vista nominale (questo ancora all’epoca di Diocleziano per indicare i nomi dei centurioni, come hastatus prior/posterior, princeps prior/posterior e pilus prior/posterior, con il più alto in grado che era il comandante dei triari, detto primipilo nella prima coorte): «Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.» CESARE, DE BELLO GALLICO, II, 25-26

Le coorti erano disposte anch’esse in una formazione su tre linee, chiamata triplex acies. Tuttavia Cesare e poi anche suoi successori decisero spesso di adottare una formazione più snella, il duplex acies, su due linee. In entrambi i casi la prima coorte stava davanti all’estrema destra; nel primo lo schieramento era 4-3-3, nel secondo 5-5 coorti. La coorte assunse un ruolo così importante da essere il metro per indicare i reparti in Cesare, che spesso numera più le coorti in suo possesso o in uso che non le legioni: « Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un’insegna durante i combattimenti […] i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l’arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi […] Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l’esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga […] Se i legionari non fossero stati sfiniti […] tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi. » CESARE, DE BELLO GALLICO, VII, 88

Dunque la legione aveva 10 coorti di 480 uomini circa più 120 cavalieri, per un totale di 5.000 uomini (a partire dall’età flavia la prima coorte diventerà di 800 uomini invece che di 480, poiché aveva 5 centurie doppie, invece di 6 standard). Ogni coorte era divisa in 6 centurie, composte a loro volta da 10 contubernia di 8 uomini, che formavano l’unità base dell’esercito e che erano nella stessa tenda. Inoltre ogni legione aveva un simbolo che la rappresentava, di origine animale, come un cinghiale o un lupo, mentre tutte avevano come insegna fin da Gaio Mario l’aquila, portata da un aquilifer. Questo era un simbolo sacro e perderlo in battaglia significava una disgrazia: non è un caso che Augusto si premurò di recuperare le insegne di Crasso prese dai parti a Carre e che Germanico trovò due delle tre aquile perse a Teutoburgo. Al comando di una legione c’era un legatus legionis di estrazione senatoria e che doveva aver già ricoperto alcune cariche politiche; di solito dopo questo comando si otteneva una provincia propretoria e un consolato. Al di sotto del legato (che dipendeva dal governatore della provincia, il legatus Augusti pro praetore) c’erano 6 tribuni, di cui uno era un tribuno laticlavius di famiglia senatoria che svolgeva la sua prima esperienza militare e 5, angusticlavi (ossia dal clavio, il bordo color porpora della tunica, più sottile, per riconoscerli). Alcuni studiosi hanno supposto che i 5 tribuni potessero comandare ognuno 2 coorti e che il tribuno laticlavio fungesse da vice del legato. Solo l’Egitto, che era amministrato come proprietà privata del principe, aveva come comandante di legione un cavaliere praefectus legionis agens vice legati. Successivamente Settimio Severo recluterà tre legioni partiche affidandole tutti a prefetti analoghi a questo. C’era infine, a controllare l’accampamento e la legione, un prefetto apposito, il praefectus castrorum, che si collocava un gradino sotto il tribuno laticlavio e uno sopra il primipilo. Le legioni, accorpate in grandi accampamenti e con funzione più di deterrenza che altro, furono progressivamente spostate al confine (il limes) e frazionate in campi singoli. A partire dall’epoca di Marco Aurelio si comincerà a fare uso di vexillationes (distaccamenti) inviati all’occorrenza per rafforzare un fronte. Nel corso dei secoli queste vexillationes resteranno talvolta permanentemente nei nuovi luoghi e formeranno nuove unità in epoca tardoantica. Alle legioni si affiancavano poi gli auxilia, precedentemente raccolti alla bisogna tra i regni clienti e ora regolarizzati in una forza professionale (es. Cohors I Brittonum, Ala I Brittonum etc.), che invece erano raccolti in più piccoli castra che contenevano una sola coorte o ala ausiliaria, spesso collocati in prossimità del confine fortificato come per esempio in Germania, o talvolta anche oltre: per difendere la nuova provincia degli Agri Decumates, annessi da Domiziano, collocati tra il Reno e il Danubio, verranno creati una fittissima rete di piccoli forti ausiliari. Gli auxilia prenderanno comunque nomi latini e verranno comandati da ufficiali romani di estrazione equestre, la cui carriera venne normalizzata dall’imperatore Claudio.

L’inno di Mameli

Nell’inno di Mameli sono presenti diversi riferimenti alla storia dell’Antica Roma, ritenuta collante della storia d’Italia; tra questi vi è la coorte, ripetuta più volte nella formula “stringiamci a coorte“, inteso come “restiamo uniti”.

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I centurioni. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  L’esercito romano fin dalla sua nascita venne organizzato per classi censitarie e diviso in centurie. Durante la repubblica le legioni, divise in hastati, principes e triarii, avevano un centurione, scelto tra i combattenti migliori, che comandava centurie e manipoli; in seguito il primo dei due centurioni dei triarii divenne il più alto in grado della coorte. Fin dalle origini si narrano di episodi unici legati ai centurioni, come quello che fece decidere ai romani di non spostarsi a Veio dopo il sacco di Brenno:

«Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.» TITO LIVIO, AB URBE CONDITA , V, 55, 1- 5

Il servizio. I centurioni fin dall’epoca repubblicana erano scelti tra i migliori combattenti della centuria, ma in alcuni casi, a partire dal principato, giovani di buona famiglia saltavano la gavetta e prendevano direttamente il posto di centurione. «[…] i centurioni devono essere, non tanto uomini audaci e sprezzanti del pericolo, quanto invece in grado di comandare, tenaci e calmi, che inoltre, non muovano all’attacco quando la situazione è incerta, né si gettino nel pieno della battaglia, ma al contrario sappiano resistere anche se incalzati e vinti, e siano pronti a morire sul campo di battaglia.» POLIBIO, STORIE, VI, 24, 9

Dopo la riforma dell’esercito di Gaio Mario, che lo rendeva professionale, le legioni vennero composte non più da manipoli ma da 10 coorti di circa 480 uomini l’uno. Sopravviveva ancora, più in modo formale che tattico, il manipolo; infatti i centurioni erano distinti in base al manipolo e la centuria di appartenenza (tre manipoli facevano una coorte): hastatus prior, hastatus posterior, princeps prior, princeps posterius, pilus prior, pilus posterius, laddove il pilus (ovvero il triarius) prior della prima coorte era chiamato comunemente primus pilus ed era il centurione più alto in comando della legione. In ogni caso inizialmente il manipolo non sparì del tutto poiché Cesare lo menziona nel suo De Bello Gallico: «Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.» (CESARE, DE BELLO GALLICO, II, 25-26)

Dunque la legione aveva 10 coorti di 480 uomini circa più 120 cavalieri, per un totale di 5.000 uomini (a partire dall’età flavia la prima coorte diventerà di 800 uomini invece che di 480, poiché aveva 5 centurie doppie, invece di 6 standard). Ogni coorte era divisa in 6 centurie, composte a loro volta da 10 contubernia di 8 uomini, che formavano l’unità base dell’esercito e che erano nella stessa tenda. Inizialmente Augusto aveva prefissato una ferma di 16 anni e 4 come veterani, per un totale di 20 anni. Tuttavia le lunghe campagne militari in Illirico e Germania lo spinsero ad allungare i tempi a 25 anni, 20 di servizio e 5 come evocati (veterani). La ferma era piuttosto dura, perché richiedeva enorme impegno fisico, dedizione, un lungo tempo in servizio ed entrate molto modeste se rapportate al sempre maggiore benessere dell’impero. Finché Augusto fu in vita i legionari accettarono loro malgrado questa estensione, ma quando Tiberio divenne imperatore divampò la protesta, controllata solo grazie all’intervento di Druso minore. Si richiedeva a gran voce il ritorno alle condizioni precedenti, con venti anni di ferma e non più venticinque; a farne le spese furono alcuni centurioni e comandanti particolarmente severi: «La rivolta divampa sempre più forte, si moltiplicano i caporioni. Un soldato semplice, un certo Vibulento, sollevato su le spalle dei compagni davanti al seggio di Bleso, si volse a quegli uomini eccitati e intenti a vedere che cosa si proponeva di fare e disse: «Voi avete restituito la luce e lo spirito a questi infelici innocenti; ma chi renderà a mio fratello la vita, a me il fratello? vi era stato mandato dall’esercito di Germania per trattare degli interessi comuni; ebbene, la notte stessa questi l’ha fatto massacrare dai suoi gladiatori, che tiene in armi per il danno dei soldati. Rispondi, Bleso: dove hai nascosto il cadavere? Quando avrò dato sfogo al mio dolore con baci, con lacrime, ordina che sia trucidato io pure, affinché gli uomini ci seppelliscano insieme, uccisi non per aver commesso un delitto, ma perché ci adoperavamo a vantaggio delle legioni». Rendeva ancor più acceso il suo dire col pianto, si percuoteva con le mani il petto e il volto. Poi, allontanò quelli che lo sostenevano su le spalle, balzò a terra e prostrandosi ai piedi di ciascuno, suscitò costernazione e furore a tal punto che alcuni dei soldati incatenarono i gladiatori di Bleso, alcuni i suoi schiavi, altri si sparsero alla ricerca del cadavere. E se ben presto non si fosse visto che non si trovava nessun cadavere e gli schiavi, sottoposti a tortura, non avessero dichiarato che non c’era stata alcuna uccisione e che quello non aveva mai avuto un fratello, non sarebbero andati molto lontano dall’assassinare il comandante. Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per scherno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.» TACITO, ANNALI, I, 22-23

Le condizioni però migliorarono nel corso del tempo: Domiziano aggiunse una quarta rata al pagamento (prima fatto in tre rate annuali) di 75 denari, portandolo a 300 denari (1.200 sesterzi). A partire dall’epoca di Marco Aurelio fu istituita l’annona militare, prima in via provvisoria, poi definitiva da Settimio Severo. Grazie all’annona veniva requisito o acquistato a prezzo conveniente per lo stato l’occorrente per l’esercito, vettovagliamento e armi da fornire all’esercito, che quindi non se lo vedeva più sottratto dalla paga. Dall’età dei severi inoltre la paga fu aumentata da Settimio Severo e di un altro 50% da Caracalla; inoltre venne garantito il matrimonio durante il servizio (prima consentito praticamente solo ai senatori) e dato l’accesso al ceto equestre ai primipili. Dal III secolo inoltre saranno sempre più frequenti i donativi, una tantum, in oro, dati all’esercito, che arricchiranno la paga e forniranno spesso il pretesto per acclamare un nuovo imperatore (il quale era tenuto a donare oro quando scelto).

Episodi memorabili. Nei commentarii di Cesare appaiono spesso soldati, e in particolare centurioni, che si distinsero particolarmente ai suoi ordini. La devozione e l’attaccamento al comandante erano tali da spingerli ad atti di eroismo senza pari. «C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.» CESARE, DE BELLO GALLICO, V, 44

Emblematico è anche il caso del centurione Marco Cassio Sceva, che durante la battaglia di Durazzo tra cesariani e pompeiani si distinse. In un giorno, durante l’assedio, si svolsero sei scontri, che videro – secondo Cesare – 2.000 morti tra i pompeiani e solo 20 tra i cesariani; ma – aggiunge il comandante romano – i suoi furono tutti feriti e quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista: «Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.» CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 53

I cesariani furono costretti a ritirarsi da Durazzo, andando in Tessaglia, dove raccolsero alleati, tranne la città di Larissa in mano al pompeiano Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, al comando delle truppe raccolte in oriente. Pompeo decise dunque di muoversi verso la Tessaglia, confidando di unire le forze e schiacciare Cesare, credendo impossibile per quest’ultimo una vittoria in inferiorità numerica così marcata. Giunto sul posto Pompeo si unì all’alleato, portando le sue forze a circa 45.000 uomini. Ormai certo della vittoria, iniziò una certa rilassatezza nel campo pompeiano, che sarà fatale. Infatti già cominciavano a spartirsi le cariche politiche per gli anni successivi nonostante la battaglia non fosse stata ancora combattuta. Lo scontro si sarebbe svolto nei pressi di Farsalo. Cesare narra di un curioso scambio di battute prima della battaglia con un suo centurione, Gaio Crastino: «Mentre si accingeva a muovere l’esercito e a dare inizio all’azione, Cesare vide uno dei centurioni, uomo fidato ed esperto di guerra, incoraggiare i suoi soldati sfidandoli a gareggiare in valore. «O Gaio Crassinio», gli disse, chiamandolo per nome, «quali speranze abbiamo, e come stiamo a coraggio?». E lui, gridando e protendendo la destra: «Sarà una splendida vittoria, o Cesare. Quanto a me, oggi, o vivo o morto, mi ringrazierai!». Detto questo, per primo si slancia sul nemico, trascinandosi dietro nella corsa i suoi centoventi soldati. Travolti i primi della schiera vi penetra dentro aprendosi un varco con forza e con grande strage, finché non crolla infilzato dalla lama di una spada che gli attraversa la bocca spuntando fuori dalla nuca.» PLUTARCO, VITE PARALLELE, CESARE, 44

«Nell’esercito di Cesare c’era un veterano richiamato, Crastino, che nell’anno precedente, sotto di lui, nella decima legione era stato primo centurione di legione, uomo di eccezionale valore. Appena dato il segnale, egli gridò: «O voi che foste soldati del mio manipolo, seguitemi e agite da valorosi, come avete promesso al vostro comandante. Ci rimane questa sola battaglia: se la vinciamo, egli riavrà la sua dignità e noi la nostra libertà». Nello stesso tempo, scorgendo Cesare, gli disse: «Oggi, o comandante, mi comporterò così che tu mi sia grato, o ch’io viva o ch’io muoia». Detto questo, si lanciò innanzi per primo dall’ala destra e circa centoventi soldati scelti, volontari, di quella centuria, lo seguirono.» «Cadde anche da prode in combattimento Crastino, di cui sopra abbiam fatto menzione, trafitto da un colpo di spada sul viso. Non venne meno a ciò che aveva promesso, muovendo alla battaglia. Cesare infatti stimò e giudicò che il valore di Crastino in quel combattimento era stato eccezionale e che aveva ben diritto per i suoi meriti alla sua riconoscenza.» CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 91, 1-4 ; 99,2-4

Memorabile è anche il centurione di una coorte ausiliaria, tale Giuliano, che affrontò da solo un intero esercito durante l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C.:  «[Il centurione Giuliano] grande esperto nell’uso delle armi, con una prestanza fisica ed una forza d’animo superiore a tutti quelli che io conobbi nel corso di questa guerra, egli, vedendo che i Romani stavano ormai cedendo e opponevano una resistenza sempre più debole, trovandosi sull’Antonia al seguito di Tito, saltò giù e da solo respinse i Giudei che stavano avendo la meglio fino all’angolo del piazzale interno. Davanti a lui tutti scappavano, poiché appariva come un uomo di forza e coraggio superiori. Egli […] mentre i nemici fuggivano in ogni direzione, uccideva tutti quelli che raggiungeva, sotto lo sguardo ammirato di Tito Cesare e il terrore dei Giudei. […] Egli come gli altri soldati aveva i sandali con sotto numerosi chiodi e, mentre correva, scivolò sul pavimento e cadde con un gran rumore dell’armatura, tanto che gli avversari ormai in fuga, si voltarono indietro a guardare. Si alzò dall’Antonia un urlo dei Romani, in ansia per la sua sorte, mentre i Giudei lo circondarono e lo colpirono da ogni parte con lance e spade. [Giuliano] riuscì a ripararsi da molti colpi con lo scudo e più volte cercò di rimettersi in piedi, ma non vi riuscì poiché gli assalitori erano troppo numerosi, e pur rimandendo disteso riuscì a ferirne molti con la sua spada. Ci volle non poco tempo per ucciderlo, poiché aveva tutti i punti vitali difesi da elmo, corazza e teneva il collo incassato fra le spalle. Alla fine con tutte le membra amputate, e senza che nessun [romano] provasse ad aiutarlo, morì. » GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, VI, 1.8.83-88

Lo schieramento romano in battaglia. Da STORIE ROMANE. Durante la repubblica i romani avevano adottato nuove tattiche da etruschi, sanniti, greci e celti, formando così il loro modo di combattere: due (poi quattro) legioni, affiancate da altrettanti alleati italici, ognuna schierata su tre linee di hastati, principes e triarii. Davanti c’erano i veliti che ingaggiavano una scaramuccia col nemico, mentre i cavalieri erano ai fianchi. I legionari erano disposti a scacchiera, con i principes pronti a colmare i vuoti e sostituire gli hastati se necessario, con i triari alle loro spalle in ginocchio, pronti a combattere. Quest’ultimi entravano in battaglia solo se strettamente necessario: «Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.» T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI VIII, 8, 9-12

Il manipolo. Gli hastati, come indica il nome, dovevano essere dotati in principio delle hastae, le lunghe lance in dotazione ai triarii, ma che già nel III secolo a.C. dovettero abbandonarle a favore del pilum. Completava l’equipaggiamento lo scutum ovale, l’elmo (specialmente Montefortino) e la spada, sostituita dalla seconda guerra punica dal gladio ispaniense, oltre a una placca di metallo che fungeva da corazza, e uno schiniere per la gamba sinistra, posizionata più avanti in combattimento. I principes, più abbienti e anziani, formavano la seconda linea, e potevano generalmente contare su alcuni equipaggiamenti migliori, come cotte di maglia (loricae hamatae), che fornivano migliore protezione. L’equipaggiamento offensivo era analogo a quello degli hastati. L’ultima linea era formata dai triarii (tanto che per i romani dire “arrivare ai triarii” significava giungere a una situazione disperata), raramente usati in battaglia e solo se le cose volgevano al peggio. Erano equipaggiati come i principes, ma erano dotati di una lunga lancia al posto del pilum, e pare attendessero lo scontro in ginocchio. Infine i più abbienti, raccolti nelle diciotto centurie più abbienti degli equites durante i comizi centuriati, combattevano a cavallo, e se non potevano permetterselo gli veniva dato un cavallo pubblico, equus publicus. L’esercito veniva schierato su tre linee disposte a scacchiera, con i velites davanti gli hastati, e dietro di questi i principi; in ultima e terza fila i triarii, con centurie grandi generalmente la metà, mentre ai fianchi si disponevano i cavalieri e le coorti e ali ausiliarie dei socii. Le legioni non avevano un singolo comandante come in epoca imperiale, bensì erano comandate da sei tribuni militari. L’idea tattica alla base della legione manipolare era che quando una linea si stancava subentrava la successiva, con hastati e principes ad alternarsi, mentre i triarii subentravano solo in caso di assoluta necessità: «Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.» T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI VIII, 8, 9-12

Per quanto riguarda la preparazione rapida alla battaglia dall’ordine di marcia Polibio narra che: «In un altro caso gli hastati, i principes e i triarii formano tre colonne parallele, i bagagli di ogni singolo manipolo davanti a loro, quelli dei secondi manipoli dietro i primi manipoli, quelli del terzo manipolo dietro il secondo, e così via, con i bagagli sempre intercalati tra i corpi di truppa. Con questo ordine di marcia, quando la colonna è minacciata, possono affrontare il nemico sia a sinistra sia a destra, e appare evidente che il bagaglio può essere protetto dal nemico da qualunque parte egli appaia. Così che molto rapidamente, e con un movimento della fanteria, si forma l’ordine di battaglia (tranne forse che gli hastati possono ruotare attorno agli altri), mentre animali, bagagli e loro accompagnatori, vengono a trovarsi alle spalle dalla linea di truppe e occupano la posizione ideale contro rischi di qualsiasi genere.» POLIBIO, STORIE, VI, 40.11-14

Aggiunge Flavio Giuseppe: «I romani si mettono marcia tutti in silenzio e ordinatamente, restando ciascuno al proprio posto come fossero in battaglia. I fanti indossano corazze (lorica) ed elmi (cassis o galea), una spada appesa su ciascun fianco, dove quella di sinistra è più lunga (gladius) di quella di destra (pugio), quest’ultima non più lunga di un palmo. I soldati “scelti”, che fanno da scorta al comandante, portano una lancia (hasta) e uno scudo rotondo (parma); il resto dei legionari un giavellotto (pilum) e uno scudo oblungo (scutum), oltre ad una serie di attrezzi come, una sega, un cesto, una piccozza (dolabra), una scure, una cinghia, un trincetto, una catena e cibo per tre giorni; tanto che i fanti sono carichi come bestie da soma (i muli di Mario). I cavalieri portano una grande [e più lunga] spada sul fianco destro (spatha), impugnano una lunga lancia (lancea), uno scudo viene quindi posto obliquamente sul fianco del cavallo, in una faretra sono messi anche tre o più dardi dalla punta larga e grande non meno di quella delle lance; l’elmo e la corazza sono simili a quelli della fanteria. L’armamento dei cavalieri scelti, quelli che fanno da scorta al comandante, non differiscono in nulla a quello delle ali di cavalleria. A sorte, infine, si stabilisce quale delle legioni debba iniziare la colonna di marcia.» GIUSEPPE FLAVIO, GUERRA GIUDAICA, III, 5.5.93-97

La coorte. Combattendo in Spagna, in condizioni difficili e spesso tatticamente sconosciute ai romani, Scipione si rese conto di dover modificare qualcosa. Fece adottare ai suoi soldati una spada iberica che sembrava micidiale, il gladio (i cui primi modelli sono appunto chiamati “hispaniensis”), che se usato correttamente, di punta, provocava ferite micidiali. In secondo luogo per affrontare episodi di guerriglia e di bassa intensità decise di appropriarsi dell’unità tattica della coorte, usata fino ad allora dai soli socii italici. La coorte, che contava circa 500 uomini, raggruppava in sé i tre manipoli di hastati, principes e triarii, permettendo dunque una maggiore flessibilità tattica: infatti non era usata solamente in azioni secondarie, ma anche sul campo di battaglia principale. Tuttavia perchè questo divenisse la norma bisognerà attendere la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. Ma i semi erano ormai piantati e i romani cominciavano a comprendere l’importanza della flessibilità tattica e di azioni fuori dagli schemi. Da allora infatti si comincerà ad uscire dagli schemi della classica azione di hastati-principes-triarii, per passare ad azioni più complesse, come per esempio usare i triarii per fermare la cavalleria o staccare principes e/o triarii per compiere un aggiramento su un fianco o rispondere ad un tentativo di aggiramento. Dopo l’elezione al consolato del 107 a.C., Gaio Mario, che aveva intenzione di porre fine alla Guerra Giugurtina, decise di arruolare anche i capite censi, ossia i proletari che non disponevano di proprietà, poiché il grosso dell’esercito precedentemente in Africa al comando di Metello era impegnato altrove, al comando dell’altro console Lucio Cassio Longino, per affrontare la minaccia dei germani che stavano migrando dal nord, in particolare i cimbri. Contravvenendo all’organizzazione secolare dell’esercito romano, formato da contadini-soldato, Mario arruolò dunque chiunque, promettendo bottino e paga. Le armi e uno stipendio sarebbero stati forniti dalla repubblica (già Gaio Gracco, nel 123 a.C., aveva fatto approvare una lex militaris, in cui si sanciva che l’equipaggiamento doveva essere fornito dallo stato). L’episodio era già avvenuto prima, in situazioni d’emergenza, ma da allora divenne la norma. La “riforma” era l’epilogo di una serie di avvenimenti che avevano visto i soldati romani distanti per molto tempo dalle loro terre nel corso del II secolo a.C., quando Roma si espanse in tutto il Mediterraneo. Già Tiberio Gracco e Gaio Gracco avevano provato a ridistribuire le terre ai contadini romani, togliendole ai latifondisti (che se appropriavano, favoriti dai lunghi periodi di lontananza), venendo fortemente ostacolati – e infine uccisi – dall’aristocrazia senatoria, che formava in larga parte i latifondisti che volevano colpire. La soluzione di Mario risolveva in modo opposto il problema, sostanzialmente permettendo a chiunque di arruolarsi e di sostituire dei contadini-soldati che combattevano per difendere le loro proprietà e la res publica con dei soldati volontari professionisti, che combattevano per il soldo, il bottino e il loro comandante. E infatti proprio nel I secolo a.C. gli eserciti saranno reclutati da grandi figure senatorie e a loro legati, combattendo in numerose guerre civili, finché non uscirà vincitore Ottaviano. L’esercito così riformato vedeva una ferma di sedici anni (estesa poi a vent’anni e sotto Augusto a venticinque, di cui gli ultimi cinque come veterani); al congedo si riceveva anche un’appezzamento di terreno, che permetteva – paradossalmente – proprio di trasformare in proprietari terrieri coloro i quali inizialmente non lo erano. I veterani venivano inoltre spesso insediati in blocco in un territorio, diventando anche da congedati “clienti” politici dei generali che li avevano arruolati. La coorte dunque raggruppava i tre manipoli di hastati, principes e triarii, mentre i velites scomparivano. L’equipaggiamento era ormai lo stesso, e non esistevano più le lance dei triarii: tutti usavano lorica hamata, scutum ovale oblungo, pilum, gladio, elmo, cingulum e pugio. Occasionalmente si usavano piume o crini di cavallo per l’elmo e schinieri per le gambe. Permaneva tuttavia la divisione in manipoli, almeno inizialmente, da un punto di vista nominale (questo ancora all’epoca di Diocleziano per indicare i nomi dei centurioni, come hastatus prior/posterior, princeps prior/posterior e pilus prior/posterior, con il più alto in grado che era il comandante dei triari, detto primipilo nella prima coorte). «Cesare, riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.» CESARE, DE BELLO GALLICO, II, 25-26 Le coorti erano disposte anch’esse in una formazione su tre linee, chiamata triplex acies. Tuttavia Cesare e poi anche suoi successori decisero spesso di adottare una formazione più snella, il duplex acies, su due linee. In entrambi i casi la prima coorte stava davanti all’estrema destra; nel primo lo schieramento era 4-3-3, nel secondo 5-5 coorti. La coorte assunse un ruolo così importante da essere il metro per indicare i reparti in Cesare, che spesso numera più le coorti in suo possesso o in uso che non le legioni: «Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un’insegna durante i combattimenti […] i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l’arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi […] Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l’esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga […] Se i legionari non fossero stati sfiniti […] tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi. » CESARE, DE BELLO GALLICO, VII, 88 Dunque la legione aveva 10 coorti di 480 uomini circa più 120 cavalieri, per un totale di 5.000 uomini (a partire dall’età flavia la prima coorte diventerà di 800 uomini invece che di 480, poiché aveva 5 centurie doppie, invece di 6 standard). Ogni coorte era divisa in 6 centurie, composte a loro volta da 10 contubernia di 8 uomini, che formavano l’unità base dell’esercito e che erano nella stessa tenda. Inoltre ogni legione aveva un simbolo che la rappresentava, di origine animale, come un cinghiale o un lupo, mentre tutte avevano come insegna fin da Gaio Mario l’aquila, portata da un aquilifer. Questo era un simbolo sacro e perderlo in battaglia significava una disgrazia: non è un caso che Augusto si premurò di recuperare le insegne di Crasso prese dai parti a Carre e che Germanico trovò due delle tre aquile perse a Teutoburgo.

Storie Romane. Novità e notizie dal mondo romano. Il gladio – il terrore dei nemici di Roma. Durante gli scontri con i cartaginesi e i popoli iberici, nella seconda guerra punica, i romani entrarono in contatto con un’arma micidiale: il gladio. Scipione ne riconobbe subito la forza e decise di farlo diventare l’arma di ogni legionario.

Un’arma devastante

Le prime armi adottate dai romani erano infatti simili a quelle greche e celtiche con cui erano entrati in contatto: xiphos a lama dritta e makhaira a lama curva all’inizio, poi anche spade di derivazione italo-celtica. Infine, a partire dal III secolo a.C., iniziarono a usare un’arma mutuato dai celtiberi con cui combattevano in Hispania, il gladius hispaniensis. Si suppone che la parola stessa venga dal celtico attraverso l’etrusco, proprio in quel periodo, da Kladi(b)os o Kladimos, che significa spada. Il termine diventerà l’equivalente italiano di spada, tanto da indicare l’arma in sé e l’intera categoria di gladiatori (“combattenti armati di spada”).

Subito dopo la presa di Carthago Nova nel 209 a.C. Scipione, rimasto impressionato dall’arma, avrebbe preteso dai fabbri locali che ne producessero 100.000 pezzi. Tuttavia l’arma era forse già usata in Italia da tempo e parecchio diffusa, poiché diverse fonti tra cui Livio narrano che nel 361 a.C., durante la battaglia del fiume Anio, Tito Manlio prese un gladio per affrontare il barbaro celta che sconfisse e da cui prese il nome di Torquato (la Torque era un’ornamento militare gallico, che aveva spogliato allo sconfitto). Probabilmente i romani avevano cominciato a utilizzare l’arma dopo il sacco di Brenno, perfezionandola nel tempo: «Imbracciato uno scudo da fante e impugnata una spada spagnola, si pose di fronte al Gallo.» «Prende uno scudo di fanteria, si mette al fianco la spada ispanica adatta al combattimento a corpo a corpo.» CLAUDIO QUADRIGARIO, ANNALI, FR 106; LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI – VII, 10

In ogni caso l’arma divenne l’unica utilizzata dai legionari nel corso del II secolo a.C., e tale resterà fino al II secolo d.C. (quando sarà progressivamente rimpiazzata dalla spatha). Portata sul fianco destro, per avere una rapida estrazione che non impacciasse lo scutum dopo il lancio del pilum, era lunga circa 60 cm in media, con una lama affilatissima e larga, fatta appositamente per pugnalare a morte. L’arma era talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti, durante la seconda guerra macedonica, a Cinocefale, nel 197 a.C.: «Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.» LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXXI, 34

Il modello ispanico, il primo, aveva praticamente sempre una lama di più di 60 cm, risultando tutt’altro che corto. Veniva utilizzato per colpi di punta micidiali, specialmente all’inguine, zona generalmente poco protetta e le cui ferite erano mortali. Successivamente, a partire dall’impero, vennero introdotti il modello Magonza e Pompei, leggermente più corti; il primo aveva una forma particolare con la lama ondeggiata, più stretta al centro e più larga in punta, mentre il secondo era semplicemente una versione più piccola dell’hispaniensis. Tuttavia l’arma si prestava anche al duello, come riporta sia il caso di Torquato, che dei centurioni Pullo e Voreno sotto Cesare: «C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.» CESARE, DE BELLO GALLICO, V, 44 

Fine di un’arma

Alla fine il gladio fu sostituito da un’arma simile, ma più lunga. Nata infatti come variante di cavalleria del gladio (serviva infatti una spada più lunga per combattere a cavallo), la spatha divenne infine anche l’arma dei legionari romani. Non è ben chiaro come, perché ed esattamente quando la spatha abbia rimpiazzato del tutto il gladio, ma molte ipotesi a riguardo sono state fatte. Si può supporre che siano occorsi una serie di fattori concorrenti:

– una decadenza di addestramento, che permetteva l’utilizzo di un’arma che veniva più menata con fendenti che con rapide stoccate come il gladio; 

– il maggiore afflusso di reclute germaniche nell’esercito avrebbe portato all’adozione di spathae più lunghe e armi ad asta come lance che avrebbero soppresso l’utilizzo combinato di pilum e gladio; 

– un semplice cambio di moda a favore di armi differenti, che permettevano di tenere il nemico più lontano e quindi rischiare meno di essere feriti ma probabilmente anche di lanciare attacchi meno micidiali; 

– un tentativo di opporsi con maggiore efficacia ad attacchi a cavallo e a combattimenti più in ordine sparso che in ranghi serrati.

Probabilmente tutte le opzioni messe insieme sono vere e spiegano anche il mutamento di modo di combattere dalla fine del II secolo d.C. che diviene sempre più falangitico, con la ripresa della lancia a sfavore del pilum, corredata da dardi più piccoli come lo spiculum o la plumbata e al progressivo abbandono nel III secolo di scutum rettangolare (per tornare a quello ovale) e lorica segmentata. Nel complesso il modo di combattere diviene più statico quando in formazione aperta e al contempo più flessibile nei piccoli scontri, riflettendo l’ambivalenza di necessità cui andava incontro l’impero nel difficile periodo di crisi del III secolo. Al contempo non è da escludere un peggiore addestramento e l’influenza di reclute dalle zone di confine, anche perchè l’equipaggiamento tende a uniformarsi sempre più con quello degli ausiliari visti nella colonna di Traiano.

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Filosofo e principe. “Appena ti svegli chiediti: «Può importarmi qualcosa se qualcuno mi biasima quando io agisco rettamente e secondo giustizia?». La risposta è no. Non hai visto, infatti, come si comportano a tavola e a letto quegli individui che si scalmanano ad elogiare o a biasimare gli altri, quali cose fanno e quali invece rifuggono, quali perseguono, quali rubano e rapinano, e non con le mani e coi piedi ma con la parte più nobile, quella, cioè, in cui germogliano, quando lo si voglia, la lealtà, il pudore, l’amore della verità, il rispetto della legge e un demone buono? Alla natura, che ogni cosa ci dona e ci toglie, l’uomo educato e rispettoso dice: «Dammi e riprenditi tutto ciò che vuoi». E glielo dice non con un tono di sfida, ma con spirito di sottomissione e in armonia con le sue leggi. Poco è il tempo che ti è destinato: vivilo come se ti trovassi sulla cima di una montagna, perché fra qui e là non c’è alcuna differenza, quando in qualunque punto dell’universo si viva come in una città. E vengano pure a vederti, lo studino bene il vero uomo che vive secondo natura, e se non lo sopportano, lo uccidano: è meglio morire, infatti, piuttosto che vivere come loro. Non chiederti più quale sia l’uomo virtuoso: cerca di esserlo. MARCO AURELIO, PENSIERI, X, 13-16

La vittoriosa campagna di Lucio Vero contro i parti aveva riportato in occidente la peste antonina. Lucio stesso morì nel 168, lasciano Marco da solo ad affrontare le minacce sul Danubio di quadi e marcomanni, che approfittavano della debolezza data dalla peste. L’imperatore dovette arruolare anche nuove legioni, come la III Italica e attingere perfino a schiavi liberati. Infine, nonostante la sua natura vertesse verso la filosofia, dovette prendere personalmente parte alla guerra. L’imperatore difese l’Italia e poi passò all’offensiva, con una violenta avanzata anche oltre il Danubio, costringendo l’imperatore filosofo a restare in guerra, lontano da Roma per anni. Nel frattempo, circolata la falsa notizia della grave malattia di Marco Aurelio, Avidio Cassio – divenuto governatore d’Egitto – era stato acclamato imperatore nel 175. Ma Marco stava bene e voleva risolvere la questione pacificamente. Tuttavia il senato dichiarò Avidio hostis publicus e quest’ultimo venne ucciso dai suoi stessi soldati. Infine Marco passò all’offensiva totale, attraversando il Danubio, con il progetto di annettere i territori oltre il Danubio, con la costruzione di forti romani oltre il limes. Tuttavia nel 180 si ammalò gravemente, forse colto anch’egli dalla peste antonina. I suoi principi stoici lo fecero andare incontro alla morte con serenità; si lasciò infatti andare e morì il 17 marzo del 180. “Se uno sbaglia, dimostragli il suo errore e correggilo garbatamente. Se non ci riesci, dà la colpa a te stesso. O forse non c’entri nemmeno tu. Qualunque cosa ti accada era per te predisposta fin dal tempo dei tempi, e un fitto intreccio di cause, partendo da allora, ha legato la tua vita a quel determinato evento. Casualità o provvidenza, atomi o natura, una cosa è certa: io sono una parte di quel tutto che è governato dalla natura universale. Ne consegue che sono in qualche modo collegato, in un rapporto di parentela, con le altre parti della mia stessa specie. Se tengo a mente questa verità non verrò in conflitto e non me la prenderò con nulla di ciò che mi deriva dal tutto, di cui sono appunto una parte, in quanto niente di ciò che giova al tutto può essere dannoso per la parte. Il tutto, infatti, nulla contiene che non gli sia utile e vantaggioso. E se tutte le vite individuali hanno in comune questa prerogativa, la natura universale ha in più quella di non essere costretta da alcuna causa esterna a generare cose che le rechino danno. Ricordandomi dunque di essere parte di un tutto così congegnato, accoglierò di buon grado qualunque cosa me ne venga, e, visto che sono intimamente legato in un rapporto di parentela con le parti della mia stessa specie, non farò nulla che sia contrario all’interesse e al bene comune, anzi, in tutte le cose avrò sempre come obiettivo i miei simili, al bene dei quali indirizzerò ogni mio sforzo, astenendomi da tutto ciò che possa contrastarlo. Con questa premessa, create le condizioni necessarie, la vita non potrà che trascorrere serena e tranquilla, come quella di un uomo che sia sempre dedito al bene dei suoi concittadini e pago di qualunque cosa possa venirgli da loro.” MARCO AURELIO, PENSIERI, X, 4-6

Il 31 dicembre del 406 vandali, alani, svevi e altre popolazioni germaniche attraversarono in massa il Reno ghiacciato, cogliendo impreparati sia i limitanei sia i franchi, alleati dei romani, che avrebbero dovuto proteggere la frontiera. La migrazione di massa avveniva mentre in Italia Stilicone affrontava Alarico, tentando di riportare i visigoti dalla sua parte. Onorio decise di eliminare il comandante di origine vandalica, spingendo infine Alarico a saccheggiare Roma nel 410. Alla fine ai visigoti venne data l'Aquitania e lo status di foederati, ma i barbari che erano entrati non fu più possibile ricacciarli. Da quel momento al 476 i romani cercheranno a volte di trattare a volte di fargli guerra, con fortune alterne. Il tracollo fiscale e demografico dovuto all'hospitalitas dei barbari su suolo romano rese inerme l'impero d'occidente, perdendo infine l'importantissima Africa per mano dei vandali e dovendo far affidamento infine solo su soldati barbari. Sarà Odoacre, che reclamava terre per i suoi anche in Italia, al rifiuto di Oreste, padre di Romolo Augustolo, a deporre quest'ultimo e inviare le insegne imperiali all'imperatore Zenone a Costantinopoli, decretando la fine dell'impero romano d'occidente nel 476. Nel IV secolo viene a crearsi un nuovo tipo di esercito limitaneo-comitatense, diverso dalle antiche legioni repubblicane e alto-imperiali. Il 28 agosto del 475 il magister militum Flavio Oreste si ribellò all'imperatore d'occidente Giulio Nepote (che aveva assunto la porpora solo l'anno precedente), prendendo il controllo di Ravenna e costringendo Nepote a fuggire nella sua #Dalmazia, dove rimase in possesso dei sui territori fino alla sua morte, nel 480. #Oreste che era di origini barbariche decise dunque di eleggere come imperatore il proprio figlio, di madre romana, sebbene minorenne, #Romolo, detto Augustolo; probabilmente le simpatie di Nepote e l'aiuto ricevuto dalla parte orientale non erano particolarmente gradite ai senatori italici, che con ogni probabilità appoggiarono la rivolta armata. La situazione era talmente caotica dopo la morte di #Maggiorano (nel 461) che Nepote a Salona, dove era fuggito, trovò come vescovo #Glicerio, imperatore d'Occidente che aveva deposto a sua volta nel 473. Tuttavia l'idea di Oreste di associare a sè il piccolo Romolo, non ebbe continuità poichè già nel 476 #Odoacre, a capo degli #Eruli, che combattevano per l'imperatore, si ribellò deponendo Romolo e uccidendo Oreste. Anche in oriente il magister militum barbaro Aspar tentò in quegli stessi anni di portare avanti un'operazione simile, ma in quel caso avvenne una vera e propria epurazione dei quadri barbarici nell'esercito, a favore degli isaurici, fino ad allora trattati alla stregua di banditi e ricompensati con le più alte cariche pubbliche e militari. «Aureliano era di aspetto elegante e fine, di bellezza virile, piuttosto alto di statura, di fortissima muscolatura; eccedeva un poco nel bere vino e nel mangiare, si abbandonava raramente ai piaceri della carne, era molto severo, estremamente rigido in fatto di disciplina, sempre pronto a por mano alla spada. Difatti, essendovi nell’esercito due tribuni di nome Aureliano – il nostro ed un altro, che fu fatto prigioniero assieme a Valeriano – l’esercito gli aveva affibbiato il soprannome di «mano alla spada», così che, se per caso si voleva sapere quale dei due Aureliani aveva fatto una data cosa o condotta una certa operazione, bastava aggiungere «Aureliano mano alla spada» per capire di chi si trattasse.» (Historia Augusta, Aureliano, 6, 1-2)  «La crudeltà più atroce inflitta dai Britanni ai Romani fu questa. Spogliarono le nobildonne della città e le legarono, poi tagliarono loro i seni e li cucirono alle loro bocche, in modo che sembrasse che li stessero mangiando. Poi impalarono le donne attraverso tutto il corpo.» (Cassio Dione, Storia romana, LXII, 7)

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La divisione tra occidente e oriente. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Già nel III secolo gli imperatori si erano sempre più spesso scelti un co-imperatore, spesso il figlio. E sempre più spesso il più anziano prendeva l’oriente. Racconta Ammiano Marcellino come a Valentiniano, appena acclamato dall’esercito imperatore, nel febbraio del 364, venisse intimato dai soldati stessi di scegliere un collega: « Pochi momenti fa, o miei compagni soldati, era in vostro potere di lasciarmi nell’oscurità di una condizione privata. Giudicando dalla testimonianza della passata mia vita, che io meritassi di regnare, mi avete posto sul trono. Adesso è mio dovere di provvedere alla salute ed al vantaggio della Repubblica. Il peso dell’Universo è troppo grande, senza dubbio, per le mani d’un debol mortale. Io so quali sono i limiti delle mie forze e l’incertezza della mia vita; e lungi dallo sfuggire, io sono ansioso di sollecitare l’aiuto di un degno collega. Ma dove la discordia può esser fatale, la scelta di un fedele amico richiede una matura e seria deliberazione. Di questo io avrò cura. La vostra condotta sia fedele e costante. Ritiratevi ai vostri quartieri; rinfrescate gli spiriti ed i corpi; ed attendete il solito donativo in occasione dell’innalzamento al trono d’un nuovo Imperatore. » (Ammiano Marcellino, Storie, XXVI, 2,3)

Da Adrianopoli alla divisione. Negli anni seguenti la disfatta di Adrianopoli Teodosio, che era succeduto a Valente, cercò di sconfiggere i goti, ma l’esiguità delle forze di cui disponeva e la mancata fedeltà delle nuove reclute barbare secondo la visione dell’imperatore (in alcuni casi i reparti erano in maggioranza barbarica e l’imperatore temeva per insurrezioni) portò Teodosio a firmare la pace, il 3 ottobre del 382, tra romani e goti. In cambio i goti avrebbero dovuto fornire contingenti all’esercito romano, con condizioni di pace favorevolissime, cosa mai avvenuta in precedenza. Nel 390 Teodosio diede ordine di massacrare i goti a Tessalonica, dopo che la popolazione si era ribellata ai goti e aveva impiccato il magister militum Buterico, colpevole di aver arrestato un famoso auriga e di non aver concesso i giochi annuali. Il vescovo di Milano Ambrogio spinse l’imperatore a chiedere pubblicamente perdono; Teodosio accettò: fu il primo caso di supremazia del potere ecclesiastico su quello civile, e l’inizio di un lungo contrasto millenario tra potere spirituale e temporale. In seguito a quest’atto di sottomissione vennero promulgati i decreti teodosiani, che intercedevano l’accesso ai templi pagani, qualsiasi forma di culto, l’immolazione delle vittime di sacrifici equiparata alla lesa maestà, perfino l’adorazione delle statue. Anche le olimpiadi, dopo oltre mille anni, cessarono di esistere. Teodosio aveva nominato Augusti i figli Arcadio e Onorio, ma diversamente dai suoi predecessori, aveva dato al maggiore l’oriente. Entrambi avevano un tutore: Onorio il magister militum di origine vandalica Stilicone, Arcadio il prefetto al pretorio Rufino. Ma non c’era più un Augusto anziano: la divisione, seppure informale, era ormai definitiva.

Due strade diverse. «Arcadio ed Onorio, pervenuti al supremo comando, parevano essere imperatori soltanto nominalmente, essendo di fatto l’Impero d’Oriente nelle mani di Rufino e quello d’Occidente abbandonato all’arbitrio di Stilicone. Tutte le controversie similmente venivano da loro con grande licenza definite, riuscendone vittorioso chi mediante danaro comperava il giudizio, ovvero colui che riusciva a conciliarsi il buon volere del giudice. Di questo modo essi si rendevano possessori dei beni di coloro che gli uomini comuni reputano fortunati. Altri parimente, allettandoli con doni, evitavano le calunnie, ed vi erano pur di quelli, i quali da lor posta cedevano il proprio all’uopo di ottenere magistrature, o di promuovere sinistri alle città. Moltiplicatasi nei popoli, senza eccezione, ogni maniera di scellerataggini, le ricchezze, da dovunque provenissero, affluivano in abbondanza nelle abitazioni di Rufino e Stilicone, mentre gli imperatori non si dedicavano per niente agli affari [di stato], ma ratificavano qualunque ordinamento dei loro governatori come se fosse una legge non scritta.» ZOSIMO, STORIA NUOVA, V,1

La prima quindicina d’anni l’impero d’occidente fu retto formalmente da Stilicone. Quest’ultimo cercò di perseguire la politica di Teodosio di un accomodamento pacifico dei barbari, accogliendoli nell’esercito. Per rafforzare il legame con Onorio aveva sposato una sua cugina, Serena, e aveva dato la propria figlia Maria in sposa all’imperatore. Stilicone, che sosteneva che Teodosio gli aveva lasciato la tutela anche di Arcadio, e voleva un impero unito, cercò di riprendere alla parte occidentale l’Illirico, facendo anche assassinare con un complotto Rufino, tutore e prefetto al pretorio di Arcadio. Nel 397 inoltre Stilicone aveva sconfitto Alarico, capo dei goti, che si erano ribellati, nel Peloponneso, ma non riportò una vittoria decisiva, forse perchè Arcadio glielo chiese, forse perchè non riuscì a mantenere la disciplina tra i soldati. Alarico si era poi mosso verso l’Italia, cercando anche di assediare Milano, dove risiedeva la corte; Onorio si sarebbe poi spostato nella più sicura Ravenna. Nonostante Stilicone riportò vittorie a Pollenzo e Verona, fu costretto a distogliere reparti dal Reno. Poco dopo, nel 406, distrusse un’enorme armata ostrogota guidata da Radagaiso a Fiesole, reclutando 12.000 dei suoi soldati e vendendo moltissimi schiavi. Stilicone fece anche bruciare i libri sibillini, che pare minacciassero il suo potere. Ma proprio in quel 406, complice il Reno ghiacciato e i reparti dislocati in gran parte in Italia, un gruppo di popolazioni barbariche attraversò, senza incontrare resistenza, il Reno, il 31 dicembre. Neanche i franchi, alleati dell’impero, poterono fare nulla. Nel frattempo Stilicone aveva fatto pace con Alarico, nominato magister militum, con l’intenzione di riprendere i territori balcanici ad Arcadio. Ma alla notizia dell’invasione della Gallia e dell’usurpazione di Costantino III in Britannia (e passato anche lui in Gallia), Onorio richiamò Stilicone in Italia, mentre cresceva il partito antibarbarico, che mal vedeva la politica di accomodazione dei barbari. Scoppiò infine una rivolta anti-barbarica, e moltissimi militari e funzionari di origine straniera furono uccisi a Pavia, alla presenza dell’imperatore. Stilicone, invece di affrontarlo, si diresse a Ravenna, ma fu arrestato dopo essersi rifugiato in una chiesa e giustiziato. «Quando poi si dovette condurre il prigioniero [Stilicone] a subire la capitale condanna, i barbari […] avevano stabilito con pronto impeto di liberarlo, e avrebbero tentato di farlo se lui, minacciandoli e intimorendoli, non avesse loro vietato di farlo; dopodiché presentò al boia il collo, uomo per modestia superiore a tutti coloro sorti allora al sommo potere. E, nonostante fosse unito in matrimonio alla nipote del maggior Teodosio, fossero stati affidati alla sua cura gli imperi di entrambi i figli di lui [Teodosio], e avesse detenuto per anni ventitré il comando supremo delle milizie, non fu mai visto assegnare, mediante denaro, magistrature, o trarre guadagno dalla militare annona. Padre inoltre d’unico figlio, gli prefisse come limite d’ogni elevazione di grado la carica di tribuno dei notai (nome della magistratura) senza andare in cerca di altra più eminente onoranza.» ZOSIMO, STORIA NUOVA, V, 34

Senza Stilicone, con i barbari che vagavano per la Gallia, Alarico in Italia e Costantino III ancora in Gallia, la situazione era sempre più difficile. Mentre Alarico tentava di venire a patti con Onorio, quest’ultimo cercò di farlo assassinare da un suo rivale, Saro, senza riuscirci. Il goto, assediata Roma, la saccheggiò nel 410: era dai tempi di Brenno (390 a.C.) che non succedeva. Il cristiano Paolo Orosio narra della clemenza di Alarico, che non avrebbe toccato le chiese, mentre Zosimo, pagano (Storia Nuova, 6, 11, 2), narra che gli abitanti dovettero cibarsi dei cadaveri per sopravvivere; anche il cristiano san Girolamo lo conferma (Lettere, 6, 127) , il che lascia supporre un saccheggio più cruento di quanto le fonti filocristiane lascino apparire. Per Roma fu l’epilogo come capitale. Già nel IV secolo la sua importanza era venuta meno, ora gli imperatori d’occidente, chiusi a Ravenna, ben protetta da mare e terra, non se ne importarono più. Da lì, sull’Adriatico, avevano un collegamento diretto con Costantinopoli. Onorio stesso pare che alla notizia avesse esclamato che Roma stava bene: faceva riferimento alla sua gallina preferita, che si chiamava proprio così. 

Arcadio. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Zosimo, autore pagano, è severissimo con Arcadio, dicendo che «[Ad Arcadio] non riusciva di capire cosa dover fare, essendo del tutto idiota» (Storia Nuova, 5, 14, 1). Per quanto sia una fonte di parte, racconti di questo tipo collimano con quelli del fratello Onorio. In ogni caso fu proprio Gainas a diventare il nuovo potente di corte, divenendo console nel 401. Ma non fu in grado di ricoprirlo, perché a Costantinopoli scoppiò una rivolta antigotica e antibarbarica in generale, che portò a un massacro e all’uccisione di Gainas il 3 gennaio del 401. Morto anche Gainas fu la moglie di Arcadio, Elia Eudossia, a prendere il controllo dell’impero, spingendo Alarico, che continuava a dare problemi nei Balcani, verso occidente. Ma Stilicone aveva avuto la stessa idea, e voleva usare i visigoti per prendere l’Illirico e l’Acaia, relegando Arcadio alla sola Tracia. Tuttavia il progetto fallì quando nel 406 avvenne la grande migrazione attraverso il Reno; Onorio avrebbe poi fatto assassinare Stilicone, mentre i barbari occupavano Gallia e Spagna, nel 408, e al rifiuto di pagare Alarico, magister militum e al contempo re visigoto, avrebbe subito il sacco di Roma del 410. Eudossia, fortemente odiata dal patriarca Giovanni Crisostomo, morì nel 404 a causa di un aborto; a prendere il suo posto fu il prefetto al pretorio Antemio (suo nipote sarà imperatore d’occidente tra il 467 e 472), console nel 405. L’anno successivo divenne anche patricius, titolo riservato a pochissimi. Il primo maggio del 408, però, Arcadio morì di malattia. La noncuranza degli affari pubblici sua e del fratello aveva gettato i semi del crollo della pars occidentalis.

Teoderico. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Il regno di Teoderico è da considerarsi a tutti gli effetti come quello dell’ultimo imperatore romano d’occidente. L’amalo si atteggiò sempre come garante della libertà romana, e per l’amministrazione dello stato utilizzò quasi esclusivamente romani. Perfino nei posti di comando dell’esercito ci sono dei romani. Come racconta Cassiodoro, Teoderico ebbe inizialmente buoni rapporti col senato. Quest’ultimo allo stesso modo andava d’accordo col sovrano: alcuni senatori chiamarono Teoderico princeps e augustus in un’epigrafe. Una cronaca del tempo, l’anonimo valesiano, paragona Teoderico a Traiano e Valentiniano. Lo stesso Cassiodoro non si fa scrupoli a tratteggiarlo come un princeps. Nel 500, per festeggiare il suo trentesimo anno di regno, Teoderico va a Roma. In tutto e per tutto la festa ricorda i tricennalia di Costantino: il re che marcia in trionfo, fa donazioni di frumento, presiede addirittura i giochi nel circo massimo, infine entra in senato e fa un discorso in cui dice di voler mantenere intatti i privilegi concessi dai suoi predecessori (equiparandosi quindi agli imperatori). Inoltre nella prima lettera delle Variae, la raccolta epistolare composta da Cassiodoro degli atti pubblici ostrogoti, si scopre che il primo atto di Teoderico, dopo aver chiesto di essere riconosciuto come padrone d’Italia, è quello di procurarsi la porpora per le sue vesti. Teoderico governò nel tentativo della massima integrazione e collaborazione con i romani; tra l’altro intervenne nella manutenzione di moltissime opere pubbliche, mura e edifici pubblici, tra cui l’arena di Verona, tanto che nel medioevo si credeva che quest’ultima fosse stata costruita dal re ostrogoto. In sostanza gli ostrogoti formavano buona parte dell’esercito, mentre i romani governavano lo stato. Il prestigio di Teoderico era tale che il re sceglieva uno dei due consoli in carica (e l’imperatore l’altro). Come sosteneva Cassiodoro, nei fatti il re ostrogoto era il collega occidentale dell’imperatore bizantino, sebbene non potesse fregiarsi del titolo di imperatore. 

La riconquista di Giustiniano. Nel 533 Giustiniano attaccò i Vandali: nel 530 il loro re Ilderico, di fede nicena, era stato infatti deposto dal cugino ariano Gelimero, che assunse il potere. Belisario comandò l’esercito e, arrivato in Africa, riuscì a sconfiggere i Vandali nei pressi di Cartagine. Due giorni dopo Belisario entrò a Cartagine e, infliggendo un’altra sconfitta ai Vandali a Tricamaro, li costrinse infine alla resa. L’Impero d’oriente ritornò così in possesso dell’Africa, Sardegna, Corsica e Isole Baleari. L’imperatore si sforzò di cancellare ogni traccia della presenza vandalica e ridare potere all’aristocrazia romana; ripristinò l’esercito africano e l’amministrazione romana. Si diffusero voci secondo cui Belisario volesse diventare re, ma Giustiniano concesse comunque al suo generale un trionfo, cosa che con accadeva per una persona che non fosse imperatore dai tempi di Augusto. Giustiniano trovò quindi il casus belli per dichiarare guerra agli ostrogoti, dopo che Amalasunta fu assassinata dal marito Teodato per impadronirsi del trono. Secondo la Storia segreta ad ordire l’assassinio di Amalasunta sarebbe stata addirittura  l’imperatrice Teodora. L’imperatore affidò il comando ancora a Belisario, console nel 535, mentre Mundo invadeva la Dalmazia. Belisario sbarcò in Sicilia, conquistandola in breve tempo, mentre contemporaneamente Mundo riuscì a conquistare la Dalmazia. Nel 536 Belisario attraversò lo stretto di Messina, sottomise senza trovare opposizione l’Italia meridionale (già Cassiodoro narrava che sotto Teodorico ci fossero pochissimi goti a sud di Roma e addirittura nessuno in intere regioni) e si diresse a Roma, che conquistò. Nel frattempo i Goti, insoddisfatti della passività di Teodato, lo uccisero per eleggere re Vitige, che assediò Roma. In quell’occasione furono tagliati gli acquedotti di Roma, che non furono mai più ripristinati. La disunione dell’esercito imperiale, diviso in una fazione fedele a Belisario e l’altra a Narsete, portò alla riconquista gota di Milano, in seguito alla quale Giustiniano richiamò Narsete a Costantinopoli. Senza più Narsete ad ostacolarlo, Belisario poté riprendere la riconquista dell’Italia, impadronendosi con l’inganno della capitale dei Goti Ravenna e facendo prigioniero il re Vitige, che portò con sé a Costantinopoli. Dopo aver stabilito una nuova pace a oriente con i persiani, Belisario fece ritorno in Italia, dove gli ostrogoti si erano organizzati sotto il re Totila (“l’immortale”), avevano recuperato terreno. Totila aveva anche intrapreso una politica di rottura totale con il senato di Roma. Lo scarso numero di truppe fornitegli da Giustiniano e le tattiche spregiudicate del re goto gli impedì di contrastare efficacemente Totila. Nonostante le difficoltà, Belisario riuscì a riconquistare Roma, riuscendo a resistere a un tentativo di assedio della città da parte di Totila. Infine, Giustiniano, su richiesta della moglie di Belisario, lo richiamò a Costantinopoli, dove lo accolse con grandi onori. Dopo la partenza di Belisario dall’Italia, Totila riconquistò Roma e altre città, giungendo a invadere persino la Sicilia e la Sardegna. Giustiniano, a questo punto, mandò in Italia Narsete per cercare di concludere una volta per tutte la guerra gotica. L’eunuco riuscì a sconfiggere definitivamente i goti nella battaglia di Gualdo Tadino (Tagina) nel 552, dove Totila morì in battaglia. Sconfisse poi anche il suo successore Teia, e a conquistare tutta l’Italia nel 553. La conquista non si rivelò però salda, dal momento che la parte settentrionale della penisola venne invasa dai franchi e alamanni mentre alcune fortezze gote ancora resistevano. Narsete riuscì a infine a piegare la resistenza dei barbari e cacciare gli invasori soltanto nel 562. Nel 565 sarebbe morto Giustiniano, lasciando un’Italia distrutta da 20 anni di guerra e prosciugata di uomini e risorse (il senato era stato totalmente decimato), incapace di reggere l’urto della migrazione longobarda nel 568. Con la Pragmatica Sanzione del 554 la legislazione imperiale fu estesa all’Italia. La massima autorità civile era in teoria il prefetto del pretorio risiedente a Ravenna ma nei fatti l’autorità civile fu sempre limitata fin dal principio da quella militare. Fu infatti lo strategos autokrator (magister militum) Narsete ad assumere il governo effettivo dell’Italia. L’Imperatore, mostrando soddisfazione per la fine di Totila, annullò tutti i provvedimenti di quel re goto, confermando però le leggi dei suoi predecessori: questi provvedimenti erano volti ad annullare le politiche estreme e antisenatoriali di Totila, e restaurare l’ordine preesistente alla guerra.

Le coorti pretoriane – La guardia dell’imperatore. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it. Dopo la fine della repubblica e l’instaurazione del Principato, Augusto si dotò di nove coorti di pretoriani, distribuite però in varie città d’Italia. A Roma stavano le soli coorte urbane e i vigiles, creati dall’imperatore. Fu Tiberio il primo a stabilire in modo permanente delle truppe a lui fedele nei pressi dell’Urbe, accorpando le nove coorti di pretoriani e stabilendole nei castra praetoria. Tuttavia la vera guardia privata del corpo dell’imperatore era formata da barbari, i germani corporis custodes, che affiancavano i pretoriani. Tra loro specialmente batavi, una tribù che viveva negli attuali Paesi Bassi e che aveva stretto un patto di fedeltà con Roma. Svetonio narra che Caligola per primo reclutò alcuni traci: «Mal sopportava la madre che disapprovava e rimproverava con molta severità quanto egli facesse o dicesse, e in un primo tempo cercò di renderla impopolare, mostrando per finta l’intenzione di abdicare al comando e di ritirarsi a Rodi, poi la privò di tutti gli onori, di ogni potere, le tolse la scorta personale di soldati germanici e la fece allontanare dalla sua presenza e poi anche dalla reggia.» SVETONIO, NERONE, 34

Nerone sdoppiò perfino la guardia, assegnandone una parte alla madre Agrippina. Di sicuro la convivenza di questi barbari con la popolazione romana non era sempre facile: Tacito racconta come gli ausiliari batavi di Vitellio, al loro ingresso a Roma, non seppero contenere la folla e usarono le loro lunghe lance, uccidendo alcuni cittadini. La guardia venne poi sciolta da Traiano e riformata come corpo ufficiale e non più privato in equites singulares, con elementi tratti tra i migliori reparti ausiliari. Quest’ultimi erano alloggiati in un castra nel luogo dove oggi sorge la basilica di San Giovanni. Proprio l’accampamento, ormai inutile dopo lo scioglimento anche dei pretoriani dopo Costantino, funse da fondamenta per una delle prime basiliche di #Roma.⠀

Un corpo d’élite? Il 1 novembre 82 a.C. Lucio Cornelio Silla vinceva i populares e i sanniti, condotti da Ponzio Telesino, nella battaglia di Porta Collina, a Roma. Ciò che seguì fu un massacro: «Ma Ponzio Telesino, capo dei Sanniti, uomo violento sia in pace che in guerra e certo quello che più odiava il nome di Roma, raccolti circa 40.000 giovani violenti e pronti a tutto purché avessero un'arma in mano, sotto il consolato di Carbone e Mario, centonove anni or sono, nel giorno delle Calende di Novembre, attaccò Silla presso Porta Collina e così costrinse a una lotta all'ultimo sangue sia lui che la Res Publica. Un pericolo non maggiore fu quello che incuté Annibale, quando si spinse a meno di tre miglia da Roma per poter osservarne le difese. In quel giorno Telesino andava su e giù per gli ordini del suo esercito e non faceva che ripetere che era giunto l'ultimo giorno per Roma e, poiché in giro si diceva che la città ormai sarebbe stata sradicata e distrutta, lui ci aggiungeva che non sarebbero mai mancati usurpatori alla libertà dell’Italia, se prima non si fosse recisa la foresta che dava loro asilo. Così, si era ormai già alla prima ora della notte, quando la schiera romana ebbe un po' di respiro, perché i nemici cedevano. Era il giorno dopo, quando Telesino fu trovato in fin di vita, ma poiché anche allora, egli preferiva atteggiare il suo volto a quello di un vincitore, piuttosto che a quello di un moribondo, Silla ordinò che gli tagliassero la testa e che, infilzatala sopra una lancia, le facessero fare un giro intorno a Preneste. [...]. Silla onorò la felicità di quella giornata, in cui aveva respinto l’esercito dei Sanniti e di Telesino, con dei giochi circensi che si ricordarono per sempre, i quali si celebrano ancora sotto il nome di Giochi della Vittoria di Silla.» (Velleio Patercolo, Storia romana, II, XXVII)

Il primo sbarco di Cesare in Britannia. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Il 26 agosto del 55 a.C. Cesare approntava la prima di due spedizioni (la seconda avvenuta l’anno successivo) in Britannia. L’isola era conosciuta da tempi remoti per la sua ricchezza di stagno, utilizzato nella lega del bronzo; i primi ad entrare in contatto con gli autoctoni, popoli celtici più arretrati di quelli del continente, erano stati il geografo greco Pitea di Marsiglia nel IV secolo a.C. e forse il cartaginese Imilcone nel V secolo a.C.

L’aquilifero della Decima legio. I belgi, uno dei popoli più agguerriti del nord della Gallia, avevano alcuni insediamenti sull’isola, mentre i veneti dell’Armonica (l’attuale Bretagna) controllavano i commerci marittimi con l’isola (vennero infatti poi chiamati in soccorso contro i romani). Nella tarda estate del 55 a.C. Cesare partì dunque per l’isola, più precisamente la notte tra il 25 e 26 agosto; lui stesso affermava di aver deciso di attaccare la Britannia per l’aiuto prestato ai galli, ma in realtà la motivazione fu principalmente economica (per via dello stagno e dei commerci) e di gloria personale. Il due settembre giunse vicino Walmer dove cercò informazioni, ma non ne trovò di utili. «Benché l’estate volgesse ormai al termine, poiché in quelle regioni gli inverni sono precoci, dato che tutta la Gallia volge a settentrione, Cesare decise di partire per la Britannia. Capiva infatti che in quasi tutte le guerre combattute in Gallia, i nostri nemici avevano ricevuto di là aiuti e se, considerata la stagione, mancava il tempo di impegnarsi in uno scontro, riteneva tuttavia che gli sarebbe stato di grande utilità raggiungere almeno l’isola, osservare che genere d’uomini la abitasse, individuare i luoghi, i porti, gli approdi. Di tutto questo i Galli non sapevano quasi nulla: nessuno infatti, tranne i mercanti, si spinge fin là, ed anche questi non conoscono che le coste e le regioni situate di fronte alla Gallia. E così, pur avendo convocato i mercanti da ogni parte, non riuscì a sapere né quanto fosse grande l’isola, né quanti e quali popoli la abitassero, né quali tecniche di combattimento adottassero o quali fossero le loro istituzioni, né quali porti fossero adatti ad accogliere un notevole numero di grandi navi. Per raccogliere queste informazioni prima di tentare l’impresa, distacca Gaio Voluseno con una nave da guerra, ritenendolo adatto alla missione. Il suo incarico consisteva nel fare una ricognizione generale e tornare da lui nel più breve tempo possibile. Egli stesso si trasferisce con tutte le truppe nel paese dei Morini, perché è da lì che la traversata in Britannia è più breve. Ordina di concentrare in quel luogo, da tutte le regioni vicine, le navi e la flotta che aveva fatto costruire l’estate precedente per la guerra contro i Veneti. Frattanto si diffonde la notizia del suo progetto, che i mercanti riferiscono ai Britanni, e molte nazioni dell’isola mandano ambascerie con l’offerta di ostaggi e obbedienza ai Romani. Cesare, dopo averli ricevuti ed aver fatto loro generose promesse, li esorta a perseverare nella loro decisione e li rimanda in patria insieme a Commio che, dopo la vittoria sugli Atrebati, egli stesso aveva fatto re del paese; un uomo di cui stimava il valore e la prudenza, che riteneva fedele, il cui prestigio era tenuto in gran conto in quelle regioni. Gli ordina di recarsi presso tutte le nazioni che può raggiungere, di esortarle a fare atto di sottomissione al popolo romano e di annunciare il suo prossimo arrivo. Voluseno, dopo aver osservato quelle regioni per quanto gli era stato possibile, dal momento che non aveva osato sbarcare per non darsi in mano ai barbari, tornò dopo quattro giorni da Cesare e gli riferì quanto aveva visto.» CESARE, DE BELLO GALLICO, IV, 20-21

Cesare decise infine di sbarcare, nonostante le scarse informazioni, nella zona di Dover. Ma i romani si trovarono subito in grossa difficoltà, con i britanni che li attendevano sulla riva. I legionari erano titubanti, finchè l’aquilifero della decima legione, prediletta di Cesare, si lanciò in acqua contro il nemico, gridando (De Bello Gallico, IV, 22, sgg.): “Desilite, commilitones, nisi vultis aquilam hostibus prodere: ego certe meum rei publicae atque imperatori officium praestitero” (“Compagni, saltate giù, se non volete lasciare l’aquila in mani ai nemici; io certamente farò il mio dovere sia verso la repubblica sia verso il nostro comandante”). I legionari allora, spronati dall’aquilifer, lo seguirono e riuscirono a ricacciare i britanni, che si dispersero. Mentre Cesare si tratteneva in quei luoghi per approntare la flotta, gli si presentò una legazione inviata dalla maggior parte dei Morini, a scusarsi del comportamento che avevano tenuto in precedenza quando, da uomini barbari e ignari delle nostre consuetudini, avevano mosso guerra al popolo romano; ora promettevano di obbedire a tutto quanto gli fosse stato ordinato. Cesare, considerando la circostanza abbastanza opportuna, perché non voleva lasciarsi nemici alle spalle né poteva impegnarsi in una guerra, vista la stagione, ritenendo che occupazioni di così lieve importanza non dovessero anteporsi alla faccenda della Britannia, ordina loro di consegnare un gran numero di ostaggi, ricevuti i quali, accetta la sottomissione dei Morini. Fatte portare e radunate circa ottanta navi da carico, che riteneva sufficienti a trasportare due legioni, distribuì le restanti navi da guerra al questore, ai legati e ai prefetti. Rimanevano diciotto navi da carico, che erano trattenute dal vento contrario a otto miglia di distanza e non potevano approdare allo stesso porto: assegnò queste alla cavalleria. Affidò il resto dell’esercito ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta per condurlo nel paese dei Menapi e presso le tribù dei Morini che non avevano inviato ambasciatori; ordinò al legato Publio Sulpicio Rufo di occupare il porto con il presidio che ritenne sufficiente. Presi questi provvedimenti, approfittando del tempo adatto alla navigazione, salpò circa alla terza vigilia, dopo aver ordinato alla cavalleria di raggiungere per l’imbarco il porto successivo e seguirlo. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare, all’ora quarta, toccò con le prime navi la Britannia, e lì, schierate sulle alture, vide le truppe nemiche in armi. La conformazione del luogo era tale e le rocce si levavano così a picco sul mare che i proiettili, scagliati dall’alto, potevano raggiungere il litorale. Ritenendo il luogo assolutamente inadatto allo sbarco, attese all’ancora, fino all’ora nona, che arrivassero le altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribuni dei soldati, comunicò le informazioni avute da Voluseno e il suo piano, e raccomandò di effettuare tutte le manovre rispondendo puntualmente al segnale, così come esige la tecnica militare, in particolare quella navale, che prevede movimenti rapidi e improvvise variazioni. Dopo averli congedati, col favore del vento e della marea, che si erano alzati contemporaneamente, dato il segnale e levate le ancore, avanzò per circa sette miglia fino ad un litorale aperto e pianeggiante dove mise le navi alla fonda. Ma i barbari, intuite le intenzioni dei Romani, mandano avanti i cavalieri e gli essedari, un reparto di cui prevalentemente si servono in battaglia, seguiti dal resto dell’esercito, ed impediscono ai nostri lo sbarco. Le difficoltà erano enormi: le navi, per le loro dimensioni, non si potevano ancorare che al largo, i soldati poi, senza conoscere i luoghi, con le mani occupate, appesantiti dalle armi, dovevano contemporaneamente saltar giù dalle navi, tenersi a galla e combattere con i nemici, mentre questi, all’asciutto o entrando appena in acqua, completamente liberi nei movimenti, su un terreno perfettamente conosciuto, lanciavano con audacia proiettili ed incalzavano con cavalli addestrati allo scopo. I nostri, sconcertati dalla situazione, posti di fronte a un genere di battaglia mai sperimentato, non si comportavano con lo stesso zelo e ardore che erano soliti dimostrare negli scontri di fanteria. Quando Cesare se ne accorse, ordinò che le navi da guerra, il cui aspetto era sconosciuto ai barbari ed erano più facilmente manovrabili, si staccassero un po’ dalle navi da carico e, a forza di remi, si portassero sul lato scoperto del nemico e di là, con fionde, archi e baliste lo investissero e lo costringessero alla ritirata. La manovra fu molto utile. I barbari, infatti, colpiti dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dal singolare aspetto delle macchine da guerra, si arrestarono e arretrarono leggermente. Ma, dato che i nostri soldati esitavano, per timore soprattutto delle acque profonde, l’aquilifero della x legione, invocati gli dèi affinché il suo gesto portasse fortuna alla legione, «Saltate giù», disse, «commilitoni, se non volete consegnare l’aquila al nemico; per conto mio, io avrò fatto il mio dovere verso la Repubblica e il generale». Gridate queste parole, saltò giù dalla nave e cominciò a portare l’aquila contro i nemici. Allora i nostri, esortandosi l’un l’altro a non tollerare un tale disonore, si gettarono tutti dalla nave. Quando dalle navi vicine li videro, anche gli altri soldati li seguirono ed avanzarono contro il nemico. Si combatté accanitamente da entrambe le parti. Tuttavia i nostri, non potendo mantenere lo schieramento né trovare un sicuro punto d’appoggio né porsi sotto le proprie insegne, poiché sbarcando chi da una nave chi da un’altra si aggregavano alla prima insegna che capitava, erano in una situazione di grande confusione. I nemici invece, conoscendo tutti i bassifondi, appena dalla spiaggia avvistavano gruppi isolati di soldati che toccavano terra, spronati i cavalli, li assalivano mentre si trovavano in difficoltà, circondandoli in massa, mentre altri, dal fianco scoperto, lanciavano frecce sul grosso dell’esercito. Cesare, appena se ne accorse, ordinò che si calassero in mare le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da ricognizione carichi di soldati e li inviava in aiuto di quanti vedeva in difficoltà. I nostri, appena toccarono terra e furono raggiunti da tutti gli altri, caricarono il nemico e lo misero in fuga, ma non poterono protrarre l’inseguimento, perché le navi con la cavalleria non avevano potuto mantenere la rotta e raggiungere l’isola. Solo questo mancò alla consueta fortuna di Cesare.» CESARE, DE BELLO GALLICO, IV, 22-26 

I britanni si diedero alla fuga e subito chiesero la pace a Cesare, promettendo di consegnare anche ostaggi. Poco dopo giunsero le 18 navi che avevano imbarcato la cavalleria ed erano in ritardo, ma furono investite da una tempesta: alcune rientrarono in Gallia, altre vennero spinte lontano. Molte navi furono distrutte e Cesare si trovò in serio pericolo, rischiando di non poter tornare indietro prima dell’arrivo dell’inverno. I britanni, saputo delle difficoltà del nemico, decisero di rigettare la pace proposta e passare all’attacco, ma i romani riuscirono a reggere ancora una volta l’urto e ricacciarli. Nel frattempo Cesare aveva messo insieme, con uno sforzo enorme, le navi necessarie per il rientro. Stavolta i barbari accettarono la pace e il romano riuscì a far rientro con l’esercito in Gallia: «I nemici vinti in battaglia, non appena si furono riorganizzati dopo la fuga, mandarono subito ambasciatori a Cesare per chiedere la pace, con la promessa di consegnare ostaggi e sottomettersi ai suoi ordini. Insieme a loro venne l’Atrebate Commio, che, come abbiamo detto, era stato mandato da Cesare in avanscoperta in Britannia. I Britanni lo avevano catturato e messo in catene appena sbarcato, mentre, come portavoce di Cesare, riferiva ciò che era stato incaricato di dire. Ora, dopo la battaglia, lo avevano liberato e, nel chiedere la pace, attribuivano al popolo la responsabilità del fatto, chiedendo di perdonare la loro imprudenza. Cesare, deplorato il fatto che, dopo aver mandato di loro iniziativa ambasciatori in continente per chiedere la pace, avevano senza motivo aperto le ostilità, disse che scusava la loro imprudenza e ordinò di consegnare gli ostaggi, una parte dei quali gli fu subito consegnata, con l’impegno di consegnare entro pochi giorni il resto, che avevano fatto venire da regioni più lontane. Frattanto ordinarono ai loro uomini di tornare nelle campagne, mentre da ogni parte cominciarono ad arrivare i capi per raccomandare a Cesare se stessi e le proprie nazioni. Assicurata così la pace, quattro giorni dopo il suo sbarco in Britannia, le diciotto navi sulle quali, come abbiamo detto, si era imbarcata la cavalleria, salparono con una lieve brezza dal porto più settentrionale. Queste, mentre si avvicinavano alla Britannia, ed erano già in vista del campo, furono investite da una tale improvvisa burrasca che nessuna di loro riuscì a mantenere la rotta, ma alcune furono costrette a ritornare da dove erano venute, altre vennero spinte, con loro grande pericolo, verso la parte meridionale dell’isola, che volge più verso occidente. E benché avessero gettato l’ancora, furono costrette dalla violenza dei flutti, che rischiavano di sommergerle, a prendere di nuovo il largo e, nonostante fosse notte, a far rotta verso il continente. Capitò che quella fosse una notte di luna piena, che provoca nell’Oceano le massime maree, circostanza ignota ai nostri. Così, nello stesso tempo, la marea sommergeva le navi da guerra sulle quali Cesare aveva fatto trasportare l’esercito e aveva poi fatto tirare in secca, mentre la burrasca sbatteva le navi da carico che erano alla fonda, senza che noi avessimo la possibilità di prendere dei provvedimenti o di portare aiuto. Molte navi erano andate distrutte, altre, perdute le gomene, le ancore e il resto dell’attrezzatura, non potevano navigare; tutto l’esercito, come era inevitabile, fu preso da un profondo turbamento. Non c’erano infatti altre navi con cui ritornare e mancavano i materiali per procedere alle riparazioni e, poiché tutti sapevano di dover passare l’inverno in Gallia, non si era fatta provvista di grano. Resisi conto della situazione, i capi britanni che dopo la battaglia si erano recati da Cesare ad offrire la propria sottomissione, si consigliarono tra loro: avendo capito che i Romani non avevano né navi né cavalleria né frumento e avendo valutato quanto fosse scarso il numero dei soldati, in ragione delle ridotte dimensioni dell’accampamento, che si presentava anche più piccolo dato che Cesare aveva trasportato le legioni senza salmerie, ritennero di agire in maniera estremamente vantaggiosa se, ribellatisi, ci avessero impedito di approvvigionarci di grano e vettovaglie, trascinando la faccenda fino all’inverno, perché erano certi che, una volta vinti i Romani o impedito loro il rientro, nessun altro, in seguito, sarebbe passato in Britannia per portarvi la guerra. Quindi, stretta nuovamente alleanza, cominciarono un po’ alla volta a lasciare l’accampamento e a richiamare di nascosto gli uomini dai campi. Ma Cesare, anche se non conosceva ancora il loro piano, tuttavia, da quanto era capitato alle sue navi e dal fatto che era stata sospesa la consegna degli ostaggi, sospettava quello che poi sarebbe accaduto. Si preparava quindi ad affrontare qualunque evenienza. Ogni giorno, infatti, faceva portare dai campi il frumento, faceva utilizzare il materiale e il bronzo delle navi irrimediabilmente danneggiate per riparare le altre e faceva portare il necessario dal continente. E così, grazie allo straordinario impegno dei soldati, perdute dodici navi, fece mettere le altre in condizioni di navigare con sufficiente sicurezza. Mentre si compivano queste operazioni, una legione, la VII, era stata mandata come di consueto a raccogliere il grano, senza che nulla, in quel momento, potesse far sospettare una ripresa delle ostilità, visto che parte degli uomini rimaneva nei campi mentre altri avevano addirittura libero accesso all’accampamento, quando i soldati che montavano la guardia alle porte del campo, avvertirono Cesare che nella direzione in cui si era mossa la legione si levava un polverone piuttosto insolito. Cesare, sospettando con ragione che i barbari stessero tentando qualcosa di nuovo, ordinò alle coorti che erano di guardia di marciare con lui in quella direzione, ad altre due di prendere il loro posto, mentre il resto doveva armarsi e seguirlo immediatamente. Si era di poco allontanato dal campo quando vide i suoi, assaliti dal nemico, resistere con difficoltà, mentre sulla legione serrata venivano scagliati proiettili da ogni parte. Infatti, poiché il grano era stato mietuto dappertutto, tranne che in un sol posto, i nemici, sospettando che i nostri vi si sarebbero recati, si erano nascosti di notte nei boschi, poi avevano assalito all’improvviso i nostri che, deposte le armi, erano dispersi e intenti alla mietitura, uccidendone alcuni e gettando nello scompiglio gli altri, che non riuscivano a formare i ranghi, mentre essi li accerchiavano con la cavalleria e gli essedi. Il combattimento con gli essedi si svolge in questo modo: dapprima corrono in tutte le direzioni lanciando frecce, e in genere, mettono lo scompiglio tra i ranghi soltanto con la paura suscitata dai cavalli e il fragore delle ruote e, quando si sono insinuati tra le torme dei cavalieri, balzano dagli essedi e combattono a piedi. Intanto gli aurighi si allontanano a poco a poco dal folto della battaglia e piazzano i carri in maniera tale che, nel caso siano incalzati da preponderanti forze nemiche, possano rapidamente mettersi al sicuro nelle proprie file. In questo modo assicurano nei combattimenti la mobilità della cavalleria e la stabilità della fanteria e, con la pratica quotidiana e l’esercizio, sono capaci di guidare i cavalli al galoppo anche su terreni scoscesi e ripidi, di moderare la velocità e girare in poco spazio, di correre lungo il timone, di rimanere ritti sul giogo e di là tornare con grande rapidità sul carro. Cesare giunse in aiuto dei nostri, disorientati dall’insolita tattica di combattimento, nel momento più opportuno. Infatti, al loro apparire, i nemici si arrestarono e i nostri si rassicurarono. Fatto ciò, ritenendo che non fosse il momento di provocare il nemico a battaglia, Cesare si mantenne nella sua posizione e, dopo poco, ricondusse le legioni al campo. Durante questi avvenimenti, mentre tutti i nostri erano occupati, i Britanni che erano rimasti nei campi si ritirarono. Seguirono molti giorni di continue tempeste, che trattennero i nostri nell’accampamento e impedirono ai nemici di attaccare. Nel frattempo i barbari inviarono messaggeri in ogni direzione insistendo nel dire quanto fossero pochi i nostri soldati e spiegando quale occasione si presentava di fare bottino e conquistare per sempre la libertà, se avessero cacciato i Romani dal campo. Radunata rapidamente con queste motivazioni una gran massa di fanti e cavalieri, mossero sull’accampamento. Cesare, pur prevedendo che sarebbe accaduto quanto si era verificato nei giorni precedenti, e cioè che il nemico, una volta respinto, si sarebbe rapidamente sottratto al pericolo con la fuga, tuttavia, trovati circa trenta cavalieri che l’atrebate Commio, di cui prima abbiamo parlato, aveva portato con sé, schierò a battaglia le legioni davanti all’accampamento. Avvenuto lo scontro, i nemici non poterono sostenere a lungo l’assalto dei nostri soldati e volsero le spalle. I nostri li inseguirono di corsa finché le forze glielo consentirono, uccidendone molti, poi, incendiati in lungo e in largo i casali, si ritirarono al campo. Quello stesso giorno si presentarono a Cesare ambasciatori per chiedere la pace. Cesare raddoppiò il numero degli ostaggi precedentemente richiesti e ingiunse loro di portarli sul continente, perché, essendo prossimo l’equinozio, non riteneva di dover correre il rischio di navigare durante l’inverno con navi in cattive condizioni. Approfittando del tempo favorevole, salpò poco dopo la mezzanotte: tutte le navi raggiunsero il continente senza danni, ma due navi da carico non riuscirono ad approdare allo stesso porto delle altre e furono sospinte un poco più a sud.» CESARE, DE BELLO GALLICO, IV, 27-36

L’inizio della fine – Invasioni barbariche. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Nel II secolo d.C., complice una buona congiuntura, le conquiste di Traiano e la pace di Adriano e Antonino Pio, l’impero romano raggiunse l’apice della sua ricchezza, stabilità e prosperità. Tuttavia tutto questo venne messo in discussione quando, all’inizio del principato di Lucio Vero e Marco Aurelio era scoppiata la peste antonina, che aveva decimato la popolazione dell’impero, riducendo le entrate e rendendo più difficile reclutare nuovi soldati. A partire dall’epoca di Marco Aurelio i barbari avevano dunque cominciato a cercare di entrare all’interno del limes. I primi erano stati infatti i quadi e marcomanni, sconfitti dall’imperatore filosofo solo dopo una lunga guerra decennale. Marco aveva anche sconfitto i sarmati, provando a insediarli in Italia. E’ da allora che gli imperatori romani decidono invero di stabilire le prime tribù all’interno dell’impero, per ripopolarlo: la peste antonina, scoppiata attorno al 165, si diffuse in tutta la res publica grazie alle vexillationes di ritorno dalla campagna partica di Lucio Vero e Avidio Cassio. Difatti nel corso del III secolo si diffusero i tentativi di stanziamento di barbari – chiamati laeti – per coltivare le terre desolate. Al contempo le lotte civili dovute all’anarchia militare e la crisi monetaria, con la moneta ormai solo bagnata in argento, favorirono le scorrerie di molti gruppi barbarici, in particolare i goti, che vennero infine sconfitti solo da Claudio II il Gotico. La vittoria sarebbe stata talmente devastante da rendere inoffensivi i goti per un secolo. Almeno fino al tragico epilogo di Adrianopoli.

Invasioni o migrazioni? Il 31 dicembre del 406 vandali, alani, svevi e altre popolazioni germaniche attraversarono in massa il Reno ghiacciato, cogliendo impreparati sia i limitanei sia i franchi, alleati dei romani, che avrebbero dovuto proteggere la frontiera. La migrazione di massa avveniva mentre in Italia Stilicone affrontava Alarico, tentando di riportare i visigoti dalla sua parte. Onorio decise di eliminare il comandante di origine vandalica, spingendo infine Alarico a saccheggiare Roma nel 410. Alla fine ai visigoti venne data l’Aquitania e lo status di foederati, ma i barbari che erano entrati non fu più possibile ricacciarli. Da quel momento al 476 i romani cercheranno a volte di trattare a volte di fargli guerra, con fortune alterne. Il tracollo fiscale e demografico dovuto all’hospitalitas dei barbari su suolo romano rese inerme l’impero d’occidente, perdendo infine l’importantissima Africa per mano dei vandali e dovendo far affidamento infine solo su soldati barbari. Sarà Odoacre, che reclamava terre per i suoi anche in Italia, al rifiuto di Oreste, padre di Romolo Augustolo, a deporre quest’ultimo e inviare le insegne imperiali all’imperatore Zenone a Costantinopoli, decretando la fine dell’impero romano d’occidente nel 476. «È la volta di Alarico, che assedia, sconvolge, irrompe in Roma trepidante[…] E a provare che quella irruzione dell’Urbe era opera piuttosto dell’indignazione divina che non della forza nemica, accadde che il beato Innocenzo, vescovo della città di Roma, proprio come il giusto Loth sottratto a Sodoma, si trovasse allora per occulta provvidenza di Dio a Ravenna e non vedesse l’eccidio del popolo peccatore. […] Il terzo giorno dal loro ingresso dell’Urbe i barbari spontaneamente se ne andarono, dopo aver incendiato, è vero, un certo numero di case, ma neppur tante quante ne aveva distrutte il caso nel settecentesimo anno dalla sua fondazione. Ché, se considero l’incendio offerto come spettacolo dall’imperatore Nerone, senza dubbio non si può istituire alcun confronto tra l’incendio suscitato dal capriccio del principe e quello provocato dall’ira del vincitore. Né in tal paragone dovrò ricordare i Galli, che per quasi un anno calpestarono da padroni le ceneri dell’Urbe abbattuta e incendiata. E perché nessuno potesse dubitare che tanto scempio era stato consentito ai nemici al solo scopo di correggere la città superba, lasciva, blasfema, nello stesso tempo furono abbattuti dai fulmini i luoghi più illustri dell’Urbe che i nemici non erano riusciti ad incendiare.» OROSIO, STORIA CONTRO I PAGANI, VII, 39

Quando nel V secolo i barbari riuscirono a penetrare stabilmente nell’impero iniziarono le vere “invasioni barbariche“. Gli storici si dividono in due macro opinioni: quelli latini parteggiano per l’invasione violenta e la conquista armata da parte dei barbari, che avrebbero preso la terra con la forza. Quelli germanici invece parteggiano per le migrazioni, ovvero popoli costretti a migrare per questioni disparate e che si integrarono progressivamente nel tessuto della romanità. L’impero d’occidente comunque non riuscì a ricacciare i barbari oltre il limes, mettendosi d’accordo quando poteva con loro e stanziandoli tramite il regime dell’hospitalitas, che concedeva ai nuovi arrivati un terzo delle terre. Ciò non impediva comunque ai barbari – ariani tra l’altro, in contrasto con la popolazione nicena – di dedicarsi a scorrerie e ulteriori spostamenti. D’altra parte dall’impero d’oriente non arrivarono gli aiuti necessari, se non tardivi: nel 468 un’enorme flotta cercò di riprendere l’Africa ai vandali, finendo nel disastro di Capo Bon. Nel corso del V secolo l’impero d’occidente fu costretto a mano a mano a cedere terreno ai barbari. Si creò una spirale: i nuovi arrivati venivano stanziati, ma poi si chiedeva loro di combattere per l’impero come mercenari, in quanto le terre perse significavano meno entrate fiscali, rendendo impossibile pagare l’esercito regolare. Fu così che molti reparti andarono a sciogliersi perché non ricevevano più la paga e al tempo stesso vedevano minacciate le loro famiglie e proprietà dai barbari. Contemporaneamente molti vedevano di buon occhio i nuovi arrivati, sperando di ricevere protezione militare dai barbari in cambio di terre e proprietà già desolate e di non pagare più le tasse sempre più esose richieste dai romani. «La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore […] Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella.»

«Ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua.»

«[Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove] nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse […] sparsi intorno […] sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni.» VELLEIO PATERCOLO, STORIA ROMANA II, 119-20, FLORO, EPITOME DE T. LIVIO BELLORUM OMNIUM ANNORUM DCC LIBRI DUO, II, 36-37, TACITO, ANNALI, I, 61

La pirateria nel Mediterraneo. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  In seguito alla caduta e alla decadenza dei regni ellenistici degli epigoni di Alessandro Magno, in oriente cominciò, specialmente dal II secolo a.C. e ancora di più in quello successivo, a diffondersi la pirateria. La mancanza di controllo statale, le continue guerre, le grandi ricchezze, erano causa della grande fortuna che avevano i pirati nel Mediterraneo orientale; specialmente luoghi come Creta o la Cilicia divennero ritrovi e covi di pirati di ogni genere. Tuttavia l’emergere della potenza di Roma fece sì che questo nemico venisse prima circuito, per avere appoggio militare, poi affrontato a viso aperto.

Spartaco. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Esasperato dalle condizioni di vita cui era sottoposto, Spartaco guidò, nel 73 a.C., una rivolta dalle cucine dell’anfiteatro, usando come armi posate e altri attrezzi. Riuscì ad evadere insieme ai suoi compagni e rifugiarsi sul monte Vesuvio (all’epoca in cima ricoperto da foreste), dove nonostante i ribelli fossero meno di un centinaio riuscirono a respingere la guarnigione romana locale e si poterono armare; Spartaco insieme a Enomao e Crisso vennero eletti capi della rivolta. Il senato allora inviò due pretori, Gaio Claudio Glabro e poi Publio Varinio in Campania, con il compito di stroncare la ribellione. Tuttavia l’esercito del primo era raccogliticcio, anche se contava circa 3.000 uomini, poichè non ci si aspettava una grande minaccia. Glabro bloccò l’unica via di fuga, ma non costruì neanche il campo: i ribelli si calarono di notte con delle funi sull’altro versante del Vesuvio, accerchiando il campo romano e dandosi al massacro. L’eco della vittoria fece arrivare tra i ribelli numerosi fuggitivi, schiavi e poveri, che cercavano rivalsa verso Roma, ingrossando le fila dell’esercito di Spartaco. Quest’ultimo successivamente sconfisse anche il pretore Publio Varinio, aumentando ancora di più il suo prestigio. I consoli Gaio Cassio Longino e Marco Terenzio Varrone Lucullo avevano preso sottogamba la questione e ora si trovavano una rivolta che divampava in tutto il sud Italia. Ma anche tra i ribelli c’era aria di crisi: non essendo tutti d’accordo i germani e galli, capeggiati da Crisso ed Enomao volevano attaccare Roma mentre Spartaco era contrario. Si decise infine di spostarsi in Lucania e Calabria, dove i rivoltosi si diedero al saccheggio. Nel 72 a.C. il console Lucio Gellio Publicola, incaricato insieme al collega Gneo Cornelio Lentulo Clodiano di schiacciare la ribellione, riportò una vittoria decisiva con le forza gallo-germaniche di Crisso, che trovò la morte nella battaglia del Gargano. Gellio si mosse poi verso nord, inseguendo Spartaco che si stava spostando verso le Alpi in fuga, il quale tuttavia riuscì a sconfiggere l’esercito di entrambi i consoli. Secondo Appiano, per vendicare la morte di Crisso, seguendo i riti funebri romani, Spartaco decise di far combattere come gladiatori, all’ultimo sangue, 300 soldati catturati. Continuando verso nord Spartaco sconfisse anche il proconsole Gaio Cassio Longino Varo nei pressi di Modena, il quale si salvò a stento. Tuttavia, arrivato quasi alla meta, per motivi sconosciuti, il gladiatore trace decise di tornare indietro, arrivando finoa Thurii, in Lucania, dove sconfisse un altro esercito romano. Il senato decise quindi di dare pieni poteri al proconsole Marco Licinio Crasso per sedare la rivolta. Forte delle sue enormi ricchezze, ottenne il comando di otto legioni, prendendone sei per affrontare Spartaco (più due raccolte tra i sopravvissuti degli scontri con il ribelle), che vennero però decimate tramite il sistema della verberatio, ossia a bastonate, dopo una prima sconfitta inflitta dal trace a Mummio, uno degli ufficiali del proconsole. Fu allora che Spartaco decise di abbandonare l’Italia e mettersi d’accordo con i pirati cilici, i quali però non arrivarono mai, forse comprati dall’oro del governatore di Sicilia Gaio Licinio Verre. Intrappolati in Calabria, Crasso diede ordine di costruire un enorme muro che tagliasse la punta dello stivale per affamarli. Tuttavia il trace riuscì ad aggirarlo e risalire verso nord, inseguito da Crasso.

Il rapimento di Cesare. Dopo la morte di Silla, Marco Emilio Lepido, padre del triumviro e comandante di Cesare, cercò di ridurre il peso delle riforme sillane con una rivolta armata; sperava che Cesare lo appoggiasse visti i suoi trascorsi con Silla e aveva già organizzato un esercito in Etruria, ma Cesare si mantenne distante (come avrebbe fatto poi con Catilina). Lepido venne sconfitto e si ritirò in Sardegna, dove morì poco dopo, afflitto anche dalla notizia del pubblico adulterio della moglie Apuleia, da lui amatissima. Cesare approfittò dell’occasione non per combattere militarmente, ma con le parole, che sapeva usare egregiamente: accusò di concussione Cneo Cornelio Dolabella, un consolare sillano, tra i più conservatori, che venne salvato solo da due dei più grandi oratori del tempo, Quinto Ortensio Ortalo e Gaio Aurelio Cotta, che ancora una volta riprese l’accusa di sodomita nei confronti di Cesare. Quest’ultimo l’anno successivo attaccherà invece Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio e collega di Cicerone durante il consolato del 63 a.C., quando Catilina tentò di prendere il potere. Stavolta Cesare mise all’angolo lo zio del suo futuro pupillo, reo di aver saccheggiato la Grecia di ritorno dall’Asia; Antonio si salvò per il rotto della cuffia, appellandosi ai tribuni della plebe, che riconobbero che un romano non doveva difendersi poiché il reato sarebbe stato nei confronti dei greci e pertanto non poteva essere giudicato. Cesare aveva ottenuto grande fama da questi processi; decise pertanto di perfezionare i suoi studi intraprendendo un viaggio verso Rodi, dove avrebbe studiato filosofia e retorica. Era il 74 a.C. Poco tempo prima Cicerone aveva visitato l’isola, dove insegnavano i famosi Posidionio e Apollonio figlio di Molone. Tuttavia durante la navigazione, al largo dell’isola di Farmacussa, nei pressi di Mileto, Cesare fu intercettato e catturato dai temibili pirati cilici, che all’epoca imperversavano nel Mediterraneo (e che verranno stroncati da Pompeo alcuni anni dopo). I pirati capirono che avevano catturato qualcuno di importante e chiesero un riscatto di venti talenti (circa mezza tonnellata d’argento); al che Cesare, indispettito, avrebbe risposto che per lui ne avrebbero dovuti chiedere cinquanta. Cesare inviò i suoi servi a racimolare il denaro nelle città vicine. Dopo quaranta giorni tornarono con il denaro. E’ Velleio Patercolo a specificare che il denaro fu dato dalle città costiere (Polieno specifica che fu Mileto ad accollarsi la spesa) a causa dell’insufficiente controllo contro la pirateria (“publica civitatium pecuniam redemptus est” – Vell. Pat., II, 42, 2); a quell’epoca era dilagante nel Mediterraneo e i cittadini romani venivano tutelati in questo modo. Nel frattempo la situazione era diventata surreale: i pirati in parte increduli della cifra, in parte irretiti dal romano, in parte succubi dello stesso, venivano comandati a bacchetta da Cesare, che sembrava il loro capo più che il loro ostaggio. Pagato il riscatto di cinquanta talenti, Cesare raccolse privatamente delle navi, per dar loro la caccia (aveva infatti minacciato di impiccarli) – senza alcun imperium – e li sorprese nei pressi di Mileto, dove in seguito a uno scontro navale li catturò, comprese le loro ricchezze. Li portò nella prigione di Pergamo, ma il governatore Marco Iunco tergiversava, visto anche il grande bottino, su cui forse mirava di mettere le mani. Cesare allora decise di agire e li fece crocifiggere; Svetonio aggiunge un particolare “benevolo”, ossia che il futuro dittatore prima di crocifiggerli li fece strangolare: «Non passò però molto tempo che s’imbarcò di nuovo, ma giunto al largo dell’isola di Farmacussa fu catturato dai pirati, che già allora dominavano il mare con vaste scorrerie e un numero sterminato di imbarcazioni. I pirati gli chiesero venti talenti per il riscatto, e lui, ridendo, esclamò: «Voi non sapete chi avete catturato! Ve ne darò cinquanta!». Dopodiché spedì alcuni del suo seguito in varie città a procurarsi il denaro e rimasto lì con un amico e due servi in mezzo a quei Cilici, ch’erano gli uomini più sanguinari del mondo, li trattò con tale disprezzo che quando voleva riposare gli ordinava di fare silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo, giocando e facendo ginnastica insieme con loro, scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare, e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente chiamandoli barbari e ignoranti. Spesso, scherzando e ridendo, minacciava d’impiccarli, e quelli, attribuendo la sua sfrontatezza all’incoscienza tipica dell’età giovanile, a loro volta gli ridevano dietro. Ma appena giunse da Mileto il denaro del riscatto e pagata la somma fu rilasciato, allestì subito delle navi e dal porto di quella stessa città salpò alla caccia dei pirati. Li sorprese che stavano alla fonda nelle vicinanze dell’isola, li catturò quasi tutti, saccheggiò i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini nella prigione di Pergamo e si recò difilato dal governatore d’Asia, Marco Iunco, che in qualità di propretore [con imperium proconsulare, ndr.] aveva il compito di punire i prigionieri. Ma quello, messi gli occhi sul bottino (piuttosto cospicuo, in verità), disse che si sarebbe occupato a suo tempo dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo alla malora, tornò di corsa a Pergamo e tratti fuori dal carcere i pirati li fece crocifiggere tutti quanti, così come […], con l’aria di scherzare, gli aveva spesso pronosticato.» PLUTARCO, VITA DI CESARE, 1-2 

La guerra di Pompeo. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Infatti nel corso del I secolo a.C. l’attività piratesca nel Mediterraneo orientale si era intensificata, fino a giungere addirittura a proporre l’aiuto per la fuga a Spartaco da parte dei pirati cilici, che però poi si ritirarono misteriosamente dall’accordo. In parte erano colpevoli di ciò anche i romani, che proibivano sistematicamente alle città che venivano sconfitte e stavano sul mare di riarmarsi e costruire flotte, favorendo dunque la creazione di zone franche. Lo stesso Cesare in gioventù era stato catturato dai pirati e si salvò con grandi difficoltà. I pirati si erano arricchiti oltremodo, spingendosi anche a razziare l’interno, specialmente i ricchi santuari d’Asia, mentre sbeffeggiavano i cittadini romani che catturavano (compreso lo stesso Cesare), fingendo di onorarli oltre ogni misura per poi gettarli in mare. In questa situazione confusionaria fu affidato dal senato, su proposta del tribuno della plebe Gabinio, il comando straordinario e senza limiti per tre anni, unimperium maius et infinitum, a Pompeo su tutto il Mediterraneo e le coste fino a 70 km all’interno. Nessuno aveva mai avuto un potere simile nella res publica. Pompeo, dotato di 200 navi, divise il Mediterraneo (compreso il Mar Nero) in tredici settori, assegnandolo ognuno a un suo subordinato (gli era stato concesso di nominarne 15 a piacimento oltre ad aver ottenuto 6.000 talenti per la guerra. Iniziando da occidente, fece fuori le navi che navigavano in acque italiche, procedendo mano mano verso oriente. Catturati i pirati, concesse loro di ritornare a vivere civilmente nei luoghi designati se avessero comunicato dove si trovavano gli altri. Nel giro di pochi mesi riuscì a sradicare la pirateria da tutto il Mediterraneo orientale, specialmente l’isola di Creta e le coste meridionali dell’Anatolia, mentre la Cilicia, covo di pirati, divenne provincia romana. 10.000 pirati furono uccisi e furono catturate 446 navi e 20.000 prigionieri. Contrariamente a quanto temuto da molti, dopo aver anche conquistato gran parte dell’oriente grazie alla lex Manilia, Pompeo sciolse l’esercito e non si presentò alle elezioni consolari per l’anno successivo anche se avrebbe voluto, perché varcare il pomerium gli avrebbe fatto perdere il diritto al trionfo. Pompeo non si impuntò e si adeguò al volere del senato, ma fece pressioni per far eleggere un suo pupillo, Afranio; pare che ci furono grossi esempi di corruzione per la sua elezione, con moltissimi che si recavano a casa di Pompeo fuori dal pomerium. «Furono catturate e condotte nei porti 700 navi armate di tutto punto. Nella processione trionfale vi erano due carrozze e lettighe cariche d’oro o con altri ornamenti di vario genere; vi era anche il giaciglio di Dario il Grande, figlio di Istaspe, il trono e lo scettro di Mitridate Eupatore, e la sua immagine a quattro metri di altezza in oro massiccio, oltre a 75.100.000 di dracme d’argento. Il numero di carri adibiti al trasporto di armi era infinita, come pure il numero dei rostri delle navi. […] Davanti a Pompeo furono condotti satrapi, figli e comandanti del re [del Ponto] contro i quali [Pompeo] aveva combattuto, che erano (tra quelli catturati e quelli dati in ostaggio) in numero di 324. Tra questi c’era il figlio di Tigrane II, cinque figli maschi di Mitridate, chiamati Artaferne, Ciro, Osatre, Dario e Serse, ed anche due figlie, Orsabari ed Eupatra. […] su un cartello era rappresentata questa iscrizione: rostri delle navi catturate pari a 800; città fondate in Cappadocia pari a 8; in Cilicia e Siria Coele pari a 20; in Palestina pari a quella che ora è Seleucis; re sconfitti erano l’armeno Tigrane, Artoce l’iberico, Oroze d’Albania, Dario il Mede, Areta il nabateo ed Antioco I di Commagene. […] Tale era la rappresentazione del trionfo di Pompeo.» (Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 116-117)

Mare nostrum. Vinti i pirati da Pompeo il Mediterraneo diventò un mare sicuro, il Mare Nostrum, permettendo la prosperità e i commerci. Tuttavia negli ultimi anni della res publica, dopo la morte di Cesare, la situazione rimase ancora turbolenta, poiché uno dei figli di Pompeo, Sesto Pompeo, prese possesso della Sicilia, da cui lanciava operazioni di pirateria verso le navi che portavano grano a Roma, mettendo dunque in grande difficoltà Ottaviano. Fu solo con la vittoria di Nauloco, il 3 settembre 36 a.C., ad opera di Agrippa (e poi di Azio, sempre da parte sua, il 2 settembre 30 a.C.) che il Mediterraneo divenne un mare sicuro, almeno fino alle prime scorrerie di barbari attorno il 270 d.C. « Apprendo dagli storici e dai senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all’assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi […] del resto Arminio, aspirando al regno mentre i Romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo, ebbe a suo sfavore l’amore per la libertà del suo popolo, e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non al popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia, ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Anche ora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei Greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi Romani non è celebrato ancora come si dovrebbe, noi che mentre esaltiamo l’antichità non badiamo ai fatti recenti. » (Tacito, Annales II, 88) L'esercito della media repubblica era diviso in legioni di cittadini romani e socii, specialmente italici. Ogni legione adottava una formazione manipolare, con i reparti divisi in hastati, principes e triarii, suddividendo dunque i cittadini in base al censo (e conseguentemente spesso in base all'età). Di fronte a loro c'erano i veliti, che cercavano di creare scompiglio, armati alla leggera, mentre ai fianchi i cavalieri romani. La differenza di equipaggiamento andò assottigliandosi col tempo, finendo per usare tutti gladio e pilum (i triari usavano una lancia inizialmente e gli hastati dovevano usare perlopiù placce metalliche invece di cotte di maglia). Anche la disposizione a scacchiera sparì, per fare definitivamente posto con la riforma di Mario a una disposizione su tre file, triplex acies, e i manipoli raggruppati in coorti (ognuna di tre manipoli).

Il Navigium Isidis e il Carnevale. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  L’origine del Carnevale, per come lo conosciamo, è senza dubbio medievale; è stato supposto che l’origine della parola sia una contrazione di carnem levare, ossia levale la carne, poiché precedeva immediatamente l’inizio del periodo di Quaresima. Tuttavia alcune somiglianze possono essere riscontrate nelle Antesterie greche e nei Saturnali romani: le prime, che cadevano tra febbraio e marzo, erano una festa dionisiaca, quindi legata al vino e agli eccessi, in cui sfilavano dei cortei di carri e maschere; la festa era legata ai morti e al ciclo della vita. Anche i Saturnali, dal 17 al 23 dicembre, erano improntati agli eccessi, ed era l’unico periodo dell’anno in cui gli schiavi erano liberi, mentre ci si concedeva a una certa libertà sessuale e sociale.

La festa di Iside. La festa dedicata alla dea Iside (navigium Isidis) si svolgeva nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, quindi pochi giorni prima rispetto alla Pasqua cattolica. Essa vedeva sfilare su un carro navale (carrus navalis) la dea Iside, per festeggiare la resurrezione del suo sposo Osiride, smembrato e di cui aveva ricomposto il corpo. Inoltre si svolgevano lunghe processioni con persone in maschera, e seguiva una lunga festa. E’ possibile forse che Carnevale venga proprio da carrus navalis? E’ quello che ritiene il linguista Mario Alinei: il navigium Isidis non sarebbe altro che l’origine delle festività legate al Carnevale, respingendo l’idea che la parola fosse legata a carnem levare o a carnem vale (addio carne), mettendo invece in risalto la forte opposizione avuta sempre dalla Chiesa nei confronti del Carnevale, festa completamente opposta al periodo di Quaresima che seguiva. Così Apuleio racconta nelle sue Metamorfosi (libro XI) la festa e Iside:

5. (Io sono) la madre dell’universo, la sovrana di tutti gli elementi, l’origine dei secoli, la totalità dei poteri divini, la regina degli spiriti, la prima dei celesti, l’immagine unica delle divinità maschili e femminili: con un cenno del capo io governo i picchi luminosi della volta celeste, i venti salubri del mare, i silenzi desolati dell’inferno. La mia essenza è indivisibile, ma nel mondo sono adorata ovunque in molte forme, con diversi riti, con nomi diversi: gli Attici autoctoni Minerva Cecropia, i Ciprioti bagnati dal mare Venere di Paphos, i Cretesi, abili arcieri, Diana Dictynna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, alcuni Giunone, altri Bellona, l’uno Ecate, l’altro Ramnusia [Nemesis]. Ma I due ceppi di Etiopi, quello illuminato dai raggi del Sole all’alba, e quello dai raggi del sole al tramonto, e gli Egiziani dotati dell’antica saggezza, mi venerano con riti che appartengono solo a me, e mi chiamano col mio vero nome: Iside regina”.

8: Ed ecco che lentamente cominciò a sfilare la solenne processione. La aprivano alcuni riccamente travestiti secondo il voto fatto: c’era uno vestito da soldato con tanto di cinturone un altro da cacciatore in mantellina, sandali e spiedi, un terzo, mollemente ancheggiando, tutto in ghingheri, faceva la donna: stivaletti dorati, vestito di seta, parrucca. C’era chi, armato di tutto punto, schinieri, scudo, elmo, spada, sembrava uscito allora da una scuola di gladiatori; e non mancava chi s’era vestito da magistrato, con i fasci e la porpora e chi con mantello, bastone, sandali, scodella di legno e una barba da caprone, faceva il filosofo, due, poi, portavano delle canne di varia lunghezza, con vischio e ami, a raffigurare rispettivamente il cacciatore e il pescatore…

9. Mentre queste divertenti maschere popolari giravano qua e là, la vera e propria processione in onore della dea protettrice cominciò a muoversi. Donne bellissime nelle loro bianche vesti, festosamente agghindate, adorne di ghirlande primaverili spargevano lungo la strada per la quale passava il corteo i piccoli fiori che recavano in grembo, altre avevano dietro le spalle specchi lucenti per mostrare alla dea che avanzava tutto quel consenso di popolo, altre ancora avevano pettini d’avorio e muovendo ad arte le braccia e le mani fingevano di pettinare e acconciare la chioma regale della dea, altre, infine, versavano, a goccia a goccia, lungo la strada, balsami deliziosi e vari profumi. Seguivano uomini e donne in gran numero che con lucerne, fiaccole, ceri e ogni altra cosa che potesse far luce, invocavano il favore della madre dei cieli.

16. Intanto fra questi discorsi e le festose ovazioni, procedendo lentamente, giungemmo alla riva del mare, proprio lì dove il giorno prima, ancora asino, io m’ero riposato. Qui, allineate secondo il rito le immagini sacre, il sommo sacerdote s’avvicinò con una fiaccola accesa, un uovo e dello zolfo a una nave costruita a regola d’arte e ornata tutt’intorno di stupende pitture egizie e, pronunziando con le sue caste labbra solenni preghiere, con fervido zelo la purificò e la consacrò offrendola alla dea. La candida vela di questa nave fortunata recava a lettere d’oro il voto augurale di una felice navigazione per i traffici che si riaprivano. A un tratto fu issato l’albero, un pino rotondo, alto e lucido con su in cima un bellissimo calcese; la poppa ricurva, a collo d’oca, scintillava rivestita com’era di lamine d’oro e la carena di puro legno di cedro splendeva anch’essa. Allora sia gli iniziati che i profani, tutti indistintamente, fecero quasi a gara a recare canestri colmi d’aromi e d’altre offerte e libarono sui flutti con un intruglio a base di latte, finché la nave, colma di doni e d’altre offerte votive, libera dagli ormeggi, non prese il largo sospinta da un vento blando e propizio. Quando essa fu tanto lontana che appena la si poteva scorgere i portatori ripresero di nuovo i sacri arredi che avevano deposto e, tutti soddisfatti, ritornarono al tempio in processione nello stesso bell’ordine di prima.

17. Quando giungemmo al tempio il sommo sacerdote, i portatori delle divine immagini e quelli che erano stati iniziati già da tempo ai venerandi misteri, entrarono nel sacrario e deposero, secondo il rito, quelle statue che sembravano vive. Allora uno di loro che tutti chiamavano «il grammateo», dalla soglia convocò in adunanza la schiera dei pastofori, – così erano chiamati quelli del sacro collegio e salito su un alto scranno cominciò a leggere da un libro alcune frasi augurali all’indirizzo dell’imperatore, del senato, dei cavalieri, di tutto il popolo romano, dei marinai delle navi e di tutto quanto al mondo rientra sotto il nostro imperio; poi, in lingua e rito greco proclamò l’apertura della navigazione e l’ovazione che seguì della folla confermò che quest’annunzio era inteso come un buon auspicio per tutti. Quindi la folla esultante, portando rami fioriti, verbene e ghirlande, si recò a baciare i piedi della dea, tutta in argento, che troneggiava su una gradinata, poi fece ritorno a casa.

Il navigium Isidis. L’idea alla base di questa teoria che identifica l’origine del Carnevale con la festa di Iside è la seguente: dopo i decreti teodosiani del 391-92 in cui si proibiva formalmente ogni culto pagano, la festa si sarebbe scissa in due parti: la parte riguardante la resurrezione di Osiride sarebbe rimasta nello stesso periodo dell’anno e si sarebbe legata a quella di Cristo, confluendo nella Pasqua, mentre la parte legata ai festeggiamenti più lascivi sarebbe stata anteposta al periodo di Quaresima. L’identificazione sarebbe poi avvalorata dalle caratteristiche di Iside date da Apuleio, che ricalcano molte di quelle della Madonna cristiana (come l’epiteto Stella Maris, protettrice dei navigatori); il culto di Iside era molto in voga nell’impero romano nel II d.C., quando scriveva Apuleio. Bisogna anche considerare che molti dei Carnevali storici sono legati a città marinaresche, come Venezia, legando dunque l’idea di carro navale a quello del Carnevale. La stessa Iside, non solo protettrice dei navigatori come la Madonna, veniva spesso ritratta in trono con un bambino, senza considerare le numerosissime statue di “Madonne nere“, che avrebbero le loro origini dunque proprio nell’egizia Iside. Pertanto le etimologie medievali, periodo da cui deriva la festa che conosciamo ancora oggi, avrebbero cercato di rimuovere le tracce delle origini più antiche della festa; insomma la Chiesa avrebbe cercato anche di cristianizzarne anche il nome, inserendo al suo interno l’azione del non mangiare la carne (carne – levare) durante il periodo di Quaresima.

Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Secondo la leggenda durante il sacco di #Brenno del 390 a.C. i #galli sarebbero stati fermati prima di prendere il #Campidoglio con un assalto notturno solo grazie all'intervento delle #oche sacre: “Li sentirono però le oche sacre a #Giunone, che erano state risparmiate pur nella grande penuria di cibo. Questo fatto salvò i #Romani; infatti destato dai loro schiamazzi e dallo sbattere delle ali Marco Manlio, che tre anni prima era stato console, uomo valoroso in guerra, afferrate le armi e insieme chiamando alle armi i compagni si fece avanti, e mentre gli altri erano presi dalla trepidazione, gettò giù urtandolo con lo #scudo un Gallo che già aveva raggiunta la sommità. Questi precipitando avendo trascinato in basso i più vicini, Manlio ne uccise altri che impauriti avevano gettate via le #armi e si erano aggrappati con le mani alle rocce a cui aderivano. Sùbito anche gli altri Romani accorsi si diedero a ricacciare i nemici con dardi e con sassi, e tutta la schiera dei Galli precipitando rovinosamente fu respinta al fondo”. TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 47

Commodo il gladiatore. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  Quando Marco Aurelio morì, il 17 marzo del 180, Commodo aveva appena diciott’anni; nonostante l’Historia Augusta si mostri risoluta nel mostrarlo come un depravato dedito solo ai piaceri, Erodiano invece mostra come Marco Aurelio fosse titubante nel dare il potere al figlio, che semplicemente non era pronto per il suo compito. Il padre non se la sentì di non confermare il figlio come successore: «Marco Aurelio, con la mente agitata da questi pensieri, convocò gli amici e i familiari, che erano al suo seguito; e quando tutti furono riuniti, tenendosi vicino il figlio, si sollevò alquanto dal letto e cominciò a parlare in questo modo: «Non mi meraviglio che voi siate addolorati vedendomi in tali condizioni: l’uomo è naturalmente incline a dolersi per le sventure dei familiari, e i mali che cadono sotto i nostri occhi provocano pietà ancor maggiore. Io però credo di potermi aspettare da voi ancora di piú: infatti, in base al modo in cui mi sono comportato nei vostri riguardi, ho ragione di sperare da voi ricambio di affetto. […] Vedete questo mio figlio, che voi stessi avete cresciuto; egli può appena dirsi un giovanetto, e ha bisogno di guida, come un battello nel tumulto dell’uragano, per non essere spinto al male dall’ignoranza di ciò che è necessario. Prendete dunque il mio posto presso di lui, dividendo fra molti l’ufficio di un padre; seguitelo, e consigliatelo per il meglio. Infatti non c’è ricchezza, per quanto grande, che valga contro la sregolatezza della tirannide, e non c’è guardia del corpo capace di sostenere un principe, se egli non è circondato dalla benevolenza dei sudditi. […] È difficile, per chi ha il potere, moderarsi e porre un limite alle passioni. Ammonendo mio figlio su queste difficoltà, e ricordandogli ciò che ora ascolta, farete di lui un ottimo principe per se stesso e per tutti; tributerete il migliore omaggio alla mia memoria, e anzi solo cosí potrete renderla eterna». Mentre diceva queste cose, Marco fu colpito da un collasso, e tacque; poi, per la debolezza e lo scoramento, si abbatté disteso sul letto. E pietà prese tutti gli astanti; sicché alcuni, non riuscendo a trattenersi, cominciarono a piangere e a lamentarsi. Egli poi, dopo esser vissuto ancora una notte e un giorno, morí, lasciando il rimpianto agli uomini del suo tempo, e un eterno ricordo alle generazioni future. Quando poi la notizia della sua morte si diffuse, tutti quelli che allora servivano come soldati, e tutta la massa dei civili, furono colpiti da uguale dolore; e non vi fu alcuno degli uomini soggetti al governo romano che accogliesse questa notizia senza lacrime. Tutti, a una voce, lo piangevano: alcuni come ottimo padre, altri come buon principe, altri come valoroso condottiero, altri come saggio e degno amministratore; e tutti erano sinceri.» ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 4,6-8

Un imperatore interessato ai piaceri. Commodo decise di abbandonare le conquiste del padre oltre il Danubio e di ritornare a Roma. Era stato nominato Cesare e aveva ricevuto la tribunicia potestas nel 177. Strinse la pace con i barbari, contro i consigli dei collaboratori paterni e fermò le persecuzioni contro i cristiani che c’erano state sotto il padre. Probabilmente diversi dei suoi collaboratori lo erano.

«Licenziò i funzionari più anziani di suo padre, allontanò i suoi vecchi amici. Cercò di attrarre a una vita dissoluta il figlio del generale Salvio Giuliano, ma senza successo: per vendicarsi tramò insidie contro Giuliano. Tutte le persone più oneste le allontanò o coprendole direttamente di insulti infamanti, o degradandole ad uffici del tutto indegni di loro. Certi commedianti avevano fatto allusione alle sue perversioni sessuali: egli li fece subito deportare così che non si vedessero più in scena. Abbandonò poi la guerra che il padre aveva quasi condotto a conclusione, accettando passivamente le condizioni imposte dal nemico, e fece ritorno a Roma. Là giunto, celebrò il trionfo facendo prendere posto dietro di sé sul carro al suo partner di perversione Saotero, e più volte si rigirava a baciarlo alla vista di tutti. La stessa cosa faceva anche sui banchi del teatro. E se fino a giorno fatto si ubriacava e gozzovigliava dissanguando le risorse dell’impero romano, anche durante la sera vagava tra le bettole recandosi nei postriboli. Mandava a governare le province individui che o erano gli stessi complici dei suoi vizi o gli erano stati raccomandati da delinquenti. Venne talmente in odio al senato, che a sua volta divenuto, sentendosi disprezzato, crudele, finì per infierire senza pietà contro quell’illustre ordine.» HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 3, 1-9 

Tuttavia il suo atteggiamento libertino e l’amore per i giochi e gli spettacoli, e la poca cura che riponeva nel governo, spinse la sorella Lucilla e il consolare Ummidio Quadrato, a organizzare una congiura, fallita, per eliminarlo. La congiura, avvenuta nel 182, era fallita. «Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch’essi in numero di trecento, che aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l’avvenenza. Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell’arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare. Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. Sua moglie, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. Né era esente dall’ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c’era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi.» HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 5, 1-11

Ma da allora Commodo, sconsolato, si ritirò dagli affari pubblici, che delegava ad altri, preferendo dedicarsi agli spettacoli gladiatori, che amava oltremodo: “Nel frattempo riferiscono che Commodo combatté trecentosessantacinque volte durante il regno di suo padre, e successivamente allo stesso modo ottenne tante vittorie gladiatorie sia sconfiggendo sia uccidendo i reziari, da arrivare a toccare le mille. Uccise di sua mano molte migliaia di fiere di diverse razze – tra cui abbatté anche degli elefanti. E queste imprese le compiva spesso davanti agli occhi del popolo romano. Ma se in questo campo fu davvero valente, per il resto era debole e malaticcio, anche per via di un’ernia inguinale sviluppata al punto che la gente poteva riconoscerne il gonfiore attraverso le vesti di seta. A tale proposito furono scritti molti versi, che Mario Massimo si vanta di riportare anche nella sua opera. Tale era la forza di cui disponeva quando doveva abbattere le bestie feroci, che trafiggeva un elefante con una picca, e una volta trapassò con un’asta il corno di una gazzella; era poi in grado di uccidere molte migliaia di grosse fiere con un sol colpo ciascuna. Era così spudorato che assai spesso, mentre sedeva al circo o a teatro, beveva in pubblico vestito da donna. Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all’azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali. Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale». Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne.” HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 12, 10 – 13, 8

Messi da parte gli affari pubblici, Commodo cominciò a passare sempre più tempo nel Colosseo, fino a voler scendere lui stesso nell’arena, azione considerata infamissima, in quanto chi vi partecipava era solitamente uno schiavo. Non solo, partecipava ai combattimenti travestito da Ercole, con una clava e una pelle di leone. «Fin qui le sue azioni, sebbene fossero indegne di un imperatore, gli conferivano agli occhi della plebe il prestigio del valore e della destrezza; ma quando egli scese nell’anfiteatro, e, spogliatosi dei suoi abiti, cinse le armi per impegnare combattimenti da gladiatore, allora il popolo vide uno spettacolo ripugnante: un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, cingeva armi che non erano quelle del soldato, e non servivano per combattere i barbari, come si addice allo stato romano; anzi infangava la propria maestà con un abito turpe e dispregiato. Egli naturalmente, nel combattere, superava facilmente gli avversari, e riusciva a ferirli: poiché tutti si lasciavano battere, cedendo al sovrano se non al guerriero. E giunse a tal punto di follia, che non voleva piú nemmeno abitare il palazzo imperiale, e meditava di trasferirsi alla caserma dei gladiatori; inoltre rinunciò al nome di Ercole, e si fece chiamare con il nome di un gladiatore famoso che era morto qualche tempo prima. Ordinò poi di togliere la testa alla statua colossale che rappresenta il Sole, ed è oggetto di venerazione da parte dei Romani, e vi sostituí la propria effigie, iscrivendo sulla base, come è consuetudine, i titoli imperiali suoi e del padre; ma, in luogo di «vincitore sui Germani» vi fece iscrivere «vincitore su mille gladiatori».» ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, 15, 7-9 

Commodo era ormai impazzito e, racconta Cassio Dione, in un’occasione decapitò uno struzzo e procedette verso i senatori seduti con la sua testa in una mano e il gladio nell’altra, limitandosi a scuotere la testa e sghignazzare. Fu proprio la prontezza di Cassio Dione a salvare tutti; infatti prese una foglia dell’alloro che aveva in testa e prese a masticarla, facendo cenno agli altri di imitarlo, in modo da nascondere il riso (Cassio Dione, Storia Romana, 72, 21, 2). «Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all’azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali. Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale». Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne. A causa di questa sua trascuratezza, poiché coloro che gestivano allora l’amministrazione dello Stato rubavano persino sui rifornimenti annonari, ebbe anche a scoppiare a Roma una grave carestia, benché non ci fosse deficienza di prodotti. In seguito questi individui che facevano razzia di ogni cosa Commodo li mise a morte e ne fece proscrivere i beni. Ma egli a sua volta, volendo far apparire che era tornata un’età dell’oro chiamata «Commodiana», impose un abbassamento dei prezzi, con cui finì per rendere più grave la carestia.» HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 13, 5-8; 14, 1-3

Ironia della sorte, sarà proprio un gladiatore ad ucciderlo. Alla fine, dopo diverse congiure sventate, Commodo fu strangolato da Narciso, il gladiatore con cui si allenava, dopo un primo tentativo di avvelenarlo. La congiura era stata organizzata da Marcia, concubina dell’imperatore, e Emilio Leto, prefetto al pretorio. Pare che un ragazzino con cui giocava l’imperatore, ribattezzato da lui Filocommodo, trovò un foglietto di carta, e non sapendo leggere lo usava per giocare. Lo diede poi a Marcia, che lesse su quel foglio la lista di persone che l’imperatore voleva far uccidere, e c’era anche lei. La congiura fu organizzata rapidamente, ma riuscì (ce n’erano state diverse negli anni precedenti). Era il 31 dicembre 192 d.C. Il primo gennaio del 193 sarebbe diventato imperatore il prefetto dell’Urbe Pertinace, già comandante durante le guerre marcomanniche.«Sotto la spinta di questo stato di cose – sebbene troppo tardi – il prefetto Quinto Emilio Leto e la sua concubina Marcia ordirono una congiura per assassinarlo. E in un primo tempo gli somministrarono del veleno: ma poiché questo non si mostrava efficace, lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi.» (Historia Augusta, Commodo, 17, 1-2)

L’eruzione del Vesuvio: la distruzione di Pompei ed Ercolano. Dalla pagina facebook di Storie Romane. Il gruppo ufficiale della pagina Storie Romane raccoglie il dibattito sulla storia romana. Tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica. Chiunque può trovare questo gruppo. 114.970 persone seguono questa Pagina. Storieromane.it.  L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. è certamente uno degli eventi naturali catastrofici più famosi della storia antica, se non il più famoso. Tuttavia ci furono molti altri eventi disastrosi nell’antichità: dall’eruzione di Santorini che spazzò via i grandi regni dell’età del bronzo, passando per Pompei e il disastroso terremoto e maremoto di Messina e Reggio Calabria del 362 d.C. per arrivare ai ricorrenti terremoti subiti da Roma nel V-VI secolo: nel 442, 476, 484 e 508 i più importanti.

Origine di una tragedia. « Ecco il Vesuvio, poc’anzi verdeggiante di vigneti ombrosi, qui un’uva pregiata faceva traboccare le tinozze; Bacco amò questi balzi più dei colli di Nisa, su questo monte i Satiri in passato sciolsero le lor danze; questa, di Sparta più gradita, era di Venere la sede, questo era il luogo rinomato per il nome di Ercole. Or tutto giace sommerso in fiamme ed in tristo lapillo: ora non vorrebbero gli dèi che fosse stato loro consentito d’esercitare qui tanto potere.» (Marziale, Lib. IV. Ep. 44)

L’area di Pompei era stata interessata da vari terremoti nei decenni precedenti l’eruzione del Vesuvio: nel 62 d.C. un violento terremoto aveva danneggiato gravemente la città, che era ancora non del tutto ricostruita quando avvenne l’eruzione del Vesuvio. Il mons Vesuvius era considerato dai romani un monte: in cima crescevano alberi e nulla lasciava intendere che al di sotto ci fosse la caldera di un vulcano; basti pensare che quasi due secoli prima Spartaco si era proprio accampato lì mentre fuggiva dai romani e aveva poi sorpreso e decimato nella notte le truppe di Claudio Glabro che lo assediavano. Intorno all’una del pomeriggio del 24 agosto 79 d.C. (alcuni, in base a un codice rinascimentale e evidenze archeologiche – come la presenza di abiti più pesanti e frutti autunnali come noci spostano la data al 24 ottobre) con un boato terribile il Vesuvio eruttò. Le sostanze eruttate per prime dal Vesuvio furono fondamentalmente pomici,quindi rocce vulcaniche originate da un magma pieno di gas e raffreddato. Mescolate alle pomici si trovano parti di rocce di altra natura che furono trasportate dal magma. Tuttavia molti morirono soffocati e/o colpiti da grandi detriti/pomici. Infine, chi sopravviveva, spesso messosi in salvo negli edifici, ne rimaneva vittima quando questi crollavano sotto il peso dei detriti e delle pomici. Chi si era dato prontamente alla fuga verso Nocera si era salvato, chi aveva scelto il mare no: infatti il vento tirava in direzione di Stabia ed Ercolano. Gli abitanti di quest’ultima, affollati sulla banchina e in attesa dell’arrivo della flotta romana ormeggiata a Miseno, non molto distante, venne investita da una nube ardente che li polverizzò. La testimonianza più rilevante della tragedia è quella di Plinio il Giovane, testimone quasi oculare, dato che si trovava in quei giorni a Miseno, a poca distanza da Pompei ed Ercolano. Trent’anni dopo descrisse l’evento all’amico Tacito: « Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l’idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami.»

In questa lettera Plinio il Giovane riferì anche le testimonianze sulla morte dello zio Plinio il Vecchio (senatore, uomo di cultura, amante della natura e autore della memorabile Naturalis Historia). Lo zio, comandante della flotta romana, di stanza a Capo Miseno, si era diretto ad Ercolano per andare ad aiutare la famiglia dell’amico Cesio Basso: egli provò a raggiungere la località vesuviana via mare, ma fu costretto a cambiare rotta, per cui si diresse verso Stabia, facendosi ospitare da Pomponiano. Tuttavia, anche Stabia fu investita dall’eruzione (il vento spingeva nella direzione dove si trovava Plinio) e, soffocato dai vapori tossici, Plinio il Vecchio morì. In una seconda lettera a Tacito descrisse ciò che accadde a Miseno. Egli racconta delle scosse di terremoto avvenute giorni prima, e la notte dell’eruzione le scosse «crebbero talmente da far sembrare che ogni cosa […] si rovesciasse». Inoltre, pareva che «il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremare della terra», così che «la spiaggia s’era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco». « Crederanno le generazioni a venire […] che sotto i loro piedi sono città e popolazioni, e che le campagne degli avi s’inabissarono? » (Stazio, Silvarum Liber III)

L’imperatore Tito, succeduto al padre Vespasiano nel giugno dello stesso anno, cercò di portare aiuto attingendo anche al proprio patrimonio personale, ma le città di Pompei ed Ercolano, travolte dal Vesuvio, non vennero più ricostruite. Gli unici superstiti furono coloro i quali da Pompei si diressero subito verso Nocera; tutti quelli che si erano attardati vennero travolti dalla nube di gas, lapilli, cenere, e infine dalla colata stessa. Ad Ercolano la popolazione non aveva trovato via di scampo verso l’interno e si era dovuta rifugiare nella banchina del porto, in attesa di aiuto da parte della flotta di Miseno: Plinio infatti era salpato immediatamente, ma fu costretto a cambiare rotta e morì anch’egli per via dell’eruzione, mentre la gente di Ercolano, senza possibilità di fuga, fu travolta dall’eruzione.

Quanto guadagnavano i soldati romani? Mattia Caprioli il 10 agosto 2021 su tribunus.it. Essere un soldato, per i Romani, non è sempre stato un mestiere per il quale viene corrisposta una paga. Per lungo tempo, fare il soldato non fu è impegno a tempo pieno, e anche quando ciò avviene, le prospettive di accumulare denaro sono molto basse, legate specialmente al buon successo delle campagne militari. Nel corso dei secoli questa situazione cambia parecchio, particolarmente verso la fine della tarda antichità, quando la volontà degli imperatori di tagliare lo stipendio dei soldati (nel frattempo fattosi piuttosto alto rispetto al passato) è causa di ammutinamenti e ribellioni. Sia l’ammontare della paga dei soldati, che la sola concezione che si ha di essa, muta moltissimo nel corso dei secoli, anche se non esattamente di pari passo con i mutamenti della macchina bellica romana.

L’età repubblicana. In età monarchica e per gran parte del periodo repubblicano, l’esercito romano non è composto da professionisti, ma da privati cittadini abili alle armi che ogni anno, in vista dell’apertura della stagione militare, vengono arruolati e suddivisi in varie legioni, con la pratica del dilectus. Finita la campagna militare o la stagione, i soldati vengono usualmente congedati e tornano a essere semplici cives. Stare lontani da casa, specie se la campagna militare si prolunga più del previsto, diventa un serio problema e una possibile fonte di danno economico per il cittadino romano. Nel 406 a.C., in occasione della lunga e prolungata guerra contro Veio, è istituito così il primo stipendium. In virtù del fatto che la guerra a Roma non è una professione, lo stipendium è concepito come un indennizzo statale per gli eventuali danni economici che il prolungamento della campagna avrebbe portato. Nei due secoli successivi, la concezione della paga dei legionari cambia molto poco. Da indennizzo, passa a essere un mezzo di sostentamento per il soldato, quando le campagne militari si svolgono lontano da Roma (o dalle altre città di provenienza) per periodi prolungati. Poco sappiamo sulla paga dei legionari nei primi secoli dell’istituzione dello stipendium. Uno dei primi a darci informazioni è Polibio, grazie al quale abbiamo preziosi riferimenti per il III e per la prima metà del II sec. a.C. L’autore greco ci informa che i legionari a lui contemporanei percepiscono due oboli al giorno (cinque assi, o mezzo denario), i centurioni quattro (dieci assi, o un denario), e che i cavalieri, in quanto hanno il compito di mantenere il cavallo, una dracma (quindici assi, o un denario e mezzo). Almeno per i legionari, sappiamo che ciò corrisponde all’incirca a 120 denari all’anno. Questo stipendium si mantiene pressoché stabile fino all’epoca di Cesare, il quale intorno al 50 a.C. quasi raddoppia la paga dei legionari da cinque a dieci assi al giorno (corrispondenti però a 225 denari l’anno) e porta a 450 denari annui quella dei centurioni. A ben guardare, nonostante sia molto complicato calcolare il costo della vita e il valore del denaro nel periodo della repubblica, lo stipendium del legionario anche come aumentato da Cesare è effettivamente ben poca cosa. Basti sapere infatti che nella tarda repubblica, come riporta Cicerone, il salario medio di un lavoratore è di dodici assi al giorno. A questo salario già molto basso, va anche aggiunta la svalutazione dell’asse che si verifica nel 118 a.C. e un sistema di trattenute sul vettovagliamento e sull’equipaggiamento militare, nelle rare occasioni in cui quest’ultimo sia fornito dallo Stato (in età repubblicana e gran parte di quella imperiale, il soldato doveva provvedere da solo al proprio armamento). Uno dei pochi modi di spiegare il basso valore della paga dei legionari nel periodo repubblicano è che, a livello concettuale, la paga venga ancora considerata solo come un indennizzo, come alle origini dello stipendium. Un’altra motivazione, parimenti importante, è data dal fatto che tanto i comandanti quanto soprattutto i soldati sono ben consapevoli che le vere occasioni di fare fortuna sono in realtà connesse alla possibilità di fare bottino durante le campagne vittoriose.

Il periodo alto e medio imperiale (I-III sec. d.C.). Con il periodo imperiale, che vede ormai la costituzione stabile di un esercito di professionisti (eredità delle riforme mariane della fine del II sec. a.C.), viene inizialmente istituzionalizzato lo stipendium cesariano, che diviene un vero e proprio salario. Da Augusto a Domiziano, la paga annuale di un legionario resta di 225 denari, equivalenti a 900 sesterzi, elargiti in tre rate annuali da 300 sesterzi. Quanto agli ausiliari, ora stabilmente integrati in loro specifiche unità nell’esercito, questi venivano pagati 187,5 denari l’anno, ovvero 750 sesterzi. In entrambi i casi, i cavalieri ricevevano annualmente 150 sesterzi in più. Una paga che, esattamente come nel periodo repubblicano, rimane piuttosto misera, considerate tutte le trattenute già valide anche nei periodi precedenti (ancora in questo periodo, anche per l’armamento è il soldato in massima parte a dover provvedere a sé stesso). Lo testimonia bene un papiro rinvenuto a Masada, relativamente alle spese sostenute dal legionario Gaio Messio. Da uno stipendium di 300 sesterzi, ovvero 75 denari, Messio deve detrarre ben 50 denari (200 sesterzi) corrispondenti a una fornitura d’orzo (sedici denari), una tunica in lino (sette denari), un paio di scarpe (cinque denari) e lacci in cuoio (due denari). Dallo stipendium successivo, del quale non sappiamo tutto per via della frammentarietà del papiro, sappiamo che vengono dedotti venti denari in cibo e nuovamente sedici denari per l’orzo. Che queste condizioni di paga rendessero durissima la vita del legionario lo esprime bene anche il più tardo Tacito. Alla morte di Augusto nel 14 d.C., i legionari del Reno e della Pannonia si sarebbero così espressi: “Il servizio militare è di per sé stesso faticoso e non rende nulla: l’anima e il corpo si valutano dieci assi al giorno. Con questi bisogna pagarsi i vestiti, le armi, le tende, oltre a quanto serve per evitare le sevizie dei centurioni e per farsi esentare dai servizi. In compenso, per Ercole, percosse e ferite, inverni duri, estati faticose, guerra atroce o pace sterile, sempre […]”. Anche le prospettive di bottino, con sempre meno campagne di conquista in grande stile nei confronti di province ricche come quelle orientali, si vanno riducendo drasticamente. Come compensazione, i soldati devono ormai sperare più che altro sugli altrettanto rari donativa elargiti dagli imperatori al momento dell’ascensione al trono. Con Domiziano (84 d.C.), i legionari vedono finalmente aumentata la paga di un terzo, da 900 a 1200 sesterzi annui (300 denari), anche se in questo modo resta comunque di poco superiore a quella di un lavoratore stipendiato. Anche se non lo sappiamo con certezza, sotto Settimio Severo (197 d.C.) lo stipendium viene probabilmente raddoppiato a 2400 sesterzi, ovvero 600 denari. Caracalla (212 d.C.) aggiunge un ulteriore 50%, raggiungendo così i 3600 sesterzi annui (900 denari). Considerata l’inflazione del III secolo, è assai probabile che, da Alessandro Severo a Diocleziano, lo stipendium sia salito fino a 1800 denari – una somma che, considerando il periodo, non doveva essere particolarmente elevata.

La tarda antichità (III-VII sec.). Dalla fine del III al VII secolo, tracciare l’esatto ammontare della paga dei soldati romani diventa molto complicato. Questo non solo per una certa confusione nelle fonti, ma anche per l’ulteriore diversificazione dei tipi di entrata corrisposti ai soldati. Per la tarda antichità, è inoltre più utile iniziare a tracciare lo stipendio anche in solidi aurei, o nomismata (un solidus equivale a 1000 denari), un tipo di moneta introdotto da Costantino. I donativa imperiali in questo periodo diventano una parte sempre più importante e costante delle fonti di entrata dei soldati. Vengono elargiti non solo all’ascensione alla porpora dell’imperatore ma anche, con cadenze ormai regolari, in occasione di particolari anniversari (compleanni, anniversario dell’ascesa al trono, etc.). Di particolare importanza i donativa quinquiennali, corrispondenti a circa un nomisma. Durante il IV e particolarmente con la più forte crisi del V secolo, lo stipendium sembra divenire la forma di pagamento in moneta sempre meno stabile e sicura (nonché maggiormente irrisoria), a fronte proprio dei donativa. Alla fine del III secolo, allo stipendium in moneta si affianca anche il pagamento in beni in natura (annona), vestiario e armi. L’annona, distribuita su base annuale, è talvolta versata in denaro (pretium annonae), che deve essere utilizzato dal soldato per acquistare i beni corrispondenti. Durante il regno di Valentiniano III (425-455), sappiamo che il controvalore dell’annona annuale è di quattro solidi. Tra IV e V secolo, l’annona diventa il principale mezzo regolare di retribuzione dei soldati. Come accennato, pur tenendo presenti i dati presentati sopra, è molto complicato stabilire l’ammontare della paga che i soldati romani percepivano tra IV e V sec. Considerando poi le forti oscillazioni e la continua svalutazione, è praticamente impossibile stabilirne tanto l’esatto ammontare, quanto il valore. Stime moderne propongono che, sotto Diocleziano, i soldati ricevessero almeno nominalmente (tra stipendium e donativa vari, ma esclusi annona e forniture di armi) una somma annuale paragonabile a 12 nomismata. Ovvero, circa 12.000 denari, dei quali però solo 1800 sarebbero derivati dallo stipendium. Questa somma sarebbe precipitata a 9 nomisma per i soldati dell’esercito campale e 5 per i limitanei nel tardo V secolo (rispettivamente 14 e 10 nomisma includendo anche armi e annona). Nel 438, addirittura in una legge è testimoniato come i soldati a malapena sopravvivano del loro stipendium, tanto che lo Stato si prodiga per fornire loro, in compensazione, terra da coltivare. A cavallo tra IV e V secolo, la situazione cambia radicalmente, con le riforme e le attente politiche economiche dell’imperatore Anastasio (491-518). Con le sue riforme, l’imperatore Anastasio riesce a riempire nuovamente le casse dello Stato, investendo parte dei nuovi introiti proprio nelle paghe dell’esercito. Anastasio (anche se alcuni attribuiscono la riforma a Giustiniano) abolisce i donativa quinquiennali. Inoltre, converte stabilmente l’annona nel suo corrispettivo monetario, aumentandola da quattro a cinque nomismata proprio con l’abolizione del donativum quinquiennale. Il prezzo dell’armamento venne inoltre fissato a 5 nomismata, per l’acquisto del quale veniva fornita un’indennità da ripagare allo Stato, fornitore unico dell’equipaggiamento militare sin dal tempo di Diocleziano e Costantino. Le stime moderne indicano quindi che, considerando anche l’indennità per l’armamento, i soldati romani dell’esercito campale del VI secolo avrebbero ricevuto, nominalmente, 20 nomisma – dei quali 15 restano in tasca al soldato per mantenere sé stesso e la sua famiglia. In qualche caso probabilmente ai soldati restava anche di più, se consideriamo valida l’ipotesi che, specie tra i fanti, l’indennità per l’acquisto di armi non viene spesa totalmente.

La paga monetaria dei soldati di frontiera invece resta invariata, e sotto Giustiniano è definitivamente abolita. Questo anche in considerazione del fatto che, in buona parte dei casi (almeno sulle frontiere orientali e in Egitto), i limitanei svolgevano anche altri lavori e riuscivano a sostentarsi da sé. La riforma di Anastasio cambia radicalmente l’approccio degli ultimi due secoli dei Romani all’arruolamento, che intanto era stato ristabilito su base volontaria. Invece di darsi alla macchia o di automutilarsi pur di non venire arruolati, come spesso accadeva nel IV e V secolo, ora fare il soldato diviene un mestiere remunerativo, un ruolo privilegiato. Persino l’obbligo del signum, un probabile tatuaggio identificativo, utile strumento identificativo in caso di diserzione, è abolito, probabilmente perché ormai considerato inutile. Tale posizione privilegiata, tuttavia, in momenti di crisi economica diviene un’arma a doppio taglio per gli stessi imperatori. In particolare, l’imperatore Maurizio tenta per ben due volte, nel 588 e nel 594, di attuare modifiche al ribasso alla paga dei soldati, ma ottenendo solo l’ammutinamento delle truppe (scongiurato decidendo di ritirare i provvedimenti). I soldati non erano disposti a rinunciare all’aumento di paga degli ultimi decenni. Nel 588, Maurizio tenta di decurtare la paga da 20 a 15 nomismata, mentre nel 594 cerca di sostituire la paga in una fornitura diretta di armi e vestiario, e il residuo valore in moneta. Solo nel 616 l’imperatore Eraclio riuscirà ad addirittura dimezzare la paga dei soldati a 10 nomisma senza provocare sedizioni, con una fornitura interamente a carico statale di armi e vestiario.

L’alto medioevo (VII-XI sec.). L’introduzione del sistema tematico e la relativa distribuzione di terre militari ai soldati, probabilmente introdotti da Costante II (641-668), porta ulteriori elementi di novità alla paga dei soldati. La paga passa dai 10 nomismata di Eraclio a 5. I soldati devono inoltre provvedere loro stessi all’equipaggiamento e ai cavalli. Tale taglio apparentemente drastico è ampiamente compensato proprio dalla distribuzione delle terre militari, che per i cavalieri sono probabilmente molto più estese di quelle destinate ai fanti, e che provvedono in maggior proporzione della paga al sostentamento dei soldati. Ben diverso il trattamento riservato ai soldati dei tagmata imperiali, introdotti da Costantino V nel 743, ai quali vengono anche forniti, oltre ai terreni militari, anche le armi e razioni alimentari, queste ultime per il valore di 5 nomismata. In questo modo, la paga base di 5 nomismata non deve essere spesa per le armi, restando completamente in tasca ai soldati dei tagma. Una delle più dettagliate fonti riguardante la paga dei soldati romani del periodo alto medievale risale al regno dell’imperatore Teofilo (829-842). Si tratta di un resoconto in arabo dell’840 circa, composto da al-Jarmi, probabilmente basato su documentazione imperiale. Almeno per quanto concerne i soldati di truppa, notiamo una disposizione curiosa. Secondo al-Jarmi, il primo anno di servizio sarebbe corrisposto un nomisma, il secondo due, il terzo tre, e così via fino al dodicesimo anno, dal quale la paga si sarebbe stabilizzata a dodici nomismata per tutti gli anni successivi di servizio. Secondo calcoli moderni, ciò porterebbe a una media di circa 9 nomismata l’anno. Questo denaro è inoltre integrato dalla paga specifica data ai soldati durante le campagne militari, a volte piuttosto generosa. In un documento di Costantino VII relativo a una campagna militare del 911 contro Creta, i soldati semplici hanno ricevuto 9 nomismata solo per la partecipazione alla spedizione – una somma ragguardevole, se si considera la media di 9 nomismata l’anno della paga regolare. Il complesso sistema dell’imperatore Teofilo viene probabilmente abbandonato già prima della fine del IX secolo, per tornare a una paga regolare di circa 9 nomismata che si mantiene almeno fino a Niceforo II (963-969). Tra X e il primo quarto dell’XI secolo, l’instaurazione di molti nuovi themi nati dalle campagne militari vittoriose di imperatori come Niceforo II, Giovanni Tzimisce e Basilio II, impongono un risparmio sulle finanze pubbliche, anche per quanto concerne il pagamento dei soldati. Anche dal dato archeologico, sappiamo che i soldati dei themi più vecchi e di quelli maggiormente inattivi, invece di essere pagati in nomismata, vengono pagati nel corrispettivo monetario in tetartera, una moneta che in realtà ha un valore inferiore rispetto al nomisma di circa un dodicesimo. Gli ultimi dati utili, relativi all’XI secolo, ci fanno capire come anche il nomisma abbia perso infine molto del suo valore. Costantino IX Monomaco, nello smobilitare i soldati del thema d’Armenia, li priva della paga di 7 nomismata e li solleva delle spese militari (quelle relative all’equipaggiamento militare), equivalenti a circa la stessa somma.

Bibliografia

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W. Treadgold 1998, Byzantium and its Army, 284-1081

Il realismo di Giolitti contro il mito dell’Italietta. Andrea Muratore su Inside Over il 17 agosto 2021. Fu definito il “ministro della malavita” dai suoi oppositori, un pericoloso avventuriero dagli esponenti della Sinistra extraparlamentare, il portavoce di una presunta “Italietta” imbelle e pusillanime dai nazionalisti. Ma in vita Giuseppe Giolitti è stato molto più, e la sua azione politica, specie sul fronte internazionale, è sempre stata impostata sulla base di un profondo realismo che lo accomuna a pochi leader della storia nazionale. Probabilmente solo Cavour prima di lui e De Gasperi dopo la fine della Seconda guerra mondiale hanno impostato le loro politiche sulla base di una lettura tanto rigorosa e attenta del contesto internazionale. Meno spregiudicato di Cavour, ma più libero di compiere azioni autonome rispetto a De Gasperi, l’uomo di Dronero, protagonista della politica italiana dagli Anni Ottanta del XIX secolo fino all’inizio dell’era fascista, capì che la grammatica della potenza nazionale poteva svilupparsi sia sulla base di azioni compiute sul fronte interno che attraverso manovre connesse alla necessità di accrescere lo status internazionale dell’Italia.

Il tentativo di unificare fino in fondo il Paese. Giolitti, che fu capo del governo del Regno d’Italia in cinque occasioni distinte (1892-1893, 1903-1905, 1906-1909, 1911-1914, 1920-1921) fu il primo statista dell’età liberale a fare i conti con l’eredità incompiuta del Risorgimento e con la consapevolezza che il Paese doveva necessariamente darsi obiettivi di coesione interna per poter proiettare al meglio la sua posizione nel contesto internazionale. I decenni precedenti la fase centrale con i suoi tre ministeri di inizio Novecento erano stati estremamente concitati per l’Italia, attanagliata da profonde divisioni sociali, da povertà e analfabetismo endemico, dall’emigrazione di massa e da una condotta di politica internazionale volta alla ricerca di un fatuo prestigio che aveva condotto alla confusa esperienza coloniale in Africa orientale e al doloroso schiaffo di Tunisi subito dalla Francia nel 1882. Giolitti capì che per l’Italia dell’epoca interno ed esterno dovevano coesistere, che per il Paese era necessario sia farsi portavoce di una politica di distensione nel contesto europeo sia trovare sfogo alle pulsioni sociali, economiche, demografiche trovando aree e mercati di riferimento su cui indirizzare emigrazione e appetiti economici. Sul fronte interno, Giolitti mirava a consolidare questa prospettiva cauterizzando i maggiori fattori di problematicità interni attraverso una serie di riforme sociali, la concessione del suffragio universale maschile, la creazione dell’Istituto nazionale d’assicurazione, la concessione di diritti sul lavoro e il risanamento dei rapporti tra l’élite liberale e i due grandi centri di contestazione allora esistenti, il mondo socialista e quello cattolico.

Giolitti tra guerra e pacifismo. La cosiddetta “Italietta” che Giolitti era accusato di rappresentare era in fin dei conti un Paese da ricucire. Un Paese che aveva sempre corso il rischio di dimenticare la sua coesione e la sua da poco conquistata unità sulla scia delle disuguaglianze interne, della povertà, della sclerosi amministrativa. Un’Italia con il perenne timore di non poter sfamare i suoi figli. Una “grande proletaria”, per usare le parole di Giovanni Pascoli, che Giolitti non ebbe timore di far muovere tra il 1911 e il 1912 dopo aver consolidato gradualmente il fronte interno. La guerra mossa alla Turchia per la Libia e il Dodecaneso si inserì nella strategia di realismo del presidente del Consiglio. Desideroso di annettere la “Quarta Sponda” per farne un pivot mediterraneo per l’Italia, una valvola di sfogo per l’emigrazione, un fattore di controbilanciamento per la Francia e il Regno Unito egemoni in Nord Africa. Stefano Jacini, più volte ministro dopo la morte di Cavour, ebbe a dire che quell’Italia aveva “classi dirigenti, letterarie e politiche impazienti di realizzare l’ideale di grandezza che avevano nella mente e nel cuore”. Alle sue frange nazionaliste Giolitti seppe dare sfogo quando necessario, ma cercando sempre di tenerle a bada evitando, ad esempio, di eccedere eccessivamente con le operazioni anti turche nel Mar Rosso, vicino alle coste arabe, per non dare l’impressione di una “guerra Santa” o di una “nuova Lepanto”. La volontà di sfogare in direzione degli appetiti coloniali, che il governo liberale certo non disincentivava, la pulsione crescente del movimento nazionalista si conciliava con la ricerca di un nuovo equilibrio politico in Europa. Giolitti sentiva stretti per l’Italia i confini degli schieramenti creatisi negli ultimi due decenni del XIX secolo e incardinatisi gradualmente nella Triplice Alleanza, tra Italia, Austria-Ungheria e Germania, e Triplice Intesa, formata da Russia, Gran Bretagna e Francia. Ritenendosi continuatore della tradizione del Risorgimento, sentiva innaturale l’alleanza con un Impero asburgico ancora saldamente ancorato al di qua delle Alpi, ma al contempo vedeva l’Italia destinata a subire profondi sconvolgimenti in caso di conflitto generale in Europa. Da qui discesero la ricerca di un modus vivendi con la Russia e la Francia, nazioni che nei mandati giolittiani ebbero una crescente attenzione nel quadro della diplomazia italiana guidata dal Ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano. Nel 1913 Giolitti e San Giuliano lavorarono sotto traccia per evitare lo scoppio di un conflitto generalizzato a partire dalle guerre balcaniche; nei primi mesi dell’anno successivo il ministero di Giolitti cadde, ma San Giuliano rimase al suo posto su pressione del leader piemontese nel costituendo governo Salandra. Si aprì ben presto per Giolitti l’ora più complessa della sua parabola politica: la dura lotta per guidare l’Italia alla neutralità nel contesto della Grande Guerra. Nel saggio di Luigi Compagna Italia 1915. In guerra contro Giolitti si ricostruisce l’azione che i liberal-conservatori guidati da Antonio Salandra e Sidney Sonnino compirono contro l’uomo di Dronero per delegittimarne gli appelli alla neutralità che vedevano l’anziano esponente liberale fare fronte comune con quel mondo cattolico e quell’area socialista che aveva contribuito a riportare nel contesto dell’agone politico nazionale. Giolitti giustificava la scelta neutralista dall’alto di un realismo fortemente equilibrista, temendo che la guerra avrebbe prodotto danni incalcolabili e soprattutto distrutto le prospettive del suo progetto di coesione della nazione che, a conflitto finito, avrebbe ripreso alla vigilia dell’ascesa del fascismo nel suo ultimo mandato di governo. La concezione che il Paese avrebbe potuto ottenere risultati territoriali anche dichiarandosi terzo, la percezione dei rischi dell’insorgenza nazionalista, il confronto con alleati e rivali potenziali rendevano chiare e allarmanti queste considerazioni. Tre anni e mezzo di conflitto, dal 24 maggio 1915 al 4 novembre 1918, avrebbero gradualmente aperto a ragionamenti sulle intuizioni di Giolitti. La guerra fu vinta a costo del suicido successivo del regime liberale, di uno strappo col percorso di riforme graduali avviato dal presidente del Consiglio, di una rottura della linea realista che portò ai goffi movimenti diplomatici del governo Orlando a Versailles, alla “mutilazione” della vittoria. In ultima istanza alla semina del terreno fertile perché nel Paese nascesse e si costituisse il regime fascista, sorto nel 1922 e naufragato due decenni dopo nella tempesta di una nuova, brutale guerra mondiale. La storia non si fa né con i sé né con i ma, certamente. Però è indubbio che provare a immaginare come sarebbero andate le cose se a spuntarle fosse l’anziano uomo che seppe sfatare sul campo il mito dell’Italietta porta a realizzare che, in fin dei conti, l’età giolittiana fu l’unica vera fase continuata di espansione del benessere e del prestigio nazionale del periodo che precedette la Grande Guerra. Espansioni, queste, impossibili senza la sana dose di realismo dello statista piemontese, ancor oggi maestro per le classi dirigenti del Paese.

Vi raccontiamo come dopo l’unificazione le banche del Nord si presero l’oro del Banco di Napoli.  Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 27 febbraio 2020. Ancora oggi si continua a nascondere una verità storica accertata persino da una commissione parlamentare d’inchiesta. Quando l’allora Ministro Antonio Scialoja ammise che l’aver sacrificato il Banco di Napoli, per motivi che egli stesso riteneva necessari, era «una volgare verità». Dopo l’attentato alla vita di Ferdinando II l’attività poliziesca si era fatta pressante; il pericolo in realtà era più immaginario che sostanziale, tanto che lo scrittore Raffaele De Cesare si spinse a scrivere che se Napoli presentava «l’aspetto di una città dominata dalla paura […] l’aver paura della polizia era l’occupazione di tanti, e per molti, pretesto a non far nulla». A produrre invece una robusta detonazione nel clima politico e sociale napoletano era Antonio Scialoja con un opuscolo nel quale metteva a confronto i bilanci napoletani con quelli torinesi, sostenendo la superiorità delle politiche economiche piemontesi rispetto a quelle napoletane (1). Scialoja, ritenuto uno dei migliori economisti italiani, era stato ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel Governo costituzionale di Carlo Troja; esule a Torino, dopo aver scontato 3 anni di carcere per i fatti del 1848, era diventato uno strenuo sostenitore delle idee liberiste conservatrici di Camillo Cavour. Nell’opuscolo Scialoja criticava il regime doganale teso a proteggere i prodotti industriali del Sud e, in merito al bilancio delle Due Sicilie, polemizzava contro la tendenza delle politiche governative a non indebitarsi, mentre invece il bilancio di Torino era in deficit a causa di investimenti che stavano producendo – a suo dire – sviluppo e ricchezza. L’opuscolo era accolto dal sovrano e dai suoi ministri come «un colpo di fulmine», considerato che Scialoja chiudeva con un confronto impietoso tra «l’alta posizione morale e politica del Piemonte, e il grado d’inferiorità, in cui era il Regno di Napoli». Tra le pieghe, peraltro, era del tutto evidente l’affondo ad un sistema ritenuto corrotto e costituito da «taglie arbitrarie» che il governo napoletano consentiva. Sull’opuscolo di Scialoja, De Cesare non andava oltre una semplice difesa d’ufficio di Ferdinando II, riconoscendo che «era onesto, personalmente, e parsimoniosa la famiglia reale, forse più che non conveniva al suo grado». Come era del tutto prevedibile, il napoletano Scialoja fu accusato di denigrare la propria patria, di essere in malafede e ben nove studiosi, con poca fortuna, pensarono di confutare le sue tesi (2). Ma non sarebbe stato questo l’unico danno prodotto da Scialoja al Sud. Dopo aver diretto le Finanze nel periodo della dittatura di Giuseppe Garibaldi e in quello della Luogotenenza affidata a Luigi Carlo Farini, sarebbe diventato nientemeno che il Ministro delle Finanze e, come tale, avrebbe introdotto il “Corso forzoso” della lira nel 1866, permettendo al neo Stato italiano di onorare i debiti legati al processo unitario e alle guerre, ma determinando un vero e proprio attacco al sistema bancario e all’economia del Sud, portando a completamento la subdola «politica di drenaggio delle riserve auree del Banco, col risultato di privare il Sud del suo oro e delle sue capacità di credito». Infatti, già dalla metà del 1863 le riserve auree del Banco di Napoli erano calate da 78 a 41 milioni ed avevano preso la direzione di finanziare attraverso la Banca Nazionale il nascente sistema industriale settentrionale in crisi, mentre quello meridionale veniva lasciato al proprio destino. Gli studi e le ricerche degli ultimi 20 anni hanno in parte rivalutato le politiche economiche restrittive e parsimoniose del Regno delle Due Sicilie e hanno messo in rilievo che lo sviluppo economico del Regno di Sardegna era avvenuto fittiziamente e con un forte indebitamento, saldato in parte proprio con le riserve auree del Banco di Napoli (4). Edmondo Maria Capecelatro, assistente di Storia economica nell’Università di Napoli, e Antonio Carlo, professore incaricato di Diritto del lavoro nell’Università di Cagliari, hanno sostenuto che solo l’assidua assistenza della Banca Nazionale avrebbe permesso alla struttura industriale del Nord in crisi di sopravvivere a spese di quella del Sud. Una situazione derivante da una scelta politica voluta dallo Stato e favorita dal ministro delle Finanze Antonio Scialoja nel secondo governo La Marmora e nel secondo governo Ricasoli, cioè prima e dopo il “Corso forzoso”. Una scelta politica che avrebbe causato, con il drenaggio di riserve auree verso il Nord, la strozzatura del credito industriale al Sud, mediante metodi del tutto estranei alla libera concorrenza e impedendo al Banco di Napoli di diventare «il più grosso istituto finanziario italiano». Ma quando, nonostante l’aiuto statale, la situazione delle banche di sconto e di credito mobiliare, sostenute dalla Nazionale, si fece critica, si decise con la legge sul “Corso forzoso” del 1° maggio 1866 di drenare oro dal Sud senza limiti, concedendo alla Banca Nazionale un privilegio che le permise «di controllare e compromettere, eventualmente, l’attività delle altre banche» e di avere una posizione nettamente dominante. Per di più, alla Banca Nazionale fu concesso «di stampare carta moneta, comperando con essa oro, il che, poi, permetteva alla banca di triplicare la sua circolazione» nel 1867 (L. 82 milioni oro – circolazione L. 246 milioni) con la garanzia di essere affrancata dal rischio di cambio con un altro

privilegio: l’inconvertibilità. Il tutto fu giustificato con il necessario e patriottico finanziamento della guerra contro l’Austria del 1866. Ma finita la guerra, e prolungato il “Corso forzoso” fino al 1883, si prese a pretesto la difficile situazione dell’industria in sofferenza a causa della forte inflazione nei rapporti con la concorrenza estera. Sulla vicenda fu aperta un’inchiesta parlamentare conclusa nel 1868 con la relazione di una Commissione parlamentare (5), la quale certificava che il “Corso forzoso” «era stato fatto essenzialmente per cavare di impaccio la Nazionale e le banche ad essa collegate che, grazie alla loro allegra finanza, erano sull’orlo del fallimento» e che l’inconvertibilità della sola moneta della Nazionale aveva permesso alla stessa «di continuare placidamente il drenaggio di capitali al Sud, essendo rimasta convertibile la moneta del Banco di Napoli» che non poteva «operare alcun ritorno offensivo».

In Parlamento, rispondendo all’interrogazione dell’on. Michele Avitabile (6), il ministro delle Finanze Scialoja ammise che l’aver sacrificato il Banco di Napoli, per motivi che egli stesso riteneva necessari, era «una volgare verità»7. Foto tratta da IlSudOnLine.

1 R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, cit., 2003, pp. 77-78.

2 Ivi, pp. 78-81.

4 Sulle condizioni di vita, sui livelli di reddito, sulle attività produttive del Regno si leggano i seguenti autori: Vittorio Daniele, Paolo Malanima, Stéplanie Collet, Stefano Fenoaltea, Carlo Ciccarelli, Vito Tanzi, Luigi De Matteo, John Davis, Antonio Carlo, Edmondo Maria Capecelatro.

5 Commissione parlamentare d’inchiesta per l’abolizione del corso forzoso. Relazione, Firenze, 1869.

6 Risposta di Scialoja ad Avitabile, in Atti del Parlamento, sessione 1865-1866, Firenze, 1867, p. 1991.

7 Cfr. E.M. CAPECELATRO – A. CARLO, Contro la «questione meridionale». Studio sulle origini dello sviluppo

capitalistico in Italia, Roma, Giulio Savelli editore, 1973 (Ia ed. 1972), pp. 141-148.

La vera storia della fine del Banco di Sicilia tra Banca d’Italia e Capitalia

Breve storia delle finanze napoletane da Scialoja a Einaudi. Michele Eugenio Di Carlo su ilsudonline.it il 24 febbraio 2021. Dopo l’attentato del dicembre 1856 alla vita di Ferdinando II di Borbone, a produrre una robusta detonazione nel clima politico e sociale napoletano era stato Antonio Scialoja con un opuscolo che metteva a confronto i bilanci napoletani con quelli torinesi, sostenendo la superiorità delle politiche economiche piemontesi rispetto a quelle napoletane. Scialoja, ritenuto uno dei migliori economisti italiani, aveva nel 1840 pubblicato ad appena 23 anni “I Principi di economia sociale esposti in ordine ideologico” 2, nel 1846 insegnava Politica economica all’Università di Torino. Tornato a Napoli nel 1848 veniva nominato ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel governo costituzionale di Carlo Troja. Nel 1852 tornava da esule a Torino, riprendendo il suo incaricato di docente all’Università e veniva aggregato al Ministero delle Finanze per indirizzare la politica economica-finanziaria sabauda in strettissima collaborazione con Camillo Cavour, perfettamente allineato alle sue idee liberali e patriottiche 3. Tra l’altro, unitamente agli esuli Pasquale Stanislao Mancini e Giuseppe Pisanelli, scriveva il “Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi”. Nell’opuscolo Scialoja criticava il regime doganale teso a proteggere i prodotti industriali del Regno delle Due Sicilie e, in merito al bilancio napoletano, polemizzava contro la propensione delle politiche finanziarie a non indebitarsi, mentre invece il bilancio di Torino era in deficit a causa di investimenti che stavano producendo – a suo dire – sviluppo e ricchezza. L’opuscolo era stato accolto dal sovrano e dai suoi ministri come «un colpo di fulmine», considerato che Scialoja chiudeva con un confronto impietoso tra «l’alta posizione morale e politica del Piemonte, e il grado d’inferiorità, in cui era il Regno di Napoli». Tra le pieghe, peraltro, era del tutto evidente l’affondo ad un sistema ritenuto corrotto che il governo napoletano consentiva. Sull’opuscolo di Scialoja, lo storico Raffaele De Cesare, a fine Ottocento, non andava oltre una semplice difesa d’ufficio di Ferdinando II, riconoscendo che «era onesto, personalmente, e parsimoniosa la famiglia reale, forse più che non conveniva al suo grado». Come era del tutto prevedibile, il napoletano Scialoja fu accusato di denigrare la propria patria e ben nove studiosi, con poca fortuna, pensarono di confutare le sue tesi, alcuni noti come Tommaso Michele Salzano, teologo e giurista, Agostino Magliani alto funzionario del Ministero delle Finanze, Niccola Rocco, giurista di fama, Francesco Del Re, altri meno conosciuti come Francesco Durelli, Girolamo Scalamandrè, Ciro Scotti, Alfonso de Niquesa, Pasquale Caruso. Era fin troppo chiaro che Scialoja, stretto consulente di Cavour, aveva innanzitutto l’interesse politico di portare alla ribalta l’arretratezza del Mezzogiorno facendo un confronto con quella che riteneva una superiore gestione politica, economica e, persino morale del Regno di Sardegna. L’amministrazione finanziaria napoletana era stata efficacemente regolata con una legge risalente in buona parte all’impostazione organica del Decennio francese, invece Scialoja preferiva trarne riferimenti critici dalla legislazione che aveva preceduto di alcuni secoli quella post Restaurazione. Il cilentano Magliani, nel suo opuscolo di confutazione delle tesi di Scialoja, obiettava che i bilanci napoletani, dopo essere redatti dai ministri dei vari dicasteri, venivano trasmessi al Ministro delle Finanze e dovevano superare il vaglio del Consiglio dei Ministri e del Consiglio di Stato. Si trattava, secondo Magliani, di una procedura rigorosa che assicurava ampie garanzie di correttezza. Agostino Magliani (Laurino, 1824 – Roma 1891) Raffaele De Cesare riferisce anche dei rapporti personali che intercorsero tra Scialoja e Magliani a unificazione d’Italia acquisita, quando l’esule napoletano, tornato a Napoli, viene nominato da Giuseppe Garibaldi ministro delle Finanze del governo dittatoriale. In un periodo di epurazione dei funzionari borbonici, Magliani si rivolge a Carlo De Cesare, zio dello scrittore di Spinazzola, direttore del ministero delle Finanze, pregandolo di sostenerlo con il nuovo ministro per evitare il licenziamento: «Magliani pregò mio zio d’intercedere presso Scialoja, assicurandolo che egli aveva pubblicato il noto opuscolo, non perché dividesse le idee, ma perché aveva dovuto ubbidire agli ordini del Re». Scialoja e Magliani si incontrarono e divennero amici 14 . D’altra parte Federico Del Re, nella sua “Analisi dell’opuscolo”, sicuro che il vero fine di Scialoja era stato quello di screditare il governo napoletano contestava l’affermazione che Napoli era l’unica in Europa a non rendere pubblici i bilanci: «gli stati discussi […] si comunicano e diramano, senza alcuna riserva, a tutte le officine della tesoreria, alla Gran Corte dei Conti e alle amministrazioni […] tutti possono consultarli». Luigi Einaudi, l’economista secondo presidente della Repubblica Italiana dal 1948 al 1955, in un saggio del 1953 sulla controversia tra Scialoja e Magliani, ricorda che il funzionario delle Finanze, superate le difficoltà iniziali dell’unificazione, «fu in seguito ripetutamente ministro delle finanze nel regno d’Italia, dal 26 dicembre 1877 al 24 marzo 1878 e dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879 con De Pretis, dal 25 novembre 1879 al 29 luglio 1887 in successivi gabinetti Cairoli e De Pretis, e di nuovo, per breve tempo, dopo il 7 agosto 1887 con Crispi, tenendo a lungo altresì la reggenza del ministero del tesoro» .

Melfi, paese natale di F.S. Nitti (Melfi, 1868 – Roma, 1953)

Einaudi, esaminata la controversia tra Scialoja e Magliani, annota che nel 1890, al profilarsi di un nuovo ritorno di Magliani al ministero delle Finanze nel secondo gabinetto di Francesco Crispi, veniva ripubblicata la replica 17 dell’economista cilentano a Scialoja. Il testo conteneva una prefazione avente il preciso fine di denigrare il più volte ministro delle Finanze, accusandolo di aver attaccato Scialoja ministro del governo costituzionale del 1848 a Napoli, deridendo «la libertà costituzionale, i vantaggi di uno statuto, la cospirazione in pro’ dell’indipendenza nazionale, la guerra che la Lombardia muoveva all’Austria». E, cosa ancor più grave, e probabilmente imperdonabile per quei tempi, «oggi Agostino Magliani, in Napoli, parla della situazione finanziaria dell’Italia, paragonabile per tanti versi a quella del Piemonte di allora. E, criticando il fin qui fatto, in cui egli ebbe tanta parte e dubitando della patria, dà prova dello stesso accorgimento politico con cui nel 1858 giudicava salda e sicura la monarchia di Ferdinando II proprio alla vigilia della sua rovina» 18. In pratica, nel tentativo di ostacolare la via di un nuovo incarico ministeriale a Magliani, lo si riconsegnava alla storia in veste di strenuo difensore della monarchia borbonica. Tra l’altro, era quasi inevitabile che Magliani, vista la catastrofica condizione economica e sociale in cui le politiche sabaude avevano fatto precipitare il Mezzogiorno, cominciasse a criticare quegli indirizzi politici che nel tentativo di apportare linfa vitale all’industrializzazione del nord del Paese stavano continuando a drenare, ininterrottamente dal 1860, enormi risorse materiali e umane dal Mezzogiorno, impoverendolo e rendendolo sempre più arretrato e meno competitivo. Riguardo al gravoso sistema fiscale piemontese, Einaudi sembra propendere decisamente per le tesi di Scialoja condividendo che «le imposte gravano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulla punta delle baionette straniere, come era il governo borbonico; laddove, se sono esatte da governi nazionali e volte a beneficio universale, benchè le nude cifre paiono dure, in effetto quelle imposte crescono ricchezza e potenza ai popoli medesimi» 19. Una ricchezza e una potenza di cui certamente il Mezzogiorno non aveva potuto godere, nonostante il grande contributo che aveva dato all’unificazione nazionale; unificazione avvenuta «sulla punta delle baionette» inglesi, circostanza che forse allora Einaudi ignorava del tutto. Lo stesso Einaudi, tornando alla controversia, la definitiva «memorabile non tanto per la analisi concreta delle entrate e spese borboniche confrontate a quelle sarde, quanto per i problemi fondamentali che furono allora posti». Ancora nel 1853, anno in cui moriva a Roma Francesco Saverio Nitti, Einaudi scriveva, stupendosi per l’ignoranza quasi generale degli studiosi sui documenti contabili preunitari contenuti negli archivi napoletani, che «sarebbe in verità tempo che, senza rifar processi, fossero studiate accuratamente le finanze borboniche dal 1815 al 1860, meglio di quel che oggi possa farsi sulle monche e contrastanti notizie che si leggono […]» 20. Dimenticava, forse, il piemontese Einaudi, che mezzo secolo prima il collega Nitti aveva già reso noto i suoi studi sulle finanze degli Stati italiani preunitari, concludendo che «senza l’unificazione dei vari Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento» 21. In altre parole, le finanze piemontesi si erano salvate dal fallimento grazie all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie.

1 A. SCIALOJA, I bilanci del Regno di Napoli e degli stati sardi. Con note e confronti, Torino, Società Editrice Italiana Giugoni,1857.

2 A. SCIALOJA, I Principj della economia sociale esposti in ordine ideologico da Antonio Scialoja, Napoli, Tip. G. Palma, 1840 (2ª ed. G. Pomba, Torino, 1846).

3 Su Scialoja si veda M. E. DI CARLO, Sud da Borbone a brigante, Independently pubblished, 2020; M. E. DI CARLO, L’Altra storia del Sud, l’uomo del Sud che fece male al Sud, quotidiano «Il Sudonline», 29 febbraio2020.

4 P.S. MANCINI – G. PISANELLI – A. SCIALOJA, Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi…, Torino, Utet, 1855

5 R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, Napoli, Grimaldi § C. Editori, 2003, pp. 78-81.

6 T.M. SALZANO, Osservazioni su gli affari ecclesiastici di Napoli comparati con quei di Piemonte da servir di risposta all’opuscolo detto I Bilanci del sig. Scialoja, prof. in Torino, Napoli 1858.

7 A. MAGLIANI, Della condizione finanziaria del Regno di Napoli, Napoli, 1857.

8 N. ROCCO, La finanza del Reame delle Due Sicilie e la Pubblica prosperità: in confutazione dell’opuscolo intitolato “I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi con note e confronti” di Antonio Scialoja, Napoli, Stabilimento Tip. G. Nobile,1858.

9 F. DEL RE, Analisi dell’opuscolo “I bilanci del Regno di Napoli e degli stati sardi con note e confronti di A. Scialoja”, Napoli, 1858.

10 F. DURELLI, Fallacie ed errori del libro di Antonio Scialoja I bilanci intorno alle condizioni ecclesiastiche del Reame di Napoli, Napoli, Stabilimento Tip. G. Nobile, 1858.

11 G. SCALAMANDRE’, Gli errori economici di un opuscolo detto I bilanci del Regno di Napoli e degli stati sardi confutato per G. Scalamandrè, Napoli, Stabilimento Tip. G. Nobile,1858.

12 P. CARUSO, Di due biasimi dati da A. Scialoja al governo napoletano, confutati dal canonico Pasquale Caruso, Napoli, Stabilimento Tip. G. Nobile,1858.

13 A. DI DOMENICO, I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi nel confronto risorgimentale di Antonio Scialoja, Rivista «L’Agropoli», Anno XIII (2012) – n. 4, Appunti e note, p. 144.

14 R. DE CESARE, Antonio Scialoja: memorie e documenti, Città di Castello, S. Lapi, 1893, p. 36

15 F. DEL RE, Analisi dell’opuscolo “I bilanci del Regno di Napoli e degli stati sardi con note e confronti di A. Scialoja”, cit., p. 31.

16 L. EINAUDI, Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1953, p. 217.

17 A. MAGLIANI, La situazione finanziaria del Regno nel 1858, Roma, Tipografia Ciotola editrice, 1890.

18 Ivi, pp. 3-6; ripreso da L. EINAUDI, Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, cit., p.218.

19 L. EINAUDI, Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, cit., p.227.

20 Ivi, p. 218.

21 F. S. NITTI, Nord e Sud, Rionero in Vulture, Calici Editori, 2000, p. 18.

Il ruolo decisivo dei Longobardi nel plasmare l'identità italiana. Andrea Muratore il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Ne "Il Santo e il Guerriero" Verio Santoro, filologo e germanista dell'Università di Salerno, traccia con la forma del romanzo un ampio affresco della società italiana ai tempi della dominazione dei Longobardi su buona parte della Penisola. La presenza dei Longobardi in Italia è stata una delle più importanti, ma a lungo tra le più sottovalutate, determinanti dell’identità nazionale odierna e la conquista di buona parte della penisola da parte del popolo di stirpe germanica che arrivò nella Penisola nel VI secolo, poco dopo la conquista bizantina dell’Italia al termine della dissanguante guerra greco-gotica, ha prodotto influssi politici, culturali, sociali che hanno impattato profondamente. Monza, Brescia, Pavia sono solo alcune tra le città che portano in profondità l’impatto architettonico e le vestigia dell’eredità longobarda, di cui recentemente il filologo ed esperto di cultura germanica Verio Santoro ha presentato un ampio affresco nel suo ultimo romanzo, Il Santo e il Guerriero, pubblicato dalle Edizioni San Paolo. Santoro, docente all’Università di Salerno, presenta attraverso un romanzo una descrizione a tutto campo della società dell’Italia dominata, in larga misura, dai Longobardi ambientata nell’anno 724. A quei tempi alla corte longobarda regnava Liutprando, artefice di una delle ultime fasi di grande splendore del suo Stato prima che, mezzo secolo dopo, il regno cadesse di fronte allo scontro con i Franchi. Il romanzo si dispiega attorno al progetto di Liutprando di far trasportare il corpo di Sant'Agostino da Cagliari, essendo la Sardegna soggetta alle incursioni dei pirati arabi, a Pavia (dove oggi si trova, nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro), in modo tale da rafforzare il proprio legame con la popolazione cristiana e ottenere una vittoria di prestigio contro i rivali bizantini. I protagonisti del romanzo riflettono le varie anime della società longobarda e, assieme a personalità storicamente esistite, agiscono tre soldati longobardi provenienti dal Friuli (Herfemar, Droctulf, Alakis) e Anastasio, un monaco benedettino dell'abbazia di Bobbio, che tra il VI e il VII secolo si era affermata come uno dei centri propulsori della cristianità. Abbiamo voluto confrontarci con il professor Santoro per approfondire le questioni trattate nel romanzo e parlare del ruolo che i Longobardi hanno avuto nel contribuire a plasmare la storia d’Italia.

Professor Santoro, nel suo romanzo sottolinea il ruolo fondamentale dei Longobardi nella formazione della coscienza italiana. L’impatto dei Longobardi sull’italianità moderna è spesso sottovalutato, non trova?

Si, spesso la storia longobarda e la sua influenza sui destini politici e culturali dell’Italia è stata sottovalutata o ignorata nel dibattito. Ma in passato non è stato così, come dimostra il fatto che Alessandro Manzoni abbia ambientato proprio nella fine dell’era longobarda una delle sue opere più famose, l’Adelchi. È un periodo della storia a cui anche i romanzi dedicano oggigiorno poco spazio: le opere dedicate al Medioevo sono molto numerose, ma spesso si concentrano su periodi quali l’undicesimo e il dodicesimo secolo. Il settimo e l’ottavo secolo e l’Alto Medioevo in generale sono più trascurati. È un periodo più difficile da affrontare.

Anche per la carenza di fonti?

Probabilmente anche per questo motivo. Personalmente ci tenevo molto a parlare dell’Italia longobarda restituendone una visione d’insieme e presentando l’impatto avuto da questo popolo sulla nostra storia.

Sfonda una porta aperta: chi le parla abita nella provincia di Brescia, città tra le maggiormente influenzate dal passaggio dei Longobardi. Anche centri come Pavia e Monza, che del regno longobardo furono le capitali, ne portano profondi segni…

Assolutamente.

Una questione spesso trascurata è il fatto che il regno longobardo, diviso nei domini settentrionali (Langobardia Maior) e in quelli meridionali (Langobardia Minor) incardinati sui ducati di Spoleto e Benevento con la sua nascita sancì la fine dell’unità politica dell’Italia che andava avanti dall’era Romana, dato che in alcune aree del Mezzogiorno, a Roma e in Romagna proseguiva il dominio bizantino. Questo potrebbe aver contribuito a creare faglie storiche interne al Paese, con un Nord che gravita sull’Europa continentale e un Mezzogiorno più “mediterraneo”, che proseguono fino ai giorni nostri?

Non a caso i padri del Risorgimento erano ben consci di cosa avesse significato questa epoca storica per l’Italia. L’impatto dei longobardi è stato profondo. Basti pensare al fatto che quotidianamente usiamo centinaia di parole di origine longobarda nelle nostre conversazioni. L’aspetto linguistico è tra quelli maggiormente pervasivi sull’Italia contemporanea. Nel mio romanzo dedico attenzione a questo tema, ed è verissimo anche quanto dice lei. L’arrivo dei Longobardi in Italia nel VI secolo a pochi decenni dalla conquista bizantina segna l’inizio di una divisione politica del territorio della Penisola che non avrebbe più trovato ricomposizione fino all’Unità d’Italia. Nei secoli precedenti, altri conquistatori come i Goti avevano occupato l’intero territorio dell’Italia senza dividere il territorio ereditato dall’era romana. Il mio romanzo si colloca nel 724, anno importante per la dominazione longobarda. Sul tema delle faglie storiche del Paese, chiaramente allora non pienamente percepibili, sono convinto che i due secoli di presenza longobarda e la divisione dell’Italia con i bizantini abbiano giocato un ruolo importante, lasciando tracce profonde. Nel periodo in cui si colloca la storia che racconto queste divisioni si stavano via via consolidando e non è un caso che nello stesso periodo dal Mediterraneo cominciavano a arrivare sulle coste della penisola gli Arabi, con i quali longobardi e bizantini ebbero una serie di incontri-scontri che descrivo nel romanzo.

Nel romanzo parla della traslazione delle spoglie di Sant’Agostino da Cagliari, minacciata dai saraceni, a Pavia voluta dal re Liutprando. E parte del romanzo è ambientata a Bobbio, che con l’abbazia di San Colombano era diventato centro di irradiamento culturale. Questo testimonia un’attenzione non secondaria dei Longobardi al ruolo identitario della religione e alla ricerca di un modus vivendi con le istituzioni-chiave dell’Italia del tempo…

Si, non a caso Liutprando fu un re cattolico fortemente legato al Papato in una fase di convivenza attiva precedente la crisi che portò all’intervento dei Franchi. Probabilmente la traslazione delle reliquie di Sant’Agostino serviva anche a rafforzare il legame con Roma. La valorizzazione delle vestigia culturali importanti, ritrovabili da Brescia a Cividale del Friuli, da Pavia al Centro-Sud (riunti nel patrimonio dell’umanità Unesco “I longobardi in Italia”, nda), la consapevolezza del profondo impatto storico di questo popolo e una crescente consapevolezza del loro ruolo nella storia d’Italia hanno contribuito a rendere, fortunatamente, definitivamente superato un vecchio topos che parlava dei Longobardi unicamente come di un popolo barbaro e invasore, estraneo alla tradizione culturale italiana.

Diego Pretini per ilfattoquotidiano.it il 21 maggio 2021. Il centrodestra aveva appena fatto il pienone alle elezioni e così, nel torpore un po’ bovino dell’estate, si alzò Rocco Buttiglione e fece valere tutte le sue mostrine di ministro per le Politiche comunitarie con un temone che fece tremare l’intera Unione europea: l’inno di Mameli va sostituito, disse, è meglio il Va’, pensiero di Giuseppe Verdi. Come accade con le uscite strampalate dei ministri di tutti i tempi la cosa non fu fatta cadere nella sonnolenza di quel luglio di vent’anni fa come carità di patria (è il caso di dire) avrebbe voluto e come la tragedia del G8 di Genova purtroppo si prese la premura di fare di lì a qualche giorno. Al contrario l’uscita di Buttiglione quel giorno fu argomento da prima pagina e alleati di governo e partiti dello schieramento avversario si affollarono per dire la loro. Gli ex missini inviperiti, il compagno di partito di Buttiglione Marco Follini invitò a imparare a memoria il Canto degli Italiani di Mameli e Novaro mentre la compagna e basta, ex ministra dilibertiana, Katia Bellillo, rivendicò di saperlo già a menadito. Francesco Speroni – capo di gabinetto del ministro Umberto Bossi – passò subito alle avvertenze: giù le mani dal Va’, pensiero. Il coro del Nabucco qualche anno prima infatti era stato infilato in uno dei 9 articoli della cosiddetta “Costituzione transitoria” della cosiddetta Padania. Alcuni giorni prima di quella Costituente che non costituì nulla, Bossi ne aveva dato un’interpretazione un po’ grossier, come da sua abitudine, commentando una rappresentazione all’Arena di Verona, dove peraltro era stato fischiato: “L’hanno fatto bene davvero. In basso gli schiavi, gli ebrei, cioè il popolo, cioè la Padania; in alto il Potere, cioè Scalfaro, cioè quel terun di Di Pietro. Va’, pensiero dovrebbe essere l’inno della Padania, anche se so che la musica è di tutti e c’è tanta gente al sud che ama Verdi. Ma se il Sud capirà che il nemico non è il Nord, ma è Roma, allora capirà anche il significato del Va’ pensiero”. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si prese del tempo prima di rispondere e visto che i leghisti si erano fissati con questa cosa di Verdi da colorare di verde-carroccio alla fine affilò la lama del suo italiano: “Solo la non cultura può portare a ritenere che Va’ pensiero possa essere un canto di divisione e non il canto verdiano dell’aspirazione all’unità della Patria sì bella e perduta”. E c’è da dire che forse si era anche perso Mario Borghezio che in quanto leghista riteneva tutti i diritti riservati sulle note del Nabucco “scritte e pensate da un cuore lombardo”, laddove Verdi – come sanno anche i muri – è nato e lungamente ha vissuto a Busseto, vicino a Parma. Eppure tutto questo infelice dibattito era già vecchio di dieci anni almeno se è vero che il capo del governo Bettino Craxi una volta confessò al suo ministro della Difesa Giovanni Spadolini che gli sarebbe proprio piaciuto proporre quel coro verdiano come inno al posto quello di Mameli. Il leader repubblicano però gli spiegò con parole più nobili di queste che c’entrava un po’ come il cavolo a merenda perché il Va’ pensiero era pur sempre un canto di dolore, nella fattispecie del popolo di Israele per la patria lontana. Non proprio una cosa da training autogeno di un popolo. Quante mani a impiastricciare col coro verdiano. E allora: qual è la verità, nient’altro che la verità sul Va’, pensiero, presunto inno mancato? Molto di quello che di fondamentale c’è da sapere si trova in Va’, pensiero (Garzanti, serie Piccoli grandi libri, 64 pagg, 4,90 euro), mini-saggio di Alberto Mattioli, indiscusso e indiscutibile timoniere della musica lirica. Anche in questo caso l’autore usa la sua più grande abilità: spogliare del mito le storie molto terrene che circondano le spettacolari figure e le ganzissime storie del genio tutto italiano del recitar cantando e restituire loro, così, l’essenza autentica e un’immagine ancora più autorevole. Insomma una spolveratina serve a celebrarle meglio e più consapevolmente. Con la consueta capacità di accompagnare il dominio assoluto delle informazioni con lo stile spumeggiante, quindi, Mattioli fa scoprire al lettore che no, Verdi quando scrisse quel coro della scena quarta della terza parte del Nabucco, nel 1842, non pensava affatto agli italiani soggiogati dai dominatori stranieri ma proprio a quelli che in effetti lo cantano nell’opera, cioè gli Ebrei soggiogati dai dominatori babilonesi. Gli indizi sono parecchi. Per esempio, come Mattioli aveva già raccontato in Meno grigi più Verdi, il compositore emiliano all’epoca “non aveva ancora una coscienza politica definita”.

L’altra storia del Sud. La mancata unità federale italiana voluta dai Bonaparte Mazziniani. Di Elena Pierotti su Ilsudonline.it il 6 maggio 2021. Luciano Bonaparte fu per il fratello imperatore un importantissimo trampolino di lancio per la sua ascesa politica. Napoleone era un valente militare che grazie al fratello, ben ammanicato nel Direttorio parigino rivoluzionario, divenuto presidente dell’Assemblea dei cinquecento, riuscì ad arringare i pretoriani convincendoli che Napoleone Bonaparte, il loro generale, fosse stato minacciato di morte dall’Assemblea, dopo che lo stesso Bonaparte in realtà aveva minacciato i Cinquecento, ed era dovuto fuggire. Scortato. La capacità di arringare la folla apparteneva a Luciano Bonaparte. Politico di rango, distingueva però, a differenza del fratello, sfera pubblica e sfera privata. In lui i due mondi non coincisero mai. E questo gli costò un trono. Non ricoprì mai alcun incarico come sovrano a differenza dei fratelli. Fu Principe di Canino e Musigliano, su nomina papale. Ed a Canino morì, nell’alto Lazio, nel 1840. Di Luciano voglio ricordare un importante episodio della sua vita, quasi privato, o che tale probabilmente divenne. Dopo la pubblicazione di un componimento che denunciava le difficoltà politiche del momento, Luciano Bonaparte fu di fatto costretto a dimettersi da ogni incarico. Napoleone, che non voleva rompere col fratello, gli offrì una via di uscita come ambasciatore a Madrid, con l’intento di incoraggiare il re spagnolo a combattere contro il Portogallo, alleato degli inglesi, riuscendo ad ingraziarsi Carlo IV. Così, quando l’esercito franco-spagnolo entrò in Portogallo, Luciano aprì i negoziati e, nel giugno 1801, firmò un accordo di pace a Badajos, che prevedeva la chiusura dei porti alle navi battenti bandiera del Regno Unito. In quel frangente conobbe il musicista Luigi Ridolfo Boccherini. Per lui il musicista di origini lucchesi scrisse i suoi ultimi lavori, tra i quali si annoverano gli ultimi 12quintetti per archi e gli ultimi due quartetti (di cui un secondo rimasto incompiuto) mentre “alla nazione francese” dedicò gli ultimi sei quintetti per archi e pianoforte. Dopo la partenza da Madrid del Bonaparte, Boccherini non trovo più un’occupazione stabile. Sappiamo che Luciano Bonaparte avrebbe desiderato dopo l’esperienza in Spagna, peraltro molto significativa, recarsi in Italia ma fu Napoleone Bonaparte ad andarvi, e Luciano restò a Parigi. Eppure in Spagna aveva ottenuto un brillante successo diplomatico con l’esecuzione delle ultime disposizioni previste dal trattato di San Idelfonso (che era stato concluso il 1° ottobre 1800): il primo Console aveva promesso la creazione di un Regno d’Etruria in Italia, la cui corona avrebbe cinto il capo di un Borbone di Spagna; in cambio quest’ultima avrebbe messo a disposizione la propria flotta contro il Regno Unito. Inoltre Nuova Orleans, e il territorio della Louisiana, acquisito dalla Spagna, nel trattato di Fontembleau del 1762, veniva retrocesso alla Francia. Il 9 febbraio del 1801 la Repubblica francese e l’Imperatore Francesco II d’Asburgo Lorena firmarono il trattato di Lunéville, confermando le condizioni preliminari stabilite nel trattato di Sant’Idelfonso e dando così vita al Regno d’Etruria (l’odierna Toscana) creato appositamente per Ludovico I di Borbone, figlio di Ferdinando I e Maria Amalia d’Austria, ex duchi di Parma. Questo passaggio è particolarmente significativo perché con i successori dei Borbone Parma i Bonaparte avranno un particolare rapporto, durante il primo Risorgimento. Soprattutto i figli di Luciano Bonaparte. Il secondo matrimonio di Luciano lo portò in rotta col fratello, che sognava per lui un Regno, in specifico quello spagnolo. Napoleone Bonaparte non accetto mai il secondo matrimonio del fratello e Luciano preferì la sfera privata alla Ragion di Stato. Del resto le sue erano idealità Repubblicane, e tali rimasero, nonostante che durante i cento giorni si fosse riavvicinato al fratello Imperatore. Questi contrasti con Napoleone lo portarono ad un esilio “dorato” a Roma. Lo scontro infatti ebbe delle immediate conseguenze. In un certo senso per lui questa fu una svolta. L’amico pontefice Pio VII gli consentì riacquistare i feudi – già proprietà dei Farnese – di Canino e Musignano. In quel periodo, come ci ricorda la marchesa Eleonora Bernardini di Lucca [1], Luciano Bonaparte e la sua famiglia visitarono ripetutamente le terme della città toscana, dove regnava la sorella Elisa Bonaparte e il di lei consorte, il Principe Felice Baciocchi. Qui Luciano Bonaparte ebbe modo di frequentare la famiglia del Boccherini, di cui era stato protettore. Sicuramente il cugino di questi, Luigi Ridolfo Prosperi, padre del protagonista della mia tesi di laurea. Era questi un conte lucchese la cui famiglia affondava le sue radici nel medioevo e che, legato all’ambiente musicale lucchese, indubitabilmente consentì allo stesso di rafforzare questo legame.  La corte di Elisa fu sempre prodiga di contatti con celebri musicisti, a partire dai due fratelli genovesi Paganini. La musica del lucchese Luigi Ridolfo Boccherini cadde nel breve periodo in disgrazia, per essere poi rivalorizzata nel secolo successivo. Ma l’ambiente musicale cui il Prosperi apparteneva evidentemente fu sempre in primo piano. Di questi familiari di Luigi Ridolfo Boccherini, la cui madre era Maria Santa Prosperi, possiamo dire che amavano la tradizione, ma non altrettanto le diatribe che si costituirono in questo periodo. Erano convinti cattolici liberali, e su segnalazione dei miei scritti,[2] possiamo ben affermare che non si arresero facilmente alle difficoltà della loro città, collaborando attivamente per tutto il Primo Risorgimento. Purtroppo i soggiorni in Lucca di Luciano non restarono molto nutriti perché, dopo quattro anni di presenza in Canino, quando il papa venne arrestato per ordine di Napoleone, Luciano fu costretto per quattro anni a riparare in Inghilterra. Qui fu in libertà vigilata. Venne infatti intercettato da una nave inglese mentre cercava di raggiungere gli Stati Uniti. Così non fu. La comunione di padre Gioacchino Prosperi col partito bonapartista Corso nasce da queste frequentazioni familiari. I bonapartisti nel primo Risorgimento erano molto diffusi nell’Isola Bella. Oso dire che le risposte non solo culturali ma anche politiche si assaporano, leggendo le pubblicazioni di padre Gioacchino Prosperi, sempre in un’ottica bonapartista. Ma anche rosminiana. Le due realtà non sono in contrapposizione. Luciano Bonaparte e la sua famiglia erano molto vicini agli ambienti romani più votati al nuovo.   I contatti di padre Prosperi con il mondo sabaudo e più in generale col Piemonte, dove aveva vissuto in via ufficiale fino al 1834 sempre presenti. In quel 1834 era stato espulso dal Piemonte per una un’Ode ed una frase ivi contenuta (poco credibile visto che nessuno ha mai riscontrato parole pesanti nell’Ode che ha solo frasi ad effetto, senza contatti e segnalazioni importanti).[3] Se invece leggiamo tra le righe scopriamo che nel 1838 i Principi Bonaparte dovevano rientrare in Firenze, per autentiche novità politiche. Incontri al vertice, diremmo noi oggi, segreti, in quel di Firenze. La marchesa Eleonora Bernardini, amica di Luciano Bonaparte e più in generale dei napoleonidi, ci parla di un incontro a Firenze, dove menziona al Segretario di stato lucchese Ascanio Mansi la presenza dei Principi francesi.  Sottolinea che gli Asburgo Lorena sono fuori Firenze. Cita il Brignole, di passaggio da Firenze, dove è atteso, sicuramente il Brignole Sales che per un certo periodo era stato ambasciatore a Parigi per conto dei Savoia, nei primi decenni del XIX secolo. E di un conte Broglio, anche lui identificabile in ambito sabaudo. Come pure fa accenno ai Borbone di Napoli, che però per l’occasione non sembrano presenti all’incontro. [4] Davvero singolare. Il sovrano lucchese Carlo Ludovico, quel Carlo Ludovico che ebbe il trono di Lucca per un breve periodo grazie anche al lascito napoleonico, lasciava fare la marchesa, che sembra davvero essere, visti gli abboccamenti nelle lettere, la referente di questi incontri. La sua indiscutibile comunione di lunga data con i Bonaparte lo comprova. Al centro di tutto questo sicuramente Luciano Bonaparte. Secondo quanto asserisce padre Gioacchino Prosperi, il religioso lucchese che ho citato, cugino di Luigi Boccherini, [5] la Chiesa Corsa e la Chiesa toscana conoscevano le sue mosse, lui che per ben dieci anni era stato il predicatore della Corsica, dove le sue prediche nulla ebbero di religioso, come comprovano le sue lettere. Era un bonapartista, accolto dagli ambienti bonapartisti.[6] Luciano morì nel 1840 ma nel 1834 i suoi figli Carlo Luciano e Luigi Luciano erano ospiti del duca lucchese in Benabbio, nel comune di Bagni di Lucca, come rifugiati mazziniani. [7] Ancora nel 1843 Carlo Luciano era ospite del duca Borbonico in Lucca, alla presenza sempre di padre Gioacchino Prosperi, al Congresso degli scienziati che si tenne in Lucca quell’anno. Congresso che, come tutti gli altri di ugual tenore, nascondeva velleità politiche. Il lascito musicale di Luigi Ridolfo Boccherini nei suoi rapporti con Luciano Bonaparte dovette aver prodotto i suoi frutti. L’uomo politico e studioso Corso e i suoi figli di secondo letto, soprattutto Carlo Luciano, si mostrarono particolarmente sensibili alla causa Italiana che in quel periodo era anche la causa Corsa. Si intravvede dai documenti rintracciati il tentativo di creare una Confederazione di Stati, in cui presumibilmente anche la Corsica avrebbe riacquistato la sua agognata indipendenza, magari inserita in un’orbita italiana. Il Regno per cui padre Prosperi e il mazziniano Carlo Luciano Bonaparte lottano è un Santo Regno italico, dove però ancora nel 1846, stanti le parole di padre Gioacchino Prosperi, il laicismo italo Sardo (mazziniano ma soprattutto Albertino che ha finanziato i moti polacchi di quell’anno) è ancora fastidiosamente vantaggioso.[8]

Una fattiva collaborazione, i rifornimenti quell’anno sono attesi da Algeri e da Parigi. Segno evidente che anche i Bonaparte erano parti in causa. E nessuno più della famiglia di Luciano Bonaparte lotto per gli ideali Rivoluzionari di quegli anni. Anche d’impronta mazziniana.

[1] storico.org, Studi Napoleonici, in rete. Un mio articolo su Eleonora Bernardini definisce la presenza di Luciano Bonaparte nel 1808 a Bagni di Lucca.

[2] storico.org, alla voce Gioacchino Prosperi.

[3] Padre Gioacchino Prosperi, “L’Ode di Lanzo in Memoria di Carlo Felice”, Torino Marietti, 1831.

[4] storico.org, articolo su Eleonora Bernardini, citato.

[5] La mia tesi dal titolo “Padre Gioacchino Prosperi. Dalle Amicizie Cristiane ai valori rosminiani” Pisa, A.A. 2009-2010, spiega questi passaggi.

[6] Gioacchino Prosperi, “la Corsica e i miei viaggi in quell’Isola”, Fabiani, Bastia, 1844.

[7] Nicola Laganà, “Da Menabbio a Benabbio”, comune di Bagni di Lucca, 2007.

[8] Archivio di Stato di Lucca, Legato Cerù, rif. 7, fascicolo su padre Gioacchino Prospeir, lettera del 29 marzo 1846.

L’Altra storia del Sud. Monsignor Pacca e la sua amicizia con Luciano Bonaparte. Di Elena Pierotti su Ilsudonline.it l'8 maggio 2021. 1926. Luigi Venturini, per la Società editrice Tyrrenia di Milano pubblica un libricino dedicato a padre Gioacchino Prosperi. Si intitola “di Gioacchino Prosperi e del suo libro sulla Corsica”. Apprendiamo così che il religioso, di estrazione nobiliare e di origini lucchesi, è vissuto a lungo a Torino da padre Gesuita. Uscito poi dall’Ordine nel 1826 e dopo qualche anno di gloria in Piemonte, espulso dal Regno sabaudo per un’Ode incriminata che aveva scritto, letto e pubblicato nel 1831 in Lanzo Torinese in memoria di Carlo Felice.  Peraltro era stata un successo editoriale, stampata dall’editore Marietti in Torino e con tutta franchezza Luigi Venturini ricorda a chiare lettere che quell’Ode non contiene alcuna frase incriminabile. Prosperi rientra così in Patria, a Lucca, dove regna il Duca Carlo Ludovico di Borbone. Si mette a fare il predicatore errante e, nonostante l’espulsione, predica in Torino ancora nel 1838. Nel 1839 Carlo Ludovico lo incarica di una missione in Corsica, come predicatore, missione che di fatto andrà avanti per i successivi nove anni.  Padre Prosperi diviene così il predicatore della Corsica, pubblica nel 1844 a Bastia per l’editore Fabiani. Peraltro quest’ultimo un rivoluzionario che a sua volta pubblica scritti di tutti i rivoluzionari sia Corsi che italiani presenti sull’Isola Bella, ed è palesemente vicino al partito bonapartista.  Scopriamo che l’amicizia di padre Prosperi con i Bonaparte viene da lontano. Già nel 1833 è a Parigi e resta estasiato in Place Vendome di fronte all’obelisco del grande Corso. La famiglia dei Bonaparte era vicina alla famiglia cattolico liberale di padre Prosperi. Luciano Bonaparte era stato il protettore di un celebre cugino di padre Prosperi, Il musicista Luigi Ridolfo Boccherini, che portava il nome di suo padre e che di madre faceva Prosperi, I due erano nati entrambi in Lucca, in via Fillungo, e c’è da giurare che le due famiglie, quella di Prosperi e quella di Boccherini, mantennero sempre importanti legami familiari. Luciano Bonaparte aveva conosciuto Boccherini in Spagna e ne era stato mecenate, l’ultimo mecenate del grande Maestro. Nei suoi abboccamenti Corsi degli anni quaranta del XIX secolo, padre Prosperi descrive minuziosamente nelle lettere i contatti con le principali famiglie bonapartiste isolane. Ma soprattutto desta sorpresa un’Ode inserita nella pubblicazione del 1844, Ode dedicata al decesso avvenuto nel1843 del vicario di Corsica, Monsignor Sebastiano Pino, che era stato in passato un antinapoleonico incallito, finito per giunta a Fenestrelle. Eppure padre Prosperi non fa un cenno a questi aspetti della vita del Vicario, come se la cosa fosse superata del tutto. Ma in particolare, citando Monsignor Pino, ricorda le Memorie del Cardinale Bartolomeo Pacca, anche lui deceduto in quegli anni cruciali. Davvero singolare, ricorda Luigi Venturini. Perché padre Prosperi accosta gli ambienti bonapartisti che in tutta evidenza frequenta a questi personaggi? Venturini non osa rispondere ma la risposta è palese: Monsignor Bartolomeo Pacca fu in comunione sia con Paolina Bonaparte che col fratello Luciano, entrambi residenti nello Stato Pontificio. Scrive Monsignor Carlo Gazola in una pubblicazione del 1844 dal titolo “In morte del cardinale Bartolomeo Pacca, due prose” che Bartolomeo Pacca, nonostante i trascorsi burrascosi con Napoleone Bonaparte, tenne cara la sorella Paolina e le fu vicino quando questa si trovò in difficoltà, tanto che la stessa si ricorderà di lui nel testamento. Ma soprattutto fu vicino a Luciano Bonaparte, ai suoi figli e nipoti ed accompagnò l’ultimogenita di Luciano nel prendere i voti. Costanza Bonaparte divenne infatti badessa nel convento del Sacro Cuore e Monsignor Bartolomeo Pacca ebbe un ruolo decisivo nella conversione della giovane. Dunque se spostiamo il baricentro dalle vicende familiari, private, sia di padre Gioacchino Prosperi che di Luciano Bonaparte, capiamo le ragioni politiche. In quel periodo i Bonaparte erano dei mazziniani che volevano creare in Italia una confederazione di Stati collaborando attivamente nelle manovre che ne seguirono. Ho pubblicato le questioni di padre Gioacchino Prosperi, legato non solo ai Bonaparte ma anche a Casa Savoia, da cui mai si allontanò, ma anche vicino al proprio Sovrano Carlo Ludovico di Borbone e a tutti quei Sovrani che non facevano Asburgo. Borbone di Napoli inclusi ed infatti un accenno di questa partecipazione è contenuto in una lettera dell’amica di padre Prosperi, la marchesa marchesa Eleonora Bernardini di Lucca, coinvolta nelle questioni politiche del periodo, che da sempre frequenta l’intera famiglia Bonaparte.  Le vicende del religioso e le sue frequentazioni in patria e fuori riconducono tutte a questi movimenti che ho piamente descritto in rete su diversi siti e all’interno di una pubblicazione del dottor Giulio Quirico sul filosofo piemontese Michele Parma.[1] Monsignor Pacca non fu affatto estraneo alle questioni Corse del periodo; la citazione di padre Prosperi rimanda dunque a questi coinvolgimenti. Ma neppure fu estraneo alle più generali questioni peninsulari che videro la volontà non solo dei Principi francesi, come definisce i Bonaparte nelle lettere la marchesa Eleonora Bernardini [2]. Che nel 1838[3]ci descrive un incontro in Firenze con un Monsignor Brignole confuso con l’atteso Brignole Sales, ex ambasciatore a Parigi di Carlo Alberto di Savoia, il conte Broglio, ma anche un accenno ai Borbone di Napoli, peraltro cugini di Carlo Ludovico di Borbone Parma, il suo Sovrano. Che naturalmente è cugino anche di Carlo Alberto di Savoia. Un incontro al vertice dunque, con un cardinale Pacca, date le indicazioni di padre Prosperi, ma ancor più di Monsignor Gazola, sicuramente non estraneo alle vicende. De resto lo stesso Pacca si era pronunciato contro il potere temporale come vincolo deleterio per i Pontefici per poter esercitare nel modo più appropriato il potere spirituale. Di questo particolare coinvolgimento ci ricorda un “conterraneo” dello stesso padre Gioacchino Prosperi in una sua pubblicazione di qualche anno più tardi.[4] E visto il contesto della pubblicazione medesima, mai descrizione possiamo annoverare come più appropriata. Dunque Luciano Bonaparte non solo aveva Santi in Paradiso, ma verosimilmente era anche molto vicino a quella Chiesa Romana che a lungo molto prima dell’avvento di Pio IX, aveva fortemente voluto un allontanamento della Chiesa non solo dal il potere temporale ma ancor più aveva vissuto le vicende del primo Risorgimento in un’ottica di avvicinamento all’Europa di matrice protestante, abbracciando un modo nuovo di concepire la politica, le istituzioni, l’economia. Lo dimostra in maniera ampia l’adesione di molti figli di secondo letto di Luciano Bonaparte alle vicende Risorgimentali, di cui furono protagonisti e che ho citato nelle pubblicazioni suggerite. Questo è il primo Risorgimento, e come ricorda opportunamente il professor Adriano Prosperi in una sua recente pubblicazione dal titolo “Un tempo senza storia”,[5] la storiografia del secondo Risorgimento dopo l’Unità ha rimosso la memoria collettiva creandone una di riserva, ad uso e consumo dei vincitori, e neppure di tutti. Un importante personaggio, molto vicino allo stesso Cavour, che ebbe un ruolo centrale in tutte le questioni Risorgimentali, Giovanni Bezzi, una volta deceduto Cavour venne dimenticato.[6] Rimosso, è più esatto dire. Come rimosso è stato il suo Memoriale scritto nel 1878, a Sua Maestà Umberto I°, un anno prima di morire, di cui la seconda parte non è più neppure reperibile. Giovanni Bezzi era stato in gioventù con l’intera sua famiglia un acceso sostenitore del bonapartismo. Anche questo faceva parte della rimozione? Il palazzo dove soggiornò Murat a Tolentino è palazzo Bezzi Parisani: una qualche affinità elettiva? Grazie professor Prosperi e grazie a tutti coloro che descrivono in modo meno partigiano il nostro Risorgimento. TAG: Luciano Bonaparte, Monsignor Bartolomeo Pacca, Adriano Prosperi, padre Gioacchino Prosperi, Giovanni Bezzi, Cavour, Carlo Albert di Savoia, Eleonora Bernardini, Carlo Ludovico di Borbone Parma.

[1] Giulio Quirico, Il filosofo Michele Parma è […] Novara, edizioni Landolfi 2020.

[2] storico.org, La marchesa Eleonora Bernardini, pubblicazione in cui ho inserito le numerose lettere della stessa presenti all’Archivio di stato di Lucca.

[3] storico.org, La marchesa Eleonora Bernardini di Lucca, cit., in specifico vedi lettera del 1838 indirizzata al Segretario di Stato lucchese Ascanio Mansi.

[4] Ermete Pierotti, Il Potere temporale al cospetto del tribunale della Verità, Genova, fratelli Pellas, 1861.

[5] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia, Giulio Einaudi editore.

"Ecco chi è stato nostro nonno: l'uomo che fece vincere l'Italia". Francesco Boezi il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Il generale Armando Diaz della Vittoria raccontato dal bisnipote. Tutto quello che c'è da sapere sul generale che ha vinto la prima guerra mondiale. Caporetto non è solo un luogo fisico o il titolo di un paragrafo di un libro di testo: è un'espressione entrata di diritto nel vocabolario degli italiani. Qualcosa in più di una disfatta, forse una tragica fotografia di un passaggio che, nel caso di esito bellico diverso, avremmo fatto fatica ad archiviare. Perdendo la guerra, l'Italia sarebbe inciampata a Caporetto: un limite di demarcazione della storia patria. Un punto a tutto quello che eravamo stati, nella breve storia unitaria. Se non è andata così, lo si deve a un generale e ai suoi uomini. La storia, per fortuna, ci ha privato della prova contraria, ma forse vale la pena domandarselo comunque: cosa sarebbe accaduto se il comando dell'esercito italiano non fosse stato assegnato ad Armando Diaz, poi Duca della Vittoria? Con la "Vittoria" noi italiani non abbiamo avuto troppa confidenza, almeno sui fronti dell'ultimo secolo. La Seconda guerra mondiale ha coperto tutto con un'ombra di sconfitta e di inquietudine. Eppure, se l'epica italiana novecentesca ha un protagonista, quello è il capo di Stato maggiore del Regio Esercito dell'ultima fase della Grande Guerra. Un napoletano chiamato ad organizzare una resistenza nordica che è poi diventata riscatto comunitario, Risorgimento tricolore. Armando Diaz non è finito in trincea per caso. E neppure la resistenza sul Grappa o sul Piave sono accaduti per via della magnanimità della sorte. Non sono state le dinamiche fortuite a temprare gli animi dei ragazzi del '99. Dietro alla vittoria italiana di quel conflitto, nei presupposti di un trionfo forse inaspettato quanto certamente bagnato dal sangue di migliaia di connazionali, c'era un disegno preciso messo a punto da uno stratega. Il principio di questa storia lo ricordano bene gli eredi in vita del Capo di Stato Maggiore. Sigieri Diaz della Vittoria Pallavicini, che del generale è il maggiore dei bisnipoti, ha appreso ogni dettaglio di quell'avvicendamento:"Per quanto non piaccia ammetterlo, ci fu un'ingerenza del comando degli alleati capitanati da americani ed inglesi che avevano chiesto al governo italiano la sostituzione del Capo di Stato Maggiore italiano". E la speranza, come è accaduto di tanto in tanto dalle parti del Belpaese, è nata quando tutto sembrava perso:"Il Re aveva conosciuto al fronte anni addietro e aveva apprezzato l’operato e la personalità del generale Diaz, che era responsabile della logistica sotto il generale Cadorna - sottolinea Diaz della Vittoria Pallavicini -. E poi, dopo la disfatta di Caporetto, essendo il rischio della sconfitta altissimo, il Re probabilmente ha preferito nominare un generale napoletano, evitando di nominare suo cugino o altri generali legati alla monarchia sabauda. Il generale Diaz rappresentava dunque per certi aspetti un buon capro espiatorio in caso di sconfitta". Una sconfitta che non arriverà, un'espiazione che Diaz non dovrà pagare. Se ti devi inventare uno spirito patrio che non esiste, devi avere dei talenti. La storia dei soldati che parlavano dialetti tutti differenti la conoscono tutti. Così come l'apporto linguistico e psicologico apportato dall'arrivo di Diaz. Della personalità del generale si è detto insomma molto, ma forse non tutto: "In famiglia - racconta ancora Sigieri Diaz della Vittoria Pallavicini - si riconoscono al generale Armando Diaz doti di grande umanità. Parlava poco, amava ascoltare ed era un grande motivatore. Sapeva delegare e lo faceva riconoscendo la professionalità e le capacità dei suoi collaboratori. La sua - prosegue - era una leadership ed un comando basato sull’esempio e non sull’ordine gerarchico. Fin dalla guerra in Libia quando da colonnello fu ferito in un’azione di guerra nel 1912 e poi da generale del XXIII corpo d’armata fu ferito in battaglia nel Carso nel 1917, Armando Diaz era sempre in prima linea a sfidare la morte con i suoi soldati. Non dava ordini dalle retrovie ma era al fronte dando l’esempio in prima persona". Diceva Edmund Burke che l'esempio è l'unica scuola degli esseri umani, e forse il perché della vittoria della Grande Guerra si inizia a dipanare. All'Italia sembra mancare qualcosa in termini di storytelling patriottico, dunque di epos. Eppure, personaggi come il generale Diaz, sembrerebbero prestarsi bene ad un'epica nazionale. Com'è stato raccontato Diaz fino a questo momento? Credete che a vostro bisnonno sia stata resa giustizia? "Crediamo di no. La storia del generale Diaz è per certi versi quella dell’Italia. Quando siamo messi alle strette e la situazione diventa drammatica - risponde l'erede del generale - l’Italia e gli italiani sanno reagire, tirano fuori il meglio di se stessi e sanno ribaltare la situazione (l’analogia dei giorni nostri con il premier Mario Draghi è calzante). Gli italiani nei momenti difficili sanno mettere passione, dedizione, creatività e intelligenza e sono capaci di cambiare il destino. Questo fu quello che successe con Diaz, che seppe rimotivare l’esercito, seppe dialogare con grandi doti diplomatiche con il governo e con gli alleati, e con la giusta propaganda seppe ridare fiducia e speranza a tutto il popolo italiano che si strinse ai suoi soldati al fronte". Anche l'aneddotica sul carattere del generale Diaz diviene così narrativa familiare. Ogni erede ha i suoi racconti del focolare: "In famiglia siamo molto fieri nel ricordo della sua figura che rappresenta un esempio per noi. Un uomo che viene dalla borghesia napoletana, con valori forti come quello dell'amore per la famiglia e per il duro lavoro, e senza raccomandazioni arriva alle vette dell'Esercito italiano ed entra a pieno diritto nella storia d’Italia. La sua parabola è un insegnamento per tutti che con l’impegno, con dedizione, umiltà e serietà nel lavoro si può arrivare dove non si immaginerebbe mai". Condizioni di partenza ordinarie, sacrifici e punto d'arrivo meritato: gli ingredienti di questa storia, a ben guardare, sono pure questi. Uno spunto per l'Italia post-pandemica, un'altra indicazione del generale.

L’ALTRA STORIA DEL SUD. MARIA CRISTINA DI SAVOIA, LA REGINA DELLE DUE SICILIE. Domenico Bonvegna su Il sudonline.it il 14 aprile 2021. Può una regina diventare santa? Una bella e suggestiva domanda, che dovrebbe incuriosire almeno chi si definisce cattolico. «Sono Maria Cristina», così amava firmare la Regina del Regno delle Due Sicilie, mi riferisco a Maria Cristina di Savoia andata in sposa a Ferdinando II di Borbone nel 1832. Sono poche le pubblicazioni che raccontano la breve storia di questa giovane sovrana. Qualche anno fa ho letto e recensito un’ottima biografia “Maria Cristina di Savoia. Figlia del regno di Sardegna, regina delle Due Sicilie”, (Arkadia 2012) dei sardi Mario Fadda e Ilaria Muggianu Scano. Ho appena finito di leggere un altro studio sulla regina, della storica Cristina Siccardi, “Sono Maria Cristina. La Beata Regina delle Due Sicilie, nata Savoia”, pubblicato nel 2016 da San Paolo. In una intervista sul libro, l’autrice a domanda risponde: «ho trovato questa formula molto bella e allo stesso tempo molto importante perché denota la sua grande personalità: caritatevole e perfettamente in linea con lo stilema evangelico, ella manifestò allo stesso tempo una forte determinazione ed anche per questo motivo riusciva ad essere convincente e ad influenzare benevolmente le persone con cui viveva o veniva a contatto». Nel libro la Siccardi descrive la vicenda storico-spirituale di questa Regina cattolica. Ella, pur desiderando la vita monacale, accetta di seguire il suo dovere di principessa, infatti, per ragioni di Stato, sposa Ferdinando II di Borbone. «Come lei, – precisa la storica torinese – molte altre principesse nel corso della storia si sono coniugate per assolvere le ragioni di Stato e grazie al loro sacrificio hanno portato concordia fra i popoli, collaborando alla buona riuscita dei rapporti fra gli Stati ed hanno risolto delicatissimi casi diplomatici, impedendo guerre e salvando innumerevoli vite umane». Nella premessa della Siccardi definisce Maria Cristina come “regina della vita”, definizione appropriata per una giovane donna che sostanzialmente è morta per aver partorito il proprio figlio. «Nell’età dove vigono negli Stati le leggi abortiste, questa santa madre è un modello straordinario di vita trasmessa e di amore realizzato». Il popolo del Sud non l’ha dimenticata, «la portano come modello edificante di sposa e di madre, sempre sollecita, sempre pronta, attiva al fianco del consorte, re Ferdinando II e attenta alle esigenze della gente, china sugli infelici e provvida nel dare assistenza e lavoro». Ecco in poche parole quello che fu la beata Maria Cristina, beatificata dalla Chiesa il 25 gennaio 2014. Ma perché quasi nessuno parla di questa regina? Perché tanto silenzio? Rotto soltanto da qualche libro, magari pubblicato da case editrici marginali. Perché mai invece c’è tanto schiamazzo intorno a Virginia Oldoini contessa di Castiglione, meritevole soltanto di essersi concessa a Napoleone III. Perché viene trascurata dalla storiografia, come se ne avesse timore. La risposta è evidente: Maria Cristina fu cattolica e Santa, una figura così è inaccettabile per la cultura e la propaganda progressista. Maria Cristina fu figlia obbediente, sposa devota e madre generosa: tutti comportamenti santificanti, ma alla civiltà moderna appaiono autolesivi. Maria Cristina fu una donna cosciente del proprio ruolo, dei suoi doveri e consapevole delle enormi incidenze sociali e civili. Ha compiuto il proprio dovere dove Dio l’aveva chiamata a stare, ha realizzato pienamente se stessa, anche se conosciamo il suo intento di abbracciare la vocazione monacale. Alla fine assecondò la volontà del re Carlo Alberto di sposare Ferdinando II. Nata a Cagliari il 14 novembre 1812, da Vittorio Emanuele I e da Maria Teresa d’Asburgo d’Este. Maria Cristina è stata amata e addirittura venerata dall’Italia meridionale, condensando in sé tutti i connotati italiani: «innanzitutto il Credo cattolico; un’ampia cultura umanistica e scientifica; l’amore per l’arte e le cose belle; una femminilità dolce e forte: cioè mite, ma risoluta; inoltre onestà di vita; fedeltà nelle relazioni con le persone; uso della sana prudenza, che permette di non cadere nelle trappole e nei pettegolezzi». Pertanto senza voler forzare, la regina sabauda, nonostante i pochi anni trascorsi a Napoli, rappresenta l’ideale unificatore reale e concreto del nostro Paese, lei principessa di Casa Savoia, sabauda in tutto e per tutto, sposa di un re Borbone di Napoli. Invece rileva la Siccardi, l’ideologia risorgimentale, quella sottostante alla celebre frase di Massimo d’Azeglio «Abbiamo fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani», rappresenta « un’ideologia astratta, che ha portato ad una Unità imposta con la violenza e il sangue da liberali, carbonari e massoni (con l’appoggio della Massoneria inglese)». Tutto fa pensare che la giovane regina, scomparsa prematuramente, poteva senz’altro condurre attraverso i suoi metodi, «ad una Unità come sviluppo naturale di un sentimento nazionale culturalmente già esistente – a partire dal Medioevo e grazie soprattutto alla Cattolicità – anziché creare l’Italia della sconfitta di Adua, l’Italietta dei governi traballanti e della continua emorragia dell’emigrazione». Gli effetti benefici della sua presenza avrebbero sicuramente proseguito il loro corso, con ripercussioni non indifferenti anche a livello politico-sociale. Del resto per la Siccardi, è stata una «Regina unitiva: senza violenza alcuna, ma con il sorriso e la sua straordinaria dolcezza, unì due corti, due mondi molto diversi fra di loro. Senza paradossi si può realmente affermare che lo spirito piemontese e lo spirito meridionale trovarono con lei felice unità». Il testo di Cristina Siccardi, è di agevole lettura, composto da quattordici capitoli, con due appendici finali. Ogni capitolo è ricco di particolari che ne fanno una biografia completa della straordinaria Regina di Napoli. Nel 1° capitolo (Trono e l’Altare), l’autrice fa riferimento al contesto storico in cui è nata la nostra protagonista. Il periodo della cosiddetta Restaurazione, successiva allo tsunami della Rivoluzione francese, che aveva spazzato via tutti i troni dell’Ancien regime.  Non so quanto sia forzoso, ma la Siccardi colloca la giovane Regina di Napoli al pensiero controrivoluzionario del Chateaubriand, di De Maistre. Il capitolo descrive la permanenza dei regnanti di Casa Savoia in Sardegna, che, ci tiene a precisare la Siccardi, non era un “esilio”. Era l’unica porzione di Regno non occupato dalle forze militari napoleoniche. Maria Cristina visse questo periodo infausto, magari descritto negativamente dagli storici, con toni pessimistici e depressivi. Si volle rappresentare l’ambiente in cui era vissuta come un contesto monacale. Invece la principessa fu sempre grata al suo ambiente profondamente cattolico. «Maria Cristina crebbe circondata dall’affetto, in un ambiente sereno, ma dove si premiavano disciplina e autocontrollo: in Casa Savoia, come fu per secoli, si proponeva un’educazione seria per diventare persone coscienti delle proprie responsabilità». Forse questo tipo di educazione che circolava nei vari Casati dell’epoca, meriterebbe maggiore considerazione e studio, invece di essere denigrato e sbeffeggiato dai vari soloni della scrittura. Perfino Benedetto Croce ebbe una grande stima e ammirazione per la corte e per la beata regina. «La famiglia Savoia viveva cattolicamente e la fede era un tutt’uno con la vita quotidiana, l’una non si disgiungeva dall’altra e viceversa». Nel 2° capitolo (Il suo senso di appartenenza). La Siccardi attraverso lettere e documenti conservati negli archivi storici, come nella Biblioteca reale di Torino, racconta gli interessi della giovane Cristina, la spiritualità, della principessa, «il forte sentire cattolico, unito a una spiccata umiltà […]di profondo rispetto per l’autorità sia paterna che regale […] la sua spiritualità, votata a Cristo Re». L’autrice da conto delle letture della beata, del Catechismo di Michele Casati, vescovo di Mondovì. La grande influenza spirituale esercitata dal benedettino olivetano, di origine napoletane, Giambattista Terzi, che ha istruito la sua allieva anche nelle discipline umanistiche e scientifiche. Il 3° capitolo (A Roma) si dà conto dei continui viaggi della famiglia reale, soprattutto di Cristina. Vittorio Emanuele I dopo aver abdicato, provato dalle tensioni, lascia questa terra, il 10 gennaio 1824. Cristina fu straordinariamente colpita dalla perdita del padre che amava molto. Verso la fine del 1824 Cristina, sua madre e la sorella Maria Anna fecero il viaggio a Roma in occasione dell’apertura dell’Anno Santo. Qui rimasero per sette mesi. Quelle giornate romane furono intense. Oltre a conoscere personalmente il Pontefice, visitò chiese, santuari e soprattutto le catacombe. Cristiana, «con devozione si reca alla casa di Prisca sul colle Celio, a quella di Domitilla sul Palatino e così in tutte le catacombe dei primi cristiani». Aveva un grande interesse per la storia dei martiri, collezionava le reliquie, tanto che il Papa Leone XII decise di farle avere le reliquie della martire Giasonia, rinvenute in una catacomba. Il 4° capitolo (Un’antica storia di santità) è dedicato completamente alla santità della Casa Savoia intrecciata da sempre con la Chiesa cattolica, fino al Risorgimento italiano, dove si interruppe questo vivo legame, per colpa delle forze laiciste  e massoniche (argomento che Siccardi approfondirà in uno studio pubblicato recentemente dalla casa editrice Sugarco). La Siccardi offre un elenco dei sei beati e poi degli altri che sono venerabili, tuttora in corso le cause di beatificazione. E’ impressionante constatare il gran numero di uomini e donne di Casa Savoia che hanno vissuto concretamente le eroiche virtù del Vangelo e morti in odore di santità. Una santità dimenticata, forse perché è una Storia ancorata a doppio nodo alla Chiesa di Cristo, pertanto invisa a tutte le forze in campo oggi, fortemente anticristiane. «Quanto bene intellettuale e morale  – scrive Siccardi – si potrebbe fare portando gli studenti a conoscenza di questa Storia? È incalcolabile. Divulgare una Storia non più censurata e imbavagliata, significherebbe anche avere molte meno frustrazioni sociali perché là dove arriva il Cattolicesimo arriva il benessere materiale e spirituale».

Genova contro Venezia. La guerra per dominare il Mediterraneo. "Il Grifo e il Leone", saggio di Antonio Musarra, descrive in maniera approfondita la rivalità secolare tra Genova e Venezia. Andrea Muratore - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Genova e Venezia, le due anime dell’Italia marittima medievale, intente a confrontarsi in un perenne dualismo, hanno vissuto la loro epoca d’oro scontrandosi, rivaleggiando e studiandosi reciprocamente per ottenere l’egemonia e la supremazia sulle rotte commerciali e i flussi economici che interessavano il Mediterraneo. Nel saggio Il Grifo e il Leone (Laterza, 2020) lo storico Antonio Musarra descrive nei dettagli le cause e gli sviluppi di una rivalità che per secoli ha plasmato gli scenari nel “Grande Mare” e reso la contesa per il suo controllo economico una sfida tutta italiana. Musarra costruisce un'opera originale su un tema complesso e raramente approfondito organicamente in precedenza unendo alla perizia del cacciatore di archivi (dai registri commerciali agli atti pubblici governativi, l’apparato bibliografico è estremamente articolato) una visione di insieme che potremmo definire “geopolitica”. Definiti da Francesco Petrarca, che attorno al 1353 provò a mediare senza successo tra le due potenze, gli “astri d’Italia” Genova e Venezia consolidarono una rivalità a tutto campo dopo aver contribuito al dinamismo del Mediterraneo a cavallo tra il X e l’XI secolo, sviluppando le rotte commerciali interne e contribuendo ad animare le relazioni con l’altro mondo, quello islamico, sia sul fronte commerciale che sul versante “conflittuale”, fornendo sostegno ai primi crociati diretti verso la Terra Santa. In questa rivalità non mancarono come fattori scatenanti: l’elemento geografico, essendo Genova e Venezia poste al vertice di due bacini marittimi diversi, il Tirreno a Ovest e l’Adriatico a Est, forti di rotte commerciali in parte complementari e in parte sovrapposte; l’ambizione umana, la fame di nuovi mercati e di nuove espansioni commerciali; un latente senso di insicurezza reciproco, quasi una versione su scala ridotta della “trappola di Tucidide” ora temuta su scala globale per Stati Uniti e Cina. Parliamo di una relazione bilaterale estremamente complessa. “Guerrieri e mercanti”, nota Musarra, genovesi e veneziani “esprimevano in maniera peculiare l’appartenenza a una società abituata a risolvere le controversie con la violenza”. Al contempo, consci delle logiche “di cartello” del mondo del commercio marittimo e della necessità di stemperare le tensioni, veneziani e genovesi non mancarono di stabilire tregue locali o vere e proprie cooperazioni strategiche. Musarra cita l’impresa commerciale comune posta in essere tra il veneziano Bonifacio da Molin e il genovese Nicolò di San Siro, originario di Acri, incontrati a Konya, capitale del sultanato di Rum, dal minore Guglielmo di Rubrouck, e segnala come a Trebisonda e a Tana, centro posto alle foci del Don “ad confinia mundi et in faucibus inimicorum nostrorum”, di fronte ai potentati mongoli, le due città cooperassero per chiudere a potenziali concorrenti l’accesso ai mercati.

Tutte le guerre di Genova e Venezia. La volontà di potenza veneziana, espressa con la deviazione della quarta crociata su Costantinopoli e la fondazione dell’Impero latino d’Oriente nel 1204, sdoganò apertamente la rivalità. Tra il 1256 e il 1381 combatterono ben quattro guerre. Musarra di questi conflitti fa un’attenta descrizione, unendo all’analisi minuziosa degli avvenimenti politici e militari le storie di uomini, guerrieri, mercanti e diplomatici, intenti a tramare per gli interessi dell’una o dell’altra parte. La guerra di San Saba (conclusa nel 1270) vide nel suo svolgimento il ritorno a Costantinopoli di Michele VIII Paleologo, “esiliato” alla guida dell’Impero di Nicea, col sostegno genovese, schiaccianti vittorie navali della Serenissima (ad Acri nel 1258, a Settepozzi in Eubea nel 1263 e al largo di Trapani in Sicilia nel 1266) e operazioni di “guerra asimmetrica” da parte della Superba, intenta a compiere raid contro naviglio leggero nemico e convogli. Tra il 1293 e il 1299, in due fasi, scoppiò una nuova guerra che vide in alcuni momenti Costantinopoli allearsi con Genova, Venezia distruggere la colonia genovese di Galata ma subire, nel 1298, la durissima sconfitta patita da Andrea Dandolo nelle acque di Curzola (84 galee affondate o catturate su 95 complessive) contro i genovesi di Lamba Doria, in cui Marco Polo fu preso prigioniero. Un anno dopo la pace mediata dal Comune di Milano contribuì a stabilizzare l’influenza de facto delle due Repubbliche nei territori dell’Impero bizantino, contribuendo a stabilizzare una situazione che avrebbe garantito alcuni decenni di pace. Interrotti da alcuni scontri che tra il 1350 e il 1355 videro Venezia tentare di snidare, senza eccessivi successi, l’egemonia genovese nel Mar Nero e contribuire alla cacciata dei liguri dalla Sardegna con l’alleanza col Regno d’Aragona in un terzo conflitto a bassa intensità, gli equilibri esplosero con la guerra di Chioggia. Tra il 1378 e il 1381 l’oggetto del contendere fu l’avanzata genovese nell’isola contesa di Cipro, governata dalla dinastia dei Lusignano, che piazzando guarnigioni a Nicosia e Famagosta controbilanciava. un arco di supremazia veneta che andava dal cuore della Pianura Padana fino all’Epiro, passando poi alle isole egee. Tra il 1378 e il 1380, con l’aiuto della signoria di Padova, Genova portò la guerra nel territorio nemico, arrivando ad occupare Chioggia fino alla riconquista veneziana, mentre il Ducato d’Austria e il Regno d’Ungheria sottraevano alla Serenissima, rispettivamente, Treviso e la Dalmazia. La pace di Torino (1381) confermò tali cessioni territoriali ma garantì a Venezia il monopolio commerciale sull'alto Adriatico, ridimensionando solo in parte la sua potenza. Le guerre genovesi-veneziane plasmarono per oltre un secolo e mezzo il Mediterraneo intero, lo consegnarono da un lato all’instabilità e lo esaltarono dall’altro nella sua rilevanza geopolitica. Musarra spiega nel suo saggio in maniera approfondita perché tale rivalità divenne scontro sistemico.

Una rivalità esistenziale. Troppo simili per coesistere pacificamente, troppo ambiziose, troppo sviluppate per accontentarsi di un ruolo da comprimarie, le due città potevano trattare da pari a pari con sovrani e imperi, cogliere la fondamentale importanza del controllo dei mari nell’ottica delle strategie di espansione commerciale e territoriale, riportarono nel “Grande Mare” massicce battaglie tra navi per la prima volta dall’era romana. Musarra ha assolutamente ragione, inoltre, laddove segnala che la rivalità genovese-veneziana acuì ulteriormente la frammentazione della penisola italiana e, in un certo senso, lacerò definitivamente l’Impero Bizantino, che negli ultimi due secoli della sua storia fu di fatto a tratti un satellite delle due Repubbliche marinare italiane, che dal controllo sui suoi commerci traevano rilevanti introiti, ritrovandosi sguarnito e con poca capacità di resistenza di fronte all’avanzata turca tra XIV e XV secolo. La sfida sistemica tra Genova e Venezia fu, dunque, una vera contesa geopolitica, che si inserisce nella serie infinite delle partite che, dalla battaglia di Milazzo a Capo Matapan, hanno visto il Mediterraneo terreno di scontro tra opposte strategie egemoniche. Una turbolenza lunga e considerevole nel flusso di storia che da sempre il “Grande Mare” è stato capace di produrre. Ma anche una conferma del legame profondo e antico che unisce la nostra penisola al Mediterraneo. Bacino dal quale troppo spesso l’Italia moderna e contemporanea ha insipientemente pensato di distogliere lo sguardo.

Io sono l’Italia grande e una. Un dialogo tra storia e memoria a 160 anni dall’Unificazione Italiana. Carlo Franza il 15 marzo 2021 su Il Giornale. Il 17 marzo 1861 veniva inaugurato il primo parlamento dell’Italia unita e finiva quella fase storica di costruzione della nazione che aveva preso il nome di Risorgimento. Una stagione di lotte politiche cominciata con le idee della Rivoluzione francese, che determinò un mutamento non solo politico, ma anche economico e sociale in un paese che, se pur unito, rimaneva ancora ricco di fratture e contraddizioni. A 160 anni da quella data, il Museo civico del Risorgimento di Bologna e il Comitato di Bologna dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, in collaborazione con 8cento APS,  propongono un dialogo tra storia e memoria, biografie note e meno  note, di uomini e donne che hanno “fatto l’Italia”. Bologna, 15 marzo 2021 – «Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861». Con queste parole, contenute nel testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna promulgata il 17 marzo 1861, aveva luogo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia, facendo seguito alla seduta del 14 marzo 1861 in occasione della quale il neo-eletto Parlamento aveva votato il relativo disegno di legge. Il 21 aprile 1861 quella legge diveniva la prima del neocostituito Regno d’Italia. Inaugurato il primo parlamento dell’Italia unita con Camillo Benso di Cavour presidente del Consiglio dei ministri del nuovo Stato, aveva fine quella fase storica di costruzione della nazione che aveva preso il nome di Risorgimento. Una stagione di lotte politiche cominciata con le idee della Rivoluzione francese, che determinò un mutamento non solo politico, ma anche economico e sociale in un paese che, se pur unito, rimaneva ancora ricco di fratture e contraddizioni. A 160 anni da quella data, mercoledì 17 marzo 2021 alle ore 20.30 il Museo civico del Risorgimento di Bologna e il Comitato di Bologna dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, in collaborazione con 8cento APS, promuovono la conferenza online “Io sono l’Italia grande e una. Un dialogo tra storia e memoria a 160 anni dall’unificazione italiana”. Il titolo dell’incontro è una citazione in omaggio alla celebrazione che Giosue Carducci, sommo cantore della nuova nazione, sciolse nei versi patriottici della prima quartina in apertura della poesia Canto dell’Italia che va in Campidoglio (dai Giambi ed epodi/Libro II) composta nel 1871, dopo la Presa di Roma e a dieci anni dalla proclamazione del Regno: Zitte, zitte! Che è questo frastuono/ Al lume de la luna?/

Oche del Campidoglio, zitte! Io sono/ L’Italia grande e una/. A confrontarsi sulle alcune delle possibili linee interpretative delle circostanze storiche che portarono alla realizzazione del progetto unitario – tra storia e memoria, biografie note e meno note, di uomini e donne che hanno “fatto l’Italia” – saranno Roberto Balzani (professore ordinario di Storia Contemporanea – Università di Bologna), Mirtide Gavelli (Istituzione Bologna Musei | Museo civico del Risorgimento) e Elena Musiani (professoressa a contratto – Università di Bologna). Carlo Franza

L’Italia unita del giovane Metternich. Rita Monaldi e Francesco Sorti su La Repubblica il 23 marzo 2021. Il figlio illegittimo e stretto collaboratore del cancelliere austriaco che definì il nostro Paese “un’espressione geografica” scrisse un diario in cui smentiva la visione del padre. E che oggi vale la pena di riscoprire. Da sempre nella hit parade dei vittimismi nazionali, la frase-tormentone sull’Italia «mera espressione geografica» è sopravvissuta ai secoli, e dovremo tenercela. Ma in questi giorni un po’ speciali, colorati dalle celebrazioni dantesche, dal sentimento diffuso — persino nella Babele dei social media — di un’antica paternità, dagli appelli accorati di Sergio Mattarella e di Dario Franceschini, e presto anche dalla voce di Benigni che leggerà al Quirinale la Divina Commedia, la gracchiante vocetta tedesca del principe Metternich in marsina nera, decorazioni militari sul petto e tre o quattro amanti al seguito, stride peggio del solito. Perché sì, a tutti piace lamentare l’Italia «nave sanza nocchiere» di Dante Alighieri, ma quando il nocchiero si chiama Metternich o Radetzky è meglio non averlo. E curiosamente, proprio mettendo insieme il Risorgimento e Dante, che si lagnava della disunità d’Italia con cinque secoli d’anticipo, la settimana del 25 marzo risulta tutta nel segno dell’identità nazionale. Il 18 marzo del ’48 i milanesi innescano la ribellione che farà tremare il regime degli austriaci, giustamente odiati (ogni milanese rinunciava a fumare, per boicottare i tabacchi in mano agli austroungarici, e loro gli sbuffavano in faccia le nuvole dei loro sigari, mentre il kaiser Francesco Giuseppe dopo le impiccagioni mandava il conto del boia alle vedove). Le giornate milanesi finirono vittoriosamente il 22 marzo; ma ora si aggiunge la celebrazione nazionale dantesca del 25 marzo, senza contare che il 17 marzo 1861 fu proclamata l’unità d’Italia. E chissà, forse a Mattarella e Franceschini questa settimana d’oro non spiacerebbe chiamarla “settimana dell’identità italiana”. Quanto innaturale, che quell’identità, tragicamente invocata da Dante, sia stata boicottata nel 1815 da un Congresso simile a un reality, in cui si ballava, si trincava e s’andava a donne (le più succose spigolature: Robert Ouvrard, Le congrès de Vienne - Carnet mondain, edizioni Nouveau Monde, 2014). Ma la natura odia gli eccessi: lo yang nasce dallo yin suo antagonista, e da Metternich uscì l’anti Metternich. Dal grande regista del Congresso di Vienna nacque Alexander (1811-1892), figlio illegittimo, futuro conte von Hübner e adoratore dell’Italia. Il papà già a 29 anni lo inviò in missione segreta in Italia. Era a Milano quando scoppiò la rivolta popolare, e ne lasciò ai posteri uno straordinario, fulminante diario: Un anno della mia vita — 1848/49 (Ein Jahr meines Lebens -1848/49), che meriterebbe una ripubblicazione (editori, ci siete?) per l’alta qualità letteraria e il valore documentario. Non a caso nel 1970 ne venne tratto un magistrale sceneggiato a puntate della Rai sulle Cinque Giornate, con un cast all stars dell’epoca: da Arnoldo Foà nei panni di Radetzky a Ugo Pagliai nel ruolo di von Hübner. Il taccuino giornaliero del figlio di Metternich diventò così, ironia della sorte, la vulgata della nostra tv pubblica. Ai fatti milanesi del giorno, il giovane conte von Hübner alterna commenti sull’Italia e la sua gente. Luglio 1848: «L’uomo italiano è arrivato già a maturità quando le altre nazioni cristiane si trovavano ancora ai loro primi passi nella via della civilizzazione (…). Non lascio mai l’Italia senza provare uno stringimento al cuore. Qual è l’incanto misterioso, costante, irresistibile, che, dai giorni di Carlomagno, attira lo straniero sul terreno classico di questo Paese privilegiato? Non può essere solamente il bel cielo, la bellezza naturale, l’abbondanza dei bei monumenti. La penisola iberica, la Grecia, altri paesi presentano i medesimi vantaggi. Si va ad ammirare i tesori e, soddisfatta tale curiosità, se ne viene via con rincrescimento, ma senza provare il bisogno di ritornarvi. Chi ha veduto l’Italia, al contrario, porta via con sé la smania di rivederla. Perché? La chiave dell’enigma si trova, ritengo, nell’universalità e nella continuità dei ricordi che le evoluzioni dello spirito umano hanno disseminato a profusione. Sono altrettante pietre miliari segnanti gli ultimi splendori e la decadenza dell’antichità, la nascita e i progressi dell’età moderna. Roma e l’Italia sono state per secoli il gran teatro del mondo, come dicevano i moralisti del XV e XVI secolo, la scena fragorosa dove si rappresentava la grande commedia umana». E poi l’apice: «L’Italia è la patria comune di tutte le nazioni civili. Roma e l’Italia rispecchiano il mondo. Ecco quella che io chiamo l’universalità dei ricordi». Anche a Metternich junior non sfugge il ruolo chiave di Dante: il 15 marzo del ’48 evoca lucidamente l’autore della Commedia: «La nascita del sentimento italiano è da ricondursi agli inizi della lingua volgare di Dante. È sopravvissuto a tutte le vicissitudini, si è trasmesso di generazione in generazione». Gli sfuggono perfino sospiri da innamorato: «Ah! Amo l’Italia e la lascio con rincrescimento, e amo del pari gli Italiani. In mezzo alle loro numerose qualità apprezzo la loro perspicacia e la loro urbanità». Da viaggiatore esperto, si diffonde in osservazioni quasi antropologiche: «Facciamo l’ipotesi che voi parliate male la lingua del paese nel quale viaggiate: il tedesco riderà dei vostri spropositi, il francese ve li correggerà, l’inglese vi guarderà con aria spaventata, arrossirà, non vi comprenderà affatto e vi volterà le spalle. L’italiano, se non vi comprenderà, vi indovinerà. Affinché riusciate a comprendere la sua risposta, adopererà le dita, le mani, le braccia e soprattutto la mimica della sua fisionomia espressiva e mobile. Farà tutto ciò con premura, e nel modo più toccante. L’italiano non è solo perspicace, ha anche la virtù dell’urbanità. Urbanità che non va confusa con le buone maniere, che si acquistano con l’educazione e, per conseguenza, sono privilegio, dove più e dove meno, delle persone che hanno ricevuto una buona educazione. L’urbanità è istintiva o, meglio, è eredità di una lunga serie di generazioni ben allevate. Si trasmette col sangue; ha perduto, col volgere dei secoli, il suo carattere esclusivo ed è diventata appannaggio di tutta la nazione». Conclusione: «Da qualsiasi lato consideriate Roma e l’Italia, riconoscerete in esse la culla delle civiltà, e nell’italiano il suo primogenito». Von Hübner farà una carriera fulminante: dopo Milano è ambasciatore a Parigi, poi nel 1859 ministro di polizia a Vienna, per finire ambasciatore a Roma, fino al 1867. Conservatore lealista ma illuminato, connoisseur di oggetti d’arte, annunciatore di un umanesimo transnazionale, insegna agli austriaci che l’Italia va percorsa brandendo la Divina Commedia e non il moschetto. Andrebbero letti nelle scuole, nelle piazze, i pensieri dell’anti Metternich e il suo amore disinteressato per l’«ostello di dolore» dantesco. Mentre le armate austriache avanzano in Nord Italia, gode non della brutale conquista, ma dell’ingresso nelle città di Dante, Petrarca o Machiavelli, altro suo autore favorito. La storia, con i suoi simbolici rovesciamenti, mette le cose a posto. Che ne è del palazzo deliziosamente arrogante di Metternich padre, costruito proprio nell’anno del congresso di Vienna davanti al parco del Belvedere immortalato dal Canaletto? Nel 1908, dopo pacifiche trattative, finisce in mano dell’Italia: oggi ospita la bella ambasciata della «mera espressione geografica». In tempi di Covid lo si può gustare a distanza, in un bel volume di Francesco Scoppola (De Luca editore, 2007). E lo sceneggiato Rai del ’70, tratto dal famoso diario? L’edizione in dvd è tuttora in commercio e mantiene, dopo mezzo secolo, tutta la freschezza narrativa di un vero intellettuale, che ha capito l’identità italiana.

L'altra storia del Sud. E' proibito studiare la storia dell'Occidente? Il Sudonline il 25 febbraio 2021. I libri di Rodney Stark, americano del Texas, sociologo della Religione e docente di Scienze sociali, nonché storico, sono “politicamente scorretti”, come si usa ormai dire. Il motivo? Perchè si permettono di celebrare la Civiltà Occidentale. Pertanto sono passibili di contestazione o di diventare magari “prede” dei pacifici Black Lives Matter. Da troppo tempo i valori dell'Occidente non sono più di moda, non solo ora che sono ampiamente contestati, ostracizzati e perfino odiati. Tanto che i corsi di sulla civiltà occidentale sono stati eliminati dalla maggior parte delle università americane...

BREVE STORIA DELLE FINANZE NAPOLETANE DA SCIALOJA A EINAUDI. Michele Eugenio Di Carlo su Il Sudonline il 25 febbraio 2021. Dopo l’attentato del dicembre 1856 alla vita di Ferdinando II di Borbone, a produrre una robusta detonazione nel clima politico e sociale napoletano era stato Antonio Scialoja con un opuscolo che metteva a confronto i bilanci napoletani con quelli torinesi, sostenendo la superiorità delle politiche economiche piemontesi rispetto a quelle napoletane. Scialoja, ritenuto uno dei migliori economisti italiani, aveva nel 1840 pubblicato ad appena 23 anni “I Principi di economia sociale esposti in ordine ideologico” 2 , nel 1846 insegnava Politica economica all’Università di Torino. Tornato a Napoli nel 1848 veniva nominato ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel governo costituzionale di Carlo Troja. Nel 1852 tornava da esule a Torino, riprendendo il suo incaricato di docente all’Università e veniva aggregato al Ministero delle Finanze per indirizzare la politica economica-finanziaria sabauda in strettissima collaborazione con Camillo Cavour, perfettamente allineato alle sue idee liberali e patriottiche 3 . Tra l’altro, unitamente agli esuli Pasquale Stanislao Mancini e Giuseppe Pisanelli, scriveva il “Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi”. Nell’opuscolo Scialoja criticava il regime doganale teso a proteggere i prodotti industriali del Regno delle Due Sicilie e, in merito al bilancio napoletano, polemizzava contro la propensione delle politiche finanziarie a non indebitarsi, mentre invece il bilancio di Torino era in deficit a causa di investimenti che stavano producendo – a suo dire – sviluppo e ricchezza. L’opuscolo era stato accolto dal sovrano e dai suoi ministri come «un colpo di fulmine», considerato che Scialoja chiudeva con un confronto impietoso tra «l’alta posizione morale e politica del Piemonte, e il grado d’inferiorità, in cui era il Regno di Napoli». Tra le pieghe, peraltro, era del tutto evidente l’affondo ad un sistema ritenuto corrotto che il governo napoletano consentiva. Sull’opuscolo di Scialoja, lo storico Raffaele De Cesare, a fine Ottocento, non andava oltre una semplice difesa d’ufficio di Ferdinando II, riconoscendo che «era onesto, personalmente, e parsimoniosa la famiglia reale, forse più che non conveniva al suo grado». Come era del tutto prevedibile, il napoletano Scialoja fu accusato di denigrare la propria patria e ben nove studiosi, con poca fortuna, pensarono di confutare le sue tesi, alcuni noti come Tommaso Michele Salzano, teologo e giurista, Agostino Magliani alto funzionario del Ministero delle Finanze, Niccola Rocco, giurista di fama, Francesco Del Re, altri meno conosciuti come Francesco Durelli , Girolamo Scalamandrè, Ciro Scotti, Alfonso de Niquesa, Pasquale Caruso. Era fin troppo chiaro che Scialoja, stretto consulente di Cavour, aveva innanzitutto l’interesse politico di portare alla ribalta l’arretratezza del Mezzogiorno facendo un confronto con quella che riteneva una superiore gestione politica, economica e, persino morale del Regno di Sardegna. L’amministrazione finanziaria napoletana era stata efficacemente regolata con una legge risalente in buona parte all’impostazione organica del Decennio francese, invece Scialoja preferiva trarne riferimenti critici dalla legislazione che aveva preceduto di alcuni secoli quella post Restaurazione. Il cilentano Magliani, nel suo opuscolo di confutazione delle tesi di Scialoja, obiettava che i bilanci napoletani, dopo essere redatti dai ministri dei vari dicasteri, venivano trasmessi al Ministro delle Finanze e dovevano superare il vaglio del Consiglio dei Ministri e del Consiglio di Stato. Si trattava, secondo Magliani, di una procedura rigorosa che assicurava ampie garanzie di correttezza . Agostino Magliani (Laurino, 1824 – Roma 1891) Raffaele De Cesare riferisce anche dei rapporti personali che intercorsero tra Scialoja e Magliani a unificazione d’Italia acquisita, quando l’esule napoletano, tornato a Napoli, viene nominato da Giuseppe Garibaldi ministro delle Finanze del governo dittatoriale. In un periodo di epurazione dei funzionari borbonici, Magliani si rivolge a Carlo De Cesare, zio dello scrittore di Spinazzola, direttore del ministero delle Finanze, pregandolo di sostenerlo con il nuovo ministro per evitare il licenziamento: «Magliani pregò mio zio d’intercedere presso Scialoja, assicurandolo che egli aveva pubblicato il noto opuscolo, non perché dividesse le idee, ma perché aveva dovuto ubbidire agli ordini del Re». Scialoja e Magliani si incontrarono e divennero amici 14 . D’altra parte Federico Del Re, nella sua “Analisi dell’opuscolo”, sicuro che il vero fine di Scialoja era stato quello di screditare il governo napoletano contestava l’affermazione che Napoli era l’unica in Europa a non rendere pubblici i bilanci: «gli stati discussi […] si comunicano e diramano, senza alcuna riserva, a tutte le officine della tesoreria, alla Gran Corte dei Conti e alle amministrazioni […] tutti possono consultarli». Luigi Einaudi, l’economista secondo presidente della Repubblica Italiana dal 1948 al 1955, in un saggio del 1953 sulla controversia tra Scialoja e Magliani, ricorda che il funzionario delle Finanze, superate le difficoltà iniziali dell’unificazione, «fu in seguito ripetutamente ministro delle finanze nel regno d’Italia, dal 26 dicembre 1877 al 24 marzo 1878 e dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879 con De Pretis, dal 25 novembre 1879 al 29 luglio 1887 in successivi gabinetti Cairoli e De Pretis, e di nuovo, per breve tempo, dopo il 7 agosto 1887 con Crispi, tenendo a lungo altresì la reggenza del ministero del tesoro» . Melfi, paese natale di F.S. Nitti (Melfi, 1868 – Roma, 1953) Einaudi, esaminata la controversia tra Scialoja e Magliani, annota che nel 1890, al profilarsi di un nuovo ritorno di Magliani al ministero delle Finanze nel secondo gabinetto di Francesco Crispi, veniva ripubblicata la replica 17 dell’economista cilentano a Scialoja. Il testo conteneva una prefazione avente il preciso fine di denigrare il più volte ministro delle Finanze, accusandolo di aver attaccato Scialoja ministro del governo costituzionale del 1848 a Napoli, deridendo «la libertà costituzionale, i vantaggi di uno statuto, la cospirazione in pro’ dell’indipendenza nazionale, la guerra che la Lombardia muoveva all’Austria». E, cosa ancor più grave, e probabilmente imperdonabile per quei tempi, «oggi Agostino Magliani, in Napoli, parla della situazione finanziaria dell’Italia, paragonabile per tanti versi a quella del Piemonte di allora. E, criticando il fin qui fatto, in cui egli ebbe tanta parte e dubitando della patria, dà prova dello stesso accorgimento politico con cui nel 1858 giudicava salda e sicura la monarchia di Ferdinando II proprio alla vigilia della sua rovina» 18 . In pratica, nel tentativo di ostacolare la via di un nuovo incarico ministeriale a Magliani, lo si riconsegnava alla storia in veste di strenuo difensore della monarchia borbonica. Tra l’altro, era quasi inevitabile che Magliani, vista la catastrofica condizione economica e sociale in cui le politiche sabaude avevano fatto precipitare il Mezzogiorno, cominciasse a criticare quegli indirizzi politici che nel tentativo di apportare linfa vitale all’industrializzazione del nord del Paese stavano continuando a drenare, ininterrottamente dal 1860, enormi risorse materiali e umane dal Mezzogiorno, impoverendolo e rendendolo sempre più arretrato e meno competitivo. Riguardo al gravoso sistema fiscale piemontese, Einaudi sembra propendere decisamente per le tesi di Scialoja condividendo che «le imposte gravano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulla punta delle baionette straniere, come era il governo borbonico; laddove, se sono esatte da governi nazionali e volte a beneficio universale, benchè le nude cifre paiono dure, in effetto quelle imposte crescono ricchezza e potenza ai popoli medesimi» 19 . Una ricchezza e una potenza di cui certamente il Mezzogiorno non aveva potuto godere, nonostante il grande contributo che aveva dato all’unificazione nazionale; unificazione avvenuta «sulla punta delle baionette» inglesi, circostanza che forse allora Einaudi ignorava del tutto. Lo stesso Einaudi, tornando alla controversia, la definitiva «memorabile non tanto per la analisi concreta delle entrate e spese borboniche confrontate a quelle sarde, quanto per i problemi fondamentali che furono allora posti». Ancora nel 1853, anno in cui moriva a Roma Francesco Saverio Nitti, Einaudi scriveva, stupendosi per l’ignoranza quasi generale degli studiosi sui documenti contabili preunitari contenuti negli archivi napoletani, che «sarebbe in verità tempo che, senza rifar processi, fossero studiate accuratamente le finanze borboniche dal 1815 al 1860, meglio di quel che oggi possa farsi sulle monche e contrastanti notizie che si leggono […]» 20. Dimenticava, forse, il piemontese Einaudi, che mezzo secolo prima il collega Nitti aveva già reso noto i suoi studi sulle finanze degli Stati italiani preunitari, concludendo che «senza l’unificazione dei vari Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento» 21 . In altre parole, le finanze piemontesi si erano salvate dal fallimento grazie all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie.

Che cosa ci insegna la storia del Partito d'Azione. Simonetta Fiori su La Repubblica il 10 aprile 2021. La formazione politica erede della Resistenza visse una breve stagione. Ma si batté per la scelta di una classe dirigente forte contro la crisi. Come è necessario fare oggi. Parla lo storico Giovanni De Luna, mentre esce la nuova edizione del suo saggio. Quando uscì il libro, quarant'anni fa, il nodo storiografico era perché il Partito d'Azione fosse finito nell'arco di un quinquennio. Oggi la domanda è perché l'azionismo sia durato così a lungo, tanto da riuscire a dirci qualcosa ancora oggi". Giovanni De Luna scioglie il paradosso di una tradizione politica scaturita dall'innesto di correnti ideali diverse - liberaldemocratica, socialista liberale, Giustizia e Libertà - , sopravvissuta nella forma di partito solo dal 1942 al 1947, ma destinata a permeare la cultura novecentesca e il primo quarto del XXI secolo. L'occasione è la riedizione del volume che rappresentò una pietra miliare negli studi sul PdA, Storia del Partito d'Azione 1942-1947, riproposto ora da Utet con il nuovo titolo Il partito della Resistenza. "Ricordo le presentazioni di allora, con tutti i protagonisti ancora vivi. Norberto Bobbio. Vittorio Foa. Alessandro Galante Garrone. Leo Valiani. Dopo i primi cinque minuti di rituale elogio dell'autore, riprendevano ad accapigliarsi come se fossimo ancora al congresso fiorentino della scissione. Credo che il libro abbia rappresentato per loro una sorta di liberazione. Sottrasse il partito ai ricordi e glielo riconsegnò come storia. Non erano più costretti a difendere le posizioni d'un tempo, ma diventavano attori di una vicenda con la quale potevano misurarsi serenamente".

Come si spiegava allora il sostanziale fallimento dell'avventura politica?

"L'opinione prevalente era che il partito fosse destinato a soccombere per la sua intrinseca contraddittorietà. Troppi ossimori in una stessa formazione: liberalsocialismo, comunismo libertario, il binomio giustizia e libertà per il quale Benedetto Croce aveva evocato l'immagine di un ircocervo. Secondo questa interpretazione, fu l'eccesso di discordanze a segnarne l'epilogo".

E lei la condivideva?

"No, al contrario. Trattandosi di un partito novecentesco, ero convinto che fosse stato il mancato radicamento nei ceti medi a decretarne la sconfitta. Gli ossimori invece ne rappresentavano la ricchezza: più che il segno della disgregazione, mostravano quello della ricerca e della fantasia progettuale".

È quindi nelle contraddizioni la chiave della prolungata fortuna?

"Sì, la pluralità di anime e la ricerca inesausta di possibili soluzioni fecero fatica a coagularsi in un'esperienza partitica, ma crearono le condizioni perché l'azionismo agisse come un fiume carsico nel corso della storia repubblicana, capace di affiorare nei momenti di crisi e transizione. Luglio del 1960, il Sessantotto, la fine degli anni Settanta, l'inizio dei Novanta: tutte le volte in cui occorreva inventare un nuovo progetto, l'azionismo è apparso il paradigma politico più efficace. È nella sua dimensione incompiuta che va cercato il segreto della tenuta".

Se il partito d'azione ha resistito per pochi anni, gli azionisti hanno dominato la scena culturale per oltre un secolo.

"Gli azionisti, le loro irripetibili personalità, sono l'altra chiave del successo di una tradizione culturale. Indipendentemente dall'approdo politico successivo - il partito repubblicano per Ugo La Malfa, quello socialista per Emilio Lussu e Francesco De Martino, il Psiup e la Cgil per Foa, la militanza culturale e non partitica per Bobbio, Galante Garrone, Nuto Revelli - erano profondamente legati da una forte identità che discendeva anche da un dato esistenziale: tutti, ma proprio tutti, riconoscevano nella Resistenza il punto più alto della loro biografia. Anche La Malfa ricordava come momento fondamentale della sua formazione aver seminato i chiodi a tre punte per impedire ai tedeschi di proseguire l'azione di guerriglia. La lotta partigiana fu l'appuntamento con la storia".

Per questo ha cambiato il titolo del libro in "Il partito della Resistenza"?

"Il riferimento non è solo all'esperienza storica vissuta contro i nazifascisti. In quel passaggio mostrarono uno slancio ideale che sarebbe stata la cifra del loro riformismo militante. Seppero dare alla gradualità del riformismo quella dimensione messianica che il riformismo socialista di Turati non aveva. I loro morti nelle fasce medie e alte del partigianato furono molto superiori a quelli dei comunisti. E questo accadeva perché avevano una concezione quasi sacra della lotta politica. Riferendosi al loro sacrificio, Piero Calamandrei parlò espressamente di "religione". Gli azionisti furono capaci di costruire un piccolo pantheon della religione civile degli italiani in cui ancora ci riconosciamo. E la Carta costituzionale recepì molto del loro afflato religioso".

È la ragione per cui negli anni Novanta, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, furono oggetto di una violenta polemica.

"Furono ritratti come voltagabbana, cacciatori di prebende, utili idioti al servizio dei comunisti. Venivano colpiti personalmente, ricordo ancora il dolore di Bobbio per la pubblicazione della sua lettera giovanile a Mussolini. Venivano attaccati perché rappresentavano l'unica tradizione decente e pulita della sinistra italiana. Dopo il crollo del Muro di Berlino, i comunisti avevano buttato a mare anche ciò che di buono avevano fatto, scomparendo dall'arena dell'uso pubblico della storia. E l'azionismo sopravviveva come il solo filone culturale che potesse fare da scudo all'antifascismo".

Il bersaglio era l'antifascismo. E "azionista!" divenne quasi un insulto.

"L'antifascismo era il paradigma di fondazione della prima Repubblica che andava cancellato per far posto alla seconda. Su questo ci fu una piena concordanza tra Lega, Forza Italia e una larga parte dei mezzi di comunicazione di massa, tra giornali e Tv. La Resistenza fu rappresentata come un'orgia di sangue, i partigiani come macellai. Il 25 aprile una festa da liquidare".

Colpisce che la tradizione culturale dell'azionismo sia presente nella scena politica del nuovo secolo: ancora oggi ci si richiama ai valori del socialismo liberale.

"Io credo che l'attualità dell'azionismo debba essere trovata nella capacità dei suoi protagonisti di selezionare una classe dirigente. Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, due grandi azionisti meridionalisti, riflettevano sulla possibilità di trovare "i cento uomini d'acciaio". Chi sono gli uomini di acciaio? Sono personalità adeguate all'emergenza, capaci di esprimere il meglio del paese. Gli azionisti non puntarono alla rivoluzione sociale o alla dittatura del proletariato, ma alla costruzione di un ceto politico all'altezza della sfida del tempo. Seppero trasformarsi da intellettuali a combattenti, e poi furono capaci di guidare la ricostruzione".

Grazie anche all'aiuto delle altre forze democratiche, riuscirono a risollevare il Paese in poco tempo.

"I verbali del governo Parri raccontano un Paese distrutto. In Italia non c'erano più le case né i trasporti, solo macerie materiali e morali. Nell'arco di tre anni, dal 1945 al 1948, gli indici della produzione industriale tornarono ai livelli di dieci anni prima. E intanto fu scritta la Carta Costituzionale. Il miracolo non è una categoria storiografica e quindi tutto ciò può essere spiegato solo con la forza e la competenza di quelle classi dirigenti. È questo il principale lascito dell'azionismo, soprattutto in un momento di confusione come il nostro: la capacità di scegliere gli uomini all'altezza della sfida".

La selezione era avvenuta allora in piena emergenza, negli anni di guerra.

"Ma questo rende ancora più attuale una tradizione culturale che ha rivendicato l'occasione storica del disastro: allora era il tempo del ferro e del fuoco, oggi è la pandemia con la grave crisi economica e sociale. Per ricominciare bisogna dotarsi di quello slancio progettuale, senza avere paura degli ossimori".

Storia d’Italia, il 1946: dal fascismo ai coriandoli la nascita della Repubblica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Volete capire davvero cosa sta succedendo? Perché siamo a questo punto e a che punto siamo? Volete sapere chi siete, o chi potevate essere, o chi non sarete mai, e chi erano i vostri genitori? Non ci riuscirete se non ripassate la storia. Se non studiate il passato, le radici. E allora abbiamo chiesto a Paolo Guzzanti di raccontarci la storia della Repubblica. Da quel gennaio del ‘46, quando la Repubblica nasceva e lui doveva ancora compiere sei anni, fino ad oggi, che la Repubblica è diventata seconda o terza o quarta, e lui è arrivato a ottanta. Lo farà con un articolo a settimana, per settanta settimane, correndo sul filo della sua memoria, e degli studi che ha fatto, e della sua attività di giornalista. Lo farà con la sua penna e le sue idee. Buona lettura.

Il 1946 fu l’anno in cui nacque la Repubblica. Infatti, per imitare l’inizio di Pinocchio, cominceremo col chiedere: “C’era una volta?”. “Una repubblica! “ diranno i piccoli lettori. No, cari ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un re. Ma molto piccolo. Lo chiamavano “Sciaboletta” e per lui avevano dovuto abbassare di parecchi centimetri l’altezza minima alla visita di leva. Era stato lui a chiamare al governo Benito Mussolini nel 1922 quando molti gli consigliavano invece di farlo arrestare ed era stato sempre lui a farlo arrestare una settimana dopo il primo bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 organizzando un colpetto di Stato perfettamente costituzionale. Il fascismo è stata l’unica dittatura della Storia abbattuta con un voto di sfiducia dopo “ampio e approfondito dibattito” nel Gran Consiglio del Fascismo che era un organo costituzionale.

Quando, all’alba del 25 luglio, il Duce tornò a Villa Torlonia la moglie Rachele era sulla soglia in ansia e gli chiese: «Mo’ Ben, com’è andata?». E lui: «Mi hanno messo in minoranza e hanno ridato i poteri al re». Rachele si infuriò: «Ma avresti dovuto fare come Hitler, ti portavi un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti». Mussolini era ancora ottimista: «Oggi vado dal re e sistemo tutto» rispose esausto. Invece era stato il re a sistemare tutto: arrivato a Villa Savoia con le ghette e il cappello, Mussolini fu fatto accomodare nel salottino, il suo autista e la scorta furono arrestati, il re gli disse che l’aveva sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio ma che non doveva preoccuparsi per la sua incolumità. Poi lo accompagnò all’ambulanza che lo aspettava piena di carabinieri che però non sapevano che Mussolini era agli arresti.

Ne seguì una peregrinazione comica finché il capo del fascismo fu sistemato in albergo isolato di Campo Imperatore dove fu tentato dall’idea del suicidio con la piccola pistola che gli avevano lasciato e fu liberato da un commando di nazisti forsennati guidati da Otto Skorzeny al comando di alcuni alianti. Quel piccolo re aveva visto che per lui e casa Savoia tirava un’aria pessima, ci sarebbe stato un referendum e preferì andare in esilio lasciando suo figlio Umberto che fu re per un solo mese e detto “Il Re di Maggio”. Fu indetto il referendum per il 2 giugno del 1946 e con il referendum gli italiani e per la prima volta le italiane che non avevano mai votato ai tempi del Regno furono chiamati ad eleggere il primo Parlamento come Assemblea Costituente e dire se volevano restare un regno o diventare una Repubblica. Le forze maggiori – socialisti (che erano più numerosi dei comunisti) i comunisti, larga parte dei cattolici molti fascisti che votavano Uomo Qualunque o altre formazioni minori – erano repubblicane. Ma quando cominciò lo spoglio delle schede al ministero degli Interni si accorsero che i voti per il re superavano di gran lunga quelli per la Repubblica e scoppiò il panico. Il ministro Romita decise di non dir nulla finché lo spoglio non fosse finito e fu una faccenda lunghissima e controversa. Il Sud aveva votato in massa per il re e il Nord in massa per la Repubblica. Ci furono accuse di brogli e ancora oggi se ne parla anche perché qualcuno ebbe la discutibile idea di bruciare le schede votate sicché non si poté fare una riconta. Il presidente della Cassazione anziché annunciare la vittoria della Repubblica disse che si sarebbero prima discussi i ricorsi e si rischiò la guerra civile. Il nuovo re-luogotenente Umberto Secondo, ad urne aperte, scoprì di essere ancora il re e fece sapere che se non si fosse risolta la questione immediatamente avrebbe nominato un suo governo, mentre era presidente del consiglio Alcide De Gasperi, il leader democristiano trentino che per anni era stato un deputato dell’Imperial Regio Governo a Vienna. La minaccia era seria: se il “Re di maggio” faceva un governo formalmente legittimo ci sarebbero stati due governi e probabilmente la guerra civile. De Gasperi prese una decisione molto audace: si proclamò Capo provvisorio dello Stato al posto del Re luogotenente che preferì salire su un piccolo aereo e partire dopo aver sventolato il suo cappello con aria mesta davanti a una folla di monarchici piangenti. Casa Savoia aveva tentato di giocare a carta americana: Real Casa chiese alla Casa Bianca di essere sostenuta contro il “pericolo sovietico”. Ma avevano sbagliato i conti: alla Casa Bianca, dove Harry Truman era succeduto a Franklin Delano Roosevelt, erano tutti repubblicani, odiavano tutti i re e specialmente quelli italiani. Chi era molto seccato per l’esito del referendum fu Winston Churchill che seguitava a sognare un mondo di imperi e di teste coronate.

La massa degli elettori italiani aveva votato per i tre grandi partiti: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con più di otto milioni di voti, il Partito socialista di unità proletaria di Pietro Nenni con quattro milioni e 758 mila voti e il Partito comunista di Palmiro Togliatti (sotto il 20 per cento, superato dai socialisti quasi al 21) con poco meno di quattro milioni e mezzo. I tre quarti degli italiani avevano votato i grandi partiti e fra questi c’era una forte maggioranza di sinistra perché socialisti e comunisti formavano ancora una unione “socialcomunista” e si parlava spesso di una possibile fusione. I democristiani avevano la maggioranza nelle aree che oggi sono della Lega, i comunisti nelle regioni “rosse” (che durante il fascismo erano state nerissime) e i socialisti con uno spettro un po’ più largo. Che Italia era? Posso dire quel che ricordo da bambino: una sovreccitazione frenetica nelle strade, tutti correvano in bicicletta, urlavano, formavano crocicchi, sembra la celebrazione del “Free Speach” dei parchi londinesi. Preti assatanati contro i comunisti, rivoluzionari, casalinghe, operai, professori, tutti trovavano una cassetta della verdura su cui salire e parlare al popolo. Ma pochi sanno che durante il Regno d’Italia e fino alla fine della Grande Guerra nel 1918, la democrazia italiana era riservata per censo a una parte della borghesia: soltanto chi paga le tasse ha diritto di rappresentanza per decidere come spenderle. Con la fine della Grande Guerra fu concesso benignamente il voto a tutti gli uomini senza distinzione di censo.

E così il Parlamento si riempì di un caleidoscopio di partitini che contribuirono allo spappolamento della vecchia democrazia paternalistica. Nessuno usava il deodorante, non esisteva lo shampoo e i capelli erano lavati con saponi e bicarbonato. Tutti bevevano quantità insensate di pessimo vino a tavola, bambini compresi, e infuriava una dieta della pasta e dell’ingrassamento dopo gli stenti della guerra. Si aspettava ancora il ritorno di molti prigionieri di guerra che non sarebbero più tornati e mio padre vedeva in sogno il suo compagno di banco inghiottito dalle nevi della Russia. Era un’Italia a coriandoli: non votarono quelli dell’Alto Adige ancora sotto controllo alleato, ma votarono le città di Tenda e Oneglia che diventarono francesi. Roma era piena di soldati e la polizia vestiva con l’elmetto e viaggiava su jeep con la cappotta e si chiamava “la celere”, antisommossa perché le sommosse erano sempre nell’aria. Era ancora l’Italia del Cln (Comitato di liberazione nazionale di tutti gli antifascisti) ma era già l’Italia spaccata dalla guerra fredda. Tuttavia, si sapeva che l’Italia, come la Grecia, era stata assegnata all’Occidente e Stalin non gradiva colpi di mano. Erano gli anni di “Napoli milionaria” di Eduardo e della “Tammurriata Nera”, le molte nascite di bambini colorati presi in custodia da suore terribili come quelle di Fellini.

Era fatta: la guerra era finita davvero, la democrazia era cominciata davvero, i conti sarebbero stati regolati nel 1948 con le vere elezioni e tutto andava avanti con molta “borsa nera” (il mercato parallelo e l’arte di arrangiarsi, che era già nel Dna. Entusiasmi e disperazioni si affacciavano in ogni famiglia e paese, il mondo si spaccava e gli ultimi nazisti tedeschi avevano scelto l’Argentina come nuova patria provvisoria. Dall’America Latina un napoletano scrive “Munastero ‘e Santa Chiara” che descriveva il crollo morale ma tutti dicevano che bisogna guardare avanti, girare pagina, perché ormai chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. Il che non era vero.

Storia d’Italia, il 1947: l’anno in cui tutta Europa ci odiava. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Luglio 2020. Fu l’anno che determinò il futuro. Nel 1947 tutti furono obbligati a mettere le carte in tavola e dire da che parte stavano. La guerra fredda era scoppiata e nessuno, ma proprio nessuno, sapeva che non sarebbe diventata calda. Al contrario: ricordo che nel 1947 mia madre affettava e metteva sotto sale un prosciutto di campagna da cui saltavano fuori dei vermi. non esisteva lo schifo. Tutto era buono. scatolette, tonno, fagioli, si faceva il sapone in casa con una puzza orrenda di pentoloni pieni di grasso animale. Un tappeto di patate sotto il letto. Taniche di petrolio per i lumi bellissimi pieni di nappe, nastrini e vetri colorati che mio padre aveva comperato perché la corrente saltava. Cocomero e burro sotto un filo d’acqua nel lavello di marmo della cucina. Estati torride senza un filo di vento. Freddo invernale con i geloni alle dita, lo scaldino nel letto con la brace, io mi portavo sotto le coperte di contrabbando il nostro gattone nero chiamato Fascista perché aveva una specie di M bianca sul petto. L’aveva portato un ingegnere amico di mio padre che frequentava il papa sostenendo che il micio era figlio della gatta di Pio XII, Pacelli, quello che aveva dischiuso le ali sulle macerie del bombardamento del 19 luglio al Tiburtino. Il fratello di mia madre era diventato comunista e girava in bici e con mio padre discutevano per ore sulla porta di casa, il secchio dell’immondizia foderato di carta di giornale. Le voci alla radio erano gracchianti perché il tono ufficiale era molto mussoliniano, a destra come a sinistra. Passato Capodanno, il giornale radio avvertì che il presidente del Consiglio stava volando verso gli Stati Uniti ed era la prima volta che De Gasperi usciva dall’Italia. L’espressione “Presidente del consiglio dei ministri” era stata scelta e usata solo in Italia al posto di primo ministro o capo del governo, per scongiurare l’arrivo dell’uomo forte. Il 1947 era l’anno in cui sarebbe stata votata la nuova Costituzione e quello in cui l’Italia avrebbe firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici perdendo l’Istria con tutti gli istriani, fuggiti o infoibati, di cui nessuno voleva più sentir parlare. Trieste era tagliata in due, mezza americana e mezza comunista, Zona A, Zona B, e la faccenda sarebbe andata avanti per un pezzo. E poi sarebbe stato l’anno del Piano Marshall, dal nome del Segretario di Stato americano George Marshall, annunciato con un discorso all’Università di Harvard. L’America capovolgeva le tradizioni: i vincitori avrebbero rimesso in piedi i vinti a proprie spese, per evitare quel che era accaduto fra le due guerre mondiali. Ricordo, da ragazzino, un mondo di gente molto confusa, piena di ira e di frustrazione e tutti avevano voglia di mettere le mani addosso a qualcun altro. De Gasperi non era stato invitato dalla Casa Bianca ma dalla rivista Time. L’Italia non era popolare: era un Paese vinto e detestato. I francesi ci odiavano per averli “pugnalati come Maramaldo”. Gli inglesi ci odiavano per la guerra e ci odiavano i greci, gli slavi, i tedeschi e i russi perché avevamo mandato corpi di spedizione in casa loro. La guerra franco-prussiana del 1870 aveva lasciato i semi avvelenati della Prima Guerra Mondiale e la pace di Versailles aveva fatto schiudere le uova di serpente della seconda. Ora ci trovavamo all’inizio di una Terza Guerra: l’Occidente a guida americana e capitalista contro l’Oriente a guida russa e comunista. Scompariva l’Impero britannico, collassato per decisione americana. Roosevelt aveva avvertito gli inglesi: vi aiutiamo, ma voi dovete smontare tutta la baracca imperiale. E il disfacimento partì dall’India. Da un punto di vista esistenziale – l’esistenzialismo fioriva a Parigi – eravamo senza identità e temevamo la morte atomica, l’ultima novità prodotta a Hiroshima. Si seppe in quell’anno del diario di Anna Frank: la dimensione della Shoà era ancora non chiara. L’America accettava di riceverci, ma senza trombe e tappeti rossi. Quelli sarebbero venuti dopo. La delegazione che arrivò a Washington comprendeva il direttore della Banca d’Itala Domenico Menichella, Guido Carli direttore dell’Ufficio Cambi, il ministro del Commercio con l’Estero Pietro Campilli, su un affaticato quadrimotore Skymaster, tutti imbragati con i paracadute, salvo Menichella che era afflitto da un’enorme pancia. Due giorni di volo. De Gasperi si era affidato all’ambasciatore Alberto Tarchiani che conosceva bene l’America e che lo portò dal nuovo presidente Truman e che era diventato il mastino della guerra fredda. C’era stato il discorso di Winston Churchill all’università americana di Fulton in cui per la prima volta era stata inaugurata l’espressione iron courtain la “cortina di ferro” di ferro, che tagliava anche Trieste, città contesa agli jugoslavi del maresciallo Tito. Gli americani dettero a De Gasperi un assegno da cinquanta milioni di dollari come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dall’Italia durante la guerra. Ma una cosa doveva esser chiara: i comunisti, dovevano andare fuori dal governo. Era scoppiato il caso greco. I comunisti greci, contro il divieto di Stalin, avevano cominciato una rivoluzione destinata ad essere repressa dagli inglesi senza che i sovietici muovessero un dito. Durante la visita di De Gasperi, il segretario di Stato James Byrnes si dimise perché non condivideva la nuova politica antisovietica. Lo sostituiva George Marshall, esperto mediatore fra comunisti e nazionalisti cinesi, l’uomo che avrebbe legato il suo nome al famoso “Piano”. L’Italia ottenne un finanziamento ulteriore di 100 milioni di dollari dalla Export Import Bank subito dopo il rientro di De Gasperi. Pietro Nenni, ministro degli Esteri e capo dei socialisti che era andato ad accoglierlo all’aeroporto, annotò sul suo diario che De Gasperi era «totalmente cambiato». Dietro il successo di quel primo incontro aveva lavorato come tessitore Francis Spellman, di 47 anni, che era stato creato cardinale l’anno prima da Pio XII. Francis Joseph Spellman, nato nel 1889 in Massachusetts, aveva fatto la spola fra l’ambasciata americana e lo studio del papa, per poi finire le sue serate nelle osterie di Frascati con il suo autista Francesco Lamonaca, che era il mio prozio di Forio d’Ischia. Questo mitico Zio Ciccio, leggendario narratore della Prima guerra mondiale vista con occhi napoletani, era diventato l’autista dell’ambasciata americana e del cardinale che lui chiamava Spellmànne e che gli raccontava nei dettagli, dopo aver raggiunto il necessario livello etilico, delle istruzioni ricevute dal papa per l’incontro alla Casa Bianca di De Gasperi. Il viaggio fu un successo. Ma fu subito chiaro che l’Alcide, era deciso a sbattere fuori i comunisti e i loro alleati. i comunisti devono uscire dai governi di coalizione in Occidente. E così fu. Pochi giorni dopo, Nenni si dimise da ministro degli Esteri e il suo partito si spaccava per la la scissione socialista di Palazzo Barberini, quando Giuseppe Saragat (futuro presidente della Repubblica anche lui come Spellman molto amante del vino) ruppe con il Psiup, fondando il Psli, poi Psdi, partito socialdemocratico italiano, pronto a governare con una Dc filoamericana e antisovietica. Fra gli scissionisti, a sorpresa, anche Anna Kuliscioff, rivoluzionaria comunista ebrea ucraina che in Italia aveva diretto il quotidiano socialista Avanti! con Benito Mussolini (di cui fu brevemente l’amante) e che poi era scappata in Unione Sovietica entrando nel gruppo dirigente leninista. Da cui poi era fuggita orripilata. E arrivò il Piano Marshall. Poiché tutti convenivano che l’avvento di Hitler fosse stato provocato dalle disumane condizioni in cui il popolo tedesco fu tenuto dai vincitori della Grande Guerra, gli americani decisero non di chiedere riparazioni e danni, ma al contrario di pagare di tasca loro il finanziamento economico della rinascita dell’intera Europa, Est ed Ovest. Qualcosa di inimmaginabilmente grande, perché comprendeva anche l’Unione Sovietica dei Paesi dell’Est, non ancora sotto dittatura comunista, come la Cecoslovacchia. Ma Stalin non ne volle sapere ed ordino a tutti gli Stati e partiti comunisti di opporsi al piano Marshall, malgrado le proteste di alcuni governi. In Italia il Pci si allineò con Mosca. Gli inglesi, seccati con gli americani che giocavano da padroni, resero noto il loro ritiro dalla Grecia in piena guerra civile e Truman accolse la notizia come un dato di fatti: nasceva la “dottrina Truman”, che delegava il comando all’imperatore d’occidente in Pennsylvania Avenue. Stalin era furioso: voleva che la Germania pagasse le riparazioni dovute, ma Molotov (“Martello”, il ministro degli Esteri di Stalin, lo stesso che aveva firmato con i nazisti il patto del 1939) fu sconfitto. Truman mise mano al portafoglio e sborsò 250 milioni per la Grecia e 150 per la Turchia, da proteggere da sovietici. In Italia Togliatti, con un colpaccio a sorpresa, ruppe l’unità delle sinistre e votò alla Costituente a favore dell’articolo 7 della Costituzione che avallava i patti fra Mussolini e Vaticano, per far breccia nei cattolici. Il primo maggio, la strage del bandito Salvatore Giuliano a Portella Della Ginestra. I manifestanti accolti dal fuoco delle mitragliatrici che falciano la folla con 800 colpi: 11 morti e 71 feriti. Giuliano ha da poco ricevuto i gradi di colonnello e la bandiera di combattimento dal congresso segreto dei separatisti che dicono di voler portare la Sicilia nella Confederazione degli Stati Uniti. Sarà una vicenda loschissima, che finirà con Giuliano ammazzato da suo cognato Gaspare Pisciotta in un finto conflitto a fuoco e con Pisciotta ammazzato con un caffè corretto, che produrrà il noto sketch “Venga a prendere un caffè da noi”. In Italia una crisi di governo a freddo estromette i comunisti, così come accade in Francia. A luglio il Comitato centrale del Pci dichiara impossibile proseguire nella “democrazia progressiva” ma Togliatti promette un atteggiamento moderato per non rompere l’unità nazionale antifascista. Il 7 settembre in un comizio a Parma Palmiro Togliatti allude a una forza armata del Pci di 30 mila uomini e il discorso viene interpretato come una minaccia al governo e improvvisamente scoppia una sorta di crisi insurrezionale alimentata dal maresciallo Tito e a settembre l’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani si fa ricevere dall’assistente del segretario di Stato per avvertirlo della possibilità di una insurrezione sostenuta dall’Urss. Comincia così la vera guerra fredda italiana. Ad ottobre nasce la Cia che è succeduta all’Oss: giudica le forze armate italiane sufficienti per controllare una insurrezione, ma non per far fronte a un intervento jugoslavo. Monsignor Montini, il futuro Paolo VI e che sotto Pio XII fu un eccellente spy-master confermò al rappresentante diplomatico americano del presidente Truman l’appoggio morale della Santa Sede a un eventuale contro i comunisti. Il 27 novembre arriva al Viminale l’uomo duro dell’anticomunismo: Mario Scelba, in sostituzione del prefetto di Milano Ettore Troilo ex partigiano accreditato a sinistra. Gian Carlo Pajetta alla testa di un corteo partigiano occupò la prefettura e altri edifici pubblici milanesi. Togliatti e De Gasperi sdrammatizzarono la crisi e la disinnescarono. Era nato di fatto un primo compromesso storico fra la Dcfiloamericane e il Pci filosovietico. Una guerra fredda fatta di molte parole e larvate minacce sarebbe stata tollerata e considerata accettabile, dai tempi. Ma nessuno voleva sfracelli.

Storia d’Italia, il 1948: la “guerra” tra Togliatti e De Gasperi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Quando si dice “successe un Quarantotto”, si pensa a quello del 1800. Catastrofe rivoluzionaria, la Storia mise le macchine all’indietro tornando alle parrucche incipriate. Un secolo dopo, nel nostro 1948, finiva per sempre la finzione dell’unità antifascista. Fu l’anno delle elezioni vinte dai democristiani e perse dai comunisti, l’anno dell’attentato a Togliatti che – gravemente ferito – pensava soltanto a calmare gli spiriti e quando si risvegliò dall’anestesia chiese: che cosa ha fatto Bartali? Bartali aveva ricevuto un messaggio da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, che lo supplicava di vincere la tappa del Giro di Francia di quel giorno. Bartali era molto indietro in classifica. Aveva 20 minuti di distacco dalla maglia gialla. Speranze di rimonta zero. E invece quel giorno Gino, che era ormai vecchio, dette l’anima e vinse la tappa di Briancon dando quasi un quarto d’ora di distacco al campione francese Louison Bobet che pensava ormai di aver già vinto il Tour. Una impresa impensabile. Il giorno seguente vinse di nuovo sul traguardo di Aix les Bains, prese altri cinque minuti a Bobet e conquistò la testa della classifica. Che tenne fino alla fine: il 24 luglio vinse il Tour e gli scontri di piazza, in Italia, cessarono quasi per miracolo. La pace era salva. Gli italiani dimenticarono le revolverate a Togliatti esplose dallo studente Pallante e tutto finì bene. Un giornale satirico titolò: “Pallante ( cioè l’attentatore, ndr) condannato a venti anni di tiro a segno”. I comunisti, cacciati dal governo su richiesta americana e in base alle decisioni di Yalta, si lasciarono mettere da parte protestando solo il minimo sindacale. La Grecia che aveva voluto fare la rivoluzione era finita schiacciata dagli inglesi. Nel 1948 partirono la Costituzione e la vera guerra fredda, sia in Italia che nel mondo ma specialmente a Berlino. La città si trovava nella zona della Germania sotto il controllo sovietico (la Germania Est, cioè la Rdt) ed era a sua volta suddivisa in quattro zone: una ai russi, una ai francesi, una agli inglesi e una agli americani. Stalin tentò di bloccare il settore occidentale frutto della fusione delle aree americana, inglese e francese, scintillante di luci e vetrine aperte che adesso, cinta d’assedio, rischiava di soffocare. Fu allora che gli americani compirono una delle più vittoriose smargiassate celebrata con francobolli e musei: il ponte aereo. Centinaia, migliaia, decine di migliaia di aerei portavano o atterravano a Berlino Ovest per portare tutto quel che serviva all’intera città: latte e medicinali, vestiti e macchinari senza rallentare mai, senza far mancare un paio di scarpe. Stalin tentò di minacciare azioni aree militari ma lo zio Tom lasciò vedere le sue Colt alla cintura e Stalin che non era un giocatore d’azzardo, si ritirò. In Italia il Fronte Popolare di comunisti e socialisti perse le elezioni. Il fronte aveva come simbolo la faccia di Garibaldi, ma ne girava una versione di cui se capovolgevi Garibaldi vedevi Stalin. Io avevo otto anni e ricordo tutto. Era una guerra di fumetti, di cartelli, urla, carta, altoparlanti, gente che correva con pacchi di giornali e vendeva testate oggi scomparse. Qualche rissa, qualche revolverata, poca roba. Il Fronte perse. I democristiani stravinsero. Il cantore della sinistra Ivan della Mea, quanlche anno dopo mormorava alla chitarra: “Vi ricordaste del diciotto aprile, che avé votà democristiani senza pensare all’indomani, senza pensare alla gioventù”. I miei cugini comunisti erano “Pionieri” del partito e portavano il fazzoletto rosso al collo. Io quello dell’Asci cattolica, cioè i “Boy Scout”.. Loro leggevano il Pioniere di Gianni Rodari che odiavo perché era tutta una pippa simbolistica con Pomodorone grasso capitalista e c’era sempre un furbettino comunista che lo metteva in culo a tutti. Noi feroci anticomunisti leggevamo sul “Corrierino” capitan Cocoricò e il signor Bonaventura ricco ormai da far paura. Tirava anche un brutto vento da guerra religiosa: il papa per non sbagliarsi aveva scomunicato i comunisti e molti di loro, essendo cattolici, andavano a piazza San Pietro a urlare che loro credevano in Dio, ma anche a Baffone, un punto teologico molto controverso. A Piazza San Pantaleo, alla messa dei ricchi con la pelliccia come i ricchi di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, una ipertiroidea isterica e passionale vestita di rosso brandendo il foglio del partito urlava, “L’Uità! L’Unità! Ahò, v’avesse da fa’ male un pochetto de marchesismo-leninismo, sa? V’avesse da fa’ male”. Era come ai tempi delle vere guerre di religione quando valeva il principio secondo cui “cuius regio, eius et religio” e cioè: ti becchi la religione del tuo re, e zitto. Io ero di reame stracattolico anticomunista e mia nonna e mia zia e mia madre, tutte maestre, a luce di candela di sego fatta in casa, scrivevamo, con penne ad inchiostro col pennino e la carta assorbente, i risultati che diceva la radio su un quadernone ordinatissimo. Si sentiva che quelle elezioni erano per la vita e per la morte. Se venivano i comunisti, dicevano, sarebbero arrivati i russi e ti avrebbero impiccato papà e mamma, è questo che vuoi figliolo? No, padre, non lo voglio. E allora recita cinque pater ave e gloria, figliolo. Sì, padre. Facevo le elementari davanti al Pantheon, alla Palombella e con la stessa maestra Agnese Marcucci che era stata anche l’insegnante di Albero Ronchey: una rossa fiammeggiante con un seno prorompente, papista fascista nazista colonialista carducciana anticomunista. In classe avevamo il compagno Bartoloni, figlio di carbonaro comunista che ogni giorno si avvicinava alla cattedra e diceva: “Ha detto così mi’ padre che appena vincemo lui te viè a piantà ‘a bandiera rossa sulla cattedra e tu devi pià ‘a tessera der partito communista”. Agnese ci prendeva giusto: “Ahm, sì? E allora dì a tu’ padre che si s’azzarda a entrà co la bandiera rossa, lo faccio arestà da le guardie”. E continuavano per ore. Ogni giorno il mio compagno di Banco Alberto Limentani (erano più della metà ebrei di ghetto i miei compagni di scuola sfuggiti alla razzia del 16 ottobre del 1943) ogni mattina mi dava a bere di essere appena rientrato da Israele dove col suo piccolo aereo combatteva la guerra d’indipendenza e faceva volare il suo caccia con una matita incastrata fra mignolo e indice e sparava e io sparavo con lui e morivo d’invidia perché lui diceva parole straniere molto strane e forti. Infatti, le Nazioni Unite avevano autorizzato due Stati, uno ebraico e uno palestinese, ma la Legione Araba aveva vietato lo Stato ebraico e decise di distruggere la cittadella ebraica dove i combattenti erano ragazzini dell’Haganà che venivano dal ghetto di Varsavia. Stalin a quell’epoca sosteneva gli ebrei, ma secondo modalità molto particolari e veramente staliniane: a gennaio aveva fatto eliminare l’attore yiddish Solomon Mikkeli presidente del Comitato ebraico antifascista organizzato dal capo della polizia segreta Berija. Era stato il sottile Suslov, il futuro ideologo a convincere Stalin della slealtà del Comitato che aveva il progetto di dar vita ad una Repubblica ebraica di Crimea. La guerra arabo- israeliana si svolse quasi a mani nude e il segretario della Lega Araba, generale Azzam Pascià proclamò la “Jihad”, o Guerra Santa “come ai tempi delle invasioni mongole o delle crociate”. Il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin Al Husseini, invocò lo sterminio: “Fratelli musulmani, uccidete gli ebrei! Uccideteli dal primo all’ultimo”. A maggio, gli eserciti della Giordania, Egitto, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Libano, Sudan attaccarono Israele. Combatteva anche un contin­gente palestinese. Cominciò quella che gli israeliani chiameranno “Guerra d’indipendenza” ebraica. Più di 500 mila palestinesi fuggirono dalla Palestina cercando rifugio negli stati arabi vi­cini, nella speranza che la guerra contro gli “in­vasori” fosse rapida e definitiva. Gli eserciti arabi furono però inaspettatamente battuti ad uno ad uno dal nuovo esercito israeliano figlio di anni di clandestinità e di alta capa­cità tecnica appresa durante la Seconda guerra mondiale e degli ufficiali ebrei che avevano combattuto nell’esercito britannico e nella resi­stenza europea. Resisteva parzialmente, senza subire una vera disfatta, sol­tanto la Legione Araba dell’emiro Abdullah (o Abd-Allah), alleato ed armato dagli inglesi, guidato da Glubb Pascià, alias generale John Bagot Glubb, ufficiale di carriera inglese, pluridecorato della Prima guerra mondiale, noto come Abu Henek (“mento storto”, a causa di una ferita di guerra). La Legione occupò la Cisgiordania e una parte di Gerusalemme. Con questi nuovi frammenti territoriali lo sceicco Abdullah cambierà poco dopo nome al suo paese chiamandolo Giordania ed assumerà il titolo di re. Nel giugno del 1948 il leader dei comunisti cecoslovacchi Slànsky e il segretario del Partito comunista israeliano Shamuel Mikunis ottennero da Stalin l’autorizzazione a reclutare ebrei per combattere in Israele, ma poi il dittatore cambiò idea e li fece far fuori, compreso Slànsky. A dare il la sarà Ilja Ehrenburg con un articolo sulla Pravda in cui sostenne che gli ebrei sfuggiti all’Olocausto che non avevano scelto Israele erano ormai ansiosi di assimilarsi e aderire con zelo agli emergenti partiti comunisti staliniani”. Scrisse Mastny: “ furono spesso gli uomini preferiti da Stalin per lavori particolarmente sporchi, ma erano anche i più vulnerabili alle purghe una volta esaurito il loro compito”. Il 18 giugno del ’49 fu creato nella Cia, nata l’anno precedente e ancora piena di intellettuali dell’Oss ed ex combattenti antifascisti del “Lincoln Bataillon” della guerra di Spagna, l’Office of Special Projects “per pianificare e condurre operazioni clandestine, in coordinamento con il Joint Chiefs of Staff. Per motivi di sicurezza e di flessibilità operativa, e per ottenere il massimo grado di efficienza, l’ufficio progetti speciali opererà indipendentemente dagli altri componenti della CIA”. Le operazioni “Stay Behind” sono accorpate con le esistenti organizzazioni occidentali per la guerra psicologica e i gruppi di guerra clandestina inglesi e francesi. Usa Gb e Francia sono le sole potenze che nella Nato hanno accesso al “North Atlantic Military Committee Standing Group”, creato per coordinare “Stay Behind”. Questa operazione verrà poi esposta pubblicamente da Giulio Andreotti nel 1990 con il nome di codice italiano di “Gladio” e sarà al centro di un grande scandalo spionistico e politico. Chi adesso pagava veramente era la povera Cecoslovacchia, con un governo democratico legittimo, sottoposta alle cure del colpo di Stato Comunista. Stalin non scherza, l’America non scherza. In Italia c’è il grosso problema delle armi nascoste del Pci e la paventata capacità di mobilitazione. Molti partigiani si comportano come gli americani dopo la rivoluzione quando fu approvato il secondo emendamento: abbiamo diritto di portare le armi per difendere la democrazia, nessuno ci può disarmare. Questo fu il primo serio compromesso storico. La Dc in particolare accettava una smilitarizzazione graduale del Pci che mandava in bestia americani e inglesi. Esistevano convenzioni politiche e regole non dette. Togliatti garantiva che non ci sarebbero state insurrezioni, il ministero degli Interni in cambio non faceva troppi rastrellamenti. Dare tempo al tempo, era la massima. Ma intervennero molto fatti nuovi. La Costituzione entrò in vigore, e questo fu un fatto stabilizzante. Socialisti e comunisti si ritrovarono all’opposizione, e questo fu destabilizzante anche se previsto e poi ci fu l’attentato a Togliatti, segretario del PCI, ex numero due del Comintern a Mosca, ex responsabile sovietico nella guerra di Spagna dove si era occupato di far fuori trotskisti e anarchici, più che fascisti e franchisti e recuperare il tesoro spagnolo con cui farsi pagare gli armamenti sovietici. Dalla Spagna Togliatti era stato richiamato per firmare le condanne a morte del gruppo comunista dirigente polacco liquidato per spianare la strada della spartizione della Polonia tra nazional socialist tedeschi e comunisti russi. Davide Lajolo, direttore dell’Unità, ricordò: “Quando gli chiesi perché firmò quelle condanne ingiuste, rispose: se non l’avessi fatto, mi avrebbero ucciso e avrebbero comunque eseguito le condanne. A che cosa sarebbe stata utile la mia morte?”. Togliatti nel 1943, spinto a tornare da Mosca in Italia per ordine perentorio e notturno di Dimitrov, il numero uno dell Comintern, su ordine di Stalin, gli disse che occorreva in Italia un partito nuovo, largo, accomodante, aperto a tutti, non settario e che smussasse tutti gli angoli che rallentavano l’ultimo sforzo bellico contro Berlino: e fu il” partito nuovo” della volta di Salerno. Ma nel 1948 era cambiato tutto davvero e per sempre. Ovest contro Est, due patti militari opposti. La guerra perenne in Medio Oriente. La certezza che una prossima guerra fosse questione di anni, forse mesi. E che saremmo probabilmente stato inghiottiti nel sistema sovietico che non sembrava poi così allettante. Ma Stalin era popolarissimo, era l’angelo vendicatore, era la mano della giustizia, era un duro dalla parte dei poveri e dei derelitti. Non importava se fosse il più grande serial killer della storia (cosa che si sarebbe saputo soltanto con il XX Congresso del PCUS del 1956) e tutti erano gli uni contro gli altri armati: famiglie, regioni, credenti e miscredenti, c’era voglia di delazione e voglia di mangiare senza fondo. L’obesità dilagava. Non era praticata alcuna forma di rispetto reciproco. La guerra mentale era quanto di meglio potesse sostituire la guerra fisica. I prigionieri di guerra non si rivedevano. La gente scherzava e rideva e aveva voglia di dimenticare, di essere sguaiata, di fare sesso, di chiudere finalmente tutte le partite del dolore, ma quando queste cicatrici copriranno le ferite, nessuno se ne ricorderà più perché quella generazione stava già morendo e non lo sapeva.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1948

1 gennaio. Entra in vigore la Costituzione Repubblicana.

30 gennaio. Un estremista uccide a revolverate Gandhi, l’uomo che ha conquistato l’indipendenza dell’India dagli inglesi e il leader mondiale della nonviolenza.

22 febbraio. Golpe in Cecoslovacchia. Il partito comunista assume il potere.

18 aprile. Si vota in Italia. Lo scontro è tra la Democrazia Cristiana di De Gasperi e il Fronte Popolare che unisce i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni. Vince la Dc ottenendo quasi il 49 per cento dei voti (mai nessun partito, da solo, arriverà a questo successo record); il Fronte Popolare si ferma al 31 per cento.

1 maggio. In Grecia vengono fucilati 213 partigiani comunisti.

11 maggio. Luigi Einaudi, liberale, ministro del Bilancio e governatore della Banca d’Italia, viene eletto Presidente della Repubblica. Il suo nome viene scelto da De Gasperi dopo che il candidato ufficiale del partito, Carlo Sforza, era stato azzoppato dai franchi tiratori della sinistra Dc. Einaudi riunisce la Dc, ottiene il voto di liberali e socialdemocratici e sconfigge Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre.

14 maggio. Nasce lo stato di Israele.

5 giugno. Si apre il processo contro Rodolfo Graziani, capo delle forze armate nella Repubblica di Salò. Viene condannato a 19 anni di prigione, dei quali 17 condonati.

24 giugno. Le autorità filosovietiche della Germania Orientale proclamano il blocco di Berlino.

14 luglio. Uno studente di 24 anni, Antonio Pallante, spara cinque colpi di pistola a Togliatti ma non lo uccide. Disordini, incidenti, proteste violente in tutt’Italia. Togliatti, prima di entrare in Camera operatoria, raccomanda al suo partito di mantenere la calma.

30 settembre. Esce nelle edicole il fumetto Tex.

2 novembre. Rovesciando i sondaggi Henry Truman, democratico, viene rieletto presidente degli Stati Uniti, sconfiggendo il repubblicano Thomas Dewey.

10 dicembre. Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo.

Storia d’Italia, 1949: l’anno in cui diventammo il paese cerniera della Guerra Fredda. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Ricordo me stesso nel 1949 spaventato all’uscita di scuola perché non sapevo come digerire la notizia: la squadra del Torino, tutta quanta, era morta. Precipitati in aereo sulla collina di Superga. Era una notizia eccessiva come la guerra e non potevo separarmi dalle immagini delle figurine di quei giocatori e dal fatto che fossero morti. Gli anni, quegli anni, diventavano giorno dopo giorno più terribili. Poi, dopo, a decenni di distanza tutti avrebbero usato queste parole insignificanti come ricostruzione, pacificazione, democrazia, miracolo economico. Non c’era ancora nulla, nel 1949. La società che ricordo era mentalmente settaria e violenta, tutti molto aggressivi e ognuno con un suo conto da regolare, politico o umano.Tutte le famiglie o quasi erano uscite distrutte dalla guerra e la spaccatura della guerra fredda ci passava per le ossa. nelle famiglie, a tavola. Mia nonna si vantava di aver sfilato di tasca a suo figlio una copia de l’Unità. ma quell’anno, il 1949, fu un annus terribilissimus perché la guerra, quella prossima, era nell’aria e sembrava cosa fatta. L’America aveva rotto con la Russia e così la Francia e l’Inghilterra. Noi italiani non contavamo nulla, ma quando i grandi dell’Occidente decisero di formare un’alleanza anti-sovietica che si sarebbe chiamata “Alleanza Atlantica”, il governo De Gasperi chiese e anzi supplicò di accettarci fra i soci fondatori. Scoppiò la rivoluzione. A sinistra. I comunisti si indignarono: questa nuova roba atlantica altro non era che l’ennesima crociata contro i comunisti che hanno salvato il mondo dai nazisti: è un tradimento, una mascalzonata, un attentato contro la pace, la democrazia eccetera. Le cose non stavano proprio così: tutta l’Europa dell’Est, che Stalin aveva prima trattato con Hitler nelle clausole segrete del Patto di Non Aggressione dell’agosto del 1939 e che poi si era fatto riconfermare da Churchill e da Roosevelt, era stata sì assegnata come “zona d’influenza” all’Unione Sovietica, ma a condizione che la democrazia rappresentativa e le libertà fondamentali fossero state garantite. Invece nel 1948 un colpaccio di Stato aveva instaurato la dittatura del partito a Praga e lo stesso era successo in tutti gli Stati che da allora in poi furono chiamati “satelliti”. Inoltre, lo scisma del maresciallo Tito aveva sottratto all’impero sovietico la grande Jugoslavia che restava un Paese comunista, sì, ma “diverso”: molto legato agli inglesi, aperto al turismo occidentale, ma più che altro con l’arma al piede, se a Stalin fosse saltato in mente un colpo di mano: gli jugoslavi erano stati i soli, sia pure con un potente aiuto inglese (un figlio di Churchill collaborava strettamente con Tito) a vedersela con i tedeschi. Il fatto che Tito fosse ora l’uomo nero per Mosca e per tutti i comunisti ortodossi permise a Palmiro Togliatti di reclamare a gran voce il ritorno di Trieste all’Italia. Intanto, l’Italia – Paese che non era per nulla ben visto in Occidente – fece nel 1949 una pessima e maleodorante figura: un’inchiesta americana sul modo in cui venivano spesi dai Paesi beneficiari i soldi del piano Marshall, rivelò che l’Italia li stava sperperando in regalie per gli amici, giochi di potere e correnti, nulla di strutturale ma anzi di molto personale e vagamente mafioso. Fu uno scandalo internazionale che mise in grandissimo imbarazzo il nostro governo che balbettò, promise, face la faccia feroce e cercò di recuperare ancora una volta l’onore perduto. Ma nel frattempo avevamo, come Paese, guadagnato una posizione nuova e invidiabile che ci avrebbe reso moltissimo per mezzo secolo sotto ogni punto di vista, in particolare perché ci avrebbe permesso di giocare, secondo le circostanze con il piede in due staffe. Eravamo diventati il Paese cerniera e questo ci avrebbe dato molti vantaggi. Il fatto di avere il più grande partito comunista dell’Occidente, per di più un partito influente a Mosca e composto da un gruppo dirigente disciplinato in cui non prevalevano le teste calde che avrebbero voluto passare dalla Resistenza alla rivoluzione, era un fattore d’interesse anche per gli alleati. Interesse e pericolo allo stesso tempo. Il Papa, il principe romano Eugenio Pacelli, era un anticomunista oltranzista. Fece un pubblico discorso in cui dichiarò che santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica Romana era perfettamente d’accordo sull’Alleanza Atlantica che avrebbe tenuto a distanza i comunisti russi, considerati come il maggior pericolo per il genere umano. Gran parte del Partito socialista guidato da Pietro Nenni (allora molto stalinista che poi avrebbe capovolto la sua posizione restituendo il Premio Stalin che aveva ricevuto) si infuriò contro il Patto Atlantico e in molti gridarono in Parlamento che un’alleanza contro l’Unione Sovietica era da considerare come uno schiaffo al Paese che più di tutti aveva contribuito alla sconfitta del nazismo e ne nacquero molti tafferugli in aula. L’anno precedente erano stati infatti ritrovati a Berlino nella Wilhelmstrasse i documenti originari del cosiddetto “Trattato di non aggressione” fra Terzo Reich nazista e Unione Sovietica, contenenti le clausole segrete che prevedevano l’immediato intervento russo nell’invasione della Polonia (come accadde il 17 settembre del 1939) e l’attribuzione all’Urss dei tre Paesi baltici, Bessarabia, Romania e mano libera in Finlandia. I sovietici negavano ad alta voce e soltanto Michail Gorbaciov nel 1989 confermò che le clausole erano autentiche e che dunque l’Urss aveva tecnicamente iniziato la seconda guerra mondiale dalla parte tedesca. Nel 1949 nessuno era appassionato alla scoperta della verità, ma tutti avevano il coltello fra i denti, per cui il clima politico e nelle strade e nelle famiglie diventò violento, con tafferugli. In Parlamento l’ambiente era rovente, i discorsi erano tutti retorici e minacciosi, ma i numeri erano numeri e alla fine il Patto Atlantico passò e l’Italia entrò in quella che poi si chiamerà la Nato (Trattato dell’organizzazione del Nord Atlantico, benché fossimo nel Sud mediterraneo). L’Italia era diventata anche la terra delle spie perché Paese di frontiera fra Est ed Ovest e perché eravamo anche nel pieno crocevia del Medio Oriente. Abbiamo già raccontato quel che era accaduto nel 1948, quando le Nazioni Unite dettero mandato per la nascita di due nuovi Stati, uno ebraico e uno arabo palestinese, ma che quest’ultimo fu respinto con sdegno dalla Lega Araba che cercò distruggere il focolaio ebraico con tutti gli eserciti disponibili, restando alla fine battuta dal giovane Stato israeliano pieno di giovani che si erano battuti in Europa contro i nazisti. Era appena terminato l’esodo arabo dal nuovo Stato di Israele da cui erano fuggiti in 720 mila arabi che vivevano nelle regioni bibliche della Giudea e Samaria.In Israele i nuovi dirigenti Ben Gurion e Golda Meir tentarono di convincere gli arabi a restare rendendosi conto che si stava aprendo una piaga che non si sarebbe più riemarginata. Soltanto frange terroriste ebraiche spingevano verso la cacciata degli arabi, seguendo una linea di condotta sanguinaria che si era già mostrata con l’eccidio di Yeir Dassin. Gli arabi che accettarono di restare ottennero una cittadinanza pari a quella dei cittadini ebrei, con alcune limitazioni, come il non obbligo di prestare il servizio militare. Ma fino ad oggi gli arabi musulmani anti-israeliani cittadini dello Stato di Israele sono gli unici arabi musulmani con diritto di voto attivo e passivo, diritto di formare partiti, pubblicare e leggere quel che vogliono. I palestinesi dell’esodo che avevano lasciato i luoghi in cui nasceva Israele furono accolti con profonda ostilità dagli Stati arabi e furono costretti a concentrarsi in campi profughi dove diventarono di fatto il più potente strumento di pressione per ogni trattativa con Israele, strumento per pressioni reciproche e per i combattimenti contro gli israeliani. Intanto, centinaia di migliaia di ebrei che vivevano (anche da duemila e cinquecento anni) nei Paesi arabi, si spostano in Israele. Si registrano attacchi alle comunità ebraiche ad Aden, in Egitto, Libia, Siria e Iraq, dove il “sionismo” diventò un reato punito con la pena capitale. Il bilancio del primo rientro ebraico nei confini palestinesi fu di circa seicentomila persone che sostituirono, più o meno, gli arabi fuggiti. Seguirono degli armistizi di cui solo alcuni si trasformarono in trattati di pace, con l’Egitto, il Libano e la Giordania che si annesse la Giudea e la Samaria con il consenso dell’Inghilterra e del Pakistan, quest’ultimo un nuovo Paese di religione musulmana emerso dall’indipendenza dell’India dall’impero britannico. L’Italia si trovava a far parte di uno scacchiere che prevedeva uno stato di guerra più o meno permanente tra Israele e gli Stati arabi, con un nuovo elemento: il petrolio. L’Italia stava per liquidare una vecchia azienda di Stato che risaliva all’epoca fascista per uso agricolo, l’Ente nazionale Idrocarburi, l’Eni, quando furono trovati giacimenti di gas e petrolio in Italia e il nuovo capo dell’ente, Enrico Mattei, si improvvisò manager di una azienda che avrebbe combattuto da parti a pari con le “Sette sorelle” del petrolio mondiale e che avrebbe avuto un ruolo nuovo ed essenziale nella politica estera italiana, tutta volta allo sfruttamento delle risorse di gas e petrolio sullo scacchiere mediorientale. L’Italia aveva appena scoperto di aver posseduto con la Libia, ormai indipendente, il più grande lago di petrolio del mondo, ma si stava rifacendo con una politica molto sfrontata, aggressiva, quasi del tutto indipendente dallo stesso governo italiano. Nel mese di agosto arrivò la sorpresa tanto temuta: gli Stati Uniti perdevano ufficialmente il primato di unica potenzia atomica del mondo, perché l’Unione Sovietica faceva esplodere la sua prima bomba. L’Occidente non ne fu poi così scioccato. Si sapeva da anni che i sovietici seguivano gli americani a poca distanza e gli esperti statunitensi affermarono che il contributo spionistico offerto dai coniugi Rosenberg e di altri circa duecento agenti aveva accelerato il processo. Questa novità benché attesa e temuta strappava agli Stati Uniti un potere implicito anche se mai dichiarato: quello di poter inferire il primo colpo, senza dover attendere una risposta di parti intensità. Gli americani avevano dalla loro un buon nucleo di scienziati tedeschi portati negli Stati Uniti, capeggiati da Von Braun che era stato l’inventore dei missili “V2” con cui la Germania aveva bombardato Londra e che guiderà la ricerca spaziale americana fino alla conquista della Luna. Fra russi e americani circolava la battuta “i nostri scienziati tedeschi sono migliori dei vostri”. Intanto, un evento di portata mondiale e millenaria, se è ancora lecito usare aggettivi tanto pomposi, si concluse quell’anno: la Cina, questo enorme Paese eternamente malato, eternamente conquistato, frazionato, povero, dominato da dinastie e da stranieri (anche l’Italia aveva a Shangai la sua rappresentanza militare come ogni Paese occidentale coloniale) era stata conquistata dall’esercito popolare di Mao Zedong che proclamò la Repubblica Popolare Cinese. Il secondo Stato comunista del mondo diventato tale per una sua evoluzione e rivoluzione interna, dopo l’Unione Sovietica. La vittoria di Mao fu salutata come il più grande evento del dopoguerra da tutte le sinistre mondiali, anche in considerazione del fatto che sia Mao che gli uomini del suo Stato maggiore, fra cui Ciu Enlai (suo potente e coltissimo ministro degli esteri) venivano da una covata intellettuale che si era sviluppata in Francia, alla università della Sorbonne e persino negli Stati Uniti, dove un altro leader, il futuro presidente del Vietnam Ho-Chi-Minh, aveva lavorato per anni come cameriere studiando l’opera di Lincoln. La Cina era stata invasa dal Giappone negli anni Trenta che aveva creato uno stato cinese fantoccio in Manciuria, ai confini con la Siberia sovietica, dove proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale si registrarono feroci scontri tra giapponesi e sovietici. Si formarono così due eserciti cinesi di resistenza contro il Giappone: quello di Mao e quello nazionalista filoccidentale del maresciallo Chang-Kaishek che combatterono insieme contro gli invasori nipponici e poi si scontrarono fra loro e il vincitore fu il comunista Mao, al termine della sua “lunga marcia” durata ben nove anni spesi arruolando contadini. Il maresciallo sconfitto si ritirò nell’isola di Taiwan, che ancora veniva indicata con il nome coloniale di Formosa. Lì Chang governò mantenendo in piedi un esercito con cui sognava di tornare sul continente e riconquistare Pechino. Dopo la sua morte, Taiwan diventò un protettorato americano, ma dal punto di vista del diritto internazionale nessuno obiettò che l’isola apparteneva alla Cina che proprio oggi la rivendica con grande energia, come ha fatto per l’ex colonia britannica Hong Kong. Taiwan, insieme a Singapore, Hong Kong, la Cambogia e il Vietnam (per non dire dell’Australia) costituisce la più lacerante ferita nel fianco del regime di Pechino. Quando ero un giovane giornalista nel 1963 nella redazione de l’Avanti! ci davamo appuntamento ogni mercoledì e venerdì davanti alle telescriventi intorno alle 15 perché a quell’ora ogni settimana dell’anno, le batterie costiere cinesi bombardavano i disabitati scogli di Quemoy e Matsu, i più vicini a Taiwan, in segno di “grave avvertimento” del popolo e dell’esercito della Repubblica cinese. Ricordo che a quell’epoca era d’uso festeggiare l’evento brindando con pessimo spumante a temperatura ambiente.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1949

25 gennaio – Ben Gurion è eletto primo ministro di Israele.

3 febbraio – Inizia il processo a Budapest al cardinale Jozsef Mindszenty. Accusato di spionaggio. Ergastolo.

5 febbraio – Negli Stati Uniti viene pubblicatoil rapporto Hoffman. L’Italia è accusata di aver sperperato i fondi dle piano Marshall. In particolare è sotto accusa la decisione di Fanfani di dare alcuni miliardi all’Ina Casa per costruire case popolari.

5 marzo – L’ex procuratore generale dell’Urss Andrej Vysinskij diventa ministro degli esteri al posto del mitico Molotov. Anche Vysinskij è mitico: è il Pm che ha fatto condnanare a morte decine di alti dirigenti del partito, compreso Bucharin.

11-20 marzo – L’Italia aderisce al patto atlantico (NATO). Contrarie le sinistre. Dissensi nella Dc. Votano contro due nomi eccellenti: Luigi Gui e Giuseppe Dossetti.

4 Maggio – L’aereo sul quale viaggia la squadra di calcio del Torino – quella di Valentino Mazzola – si schianta sulla collina di Superga. Muoiono tutti: giocatori accompagnatori, giornalisti.

14 maggio – Riammessi al lavoro i dipendenti statali ex fascisti.

23 maggio –  Nasce la Repubblica Federale tedesca.

14 giugno – A Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, viene scoperto un gigantesco giacimento petrolifero. All’Eni inizia l’era Mattei.

29 agosto – L’Urss annuncia di aver costruito la bomba atomica.

1 ottobre- Mao Tse Tung annuncia la nascita della Repubblica popolare cinese.

16 ottobre – Finisce la guerra civile in Grecia. I comunisti sono sconfitti.

6 dicembre – Nasce il quotidiano Paese Sera.

Storia d’Italia, 1950: quando le Madonne piangevano e si cantava Bandiera rossa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Il 1950 lo ricordo per un fiasco. Un fiasco tutto di vetro, senza la paglia esterna, perché era di vetro anche quella. Sul collo del fiasco c’erano in rilievo quattro basiliche. Credo fosse l’anno mariano, o il giubileo, qualcosa di molto importante. Avevo dieci anni. E fu quell’anno in cui mia madre e sua madre, mia nonna Amelia dai capelli rossi come i miei (e di mio padre), mi avvisarono con tono grave e ufficiale che non potevo più essere considerato un bambino, ma un “fanciullo”. Propri così dissero: fanciullo. Parola che nel frattempo è morta. Godi fanciullo, stagion lieta è codesta. O i due fanciulli del Pascoli che se le davano di santa ragione nella pace d’oro dell’ombroso parco con “parole grandi più di loro”. Era l’anno di tante cose, la più terribile fu l’inizio della guerra di Corea che tutti percepirono come il ritorno della Seconda guerra mondiale. Ma colgo l’occasione per dare un’idea di che mondo fosse, perché ho imparato da anziano che se non ci capisce il contesto, non si capisce niente. I bambini erano per la metà figli di contadini con i pidocchi i capelli rasato, le orecchie a sventola e gli occhi bassi per rispetto verso i signori. Tuttavia nel 1950 ci furono sommosse contadine in Calabria per l’occupazione delle terre. Voi non avete idea delle sommosse contadine e per l’occupazione delle terre. I signori calabresi, in genere baroni, se la godevano a Napoli come intellettuali campando di rendita per gli sterminati ettari di sterpaglie da cui il contado doveva tirar fuori pane e companatico per sé e i baroni con villa sopra Posillipo. C’erano i contadini in rivolta e la polizia che interveniva con le camionette. L’ultima volta nel Lazio, ero presente qualche anno dopo, quando vidi uno squadrone di carabinieri a cavallo caricare a sciabola piatta i contadini che avevano occupato le terre incolte. Non ci scapparono morti, ma era un’altra Italia oggi estinta. E l’Italia del 1950 era cattolicissima, ateissima, comunistissima, tutto col superlativo. C’erano molti fascistissimi che si sentivano ancora in divisa e a scuola i compagni di classe figli di un padre soldato o ufficiale facevano il saluto al duce e poi si accapigliavano con quelli che cantavano bandiera rossa. Baffone – Josep Stalin – era ancora il più grande santo di tutte le icone e mezzo Paese contava sul suo avvento, una specie di santa invasione come quella di Mehemet Alì che invase Costantinopoli e tagliò la testa a tutti i cristiani che si erano rifugiati in Santa Sofia. Lo aspettavano a piazza San Pietro dove i cosacchi avrebbero – sceondo la vulgata più accreditata – fatto abbeverare i cavalli nelle fontane del colonnato del Bernini. Ancora non si cantava Bella Ciao, ma solo Bandiera Rossa e L’inno dei lavoratori che diceva: su fratelli, su compagni, accorrete in fitta schiera, sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. C’era una meravigliosa iconografia. La chiesa era tutta in latino, incenso, e apparivano ovunque le Madonne e tutti si davano la voce che c’era un a nuova Madonna alle quattro fontane e tutti andavano di notte coi fari e la vedevano piangere ma poi non risultava sulle fotografie. Mi capitavano degli arruolamenti per servire messa e seguire il baldacchino del Santissimo a San Carlo ai Catinari, che è una chiesa con la più grande collezione di teschi in marmo scolpiti ovunque e dovevi stare attento a dove mettevi i piedi cantando oremus domine non sum dignus orate fratres ideo precor beatam Mariam semper virginem e si andava così con un latino pasticcione e popolaresco che tutti recitavano, anche gli atei e i comunisti perché le iconografie erano vitali tutte, con enormi falci e martello, i rimasugli fascisti, le croci e le madonne. A scuola ci sommergevano di versi di Giovani Pascoli e Giosuè Carducci. Tutto a memoria. Mia madre, seriamente, per il mio compleanno e pensando di riempire un vuoto nella mia cultura e nella sua biblioteca, mi regalò in edizione di pelle e oro zecchino, le “Prose” di Carducci di cui non fregava niente a nessuno, quando invece avevo supplicato di avere un piccolo canotto gonfiabile per il mare. Non esistevano le pinne e ancora neppure la maschera col boccaglio, di cui giravano i primi esemplari fra le scorte dei soldati americani, gomma nera, vetro pesante, tubo di rame e tappo di sughero chiodato. D’altra parte, nel loro conservatorismo i miei mi mandavano in giro – unico e solo – con i pantaloni alla zuava (stretti alla caviglia) perché non avevo ancora l’età adulta del pantalone lungo e nei boyscout chiesero a lungo perché non fosse ripristinata la mantella blu dei tempi della Prima guerra mondiale. La mia maestra delle elementari, che ho già citato e che era una fascistona patriottica rossa anche lei e che fu la maestra anche di Alberto Ronchey con cui poi ce la litigammo nelle memorie, un giorno venne in classe tutta impettita, ci disse di aprire i quaderni, salì sulla cattedra e illuminata dal sole della finestra che dava sul Panteon, annunciò come se avessimo vinto una guerra: “Oggi le Nazioni Unite hanno affidato all’Italia un mandato speciale per l’amministrazione dell’ex colonia della Somalia”. Prendemmo nota con la penna di legno laccato e il pennino cambiabile che si ripuliva con lo straccetto e si intingeva nel calamaio in un buco del pesantissimo banco di quercia massiccia. L’anno prima i miei mi avevano portato a visitare Londra, viaggio in treno, ed ero rimasto sbalordito dal fatto che gli inglesi, che avevano vinto la guerra contro di noi, erano poverissimi dietro le trincee di sacchetti di sabbia, le donne guidavano il tram e per colazione ti davano le aringhe che, con mia sorpresa, trovai adorabili. Da noi si mangiava a quattro palmenti e ci era andata di lusso. Il bandito Salvatore Giuliano, che aspirava sui lavoratori a Portella della Ginestra con la mitragliatrice convinto di servire alti poteri anticomunisti e di potersi far accettare dagli americani, viene fatto fuori a Castelvetrano dal cognato Gaspare Pisciotta e la sua morte è sceneggiata in modo da sembrare l’esito di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Cesare Pavese, poeta e scrittore comunista, l’uomo di un Piemonte immerso in virtuoso silenzio protetto dal mare d’acqua, si uccide con i barbiturici e tutti si chiedono quanto ci sia di politico e quanto di personal eo di ideologico. Dall’America arrivava mensilmente la rivista Selezione dal Reader’s Digest, uno dei più formidabili strumenti di propaganda editoriale che penetra nella società italiana con storie che costruiscono nei lettori una disposizione nostalgica verso l’American way of life, così come faranno i fumetti di Disney firmati da Barker, senza contare il successo mondiale del cartone animato Cenerentola che riprende la lunga interruzione dal primo cartone a colori “Biancaneve” del 1937 di cui notoriamente era pazzo Adolf Hitler. Dall’America arrivavano i primi ritmi di un genere di musica evoluta dal boogie-boogie che poi sarà il Rock’n Roll, ancora in uno stato primitivo, elaborato dalle truppe sui fronti di guerra europei. La guerra di Corea, che non è ancora stata chiusa, fu un evento tremendo. Pochi erano persino al corrente dell’esistenza della Corea, così come più o meno tutti ignorarono l’esistenza della colonia francese del Vietnam che era già in grande agitazione indipendentista. La Corea era stata tagliata in due sul 38mo parallelo in attesa di elezioni generali ma il governo Nord, sotto gestione comunista filocinese, ruppe l’accordo e invase il Sud. Gli Stati Uniti promossero una coalizione dell’Onu guidata da loro con il leggendario generale McArthur che fumava una pipa di canna di mais, il quale riconquistò il Nord ma si trovò contro l’esercito popolare della neonata Cina comunista di Mao Zedong. Fu una guerra atroce e trermenda che l’America non vinse e nella quale morirono non meno di due milioni di soldati, prevalentemente cinesi. Il generale americano chiese il permesso alla Casa Bianca di usare l’atomica e conquistare Pechino., e fu licenziato in tronco. Nel frattempo, il generalissimo Chang Kai-shek, battuto dai comunisti, si imbarcò con tutta la sua armata per Taiwan che conservava il nome coloniale di Formosa, dove costituì una repubblica cinese anticomunista che ancora esiste e che Pechino o rivendica in queste ore come parte integrante della Cina. Lo fa sulla base degli accordi presi con gli americani nel 1978 dopo la rappacificazione avviata dal presidente Nixon con Mao, per mettere i bastoni fra le ruote dell’Unione Sovietica. Avevano tutti una paura dannata della bomba atomica e le dispense si riempivano di scatolette di carne e piselli. In compenso la gente si appassionava ai grandi processi criminali con le paginate sui giornali quotidiani. Il primo fu quello a Rina Fort, accusata di aver soppresso la moglie e i tre figli del suo amante. Un processone in cui furono pronunciate le più ottuse bestialità sulle donne e che comunque si concluse con un ergastolo per l’assassina. La guerra fredda conobbe un nuovo giro di vite: gli Stati Uniti inaugurarono ufficialmente la stagione che prende nome dal senatore Joseph McCarthy della Virginia, secondo il quale l’intera amministrazione statale è infiltrata dai comunisti, che agiscono come se fossero veri americani, ma che in realtà sono la quintessenza del non-americanismo. Bisogna ricordare che in America esiste l’aggettivo unamerican che non vuol dire antiamericano, ma semplicemente non americano. Ciò che suona falso come americano. Escono film su alieni che sembrano perfettamente umani (e americani) ma che hanno un microchip dietro la nuca che li fa agire secondo gli ordini di un mondo che vuole conquistare la Terra e che probabilmente ha la sua centrale a Mosca. Comiunciano i processi contro la maggior parte della gente del cinema e della letteratura, tutta più o meno di sinistra e che aveva vissuto la Seconda guerra mondiale anche come una crociata contro il nazifascismo sentendosi legittimamente alleata con l’Unione Sovietica. Tutti erano stato d’accordo nel deporre un pietoso velo sulla prima alleanza fra Hitler e Stalin dal settembre del 1939 al giugno del 1941, ma il comune sentire era ancora fortemente incline a vedere nella Russia sovietica un grande alleato, che stava trasformandosi in un nemico da arginare e forse da combattere con le armi. Tutti i comics, i réportage giornalistici e una parte del cinema si dedicarono alle malvagità che emergevano dai numerosi orrori che accadevano oltre la “Cortina di ferro” fra i paesi “satelliti” e l’Unione Sovietica. Questa nuova guerra raggiunse rapidamente punte di furore isterico, simmetrico a quello della controparte filosovietica anche in campi apparentemente neutrali come l’arte, la letteratura e l’urbanistica. Il nostro era un Paese cattolico e madonnaro strutturato sulle sezioni territoriali della Democrazia Cristiana, del partito socialista, di quello comunista, le stazioni dei carabinieri e le parrocchie, come nei racconti di Don Camillo di Peppino Guareschi. L’Italia di destra e di sinistra erano riunite in una comune diffidenza verso gli americani perché era chiarissimo che costoro non portavano soltanto pancake, popcorn, coccola, dentifrici, caramelle col buco e vitamine. Gli americani portavano una irresistibile ventata di libertà sessuale, di franchezza sessuale, sempre più esplicita e totalmente estranea alle tradizioni di un Paese come l’Italia che in materia di sesso era ancora totalmente bigotto. La resistenza all’innocente ed esplicito libertinaggio degli americani trovava un fronte curiosamente unito fra estrema destra ed estrema sinistra in Italia, dove Fanfani imponeva alle ballerine della Rai di indossare sulle gambe dei monacali “body” grigi.

Togliatti e i suoi angeli custodi. Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. Uno dei rimproveri era rivolto a Giuseppe Di Vittorio, in quel momento segretario generale della Cgil, la Confederazione generale italiana del lavoro, già perseguitato dal regime fascista, incarcerato, confinato e più avanti eletto all’Assemblea Costituente. Il rilievo mosso nei suoi confronti era: «Il compagno Di Vittorio abbastanza spesso quando deve intraprendere un viaggio in treno preferirebbe partire senza accompagnatore, accusandoci perfino di “dilapidare il danaro della classe operaia” (sic) acquistando biglietti per il compagno che ha l’incarico di seguirlo. Quando egli parte in macchina, specialmente alla volta di Cerignola, se i posti sono occupati da familiari egli lascia a terra l’accompagnatore». Il termine desueto che oggi può far sorridere — accompagnatore — era usato nel 1950 per indicare un militante del Partito comunista addetto alla scorta. Una guardia del corpo, compagnia della quale avrebbero fatto volentieri a meno anche altri dirigenti del Pci. Per esempio Gian Carlo Pajetta, che aveva vissuto in carcere circa tredici anni perché antifascista, e Umberto Terracini, che ne aveva scontati quasi dodici, inoltre sei di confino e poi aveva presieduto la Costituente. «Il compagno Pajetta più volte di sera è uscito senza accompagnatore (...). Spesso il compagno Terracini trova strano che il suo accompagnatore lo segua a teatro e ci va da solo», veniva riepilogato con disappunto. Morale ricavata dalle descrizioni: «Una seria vigilanza mai potrà realizzarsi se i compagni dirigenti considerano i compagni della vigilanza come “nemici”, o come dei poliziotti ai quali bisogna far perdere le tracce».

La relazione di Antonello Trombadori. Contrassegnata dalla dicitura «Riservata», la relazione che contiene queste frasi è datata 25 agosto 1950. Riguarda l’incidente di auto che, tre giorni prima, aveva causato al segretario Palmiro Togliatti un’incrinatura dell’osso frontale e la frattura di una vertebra. Evento con echi internazionali, l’infortunio del 22 agosto di settant’anni fa. Non un banale fatto di cronaca sulla statale tra Ivrea e Pont-Saint-Martin, lungo la quale era finita fuori strada l’Aprilia che portava verso le vacanze in Valle d’Aosta Togliatti, Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa. Che un camion, all’improvviso, avesse deviato il percorso dell’auto era una spiegazione insufficiente per Botteghe Oscure. Quali precauzioni non erano state adottate? Quali errori intralciavano la protezione dei dirigenti? Ne era derivata un’inchiesta, della quale il documento che abbiamo rintracciato nell’archivio del Pci conservato dalla Fondazione Gramsci era parte. A scrivere le otto cartelle fu Antonello Trombadori, responsabile della Commissione di Vigilanza. Le indirizzò alla «Segreteria del Partito». Per coglierne il senso va tenuto presente che due anni prima il Pci aveva due milioni e 99 mila iscritti, era il più grande partito comunista dell’Occidente e il 14 luglio 1948 il suo segretario era stato ferito a colpi di pistola da un attentatore. Il Partito comunista sovietico si era definito «contristato del fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile attacco». Nella ritrosia di alcuni verso l’essere scortati contava il sospetto che certi accompagnatori raccogliessero informazioni sui dirigenti per il vicesegretario del Pci Pietro Secchia e per Mosca invece di lavorare per Trombadori. Analizzato subito da molti, dal ministro dell’Interno all’ambasciata americana in Italia, l’incidente di auto riproponeva una questione simile. Era per dimostrare impegno nel garantire l’incolumità del segretario che la direzione del Pci, dopo l’attentato, aveva istituito la Commissione di Vigilanza. E la sicurezza mancata all’Aprilia sarebbe stata tra gli argomenti impiegati da Stalin, a fine 1950, per motivare la sua proposta di mandare Togliatti a Praga per guidare il Cominform, la struttura erede dell’Internazionale comunista. Un’offerta respinta dall’interessato. Già partigiano nei «Gruppi di azione patriottica», tanto colto quanto incline a romanesco sarcasmo, Trombadori nella relazione ricorse ai toni richiesti dalle circostanze. Seri. Alla segreteria consigliò: «Quale che sia la versione ufficiale che si preferisce dare alle cause del sinistro noi dobbiamo, in sede di lavoro, guardare in faccia alla realtà e riconoscere che soltanto l’elevata velocità (oltre i cento all’ora) e la sottovalutazione dell’ostacolo potevano provocare quanto è accaduto». L’incidente veniva addebitato a «inammissibile leggerezza dell’autista compagno Aldo Zaia». Con un’aggiunta indicativa di quanto i segretari di partito del tempo fossero potenti eppure non indiscussi, tuttavia, Trombadori metteva agli atti di aver chiesto in precedenza la sostituzione di Zaia e che era stata rinviata tra l’altro «perché il compagno Togliatti non riteneva pienamente giustificata la misura». Nessuno sapeva, allora, che in ottobre il segretario sarebbe entrato in coma e sarebbe stato salvato da un’operazione chirurgica al cervello. Tanti testi possono far conoscere che cosa sono stati i partiti di massa della cosiddetta «Prima Repubblica», interventi pubblici, resoconti di riunioni e così via. Ma uno spaccato eloquente è in questa relazione. Nella quale si osservava: «Soltanto apparentemente il compito di accompagnatore di Togliatti può essere simile a quello di una sentinella, in realtà quello che conta molto è la capacità che quest’uomo ha per far vivere insieme senza attriti i due autisti, i guardiani della casa, ecc, e lo spirito di iniziativa (...)». In altre parole, occorrevano capacità politiche. Anche per essere «accompagnatori».  

Marta Cartabia: «De Gasperi, riparatore di brecce e restauratore di case in rovina…». su Il Dubbio il 20 agosto 2020. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. «Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi». Questo splendido passo di Isaia (Is 58,12), a me molto caro, ci introduce al tema scelto con grande lungimiranza dagli organizzatori per la Lectio degasperiana di quest’anno: «Ricostruzione e Costituzione». La parola ricostruzione risuona da mesi nella riflessione pubblica ed è risuonata nel corso di questa estate, specie nelle ultime settimane, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ricostruito, appunto, dopo la tragedia del crollo di due anni fa. In quella occasione, l’architetto Renzo Piano, che ha donato il progetto del nuovo ponte, nel suo intervento di saluto, ha espresso, con parole bellissime, pensieri profondi da cui desidero prendere le mosse per la nostra riflessione odierna. Anzitutto, ha osservato, la ricostruzione è sempre figlia di una tragedia, di una frattura che non si cancella e non si dimentica; una ferita che non si rimargina – come ha sottolineato il Presidente della Repubblica nella medesima occasione – e diventa l’essenza stessa di quello che saremo. La ricostruzione incorpora, dunque, un passato che non si può ripristinare così come era, ma richiede un rinnovamento. Per ricostruire occorrono un’idea e un cantiere, prosegue l’illustre architetto e senatore. Un’idea, per dare forma a ciò che non l’ha più. Un cantiere, per realizzare quell’idea attraverso il lavoro, l’opera instancabile e tenace di una comunità di persone. 2 Similmente, la ricostruzione dell’Italia dopo la catastrofe alla fine della Seconda guerra mondiale, ha richiesto un ideale – che ha la stessa radice etimologica di idea – e un lavoro nato dal coinvolgimento di un popolo. In quella ricostruzione Alcide De Gasperi svolse un ruolo preminente, come uomo di pensiero e di azione. Anche allora c’erano tragedie, fratture, macerie e ferite non rimarginabili; anche allora fu necessaria un’idea per ridare forma nuova alla convivenza civile di un popolo disorientato; anche allora fu necessario un grande cantiere per ricostruire su solide fondamenta la casa comune. Oggi, come allora, – superate le fasi più acute dell’emergenza innescata dalla pandemia – siamo alle prese con una ricostruzione, avviata quando si è incominciato a pensare al “dopo”. A un “dopo” che difficilmente potrà assumere la forma di un semplice ritorno al “prima”, sia pure dopo una parentesi lunga, dolorosa e straniante, ma pur sempre una parentesi. In questo frangente, è più che mai fecondo riandare alle fonti della storia. (…).In questa prospettiva, ricco di spunti di riflessione anche per il nostro oggi è il percorso di un uomo, qual è Alcide De Gasperi, che ha fatto della ricostruzione una delle sue principali preoccupazioni e, soprattutto, il metodo della sua azione politica; un uomo che, non a caso, ha operato da protagonista sulla scena pubblica proprio in quel decennio della storia d’Italia che viene usualmente denominato «periodo della ricostruzione» dopo le guerre e il fascismo. Significativo è che il documento più organico in cui si possono rintracciare le linee di pensiero e di azione di Alcide De Gasperi rechi il titolo «Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» del 1943. Egli contribuì alla ricostruzione con pensiero e azione: idee e cantieri, per riprendere ancora la felice immagine usata da Renzo Piano. Il contributo di De Gasperi alla ricostruzione non può essere compreso disgiungendo questi due aspetti, che in lui furono sempre uniti. Il primo è quello più propriamente di pensiero, che egli ebbe modo di elaborare in particolare durante il periodo dell’“esilio” in Vaticano e del lavoro condiviso con gli esponenti del Partito Popolare e con i giovani che avevano preso a riunirsi dall’inizio del 1940 a casa di Sergio Paronetto. Qui si era incominciato a ragionare seriamente di ricostruzione. Tra le personalità che partecipavano a questi incontri, che sarebbero poi scaturiti nella redazione del Codice di Camaldoli del 1943, vi erano oltre allo stesso De Gasperi, anche Guido Gonella, Giuseppe Spataro, Mario Scelba, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari Aggradi e infine anche Giulio Andreotti. (…)La sua azione ricostruttiva, dunque, si muoveva contestualmente su una pluralità di piani e rispondeva a una «visione integrale» dei bisogni che urgevano. Tutt’altro che secondaria per lui fu altresì la componente morale e culturale. Il suo imponente “cantiere ricostruttivo” portò a risultati tangibili, da più parti qualificati come prodigiosi nella storia d’Italia e d’Europa, perché egli non trascurò mai il “fattore umano” nella sua integralità, convinto che «più che i programmi contano gli uomini che sono chiamati ad attuarli». (…)Veniamo più da vicino al tema della nostra riflessione che è «Ricostruzione e Costituzione»: ed è sul terreno costituzionale, a me più familiare, che intendo rimanere saldamente ancorata. È bene però sin da subito sottolineare che per comprendere il contributo così ricco e articolato, come quello che offrì De Gasperi alla ricostruzione costituzionale, occorre affrancarsi da una nozione meramente testualistica di Costituzione per abbracciarne una più ampia e ricca, che include la prima, ma non si esaurisce in essa. Le costituzioni nascono dalla storia e vivono nella storia. Il momento della scrittura di una costituzione è un momento epico nella vita di un popolo; eppure, solo con la scrittura, la Costituzione non può garantire se stessa. Occorrono soggetti sociali, politici e istituzionali che siano in grado di conferire alle scelte costituzionali solide fondamenta e radici robuste, capaci di reggere all’urto delle intemperie. Per questo rimane attuale l’intuizione fondamentale di Costantino Mortati che ci ha consegnato una nozione complessa di costituzione, risultante tanto dal testo scritto – la Costituzione formale – quanto dai rapporti tra le forze sociali e politiche – la Costituzione materiale. Ed è proprio su questo piano che si può apprezzare il lascito di De Gasperi. Infatti, chi si basasse solo sul processo di scrittura della nuova carta costituzionale, cioè si affidasse solo lettura dei lavori dell’Assemblea costituente, ne trarrebbe l’impressione di una assenza o di una presenza assai parsimoniosa: fatto salvo un intervento importante al momento dell’approvazione del futuro articolo 7 della Costituzione sui rapporti con la Chiesa cattolica, si annoverano altri due brevi interventi, all’inizio e alla fine dei lavori, e niente più. Se paragonato al contributo degli altri cattolici eletti in Assemblea costituente – Dossetti, La Pira, Moro, solo per citare alcuni nomi eminenti – l’apporto diretto di De Gasperi alla scrittura della carta costituzionale appare assai contenuto. Eppure, non errano quegli osservatori italiani e stranieri che attribuiscono un ruolo di spicco allo statista trentino in tutta la fase costituente. In anni recenti, un autorevolissimo osservatore esterno al dibattito politico italiano non esita a definire De Gasperi come vero e proprio leader carismatico della svolta costituzionale italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si tratta di Bruce Ackerman, eminente costituzionalista dell’Università di Yale, che nella sua più recente opera che indaga sulle origini e sulla legittimazione delle Costituzioni contemporanee riserva un ampio spazio alla nascita della Costituzione (…)La sua fu un’opera di “coibentazione” e consolidamento delle istituzioni repubblicane e della nascente democrazia, attraverso un’azione di politica interna ed estera che si svolse parallelamente ai lavori dell’Assemblea costituente, per assicurarne la permanenza al di là del mutare dei governi. De Gasperi aveva visto in prima persona cadere sotto i colpi del fascismo non solo il costituzionalismo italiano, ma anche la Costituzione di Weimar del 1919, avanzatissima nei suoi principi, ma fragilissima nella sua struttura, in cui non si era riusciti a trasferire al nuovo sistema politico la lealtà degli apparati del vecchio: un fallimento, quello di Weimar, che spianò la strada al nazionalsocialismo e all’ascesa di Hitler in Germania. (…)«Il Governo ora, fatta la Costituzione, ha l’obbligo di attuarla e di farla applicare: ne prendiamo solenne impegno. Noi tutti però sappiamo, egregi colleghi, che le leggi non sono applicabili se, accanto alla forza strumentale che è in mano al Governo, non vi è la coscienza morale praticata nel costume». De Gasperi veniva da lontano e guardava lontano: per questo vedeva nella stabilizzazione nazionale, europea e internazionale il necessario complemento all’operazione costituente, che egli perseguiva con la sua azione di governo, distinta ma parallela ai lavori della Costituente. Collocato in questo contesto di più ampio respiro, il numero limitato dei suoi interventi diretti ai lavori dell’Assemblea costituente è, dunque, un indicatore scarsamente significativo per valutare la reale incidenza che il pensiero e l’azione di De Gasperi spiegarono sulla configurazione del nuovo ordine costituzionale. Al contrario, la fase costituente fu segnata profondamente dalla sua azione. Tra l’altro, egli contribuì con un apporto decisivo ad alcune fondamentali scelte di metodo che agevolarono la transizione, permettendo che la Carta costituzionale fosse scritta in tempi relativamente brevi e soprattutto in un clima pacifico e collaborativo fra tutte le forze politiche antifasciste, anche nei momenti più critici e di maggior tensione. Si possono evidenziare tre punti: anzitutto la scelta per la Costituente in luogo del metodo insurrezionale; in secondo luogo la decisione a favore del referendum istituzionale; infine, la delimitazione dei poteri dell’assemblea costituente, escludendo dal suo campo di intervento l’azione di governo e la legislazione ordinaria. Sul primo fronte, occorre osservare che sin dall’epoca delle discussioni in sede di CNL si fece fautore dell’idea di una Assemblea costituente in opposizione all’ipotesi insurrezionale avanzata dai socialisti. Famose sono le dichiarazioni che egli pronunciò in sede di CNL: «Non temo la parola rivoluzione, ma ne ho fastidio dopo venti anni che il fascismo, richiamandosi ai diritti della rivoluzione, ha commesso tante soperchierie e violato i diritti dei cittadini. Ad ogni modo la vera rivoluzione è la Costituente». La vera rivoluzione è la Costituente. De Gasperi è lapidario. Le sue parole lasciano intendere che sullo sfondo si svolgeva una discussione condizionata dalla dicotomia restaurazione–rivoluzione, come se l’alternativa che si poneva alla fine del fascismo fosse un aut-aut: o un ritorno al passato, o un sovvertimento radicale, una palingenesi sociale da imporsi con il metodo insurrezionale. De Gasperi non si fa intrappolare nell’alternativa tra nostalgie e utopie. Dal punto di vista metodologico egli prediligeva la strada della ricostruzione, una terza via alternativa tanto alla mera restaurazione quanto alla radicalità della rivoluzione. E tale via passava attraverso una Costituente, democraticamente eletta. Il suo obiettivo era di assicurare alla nascente democrazia una prospettiva stabile e proiettata a lungo nel futuro, ben oltre il momento epico della fase costituente, cosa che la rivoluzione non era in grado di assicurare: «noi siamo preoccupati soprattutto di salvare nel futuro lo Stato democratico noi desideriamo il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione». Altrettanto netta è la sua posizione quanto al metodo per risolvere la questione istituzionale, nella scelta cruciale tra monarchia e repubblica. Questa alternativa era fortemente lacerante sul piano politico, lungo vari crinali che dividevano il paese. Per questo, la sua proposta fu sempre chiara nel voler sottrarre questo compito gravoso all’Assemblea costituente. Il nodo tra monarchia o repubblica doveva essere sciolto con un voto diretto da parte del popolo. (…)Il favore di De Gasperi per il referendum istituzionale era mossa anche dall’obiettivo di evitare che l’ombra della discussione su un punto così controverso, si proiettasse sui lavori dell’Assemblea costituente, avvelenandone il clima. (…). Egli non volle mai caricare l’Assemblea costituente delle funzioni di legislazione ordinaria, che vennero portate in capo all’esecutivo. Le uniche eccezioni erano costituite dalla legislazione elettorale e quella di ratifica dei trattati internazionali 9 Ciò si rivelò provvidenziale giacché permise di mantenere il clima di collaborazione fra tutte le forze politiche all’interno dell’Assemblea costituente anche nel corso del ’47, quando il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti portò a un progressivo inasprimento dei rapporti con i comunisti, culminato, nel maggio del medesimo anno, con la loro esclusione dal governo. Erano i mesi decisivi per la conclusione del Trattato di pace e, allo stesso tempo, per il perfezionamento del testo costituzionale. Le tensioni di quel momento sono impresse nella memoria di tutti per la forza delle parole con cui prese l’abbrivio il suo famoso discorso a Parigi al Palazzo del Lussemburgo, di fronte ai delegati delle potenze vincitrici: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. ho il dovere di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista ». A Parigi, come già a Londra, si trovò in un ambiente di freddezza e di sospetto. Ma parlò con nobiltà, come rappresentante dell’Italia, ma dell’Italia democratica; come uno che per la libertà aveva patito. (…)Questi tre interventi – l’Assemblea costituente, il referendum istituzionale e la distinzione dell’azione di governo da quella propriamente costituzionale – permisero di «gettare un ponte sull’abisso» e di giungere al più grande rivolgimento della storia politica moderna d’Italia nella 10 concordia, mentre altrove furono guerra civile, terrore e massacri, come egli stesso osservò nel suo discorso all’Assemblea costituente il 25 giugno 1946. C’è da chiedersi da dove De Gasperi attingesse una tale chiarezza di giudizio, una tale tenacia nell’azione e una tale creatività nell’individuazione di soluzioni praticabili e condivisibili, in un periodo così confuso e convulso, eppure così decisivo, della storia di Italia e d’Europa. Lascio a chi meglio di me conosce la sua storia personale individuare le sue risorse più profonde, che forse più adeguatamente possono rispondere a questo interrogativo. (…) La sua linea politica è orientata alla continua ricerca del centro, in modo da ricomporre le inevitabili polarità, guardando anzitutto ai fatti: di qui l’idea di ricostruzione che, come si è detto, non è restaurazione, ma neppure rivoluzione: «Il ricostruttore non s’indugerà in discussioni ideologiche alla ricerca dello Stato ideale né, d’altro canto, si lascerà turbare dai miti di una palingenesi rivoluzionaria», si legge nel Testamento politico che prosegue, richiamando ironicamente una battuta del politico belga Félix de Mérode: «Quando ordino un paio di scarpe il calzolaio prende le misure sul piede mio e non su quello di Apollo». La ricostruzione che egli propone è un metodo che parte dal dato di realtà, confida nella forza dei fatti e segue le tracce presenti nella storia così com’è. Tra tante, spicca una qualità della sua azione politica che, mi pare, derivi proprio dalla sua caratteristica di uomo di confine, sempre chiamato a camminare su un crinale, a muovere i suoi passi in ambienti impervi, insidiosi e severi: la qualità è quella di un realismo lungimirante. Certo, si potrebbe obiettare, c’è un realismo prigioniero della realtà stessa, che si risolve in un immobilismo, in pura fatalistica conservazione. Ma non è questo il realismo che caratterizza l’azione e, oserei dire, la vita di De Gasperi: la traccia che egli ha lasciato nella storia d’Italia e d’Europa è quella di un rinnovamento che pesca nell’esistente e ha un respiro di lungo periodo. La sua è una politica che pone le basi di alcuni orientamenti di fondo, alcuni dei quali si realizzano subito e altri matureranno nel tempo. Il suo è un realismo lungimirante, perché animato da grandi ideali, «impregnato di idealità», come ebbe già a scrivere nel 1922 su «Il Nuovo Trentino»; un realismo che lo accomuna ai fondatori dell’unificazione europea espresso nella famosissima dichiarazione del 1950 di Robert Schuman, anch’egli significativamente, uomo di confine. (…).In una lettera del 7 luglio 1928, scritta dal carcere mentre la sua famiglia si trovava in montagna per il periodo estivo, De Gasperi scrive: «Anche io sto preparandomi per una scalata di roccia sai dove sto esercitandomi? Nelle Malebolge dell’inferno dantesco, con Virgilio che dirige la scalata, senza corda e senza piccozza (per il pericolo del fulmine). Ma intanto (prosegue la lettera, introducendo una splendida citazione dantesca): Così, levando me su ver la cima D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia, Dicendo: Sopra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia. Non era via da vestito di cappa». 13 Il metodo di De Gasperi è tutto qui. Il cammino sicuro del montanaro, dal passo fermo che arriva senza dubbio alla vetta: «uno stile di concretezza, di rigore, di realismo, animato da una grande tensione ideale: è De Gasperi», come ricordava Pietro Scoppola qualche anno fa in questa medesima occasione, nella prima Lectio del 2004. Non è l’assenza delle avversità a permettere la ricostruzione e la rinascita, ma il saper discernere una strada percorribile che le attraversa e le supera, di un superamento che innova, di un’innovazione che non rinnega il passato, che non si arresta mai neppure di fronte a un ponte crollato, come nelle Malebolge dantesche: levando me su in ver la cima. Una via percorribile, indicata da una guida sicura; percorribile per quanto scomoda e impervia – non era via da vestito di cappa – erta, esposta e disagevole, lungo la quale il ruolo di chi conduce sta tutto nell’avvistare, passo dopo passo, un appiglio – avvisava un’altra scheggia – per potersi aggrappare e procedere nell’ascesa. E come l’alpinista sa bene, occorre sempre verificare che l’appiglio sia tal ch’ella ti reggia, che sia in grado di sostenerti, pena la rovina. Questo splendido passo della Commedia che egli regala alla moglie in uno dei momenti più bui della sua esistenza racchiude tutta la sua personalità e il segreto del suo “carisma”: un uomo con i piedi saldamente ancorati a terra e con lo sguardo rivolto in alto e lontano. 

Storia d’Italia, 1951: quando dalla radio uscì fuori il mondo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Nella scuola Emanuele Gianturco, al lato del Pantheon, erano venuti quella mattina gli ispettori speciali del ministero. Perché era un evento speciale di cui non capivamo niente ma ci faceva ridere perché l’evento era la Ceca, sigla che stava per Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e potete immaginare degli scolari piegati sul foglio a scrivere pensieri dementi sulla Ceca. Ma ci inflissero un preambolotto teorico con cui trasmetterci lo spirito di Ventotene di cui non sapevamo nulla, ma capimmo che si trattava di grande evento perché per la prima volta i Paesi europei invece di prendersi a cannonate si mettevano insieme per produrre carbone e acciaio. «Questo – ci disse l’austera signora del Ministero – è solo il primo passo di una cosa molto più grande che un giorno si farà e si chiamerà Europa». Ma non si chiama già Europa? chiese uno. «Sarà l’Europa unita, senza più guerre e un giorno si chiamerà gli Stati Uniti d’Europa». Bella idea e scrivemmo colonne e colonne di fogli protocollo riempiti di ridondanti ed enfatiche banalità. Però era successo qualcosa. Poi, c’era sempre questa guerra di Corea che adesso sembrava sotto casa. Era peggio della Prima guerra mondiale, dicevano, perché milioni di soldati si sparavano nelle trincee scavate nella neve ed era tutto sangue, urla dei feriti e morte. E cinesi, si diceva, che arrivavano a ondate. Non come uomini singoli, ma come masse liquide prive di individui distinguibili. Tutti uguali, i cinesi. E più le forze dell’Onu sparavano, più quelli tornavano. Era una guerra di cui arrivavano notizie militari e minacce pesanti alla nostra vita privata. La guerra che avevamo vissuto era finita solo da sei anni, e adesso parlavano di una nuova generazione di bombe atomiche che potevano far sparire un continente. Il tasso di rancore nella guerra fredda saliva in casa e nelle strade. Avevo undici anni ma ricordo perfettamente quanto quella guerra fosse globale. E poi la radio. La radio era tutto. Si aspettava quel segnale dell’uccellino della radio che preparava – un fischietto meccanico come un telegrafo che scandiva il tempo – all’ora esatta cui seguiva immediatamente la voce di uno speaker che si annunciava dicendo: «Giornale Radio». Non era un giornalista, uno di passaggio. Era come la voce della Bbc in Inghilterra. Era una voce solo maschile, grave, profonda, dall’ortoepia – cioè la pronuncia – corretta al punto tale che nessuna parlata regionale, neanche toscana, poteva eguagliarla per perfezione. Il Giornale Radio era pieno di ministri e di dichiarazioni, compilato sulle agenzie di stampa governative con pochissime interviste a personalità ufficiali, campioni sportivi o attori. Il trionfo della radio fu a novembre di quell’anno. Il 14 novembre il Po andò fuori dagli argini e sommerse il Polesine. Nessuno aveva memoria di una sciagura talmente grande, per di più vissuta in diretta, ventiquattro ore al giorno, comprensibile a tutti: fu la prima catastrofe naturale globalizzata d’Italia. Era l’Italia in cui la gente viveva attaccata alla terra come gli insetti e nella provincia di Rovigo fu un disastro perché quasi duecentomila persone furono cacciate di casa dalle acque e ci furono più di cento morti e parlavano tutti, il papa e i ministri i leader politici e si facevano sottoscrizioni che venivano annunciate alla radio vaglia per vaglia, lira per lira. Oggi siamo abituati alla televisione e a quel che succede con i terremoti, altre sottoscrizioni e racconti penosi. Ma la radio era una scatola di legno color noce o radica con un vetro su cui si leggevano i nomi di tutti i paesi e le città del mondo fra cui cercarti la stazione fra gli scrosci statici e sibili. Quando arrivò in casa una radio monumentale potentissima in cui bastava premere un tasto per avere la Rai o il grammofono incorporato, era qualcosa come Wi-Fi moltiplicato Netflix e potevi girovagare fra lingue mai sentite. Inoltre, la radio forniva sceneggiati fantastici pieni di cigolii sinistri, urla dal pozzo della vertigine, tutto il mondo di Edgar Allan Poe in particolare e le voci di comici surreali come il misterioso Alberto Sordi che ancora non aveva un volto. I gatti erano più frequenti dei cani negli appartamenti infestati dai topi e il nostro ne ha avuti almeno tre, tutti amatissimi. Questa faccenda della guerra alle porte era molto angosciosa. Gli Stati Uniti stavano preparando una bomba più potente di quella di Hiroshima che sarebbe stata all’idrogeno e anche i sovietici erano al lavoro fervente con i loro ordigni. In Italia le carriere degli iscritti al Pci e al Psi erano molto ostacolate, per non dire boicottate. Cresceva lo spionaggio e questo era un fenomeno comune all’Est e all’Ovest. La gente di destra o comunque anticomunista era sicura che da un momento all’altro arrivassero i cosacchi di Stalin per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro e permaneva nell’aria una vaga ipotesi insurrezionale. Togliatti e i dirigenti del Partito comunista scoraggiavano le fantasie di presa del potere con le famose armi nascoste e ben oliate (a intervalli regolari polizia o carabinieri trovavano qualche deposito di mitra Sten e qualche bomba) e una quantità di bambini saltava in aria sulle bombe inesplose della guerra. Era un bollettino quotidiano terribile di mutilazioni e morti. C’era grande fermento nell’agricoltura e in Parlamento era finalmente passata una riforma agraria molto più moderata di quanto avesse voluto la Cgil, ma comunque era davvero cominciata la fine del feudalesimo. Nel senso proprio: era stato deciso per legge che i retaggi feudali andassero rimossi, il che significava che da una parte cresceva una classe di ex servi della gleba che dicevano sissignore e mandavano i guadagni al padrone, dall’altra era l’inizio della fine di questa classe parassitaria e felice dei grandi proprietari agrari che delle loro terre se ne erano sempre fregati con un’entrata comunque garantita senza far niente. Sempre meno, ma erano comunque troppi. Stava cambiando proprio la composizione della materia italiana: la metà che era ancora terrosa e largamente analfabeta insieme alla borghesia più giovane che non vedeva ancora le prospettive che si sarebbero aperte con la grande ricostruzione, aveva già cominciato ad emigrare non solo negli Stati Uniti, ma nell’Argentina di Perón e dei suoi descamisados, particolarmente amati anche dai nostalgici fascisti e dai fuggiaschi del Terzo Reich tedesco. Anche il Brasile si riempiva di italiani, come l’Australia e- in Europa – la Francia dei rital (come venivano spregiatamente chiamati gli emigrati dal Paese che era stato loro nemico er poi occupante durante la guerra) e poi in Belgio, nel buio delle miniere e delle stragi nelle gallerie. Non era ancora l’Italia della Seicento e dell’Autostrada del Sole e tutte le aziende del nord cercavano di convertirsi nel tessile e proprio nel Polesine e nel Veneto, le donne e i bambini lavoravano giorno e notte intorno alla macchine da cucire per confezionare calze che poi i loro uomini con la valigia di cartone andranno a vendere in treno oltre le frontiere. Era arrivata la penna biro, o a sfera. Quella classica che gira ancora oggi di plastica trasparente con dentro la cannula con la sfera rotante. Fu una rivoluzione millenaria: non più inchiostro, non più macchie e per qualche tempo la scuola resistette all’ “americanata” della penna che poi si butta e c’era questa resistenza visibile verso il nuovo e il moderno. Le donne seguivano la moda sulle riviste della moda che puntavano tutte sulla moda elegante e sul bon ton, mentre dall’America arrivava una ventata di femminismo pratico: la donna come è, come vorrebbe essere, seducente e pratica. Il New Look veniva dalla Francia di Christian Dior e gli stilisti italiani, benché in erba, erano già determinati a competere e si gettavano in una mischia che avrebbe prodotto dall’anno successivo Palazzo Pitti. La moda era un’arte totalmente rinnovata che già aveva la forza di fare da volano per un mondo da inventare, o meglio di un mercato che già esisteva ma che non sapeva bene che cosa desiderare. Dai miei appunti di ragazzino romano vedo i pianerottoli delle case perbene carichi di materiali imprevisti: motori per auto, gomme per autotreni, scatole di medicinali. Erano arrivati gli antibiotici, già si moriva di meno con la penicillina che certamente a me aveva salvato la pelle almeno due volte. Ma ricordo una borghesia appena uscita dalle botte che cercava di fare affari, comprava e vendeva, modificava, viaggiava e – con grandissimo scandalo di mia madre che pure era una giovane bella donna – faceva sesso. La Chiesa era occhiutissima, le organizzazioni cattoliche erano fortemente sessuofobiche e quando maschi e femmine imboccavano la via dello sviluppo e dell’adolescenza, una rete di precauzioni era già pronta ad accoglierli separandoli per genere e spingendoli nel migliore dei casi a fare sport. Sport come antidoto del peccato. I giovani non facevano molto sesso. C’erano i casini ma non credo che fossero usati da una grande popolazione. C’erano amanti e mantenute (vari gradi della degradazione femminile) ma le ragazze avevano una paura fottuta. Portavano imbragature di reggicalze, calze, gancetti da spezzarti le unghie e poi erano terrorizzate da tutto: gravidanza, deflorazione, genitori, persino i fratelli e la sessualità era una faccenda del tutto sotterranea e leggendaria, se non catacombale. Il massimo che poteva accadere – con le dovute precauzioni – era il bacio o pomiciare (a Roma) o limonare ma si favoleggiava del petting (mani addosso per arpeggi improvvisati (i maschi avevano delle femmine una conoscenza pari a zero, non giravano foto anatomiche, la pubblicazione dei seni era vietata e si andava in galera, bisognerà arrivare ad un’esplosione non meditata di Cesare Zavattini vent’anni più tardi quando di colpo disse “cazzo” alla radio e l’evento fu festeggiato come se fosse comparsa la madonna. Ma le parolacce erano per solo uso maschile e le femmine concedevano poca promiscuità e sempre sul filo dell’infarto. Le donne erano uscite dal tunnel della moglie fascista cittadina o massaia o mungitrice e un anno prima del disastro del Polesine dalle risaie erano già uscite le gambe di Silvana Mangano e grandi fantasie erotiche sulle mondine di Riso Amaro di De Santis. Erano uscite fuori le gambe e la donna che lavora e che, essendo sola e bella e immersa nella melma, sa trattare alla pari gli uomini esattamente come nella letteratura afroamericana facevano le donne nelle piantagioni: “Sciùr parùn dalle belle braghe bianche, dame le palanche che andemo a ca’” era una canzone sia del lavoro che dell’indipendenza femminile e tutto ciò arrivava a sferzate, non faceva parte del mondo di prima, non faceva parte del mondo delle ginnaste, delle Giovani italiane e degli stereotipi, come invece succedeva – e i giornali ne erano pieni – nel mondo sovietico, dove le lavoratrici e i lavoratori somigliavano nel realismo socialista ai quadri italiani (e fascisti) di Sironi, in cui il corpo dei maschi e delle femmine appariva interamente dedicato alla costruzione della società ideale. Un’Italia che aveva voglia di divertirsi. Repressa, tante cerimonie religiose che non potete neanche immaginare, mesi mariani e novene, processioni e confessioni, per non dire del puritanesimo del Partito comunista in diretta concorrenza con quello democristiano. Lì, i socialisti cominciarono un po’ a fare razza a parte: aria libertaria, anche un po’ sporcacciona, parlavano sfrontatamente di contraccettivi, di aborto e amore libero anche per smarcarsi dai comunisti che già allora si ispiravano più a santa Maria Goretti che a Sophia Loren che aveva diciassette anni e si dava da fare con particine gloriose che di lì a poco l’avrebbero portata al contratto con la Paramount.

Storia d’Italia, 1952: quando Scelba bloccò la ricostituzione del partito fascista. Paolo Guzzanti de Il Riformista il  2 Settembre 2020. Per me (ma sono fatti miei, e però fatti che ancora mi segnano) il 1952 fu un anno terribile perché morì in casa la mia amata nonna Amelia, rossa come me, vedova di un giornalista assassinato, una combattente di ferro che amavo in modo incontenibile. Quando fu chiaro che stava morendo di cancro ai polmoni, lei che non aveva mai fumato, io lavorai con martelli e seghe per crearle un letto confortevole, con molti cuscini, posizioni, basi per bicchieri, e un bicchiere da usare come campana da far tintinnare. Poi, approssimandosi la sua morte non ebbi più la forza di guardarla e l’abbandonai. In un ultimo sospiro mi disse “Da te non me lo sarei mai aspettato” e io fuggii a Villa Borghese dove capitanavo una banda di ragazzini in guerra con altri ragazzini e il giorno della sua morte, quando tutte le rondini di Roma si levarono in un urlo nel momento finale, io rimasi stordito e non mi accorsi che la banda di Nasone aveva preparato un’imboscata dietro le palme dell’Orologio ad acqua, così persi la guerra e tornai a casa dove avevano spruzzato del cloroformio per preservare il cadavere di Amelia finché non la impacchettarono e portarono via. Tutto ciò è davvero personalissimo e non interessante, ma ognuno ha le sue giornate e i suoi anniversari, accadde sessantotto anni fa. Amelia, dopo la morte seguitò per qualche tempo a far tintinnare il suo bicchiere costringendomi a correre al suo letto smontato e apprezzai i suoi segnali, benché non creda a queste cose: in famiglia si decise tacitamente di non farne mai menzione per nessun motivo. Era dunque il 1952 e due furono i fatti oltre i fatti: una ragazzina adorabile diventò regina d’Inghilterra e la televisione cominciò a trasmettere il Telegiornale col mappamondo e una sigla che faceva parapappà-parapapà. Se non l’avete mai vista com’era, andate sui documentari per rendervi conto com’era fatta la ragazzina Elisabetta, a cui volavano le vesti come a Marylin, con la sorella Margaret, mentre fanno impazzire i marinai sulla tolda della nave da guerra che nel 1946 aveva portato la famiglia reale al lungo viaggio di ringraziamento in Africa. Questo ringraziamento dei reali era per tutto l’impero che aveva combattuto con tutti i colori della pelle e dei costumi, delle uniformi e i turbanti, i costumi e le insegne, nella Seconda guerra mondiale. Oggi non ne abbiamo più memoria: guardiamo l’Inghilterra e pensiamo alla Brexit, a Boris Johnson che si becca il Covid come Briatore e ai ragazzi nei pub. Ma, sapete, c’era una volta un impero. Lo dico perché lo ricordo: prendete un mappamondo e provare a immaginare che cosa fosse l’impero britannico che Churchill pronunciava – come ogni buon conservatore – “thi Empaaahh”. L’impero andava dal Canada ai Caraibi, dall’Egitto al Sud Africa, all’India col Pakistan, dall’Australia alla Nuova Zelanda, quelle terre che oggi fanno parte dei “Fine Eyes” i cinque occhi, che comprendono gli Stati Uniti, ma non il Sudafrica. Re Giorgio, il vecchio Bernie che aveva sempre balbettato (“The King’s Speech”, se ricordate il film) e che era stato costretto a fare il re al posto del fratello amato dalle folle, che volle sposare la divorziata americana Wally Simpson e che poi andò a fare la corte ad Hitler a Berlino, tanto che Hitler contava di rimetterlo un giorno di nuovo sul trono. Elizabeth era una ragazzina ciclista e volenterosa e si era innamorata di quello strafico greco che è il principe Filippo (per accudire il quale ha deciso di non esercitare quasi più i suoi uffici regali) sul quale gravava però l’ipoteca del Duca di Mountbatten, il king maker che finì sbriciolato sulla sua barca da una bomba islandese negli anni Settanta. Quando il re morì, Elisabetta viveva felice a Malta con suo marito Filippo, di cui era pazza, e lui faceva la carriera militare nella Royal Navy. La morte del padre era prematura e fece saltare tutti i piani: Filippo dovette lasciare la carriera e trasformarsi in una specie di cameriere consorte; lei smise di correre in bicicletta o guidare da scavezzacollo la sua jeep a Malta e tornò a fare la regina di una Piccola Bretagna che non era più l’impero più grande del mondo. Era successo all’Inghilterra qualcosa di simile a quel che era accaduto con la Prima guerra mondiale all’Austria, che da grande impero centrale fu ridotta a quella piccola nazione che è ancora oggi. Il mondo cambiava radicalmente. Comandavano ormai soltanto Stati Uniti e Urss: Churchill sapeva bene che quello era il prezzo richiesto dagli americani per pagare la salvezza della Gran Bretagna assediata da Hitler: noi vi salveremo, ma voi lascerete l’impero perché noi americani non ammettiamo imperi. Si potrà dire naturalmente che gli americani hanno il loro impero, ma mai tecnicamente: dalla guerra con la Spagna all’inizio del Novecento avevano trattenuto come colonia le Filippine fino alla fine della Seconda guerra mondiale, ma decisero che dovevano a quel popolo la libertà senza condizioni, anche per ricompensare il contributo filippino alla guerra contro i giapponesi. La Francia stava cominciando a perdere i suoi pezzi in Estremo Oriente, cioè nel Sud Est asiatico, le antiche colone del Tonchino del Vietnam, Cambogia e Laos con le loro città edificate imitando Parigi. I rivoluzionari comunisti che avevano combattuto contro i giapponesi avevano studiato tutti alla Sorbonne a Parigi, erano degli intellò cresciuti sotto la protezione del partito comunista francese e la Francia stava per andare incontro alla disfatta militare di Diem Bien-Phu. Il mondo stava cambiando molto radicalmente: non più imperi, re e regine (salvo Elizabeth), molta guerriglia nelle colonie dei Paesi europei che ne avevano ancora, come il Congo belga e le colonie britanniche, stava cominciando quella separazione del mondo fra americani, russi e terzomondisti. E da noi? La televisione. Ne avrete letto tanto e visto e molti di voi c’erano. Ma ricordate che cos’era un televisore? Un marziano tondeggiante in mezzo al salotto con tutte righine dentro che si distorcevano e potevate passare ore a regolare quelle righine lungo tutta la scala dei grigi. Poi, il telegiornale. C’era il martedì pomeriggio un telefilm western per i ragazzi. Qualche cartone animato, non voglio fare la storia della televisione, ma ricordare un’emozione. Io mi emoziono facilmente: dopo l’arrivo del colore non riuscii per anni a separarmi dallo stupore per il fatto che le immagini fossero a colori. E ricordo benissimo proprio l’incoronazione di Elisabetta seconda in diretta, in Mondovisione, una visione tutta distorta, da far schifo, ma era una diretta. Intanto il vecchio Winnie, Winston Churchill, era tornato ad essere primo ministro e annunciò con tono distratto che il suo Paese stava preparando la bomba all’idrogeno. Non se ne poteva fare a meno: russi e americani si erano già portato avanti, i francesi seguivano. Noi italiani non eravamo nessuno. Ancora ci odiavano per il fascismo e anche per aver cambiato fronte quando i tedeschi erano ormai sconfitti. Proprio nel 1952 l’Unione Sovietica mise il veto al nostro ingresso all’Onu, così come fece con il Giappone. Non ci volevano. Ma fummo arruolati nella comunità della difesa europea, cioè l’embrione poi abortito di un esercito europeo che non si è mai fatto e che avrebbe dovuto essere sottoposto al comando anglo-francese. Accadevano fatti dall’esito ignoto: un oscuro generale cubano, Fulgencio Batista, fece un colpo di Stato all’Avana per conto dei grandi casinò americani e prese il potere. I fratelli Castro e altri futuri ribelli studiavano dai gesuiti, In Italia Mario Scelba, il ministro degli interni di ferro, l’anticomunista intransigente (che io conobbi e intervistai sul letto di morte molti anni dopo) decise di varare una legge che mettesse al bando i fascisti vietando la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma. I fascisti dichiarati a quell’epoca erano milioni, per non dire dei monarchici che conquistavano il municipio di Napoli con il sindaco Achille Lauro, di cui si dice che regalasse una scarpa prima e una dopo il voto ai suoi elettori. Ma ricordo perfettamente questa Napoli del 1952 imbandierata con le croci Savoia, il nodo Savoia e tutti quei principi, duchi, e popolani monarchici. E poi, appunto, i fascisti che si organizzavano, celebravano, marciavano e menavano. Gli studenti fascisti passavano a vie di fatto – cioè menavano a pugni e con bastoni – nelle scuole e nelle università. La polizia picchiava e manganellava. Gli inglesi, persino, che amministravano una parte di Trieste, caricavano selvaggiamente i triestini che quell’anno manifestavano per il ritorno all’Italia sulle note di “Trieste mia” e “Vola colomba”, canzoni patriottiche da Sanremo, di un nazionalismo timido. Fu persino necessario bloccare il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, perché voleva formare alleanze con i neofascisti: Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti (suo numero due) si opposero e l’Italia cominciò a prendere una forma più definita: l’anticomunismo non impediva un radicale antifascismo, anche se cresceva la violenza sia verbale che fisica nella vita quotidiana. Agli americani però importava soltanto l’atteggiamento di chiusura e ostilità nei confronti dei comunisti e il Sifar, il nostro servizio segreto al centro di una serie di scandali futuri, seguiva le direttive americane per un maccartismo sempre più energico contro tutti i comunisti e anche i socialisti loro alleati. Lo stesso accadeva in Francia dove il Pcf, riemerso dalle ceneri della vergogna per aver appoggiato con trepidante entusiasmo l’alleanza militare fra Urss e Germania dal settembre 1939 al giugno del 1941, era diventato una forza politica potente e totalmente allineata sulle posizioni sovietiche, molto di più di quanto non lo fosse il partito comunista italiano di Palmiro Togliatti, che trovava sempre un modo sottile per evitare giudizi negativi su Stalin. La Francia, inoltre, era ogni giorno di più un obiettivo sensibile per le sue colonie, non soltanto in estremo oriente, ma specialmente in Nord Africa e in Algeria, dove si profilava uno scontro titanico prima della inevitabile rinuncia all’impero coloniale (benché ancora oggi la Francia sia un Paese europeo con colonie). Una visita del generale americano Ridgway a Parigi provocò moti di piazza repressi nel sangue, con scioperi generali e scontri. Era la guerra fredda nella sua versione quasi calda che provocava fiammate nel momento e nei luoghi più diversi. La Repubblica Democratica tedesca, cioè la Germania Orientale comunista, si fece il suo esercito integrato con quello sovietico, diventando la forza armata più temibile del nascente Patto di Varsavia, ancora non ufficiale, ma che sarà l’alleanza anti-Nato dell’Europa sotto controllo sovietico. Il mondo si spacca sempre di più, si contrappone, la caccia è aperta nei paesi delle ex colonie e ovunque si combattono guerra non dichiarate, insurrezioni popolari non tutte spontanee e gli eserciti occidentali costruiscono reparti antiguerriglia da usare in Africa, Asia e America Latina. Ma il colpo più potente lo sferra Mosca, sostenendo il colpo di Stato in Egitto di quattro ufficiali, fra cui l’astro nascente Nasser, che nazionalizzerà il canale di Suez e l’ingegnere egiziano Yasser Arafat, che fonda il nucleo dirigente del futuro fronte della liberazione della Palestina. Israele nel frattempo crea il più sofisticato e moderno servizio segreto del mondo, con regole e compiti che non condivide con altri. Il Mossad inizia la sua vita operativa dando la caccia nel mondo a tutti i gerarchi nazisti che l’hanno fatta franca. Gli Stati Uniti, dopo Harry Truman, eleggono il vecchio e saggio generale Dwight Eisenhower come presidente degli Stati Uniti, cioè colui che ha guidato gli eserciti alleati alla vittoria contro i nazisti. Una volta alla Casa Bianca, Eisenhower diventa un presidente bipartisan, non ossessionato dall’anticomunismo maccartista, ma piuttosto dai rischi di un eccessivo potere dell’apparato industriale-militare nato dalla concorrenza tecnologica con l’Urss nella guerra fredda. Il mondo sa di essere in bilico fra due blocchi, anzi tre. Nulla è certo, ma tutto è molto scuro e soverchiante. L’esistenzialismo come atteggiamento filosofico si sparge dalla Francia all’Europa e all’Italia, fino a sfiorare New York. Le canzoni esprimono venature angosciose e l’amore è ancora contaminato dall’idea di morte. Charles Aznavour canta “L’amour et la guerre” e i teatri si affollano per le commedie del nonsenso. Anche l’umorismo appare enigmatico o simbolico, come quello del rarefatto Renato Rascel.

25 gennaio – L’Unione sovietica, insieme ad altri quattordici paesi, pose il veto all’ingresso dell’Italia fra i paesi membri dell’Onu. Il nostro Paese entrò poi il 14 dicembre del 1955.

6 febbraio – A soli venticinque anni Elisabetta II diventa regina del Regno Unito e succede al padre re Giorgio VI. La sovrana è da allora alla guida della Gran Bretagna, al quarto posto nella classifica dei regni più lunghi della storia.

10 marzo – L’Esercito Nazionale di Cuba, guidato dal generale Fulgencio Batista, mise in atto un vero e proprio colpo di stato, stabilendo una dittatura militare nel paese.

24 aprile – Alcide de Gasperi e Giulio Andreotti impedirono a don Luigi Luigi Sturzo, in occasione delle elezioni amministrative, di formare liste civiche con il Movimento Sociale Italiano e monarchici in funzione anticomunista.

27 maggio – Italia, Francia, Germania Ovest, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo aderiscono al trattato Ced (Comunità Europea di Difesa) condividendo un unico esercito, la Forza Atlantica.

16 giugno – Il generale statunitense Matter Bunker Ridgway è in visita a Parigi e nella capitale francese: si verificano scontri molto violenti fra manifestanti e forze dell’ordine.

23 luglio – Entra in vigore il trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la Ceca.

A cura di Chiara Viti

Storia d’Italia, 1953: lo Stivale spaccato da guerre di religione. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Avevo dodici anni e, mentre camminavo verso il Senato, gli strilloni dei giornali (esistevamo gli strilloni che vendevano le copie sul braccio) gridarono: «È morto Stalin! È morto Baffone! I comunisti di tutto il mondo in lutto!». Era vero: era proprio morto Stalin. Non che lo conoscessi molto, ma da anni si parlava sempre soltanto di lui, che ci guardava dai manifesti. Ora descritto come belva, ora il buon vecchio Uncle Joe, come lo chiamavano gli americani, ma anche l’uomo nelle cui fauci milioni di persone erano sparite. Era ancora un’Italia da guerre di religione e la religione era un tema politico perché il Papa Pio XII era un anticomunista militante e proprio in quell’anno dagli Usa mandarono a Roma come ambasciatrice Clara Boothe Luce, una anticomunista ossessiva, sicura che i russi avessero avvelenato gli affreschi della sua camera da letto per ucciderla. Clara pretendeva di impartire al Papa lezioni di anticomunismo ed Eugenio Pacelli un giorno esplose: «Signora, le disse: la prego di credere: sono cattolico anch’io». Per fortuna, in quel 1953 si chiuse la sanguinosissima guerra di Corea con armistizio al 38mo parallelo, ancor oggi il confine che Trump ha varcato per stringere la mano al grasso ragazzo che «sparava razzi». Gli americani avevano avuto un altro bagno di sangue, più simile a quello della Prima guerra mondiale delle trincee che a quello della seconda. La Cina aveva perso quasi due milioni di soldati in Corea, mentre intanto il generalissimo Chiang Kai-shek (che con Mao aveva combattuto contro i giapponesi prima della resa dei conti) si era ritirato nell’isola di Taiwan con tutta la sua armata sconfitta. Chiang ricevette dagli americani armi sufficienti per una lunga resistenza e quella resistenza dura fino ad oggi, mentre si addensano su quell’isola e quei mari nuovi venti di guerra nel Mare del Sud della Cina e nello stretto di Formosa dove si sono radunate la flotta americana, quella australiana, l’indiana, la giapponese e perfino la Vietnamita, perché il Vietnam di oggi – scherzi della Storia – è alleato militarmente degli americani contro i cinesi. Il mondo del 1953 lasciò uova di serpente che ancora devono schiudersi. Intanto a Taiwan hanno varato una democrazia pacifista ecologica che attragga gli ecologisti in un fronte anticinese, mentre la Cina cerca di arrestare l’emorragia delle aziende come Samsung e Apple che fuggono dal suo territorio, provocando disoccupazione. Sempre nel 1953 a Bruxelles i sette nani della finanza e dell’industria cercano di trasformare la Comunità del carbone e dell’acciaio in un embrione di Europa. L’idea era caldeggiata dagli americani per un solo motivo: bisognava impedire che per la terza volta dopo il 1870, il 1914 e il 1939 il mondo finisse nell’apocalisse per la faida infinita tra Francia e Germania. Certo, il Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli e i padri fondatori, contava. Ma alla base della concreta idea d’Europa c’era il desiderio di riconoscere alla Germania la supremazia industriale purché rinunciasse ad avere un peso militare: le veniva assegnato solo il minimo sindacale per stare nella Nato, ma la sua fortuna sarebbe consistita nel rinunciare ai carri armati per produrre Mercedes e Audi, lasciando agli Usa il compito e la spesa della sicurezza, posizione che oggi Trump ricusa, tirandosi indietro dagli impegni del secolo scorso. Ci fu un grandioso e appassionante delitto nel 1953: il primo dei grandi delitti italiani e che passò alla storia come “caso Montesi”. Ne parlai con Gabriel Garcia Marquez, dopo aver scoperto che il grande scrittore era stato all’epoca inviato a Roma da Bogotà e aveva scritto tutto sul caso Montesi. Il caso consisteva nel ritrovamento del cadavere di una povera ragazza, Wilma Montesi, nuda e morta sulla riva del mare a Torvaianica. Di che cosa era morta? Non si sa. Dunque, tutte le ipotesi erano buone. Perché non cocaina? Feste fra ricchi potenti che divorano ragazze innocenti? Boss democristiani? E perché no. Non emerse nulla, ma il ministro Piccioni ebbe la carriera stroncata benché innocente. L’opinione pubblica chiedeva che si trovassero i colpevoli fra gli alti papaveri della Dc: era uscita la canzone Papaveri e papere cantata da Nilla Pizzi e per “alti papaveri” si intendeva gli intoccabili, viziosi politici nei cui festini si sacrificavano le sventurate ragazze del popolo. Tutto molto enfatico, con il quotidiano modernissimo Paese Sera (comunista) e Momento Sera (centrista) che uscivano con più edizioni al giorno, i reporter tutti usciti da un romanzo di Chandler, tutti a imitare gli americani, specialmente i comunisti. L’aria da guerra fredda soffiava sempre più greve. Intanto, sempre a proposito di guerra fredda, Charlot, ovvero il popolare comico inglese Charlie Chaplin si vide incriminato dagli americani come sospetto comunista e non tornò più in America fino al 1971 quando ricevette l’Oscar alla carriera. Intanto, sempre in quell’anno, coniugi Julius ed Ethel Rosenberg furono portati nella stanza della morte di Sing Sing di New York (oggi è un museo), legati alla sedia elettrica e – come dicono gli americani – “fritti”. Sembra non ci siano dubbi sul fatto i due – più probabilmente Julius – passarono i segreti atomici ai russi, Ma a mandarli sulla sedia c’era di sicuro il desiderio di vendicarsi contro i commies che avevano superato gli americani nella qualità delle bombe, essendo arrivati a quella al plutonio. L’esecuzione fu atroce, penosa, con le luci gialle che s’abbassavano quando la leva che dirottava l’energia era abbassata e i corpi tremavano davanti ai giornalisti seduti sulle sedie a distanza di sicurezza. Furono fatti friggere a lungo col fumo che usciva dalla calotta avvitata sul loro cranio, finché non morirono. D’altra parte, ancora si fucilavano reduci nazisti, anche con qualche irreparabile errore giudiziario. Le elezioni non fecero scattare la legge truffa, ma furono comunque vinte dal centro e dunque proseguirono i governi democristiani di coalizione, con socialisti di Nenni e comunisti di Togliatti all’opposizione. L’Italia cominciava a riprendersi industrialmente e i consumi crescevano. La moda italiana cominciava a imporsi su quella francese e le auto italiane godevano di buon prestigio. Anche l’alfabetizzazione procedeva, gli analfabeti diminuivano e la televisione era diventata il nuovo dizionario, teatro, maestro di scuola, amico, padre spirituale, scatola dei sogni. Nei paesi capitava che attori come Alberto Lupo, che recitavano il ruolo del cattivo, fossero inseguiti coi forconi. I lettori di telegiornali erano spesso applauditi o insultati per le notizie che davano. Il calcio e il ciclismo dominavano le fantasie dei ragazzi, specialmente maschi e costituivano la valvola di sfogo contro le frustrazioni collettive. Gli sport di massa funzionavano come antidepressivi e come eccitanti. E pochi fecero caso a una notizia che avrebbe cambiato la prospettiva della vita: la scoperta del Dna, l’acido desossiribonucleico sul quale sono scritte in lingua proteica tutte le nostre caratteristiche personali e di specie. La Chiesa non era molto contenta degli eccessivi progressi della scienza. Ma tutti furono felici quando a Roma si inaugurò lo Stadio Olimpico ospitando il match Italia-Ungheria. E nell’Est? Che fanno quelli dell’Est sovietico, adesso che Baffone è morto? Se ne sapeva poco. Si disse che gli ebrei avevano tirato un sospiro di sollievo perché Stalin stava per lanciare una purga contro i medici “cosmopoliti”, cioè ebrei, per fare un repulisti antisemita in tutto il partito. Qualcuno disse che gli avevano fatto la pelle. Quanto meno, nessuno aveva soccorso Stalin crollato a terra. Dopo un periodo di incertezza, in cui sembrava che avesse vinto l’obeso Malenkov, alla fine emerse il nuovo vero leader Nikita Kruscev, contadino e soldato che aveva lavorato a fianco di Stalin e di cui denuncerà le criminali malefatte al XX congresso del 1956. Per ora Nikita è un novizio che conta meno di Palmiro Togliatti e del leader cinese Mao Zedong. Quando gli operai di Berlino Est scioperano per orario di lavoro e salario, il partito dei lavoratori da Mosca gli manda i carri armati. È la prima strage, cui seguiranno quelle di Budapest e di Praga. Il cubano Fidel Castro, appena laureato, raduna in montagna un gruppo di rivoluzionari e decide di assaltare la caserma Moncada. Li prendono tutti e li mettono sottochiave, ma “l’assalto alla Moncada” diventerà l’inizio della rivoluzione. Gli americani si preoccupano: ma questo Fidel Castro, non sarà comunista per caso? Gli americani prendono la guerra fredda molto sul serio: e alla General Electric licenziano i sospetti comunisti. Ma dall’America arrivano anche nuovi oggetti e stili di vita, dalla caramella col buco ai cosmetici a basso costo e i dentifrici per un alito da drago alla menta, e svanisce il sentore delle ascelle e dei piedi in un Paese che era abituato a un bagno in bagnarola settimanale e qualche pediluvio nel bagnapiedi di zinco. Non si usava molto la carta igienica, sostituita da quella di giornale con cui si foderava anche il secchio dell’immondizia che gli immondezzai prelevavano dietro la porta di casa con dei grandi sacchi di juta. I preti erano vestiti come don Camillo e non trovavi un gay neanche col lanternino. I padri e le madri mollavano schiaffoni senza risparmio e i figli se li prendevano zitti, con le orecchie rosse e la testa bassa.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1953

5 marzo. Muore Stalin.

31 marzo. Approvata dal Parlamento italiano la nuova legge elettorale, che le opposizioni chiamano la “legge truffa”. Assegna il 65% dei seggi alla coalizione di liste che raggiungeranno il 50 per cento dei voti.

11 aprile. Una ragazza di 24 anni, Wilma Montesi, viene trovata morta nella spiaggia di Torvaianica. L’inchiesta diventa un giallo politico. Finisce sotto accusa un gruppo di ragazzi della Roma bene che avevano tenuto un festino in una villa lì vicino. Uno di questi ragazzi è Piero Piccioni, figlio di Attilio, probabile successore di De Gasperi alla guida della Dc. La carriera politica di Attilio è travolta. E anche la vita del giovane Piero, che risulterà poi del tutto innocente.

17 aprile. Il grande attore e regista Charlie Chaplin annuncia che non tornerà più negli Stati Uniti dove è stato messo sotto accusa dai maccartisti che sostengono che sia comunista.

17 maggio. A Roma viene inaugurato lo stadio Olimpico con la partita di calcio tra Italia e Ungheria (l’Ungheria, in quegli anni, è considerata la più forte nazionale del mondo).

29 maggio. Un alpinista neozelandese e uno del Nepal conquistano l’Everest, cioè la vetta più alta del mondo.

2 giugno. Elisabetta è incoronata regina d’Inghilterra.

7-8 giugno. Si svolgono le elezioni politiche in Italia, la legge elettorale non scatta perché nessuna coalizione raggiunge il 50 per cento dei voti. La coalizione centrista (Dc, Psdi, Pri e Pli) candidata a ottenere la maggioranza assoluta, si ferma al 49,85 per cento.

19 giugno. A New York vengono uccisi con la sedia elettrica i fisici Julius ed Ethel Rosenberg, marito e moglie, con due figli piccoli, accusati di avere passato segreti militari ai sovietici per costruire la bomba atomica. In tutto il mondo clamorose proteste antiamericane.

26 luglio. Fidel Castro dà l’assalto alla caserma Moncada. Militarmente è un fallimento ma di fatto inizia la rivoluzione cubana.

28 luglio. De Gasperi si presenta alla Camera per avere la fiducia sostenuto solo dal suo partito e dai monarchici. Non ottiene la fiducia. Finisce la carriera di De Gasperi che morirà l’anno dopo, Anche la famosa legge truffa viene cancellata dal Parlamento. Il nuovo presidente del consiglio è Giuseppe Pella.

7 settembre. Il comitato centrale del Pcus elegge Nikita Krusciov segretario generale del partito. Krusciov è il commissario politico che guidò la resistenza di Stalingrado. È lui il successore di Stalin.

Storia d’Italia, 1954: dalla nascita della Tv al caso Montesi che stroncò la carriera di Piccioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Gli americani avevano già portato il dentifricio Colgate, la caramella col buco Life Saver, il tostapane e il burro di arachidi ma nel 1954 ci scaricarono il Rapporto Kinsey: tutto sul sesso. Nell’Italia d’allora il sesso era interdetto – come argomento – alla maniera di un paese islamico, o anche cattolico e perfino comunista. Un po’ tutta l’Europa era così. Gli inglesi dicevano che di due cose non si deve parlare esplicitamente: dei servizi segreti e di quel che succede in camera da letto, perché tutti sappiamo di che si tratta e non è proprio il caso di parlarne. invece il Rapporto Kinsey frutto di anni di studio, interviste, filmati, tutto pubblicato sul settimanale italiano Oggi. Uno shock, uno scandalo, una avidità repressa e anche un grande senso di liberazione. Dunque, a quanto pare, tutti in tutto il mondo, uomini donne e gay, copulano, si accoppiano, ma diciamolo pure, scopano. O se preferite si accoppiano, mettetela come vi pare. Si parlava anche di masturbazione con dettagli da far svenire le madamine per bene, e – senza un velo di riguardo, nemmeno allusivo – di rapporti anali. La Chiesa la prese malissimo ma la gente non parlava d’altro. Non per questo si può dire che il 1954 fosse un anno felice. Tutti nodi seguitavano a venire al pettine: il caso Montesi si ingigantiva benché non uscisse fuori nulla e il ministro Attilio Piccioni dovette dimettersi per il coinvolgimento di suo figlio nelle serate con Wilma Montesi, la giovane morta trovata sulla spiaggia. La storia di Trieste finalmente arrivava a una fine anche diplomatica col passaggio definitivo all’Italia. La Germania smetteva di essere la nazione punita ai margini della comunità – come era accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale, con vessazioni che spianarono la strada ad Hitler– e già esistevano in natura, colpivano paesi e investivano dighe quelle che oggi con orgoglio neolinguistico chiamiamo “bombe d’acqua”. Il 13 gennaio in Austria una bomba d’acqua spianò il villaggio di Blons e uccise duecento abitanti. Nessuno le chiamava così perché i feroci acquazzoni con frane morti e dispersi erano all’ordine del giorno. Era finita l’epopea di Alcide de Gasperi, aveva tentato Amintore Fanfani e fallì, sicché ci provò il ministro di polizia Mario Scelba, l’uomo della “celere” col manganello, ma anche quello che aveva messo al bando ogni possibile riedizione del partito fascista. L’Unione Sovietica perfezionava la sua penetrazione in Egitto appoggiando il nuovo rais Gamal el-Nasser il quale pretenderà da Mosca la gigantesca diga di Assuan, un nuovo esercito fiammante in grado di distruggere Israele e un esercito di istruttori capaci di far funzionare il Paese. Marilyn Monroe non era ancora considerata la bimba del sesso che diventerà fra poco, ma intanto sposa Joe Di Maggio, un super-palestrato italo-americano eroe nazionale di Baseball. Prossimo talamo, Arthur Miller, intellettuale e commediografo. Si chiude anche, con l’eliminazione di Gaspare Pisciotta (il cognato killer per conto dei carabinieri) la faccenda del bandito Giuliano, chiudendo molte bocche che non potranno mai più raccontare la pazzesca avventura dell’esercito separatista, su cui avevano contato in molti prima di liberarsene per sempre. La Dc palermitana resta turbata e spaccata e molti anni più tardi il “resident” del KGB a Roma venne nella Commissione d’inchiesta che presiedevo per raccontarci una serie di spregiudicate operazioni fra americani e russi, condotte in Sicilia e su cui è difficile fare la tara.

I guai grossi cominciano però in Vietnam, una delle colonie francesi nel sud-est asiatico che durante la guerra patriottica contro gli invasori giapponesi si era battuta con valore e che dopo la guerra non aveva alcuna voglia di tornare sotto Parigi. I francesi non si resero minimamente conto di quel che li aspettava e pensarono di avere di fronte dei guerriglieri “Viet-minh” (che gli americani si chiamarono Vietcong”) e invece si scontrarono con uno dei più poderosi eserciti in uniforme del mondo, armato sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina comunista e ben diviso in divisioni, reggimenti e compagnie con un’artiglieria di prim’ordine e per di più affiancato da un esercito partigiano di sostegno in larga parte femminile che aveva portato a spalla su per le montagne, ben smontate, tutte le armi necessarie per la battaglia finale che si combatté sull’altopiano di Dien Bien Phu. La stampa francese criticò in modo sprezzante lo Stato maggiore per l’invio di un vero esercito in Indocina, con quella che sembrava una smisurata potenza di fuoco che aveva spedito in Vietnam per combattere quattro straccioni di guerriglieri nascosti nella giungla. Capirono troppo tardi di trovarsi nel mezzo di una battaglia campale più simile a quella combattuta fra americani e tedeschi nelle Ardenne che a una scaramuccia coloniale. L’esercito francese vide emergere dall’altissima vegetazione grandi pezzi di artiglieria pesante di fabbricazione russa e cinese. Per l’opinione pubblica francese e poi europea e infine mondiale fu un grande shock. A primi del 1900 una potenza asiatica, il Giappone, aveva vinto e umiliato una potenza europea come la Russia zarista. In Corea gli americani erano stati costretti ad arretrare fino al 38mo parallelo da cui erano partiti, e adesso stava accadendo di nuovo: il più forte esercito continentale europeo era tenuto in scacco in mezzo alla giungla da un esercito modernissimo portato sotto le gallerie ed emerso dal nulla. di cui non avevano idea. La battaglia fu lunga e sanguinosa, ma alla fine i francesi dovettero arrendersi e umiliarsi, chiedere e firmare la propria resa. La cosa più interessante, nel corso di questa guerra, fu il ruolo americano: gli americani che avevano sostenuto lo smantellamento dell’impero britannico e l’indipendenza dell’India e dell’Egitto, adesso parteggiavano più o meno apertamente per i vietnamiti e i cambogiani che smontavano l’impero francese. Occorreranno quasi dieci anni prima che gli americani decidano, cotto Kennedy, di sostituirsi ai francesi e perdere, dopo altri dieci anni, un’altra guerra sanguinosissima che terminerà con la fuga degli americani da Saigon aggrappati agli elicotteri che decollavano dalla terrazza dell’ambasciata. Ma nel 1954 gli eroi della guerra antifrancese, Ho Chi Minh, Giap e i cinesi Mao e Chu En Lai erano per lo più grandi ammiratori dell’America che aveva vinto la Seconda guerra mondiale, che aveva sostenuto la Cina. Inoltre, il personale politico delle forze anticolonialiste parlava francese e inglese avendo studiato a Parigi ed essendosi formato sul modello del partito comunista francese. Nello sport il ’54 fu l’anno dell’epico scontro calcistico per la finale dei Mondiali fra Germania Occidentale e Ungheria giocata a Berna il 4 luglio. La Germania vinse 3-2 ma l’eroe celebrato da tutti gli spettatori fu il capitano ungherese Puskas (che fuori dal campo era arrivato al grado militare di colonnello), che segnò tutti i gol della sua squadra, più l’ultimo annullato. E accadde in quel giorno, quasi dieci anni dopo la fine della guerra, qualcosa che dal 1939 non si era più vista: una bandiera tedesca, della Germania occidentale chiamata RFT, salì sul pennone di uno stadio di calcio, accompagnata dalle note dell’inno tedesco. Ciò fece molto piacere ai tedeschi, anche se non entusiasmò il resto del mondo. Ma in Germania già cresceva una nuova generazione che chiedeva rispetto: noi non siamo i nostri padri, siamo innocenti e non vogliamo portare sulle spalle il peso del passato altrui. Del resto, gli ungheresi di Puskas erano allora i maghi del football per eleganza, intelligenza e capacità di sorprendere. Tutti i ragazzini europei giocavano a calcetto nelle strade minacciandosi il mitico “tiro ungherese”. Puskas dopo Berna tornò in patria come un eroe nazionale, ma quando due anni dopo si trovò in Spagna mentre i carri sovietici entravano a Budapest per schiacciare la rivoluzione antirussa, se ne resterà prudentemente in Spagna per diventare una delle stelle del Real Madrid. Il mondo si stava consolidando, Nikita Krusciov era ancora un oggetto sconosciuto, con quella sua faccia da buon contadino, di cui molti conoscevano il passato di ottimo ufficiale e di uomo fedele a Stalin anche negli anni del terrore. L’idea che l’Europa possa costituire da sola un proprio esercito unito e indipendente da quello americano e russo, fallisce bocciata dal Parlamento francese che non aveva alcuna intenzione di sciogliere la Francia nel resto dell’Europa. La Francia, come l’Inghilterra vuole la sua propria bomba atomica e la sua indipendenza di manovra, essendo ancora una delle potenze coloniali e per di più subito dopo aver perso una grande colonia in una umiliante sconfitta coloniale, cosa che stava causando un ritorno del nazionalismo e dell’isolazionismo francese, che aveva serpeggiato anche durante l’umiliante occupazione e collaborazione con i tedeschi. Intanto Achille Compagnoni e Lino Lacedelli scalano il K2 con Walter Bonatti guidati da Ardito Desio e tutto il mondo ne parla e sugli schermi del pidocchietto (cinematografi da quattro soldi, generalmente dei preti) tutti vanno a vedere il cinegiornale dell’impresa. Certo, anche la tv ne parla, ma per vedere la tv bisogna ancora stare tutti accatastati in cucina intorno all’enorme tubo catodico, o nei bar dove te lo appendevano sotto il soffitto. Così, quando l’immagine scarrucolava, qualcuno doveva salire sui tavoli e perché non esisteva il telecomando. A fine estate, dopo aver risolto la questione di Trieste tornata all’Italia, dopo aver riammesso la Germania nel salotto buono con la partita contro l’Ungheria e la sua ammissione nella Nato, quando insomma tutti sognavano un autunno mite e glorioso, ecco che arriva la bomba d’acqua. Di quelle catastrofiche fece franare la Costiera Amalfitana da Cava dei Tirreni a Vietri, Maiori, Minori fino a Salerno, causando più di trecento morti e seimila senzatetto. L’Italia del fango e dello smottamento si conferma la vera frontiera italiana. Il Paese non si regge e si inginocchia sotto i mutamenti climatici, ma anche sotto i temporali. Ma va peggio alla Francia, che non ha ancora digerito la sconfitta indocinese e si trova di nuovo in guerra con la più amata e francesizzata delle sue colonie: l’Algeria, guidata dal Front de Libération National, che alla fine la Francia perderà per referendum e che causerà la più grande trasmigrazione di residenti africani, arabi e coloni, i cosiddetti “Pieds Noirs” sul suolo francese. Ma sarà una lunga e terribile guerra che contorcerà tutta la politica europea e mondiale. È cominciata una nuova era: quella delle guerre non dichiarate, ma guerre di fatto. Le insurrezioni anticoloniali guidano questa nuova tendenza che farà delle guerre e degli eserciti repressivi la nuova costante del futuro mezzo secolo, man mano che tutti i territori coloniali raggiungeranno, almeno nominalmente, l’indipendenza passando per lo più da un regime colonialista a uno dittatoriale.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1954

3 gennaio – Nasce la Tv in Italia.

14 gennaio – Marilyn Monroe sposa il campione di baseball Joe Di Maggio.

9 febbraio – Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, viene ucciso con un caffè avvelenato nel carcere dell’Ucciardone.

Si porta nella tomba il segreto sui mandanti della strage di Portella della Ginestra.

23 febbraio – Nasce il primo vaccino contro la poliomielite.

13 marzo – L’esercito vietnamita guidato dal generale Giap sconfigge i francesi nella battaglia di Dien Bien Phu. I francesi son costretti a lasciare il Vietnam.

18 aprile – In Egitto prende il potere Nasser.

4 maggio – Golpe in Uruguay. Prende il potere Alfredo Stroessner che lo manterrà per più di 35 anni.

17 maggio – La corte suprema americana dichiara illegale la segregazione razziale.

4 luglio – Finale dei campionati mondiali di calcio. La grande Ungheria di Puskas viene sconfitta dalla Germania federale. Strascico infinito di polemiche: i tedeschi erano drogati? L’arbitraggio fu pilotato?

31 luglio – Lino Lacedelli, alpinista ampezzano, conquista il K2, cioè la vetta più difficile dell’Himalaya.

18 settembre – Il caso Montesi porta alle dimissioni del ministro degli esteri Attilio Piccioni, perché suo figlio è sospettato di essere stato coinvolto nella morte della giovane trovata senza vita sulla battigia di Torvaianica. Il figlio di Piccioni in realtà non c’entra niente ma gli equilibri nella Dc cambiano per sempre.

Storia d’Italia, 1955: in Tv arriva Mike Bongiorno e la Fiat lancia la 600. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Quando sono nato, l’Italia entrava in guerra con vergogna: attaccando la Francia già arresa ai tedeschi e i francesi ci chiamarono Maramaldi. Inoltre, i francesi all’inizio sulle alpi liguri ci fecero neri e rievocare i primi anni di questa storia e della mia vita è stato poco coinvolgente. Ma con il 1955 la faccenda cambia. Come tutti i quindicenni ero sempre innamorato. Non si andava a vere feste, non parliamo di dormire a casa di amici e quanto alle femmine il loro atteggiamento d’ordinanza era lo stupore. Noi non avevamo coraggio e loro avevano una paura dannata di tutto: della verginità, della gravidanza, malattie, reazioni paterne, matrimoni forzati, non c’era la pillola e non tutte usavano l’assorbente restando sotto il controllo ciclico matriarcale. Ma c’erano i Platters. C’era Pat Bone. C’era il primo Modugno. Noi balli sulla mattonella, si concentravano le digressioni negli angoli strategici di casa. Il giradischi e il Juke-box, la magica scatola luminosa dove i dischi scendevano e le ragazze si stringevano al collo e fra un bacio e una lacrima saliva una disperazione. Era arrivata la Seicento e dunque il sesso in macchina era finalmente possibile, se solo riuscivi a non far partecipare la leva del cambio. Nel 1955 esplose la libertà: arrivò il Rock’n Roll e l’indumento che non sarebbe mai più tramontato: il blue-jeans nella sua versione scorticante, colore unico e tessuto unico, risvolti alti fini, cuciture rosse enormi. Il Rock’n Roll esplose nei cinema quando la gente abbandonava le scomode poltroncine di legno e si metteva a ballare nei corridoi. La chiesa di sua santità Eugenio Pacelli era preoccupatissima: l’americanismo ormai entrava da tutte le fessure della vita tradizionale e della fina modestia italiana, i manifesti mostravano baci prossimi all’orgasmo e ballavamo per strada e con le donne potevi persino accennare al problema sessuale senza beccarti un ceffone e nasceva dopo la Vespa anche la Lambretta e si scriveva con la Olivetti che era il sogno di ogni studente, a rate, mille lire al mese. Gli inglesi si lamentano: noi abbiamo inventato lo scooter e gli italiani se ne sono appropriati. Gli italiani si appropriavano di tutto, inventavano tutto, erano dei draghi, non lamentosi come oggi. Nasceva l’auto Bianchi con la Bianchina, la nostra risposta alla Deux Cheveaux Citroen, meno adatta all’amore, ti saluto la posizione del missionario. Ma con la Seicento parte l’intera famiglia sui primi tratti dell’Autostrada del Sole, vanno a ruba i tavoli da picnic e si sfornano lasagne domenicali. In compenso, chiude la produzione della Cinquecento giardinetta, minuscola imitazione del caravan americano, in cui entravano anche sei persone, purché due nel bagagliaio. Il primo Rock’n Roll era un’estensione del boogie-woogie, e provocò una reazione conservatrice di tutte le Nille Pizzi e i Cinico Angelini, con la riscossa terrificante di “Son tutte belle le mamme del mondo quando il lor bimbo stringono al cuor” e poi milioni di canzoncine innocue, ma rimate, dall’arietta innocente, orecchiabili e cretine fra strazi gioiosi come Piripicchio e Pitricicchio e l’infernale barca che tornò sola come la cavallina storna, perché tre fratelli avevano dato la loro vita per salvare una bella bionda. La poetica italiana per italiani è da asilo infantile, da asilo senile, da allegro convento, e intanto si inaugura a cavolo un frammento della metropolitana di Roma. In politica, si manda al Quirinale il bell’uomo Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra con i voti dei neofascisti, ciò che avrà conseguenze nel 1960. Viene emesso un francobollo sbagliato, il famoso “Gronchi Rosa” che pochi fortunati si contenderanno. Si avverte nell’aria l’impressione che l’Italia “vada a sinistra” perché Gronchi è di sinistra insieme al fido Fernando Tambroni, uno che provocherà un disastro nel luglio del 1960. Il festival di Sanremo si trasmette, ma in differita: dopo il varietà “Un due e tre” di Vianello e Tognazzi che perderanno presto il posto per aver fatto della satira. È il momento del trionfo di Claudio Villa che stravince con Buongiorno tristezza sia pure cantando in playback per una laringite. Villa è l’antimoderno per eccellenza, il Francisco Franco della canzone italiana che ha sempre puntato sulle melodie che piacciono a napoletani e romani. I francesi sono irrequieti: hanno perso il Vietnam, stanno affrontando la ribellione dell’Algeria. La classe media scende in piazza con le casseruole dietro a Pierre Poujade. Tira un’aria indecifrabile di casseruole sbattute, il vecchio mondo imperiale tira le cuoia e Francia e Gran Bretagna sono preoccupatissime per l’egiziano Gamal Nasser che parla di nazionalizzare il canale di Suez. Nasser vuole anche strozzare Israele impedendo alla Stato ebraico l’accesso al petrolio. Da tutto l’Est sovietico arrivano storie di sofferenza, specialmente dall’Ungheria. Se la nuova Repubblica Federale Tedesca è ammessa nella Nato e autorizzata ad avere un suo esercito sotto il comando militare integrato, l’Est sovietico risponde formando la sua “Nato dell’Est” che si chiamerà “Patto di Varsavia” e vi partecipano con l’Urss, la Germania Est, la Polonia, la Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Albania. La Repubblica Democratica Tedesca veste i propri soldati con uniformi della tradizione tedesca e non all’americana come quelli occidentali. Persino la lingua tedesca è accuratamente preservata, nell’Est comunista, dalle influenze occidentali. Ogni anno il Patto di Varsavia programmerà un’unica esercitazione che prevede un attacco improvviso delle forze imperialiste, alle quali le forze del patto socialista, dopo aver respinto l’assalto si spingeranno in un travolgente contrattacco fino a chiudere tutti i porti atlantici impedendo così uno sbarco americano. In Argentina finisce la parabola di Peron, deposto da un colpo di Stato mentre in Italia fa passi avanti la Ceca col mercato comune. Gli Inglesi non sono attratti dall’Unione europea che considerano una vicenda interna tra francesi e tedeschi. Ma sono invece preoccupati con i francesi per il progressivo crollo dei due imperi: quello britannico e quello francese che stava franando nelle rivolte arabe dell’Africa del Nord. Winston Churchill che era tornato brevemente al governo, si dimette definitivamente. L’India è indipendente per colpa dei “cugini” americani che non tollerano alcun impero. A Londra Ruth Ellis di ventinove anni, è impiccata per aver ucciso il suo amante. È l’ultima impiccagione del Regno Unito. La sua storia sarà raccontata in Ballando con uno sconosciuto: un film terribile su una ragazza abusata e perseguitata da un uomo e che, quando lei finalmente si ribella e lo uccide, viene giustiziata. Un’altra epoca finisce: il boia di Londra con la sua scienza di pesi con cui spezzare la terza vertebra e causare una morte istantanea. Antonio Segni sardo democristiano conservatore diventa primo ministro e sarà il futuro presidente della Repubblica. Nasce il Terzo Mondo. Organizzato dal principio: né con l’America né con l’Unione Sovietica. Nasce un nuovo gruppo di Stati, guidato dall’indonesiano Sukarno, che non voleva schierarsi né con gli Usa né con l’Urss. Ma esplodono in tutto il mondo, Africa e Asia in particolare, guerre di decolonizzazione contro i vecchi padroni europei. Gli americani non soccorrono gli europei. Io a quindici anni mi trovavo con mio padre in Austria e vidi partire sia i sovietici che gli americani da Vienna che era stata occupata come Berlino. La partenza delle truppe russe fu guardata dalle finestre in modo torvo e una breve cerimonia per inaugurare la statua al milite ignoto sovietico andò deserta. Furono le mie prime fotografie. L’Est e l’Ovest non sembravano affatto attirati dalla convivenza pacifica ma solo dalla necessità di evitare una guerra per sbaglio. Quanto al resto, si odiano. La guerra non esplose, salvo che in Asia, ma in Europa la vivevamo con una forma d’angoscia particolare che spingeva all’edonismo e al tanto peggio, tanto meglio. Cominciarono i primi “Summit”: gli incontri fra i grandi della terra per assicurarsi che nessuno avrebbe tirato per primo il grilletto. Ce ne fu uno con il presidente russo Nikolai Bulganin (nessuno lo ricorda: aveva il pizzetto e un’aria saggia), il presidente americano Eisenhower, il francese Faure e Anthony Eden per il Regno unito. Si incontrano a Ginevra e rilasciano comunicati cauti. L’unico significato era: non siamo ancora sull’orlo della guerra. Poi si vedrà. Ma la frattura politica fra chi sta con i comunisti e chi è contro i comunisti si faceva nevrotica. Poiché in Italia si parlava di un governo con i socialisti ancora alleati dei comunisti, insorse il cardinal Ruffini di Palermo per battere il pugno sul tavolo: l’alleanza non s’ha da fare. Ma in compenso la televisione italiana manda in onda Mike Bongiorno col suo “Lascia o raddoppia” e gli italiani impazziscono, le ragazze si innamorano di Mike e del suo accento, i bar sono zeppi di spettatori perché solo pochi hanno un televisore a casa. I radicali si separano dal Partito radicale e formano la prima pattuglia di matti libertari. E infine, siamo ammessi alle Nazioni Unite dove non ci voleva nessuno. La Cia, su proposta del Dipartimento di Stato, comincia delle trattative con la sinistra italiana. Prima con i socialisti e poi con i comunisti: separatevi da Mosca e vi manderemo al governo. Io che ero socialista di sinistra, ricordo i primi dibattiti indignati “per l’odiosa interferenza dell’imperialismo americano”. Però, se ne parlava. I socialisti avevano ormai sviluppato una forte corrente autonomista che non ne voleva sapere del matrimonio con i comunisti. Nella Democrazia cristiana si sviluppava parallelamente una sinistra sindacale pronta a fare il governo con chiunque venisse dalla sinistra. Era cominciata una lunga marcia, lunga e contorta. Furoreggiava “La donna ricca non la voglio no perché ogni riccio nasconde ‘nu caporiccio” ed era morto l’idolo James Dean fracassandosi contro un albero ubriaco fradicio. Il Partito comunista, per ordine di Togliatti, metteva all’indice la pittura astratta sponsorizzata dalla Cia che cercava di imporre Pollock e Rothko. Guttuso, che si era dato all’astrattismo, fu preso severamente per le orecchie: “Picasseggia, quando non devesi picasseggiare” aveva commentato sarcastico Nello Ajello. Il vero Picasso picasseggiava poco e tornava realista puntando specialmente sul suo nuovo brand: la colomba ì, simbolo della pace dei popoli amanti della pace (quelli comunisti) contro i popoli amanti della guerra che minacciano l’umanità. La guerra ideologica corre nelle gallerie e nelle pagine della cultura. Togliatti firma un feroce editoriale contro l’arte astratta su Rinascita intitolato “Scarabocchi”. Chi vuol capire, capisce.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1955

19 gennaio – Il presidente americano Dwight D. Eisenhower tiene la prima conferenza stampa trasmessa in tv.

9 febbraio – Dopo 13 anni di lavori viene inaugurata a Roma la prima linea della metropolitana (la tratta Termini-Laurentina che oggi è la metro B).

9 marzo – Al salone dell’auto di Ginevra viene presentata la Fiat 600. Nei successivi 14 anni di produzione verranno vendute 5 milioni di auto di questo modello.

5 aprile – Winston Churchill, dopo anni di sofferenze fisiche e difficoltà politiche nella fase post-bellica, decide di dimettersi. Gli succederà Anthony Eden.

29 aprile – Giovanni Gronchi, esponente della Dc, diventa il terzo Presidente della Repubblica della storia d’Italia. Viene eletto al quarto scrutinio con i voti delle maggiori forze politiche del tempo, compreso il Pci e l’Msi.

15 maggio – Viene firmato a Vienna il Trattato di Stato austriaco che ristabilisce la sovranità e la libertà della nuova Austria democratica.

16 settembre – In Argentina un colpo di Stato militare destituisce il presidente Juan Domingo Peròn.

30 settembre – L’attore James Dean muore a soli ventiquattro anni in un incidente stradale a bordo della sua Porsche Spyder.

19 novembre – In Italia va in onda la prima puntata dell’iconico quiz televisivo Lascia o raddoppia?, condotto da Mike Bongiorno.

11 dicembre – In un convegno a Roma, al cinema Cola di Rienzo, dopo la scissione della sinistra del Partito Liberale Italiano, nasce il Partito Radicale.

14 dicembre – Sulla base di una mozione canadese l’Italia entra ufficialmente a far parte della Nato.

Storia d’Italia, 1956: dalle Olimpiadi di Cortina alla tragedia Marcinelle passando per il naufragio dell’Andrea Doria. Paolo Guzzanti Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Quando ho iniziato a scrivere questa serie di articoli dedicati agli anni della nostra storia repubblicana, sapevo che mi aspettava un momentaccio: raccontare il 1956 e renderlo per quanto possibile palpabile, comprensibile a chi non c’era e a chi fosse nato anche mezzo secolo dopo. Per me il 1956 è ieri. Tutto il film è da allora nella mia mente. Mia e dei miei coetanei o di quelli che avevano venti, trent’anni o poco più e che non ci sono più perché così va il tempo e va la storia. Tutti gli anni sono memorabili ma il 1956, ad undici anni dalla fine della guerra, fu quello più feroce. Non soltanto per quel che accadde in Ungheria e nel Medio Oriente, ma per il fatto che per la prima volta lo vedemmo – in bianco e nero sfarfallante – sullo schermo di quel nuovo coso che era il televisore, finalmente installato in tutte le case italiane: un aggeggio tondeggiante, pesante, su cui si accendeva per ore un disegno grafico chiamato Monoscopio. Su questo passavamo ore per regolare uno schermo con oltre seicento righine grigie. Fu lì, su quello schermo, che vedemmo accadere per la prima volta i fatti più gravi, oltre a Mike Bongiorno che trasmetteva Lascia o Raddoppia?. L’altro aggeggio entrato ormai in ogni casa era il frigorifero: non più burro tenuto in fresco nel lavandino, ma tonnellate di ghiaccio e ghiaccioli. E tramontava il gusto per l’arrendamento borghese detto “Rinascimento” (buffet e contro-buffet da una tonnellata con specchi e zampe di leone dappertutto) per cedere ad un nuovo stile razionale “svedese”, lineare e senza fronzoli. Il Paese cresceva molto, l’industria andava a tutta birra, le famiglie mettevano al mondo figli, i nonni restavano in casa come vice genitori e lì morivano. La disciplina era ancora di ferro e volavano schiaffoni e punizioni. I vigili urbani, le “guardie” (cioè i poliziotti e i carabinieri) non erano amichevoli e andavano a spiare le coppie che amoreggiavano in luoghi di fortuna. Era vietato parlare di sesso salvo che nelle surreali barzellette degli adolescenti brufolosi impacchettati nei blue jeans ancora rigidi come lamiere. Ma le donne si vestivano sempre meglio, così come le figlie adolescenti, chi aveva pochi soldi aveva in genere una zia armata di macchina da cucire per confezionare tailleur sui modelli pubblicati dai settimanali femminili. Il genio italiano emergeva, in modo sparpagliato ma anche disciplinato perché le scuole, specialmente pubbliche, erano severissime, con insegnanti dai vestiti un po’ logori, ma temutissimi. Il Paese leggeva i giornali della sera e guardava le notizie al cinema, dove ogni film era preceduto dalla Settimana Incom che era un telegiornale pieno di ministri che tagliavano nastri. Ma quell’anno fu il teatro di avvenimento importanti, sanguinosi, alcuni chiusero un’epoca, anche se non tutti se ne accorgevano. Fu l’anno del rapporto segreto al Ventesimo congresso del Partito comunista sovietico in cui il successore di Stalin, Nikita Krusciov, rivelò un po’ più della metà dei delitti compiuti da Stalin, ma benevolmente classificati come «errori» da imputare non al sistema comunista, ma ad un imprevisto eccesso di narcisismo assassino, chiamato «culto della personalità». Di conseguenza, molti seguaci di quel culto nei vari paesi soggetti all’Unione Sovietica furono eliminati. Per afferrare l’enormità di quel che veniva rivelato – ma tutto si sapeva molto bene – bisognerebbe rendersi conto della natura quasi divina del “compagno Stalin”, che sopravviveva dopo la sua morte avvenuta due anni prima in circostanze tuttora non chiare. Il rapporto era segreto, ma fu fatto trapelare per brani alla stampa occidentale che lo diffuse e pian piano lo ricostruì. Era come se il Papa avesse annunciato che Dio non esiste. I comunisti occidentali e in particolare Palmiro Togliatti, la presero malissimo anche perché molti di loro avevano partecipato ai fasti dello stalinismo. E poi le stragi di Budapest, pudicamente chiamate «i fatti di Ungheria». Quei morti in quasi diretta televisiva per la prima volta nel mondo: la rivolta di operai, studenti e intellettuali anche comunisti, contro i carri armati sovietici. Cittadini in bianco e nero. Sparavano e morivano davanti all’occhio televisivo del mondo. Chi non morì subito – circa cinquantamila uomini – fu poi fatto eliminare da Janos Kadar, che aveva partecipato alla rivolta e poi era passato ai russi che lo mantennero sul trono fino alla morte. E la neve. Le inarrestabili nevicate del 1956 da gennaio alla metà aprile con le città del centro e del Sud paralizzate, con una ondata di una micidiale influenza che ne ammazzava più del Covid. Gli alberi di Roma che crollavano. Infine, l’ultimo guizzo, il colpo di coda coloniale dei francesi e degli inglesi che reagiscono come ai tempi delle cannoniere alla nazionalizzazione del Canale di Suez proclamata da Nasser, il nuovo raìs egiziano e leader del mondo arabo. Ma non è più stagione di cannoniere e accade un fatto nuovissimo e – per i tempi – scioccante: americani e russi sembrano pronti a bombardare Londra e Parigi se non schiodano da Suez. Da dove partire? Certamente da tutti quegli operai e studenti ungheresi che indossavano un trench alla Humphrey Bogart: una cicca nell’angolo della bocca e un mitra in mano. Impassibili, un caricatore dopo l’altro. Le ragazze che riempiono i contenitori di pallottole. Avevo sedici anni e ricordo i profughi ungheresi miei coetanei arrivati a Roma prima di Natale e che accompagnavamo alle bancarelle di piazza Navona. Loro ci mostravano le mani bruciate dall’uso della mitragliatrice. Ragazzi, anzi ragazzini. E i miei amati parenti comunisti che friggevano nel dolore e nella spossatezza di non poter parlare ma piangevano più che altro per le sorti della squadra di calcio ungherese, un mito e una leggenda. Ricordo una manifestazione a Roma da piazza del Popolo a piazza Venezia furiosa e apocalittica piena sia di gente democratica che di molti fascisti: tutto l’anticomunismo della recente guerra tornava proponendo corpi di spedizione, arruolamenti, cose di pura propaganda. E poi Suez. Che cosa era successo a Suez? Il canale costruito dagli europei e di proprietà anglo-francese fu sequestrato, anzi nazionalizzato, da quel colonnello arabo che parlava alle folle senza gridare e dicendo cose mai udite prima: «In questo momento, mentre pronuncio queste parole, le nostre forze armate stanno prendendo possesso del Canale di Suez. Coloro che lavorano al Canale stiano calmi, nessuno li toccherà ma da questo momento il canale è solo egiziano». Delirio. Anthony Eden, primo ministro britannico, bello ed elegante, so british, non credeva ai suoi occhi ed orecchie. Ma come si permette questo beduino, o quel che è? Telefonate con Parigi: bisogna agire, siamo noi le potenze coloniali europee e siamo noi ad avere costruito il canale. Tel Aviv vede che gli arabi vogliono la morte di Israele prendendoli per fame e avverte: noi ci stiamo. Colpo di mano. Sbarchi, paracadutisti, navi: le potenze coloniali europee vanno a dare una lezione ai ribelli. Ma qualcosa di imprevisto ed imprevedibile accade: gli Stati Uniti con il loro presidente-soldato Eisenhower, insieme alla Russia sovietica di Nikita Krusciov sbarrarono a mano armata il passo ad inglesi e francesi: Foster Dulles, il segretario di Stato americano, il creatore della Cia guidata da suo fratello Allan, prese il microfono all’Onu e disse: «E’ per me un momento terribile dovermi opporre agli alleati storici e fratelli inglesi e francesi per dir loro no. Dovete ritirarvi immediatamente. L’epoca degli imperi è finita, l’America non permetterà a nessuno di agire come nell’Ottocento. Lasciate Suez o sarà la guerra». Da Mosca Krusciov disse: «O ve ne andate o io mando i miei bombardieri con le bombe atomiche sopra Londra e Parigi». Per molto tempo tutti fecero finta che non accadesse nulla, ma dovettero sloggiare. Ma l’Unione Sovietica aveva già occupato l’Ungheria con i carri armati: Imre Nagy, il mite capo dei ribelli, con i suoi baffetti arricciati, occhialini e il gilet, fu giustiziato alla maniera di Cesare Battisti: gli fecero salire tre gradini e lo misero di schiena contro una tavola. Un boia gli stringeva il cappio al collo per poi strangolarlo con la forza delle sue mani, facendo a lungo scalciare Nagy al quale erano caduti gli occhialini di mano. Ma la cosa più grave fu che quell’invasione dell’Ungheria e quella repressione che portò a oltre centomila morti in combattimento e quasi altrettanti in vario modo giustiziati o fatti sparire, avvenne per pressione e decisione di Palmiro Togliatti e del gruppo dirigente del Pci e del leader comunista cinese Mao Zedong. Giorgio Napolitano ha raccontato in modo particolarmente addolorato e onesto la tragedia di quella decisione. Allora tutto il partito fu compatto nell’applaudire l’intervento sovietico, salvo una dozzina di intellettuali fra cui Lucio Colletti, Paolo Spriano, Antonio Giolitti che era figlio di Giovanni e che Togliatti esibiva come nome di prestigio e pochi altri. Piero Melograni ha raccontato che ai tempi della rivoluzione ungherese – che il Pci declassò col titolo “Fatti di Budapest” – nella sede del Pci non esisteva un televisore perché il partito era contrario alla diffusione delle immagini che contrastavano il potere dei documenti politici. La realtà fu che tutti, per la prima volta nella storia, vedemmo giorno dopo giorno quel che accadeva a Budapest dove i carri sovietici abbattevano caseggiati per colpire un ribelle, e la città era ridotta un carnaio infernale. I socialisti italiani del Psi si spaccarono fra “carristi” (quelli che approvavano l’intervento dei carri armati) e autonomisti che non volevano più condividere l’alleanza con un partito comunista. Ma non successe nulla di grave e di definitivo. Le ferite, specialmente quella della memoria, si rimarginarono rapidamente. Io ricordo me stesso, sedicenne, molto agitato e disperato per quello che avevo visto. E per la prima volta nella mia vita del giornalista che ancora non ero, fui preso dalla febbre di sapere, essere informato, capire tutto: perché era successo, che cosa era accaduto prima, che fine avevano fatto tutti quegli esseri umani, quei ragazzi, quei vecchi, quelle donne che attraversavano la strada fra i colpi di cannone e di cui non si parlava più? Quella gente che fino a ieri avevo visto viva e piena di un calmo coraggio mentre sparava nello stesso modo e con la stessa epica partigiana con cui i resistenti parigini sparavano ai nazisti. La guerra era finita soltanto undici anni prima ed era già stata dimenticata e superata dalle nuove angosce, ma l’Italia era già uno splendido Paese nuovo e moderno, elegante e pieno di charme, con l’industria che produceva automobili ed elettrodomestici come quelli americani e con la moda e gli stilisti che stavano già rendendoci diversi, brillanti, con quel talento in più, quell’anomalia geniale che è l’unico e solo patrimonio italiano, oltre la storia e la geografia.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1956

26 gennaio – A Cortina iniziano le Olimpiadi invernali. Zeno Colò vince la discesa libera.

3 febbraio – Grande gelo in tutta Europa. Roma per 15 giorni è sommersa dalla neve.

25 febbraio – Krusciov parla al congresso del Pcus e rivela i crimini di Stalin. Il suo rapporto dovrebbe restare segreto ma viene pubblicato dal New York Times.

20 marzo – La Francia concede l’indipendenza alla Tunisia.

19 aprile – L’attrice Grace Kelly abbandona il cinema e sposa Ranieri, principe di Monaco.

21 aprile – Nasce il Giorno, giornale dell’Eni di Enrico Mattei che già pensa al centrosinistra.

19 maggio – Iniziano i lavori per la costruzione dell’autostrada del Sole. Ci vorranno otto anni per inaugurarla.

29 giugno – Marilyn Monroe sposa lo scrittore Arthur Miller.

25 luglio – Affonda il transatlantico italiano Andrea Doria, speronato da una nave norvegese. Ci sono decine di morti, ma oltre 700 superstiti grazie alle operazioni di salvataggio coordinate dal comandante Piero Calamai e ad una eccezionale manovra di una nave francese accorsa in soccorso. Calamai non vuole scendere dalla Andrea Doria, ma i suoi ufficiali lo costringono.

26 luglio – Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza il canale di Suez. Francia e Gran Bretagna furiose. Tensione internazionale alle stelle.

8 agosto – A Marcinelle, in Belgio, crolla una miniera. Muoiono, sepolti 262 minatori dei quali 136 italiani. È la più grave tragedia sul lavoro del secolo.

23 ottobre – Inizia la rivolta d’Ungheria contro l’Unione sovietica.

28 ottobre – Centouno intellettuali comunisti italiani firmano un documento contro l’Urss. La direzione del Pci li condanna severeamente.

Tra le firme quelle di Lucio Colletti, Asor Rosa, Carlo Muscetta, Fabrizio Onofri, Paolo Spriano.

29 ottobre – Inizia la guerra arabo-israeliana.

4 novembre – L’Armata rossa entra a Budapest.

6 novembre – Dwight Eisenhower, repubblicano, ex capo dell’esercito americano durante la guerra, viene eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti. Sconfigge il democratico Stevenson.

27 dicembre – In Italia le donne vengono ammesse nelle giurie popolari.

Storia d’Italia, 1956: quando a Marcinelle morirono centinaia di "fottuti italiani". Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. Il terribile 1956, oltre ai “fatti d’Ungheria”, oltre all’elenco parziale ma ufficiale (però a due anni dalla morte) dei delitti di Stalin, e alla guerra del canale di Suez (di cui ricorderò un retroscena cinematografico legato al sogno americano), fu anche l’anno di due terribili disastri. Entrambi angosciosi e collettivi, dal momento che la televisione ormai era entrata nella nostra vita, funzionava, e tutti potevamo vedere quel che accadeva nel mondo. La prima tremenda tragedia fu a Marcinelle in Belgio, dove 136 minatori italiani immigrati morirono gasati dai fumi in una galleria in cui una scintilla elettrica incendiò un serbatoio di combustibile. Non morirono solo loro: i morti in tutto furono 262, ma più della metà erano nostri concittadini del Sud che vivevano nelle periferie delle località minerarie come Bois du Cazier. Erano tremende immagini in bianco e nero: cadaveri – non si vedevano ancora i cadaveri in televisione – e pianto di vedove, pianto di figli impietriti. Era l’Italia che emigrava, che raggranellava franchi, marchi e dollari. Era la stessa Italia che dal Sud andava nella Milano su cui Visconti avrebbe girato Rocco e i suoi fratelli. Fu allora che ci rendemmo conto, tutti, che il miracolo economico che cominciava a dividere nettamente i ricchi dai poveri, non era lo stesso per tutti. E che mezza Italia aveva la valigia di cartone pronta con lo spago, pronta a prendere treni eterni in cui spargere l’odore delle arance e del cacio, della salsiccia e della pasta al sugo. Era la stessa Italia che ora si trovava in ginocchio impietrita a Marcinelle in mezzo alle bare. L’Italia immigrava e lo faceva in modo umile e modesto. In Francia e in Belgio gli immigrati italiani li chiamavano “les ritails” ed era un termine offensivo. Come in America i “Dagos” (chissà perché). Parole intraducibili. Semplicemente volevano dire “fottuti italiani”. La seconda disgrazia fu l’Andrea Doria. In realtà l’affondamento dell’Andrea Doria avvenne un mese prima di Marcinelle, ma nella catena dei ricordi Marcinelle viene per prima. Era una nave bellissima, la più bella nave italiana dopo il Rex di Fellini. Era la nave dei sogni modesti delle lettrici di rotocalchi. Fu speronata e morirono in cinquantuno. Una strage in mezzo al mare per ragioni incomprensibili. Fu speronata dal mercantile svedese Stockholm della Swedish American Line, al largo degli Stati Uniti. Il disastro del Titanic del 1912 aveva imposto nuovi standard di sicurezza sui transatlantici e sembra che questi standard abbiano impedito una strage più grave, visto che erano a bordo mille e duecento quarantuno passeggeri e centinaia di uomini dell’equipaggio. Si piegò su un fianco, l’Andrea Doria, e restò così a galla, fotografata dagli aerei e dalle altre navi che vennero al soccorso, prima di affondare. Era estate piena, io ero a Ostia con i miei perché a quei tempi Ostia era un meraviglioso quartiere romano sul mare, liberty e gentile e la sera si prendeva il gelato in centro e oppure i krapfen che arrivavano dalla cucina con un siluro d’acciaio su una fune. Gli strilloni gridarono: “Paese sera! Edizione straordinaria! È affondata l’Andrea Doria con centinaia di morti”. I morti non erano centinaia ma la notizia era adatta all’estate dei capannelli e dei caffè. Tutti accesero i televisori e i bar erano allora molto forniti di questi grossi oggetti luminosi. Era bello restare ammutoliti davanti alle immagini e scuotere la testa. Il naufragio in sé era un fatto mondano, più che nautico. La guerra aveva lasciato una scia di memorie, racconti e storie tutte più o meno terrificanti e in fondo la triste fine di quella bella nave diventò un argomento di passione nazionalista e di grande sdegno per gli svedesi che ci avevano affondato la più bella barca di casa. E arriviamo alla guerra di Suez, che fu un grand’evento di cui però allora pochi, anzi nessuno, capì le conseguenze. Immagino che non molti lettori abbiano ben presente, per motivi d’età, chi fosse Gamal Abd el-Nasser: fu il campione del mondo arabo che si ribella agli europei. In realtà si era trattato di una colonizzazione breve, visto che il mondo arabo aveva fatto parte dell’impero Ottomano che fu smantellato nel 1918, insieme all’impero tedesco in Africa e a quello austro-ungarico. L’Egitto era da tempo un protettorato di sua maestà britannica, il cui governo aveva installato un playboy – re Faruk- sul trono del Cairo. Faruk fu mandato a giocare le sue ultime carte al Casinò di Montecarlo da una rivolta di giovani ufficiali cresciuti nel culto del sistema britannico e con una buona preparazione militare. Fu un colpo di Stato poco cruento e fra i giovani ufficiali prevalse Nasser, che era atletico, anzi bello, intelligente, ottimo oratore e discretamente colto. Soltanto recentemente sono stati resi accessibili documenti riservati del Dipartimento di Stato, da cui si è appreso che il giovane Nasser odiava, sì, gli usurpatori inglesi che insieme ai francesi facevano soldi a palate, facendo pagare il transito sul canale di Suez su cui passavano le petroliere che portavano energia in Gran Bretagna, Francia e nell’intera Europa. Ma amava l’America. Questa è la scoperta. Nasser aveva il suo personale American Dream e questo sogno americano era legato ad un film di Frank Capra: It’s a wonderful life del 1946, in cui un giovane James Stewart interpreta il cittadino George Balley, il bravo ragazzo costretto a difendere sé stesso e la sua famiglia dalle grinfie di un malvagio riccone e che Iddio strappa al suicidio mandandogli un angelo custode senza ali perché in punizione. Nasser era convinto che in quel film abitasse l’intero inconscio dei suoi desideri: la vittoria del bene sul male, la fede in Dio e il misterioso fascino dell’America che alla fine soccorre sempre i deboli e costringe i malvagi ad arretrare. Gli americani, sia durante che dopo la guerra, segretamente detestavano gli inglesi, amorevolmente ricambiati. Gli americani avevano costretto la Gran Bretagna a mollare l’India ed erano decisi a sbatterli fuori anche dall’Egitto. Quando l’ambasciata americana rese nota la passione del nuovo “raìs” per il sogno americano del film di Capra, fu immediatamente inviata una copia speciale del film a Nasser, sottotitolata in arabo, benché Nasser parlasse un discreto inglese. Non si sa se gli americani abbiano attivamente spinto Nasser a impossessarsi del Canale di Suez con un colpo di mano e dopo aver costretto la guarnigione inglese ad andarsene. Nasser pronunciò un discorso alla radio e in questo discorso introdusse una parola chiave che era il segnale per i suoi: quando la pronunciò alcuni commandos egiziani penetrarono negli uffici della compagnia del canale e ne presero possesso. Quel che accadde dopo lo abbiamo ricordato nell’articolo precedente. Parigi e Londra decisero di intervenire militarmente, ma avevano bisogno di un pretesto e si rivolsero a Tel Aviv proponendo un accordo: voi israeliani occupate il Sinai e certamente l’esercito egiziano vi attaccherà. A quel punto noi – francesi e inglesi – annunciamo al mondo di aver mandato un corpo di peace keeper, ovvero alcune migliaia di uomini, come forza di interposizione. E lo fecero, sbarcando un vero esercito. Nasser fece per radio un discorso di chiamata alle armi copiato dal celebre discorso di Churchill “We shall fight on the hills… we’ll never surrender” e disse che gli egiziani avrebbero combattuto sui campi e sulle spiagge e mai si sarebbero arresi. Il popolo egiziano sembrò impazzito, in un delirio di patriottismo nazionalista. Fu a quel punto che Nikita Krusciov, il successore di Stalin noto per andare per le spicce, annunciò che avrebbe bombardato con le sue atomiche Londra e Parigi se i loro soldati non si fossero ritirati immediatamente. Anthony Eden, il premier britannico che era stato il ministro degli Esteri di Winston Churchill, cercò di giocare la carta americana rivolgendosi al presidente Eisenhower per chiedergli aiuto. Il vecchio soldato rispose con parole di gelo, più che di fuoco: “Non siamo mai stati informati di questa operazione che disapproviamo totalmente”. Eisenhower criticò Krusciov per aver minacciato di usare le atomiche e malgrado la guerra fredda, malgrado la situazione drammatica in Ungheria, le due superpotenze si trovavano d’accordo nel costringere i colonialisti europei ad andarsene. Nasser vinse, ma perse il senso delle proporzioni. In preda all’enfasi bellica cominciò prima a dire e poi a credere di aver vinto sul campo di battaglia l’Inghilterra, la Francia e anche Israele che odiava per la sconfitta subita nel 1948. E questa fu la sua rovina. Nasser voleva armi per combattere Israele e gli sembrò naturale chiederle a Washington, a causa del suo sogno americano ispirato da Frank Capra. Ma Washington rispose a brutto muso di non avere alcuna intenzione di dare armi all’Egitto e a quel punto Nasser, un anticomunista islamico molto radicale, compì il gesto impensabile: chiese a Mosca un esercito e finanziamenti per la diga di Assuan. Ottenne entrambi provocando una crisi di nervi a Washington. Il regolamento dei conti avvenne dodici anni dopo quando Nasser, sicuro di aver messo in piedi la crociata contro Israele con una gigantesca coalizione araba, fu di nuovo battuto sul campo nella guerra dei 6 giorni dall’esercito israeliano e dal generale Moshe Dayan, quello con un occhio bendato, che travolse gli egiziani; e dovettero fermarlo prima che arrivasse al Cairo. Dodici anni dopo. La stella di Nasser smise di brillare e il suo grande sogno americano si dissolse sulle sabbie del Sinai.

Dopo l'anno nero 1956 era impossibile illudersi sul comunismo. Il centenario della nascita del Pci si avvicina. La nostalgia sembra già farsi strada. Purtroppo. Giuseppe Bedeschi, Venerdì 18/12/2020 su Il Giornale.  Si avvicina il centenario della fondazione del Pci, il 21 gennaio 1920, escono libri e articoli sui giornali. Vorrei portare anch'io una piccola testimonianza personale a proposito della storia comunista, una testimonianza relativa a un anno fatidico, il 1956: che fu l'anno del rapporto segreto di Krusciov al XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, e l'anno della rivoluzione popolare ungherese. Stalin era morto solo tre anni prima. I partiti comunisti di tutto il mondo l'avevano osannato in modo delirante. Ma il 25 febbraio 1956 accadde una cosa stupefacente e sconvolgente. In un lungo discorso a porte chiuse (riservato cioè ai soli congressisti, senza la presenza delle delegazioni dei partiti fratelli e senza i giornalisti), Krusciov fece letteralmente a pezzi la figura di Stalin: il quale aveva governato l'Urss in maniera dispotica e terroristica, e aveva commesso innumerevoli delitti contro esponenti del partito e dell'esercito. Krusciov raccontò cose atroci e rivelò che l'uso delle bastonature e della tortura era diventato prassi corrente contro i supposti dissidenti. I dati forniti da Krusciov erano terrificanti: per esempio, dei 139 membri del Comitato centrale del partito al XVII congresso, il 70% era stato arrestato e fucilato. La stessa sorte toccò alla maggioranza dei delegati a tale congresso: su 1966 delegati, 1108 vennero arrestati e poi fucilati. Purghe altrettanto feroci furono scatenate contro l'esercito, con centinaia di vittime, sicché l'Armata Rossa si trovò in uno stato confusionale di fronte all'aggressione hitleriana. Prima di ripartire da Mosca, Togliatti ricevette dai capi del Cremlino una copia del rapporto segreto. La situazione nella quale il leader comunista veniva a trovarsi era assai sgradevole e imbarazzante. Il Pci, infatti, aveva tributato a Stalin un culto sconfinato. I comunisti italiani lo avevano sempre considerato il capo più amato, lo avevano esaltato in forme ditirambiche e morbose: Stalin era l'uomo che aveva realizzato il socialismo nell'Unione Sovietica, che aveva costruito dighe e deviato il corso dei fiumi, che aveva abolito lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che aveva battuto gli eserciti hitleriani col suo genio politico e militare. Quando Stalin morì, i comunisti italiani lo piansero come si piange un padre. Il giorno in cui fu annunziata la sua fine, l'Unità uscì listata a lutto. «L'anima è oppressa dall'angoscia dichiarò Togliatti alla Camera dei deputati per la scomparsa dell'uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell'amico». In tutta Italia i comunisti organizzarono centinaia di manifestazioni, con enorme partecipazione di popolo, per commemorare il genio che si collocava accanto a Marx e a Lenin. Togliatti rientrò in Italia da Mosca il 6 marzo, e non fece cenno alle denunce kruscioviane contro Stalin. Una settimana dopo, egli tenne una lunga relazione al Comitato centrale del Pci, in cui affrontò anche la questione Stalin. Dopo aver tracciato un quadro grandioso della società sovietica e dei suoi straordinari progressi economici, sociali e civili, egli parlò delle critiche che Krusciov aveva rivolto alla figura di Stalin. Togliatti disse: «Il compagno Stalin ha avuto una grande parte, una parte positiva, nella lotta che ebbe luogo subito dopo la morte di Lenin, per difendere il patrimonio leninista contro i trotzkisti, i destri, i nazionalisti borghesi, per riuscire a prendere la strada giusta di costruzione di una società socialista. Se questa lotta non fosse stata condotta e non fosse stata vinta, l'Unione Sovietica non avrebbe riportato i successi che ha riportato, e oggi forse nell'Unione Sovietica non esisterebbero una economia e una società socialiste. Nel corso di questa lotta Stalin si acquistò prestigio e autorità. Il suo errore successivo fu di mettersi, a poco a poco, al di sopra degli organi dirigenti del partito, sostituendo a una direzione collegiale una direzione personale. Si venne così creando quel culto della persona che è contrario allo spirito del partito e che non poteva non arrecare danni». Nessun accenno, da parte di Togliatti, al rapporto segreto di Krusciov, che però venne pubblicato dal New York Times il 4 giugno, e poi fu riprodotto dai grandi quotidiani italiani. Naturalmente, enorme fu il disagio che si diffuse fra i comunisti. Le rivelazioni di Krusciov erano ben più drammatiche dei toni edulcorati di Togliatti. Si imponeva subito una domanda: il testo del rapporto segreto pubblicato in occidente era vero o no, era autentico o no? L'Unità parlava del «cosiddetto rapporto segreto». Il mistero fu presto sfatato. In un giorno di settembre del 1956, nella mia città (Ravenna) e in molte altre città italiane, fu convocata dalla Federazione del Pci una riunione (che si tenne in un'ampia sala di una sezione comunista), riservata ai dirigenti di Ravenna e provincia: il Comitato federale, il direttivo della gioventù comunista (di cui io facevo parte: avevo 17 anni), i sindaci e gli assessori comunisti, ecc. Questa riunione (alla quale parteciparono alcune decine di persone) fu presieduta da un autorevole esponente della Direzione del Pci, il senatore Arturo Colombi. Il quale fece una lunga introduzione, e a un certo punto disse: «e ora, compagni, veniamo al rapporto segreto di Krusciov pubblicato dai giornali: è vero o non è vero, è autentico o no? Certo, compagni, che è vero, certo che è autentico». Dalla sala si levò un accorato e struggente «ohhh! ohhh!», che durò per parecchi secondi. Colombi reagì con rabbia: «compagni, non dovete dire ohhh, non dovete scandalizzarvi, perché il nostro partito ha un suo costume rigoroso: se non ha sconfessato il rapporto segreto, ciò significa che esso è autentico!». I partecipanti a quella riunione uscirono sconvolti, e molti di essi erano ormai convinti di una verità elementare ma tremenda: che il mito dell'Urss e il mito della società comunista erano morti per sempre.

Storia d’Italia, 1957: dall’Euratom all’omicidio di Albert Anastasia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Fu a Roma che avvenne il fattaccio. O se preferite il fatto meraviglioso. A me, anche allora che uscivo dall’adolescenza selvaggia, sembrava un fatto enormemente burocratico: i grandi della Terra, con le loro rispettabili Signore, segretari, parrucchieri, team ed équipe, si calarono su Roma con ogni aereo, treno di lusso e limousine e il 25 marzo del 1957 fondarono l’Europa. Attenzione: non gli “Stati Uniti d’Europa” come allora tutti speravamo, ma un’altra cosa, più pratica, di tono minore, senza tanti mescolamenti perché moglie e buoi meglio se dei paesi tuoi. Sempre Europa era, ma così doganale da sembrare dozzinale, tutta d’acciaio e carbone da non sapere dove parcheggiarla, con il suo possente reparto economico che trascinava un treno di casseforti su rotelle, e poi l’energia atomica. Ma ci crederete? C’era, con l’Europa, l’Euratom, cioè la forza atomica energetica europea. Non sto a rifare tutta la storia (per adesso) dei referendum che cancellarono la possibilità dell’energia nucleare dal suolo italiano, ma ogni volta che accendo la luce non dimentico che l’energia nella mia lampadina viene dalle centrali nucleari francesi e che alla Francia io come tutti pago la carissima bolletta e quanto ai rischi che possa accadere una sciagura alle centrali francesi, condividiamo anche quel privilegio: di beccarci sia la bolletta alta che il possibile rischio. Come è potuto accadere? Un sussurro, ma non dire nulla intorno a voi, political correctness: le centrali nucleari sono brutte e cattive, tutti gli altri ce l’hanno e noi no perché siamo furbi. Allora l’Europa che vedevamo nascere nel 1957 non emozionava, non aveva ancora una moneta (la più quotata era lo “Scudo”) né bandiere, non aveva un’anima ma dovevamo tutti battere insieme le manine perché si stava realizzando davvero un grande miracolo: Germania, Francia, Benelux, Italia e Austria erano state finalmente denudate, legate e messe nello stesso sacco. Almeno in apparenza. In realtà, Francia e Germania si assumevano la leadership dell’Europa e gli altri sudditi avrebbero fatto finta di essere pari. Già si vedeva e sapeva. Ragion per cui quando si parlava d’Inghilterra, tutti scuotevano la testa: ma figurati, gli inglesi in Europa. Specialmente le prime due, per scongiurare la prossima guerra. Era una scemenza. La Storia non si ripete mai specialmente sotto forma di farsa e a garantire la pace non sarebbe stata l’Unione Europea ma l’arsenale atomico di Usa e Urss, più i sub-arsenali di Francia, Gran Bretagna e Israele, India e poi Cina. Farsi la guerra alla vecchia maniera? Improbabile: se tu mi ammazzi, io prima di morire spingo il bottone rosso e da un sottomarino sotto il Polo Nord e faccio partire un missile che ti farà sparire dal pianeta Terra. Vale la pena soffermarsi un attimo su questo punto ingiustamente trascurato: da che mondo è mondo, gli uomini si sono solo fatti guerre in tutte le generazioni e luoghi. Ci fu una breve pax Romana, ma durò poco. Ciò che durò fu l’intervallo fra la guerra franco prussiana del 1870 alla quale dobbiamo la cattura della Roma papale da parte dell’Italia sabauda, e i colpi di pistola di Sarajevo che innescarono la vera unica guerra mondiale, il cui seguito dal 1939 non fu che la prosecuzione con conseguenze che esposero la malvagità umana oltre i limiti conosciuti. C’era stata dunque la Belle époque, con il can-can, i pittori, le automobili, qualche guerricciola coloniale con periferici bagni di sangue solo indigeno, ma i caffè di Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Roma, Zurigo e Madrid avevano seguitato a servire sontuosi caffè. A Mosca meno, perché Lenin ci insegnò che le rivoluzioni non sono dei pranzi di gala e poi tutto finì nel sangue, nel disonore, nelle uova già dischiuse di guerra fredda, ma pronta a diventare calda. Il gruppo di Altiero Spinelli e dei suoi patriottici sodali a Ventotene aveva lanciato il manifesto ideale degli Stati Uniti d’Europa e tutti avevano sognato questo giorno magnifico in cui francesi, inglesi, tedeschi, italiani, spagnoli, danesi e norvegesi senza trascurare olandesi e austriaci, si sarebbero abbracciati nelle varie lingue dando vita a una federazione come quella americana che unisce cinquanta Stati sovrani.  Nulla di tutto questo. I sacri Trattati di Roma, da allora invocati ed evocati come le leggi che Abramo ricevette da Dio in persona, erano montagne di carte, allegati, traduzioni in dodici lingue e insomma l’idea di base era ancora quella di una zona di libero scambio senza dogane che permettesse ad un gruppo di Paesi ricchi di compensarsi a vicenda per le perdite di denaro alle frontiere e una certa velocità nel trovare soluzioni condivise. Non molto più di questo Sottinteso: così, almeno, Francia e Germania la pianteranno di farsi la guerra. Infatti, Francia e Germania si dichiararono impero carolingio redivivo, la Germania che ne aveva combinate troppe fu caricata di tutti i sensi di colpa di tutti gli altri e invitata a non farsi più un esercito, cosa che Konrad Adenauer prese bene: noi tedeschi dobbiamo smetterla di usare le armi per conquistare ciò che possiamo ottenere attraverso la nostra economia a rullo compressore. Era nato dunque un mercato comune senza dazi e molte sagge istituzioni che accantonavano dentro per coloro che si fossero trovati in stato di necessità. Cambiare bandiera? Ma quando mai. Di qui a un anno la Francia, spappolata dalle termiti della quarta repubblica, sarebbe crollata in ginocchio per andare in pellegrinaggio a Colombay Les Deux Eglises per supplicare le general Charles de Gaulle, eroe della Resistenza non solo ai tedeschi ma anche agli americani, francesi e anglofoni in generale, di prendere le redini de la République. Ma nel 1957 quella crisi non era ancora matura e la Francia stava al gioco. L’Italia era una potenza energetica, nucleare e petroliera, le sue aziende andavano come treni, la Fiat si era impossessata della fabbrica francese Seat che costruiva su licenza le nostre Seicento e Cinquecento. Gli americani erano un po’ contenti ma anche un po’ rosi dall’invidia perché l’America ha tutti i motivi per temere l’Europa e già allora a Washington Adlai Stevenson disse che alla fine la terza guerra mondiale l’aveva vinta la Germania che avrebbe avuto lo stesso bottino che cercava Hitler, ma senza sparare un colpo. In Italia intanto si era stabilito, senza tanto fracasso ma soltanto con qualche acceso discorso, che il nostro Paese avrebbe fatto tesoro del più importante partito comunista occidentale in eccellenti rapporti con l’Unione Sovietica, per un trattamento commerciale di riguardo con il gigante russo, le cui commissioni sarebbero state automaticamente riconosciute al Pci. In cambio, il Pci prometteva di lasciar dormire sepolte e ben oliate le armi conquistate durante la Resistenza, scoraggiando qualsiasi eventuale colpo di mano di frange estremiste. Togliatti in questo senso aveva già dato prova di saggezza quando, malamente ferito in un attentato, aveva fatto di tutto per placare gli animi e spegnere le tentazioni insurrezionali. Il Pci non poteva formalmente approvare l’Unione Europea perché a Mosca quel rilancio della Germania economica non piaceva, seguendo l’eterno filo paranoico secondo cui qualsiasi rafforzamento europeo si sarebbe tradotto in aggressione contro l’Urss. L’Unione Sovietica, così come aveva risposto alla Nato occidentale creando il Patto di Varsavia, con un criterio simile avrebbe rafforzato il già esistente Comecon per confederare le risorse dei paesi satelliti con quelle della casa madre. I comunisti italiani non condividevano granché, circolavano molte tesi eretiche di valutazione positiva, ma per il momento dovevano esprimere sdegno e disprezzo per il trattato di Roma. Il mio adorato professore di filosofia, comunistissimo e anche ragionevolissimo, ci spiegò che questa comunità europea altro non era che la riedizione dello Zollverein fra Paesi di lingua tedesca per una unione doganale poi fallita. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa come la Brexit, o l’Euro, o “andare a battere i pugni a Bruxelles”. Allora si firmarono ben due Trattati e i soci fondatori erano soltanto Francia Germania Belgio Germania (Ovest) e Italia. Questo per la parte politica: economicamente veniva al mondo anche il gemello dell’Unione e cioè la Cee, comunità economica europea. I nostri Padri della patria firmatari erano Antonio Segni capo del governo con il suo ministro degli esteri il liberale Gaetano de Martino. Per il Belgio c’era il volitivo e ben pasciuto Paul-Henri Spaak, padre della ben più amata Catherine Spaak. Konrad Adenauer, il cancelliere tedesco era l’uomo più ossuto e magro e alto del mondo e i suoi zigomi con la sua fronte infossavano gli occhi che sembravano avere uno sguardo inclemente. Belle ragazze che sembravano disegnate da Disney indossarono gonne lunghe multicolori con le bandiere degli Stati e quello fu l’unico aperto riconoscimento alle donne in uno scenario di tavolate chilometriche con decine di camerieri, salviette, calici, brindisi, affreschi, discorsi formali e informali, deposizioni di corone all’altare della Patria e insomma un’orgia di formalità senza molto senso dell’umorismo, che però avevano una forma e una ragione. Significavano non solo che la guerra era finita ormai da più di un decennio, ma che l’Europa distrutta dai combattimenti e ricostruita col piano Marshall era di nuovo competitiva, in prima linea, con questa novità assoluta dei francesi e dei tedeschi che si tenevano per mano dopo essersene date per settantacinque anni, salvo la pausa della Belle époque. Ma nel 1957 un altro grande attore internazionale prese nuove forme e ne parleremo nel prossimo articolo: la mafia. Non Cosa Nostra, ma la grande organizzazione transatlantica che aveva dettato e seguitava a dettare condizioni in America e in Italia. Erano i tempi in cui don Vito Genovese, “il Padrino” diventa il capo della mafia americana. Joe Valachi, racconterà più tardi che le famiglie che contavano nel 1957 erano quelle di don Vito Genovese, Gaetano Lucchese, Giuseppe Magliocco, Joseph Bonanno (alias Joe Bonanno, o Joe Bananas o Joe Bonanni) padrino di Joe Valachi di Castellammare del Golfo e dei Gambino al cui capo, Albert Anastasia fu tagliata la gola sulla poltrona del barbiere come risultato della sentenza decretata dalle famiglie riunite nel summit di Palermo all’Hotel et des Palmes. Grande storia.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1957.

17 gennaio – Cuba: i barbudos castristi attaccano una guarnigione di polizia nella Sierra Maestra. È la prima vittoria militare della guerriglia che poi sconfiggerà Batista.

6 febbraio – Italia: al congresso del Partito Socialista Italiano, il segretario Pietro Nenni annuncia l’avvicinamento al Psdi di Giuseppe Saragat e la fine della collaborazione con il Pci di Palmiro Togliatti.

6 marzo – il Ghana è il primo stato dell’Africa occidentale ad ottenere l’indipendenza.

25 marzo – Sei paesi europei firmano il Trattato di Roma, istitutivo delle Comunità economica europea (Cee) e Comunità europea dell’energia atomica (Euratom): Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo.

Giugno – Urss: fallisce il tentativo di destituire il segretario del Pcus Nikita Kruscev. Egitto: l’Unione Sovietica invia sommergibili nel Canale di Suez.

4 luglio – Italia: esordisce sul mercato automobilistico la Fiat 500.

25 luglio – Tunisia: abolizione della monarchia e proclamazione della Repubblica. Habib Bourguiba diventa il primo Presidente della Repubblica.

12 settembre – Enrico Mattei conclude con lo scià Mohammad Reza Pahlavi un accordo per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iraniani.

24 settembre – Little Rock, Arkansas: una folla di cittadini respinge nove bambini neri da una scuola pubblica. Il presidente Eisenhower invia mille paracadutisti sul posto per far rispettare la legge.

24 settembre – Algeria: truppe francesi catturano Saadi Yacef, uno dei leader del Front de Libération Nationale.

25 ottobre – New York: Albert Anastasia, gangster italoamericano, viene assassinato mentre è seduto sulla poltrona del barbiere. La decisione è stata presa a Palermo in una storica riunione mafiosa all’hotel et des palmes.

3 novembre – Unione Sovietica: lancio nello spazio dello Sputnik 2, con a bordo la cagnetta Laika, che muore 7 ore dopo il lancio.

19 dicembre – La Nato decide di installare basi missilistiche in Europa.

Storia d’Italia, 1958: dall’affermazione della Dc alla morte di Papa Pacelli. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Novembre 2020. Non vorrei che pensaste che il 1958 fosse un anno da buttar via. Ci furono tsunami mai visti con onde alte mezzo chilometro, stragi, catastrofi naturali e innaturali, ma più che altro l’Italia ebbe il suo nuovo e vero inno: Volare. Senza offesa, io detesto il festival di Sanremo e spero mi perdonerete. Detesto il festival, il suo mondo, il 99 per cento della sua musica e del suo parolaio imbecille, soffro per chi ne gode e per chi lo aspetta con trepidazione come il miracolo ligure di san Gennaro, ma con più sorprese. Ciò dipende soltanto dalla mia natura malvagia che ho tentato inutilmente di riparare. Ma Nel blu dipinto del blu fu uno shock benefico benché arrivasse da San Remo del 1958 perché dopo tante barche che tornavano sole, mamme di cui (pure) ce n’è una sola benché in gioventù fosse rimasta avvinta come l’edera fra personaggi psichiatrici sull’orlo del suicidio – “per me è finita” gridava Claudio Villa davanti a un innocente binario- ecco che ti arriva questo Domenico Modugno con un testo e una voce e una postura fra il futurista e il quadro di Chagall. Niente famiglia, niente storia, niente realtà, soltanto un sogno monocromatico blu. Non suona il violino su un tetto come un ebreo notturno che guarda una mucca galleggiante, ma una creatura quantistica e puerile che infila le mani in una poltiglia azzurrastra e se la sparge sulla faccia ciò che gli permette di decollare in verticale e volare nel cielo infinito, oh-oh. Eravamo tutti per strada a cantarla: il fratello di mia madre, un serissimo intellettuale comunista fu trovato di notte a cantare nel blu dipinto di blu sui marciapiedi deserti e subito radiato (non espulso) dal Partito. In America chiesero il significato di quelle parole e poi sussurrarono: “oooh! is he flying in the sky in a deep blu immersion?”. E diventammo ciascuno di noi italiani Mister Volare. Modugno era l’uomo dio di un’Italia più inaspettata che nuova, riscattata perché surreale e lo rimase per anni anche perché responsabile di altri capolavori come Vecchio Frac. A me in quell’anno capitò la ventura di compiere inutilmente 18 anni in un mondo che non prevedeva, la passione, l’amore, meno che mai le coppie. Ce ne stavamo torvi e pieni di ormoni, acne e trasalimenti a ogni zaffata primaverile e ci saremmo innamorati di uno scoiattolo o di una rondine. Invece mi rimandarono in latino e greco sicché la mia austera famiglia mi mandò “a dozzena”, ovvero a pensione, a casa del più grande latinista del tempo, il professore Attilio Fantinati di Ferrara, che preparava le versioni di latino e greco per gli esami di maturità. Si mangiava una zuppa detta “la minestra imminestrata” e poi mi trascinava lungo il Po per ripetere ad alta voce e imparavo a tradurre dal latino in greco antico e viceversa con i discorsi sulla prima decade di Tito Livio del Machiavelli, dove imperversavano parole come “perciossiacosaché” che registravo su un robusto quaderno nero con il filo in rosso con grafia da frate amanuense, Come conseguenza, credo, diventai comunista sovietico leninista intransigente nemico della civiltà occidentale, dogmatico, tassativo, antiamericano, ateo furioso (l’ateismo era una rigorosa religione) e dunque quando il presidente americano Dwight Eisenhower fece sbarcare in Libano, boots on the ground, alcuni reggimenti di marines, restai scioccato dalla potenza delle foto che pubblicò allora l’Espresso in cui si vedevano questi soldati statunitensi calmi e potenti, affardellati e lievemente tristi, su un terra straniera di cui non sapevano nulla e che poi avrei frequentato moltissimo come giornalista, poco manca che ci lasciassi la pelle. Queste mie convulsioni ideali e ideologiche dettero vita a un infuocato carteggio fra me e mio padre a Roma con cui duellavo apertamente e che duellava a sua volta con logica e rabbia, cosa che mi fu molto utile. Fine dei ricordi troppo personali. Quanto all’anno, l’Europa si consolidava ma in realtà si spaccava perché la Francia, dilaniata dalle guerre coloniali e dai numerosi generali e colonnelli pronti al colpo di Stato, era lì-lì per consegnarsi al padre della patria Charles De Gaulle, di cui ieri abbiamo ricordato i cinquant’anni dalla morte. Imperversava la guerra coloniale in Algeria, il Fronte di liberazione nazionale colpiva militarmente e i francesi facevano saltare le case con la gente dentro, ciò che Gillo Pontecorvo raccontò nel suo magnifico film La battaglia d’Algeri. Il sesso era ancora proibito ed era di pessimo gusto parlarne o alluderne, seguendo lo stesso destino dei servizi segreti secondo le buone norme dell’aristocrazia britannica, ma Vladimir Nabokov pubblicò lo spudorato capolavoro erotico Lolita, storia di una dodicenne e di un quarantenne scritto da uno che era scappato a gambe levate dalla Russia sovietica: bestseller, oggi quella storia arderebbe sul rogo nel fuoco perenne perché racconta l’eros e l’istinto, la finzione delle barriere d’età, tanto che se ne impossessò Stanley Kubrick. Mentre nel cosmo esplodeva il primo satellite umano e sovietico Sputnik, nascevano il microchip e il pacemaker e la senatrice socialista Merlin riuscì a far approvare la legge che chiudeva le case chiuse – che sembra un controsenso e lo è – ma chiudeva l’azienda di Stato magnaccia, restava lo Stato spacciatore di alcolici e tabacchi cancerogeni, ma le signorine a settimana furono spedite a cercarsi alloggio altrove. Tralascio la retorica della letteratura dei bordelli perché non fa parte della mia generazione e l’ho trovata sempre un po’ attaccaticcia e retorica. Restarono in voga espressioni come “fare melina”, “ragazzi in camera”, “marchette” e altre di un mondo che era già morto. Bella rapina moderna di stile americano a Milano in via Osoppo con oltre cento milioni di bottino, e promozione dell’Italia al rango di grande paese evoluto anche dal punto di vista criminale. In Sicilia la mafia seguitava a mettere in bocca al morto un sasso o un pesce o, in casi particolari, i suoi propri genitali usati in maniera sconsiderata. Ah, e la pala di ficu d’Igna. Al Sud eravamo ancora arretrati col delitto d’onore, ma anche al Nord, specie da quando partivano i treni delle valigie di cartone che portavano gli ex contadini calabresi, siciliani, pugliesi e campani nelle case di ringhiera di Milano e Torino, trattati come negri in Alabama e famosi per usare le vasche da bagno come pollaio o orto per la cicoria. Ma esce anche il grande capolavoro di Tomasi di Lampedusa – di una famiglia che quando comprava camicie si trasferiva a Londra – il Gattopardo la cui morale ben nota è che tutto deve cambiare affinché possa restare come prima, segue film magnifico di Luchino Visconti con Alain Delon, Burt Lancaster e Claudia Cardinale, uno dei pochissimi film sul nostro Risorgimento. Del resto, Visconti si era già esibito in Senso, dove una perversa aristocratica italiana manda alla fucilazione il suo infedele amante austriaco. A metà giugno sui gradini di legno della forca salgono sul patibolo i due eroi comunisti della rivoluzione antisovietica ungherese Imre Nagy e Pal Malèter. Ma non li impiccano alla maniera londinese con botola e morte istantanea, sono strozzati in piedi legati a una tavola da un boia che stringe loro il collo, con un attrezzo che somiglia più alla garrota spagnola usata da Francisco Franco che alla forca nostrana. Fra tante canzoncine, canzonacce e magnifiche canzoni emerge una diciottenne sconosciuta e pressoché angelica, ma terrestre: Mina. Successo immediato e quasi magico su cui nessuno ha nulla da ridire, neppure io che sono una bestia. Ma c’è di più: Borís Pasternàk, l’autore sovietico dissidente del Dottor Zivago riceve dal comitato della Corona svedese il premio Nobel per la letteratura ed è costretto dalle sue adorabili autorità moscovite a rinunciare. I comunisti occidentali borbottano, disquisiscono, la prendono alla larga, ma leggono tutti il romanzo comprato e pubblicato da un loro editore, Giangiacomo Feltrinelli, che salterà poi in aria a Segrate mentre cercava di sistemare una bomba. E muore Papa Pacelli, Pio XII, l’anticomunista magro, alto e conservatore che aveva combattuto il comunismo come un crociato, ma anche quello che aveva dispiegato le sue bianche ali sulle macerie di Roma dopo il bombardamento del 19 luglio del 1943, quello che causò le dimissioni e l’arresto di Mussolini. Anche la Chiesa volta pagina. E così Santa Romana chiesa elegge un uomo che sembra semplice e anzi semplicione: il patriarca di Venezia Angelo Roncalli che riesuma un antico nome papale: Giovanni. Ed è Giovanni XXIII. Era stato un grande diplomatico sotto papa Pacelli, un uomo erudito e scaltro, ma estremamente onesto. Viene accreditato di una presunta “apertura a sinistra” che manda in bestia i cattolici conservatori italiani. Ma tira proprio aria di apertura a sinistra, senza i comunisti – ancora – ma a sinistra. I socialisti di Pietro Nenni cominciano a prepararsi e a compilare liste sia di occupazione che di proscrizione in quella che il leader socialista chiama la “sala dei bottoni”. Siamo agli albori di una nuova era laica, in cui gli anticomunisti socialisti come Riccardo Lombardi sono però dei radicali di sinistra in fatto di economia e comincia a circolare una parola proibita: nazionalizzazione di banche, enti, elettricità specialmente e si apre un fronte di guerra interno sempre più violento. L’anno volge al termine e se tornate sulle tracce del Padrino, il film, ricorderete che approssimandosi la fine dell’anno, il generale Fulgencio Batista sente che i colpi di mitra di Fidel Castro e dei suoi barbudos si fanno troppo vicini e chiede agli amici americani di trasferirlo in Florida. Fidel è giovane, Ernesto “Che” Guevara è giovane e bello, a Cuba si comincia ad andare al “paradòn” cioè al muro perché i guerriglieri fucilano volentieri ma rassicurano gli americani: non siamo e non saremo mai comunisti, non preoccupatevi. Ma il generale e presidente Eisenhower si preoccupava e lasciò mano libera a chi gli consigliava, in caso di vittoria di Castro, di organizzare uno sbarco di esuli per riconquistare Cuba, ma questa è un’altra storia e bisognerà attendere qualche anno prima di scoprire che Castro aveva un informatore nella Cia, sicché quando lo sbarco avvenne si risolse in un disastro.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1958

1° gennaio – Entra in vigore il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM), firmato da: Italia, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi.

31 gennaio –  Gli USA lanciano nello spazio il loro primo satellite artificiale, Explorer 1.

6 febbraio –  All’aeroporto di Monaco di Baviera un aereo di linea, a bordo del quale viaggia la squadra di calcio del Manchester United, si schianta. Di rientro dal match contro la Stella Rossa, muoiono così 23 persone, fra cui otto giocatori e otto giornalisti. Di quella formazione si salverà, tra gli altri, un ventenne Bobby Charlton, diventato in seguito una leggenda del calcio mondiale: vincerà Pallone d’oro, Mondiali e Coppa dei Campioni, la prima nella storia dei Red Devils.

20 febbraio – Viene approvata la legge Merlin che dichiara illegittime le case di tolleranza.

25 maggio – Alle elezioni politiche si afferma la Democrazia Cristiana.

29 giugno – Ai mondiali di calcio in Svezia, la nazionale di calcio del Brasile vince il titolo per la prima volta.

9 luglio – In Alaska un terremoto di 7.9 gradi sulla scala Richter genera una frana in mare, la quale conseguentemente provoca una colossale onda di 525 metri che travolge l’intera Lituya Bay.

14 luglio – Colpo di Stato militare in Iraq: alla guida del paese viene nominato il generale Abdul Karim Kassem.

29 luglio – Il presidente Dwight D. Eisenhower costituisce la NASA.

28 settembre. In Francia viene approvata con un referendum la nuova Costituzione. Nel paese è istituita la Repubblica presidenziale.

9 ottobre – A Castel Gandolfo, provincia di Roma, muore Papa Pio XII.

23 ottobre – Lo scrittore sovietico Borís Pasternàk vince il premio Nobel per la letteratura. Sarà costretto dalle autorità politiche del suo paese a rinunciarvi.

28 ottobre – Viene eletto a sorpresa come neo pontefice il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, già Patriarca di Venezia, il quale assume il nome di Giovanni XXIII.

7 dicembre – Viene inaugurato il primo tratto dell’Autostrada del Sole, da Milano a Parma.

Storia d’Italia, 1959: quando non si parlava della mafia che cresceva. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Novembre 2020. L’anno che venne dopo, il 1960, sarebbe stato un Annus terribilis ma anche fulminante, tra i “fatti di luglio” e “La dolce vita” di Fellini (biglietto a mille lire, mai visto prima). Il 1959 fu uno di quegli anni che somigliano alla prima fase di una partita di scacchi: quando si dispongono i pezzi da usare per piani segreti. La terza guerra mondiale, che non c’è mai stata, fu in quel biennio sempre più incombente e imminente. Il nuovo dittatore sovietico, il contadinesco ma abilissimo, e in guerra anche eroico, Nikita Kruscev, fece organizzare una visita ufficiale in Albania, all’epoca ancora un dominio sovietico, per pronunciare un violentissimo discorso proprio contro di noi: “Se l’Italia si azzarderà ad autorizzare l’installazione di missili americani, sappia che siamo pronti a farla sparire dalla faccia della terra”. Un po’ di chiasso, ma neanche tanto. Era normale. Le minacce militari nonché gli schieramenti di missili erano all’ordine del giorno. In America era ancora presidente l’ex comandante supremo degli eserciti alleati in Europa e Africa, Dwight Eisenhower, un presidente eccellente e calmo, tuttavia bersaglio di tutti gli imitatori e attori satirici per la scheletrica ovvietà dei suoi discorsi. A gennaio Fidel Castro con i suoi barbudos (soltanto i guerriglieri che avevano combattuto alla macchia nella Sierra erano autorizzati a non radersi come prova degli anni passati lì) si insediò formalmente al governo di Cuba, riconosciuto da tutti i grandi Paesi fra cui gli Usa che avevano per quell’isola un amore particolare e piuttosto invadente, poiché era stata anche fino ai primi del Novecento l’ultima colonia spagnola in America. Per quest’ultima motivazione, Cuba era particolarmente curata, specialmente riguardo sanità e istruzione (che diventarono poi due cavalli di battaglia del castrismo) così tutti si chiedevano da che parte stesse. Il vicepresidente di Eisenhower era Richard Nixon, brillantissimo avvocato che poi diventerà presidente e finì dimissionario nel 1972 per lo scandalo Watergate (microspie nel quartier generale del Partito democratico) reso noto da due giornalisti considerati mitici – Carl Bernstein e Bob Woodrow – che ricevevano misteriosi pizzini da uno sconosciuto e diabolico personaggio che nelle intercettazioni era chiamato “gola profonda”. Da allora, ogni volta che si parla di un ispiratore segreto, in inglese oggi si usa il termine “whisteblower”, ossia uno che spiffera ma come agente sotto copertura. La storia è popolata dalle gole profonde e dai whisteblower che agiscono come oscure divinità olimpiche, determinando il destino delle nazioni attraverso intermediari ambiziosi che fanno carriera grazie alle soffiate, capaci di determinare la linea politica e giudiziaria dei loro giornali, appesi alla speranza dello scoop, come in Italia molti anni dopo imparammo da inchieste extraterrestri come Mani Pulite, la vicenda Lockheed e molti dritti e rovesci sulla mafia. Nel 1959, ad esempio, il primo dei grandi pentiti (che poi, trent’anni dopo, fu gestito personalmente da Giovanni Falcone), e cioè Tommaso Buscetta, fu arrestato a Palermo per faccende di piccola criminalità: contrabbando di sigarette, associazione per delinquere e altre piccole immondizie. Aveva 30 anni. Arrestato, ma subito liberato grazie al suo santo in paradiso che era un deputato democristiano. A suo tempo vedremo come questo personaggio diventò un protagonista di quel mondo occulto, costretto alla fuga e riacciuffato in Brasile per essere messo sottochiave da Falcone – siamo ancora lontani da quei tempi, che però maturavano come nelle complesse aperture di una buona partita di scacchi. Le vicende cubane e quelle della mafia siciliana erano procedute per anni in un intreccio che vedeva gli investimenti nella Cuba di Fulgencio Batista e della sua rete di casinò, nel giardino di casa degli americani che la consideravano un Paese accessorio, se non conquistato, a causa della guerra di liberazione dalla Spagna che portò nell’orbita americana anche tutti gli altri territori coloniali spagnoli, fra cui le Filippine che diventarono e sono tuttora un pezzo importantissimo della politica in estremo oriente. Dunque, Fidel Castro era ancora un fanciullone che aveva giocato con le armi e le romantiche notti di agguati e sparatorie sotto le mura della Caserma Moncada, e ancora nessuno poteva immaginare che sarebbe diventato il pezzo più importante della politica sovietica e poi la causa della crisi dei missili per cui il mondo tremò per alcuni giorni, ma soltanto alcuni anni dopo. Allora Fidel era un personaggio elementare e carismatico, non un genio, ma popolarissimo. Eisenhower chiese al suo vice Nixon di capire da che parte stava e Nixon invitò Fidel Castro a Washington per discutere la richiesta cubana di fondi con cui finanziare la ripresa economica dell’isola dove i rivoluzionari avevano distrutto il tessuto di case da gioco, bordelli, poker e scommesse in cui sguazzavano anche le grandi famiglie siciliane. Qualche mese prima, Albert Anastasia, il mammasantissima degli italoamericani, aveva avuto la gola tagliata a New York sulla sedia del suo barbiere, in seguito agli accordi presi dalle grandi famiglie nella riunione del 26 ottobre del 1957 nei saloni splendidi e decadenti dell’Hotel Le Palme di Palermo. Lì, dove si fermava anche Frank Sinatra, un divo stellare i cui rapporti con Cosa nostra erano noti quanto quelli con la sua eterna fidanzata e poi ex moglie Mia Farrow che poi sposò Woody Allen, con tutto il frastuono che ne seguì per le accuse da caccia alle streghe scatenate contro il geniale regista, colpevole di essersi innamorato e poi di aver sposato una delle figlie adottive della ex moglie. Quest’ultima nel frattempo gli aveva donato, come unico suo figlio naturale, un pupo oggi famoso giornalista e femminista che è il ritratto sputato di Frank Sinatra, detto anche “The Voice”, la più calda e passionale voce d’America. Ma, ricordiamolo ancora una volta, tutti questi brandelli di storia che nel 1959 vediamo dispiegarsi sulla scacchiera del mondo, daranno luogo a grandiosi e tragici finali di partita di cui allora ancora nessuno sapeva niente. E così, Richard Nixon accolse Fidel Castro a Washington e passò un paio di giorni con lui per capire che tipo fosse questo guerrigliero che giurava di non essere comunista ma lo sembrava. Poi ne riferì a Eisenhower: “È un tipo che trascina le folle. Ha idee un po’ rozze ma sembra un ragazzo in buona fede. Vorrebbe il nostro aiuto finanziario, ma non intende concedere risarcimenti per le imprese americane che ha nazionalizzato. Dice che è nostro interesse aiutarlo, altrimenti sarà costretto a rivolgersi altrove”. Dove l’avevamo già sentito questo ragionamento? Ma sì, Gamal Nasser il nuovo bellissimo rais dell’Egitto, il quale pensava che gli inglesi o gli americani avrebbero dovuto finanziare i suoi sogni un po’ faraonici come la diga di Assuan e che poi quando si vide sbattere la porta in faccia si rivolse a Mosca. Il gioco, visto oggi a ritroso, era abbastanza semplice, ma allora pochi capivano in che modo girasse il mondo. L’occidente americano era anticomunista e anche in Europa tiravano venti bipolari, nel senso che tutti i gruppi ex fascisti o neofascisti pensavano che fosse giunta la loro ora per tornare al comando. Al Comune di Roma si facevano le prove per giunte anticomuniste col sostegno missino. Ciò spingeva comunisti e socialisti a una radicalizzazione che poi, l’anno successivo, con il governo del democristiano Tambroni (formalmente di sinistra ma che si alleò con i neofascisti del Msi per avere la maggioranza) diventò un’insurrezione popolare con decine di morti e feriti. Quasi una rivoluzione, che Palmiro Togliatti riuscì a contenere e frenare ma che sconvolse il Paese creando premesse per altre inaspettate conseguenze. La situazione internazionale e specialmente cubana portò a riassetti drammatici nella mafia siciliana: il capo dei capi, l’idolatrato e indiscusso signore di tutte le cosche, il medico ma anche assassino nonché capo dei corleonesi Michele Navarra, fu fatto fuori sulla strada statale 118 in località San Isidoro. Si disse subito che a premere il grilletto era stato l’astro nascente del momento, e cioè Luciano Leggio detto – non si sa perché – Liggio. Si sparò per un paio di mesi col bilancio finale di nove morti ammazzati e uno strascico giudiziario eterno che vide alla fine tutti assolti, e stiamo parlando di nomi non ancora famosissimi, ma del calibro dei Provenzano, Liggio, Riina e Bagarella. Di mafia a quei tempi si parlava poco e di malavoglia anche nei tribunali. Il nome di Cosa Nostra diventerà un valore aggiunto portato da Buscetta, che diede a Falcone tutte le password necessarie per leggere il grande libro nero. Nei tribunali e nelle sentenze si parlava con distacco di criminalità organizzata. Ma la grande rete siciliana – quella della calabrese ‘ndrangheta era ancora un fritto misto di piccole ‘ndrine locali, tributarie della mafia siciliana e allora di poco conto – aveva santi in tutti i paradisi: servizi segreti italiani e stranieri, politica locale e nazionale, gerarchie ecclesiastiche, corpi di polizia e giornalismo. In quel coacervo ancora indistinto ed esplosivo come il Big Bang spiccava un personaggio di assoluto rilievo: Michele Sindona, che un quarto di secolo più tardi dopo finirà – come Gaspare Pisciotta, il cognato assassino di Salvatore Giuliano – avvelenato in carcere con una tazzina di caffè corretto. Sindona era un uomo spregiudicato e dinamico, si sentiva con le spalle coperte ed era capace di combattere mediaticamente. Viveva a Milano dove i siciliani di New York avevano una delle loro basi migliori in quegli anni, e nella capitale lombarda entrò nel giro d’affari della mafia ameri­cana attraverso Joe Adonis (al secolo, Giuseppe Antonio Doto, nato a Montemerano, presso Napoli, nel 1902 e che fino al 1972 ebbe lo stesso potere nazionale e internazionale di Lucky Luciano, di cui fu allievo fedelis­simo). Luciano durante la guerra aveva lavorato per la marina militare americana, costituendo un fronte del porto di New York contro le spie tedesche che trasmettevano ai sottomarini U-Boat della marina hitleriana le rotte dei convogli destinati alla Gran Bretagna perché fossero silurati e affondati. Il lavoro di questi mafiosi di New York a caccia di nazisti però fu poco più che una messinscena, utile soltanto per regolamenti di conti nella criminalità di Manhattan. Ma finché la guerra non finì, Lucky – che vuol dire “fortunato” – Luciano ebbe un trattamento carcerario principesco, con puttane, cuochi e camerieri, quadri d’autore e liquori, ma sempre chiuso dentro le turrite mura di Sing-Sing, oggi museo nazionale e curiosità storica. Quando la guerra si concluse, sperò di avere se non una medaglia al valore almeno un perdono per meriti patriottici. Ma non tirava più aria per tipi come lui e gli americani lo espulsero come indesiderato perché era arrivato clandestinamente da bambino senza mai procurarsi uno straccio di certificato che lo rendesse un cittadino americano. Così, fu scaricato all’alba da un bastimento nel porto di Napoli con bauli di vestiario, alla continua ricerca di giornalisti e cineasti con cui sperava di raccontare la propria storia e leggenda. Erano personaggi grandiosi, odiosi e terribili, questi mafiosi di New York, come don Vito Genovese, Carlo Gambino o il bandito finanziere Louis “Lepke” Buchalter che sapeva riciclare i proventi del crimine in fiorenti attività lecite. Adonis fu, come Luciano, uno dei gangster rispediti in Italia dagli Stati Uniti perché, come Luciano, ignoto all’anagrafe. Ma in Italia diventò presto famoso per la sua catena di ristoranti “Joe’s Italian Kitchen” dove riceveva americani di un certo livello cui faceva recapitare dai suoi camerieri armati buste piene di dollari. Questo, anche, era il giro in cui si ritrovò Michele Sindona, il quale entrò fin troppo nello spirito di questa società che sarebbe riduttivo definire semplicemente mafiosa. Fu attraverso i mille canali di affari, ricatti, guadagni, minacce e regolamenti di conti che Tommaso Buscetta trovò la sua strada per levarsi di dosso i fastidi di due accuse di omicidio, mettendosi agli ordini di un altro straordinario e quasi leggendario personaggio di questo mondo infernale: quel Salvatore Greco detto “Chicchiteddu” o anche “Ciaschiteddu”, ovvero l’uccellino, lo scricciolo, che con quella sua aria da passerotto comandava le truppe e le retrovie di Ciaculli e che bisognava sempre citarlo con i soprannomi per non confonderlo con altri e omonimi galantuomini, a loro volta distinguibili per soprannomi come “l’Ingegnere”, “il Lungo”, “il Senatore” o il fratello Michele Greco detto “u’ Papa”. Tutti personaggi con cui entrò in familiarità Buscetta arrivando fino a Lucky Luciano. Al governo nazionale si succedevano i democristiani di valore come Segni, Fanfani e Moro che però fra loro erano in ostile antagonismo, ognuno alla ricerca della formula magica per governare contro i comunisti, senza inimicarseli troppo e con l’aiuto dei fascisti, senza amicarseli troppo. Un gioco pericolosissimo che nel breve giro di un anno portò a tragiche conseguenze cui ancora prolungano i loro effetti.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1959

1° gennaio – Il dittatore Fulgencio Batista abbandona l’Avana e fugge da Cuba. Fidel Castro entra nella capitale del Paese in testa alle sue truppe.

8 gennaio – Al Palazzo dell’Eliseo in Francia, René Coty, ultimo presidente della Quarta Repubblica, passa le consegne a Charles de Gaulle, primo presidente della nuova Costituzione.

26 gennaio – Nel nostro Paese cade il secondo governo Fanfani. Il politico abbandonerà anche la carica di segretario della Democrazia Cristiana.

3 febbraio –  In un incidente aereo perdono la vita i giovani musicisti Richie Valens, Buddy Holly e J.P. “The Big Bopper” Richardson. È ricordato come il giorno in cui muore la musica.

15 febbraio – Il nuovo Governo italiano è presieduto da Antonio Segni.

9 marzo – Viene venduta la prima Barbie, bambola destinata ad avere un enorme successo commerciale.

14 marzo – Aldo Moro è il nuovo segretario politico della Democrazia Cristiana.

17 marzo – Dopo violenti scontri con gli occupanti cinesi, il XIV Dalai Lama fugge dal Tibet alla volta dell’India.

8 maggio – Viene festeggiata ufficialmente per la prima volta in Italia la festa della mamma.

17 maggio – Fidel Castro annuncia alla radio l’approvazione della legge per la riforma agraria. I terreni dei possedimenti americani sono espropriati.

31 luglio – In Spagna viene fondata l’ETA, un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista d’ispirazione marxista-leninista, il cui scopo è l’indipendenza del popolo basco.

24 settembre –  Inizia su Raiuno lo Zecchino d’Oro.

25 settembre – Si incontrano a Camp David il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower e il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Khruscev, dando avvio a una prima fase di distensione delle relazioni internazionali.

7 ottobre – La sonda russa “Luna 3” fotografa per la prima volta la faccia nascosta del nostro satellite.

21 ottobre – Viene inaugurato a New York il Guggenheim Museum, realizzato dall’architetto Frank Lloyd Wright.

29 ottobre – Esce in Francia sul periodico Pilote la prima storia a fumetti di Asterix.

1° dicembre – Firma del Trattato antartico.

2 dicembre – Nel Fréjus crolla la diga di Malpasset e l’inondazione che ne segue provoca 421 vittime. È il più grande disastro nella storia francese.

Storia d’Italia, 1960: l’anno delle Olimpiadi di Roma che trasformarono la città in un cantiere. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Novembre 2020. Fu un anno di sangue e gioia, il 1960 con quell’aria così tonda, nitida, da anno-design. Eppure fu un anno anche terribile, oltre che pieno di vittorie e stupore, perché senza quasi preavviso scoppiò una mezza guerra civile antifascista con molti morti e feriti, anche l’avvenimento più grandioso, indimenticabile e pacifico fu quello delle Olimpiadi di Roma con Giovanni Berruti (un ragazzino, un anno più grande di me) che prese l’oro sui duecento metri e il grande Cassius Clay (che poi scelse il nome islamico Mohamed Alì) che conquistò il titolo di campione del mondo nei pesi massimi. Da allora la boxe è stata messa al bando in Europa e pochi possono ricordare le emozioni televisive in bianco e nero del combattimento di un uomo contro un uomo. Le Olimpiadi furono un evento fantastico, urbanistico, televisivo, di costruzioni gigantesche, quartieri interi che sorgevano per gli atleti – il Villaggio Olimpico – poi destinati a edilizia popolare. Ma fino all’inizio ufficiale dei giochi la città sembrava devastata da un terremoto di fango e invasioni aliene di macchinari scintillanti e giganteschi che ci davano la sensazione di essere primi al mondo nel trasformare una città antichissima in una Olimpiade per lo sport. Nacque così la “la Via Olimpica”, oggi tangenziale, che fece scoprire ai romani quanto si potesse correre su quella piccola autostrada che precorreva i raccordi anulari, con l’uso di due gallerie che erano state scavate per caso, un’iniziativa del ministro socialdemocratico Romita, per dar lavoro ai disoccupati messi senza avere idea di come avrebbero potuto essere utilizzate. E furono utilizzate. Ma mentre gli studenti soffrivano agli esami finali della maturità, giornali e telegiornali esplosero con titoli da guerra civile per i drammatici e inattesi “fatti di luglio” con scontri violentissimi fra operai, studenti e polizia che si conclusero col bilancio di una ventina di morti fra Reggio Emilia, Palermo, Genova e altre città italiane. Si trattò di una vera insurrezione, motivata da una mobilitazione antifascista per impedire che i neofascisti del Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante rientrassero nel gioco politico del governo e celebrassero il loro congresso nella città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza. Tutto scoppiò a giugno quando i portuali di Genova – i “camalli”- che usavano un grosso uncino di ferro come strumento di lavoro per scaricare le balle dalle navi, ma anche un’arma leggendaria durante i combattimenti per strada, si radunarono e decisero di impedire ai neofascisti del Msi di fare il loro congresso e scorrazzare a loro piacimento per la città. La guerra era davvero finita? Assolutamente no, secondo una parte del Partito comunista che, ad anni dalla fine della guerra seguiva ancora la linea dell’antifascismo militante, militare e pronto alle armi. Niente fascisti, niente allarme antifascista. Ma le cose andarono subito lontano; l’organizzazione dei portuali e del partito a Genova se ne infischia dei divieti della prefettura e raduna gli iscritti e gli ex partigiani che vengono caricati dalla polizia, come previsto. Il partito, o almeno larga parte di esso, ha deciso di rispondere ai divieti di legge con una mobilitazione che nessuno avrebbe potuto pensare di sciogliere e così fu. La Genova rossa dei camalli, dei lavoratori puri e duri nell’unica città italiana in cui la Resistenza – guidata dal democristiano Paolo Emilio Taviani – ottenne la resa armata delle forze tedesche prima che gli americani arrivassero, dette alla capitale ligure un potere mai eguagliato da altre città. E la Genova rossa vince, La Cgil convoca i suoi iscritti, la Cisl lascia libertà di aderire, la Uil socialdemocratica è contro lo sciopero ma tutti sentono che la massa scesa in piazza non potrà esser respinta con la forza e così gli scontri si prolungano fino al 2 luglio quando il prefetto, cioè il ministero degli Interni, si arrende: il congresso del Msi che avrebbe dovuto celebrare il ritorno di un partito neofascista al centro, viene vietato. Ottenuta la vittoria il gruppo dirigente comunista della Cgil incassa la vittoria e da ordine di sospendere lo sciopero, cosa che fece autonomamente senza neanche dirlo ai socialisti. Pietro Nenni che era stato anche uno dei grandi leader della Resistenza commentò: «Com’era facile prevedere, la vittoria antifascista di Genova viene usata dai comunisti in termini di frontismo, di ginnastica rivoluzionaria, di vittoria della piazza, tutto il bagaglio estremista che pagammo caro nel 1919». Poi disse ai suoi di avere provato la stessa sensazione di quando piombò la notizia-bomba che il Partito comunista aveva dato ordine di fucilare Mussolini, senza consultarsi con gli alleati. Anche quella volta Nenni aveva masticato amaro, si era infuriato e poi però aveva subito dettato il titolo d’apertura del giornale socialista Avanti!: “Giustizia è fatta”. L’antefatto l’abbiamo accennato negli articoli precedenti: sedeva al Quirinale il presidente democristiano Giovanni Gronchi della sinistra Dc – un uomo che veniva dai popolari e che aveva combattuto la prima fase del fascismo e nel Quirinale era diventato famoso per la sua vita galante oltre che per un francobollo con la sua immagine stampata in un lezioso color rosa che fu prontamente ritirato dalla zecca dello Stato ma che diventò un carissimo pezzo per collezionisti: il famoso “Gronchi Rosa”. Gronchi aveva dato subito la sensazione di voler sdoganare i missini per poterli usare nel gioco parlamentare, tirandoli fuori dal cosiddetto “arco costituzionale” che li chiudeva in una sorta di ghetto da cui poi li tirò fuori Cossiga, il quale volle imporre come presidente del Consiglio incaricato e contro il parere del suo partito, un suo uomo, Fernando Tambroni che era anch’esso di sinistra – ricordo mio padre, un ingegnere conservatore, fuori dai gangheri per questa imposizione “di sinistra” del capo dello Stato – ma la Dc non voleva concedere al capo dello Stato un diritto che non gli competeva: quello di scegliere autonomamente il primo ministro, per lo più tra la cerchia dei suoi fidi, ignorando il partito democristiano con tutte le sue complicatissime regole e bilanciamenti interni. A Giorgio Almirante non parve vero di poter tornare in prima linea giocando d’azzardo offrendo a Tambroni la copertura parlamentare per sostenere il governo se i democristiani avessero abbandonato Tambroni. L’effetto fu esplosivo: i neofascisti erano davvero rientrati nel gioco politico da protagonisti e per suggellare la promozione chiesero e ottennero l’impensabile: celebrare il loro congresso a Genova, la città più antifascista d’Italia. Almirante abilmente giocò sia la questione di principio – siamo tutti legittimi rappresentanti – che avrebbe dovuto consentire lo sdoganamento del Msi la cui sigla sintetizzava il nome di Mussolini e che aveva per simbolo il feretro del duce da cui usciva una macabra fiamma ardente. A Botteghe oscure Togliatti era preoccupatissimo perché la frazione di sinistra guidata da Secchia ed altri erano favorevoli a qualsiasi forma di pressione popolare che rimettesse in discussione la posizione internazionale dell’Italia. Togliatti sapeva che questo doveva essere assolutamente evitato e che non avrebbe avuto neppure in caso di successo l’appoggio armato sovietico, così com’era successo nel 1947 quando una parte del partito comunista greco aveva deciso di insorgere per la conquista del potere ad Atene (assegnata all’Occidente) e Stalin non mosse un dito finché gli inglesi, occupanti in Grecia, non sterminarono gli insorti ridotti. Togliatti era stato spedito in fretta e furia da Stalin che lo fece svegliare dal numero uno del Comintern, Dimitrov, il quale trasmise ad “Ercoli” (nome di battaglia di Togliatti) l’ordine di tornare in Italia e far uscire il partito comunista dalla condizione di minuscolo partito militarizzato intransigente, per farne un partito aperto a tutte le alleanze, fino ai liberali, ai monarchici, certamente ai cattolici, purché uniti nel fronte antifascista. Fu quella che poi Togliatti elaborò nella famosa “Svolta di Salerno” con un ampio respiro, ma che comunque significava che i comunisti italiani avrebbero mantenuto la loro posizione in Occidente senza cedere alle forti pulsioni rivoluzionarie. Quelli che poi vennero furono i “fatti di luglio”. E quest’uso della parola apparentemente neutrale “fatti” veniva usata quando si dovevano denominare eventi controversi ma violenti con scontri, morti, occupazioni militari come era avvenuto ini Ungheria e accadrà in Cecoslovacchia. A Roma io mi trovai con altri studenti a Porta San Paolo dove fummo caricati a sciabola piatta dalla cavalleria dei carabinieri guidati dai capitani D’Inzeo, campioni olimpionici di equitazione e posso giurare che una carica di cavalleria è qualcosa di terribile e perduto, potente e inarrestabile perché i cavalli non hanno freni e neanche gli uomini che li cavalcano e ricordo benissimo questi ufficiali che sembravano usciti dal Regno di Umberto primo, con il busto proteso in avanti e la lama scintillante, che lanciavano fra loro parole inaudibili, brevi, militari e l’’apertura a ventaglio dei destrieri puntava nella nostra direzione. Noi fuggivamo come conigli davanti ai cani da caccia mentre quello squadrone di cavalleria cresceva di andatura per arrivare a noi come una forza invincibile per massa e velocità, preparata a travolgere, calpestare e se occorre ad uccidere. Niente a che fare con le camionette della Celere che per quanto brutali temevano i marciapiedi. Fu brutta e fantastica, fu terribile e incredibile. Indimenticabile, quei due fratelli e quell’odore dei cavalli, che avevamo perduto nella memoria. L’otto novembre di quel 1960 gli americani elessero John Fitzgerald Kennedy, giovane e amato miliardario democratico cattolico (il primo presidente cattolico, il secondo credo sia Biden, se non ha cambiato per strada) dopo il primo celeberrimo duello televisivo con Richard Nixon, l’ex vice di Eisenhower che si batté bene, ma vinse il bello e nuovo Kennedy, anche se suo padre era un noto trafficante di alcool che aveva usato il suo ruolo di ambasciatore a Londra per questo commercio illegale con gli Stati Uniti e dove peraltro, essendo irlandese, tifò in un primo tempo per i tedeschi. Si disse anche, con parecchie prove, che l’elezione di John avvenne perchè suo fratello Robert, procuratore, accettò di dare tregua al capo del sindacato mafioso Tom Giancana, che offrì i voti operai in cambio del favore. Ma allora nessuno conosceva questi ed altri dettagli. Il giovane Presidente sembrava perfetto e sarebbe entrato nella White House nel gennaio del 1961 per essere poi assassinato nel 1963 con un delitto di cui non si venne mai a capo. Era uscito anche un filmino divertentissimo con Peter Sellers che si chiamava Il ruggito del topo, e fu durante quel film al cinema Ritz che baciai la mia fidanzata, cosa che non era ancora così scontata. I fatti di luglio preoccuparono moltissimo gli alleati che videro l’Italia come un Paese in balia dei comunisti che prima avevano scatenato la protesta e poi l’avevano disciplinatamente riassorbita. Quanto era potente il Pci e quanto fragile il governo democratico? Questa domanda cominciò a diventare nella Nato una questione di tremenda importanza che avrà molte conseguenze nel 1964. quando il mese di luglio rivelò altri fatti e altri pretesi o veri complotti. “La Dolce Vita” diventò subito un’espressione internazionale coma “paparazzi” usata da Fellini. Anita Ekberg (“Anitona” da allora per tutti i romani che la desideravano come una Venere e l’adoravano come una Madonna) faceva il bagno nella Fontana di Trevi, Marcello Mastroianni arrostiva nell’eros le adolescenti del tempo, accadeva anche che qualche intellettuale si suicidasse e che la vita apparisse di colpo tanto dolce quanto insensata, elegante e inutile, banale e lussuosa. Tutto il mondo guardava all’Italia come un Paese eternamente artistico, vagamente corrotto, terribilmente sexy. Malgrado tutto.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1960

1° gennaio – Il Camerun proclama l’indipendenza. In Africa, nei mesi successivi sarà la volta anche di Senegal, Congo, Somalia (dall’Italia), Burkina Faso, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo, Gabon, Nigeria e Mauritania.

3 febbraio – Esce nelle sale cinematografiche La dolce vita, uno dei capolavori di Fellini e tra i più celebri film della storia del cinema a livello mondiale. La Chiesa cattolica e la destra chiedono invano l’intervento della censura.

18 febbraio – A Squaw Valley in California iniziano gli VIII Giochi olimpici invernali.

29 febbraio – Un terremoto in Marocco uccide un terzo della popolazione di Agadir.

23 marzo – Antonio Segni si dimette da Presidente del Consiglio italiano.

8 aprile – Il nuovo Governo guidato da Fernando Tambroni ottiene la fiducia alla Camera dei deputati grazie ai voti della Dc, del MSI e di quattro ex deputati monarchici.

16 maggio – Il fisico statunitense Theodore Maiman inventa il primo laser.

22 maggio – Con magnitudo 9.5, si abbatte in Cile il terremoto più forte mai registrato. Il maremoto generato dalla scossa tellurica, oltre a distruggere tutti i villaggi lungo 800 km di costa, percorre 17.000 km e arriva fino in Giappone, dall’altra parte dell’Oceano Pacifico.

23 maggio – Il Governo israeliano annuncia l’avvenuta cattura in Argentina del criminale nazista Adolf Eichmann.

7 luglio – A Reggio Emilia durante gli scontri tra forze dell’ordine e lavoratori perdono la vita cinque operai. L’evento sarà noto come la Strage di Reggio Emilia.

10 luglio – L’Unione Sovietica si aggiudica la prima edizione del Campionato europeo di calcio, battendo in finale la Jugoslavia.

21 luglio – Nello Sri Lanka, Sirimavo Bandaranaike è eletta Primo ministro. È la prima donna al mondo a ricoprire tale carica.

20 agosto. Viene inaugurato a Fiumicino il nuovo aeroporto “Leonardo da Vinci”.

25 agosto – A Roma si aprono le XVII Olimpiadi. L’Italia grazie a 13 ori giungerà terza nel medagliere, alle spalle di Unione Sovietica e USA.

8 novembre – John Fitzgerald Kennedy vince le elezioni sconfiggendo il candidato repubblicano Richard Nixon e diventando così il 35° Presidente degli Stati Uniti.

13 novembre – Sammy Davis Jr. sposa May Britt. Il matrimonio tra l’artista di colore e l’attrice svedese desta scalpore, perché le unioni interrazziali sono all’epoca vietate in 31 dei 50 Stati degli USA.

25 novembre – Tre delle quattro sorelle Mirabal, attiviste politiche dominicane, vengono assassinate per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. In loro memoria, questa data verrà ricordata come la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Storia d’Italia, 1961: la nascita del muro di Berlino che divise il mondo a metà. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. Tirarono su il Muro di Berlino, nell’agosto del 1961, fra la gente che urlava vedendo che non sarebbe potuta tornare a casa. Gli innamorati furono divisi, i genitori dai figli, i vecchi restarono alla finestra a guardare mentre i “Vopo” (Volken polizei, polizia del popolo) della Repubblica Democratica tedesca costruivano in fretta e furia barriere di cemento per sbarrare la strada ai berlinesi impazziti per la disperazione, che cercavano di fuggire o tornare a casa. Per capire questa storia bisogna ricordare quel che era accaduto dopo la sconfitta del 1945 ai tedeschi vinti. La Germania era stata suddivisa in due Stati: uno sotto il controllo sovietico e l’altro integrato nel sistema occidentale. Berlino, che si trovava all’interno della Germania comunista, era a sua volta divisa in due zone: quella occidentale, governata con libere elezioni e uno stile di vita europeo, e quello sovietico. I tedeschi della Rdt da anni fuggivano in massa dalla zona comunista e Nikita Krusciov, il successore di Stalin, decise di metter fine a questa emorragia con un muro, dividendo secondo le linee della suddivisione militare i cortili e le strade, senza preavviso né pietà. Quel muro restò in piedi per ventotto anni, fin quando l’ultimo Segretario generale del Partito comunista sovietico Michail Gorbaciov decise di metter fine alla vergogna di quella barriera, che fu demolita come tutti sappiamo a furor di popolo. Ma nel 1961 nessuno aveva mai sentito parlare di muraglie che dividessero città, separando le famiglie, benché esistessero allora come oggi due Coree e due Vietnam, oltre alle due Germanie. L’Unione Sovietica era all’apice della sua potenza e anche del suo prestigio. Nel 1961 l’Urss spedì il primo uomo nello spazio: le foto di Jurij Gagarin con la sua avveniristica tuta da esploratore spaziale con i simboli della falce e martello, dominarono le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Si ripeté lo straordinario fenomeno di stupore, timore e ammirazione già visto con il lancio del primo satellite artificiale sovietico Sputnik. I russi sembravano largamente avanti rispetto agli americani e le loro imprese spaziali erano interpretate ovunque come il prodotto di un sistema culturale, scolastico e anche economico, vincente. Possiamo azzardare forse oggi un paragone con ciò che accade in Cina, dove la tecnologia sembra essere più sviluppata di quella americana e la potenzialità cinese, oltre che la sua reale attuale potenza, sembra avere prospettive ineguagliabili. Il mondo si stava abituando al fatto che tre personalità si stavano affermando come autentici leader: il segretario sovietico Nikita Krusciov, il Presidente americano John Kennedy e Papa Roncalli che aveva assunto l’inconsueto nome di Giovanni XXIII. Tutti si rendevano conto che il mondo era sempre sul ciglio del baratro, che una guerra nucleare era sempre più probabile, e che tuttavia si poteva lavorare molto sullo stato delle cose per impedire che la catastrofe arrivasse. E così, miracolosamente, accadde. La catastrofe non ci fu e noi siamo ancora qui a raccontarla. Gli Stati Uniti stavano attraversando una brusca crisi interna per la questione dei diritti civili degli afroamericani che erano ancora sottoposti nel Sud alle cosiddette “Leggi di Jim Crow”. Queste consistevano nell’apartheid delle persone di colore come in Sud Africa. I neri erano liberi da circa un secolo, ma segregati. Avevano combattuto per il loro Paese in due guerre mondiali, si erano imposti nella musica e nello sport, nella letteratura, ma negli Stati governati dai democratici – oggi sembra un paradosso, ma è così – vivevano vite separate e umilianti rispetto alla società dei bianchi. John Kennedy, il primo presidente cattolico e dunque non “Wasp” (sigla che sta per bianco, anglosassone e protestante) era deciso a distruggere il sistema della segregazione a costo di mandare l’esercito a scortare i bambini neri a scuola insieme ai bianchi, cosa che poi realmente avvenne anche se a realizzarla fino in fondo fu il suo successore e allora vice Lyndon Johnson, dal momento che Kennedy fu assassinato a Dallas alla fine del ‘63. L’era kennediana era cominciata sotto una cattiva stella perché proprio nel 1961 fu tentata la fallimentare invasione di Cuba degli esuli anticastristi armati ma non protetti dagli americani. Il piano era stato approvato dal presidente Eisenhower, quando l’America si era sentita provocata e scioccata dalla decisione di Fidel Castro di imboccare una via rivoluzionaria vicina a quella sovietica e antiamericana. In realtà Fidel aveva tentato in tutti i modi di ottenere dagli Stati Uniti prestiti sostanziosi per far decollare l’economia cubana, sottratta al giro delle case da gioco e dei bordelli che aveva prosperato sotto la presidenza di Fulgencio Batista e dei suoi amici legati alla mafia italiana. Così, Kennedy non seppe o non volle dire di no al tentativo degli esuli anticastristi, ma proibì qualsiasi appoggio militare americano. Fu in questo modo che l’avventura si concluse in un disastro: gli esuli cubani sbarcarono alla Baia dei Porci dove trovarono ad attenderli le truppe regolari cubane che li uccisero o catturarono tutti. Quello fu l’ultimo atto di una politica sciagurata che poi ebbe come conseguenza mozzafiato la crisi dei missili e la più grave crisi che portò il mondo a un passo dalla guerra. Proprio in queste settimane Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura ed ex Presidente peruviano, anticomunista e liberale, ha scritto un romanzo – Tiempos recios (Tempi duri) – in cui racconta i mille tragici e deplorevoli errori commessi dagli Stati Uniti nell’America Centrale e nei Caraibi, a partire da un inutile golpe nel 1954 in Guatemala. Quegli errori furono certamente una delle cause della conversione di Fidel Castro da libertario a comunista sempre più ortodosso, fino a consentire che sul suolo cubano i sovietici creassero basi di lancio per missili che minacciavano gli Stati Uniti a un passo dalla Florida. In Italia si parla (e si urla, ci si insulta con profonda ira) su un tema che sta maturando: il centrosinistra. Ovvero, l’ingresso dei socialisti del Psi di Pietro Nenni (che fino ad allora erano stati chiamati “socialcomunisti”) nella vagheggiata “stanza dei bottoni” (definizione di Nenni) aprendo a sinistra, sulla scia dell’enciclica papale “De rerum Novarum”. Amintore Fanfani e Aldo Moro, detti anche “i cavalli di razza della Dc” si inseguivano nella competizione per conquistare la mano dei socialisti. Negli anni successivi sarebbe accaduto il grande evento, ma già nel 1961 era un tema rovente. E lo era perché non si sapeva come l’avrebbero presa gli americani. E come l’avrebbero presa i russi. E il Pci di Palmiro Togliatti (che la vedeva malissimo). A quell’epoca nessuno ancora sapeva che la grande decisione di accogliere i socialisti nenniani (con falce e martello sovrapposti al vecchio simbolo del sole che sorge su un libro aperto) stava maturando proprio alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e alla Cia, come poi molti documenti pubblici e pubblicati hanno dimostrato, cosa che in Italia era vietato dire e persino supporre. Io personalmente ho vissuto quell’avventura proprio nel nodo di congiunzione segreto, o meglio coperto, tra Italia e Stati Uniti. Ero uno studente e collaboravo con varie pubblicazioni per raggranellare un po’ di sostentamento e proprio attraverso il Partito socialista cui ero iscritto arrivai a uno straordinario settimanale che si chiamava Il Punto della Settimana, diretto da Vittorio Calef e cui collaboravano fra gli altri, Robert Kennedy fratello del presidente John, Pietro Nenni, Francois Fejto, pezzi del giornalismo comunista dissidente fra cui Alberto Jacoviello e una foresta di grandi firme. Quella rivista e alcune altre simili costituivano i lavori di preparazione di questo avvenimento incredibile: i socialisti italiani, alleati storici dei comunisti, stavano trattando per entrare nel Governo insieme a democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali. La Cia a quell’epoca era un’agenzia che oltre allo spionaggio vero e proprio usava l’arma culturale come strumento di penetrazione e di scontro con i sovietici. In quell’anno e nei successivi si svolgeva in Italia uno scontro violento nella cultura di sinistra e specialmente nelle arti figurative, tra modernisti favorevoli all’astrattismo e ortodossi di sinistra dediti al realismo socialista. La Cia sponsorizzava proprio nel 1961 e poi negli anni seguenti la promozione dei grandi pittori dell’astrattismo americano quali Jackson Pollock, Mark Rothko e gli altri di quella magnifica e controversa filiera. In Italia tutti gli artisti che erano stati fascisti dichiarati durante il Ventennio – praticamente tutti se si esclude Carlo Levi e, dopo le leggi razziali, Mario Mafai che aveva sposato una geniale artista ebrea lituana – guidati da Antonello Trombadori che era sia pittore che comandante partigiano e dirigente comunista, fecero atto di contrizione per le tentazioni astratte e si schierò con il realismo socialista imposto da Palmiro Togliatti. Ma non si trattava evidentemente di sciocche diatribe sull’arte. La Cia aveva intrapreso da tempo un’operazione di contrasto intellettuale in Europa e specialmente sulla Biennale di Venezia e sul mercato artistico. L’apertura a sinistra in Italia era un tema che coinvolgeva tutto: economia, letteratura, politica, ideologia, religione (“Ma per caso, questo Papa è comunista?”). Il kennedismo stava portando i suoi primi frutti e tutto l’asse politico ruotava allora intorno al privilegio che aveva il nostro Paese, considerato la “frontiera e cerniera” fra Est ed Ovest, con i comunisti più intelligenti e gli anticomunisti incoraggiati dai nuovi americani che sembravano gente brillante. Del resto definivano se stessi come “egghead” ovvero “teste d’uovo”, calve forse ma con molto cervello.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1961

3 gennaio – Il Presidente americano Eisenhower annuncia la rottura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba.

17 gennaio – A Elisabethville viene assassinato l’ex Primo ministro congolese Patrice Lumumba.

20 gennaio – John F. Kennedy presta giuramento come 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.

11 aprile – Bob Dylan debutta a New York.

12 aprile – Jurij Gagarin è il primo uomo nello spazio.

17 aprile – Esuli cubani, addestrati in Guatemala dalla Cia, invadono Cuba ma vengono respinti nella Baia dei Porci dalle Forze armate rivoluzionarie di Fidel Castro.

29 aprile – Viene fondato in Svizzera il Wwf.

15 maggio – Papa Giovanni XXIII promulga l’enciclica Mater et Magistra.

25 maggio – Kennedy annuncia l’inizio del Programma Apollo, finalizzato allo sbarco sulla Luna.

28 maggio – Peter Benenson lancia un appello a favore dell’amnistia per due giovani arrestati a Lisbona durante la dittatura di Antonio Salazar. La campagna di sensibilizzazione attrae migliaia di sostenitori e sfocia due mesi più tardi nella costituzione di un movimento per i diritti umani: Amnesty International.

31 maggio – Leonard Kleinrock, ricercatore del Mit, pubblica il primo articolo sulla commutazione di pacchetto, la tecnologia che sarà alla base di internet.

12 giugno – Un gruppo di terroristi compie in Alto Adige una serie di attentati dinamitardi. È la cosiddetta Notte dei fuochi.

2 luglio – Lo scrittore Ernest Hemingway si uccide con un colpo di fucile a Sun Valley, Idaho.

13 agosto – L’esercito della Repubblica Democratica tedesca inizia la costruzione del Muro di Berlino.

7 ottobre – A Parigi, un’imponente manifestazione pacifica, sostenuta da circa 30.000 algerini, viene repressa nel sangue dalla polizia su ordine dell’allora prefetto Maurice Papon. Le fonti ufficiali cercheranno di minimizzare l’evento e, ad oggi, non è ancora conosciuto il numero effettivo di morti, centinaia, e dispersi, migliaia.

25 ottobre – A Berlino, il dispiegamento di carri armati statunitensi e russi, da una parte e dall’altra del Muro, surriscalda una situazione già estremamente tesa.

30 ottobre – L’Unione Sovietica porta a compimento il lancio della Bomba Zar, avvenuto sull’isola di Novaja Zemlja, a nord del Circolo polare artico. È la più potente esplosione nucleare di tutti i tempi, circa 3.000 volte superiore a quella di Hiroshima.

11 dicembre – Gli Usa intervengono nella guerra del Vietnam.

15 dicembre – Viene emessa a Gerusalemme la sentenza di condanna a morte per il criminale nazista Adolf Eichmann.

Storia d’Italia, 1962: la morte di Marilyn e la nascita dei Beatles. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. La rivoluzione dei favolosi e neanche ingiustamente famosi anni Sessanta comincia nel 1962: decolla il mito dei Beatles e dei Rolling Stones, la stella delle stelle sexy del cinema, Marilyn Monroe muore suicida o assassinata o per overdose, ma muore. L’America kennediana fa tutte le mosse d’apertura per andare alla guerra con i russi che hanno impiantato un prato di missili nel giardino di Cuba e il mondo trattiene il fiato: giorni di blocco navale facce da poker con dialogo minaccioso: o voi portate via quei missili o vi butteremo fuori noi a mano armata. Noi non ce ne andiamo se voi non toglierete i vostri missili dalla Turchia che sono alla stessa distanza dei nostri a Cuba. Possiamo parlarne, ma intanto sappiate che vi considereremo responsabili di ogni mossa di Fidel Castro. Fidel Castro esaltato, offeso, felice, furioso, apocalittico. Kennedy lo tratta da burattino dei russi e lui lo minaccia personalmente. Poi fu Kennedy a prendersi una pallottola nel cranio, ma quella sarà una puntata successiva. Finì a male parole ma le armi tacquero e la guerra non scoppiò. Il giovane presidente Kennedy vinse il suo duello con i sovietici e Krusciov, il successore di Stalin pagò cara la sua resa perché quella faccenda lo portò rapidamente alla caduta dal trono di segretario generale del Pcus, equivalente al trono di Presidente degli Stati Uniti. Mentre ripercorrevo i materiali di quell’anno, mi sono imbattuto nella versione Rai di Napoli milionaria di Eduardo, che andò in onda quell’anno e che potete rivedere per scoprire le radici del mondo recente, un mondo di borsa nera e di ipocrisia feroce. Dire capolavoro è poco, regalatevi due ore di ritorno al passato. Il Pil italiano volava come oggi quello cinese: un razzo, come era un razzo quello tedesco. I due Paesi che avevano perso la guerra andavano fortissimo, il Regno Unito che l’aveva vinta era alla povertà e alla disperazione, con i conservatori in crisi e i laburisti sempre più socialisti e repubblicani. L’Africa smetteva – in particolare quell’anno – di essere una collezione di colonie europee e diventò un nuovo continente pieno di nuovi Stati. Non per questo gli europei se ne andarono dall’Africa, ma cercarono a tutti i costi di restare nel continente ricco di materie prime. In fondo noi italiani possiamo dirci davvero fortunati ad aver perso la guerra mondiale ed essere rimasti senza colonie: pensate se negli anni Sessanta avessimo dovuto – come capitò alla Francia, all’Inghilterra, al Belgio – invischiarci nelle guerriglie coloniali tutte destinate alla sconfitta nel dolore e nel disonore. La Francia perde definitivamente l’Algeria, un trauma enorme perché l’Algeria aveva il rango di “territorio metropolitano” e non di colonia. Milioni di francesi che vivevano in Africa tumultuano, rientrano in patria portandosi dietro una gran quantità di arabi musulmani che poi diventeranno il substrato di quei sei milioni di francesi islamici della cui integrazione ancora si discute dopo due generazioni di radicamento in Francia. L’Inghilterra si riempie di pakistani, poiché il Pakistan si è separato dall’India. La febbre francese raggiunge punti caldissimi e si registra il primo attentato alla vita del generale e presidente Charles de Gaulle, il quale reagisce mettendo in azione i corpi speciali dei “barbouzes”, le barbe finte con licenza di uccidere, come è ben spiegato nel bellissimo film Nikita. L’Italia marcia spavalda e specialmente al Nord fa tonnellate di soldi. Tutti si indebitano perché si sentono garantiti da uno sviluppo senza limiti, anche grazie a una posizione internazionale di rispetto. Sul piano energetico, poi, era una temuta potenza. E infatti, proprio nel 1962 Enrico Mattei, un ex partigiano cattolico che aveva trasformato l’Eni in un competitore delle maggiori compagnie petrolifere, ci lascia la pelle per un incidente aereo causato da un cacciavite dimenticato nel motore del suo jet. Amen. Intanto la Democrazia Cristiana va avanti nel suo progetto di incamerare i socialisti di Nenni, staccandoli per sempre da comunisti che però non sono scemi e introducono tutte le loro forze per contendere loro spazio. Nel Psi si formano le frazioni di sinistra di Lelio Basso e Tullio Vecchietti che non ne vogliono sapere. I socialdemocratici premono per avere il Quirinale e cercano di imporre il loro leader Giuseppe Saragat mentre il presidente uscente Giovanni Gronchi recalcitra perché pretende di fare un secondo settennato, cosa che finora non è riuscita a nessun presidente, benché la Costituzione non lo vieti. I democristiani mandano a quel paese Gronchi che aveva messo nei guai il partito formando il suo “governo del presidente” che aveva affidato lo scettro a Fernando Tambroni, cosa che aveva provocato nel 1960 insurrezioni con gravi scontri e molti morti quando i neofascisti del Msi – che garantivano la maggioranza a Tambroni, aveva chiesto di svolgere il loro congresso a Genova, città partigiana dominata dal democristiano Paolo Emilio Taviani. Tirava di nuovo una brutta aria, ma la Dc riuscì a respingere le fantasie presidenzialiste di Gronchi e a far cadere la candidatura di Giuseppe Saragat, riuscendo a far prevalere per pochi voti uno dei suoi padri nobili: il professor Antonio Segni, un conservatore sardo con scarse simpatie per il nascente centrosinistra. Intanto, il nuovo papa Giovanni XXII che nelle intenzioni del concistoro avrebbe dovuto essere per motivi d’età un papa di transizione che rendesse meno spigolosa l’ascesa al trono di Giovan Battista Montini, un intellettuale e diplomatico che aveva svolto il ruolo di ministro degli esteri di Pio XII. Papa Roncalli passava per il “Papa buono” per il suo aspetto gioviale e il suo accento rurale lombardo, ma anche lui veniva da un ceppo vaticano di diplomatici e politici di rango. Roncalli non aspettò di essere sostituito da un intellettuale magro e introverso come Montini che sarà il suo successore, e compì un gesto veramente rivoluzionario convocando il Concilio Vaticano Secondo, che sconvolse usi e tradizioni della Chiesa cattolica apostolica romana, a cominciare dalla messa al bando del latino come lingua ecclesiale, come anche di tutti gli abiti che avevano obbligatoriamente distinto il clero dal resto della popolazione. Fra grandi meraviglie, sorprese, applausi e disperazioni, nasceva il clergyman, il prete in giacca e pantaloni e le suore in severi tailleur. Ma cominciava, oltre questi aspetti formali, un ripensamento globale della Chiesa cattolica su sé stessa, cui parteciparono tutte le famiglie del cattolicesimo mondiale su un proscenio teatrale di grandissimo impatto emotivo. I tradizionalisti di tutto il mondo erano infuriati, i rinnovatori erano felici. Dunque, l’economia tirava, l’aria di guerra fredda si faceva di tanto in tanto molto calda, ma l’Italia prosperava così come prosperava la commedia all’italiana, con Alberto Sordi, Gino Bramieri, i fratelli De Filippo, Totò, le battute sessuali erano pesanti, andavano ancora le “maggiorate fisiche”, correvano le Vespe e le Lambrette, le Seicento e ormai anche la Cinquecento per guidare la quale dovevi imparare a fare la “doppietta”, cioè cambiare marcia senza usare la frizione ma solo sentendo ad orecchio il numero di giri dal ronzio del motore. Le gonne si raccorciavano pericolosamente, si marciava ormai verso la minigonna che avrebbe messo in mostra tutto ciò che prima era proibito mostrare, mentre la libertà sessuale che cresceva spontaneamente insieme alla nuova evoluzione imponeva i nuovi impensabili traguardi del controllo delle nascite. L’uso libero dei contracettivi, e poi la pillola e i consultori con l’impegno di pionieri come Luigi De Marchi ed altri leader liberali e radicali rivoluzionari, invisi sia ai cattolici che ai comunisti i quali non gradivano lo scardinamento della famiglia tradizionale. Palmiro Togliatti era stato guardato malissimo nel suo stesso partito per la sua relazione con Nilde Jotti benché avesse una moglie e un figlio a Mosca, sicché nella vita sociale italiana era molto più facile mettere d’accordo Peppone (il comunista emiliano ortodosso inventato da Giovannino Guareschi) con Don Camillo (suo antagonista prete, ma in fondo fratello bonario) piuttosto che quella frangia di mangiapreti non ortodossi fautori e difensori della libertà sessuale, che formeranno la spina dorsale del partito radicale, nato da una costola del Partito liberale. La Francia ci precedeva con una cinematografia sfrontata e delicata che fu chiamata “nouvelle vague”, la nuova ondata di una estetica drammatica e sessualmente limpida con opere come Jules et Jim di Francois Truffaut. Ma in Italia era anche l’anno del Sorpasso di Dino Risi mentre gli inglesi scendevano in campo con Peter O’ Toole nei panni arabi di Thomas Edmund Lawrence, più noto come Lawrence d’Arabia. E poi Stanley Kubrick osava ciò che oggi sarebbe inosabile, filmando Lolita, ovvero la storia erotica di un uomo adulto con una tredicenne. Ma il colpo dei colpi, l’autentico shock della rivoluzione cinematografica fu il primo, inaudito 007, licenza di uccidere, con Sean Connery e Ursula Andress. Noi che lo vedemmo allora eccitati e sbalorditi provammo una emozione ambigua erotica e cinica che consisteva nel parteggiare per un eroe che uccideva senza provare emozioni e seduceva le donne più belle anche mentre quelle cercavano di assassinarlo, ma mai prima di aver avuto il loro meritato orgasmo. James Bond (“Il mio nome è Bond: James Bond”) era molto schizzinoso e intollerante sulla ricetta del Martini cocktail: mescolato o shakerato? Questo il problema. Impallidivano dunque gli eroi enfatici per lasciar spazio agli eroi spietati, le donne non erano ancora femministe ma guardavano a Carnaby Street dove Mary Quant tagliava altri centimetri di gonna fino all’inguine, come vessillo di una libertà che da noi era tutta da conquistare con lenta e dolorosa fatica. Da noi, l’adulterio era ancora reato penale ma in galera andavano soltanto le donne perché trionfava ancora il motto secondo cui “peccato di pantalone, pronta assoluzione”, il che spiega bene come mai il tema più arato della allegra cinematografia italiana di quegli anni fossero le corna, in tutte le variazioni e sfumature, ma sempre corna.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1962

3 gennaio – Papa Giovanni XXIII scomunica Fidel Castro.

2 marzo – Wilt Chamberlain realizza 100 punti nella partita di Nba tra Philadelphia Warriors e New York Knicks.

18 marzo – Firma dell’accordo tra Francia e Fronte di Liberazione Nazionale per il riconoscimento dell’indipendenza dell’Algeria.

6 maggio – Al nono scrutinio, Antonio Segni è eletto Presidente della Repubblica Italiana.

31 maggio – Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili della Shoah, viene giustiziato nel carcere Ramleh di Tel Aviv.

2 giugno – L’Armata Rossa uccide decine di persone durante una manifestazione di protesta in una città sovietica, l’evento prenderà il nome di Massacro di Novočerkassk.

3 giugno – Un Boeing si schianta durante il decollo dall’Aeroporto di Orly a Parigi. Su 132 persone, sopravvivono due membri dell’equipaggio seduti nella poppa dell’aereo.

11 giugno – Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin evadono dalla prigione di Alcatraz. Dichiarati affogati nella baia di San Francisco, i loro corpi non verranno mai ritrovati.

5 agosto – L’attrice Marilyn Monroe viene trovata morta nella sua casa a Brentwood, Los Angeles. In Sudafrica, Nelson Mandela è arrestato e incriminato per incitamento alla ribellione.

15 agosto – Negli Stati Uniti esce il numero 15 della testata Amazing Fantasy, in cui debutta L’Uomo Ragno.

17 agosto – Peter Fechter viene ucciso per aver provato a passare da Berlino Est a Berlino Ovest.

18 agosto – Va in scena il primo concerto dei Beatles.

26 settembre – Esplode la guerra civile in Yemen.

27 settembre – Un’inondazione a Barcellona uccide più di 440 persone.

1° ottobre – James Howard Meredith è il primo nero a iscriversi all’Università del Mississippi.

5 ottobre – Esce in Inghilterra il primo film di James Bond.

11 ottobre – Si apre a Roma il Concilio Ecumenico Vaticano II.

16 ottobre – Scoppia la Crisi dei missili di Cuba.

27 ottobre – In circostanze misteriose precipita a Bascapè (Pavia) l’aereo di Enrico Mattei.

28 ottobre – Fine della Crisi dei missili di Cuba. Il leader sovietico Krusciov annuncia di aver ordinato la rimozione della base missilistica a Cuba. In un accordo segreto, anche Kennedy accetta di smantellare una base americana in Turchia.

1° novembre – Esce in edicola il primo numero del fumetto Diabolik.

6 novembre – L’Assemblea generale delle Nazioni Unite condanna l’Apartheid sudafricana.

7 novembre – L’Urss lancia nello spazio la prima sonda diretta verso Marte, ma questa si perderà a 106 milioni di chilometri dalla Terra.

Storia d’Italia, 1963: il sogno di Luther King e quello spezzato di JFK. Paolo Guzzanti su su Il Riformista il 30 Dicembre 2020. Perdonatemi la libertà di ricordare l’anno, il 1963, a partire da un fatto privato: il 25 luglio (venti anni dopo quello della caduta del fascismo) nacque la mia prima figlia Sabina in una notte di urgano di fine luglio. Spesi quella notte per aggredire gli scassatissimi telefoni pubblici, in panne per quella che oggi si chiamerebbe una bomba d’acqua e che era soltanto un acquazzone, per dare al mondo la notizia. Poi presi in braccio Sabina che mi stupì per l’aria serena sicché millantai che mi avesse detto: poi mi spiegherai tutto, vero? Dalla finestra della clinica si vedeva la basilica di Santa Sabina da cui scegliemmo quel bel nome romano che poi, a causa di un film di Audrey Hepburn, tutti hanno storpiato in Sabrina, con una “erre”. Pazienza. Ma il vero evento che sconvolse la vita e la fantasia di tutto il pianeta alla fine di novembre fu l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, leader del mondo occidentale, quello che aveva detto: «Non chiedere al tuo Paese ciò che tu vuoi, ma dì al tuo Paese che cosa sei pronto a dare». Bella frase. Una fucilata secca dalla finestra di una biblioteca scolastica gli fece volare via una scheggia di cranio. La moglie, sbalordita cercò di rimettergliela a posto. Pochi mesi prima, questo americano eroe di guerra, era salito su un palco eretto contro il terribile muro che aveva diviso le famiglie dell’ex capitale tedesca e disse: “Ich bin ein Berliner”, io sono un berlinese. Delirio della folla e del mondo. Da chi partì l’ordine di uccidere il Presidente, non si è mai saputo malgrado anni di inchiesta. Lee Harvey Oswald, il giovane che lo aveva ucciso con un fucile italiano Carcano modificato, era tornato dall’Unione Sovietica con una moglie russa e fu ammazzato durante un trasferimento in manette davanti alle telecamere con una revolverata sparata da un certo Jack Ruby, malato terminale di cancro. Fidel Castro pronunciò parole beffarde lasciando intendere che Kennedy se l’era cercata. Si disse che il complotto fosse stato ordito dai democratici del Sud di cui il vicepresidente Lyndon Johnson – che successe il giorno stesso a Kennedy giurando su una bibbia sgualcita – era considerato il garante. Secondo questa teoria i razzisti avrebbero eliminato Kennedy per bloccare l’integrazione prevista dal rivoluzionario programma della “nuova frontiera” che avrebbe fatto degli afroamericani dei cittadini con pari diritti in tutti gli Stati, anche nel Sud. Ma se questo fosse stato il movente, si rivelò sbagliato: Johnson usò il pugno di ferro come avrebbe fatto Kennedy per imporre l’integrazione nelle scuole, nei mezzi pubblici e nei posti di lavoro negli Stati guidati da democratici razzisti appoggiati dal Ku Klux Klan. Contrariamente a quel che molti credono, i repubblicani guidati da Abraham Lincoln furono quelli che scelsero la guerra civile contro i democratici affinché “tutti gli uomini fossero uguali come li ha creati Dio”. Tutti ricordano dove si trovavano quando arrivò la notizia della morte di Kennedy. Io ero a Torino per il mio primo servizio a un convegno di politica internazionale in un consesso di ambasciatori, cattedratici, analisti ed esperti che rimpiangevano la candidatura di Adlai Stevenson, un’autentica “testa d’uovo” famoso per aver detto ai sovietici: «Smetteremo di dire la verità su di voi quando voi smetterete di dire bugie su di noi». Le fucilate dalla biblioteca comunale di Dallas cambiarono sia il corso della storia, che quella immaginaria di ciascuno. Capimmo quanta attenzione meritasse l’America. Jacqueline Kennedy indossò per due giorni il vestito rosa macchiato di sangue e fu per questo molto biasimata. Ebbe inizio il più grande romanzo popolare collettivo di ogni tempo: un romanzo senza finale ma con infiniti colpi di scena. Qualcosa di simile capiterà a noi italiani sei anni dopo con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969, la morte dell’anarchico Pinelli precipitato dalla finestra della Questura, la teoria della “Strage di Stato”, con una mente già allenata dai delitti e dai complotti americani, con i servizi segreti deviati e gruppi eversivi dati genericamente per “fascisti” anche quando erano legati alla rete del KGB sovietico non meno potente della Cia. Il mondo, con l’America, aveva vissuto la morte del Presidente, poi di suo fratello Bob, quella di Martin Luther King che nel 1963 aveva pronunciato il suo spettacolare e storico discorso «I have a dream: ho sognato che questo Paese potrà mettere in pratica i suoi principi di eguaglianza visto che tutti gli uomini sono stati creati uguali». Fucilato. Come Malcolm X. L’Unione Sovietica nel 1963 confermò il suo primato spaziale spedendo in orbita la prima donna in tuta da astronauta: Valentina Tereshkova. Ma fu anche l’anno in cui Kennedy, prima di morire, decise di impegnare gli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, poi persa dopo anni di divisioni interne che portarono il mondo ad una crisi di coscienza e l’Occidente a un confronto sempre più rude con l’Unione Sovietica e la Cina. Ciò che Kennedy e poi Johnson non capirono, fu l’identità del nemico: pensavano a un guerrigliero nella foresta e si trovarono di fronte un potente esercito convenzionale armato di tutto punto da russi e cinesi, composto da divisioni, reggimenti, plotoni e una partecipazione popolare di donne che nessuno immaginava Quella guerra precipitò anno dopo anno la società americana in un inferno con canzoni, film, marijuana, droghe sintetiche e psichedeliche. crisi di coscienza collettive, il trionfo delle canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan. La condanna della guerra era unanime: in Europa la capeggiava il filosofo Bertrand Russell, ma Johnson la intensificò portando i bombardamenti a livelli distruttivi mai conosciuti, furioso con gli inglesi che avevano lasciati soli i cugini americani. Fu così che la regina Elisabetta dovette spedire la sua disinvolta sorella Margaret a chiedere un cospicuo prestito alla Casa Bianca, che ottenne dopo una nottata di ubriachezza e una gara di strofette oscene con Johnson, pazzo di lei. Finì il suo tempo nel 1963 anche Papa Giovanni XXIII, marchiato come “il Papa buono” benché fosse anche un eccellente politico, un anticomunista con simpatie per i socialisti. La sua morte commosse i non credenti che corsero a piazza San Pietro per rendere omaggio a un uomo che ha fatto di tutto per evitare la guerra: si chiudeva l’epoca delle tre icone “buone”: Kennedy, Krusciov e Papa Giovanni. Gli successe Giovan Battista Montini come Paolo VI, un intellettuale onesto, non sostenuto, si diceva, da una fede ferrea: toccò a lui tenere le redini della Chiesa fino all’uccisione di Aldo Moro nel 1978, quindici anni dopo. Ma ancora nel 1963 noi maschi portavamo capelli corti e niente barbe. Le ragazze avevano scoperto il diritto a fare sesso senza necessariamente spacciarlo per amore, come i maschi. Alcuni di noi maschi di frontiera avevamo letto la psicoanalisi francese sulla femminilità e discutevamo astrattamente della nuova paternità: essere «dalla parte delle bambine e delle donne. cominciando a non dire stai composta chiudi quelle gambe. Forse ai maschi si dice “chiudi quelle gambe e stai composto?» Il mondo delle tradizioni era profondamente inquieto. Le nonne brontolavano, il clero conservatore era furioso contro questi nuovi papi bizzarri e in chiesa e col latino spariva anche il prete in palandrane ricamate circondato da chierici che facevano pendolare dei bracieri d’incenso. Ora la Chiesa diventava una fucina di intellettualità in conflitto fra conservatori e rivoluzionari e dall’America Latina arrivavano le notizie dei “curas” (parroci) che portavano sia il crocefisso che il mitra, seguendo più o meno la “teologia della liberazione” mentre arrivava il primo album dei Beatles. Io facevo parte di quelli che cantavano le canzoni della guerra di Spagna e quelle d’amore francese. Prendeva vita sugli schermi televisivi il lamentoso pulcino Calimero e tutti attendevano il programma pubblicitario Carosello per dichiarare aperta la serata e l’ora di cena la serata. Eravamo in ebollizione e la lira girava molto perché tutti fabbricavano o intraprendevano qualcosa. Ma la disgrazia arrivò a causa di una diga. Il 9 ottobre del 1963 fu il giorno dell’immane sciagura del Vajont quando gli abitanti di Longarone erano a cena a guardare Carosello e così furono presi dalle acque, furono affogati come topi e di loro non rimase neppure l’urlo, ma solo una sostanza limacciosa. Il generale De Gaulle, Presidente della Francia non trascurava occasione per esprimere il suo disprezzo per gli inglesi e scommetteva che l’Inghilterra non sarebbe mai davvero entrata in Europa. L’Inghilterra intanto faceva la corte all’America di Re Artù, ovvero la Casa Bianca di John e Jacqueline Kennedy che ancora nel 1963 viaggiavano dominando il mondo con il loro charme. E benché l’elegantissima Jackie considerasse la regina Elisabetta una sciatta donnetta costretta a vivere in una casa orrenda, a quattr’occhi le rivelò le pene del suo matrimonio di facciata con il bel Presidente, violento e donnaiolo. Elisabetta ascoltò e dopo un attento silenzio disse soltanto: “Oh!”. L’Inghilterra perdeva pezzo dopo pezzo l’impero più grande del mondo e di tutti i tempi che aveva compreso Canada, Regno Unito, India, Australia e Nuova Zelanda e tutta l’Africa orientale dall’Egitto a Città del Capo. Il mitico “Empire” per cui si era battuto Winston Churchill cedeva alla profetica filastrocca sulla triste fine di un re uovo sodo, Humpty Dumpty, che si fracassò senza che più nessuno riuscisse a rimetterlo insieme. Inoltre, gli irlandesi stavano per riprendere la guerra civile per la definitiva indipendenza raggiunta dopo decenni di morti, esecuzioni, bombe come quella che farà saltare in aria il duca di Mountbatten zio del marito di Elisabetta. In Italia intanto la svolta a sinistra marciava a tappe forzate: i socialisti erano spaccati e riuniti da secessioni e unificazioni, divisi sulla politica delle nazionalizzazioni teorizzate Riccardo Lombardi, seguendo la moda anche dei laburisti inglesi. Ma nasceva anche la questione della Rai, che era stata sempre un dominio democristiano, ma aperto a tutti specialmente ai comunisti. Adesso i socialisti volevano il loro presidio e dopo qualche anno avrebbero ottenuto la loro rete. Tutto era ancora in bianco e nero e persino i film al cinema non erano tutti a colori. I cinema si dividevano in prima, seconda e terza visione, cui si aggiungevano le sale parrocchiali che incassavano soldi a palate con i filmetti comici popolari che ancora nessuno aveva considerato capolavori con il repertorio di Totò e Aldo Fabrizi, mentre cresceva nei teatri l’umorismo surreale di Renato Rascel che passeggiava sul palcoscenico dicendo: “Vedono? Loro, sono sempre lì che vedono?”. E tutti ridevano per l’effetto liberatorio dell’incomprensibile.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1963

11 febbraio. Si suicida Sylvia Plath.

21 marzo. Chiusura del penitenziario di Alcatraz.

8 aprile. Il film Lawrence d’Arabia vince sette premi Oscar.

11 aprile. Papa Giovanni XXIII pubblica l’enciclica Pacem in Terris.

2 maggio. A Birmingham, in Alabama, migliaia di neri sono arrestati mentre protestano contro la segregazione.

7 maggio. Nasce la casa automobilistica Lamborghini.

27 maggio. Esce l’album “The Freewheelin’ Bob Dylan”.

3 giugno. Muore a Roma papa Giovanni XXIII.

16 giugno. Valentina Tereshkova è la prima donna cosmonauta.

21 giugno. Il cardinale Giovanni Battista Montini viene eletto papa con il nome di Paolo VI.

30 giugno. In un attentato effettuato da Cosa Nostra perdono la vita sette uomini delle Forze dell’ordine: è la Strage di Ciaculli.

11 luglio. In Sudafrica, Nelson Mandela viene accusato di sabotaggio.

8 agosto. Assalto al treno postale Glasgow-Londra: una banda di quindici rapinatori ruba 2,6 milioni di sterline in banconote.

28 agosto. Martin Luther King tiene il discorso “I have a dream” davanti al Lincoln Memorial di Washington.

10 settembre. Bernardo Provenzano è incriminato. Il mafioso inizierà una latitanza lunga 43 anni.

29 settembre. Si apre la seconda parte del Concilio Vaticano II.

4 ottobre. L’uragano Flora si abbatte su Cuba e Hispaniola uccidendo quasi 7.000 persone.

8 ottobre. In Louisiana, Sam Cooke e la sua band vengono arrestati per aver cercato di registrare una canzone in un hotel riservato ai bianchi.

9 ottobre. Una frana si stacca dal monte Toc e precipita in un bacino artificiale al confine tra Friuli e Veneto, provocando un’onda che travolge e distrugge il paese di Longarone. L’evento, in cui muoiono quasi 2.000 persone, assumerà il nome di Disastro del Vajont.

10 ottobre. Muore Édith Piaf.

10 novembre. Malcolm X pronuncia uno storico discorso a Detroit.

22 novembre. A Dallas, in Texas, una serie di colpi d’arma da fuoco raggiunge e uccide John F. Kennedy mentre sta transitando con il corteo presidenziale. Lyndon B. Johnson giura come suo successore.

24 novembre. Lee Harvey Oswald, ufficialmente unico colpevole dell’omicidio Kennedy, viene ucciso nei sotterranei della polizia di Dallas da Jack Ruby.

25 novembre. Si svolgono a Washington i funerali di Kennedy alla presenza di oltre 90 capi di Stato e una folla di 300.000 persone.

8 dicembre. Frank Sinatra Jr. viene rapito.

10 dicembre. Giulio Natta riceve il premio Nobel per la chimica.

Storia d’Italia, 1964: dalla morte di Togliatti al Piano Solo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. È possibile che non esista un anno, del passato così come del presente e futuro, che sia un anno normale? In cui non sia accaduto nulla di speciale e che non abbia seminato uova di serpente che si sarebbero poi schiuse più tardi, molto più tardi? Questo reportage settimanale sugli anni passati che sto rimettendo insieme per il Riformista a partire dal 1945 quando ancora si combatteva e che arriverà – al Covid piacendo – fino ai nostri giorni non è esattamente un’opera storica, me neppure soltanto un esercizio della memoria. Nel 1964, io ero un giornalista di giorno, lavoravo la notte come correttore di bozze, avevo una figlia e raccoglievo, allora come oggi, appunti e infiniti ritagli di giornali con cui per anni ho invaso le case che ho abitato di spazzatura, superato dalle miracolose tecnologie di oggi. Ma gli strumenti che uso sono sempre e solo due: la mia memoria personale (con tutti i suoi limiti, ma anche con un certo ordine) e gli annuari che chiunque può consultare e che anzi raccomando ai lettori perché anno per anno si trovano gallerie fotografiche magnifiche. Ma anche in questa puntata mi trovo di fronte a un anno terribilmente importante perché accaddero cose di grandissima portata per il futuro, ma di cui – lo ricordo bene – nessuno si rendeva conto. Il mondo era ben diviso fra i due blocchi e i comunisti occidentali erano più o meno solidali con quelli sovietici, ma con alcune insofferenze e capricci. Tutti sapevano in Occidente come se la passavano nel blocco sovietico ma si preferiva non parlarne. In quell’anno, il 1964, ci fu un cambio della guardia epocale in Unione Sovietica con Leonid Breznev dalle cespugliose sopracciglia e un’espressione da sfinge che nel tempo sarebbe apparsa sempre più simile a quella di una mummia, e ci fu un cambio della guardia negli Stati Uniti dove il “presidente per caso” Lyndon Johnson (lo diventò nel momento in cui una fucilata esplosa da Lee Harvey Oswald fece saltare il cranio del presidente Kennedy, come abbiamo ricordato nella precedente puntata) vinse le elezioni di novembre e mandò avanti sia l’inutile e devastante guerra nel Vietnam che la storica decisione di integrare nei diritti civili tutti i cittadini americani e dunque anche i discendenti degli ex schiavi trattati come cittadini privi di diritti civili e segregati dai bianchi. Contemporaneamente, un altro Stato stava compiendo il cammino esattamente contrario ed era il Sud Africa, già perla dell’Impero britannico, che si distaccava dalla madrepatria inglese per diventare uno Stato razzista e segregazionista in cui l’apartheid avrebbe funzionato come campo di concentramento. L’impero britannico crollava pezzo per pezzo e di tanto in tanto dava segni di reazione muovendo le sue truppe o i suoi aerei come accadde quando fu bombardata Aden, nella riprovazione generale. Gli Stati Uniti erano ormai la superpotenza totale insieme all’Unione Sovietica, ma l’Impero colpiva ancora e avrebbe avuto il suo ultimo sussulto con la crisi di Suez di tre anni dopo. Ma l’Africa era in rivolta anche per la protezione che l’Urss e la Cina di Mao offrivano a tutti i movimenti indipendentisti, sicché si andava formando quel gruppo di Paesi cui sarebbe stato dato l’ambiguo nome di “Terzo Mondo”, né capitalisti alleati degli Usa, né comunisti alleati dell’Urss, per lo più ex coloniali come l’India dove, proprio in quell’anno morì il successore di Gandhi, Jawahaelai Nehru. Gli Stati Uniti, benché allo scontro frontale con Russia e Cina, tendenzialmente solidarizzavano con i Paesi ex coloniali, cosa che gli inglesi non perdonavano ai “cugini americani”, rifiutandosi di mandare truppe britanniche in Vietnam, cosa che provocò una profonda frattura fra le due nazioni di lingua inglese. In Italia morì Palmiro Togliatti e con lui non solo i comunisti italiani, ma la comunità internazionale dei comunisti perse uno dei massimi leader. Non è possibile liquidare qui in poche righe la figura di Togliatti, perché è stata una delle più complicate e terribili della storia. Ricorderemo soltanto che sotto il nome di Ercoli fu l’agente di Stalin nella guerra civile di Spagna dove si occupò prevalentemente di far fuori trotzkisti e anarchici e di curare il pagamento delle armi vendute dall’Unione Sovietica ai repubblicani in guerra contro le truppe golpiste di Francisco Franco e i suoi alleati italiani e tedeschi. Togliatti sottoscrisse la condanna a morte dei dirigenti comunisti polacchi nel 1937 decisa da Stalin per non avere imbarazzi quando avrebbe regolato i conti con Varsavia, sottoscrisse le esecuzioni di una moltitudine di comunisti italiani emigrati in Urss durante il fascismo ma più che altro Togliatti è stato centrale per aver imposto al Pci la strategia che prese il nome di “Svolta di Salerno”, al suo rientro in Italia ordinatogli da Stalin (fu il suo superiore Dimitrov a raccontarlo nei suoi diari) grazie alla quale trasformò un piccolo partito settario in un grande partito di massa aperto specialmente ai cattolici e agli ex fascisti, cosa che ottenne con atti sorprendenti come l’amnistia, il richiamo degli intellettuali fascisti sotto le bandiere del Pci e poi votando l’articolo 7 della Costituzione che legittimava e includeva i “Patti Lateranensi” firmati da Mussolini col Vaticano, che chiudevano per sempre il conflitto fra la Chiesa e lo Stato Unitario. Questi pochi elementi sono assolutamente insufficienti per dare un’idea dell’uomo a chi non lo ha studiato o conosciuto, ma certamente la sua morte avvenuta per ictus durante le vacanze estive in Crimea decapitò il Partito comunista italiano dalla sua miglior mente direttiva e gli succedette il comandante partigiano Luigi Longo. La cotonatura dei capelli delle donne raggiunse nel 1964 delle forme surreali e scultoree mentre le gonne si accorciavano, i capelli dei maschi adolescenti crescevano con le basette secondo la moda inglese portata dal gruppo dei Beatles, mentre in America un giovanissimo e solitario Bob Dylan accordava la chitarra sulla tragedia della guerra del Vietnam. Ma la capitale dell’impero inglese perdeva ogni anno e pezzo dopo pezzo i suoi domini, ancora stremata dalla guerra vinta vent’anni prima, in preda alle proteste e sommosse sindacali, con un partito laburista sempre più incline al socialismo e per questo sospettato di vicinanza con i servizi segreti sovietici e un partito conservatore che dopo Churchill non sapeva trovare un suo centro e una sua tradizione, affidandosi all’ambizioso Anthony Eden. L’Africa era teatro di rivolte anticoloniali e nazionaliste e Nelson Mandela, che diventerà molto più tardi il primo presidente nero del Sud Africa, è condannato a una lunga pena detentiva mentre i patiboli sudafricani lavorano come macellerie, procedendo a impiccagioni di massa di chiunque fosse sospetto di ribellismo. In Italia, il presidente della Repubblica Antonio Segni fu colto da ictus e dopo lenti giorni di agonia morì. Ma quella morte e il clima generale in Italia produssero un evento sul quale ho indagato anche io sia come giornalista che come presidente dei una Commissione d’inchiesta parlamentare e che – verro, falso o esagerato che fosse – produsse grandi conseguenze. Si tratta del cosiddetto “colpo di Stato” minacciato o vagheggiato, che non ci fu ma che avrebbe nelle intenzioni dovuto piegare le resistenze dei socialisti sulle condizioni del loro ingresso nel governo, cui il presidente Segni era decisamente contrario, in contrasto con il leader democristiano Aldo Moro e con quello socialdemocratico Giuseppe Saragat, che sarebbe poi diventato presidente della Repubblica. Le notizie sul preteso golpe uscirono tre anni più tardi sul settimanale l’Espresso per la penna di Lino Jannuzzi che ne ebbe notizia da varie fonti. Anche questo tema è troppo importante per essere liquidato in poche righe, ma il comandante generale dei carabinieri De Lorenzo fu accusato di aver predisposto un piano di arresti e campi di concentramenti in Sardegna che avrebbero spezzato le organizzazioni di sinistra e specialmente il Partito comunista. Poiché quel piano avrebbe dovuto essere attuato “solo” dall’arma dei Carabinieri, fu per questo detto “Piano Solo”. Ne seguirono processi ai giornalisti Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari che furono condannati in primo grado e che per questo furono messi in salvo – come allora era possibile grazie alle immunità – dal segretario socialista Giacomo Mancini che li mise in lista: il primo per il Senato a Sapri e il secondo per la Camera a Milano. Quel che è certo, e lo accenno appena qui rinviando a una successiva puntata uno sguardo più attento, è che i fatti di luglio del 1960 avevano spinto gli alleati della Nato a imporre al governo italiano un piano preventivo con cui far fronte ad altre eventuali “insurrezioni comuniste” e per questo fu selezionata l’arma dei Carabinieri che costituirono. Novità assoluta per la loro tradizione di polizia e polizia militare, una brigata corazzata. Si sa che Pietro Nenni, segretario del Partito socialista, non volle enfatizzare quella tensione anche se ammise di aver udito “un tinnar di sciabole”. Si disse che il presidente Segni fosse stato colto da malore in seguito a una lite accesissima con Saragat o con Moro, ma questi dettagli non sono mai stati confermati. Mentre in Africa le cose non volgono al meglio, in America si combatte una lotta senza quartiere tra il presidente Johnson succeduto a Kennedy ma non ancora rieletto col voto popolare e gli Stati del Sud che cercano di impedire l’integrazione razziale. Occorre ricordare brevemente come stavano le cose: gli schiavi africani nelle colonie americane furono introdotti da tutte le nazioni europee che avevano possedimenti in quel continente: e dunque portoghesi e spagnoli, inglesi, francesi e olandesi accusarono nel corso di due secoli sui mercati degli schiavi gestiti dagli arabi in Africa circa un milione di esseri umani. Quando le tredici colonie che formarono gli Stati Uniti si ribellarono alla madre patria inglese, dichiararono che tutti gli uomini nascono uguali, ma si limitarono a vietare l’introduzione di nuovi schiavi senza liberare quelli che lavoravano nelle piantagioni. La guerra civile dei primi anni Sessanta del XIX vinta dal primo presidente repubblicano Abraham Lincoln (che fu poi assassinato in pubblico) liberò tutti gli afroamericani ma senza equipararli ai cittadini bianchi. Gli Stati del Sud segregarono i neri vietando loro le stesse scuole, posti di lavoro, trasporti e luoghi di intrattenimento dei bianchi e fu varato un sistema di leggi razziali – dette “Leggi di Jim Crow” – in forza delle quali un cittadino nero valeva più o meno due terzi di un bianco per calcolare i collegi elettorali, ma non potevano votare. Quelle leggi furono negli anni Trenta studiate e applicate nella Germania nazista per creare basi giuridiche della privazione di alcuni cittadini dei loro diritti su base razziale, fondati su un precedente storico e gli Stati Uniti senza averlo previsto fornirono quel precedente. Dopo aver combattuto due guerre mondiali i neri chiedevano con continue rivolte che fossero garantiti i loro diritti e questo spiega la popolarità mondiale del campione dei paesi massimi, il nero Cassius Clay che abbracciò l’Islam con il nome di Muhammad Ali e che nel 1964 compì un viaggio trionfale in Africa. Il presidente Johnson ebbe un grande merito e un grande difetto. Il difetto fu di impantanarsi sempre di più nella guerra del Vietnam aperta da John Kennedy in un processo di escalation senza fine che poi porterà alla prima sconfitta militare degli Stati Uniti, accettata dal suo successore repubblicano. Richard Nixon. Il suo grande pregio fu quello di imporre col pugno di ferro e l’uso anche della guardia nazionale, l’integrazione razziale città per città, scuola per scuola, università per università. I tumulti e le manifestazioni si succedevano senza sosta. Era l’anno delle elezioni che avrebbe consacrato Johnson come presidente eletto, vincendo sul repubblicano Wallace. In Unione Sovietica, come abbiamo detto, Nikita Krusciov successore di Stalin, fa licenziato in tronco dall’apparato del partito dopo un estenuante processo a porte chiuse per aver condotto malissimo, lo scontro con gli americani sulla questione dei missili a Cuba e – cosa ancora più grave e disonorevole, per essersi tolto le scarpe e averle sbattute sul podio delle Nazioni Unite per esprimere scherno contro gli americani.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1964

12 gennaio: contraria alla collaborazione con la Democrazia Cristiana, la componente marxista del Partito Socialista Italiano dà vita al Psiup

29 gennaio: iniziano i Giochi Olimpici invernali presso Innsbruck, Austria

1 febbraio: a Sanremo, nella quattordicesima edizione del Festival, trionfa Gigliola Cinquetti con Non ho l’età (per amarti)

9 febbraio: i Beatles debuttano al Ed Sullivan Show,facendo 73 milioni di telespettatori

25 febbraio: Cassius Clay (Muhammad Alì) sconfigge Sonny Liston a Miami e si laurea campione del mondo dei pesi massimi

6 marzo: in Grecia Costantino II diviene Re della Grecia, dopo la morte di suo padre Paolo

29 marzo: da una nave ancorata al di fuori delle acque territoriali britanniche prende vita Radio Caroline, la prima stazione radio “libera” d’Europa

31 marzo: in Brasile il colpo di Stato militare sancisce l’inizio della dittatura

1 aprile: sempre in Brasile il Congresso elegge Humberto Castelo Branco come presidente

6 aprile: in Buthan, Jigme Palden Dorji, premier bhutanese, viene assassinato da uno sconosciuto

8 aprile: viene lanciato Gemini 1, il primo veicolo spaziale senza equipaggio dell’omonima serie

20 aprile: il presidente degli Usa Lyndon Johnson e quello dell’Urss Nikita Krushchev si accordano per un reciproco taglio alla produzione di materiale nucleare

14 maggio: a Corleone viene arrestato dai carabinieri il capo di cosa nostra, Luciano Liggio, latitante da 16 anni

28 maggio: a Gerusalemme viene fondata l’Olp

12 giugno: Nelson Mandela e altre sette persone vengono condannate al carcere a vita

26 giugno: cade il primo governo Moro, che non ottiene il voto di fiducia sull’approvazione di una legge a favore delle scuole private. La crisi politica apre la strada a un tentativo di golpe ordito dal generale Giovanni De Lorenzo, il Piano Solo

21 agosto: muore il segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti a Yalta, Unione Sovietica

14 settembre: inizia la terza fase del Concilio Vaticano Secondo

18 settembre: il papa Paolo VI riceve la visita di Martin Luther King

24 settembre: la Commissione Warren pubblica il rapporto sull’attentato a John Fitzgerald Kennedy. L’unico colpevole è Lee Harvey Oswald

15 dicembre: viene lanciato il primo satellite italiano, il San Marco 1 dal poligono di Wallops Island, Virginia

28 dicembre: Giuseppe Saragat è eletto presidente della Repubblica al 21º scrutinio

Mario Segni nel nome del padre: «Il Piano Solo e il Quirinale? Fake news diventata storia» Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 10/4/2021. Il libro — in uscita da Rubbettino — si intitola Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news. Ma potrebbe intitolarsi come un grande film con Daniel Day Lewis: Nel nome del padre. Mario Segni ha impiegato tre anni a scriverlo; ma lo pensa e lo prepara da tempo, almeno da quando sul padre Antonio — eletto presidente della Repubblica nel maggio 1962, costretto a dimettersi nel dicembre 1964 per le conseguenze di una trombosi — si è allungata l’ombra del «piano Solo», del «colpo di Stato» per mettere fuori gioco i riformisti e depotenziare il centrosinistra. Racconta Segni che la spinta a scrivere gli venne dal quarantennale dell’assassinio di Aldo Moro. «Comparvero molti articoli, anche di giornalisti di area moderata, che a proposito della crisi del luglio 1964 riprendevano il vecchio racconto del golpe: un atto eversivo — minaccia o pressione militare — per imporre una svolta moderata. Credevo che alcuni articoli importanti, come quelli di Paolo Mieli e altri pubblicati dal Sette diretto da Pier Luigi Vercesi, avessero modificato la linea storiografica. Vidi con stupore che era rimasta immutata. Un po’ tutti sostenevano che lo sviluppo del centrosinistra era stato interrotto da un traumatico intervento eversivo, attribuito all’arma dei carabinieri del generale De Lorenzo, e ispirato o diretto dal presidente Segni. Decisi allora di dedicarmi allo studio di quegli anni. Scoprii una cosa, prima con sorpresa, poi con rabbia: l’interpretazione passata alla storia, che ormai ricorreva anche nelle opere più recenti come quella di Miguel Gotor, non corrispondeva a un’interpretazione tendenziosa o a una forzatura. Si trattava di qualcosa di diverso: un cumulo di autentiche fandonie e falsità. Una mistificazione della realtà». Il libro parte dall’inchiesta di Lino Jannuzzi, pubblicata il 10 maggio 1967 sull’Espresso diretto da Eugenio Scalfari. Titolo: «Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano un colpo di Stato». Sostiene il figlio del presidente: «In tre pagine viene raccontata nel dettaglio la riunione tra De Lorenzo e lo stato maggiore al comando generale di Viale Romania, il 14 luglio 1964. De Lorenzo avrebbe ricevuto da mio padre la richiesta di garantire l’ordine pubblico. Consegna quindi ai generali il piano: stato d’allarme; sorveglianza delle persone ritenute pericolose in attesa dell’arresto e della deportazione in Sardegna; prosecuzione delle esercitazioni e dello spostamento verso Roma in atto. Il racconto è dettagliatissimo e impressionante. Posso dire sin da adesso che nulla di questo racconto, assolutamente nulla è vero: la riunione non si fece né quel giorno né mai, il discorso di De Lorenzo non fu mai tenuto, non fu decretato né l’allarme né la minima misura precauzionale. Non a caso, Saragat e Moro smentiscono nettamente. A quel punto, Scalfari chiede un intervento a Nenni. E qui si apre una delle vicende più significative. Perché Nenni, al quale viene attribuita la celebre frase sul “tintinnar di sciabole” (anche se non risulta se e dove l’abbia pronunciata), per decenni è stato fatto passare come colui che per primo aveva avvertito il pericolo. Ebbene, Nenni ha sempre negato che vi fosse stata alcuna forma di intervento o pressione armata, e l’ha ripetuto in tutte le sedi: articoli, interventi al tribunale e commissione di inchiesta, diario. Con straordinaria abilità si è fatto credere il contrario, al punto che oggi gli storici, compreso Paul Ginsborg, lo riportano tra i colpevolisti». Nel novembre 1967 inizia il processo Scalfari-De Lorenzo, che Mario Segni definisce «l’episodio più clamoroso e probabilmente quello che contiene più materiale interpretativo. Testimoniarono due ministri, un ex premier, sedici generali e sette colonelli. Si concluse con la condanna di Scalfari e Jannuzzi a pene vicine a quelle massime per la diffamazione (17 mesi di reclusione e 250 mila lire di multa per il primo, 16 mesi e 220 mila per il secondo). Per giustificare la sconfitta, la difesa iniziò la lunga polemica sugli omissis, sostenendo che era stato precluso ai giudici di indagare. Oggi che il governo ha desecretato tutto, sfido chiunque a trovare in quel vastissimo materiale qualcosa che avrebbe potuto influire sul processo. Nonostante l’esito inequivocabile, la campagna continuò martellante. Il fatto è che i tempi della giustizia non coincidono con i bisogni dell’informazione. Fatto sta che quando la motivazione uscì, sei mesi dopo, passò inosservata». Compreso il passaggio centrale: «L’attenta minuziosa verifica di tutte le risultanze processuali impone una sola conclusione, e cioè che non una delle affermazioni contenute negli articoli degli imputati ha mai avuto concreto fondamento di verità, e in sostanza che sotto il profilo della verità reale... Tutte le tesi formulate da Jannuzzi e da Scalfari nel giornale e nel dibattimento si sono dimostrate irrimediabilmente false». Due anni dopo, però, vi fu un altro processo per diffamazione contro il successore di Scalfari, Gianni Corbi; e il tribunale assolse. Sostiene Segni: «L’Espresso affermò che la vicenda giudiziaria si era quindi chiusa in parità, ma non è cosi. Il tribunale diede una diversa interpretazione giudica alla preparazione del piano da parte di De Lorenzo (irregolare in quanto fatta senza ordine del ministro), ma ricostruì nello steso identico modo il fatto centrale: affermò cioè che il piano aveva mere intenzioni difensive di tutela dell’ordine pubblico, e non esistevano prove che fosse stato usato in altro modo. Vi sono quindi due sentenze che hanno negato l’esistenza di un piano e di un comportamento eversivo. C’è poi un episodio che da solo fa crollare il castello accusatorio. Due anni dopo la crisi si deve nominare il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito. Mio padre si è dimesso, Moro e Nenni sono rimasti premier e vice, Saragat è il nuovo presidente della Repubblica. Al vertice dello Stato vi sono i tre uomini contro i quali, secondo la vulgata della sinistra, si sarebbe sviluppata la azione golpista di De Lorenzo. Eppure Moro, con l’appoggio di Nenni e Saragat e dei comunisti (Andreotti è contrario), nomina De Lorenzo. Ma come è pensabile che tre statisti designino alla più alta carica dell’esercito l’uomo che due anni prima con azioni eversive li avrebbe minacciati e offesi?». «La verità — conclude Segni — è che la sinistra italiana è stata incapace di affrontare la realtà e ammettere i propri errori, che dopo due anni di governo stavano affossando il centrosinistra. Molto più facile evocare un complotto e un Grande Vecchio, e attribuire loro la sconfitta. Ma così facendo si è ritardata di anni la maturazione dei riformisti, e si è costruito un tassello del mostro che stava per nascere, il terrorismo rosso. L’idea della violenza di Stato ha costituito per molti un alibi e una spinta al terrorismo. Allo Stato violento si risponde con la violenza». Sta dicendo che c’è un nesso tra il piano Solo e la strategia della tensione? «Storicamente no; appartengono a due mondi diversi. Ma il nesso è strettissimo nel modo in cui la strategia colpevolista ha raccontato la crisi del ’64. Non c’è opera della narrazione colpevolista che non indichi la crisi del ’64 come la prima vera pietra della strategia stragistica. E vi è un motivo ben preciso. La Dc e il suo mondo sono stati accusati di avere coperto o addirittura ispirato gli attentati. Ma se il partito è colpevole, mai nessuna persona viene accusata. E infatti accusare un partito è facile, accusare una persona è impossibile: servono prove, e servono accusati credibili. Per questa corrente di pensiero, il caso del ’64 è perfetto: accusati sono nientemeno che il presidente della Repubblica e l’arma dei carabinieri. Il racconto allora si completa, e deve essere sostenuto tutto. Ma se le cose stanno così, siamo in presenza di un’unica, gigantesca costruzione mediatica che ha raccontato in modo totalmente distorto due decenni di storia. Non è azzardato dire che si tratta della più grande fake news della storia repubblicana».

Tutta la verità sul golpe (mancato) che cambiò la storia d’Italia. Un generale che progetta un colpo di Stato. Le liste di oltre 700 oppositori politici da imprigionare. I dossier illegali dei servizi segreti. Un presidente allarmato. Questo fu il Piano Solo svelato da L’Espresso nel 1967. Una pagina esemplare di giornalismo. Che dà ancora fastidio a molti. Paolo Biondani su L'Espresso il 19 aprile 2021.

Roma, 2 giugno 1964. Il presidente della Repubblica Antonio Segni con Giulio Andreotti, all'epoca ministro della Difesa. Nel romanzo fantapolitico di George Orwell, “1984”, le notizie sgradite vengono vaporizzate: cancellate, rimosse dalla storia, come se non fossero mai esistite. «Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato», è lo slogan del regime. Nell’Italia smemorata di oggi il revisionismo di stampo orwelliano si arricchisce di un nuovo contributo: un libro di Mario Segni sul Piano Solo, che liquida quel progetto golpista del 1964 come una montatura giornalistica, accusando l’Espresso di aver inventato «la madre di tutte le fake news». Parole gravi, ma scollegate dalla realtà dei fatti, documentata da migliaia di atti parlamentari, dettagliati studi storici, fondamentali testimonianze mai smentite e definitive sentenze giudiziarie, tutte favorevoli all’Espresso. L’autore dell’opera non è in una posizione di assoluta imparzialità: è figlio di Antonio Segni, il politico democristiano che era Presidente della Repubblica all’epoca del Piano Solo, dimessosi dalla carica nel dicembre 1964 per malattia, poi accusato da mezzo Parlamento, compresi importanti ministri del suo stesso partito, di aver quantomeno tollerato le «deviazioni autoritarie» del Sifar, il servizio segreto militare allora dominato dal generale Giovanni De Lorenzo. L’ex presidente Segni, morto nel 1972, non ha mai querelato l’Espresso, che svelò il Piano Solo con una serie di articoli pubblicati a partire dal maggio 1967. Oggi però suo figlio proclama che il processo intentato da De Lorenzo a Roma contro il fondatore e direttore dell’Espresso, Eugenio Scalfari, e il giornalista Lino Jannuzzi, si sarebbe «concluso con la condanna a pene vicine a quelle massime per la diffamazione». Nelle interviste che pubblicizzano il libro, Mario Segni dimentica di precisare che quello era solo il verdetto di primo grado. E la sentenza finale? Vaporizzata. Eppure è pubblicata integralmente nel documentatissimo libro di Mimmo Franzinelli sul Piano Solo: Scalfari e Jannuzzi sono stati prosciolti dalla Corte d’Appello. Che non ha dovuto nemmeno riaprire il caso. Lo stesso De Lorenzo ha infatti ritirato le sue accuse, dopo aver visto assolvere già in primo grado, in un processo parallelo, altri due giornalisti dell’Espresso, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti. Nell’atto di «remissione» di entrambe le querele, datato 18 ottobre 1972, il generale riconosce di non avere «nulla a pretendere» dall’Espresso, che non ha sborsato alcun risarcimento. Scalfari e Jannuzzi hanno respinto pure l’invito di De Lorenzo a firmare anche solo «una lettera cordiale». L’assoluzione dell’Espresso è una verità giudiziaria, che si può criticare, ma non ignorare. Nessun revisionista è mai arrivato, ad esempio, a riscrivere la storia del processo a Enzo Tortora, parlando solo della condanna in primo grado e non dell’assoluzione in appello. A spiegare la ritirata strategica di De Lorenzo, oltre alla debolezza delle motivazioni della condanna poi annullata, è la forza probatoria di una requisitoria, poi recepita in molte importanti sentenze successive, firmata da un grande magistrato, Vittorio Occorsio, ucciso nel 1976 da un terrorista di destra. Chiamato a rappresentare l’accusa in primo grado, il pm ha chiesto invece l’assoluzione, confermando «la verità dei fatti» rivelati da Scalfari e Jannuzzi. La sua requisitoria è trascritta fin dal 1968 nel libro di Roberto Martinelli sul Sifar. Occorsio premette che lui stesso, all’inizio, pensava che «il colpo di Stato fosse una favola», ma si è ricreduto interrogando in aula «sei parlamentari, dodici generali, otto colonnelli», per concludere che «le cronache dell’Espresso sono vere, i fatti materiali sono stati provati». Con quella requisitoria il processo ai giornalisti si ritorce contro il generale. Occorsio parte dagli articoli dell’Espresso sulle «schedature illecite» di politici e attivisti di sinistra: «Cosa faceva il Sifar nel 1964? Spiava!», tuona il magistrato: «Che il Sifar avesse deviato dai suoi compiti, lo dimostra il fatto che il ministero della Difesa ha comunicato di aver distrutto 34 mila fascicoli che nulla avevano a che fare con la sicurezza dello Stato... Prima di De Lorenzo, mai il Sifar aveva spiato la vita privata di uomini politici». Alla base del Piano Solo, così chiamato perché coinvolgeva solo ufficiali dei carabinieri, c’era proprio quel dossieraggio: il piano prevedeva di «arrestare illegalmente» persone già schedate e spiate da anni. Occorsio sottolinea che le «liste dei politici da concentrare nelle caserme» furono discusse da De Lorenzo con almeno sei generali e colonnelli dei carabinieri, tra cui Carlo Alberto Dalla Chiesa, che al processo l’hanno testimoniato «con molta lealtà». Per fermare lo scandalo, il governo presieduto da Aldo Moro impose il segreto di Stato sulle relazioni d’inchiesta firmate da altri due generali, Manes e Beolchini, che per 24 anni sono rimaste coperte da «omissis». Il segreto è stato tolto solo nel 1991. Secondo Mario Segni, gli omissis non nascondevano alcuna prova di «pressioni militari sul governo» e l’intero Piano Solo sarebbe «un cumulo di falsità». La sua opinione contrasta però con montagne di documenti non trascurabili. Come le sentenze di condanna per le stragi neofasciste: caduti i segreti di Stato, tutti i giudici, da Brescia a Bologna, concordano nel definire il Piano Solo, testualmente, «un progetto eversivo, golpista», che segnò «l’inizio della strategia della tensione». In questi anni l’accusa non si è indebolita, ma arricchita di nuove testimonianze autorevoli. Il generale Nicolò Bozzo, ad esempio, ha dichiarato sotto giuramento di aver ricevuto personalmente una lista di vittime «da deportare dall’aeroporto di Linate in Sardegna», per rinchiudere in una base segreta di Gladio. I nuovi atti confermano che erano previsti 731 arresti «illegali», con «occupazione militare della Rai-Tv e delle prefetture». Nel processo all’Espresso, Jannuzzi riconobbe di non aver trovato prove certe del coinvolgimento del presidente Segni. Il pm Occorsio osserva però che a parlarne al giornalista furono tre parlamentari molto attendibili, tra cui Ferruccio Parri, che hanno giurato in aula di aver ricevuto quelle notizie dallo stesso De Lorenzo. Il ruolo del presidente non è mai stato chiarito: varie fonti ipotizzano che lui stesso fosse vittima delle manovre del generale. Mario Segni però non si accontenta di proclamare l’estraneità del padre: bolla come falso tutto il Piano Solo. Di certo racconta la versione di papà. Che però non coincide nemmeno con la testimonianza di altri leader storici della Dc, come Paolo Emilio Taviani, il tutore politico di Gladio, che fu ministro dell’Interno anche nel fatidico 1964. Sentito nelle indagini sul terrorismo nero, Taviani definisce il Piano Solo «una crisi drammatica», da inserire nei «precedenti lontani delle stragi». E descrive così la posizione del presidente: «I miei contrasti con Antonio Segni iniziarono il 22 febbraio 1964, al suo ritorno da un viaggio in Francia. Era rimasto fortemente impressionato dall’organizzazione anti-stalinista dei francesi. Mi chiese più volte cosa avessimo previsto in caso di insurrezione armata dei comunisti. Gli risposi che dopo la sconfitta dei secchiani né io, né i capi della polizia e dei carabinieri avevamo preoccupazioni del genere... Lo stesso Segni mi confidava però che altri alimentavano le sue preoccupazioni per la nostra apertura a sinistra». Dopo aver rinunciato al piano golpista, tenuto segreto, De Lorenzo fu promosso capo di Stato maggiore e silurato solo nel 1967, quando esplose lo scandalo dei dossier del Sifar. Tutti i fascicoli, dichiarati illegali, furono poi distrutti «con il fuoco» per ordine di Giulio Andreotti. 

Il piano Solo e la libertà di stampa. Miguel Gotor su La Repubblica l'11 aprile 2021. L'ex presidente della Repubblica Antonio Segni è raccontato in un libro del figlio Mario che tenta di smontare il presunto tentativo di golpe del 1964 denunciato dall’Espresso. Ma i documenti lo smentiscono. Il figlio dell'ex presidente della Repubblica Antonio Segni - morto nel 1972 e capo dello Stato dal 1962 al 1964 - , ha scritto un libro sul ruolo svolto dal padre nel corso della crisi dell'estate 1964, una delle più drammatiche della storia repubblicana (Il colpo di Stato del 1964, Rubbettino). Non si tratta propriamente di un instant book, essendo ormai trascorsi 57 anni dai fatti, ma l'autorevolezza di Mario Segni e la perentorietà delle sue tesi ("si tratta della più grande fake news della storia repubblicana") appaiono meritevoli di alcune puntualizzazioni. La vicenda, tenuta nascosta all'opinione pubblica, emerse soltanto il 14 maggio 1967, grazie alle rivelazioni del settimanale L'Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari, uscito con un'inchiesta a cura di Lino Jannuzzi intitolata Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano un colpo di Stato. Le inchieste giudiziarie successive dimostrarono l'esistenza del cosiddetto Piano Solo, così denominato perché doveva vedere in azione unicamente i carabinieri. In base a questo "piano di contingenza", se fossero sorti dei disordini di piazza, i militari dell'Arma avrebbero dovuto prendere il controllo dei principali centri strategici del Paese. Il piano era stato elaborato, a partire dal marzo 1964, dal generale Giovanni De Lorenzo, responsabile dei servizi segreti militari (Sifar) dal 1955 al 1962, che il 26 giugno 1964 lo comunicò in un incontro coi vertici dell'Arma. In quella circostanza egli aggiornò anche la lista dei cosiddetti "enucleandi", già presistente, ossia l'elenco di 732 militanti della sinistra azionista, socialista e comunista del mondo politico, sindacale e culturale dei quali era previsto l'internamento nel caso in cui fosse scattata l'emergenza. Secondo le memorie postume dell'ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani il piano prevedeva la loro deportazione anche in Sardegna, a Capo Marrargiu per l'esattezza, ove, nel 1990, si sarebbe scoperto che era stata stabilita, sin dall'ottobre 1956, la base di addestramento di Stay-Bhind, il cui atto istitutivo era stato seguito, sul piano militare, dal generale De Lorenzo e, su quello politico, da Taviani, quando Segni era presidente del Consiglio. Le rivelazioni dell'Espresso ebbero l'effetto paradossale di trasformare De Lorenzo, che aveva partecipato alla Resistenza, nel prototipo del generale neofascista col "monocolo". In realtà egli funzionò da parafulmine e da capro espiatorio per sfumare le responsabilità istituzionali, coraggiosamente denunciate dall'inchiesta del settimanale, che investivano anche il presidente della Repubblica Segni. Sia chiaro: in base alla documentazione nota e a quella superstite, il capo dello Stato, nel corso della crisi dell'estate 1964, non avallò mai un golpe ma alimentò il progetto di una "intentona", ossia un tentativo di esercitare una pressione di tipo militare capace di condizionare gli equilibri politici e di frenare la spinta riformatrice del governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro. Oggi sappiamo che, in quei frangenti, il dipartimento di Stato americano si oppose al progetto potenzialmente eversivo, preferendo puntare su un centrosinistra moderato in funzione anticomunista. Una scelta oculata in base alla quale, però, non si escluse che delle strutture della Nato potessero essere messe a disposizione dei carabinieri, nel caso in cui fosse scattata l'emergenza. Di certo, l'apposizione del segreto e di numerosi omissis da parte del presidente del Consiglio Moro ai documenti relativi alla crisi di quella estate o la loro deliberata distruzione e sparizione ostacolarono le indagini della magistratura e della successiva Commissione d'inchiesta parlamentare. Ad esempio, nel diario storico del Quirinale, a suo tempo vanamente richiesto dalla magistratura, non c'è traccia dell'incontro del 16 luglio 1964 tra Segni e De Lorenzo (questa è la data corretta, attestata dalle agende del generale e non quella del 14 luglio che comparve nell'articolo, peraltro assai informato, di Jannuzzi). Così anche dal telegramma inviato il 26 giugno 1964 dalla base militare Usa da Verona per l'Europa meridionale risultava che gli statunitensi erano al corrente dell'esistenza di un piano che riguardava i carabinieri e che lo stesso presidente Segni ne era a conoscenza ("President Segni aware this plan"). Ma la frase in questione per lungo tempo è stata coperta dagli omissis americani ed è stata pubblicata nel 2012 nel volume Il riformismo alla prova, a cura di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone (Fondazione Feltrinelli, pagg. 456), che Mario Segni non parrebbe conoscere. La gestione della crisi del 1964 raggiunse gli effetti minimi sperati perché è indubbio che il centrosinistra, nei mesi e negli anni successivi, subì un processo di progressiva normalizzazione trasformandosi in una sorta di centrismo aggiornato sicché l'asse della politica italiana subì di nuovo una correzione verso destra. In ogni caso la vicenda è significativa anche per un secondo motivo in quanto rimanda al nodo della libertà di stampa in questo Paese e del ruolo svolto dal giornalismo di inchiesta nella sua storia. Scalfari e Jannuzzi vennero condannati per il loro lavoro in un processo dove le forze erano impari perché la controparte era rappresentata da un ex capo di Stato ancora vivo e dai vertici delle Forze armate e dei servizi nazionali. In quei mesi, però, scrissero una pagina gloriosa sul diritto di informazione che spiace notare come oggi non sia considerata un patrimonio comune del giornalismo italiano. Il 7 agosto 1964 un ictus colpì Segni impedendogli l'esercizio delle funzioni presidenziali. L'incidente accadde a seguito di un acceso diverbio durante un colloquio con Moro e Saragat che il primo riferì nell'immediatezza degli eventi al suo collaboratore Corrado Guerzoni. Nella circostanza Saragat avrebbe accusato il presidente della Repubblica di avere "tramato" con i carabinieri in occasione del Piano Solo come lo stesso Guerzoni ha raccontato in un libro su Aldo Moro (Aldo Moro, Sellerio, pagg. 94-95) e sostenuto, con dovizia di particolari, in un'intervista registrata concessa al principale studioso del Piano Solo in Italia Mimmo Franzinelli. Rispetto a questa ricostruzione, suscettibile come tutti i tentativi di interpretazione storica di essere oggetto di una costante revisione critica, cosa apporta di nuovo il libro del figlio di Segni? È una testimonianza interessante, riprova di un tenerissimo amore filiale di cui sarebbe sbagliato non tenere conto in un Paese pieno di buoni sentimenti come il nostro. A questo proposito non è inutile ricordare una frase di Francesco Cossiga, che sono certo il suo padrino politico Antonio Segni avrebbe apprezzato: "La grandezza politica dell'uomo non è necessariamente legata alla sua statura morale. Conoscere il male per averlo frequentato: è questa la caratteristica dei grandi leader politici così come dei santi".

La verità su Segni, il "Piano Solo" e il golpe. Mario Segni il Il libro del figlio dell'allora capo dello Stato: documenti e carte lo dimostrano. Negli anni Sessanta una formidabile campagna mediatica aperta dall'Espresso di Eugenio Scalfari accusò il presidente della Repubblica dell'epoca, Antonio Segni, e il Comandante dell'Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, di avere organizzato durante la crisi di governo del 1964, un colpo di Stato. Il progetto con cui doveva realizzarsi fu denominato piano Solo. Di fronte alla evidente constatazione che non era successo niente la campagna arretrò dicendo che si era trattato di una minaccia armata che aveva costretto il Partito socialista a rinunciare alle riforme progettate, e aveva determinato una svolta a destra della politica italiana. L'accusa ebbe uno straordinario successo di opinione e di stampa. Su di essa si innestò, negli anni 70, un’altrettanto formidabile campagna contro la Democrazia cristiana, dipinta come partito golpista, responsabile di coprire, o addirittura di ideare i drammatici attentati (spesso di matrice fascista) che insanguinarono l'Italia in quegli anni. In realtà vi erano molti argomenti che indicavano la assoluta inconsistenza delle accuse. Per due volte della questione fu investito il Tribunale di Roma. Nella prima sentenza i giornalisti dell'Espresso furono condannati per diffamazione, nella seconda assolti: ma in ambedue i casi il Tribunale escluse l'esistenza di un disegno eversivo. La stessa conclusione fu raggiunta dalla relazione di maggioranza della Commissione di inchiesta parlamentare e di una commissione del ministero della Difesa. Nonostante questo la campagna ebbe un grande successo. Gran parte della pubblicistica e dei libri di storia la hanno accolta, lasciando in gran parte della pubblica opinione l'idea che in quella estate era successo comunque qualcosa di eversivo. Lo si deve molto al grande appoggio politico ricevuto da gran parte della sinistra, che la democrazia era stata in pericolo. Come rileva Agostino Giovagnoli, uno dei più importanti storici di questo periodo, si rivela qui «un problema della sinistra italiana durante la prima Repubblica: la difficoltà di fare i conti con i problemi reali, compresi i propri limiti e i propri errori». Ho lavorato per alcuni anni sull'enorme materiale documentario di tutta la vicenda per difendere la memoria di mio padre, accusato di qualcosa che un uomo, uscito da venti anni di antifascismo e protagonista nella costruzione della democrazia italiana e nel miracolo economico, non avrebbe potuto nemmeno immaginare. Con una angoscia e una rabbia crescente ho toccato con mano la assoluta inconsistenza del castello accusatorio, e la totale falsità di tante delle affermazioni riportate. Il caso più eclatante è quello di Pietro Nenni, citato da una lunga pubblicistica come colui che avrebbe denunciato il complotto, ma nella realtà sostenitore esplicito della assoluta inesistenza di ogni disegno eversivo. Due anni dopo il presunto golpe il generale De Lorenzo fu promosso capo di stato maggiore dell'Esercito da quegli stessi uomini (Saragat presidente della Repubblica, Moro presidente del Consiglio e Nenni vice premier) che secondo il racconto sarebbero state le vittime della minaccia armata e del progetto golpista. Come è credibile che tre statisti nominino alla carica più importante dell'esercito un uomo che due anni prima aveva organizzato contro di loro un terribile disegno golpista? Ho raccontato tutto questo in un libro che è da pochi giorni nelle librerie, Il colpo di Stato del 1964. È giusto che gli italiani sappiano che mai la democrazia italiana è stata in pericolo. Chi ha costruito un racconto inesistente ha veramente realizzato la più grande fake news della storia repubblicana.

La storia del 1965, l’anno di Malcom X, Cassius Clay e della guerra in Vietnam. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Ecco un anno, il 1965, in cui la Storia si raggomitolò come una molla e nessuno era davvero in grado di capire quanta e quale energia si stesse accumulando sotto il vulcano e come sarebbe venuta fuori e con quali terremoti. Al terremoto mancavano ancora tre anni, più o meno, e il mondo sembrava ancora banalmente sferico, stabile, diviso nei due poli americano e russo, con la destra e la sinistra ben opposte con alcuni margini grigi, ma le cose andavano, l’economia trottava, i cinema erano affollati, si fumava in sala e sullo schermo passavano decine di film astuti, commerciali e divertenti intessuti di allusioni sessuali grevi ma timorate di Dio. Era l’epoca in cui andavano di moda le maggiorate fisiche come Gina Lollobrigida e Sophia Loren ed erano donne dai seni prorompenti, glutei da esposizione, vita da vespa e gambe lunghissime. Gli uomini si inondavano di dopobarba perché si radevano tutti e l’uso del deodorante era considerato ancora una americanata decadente. Nessuno osava dire “cazzo” in pubblico e i comunisti non erano meno pudichi dei cattolici e nelle famiglie giravano ancora molti ceffoni, l’educazione era autoritaria anche se ben servita nelle scuole specialmente pubbliche, esistevano ancora molti contadini che però si inurbavano a decine di migliaia e aspiravano ad entrare nelle fabbriche e poi a mandare i figli a scuola e all’università e si sentiva che il vecchio mondo era morto e che quello nuovo sembrava davvero attraente. Dai paesi di lingua inglese arrivavano fiumi di musica, le canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones furoreggiavano e da noi furoreggiava il genere melodico pieno di mamme che piangono, gondole sulla televisione e centrini ricamati in un’orgia eclettica che comprendeva orologi a cucù in stile arabo-svizzero oltre che frequenti abbondanti gondole veneziane, mentre declinavano i mobili Rinascimento con i suoi buffet e contro-buffet e specchiera, zampe di leone, e camere matrimoniali di quercia per coppie di stabilità sacramentale. L’America era in guerra, sia dentro sé stessa che fuori, nel lontano Vietnam dove adesso sbarcavano i primi tremila marines combattenti. I bombardamenti sulle foreste non servivano a nulla, il regime del Vietnam del Sud aveva ambizioni muscolari e il presidente Johnson con il suo Stato maggiore non aveva capito che di fronte all’armata americana non c’erano dei guerriglieri della foresta, ma uno degli eserciti convenzionali più forti del mondo, armato sia dalla Cina di Mao Zedong che dall’Unione Sovietica. In Italia si svolgeva la storia minore e non eccitante della prima Repubblica con la scacchiera dei partiti di governo – la Democrazia Cristiana, i socialisti, i socialdemocratici e i repubblicani – e le due opposizioni con diversi ranghi: a sinistra il grande e potente Partito comunista con cui era d’obbligo un dialogo continuo, laborioso ed estenuante per battersi su una terreno di trattative e compensazioni perché il Pci si supponeva dovesse essere tenuto fuori dalla stanza dei bottoni a causa della guerra fredda. Tutti dialogavano e trattavano con i comunisti, la cui classe dirigente era osservata con preoccupazione e ammirazione dagli analisti occidentali che, tentavano di dialogare con i comunisti italiani, – più evoluti e laici – che con quelli francesi, meno flessibili mentre in quel partito si rilevavano tenui segnali di critica e di insofferenza nei confronti dell’Unione Sovietica. Girava questa barzelletta: «L’Unità ha indetto un concorso a premi per i compagni più attivi. Primo premio: una settimana in Unione Sovietica. Secondo premio: due settimane in Unione Sovietica, Terzo premio…». Ma l’Urss era ancora considerata una potenza mondiale d’avanguardia e con tutti i difetti e – ammettiamolo – gli errori e i crimini del compagno Stalin era ancora la punta avanzata del più grande esperimento socialista. La corsa nello spazio era ancora un primato sovietico ma proprio nel 1965 gli americani si impegnarono e misero in orbita i loro astronauti che si muovevano nelle passeggiate spaziali spruzzando una specie di spray. Ma la guerra nel Vietnam stava diventando l’evento monstre da cui si generava tutta la comunicazione: musica, cinema, manifestazioni di protesta, cannabis. Gli americani che tornavano dal fronte vietnamita erano quasi tutti strafatti di marijuana e, seguendo l’esempio dei loro predecessori francesi, anche di oppio, eroina, Lsd. Cominciavano le fughe verso il Canada per evitare la coscrizione e il Canada tornò a essere un nemico interno per il governo americano, così come lo era stato dai tempi della rivoluzione, perché aveva sempre protetto e ospitato i lealisti realisti, come era accaduto nella Vandea della Rivoluzione francese. Inoltre, gli americani erano profondamente offesi dal mancato aiuto degli inglesi che non avevano dimenticato il tradimento americano del 1956 quando il primo ministro Anthony Eden aveva invaso l’Egitto del rais Nasser per impedire la nazionalizzazione del canale di Suez. Il grande gelo fra i due popoli di lingua inglese continuava. L’America era isolata e al suo interno si stava combattendo una vera guerra civile: gli afroamericani, liberati dalla schiavitù con la guerra civile del secolo precedente, non avevano diritto di voto, né di sedere negli stessi autobus e usare le stesse scuole dei bianchi e adesso il governo federale faceva applicare l’integrazione con l’uso della Guardia Nazionale e dunque la turbolenta nazione non cessava, come non cessa oggi di stupirsi, indignarsi, scontrarsi. Per il Vietnam partivano preferibilmente giovani neri, per lo più volontari alla ricerca di un lavoro e quello del soldato è un lavoro. Nel Vietnam avrebbero avuto non solo il battesimo del fuoco ma avrebbero imparato a costruire una nuova identità, quella del soldato americano nero che era comparso già nel 1918 con un corpo di volontari (i neri erano ritenuti inadatti alla disciplina militare e anche a praticare gli sport maggiori), poi durante la Seconda guerra mondiale con reggimenti e squadroni di aerei pilotati da neri e adesso in Vietnam sperimentavano la scomodità di sentirsi invasori che sottomettono, sentendosi a loro volta sottomessi. Malcolm X, il più geniale e colto intellettuale afroamericano, parlava come un dio mentre lo aspettava la morte, e il gigante Cassius Clay con il nome di Mohammad, metteva KO sia bianchi che neri quando la boxe era ancora un meraviglioso spettacolo. Migliaia di soldati dal nome italiano, i tanti Capoto, Rossi, Macrì, con tutti i cognomi in “ucci”” o “ini” dei toscani e quelli che finiscono per “O” di origine campana, combattevano e morivano a decine, come si può vedere dallo straziante Memorial del Vietnam a Washington in cui si cammina fra alte mura di marmo sulle quali sono intarsiati i nomi dei caduti uno dopo l’altro. In Italia la mafia andava benissimo e faceva affari molto grassi mentre Tommaso Buscetta – che diventerà il primo grande pentito nelle mani di Giovanni Falcone che lo andò a recuperare in Brasile – si era rifatto la faccia da Indio in Messico sperando di sfuggire alla fazione che aveva sterminato tutta la sua parentela, facendosi chiamare Manuel Lopez Cadena. Il centro sinistra era diventato una formula di governo istituzionale e i socialisti perdevano mordente e voti, ma i rapporti con la Dc erano stabili perché quest’ultima aveva trovato la sua formula magica che ne spiegava l’enorme consenso: conteneva al suo interno un clone di ogni altro partito, ma in versione cattolica: c’era una gagliarda componente sindacale, i filocomunisti e i filofascisti, non molti veri liberali come Aldo Moro e Francesco Cossiga, ma aveva personaggi clamorosi come Amintore Fanfani, un professore accademico che era stato fascistissimo ma che ora rappresentava la sinistra dialogante: chiunque volesse dialogare con i socialisti o i comunisti, doveva passare sotto lo sguardo scrutatore di Fanfani. Giulio Andreotti era già il divo Giulio sornione e molto preso dalle frequentazioni mondane ed era storicamente il deputato più votato d’Italia perché, si diceva, tutte le monache hanno l’ordine di votare per lui, come se le suore fossero milioni. L’Italia riceveva l’Oscar delle monete per la tenuta della nostra Lira e bisogna dire che il Paese faceva la sua porca figura sia nella produzione industriale e automobilistica, negli elettrodomestici e nell’editoria, nel cinema e nella musica e con la sua smodata, impertinente, indisciplinata e caciarona voglia di vivere. Allora come oggi, la retorica furoreggiava. Dopo il malore che aveva portato via dal Quirinale Antonio Segni, gli era succeduto il candidato delle sinistre Giuseppe Saragat, una volta odiatissimo per il suo anticomunismo che lo aveva portato alla scissione del 1948 a Palazzo Barberini, ma poi diventato l’incarnazione dell’antifascismo in esilio e anche della passione per il vino. Di lui si diceva che facesse l’alzabandiera mattutino con bianco, rosso e del Verdicchio e l’aneddotica lo dava sempre un po’ alticcio. E implacabile nell’invio di abbondanti telegrammi di congratulazioni, condoglianze, partecipazione, testimonianza, memoria o anche di compleanno. I suoi telegrammi erano letti con voce compunta dagli speaker della Rai e quando Enzo Jannacci scrisse una delle sue canzoni più delicate e geniali, Giovanni telegrafista, girò voce – pensate che tempi e quale pudore – che probabilmente Jannacci come personaggio non aveva in mente il telegrafista Giovanni, ma l’altro telegrafista, Peppino, inquilino del Quirinale. Era un’Italia delicata e amabile, in cui con geniale effetto sorpresa uscì la rivista di fumetti Linus il cui primo numero andò in edicola lo stesso giorno di maggio in cui nacque mio figlio Corrado, che volle subito sapere che cosa Umberto Eco pensasse di Charlie Brown.

La Storia del 1966, dall’alluvione di Firenze alla scomparsa di Walt Disney. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Era il 27 aprile del 1966 e fu quello il giorno in cui cominciò il Sessantotto. Fu con i primi scontri fisici e il primo morto: Paolo Rossi era uno studente che perse la vita durante un assalto dei neofascisti di “Caravella” alla Facoltà di Lettere e Filosofia dove si tenevano le elezioni universitarie. Io ero lì nella calca e avevo in collo mia figlia di appena tre anni, l’avevo portata con me perché era una bella giornata di primavera e questi fascisti erano un genere umano oggi scomparso, magari sostituiti da altri generi di squadristi, ma allora il nostro mondo era fatto così: quelli di sinistra si vantavano di non saper e voler picchiare, o anche andare in palestra e avere una cura atletica del proprio corpo. Tutti dibattiti e ideologia, parole, milioni di parole. I fascisti invece si agganciavano alla memoria storica del fascismo perché era viva la generazione che era stata davvero fascista e dunque erano proprio “nostalgici” come venivano chiamati: nostalgici. Noi eravamo distribuiti su tutte le gradazioni del rosso. Non c’era ancora alcuna idea di femminismo e a sinistra il maschio alfa era quello con più libri. A destra quello con l’atteggiamento più sfrontato, i muscoli e la voglia di menare. Quando c’erano le elezioni universitarie che eleggevano un parlamentino che aveva sede nella Casermetta dell’Orur (tutti i leader erano partiti da lì) finiva a botte. Quel giorno, per la prima volta ci scappò il morto che fu questo povero ragazzo che cercava di calmare gli animi, era socialista, prese dei pugni, ebbe un malore e forse cadde dal muretto o forse fu spinto, fatto sta che lo portarono via con l’ambulanza e dopo una lunga agonia morì. Le facoltà furono occupate, la rivolta investì il magnifico rettore Papi che era il bersaglio del nascente movimento studentesco, la Celere – i reparti antisommossa della polizia di quel tempo – entravano con le camionette o le jeep nella Città universitaria della Sapienza, fu dichiarata l’assemblea permanente. Io ero un cronista dell’Avanti, il quotidiano socialista che aveva sede a vicolo della Guardiola a venti passi da Montecitorio e stampavamo con la rotativa che i tedeschi avevano cercato di portare in Germania e che era la stessa di prima del fascismo, sferragliante come un treno, ogni notte, le nostri notte sporche di inchiostro e di bozze e di urla. Così cominciò la lunga stagione delle battaglie nelle università cui si sarebbe aggiunta subito la Statale di Milano e poi le altre. A Milano gli studenti del liceo Parini misero in crisi l’Italia perbene pubblicando un giornalino, La Zanzara con una inchiesta sulla sessualità delle ragazze. Domande e risposte, Uno scandalo enorme: la Chiesa, i partiti, le istituzioni, la magistratura, la buona borghesia, la cattiva borghesia, non potreste oggi nemmeno immaginare. Ci fu un processo contro gli studenti e le mamme erano tutte agitate per la verginità delle loro figlie, insidiate da questi atei che giravano adesso impunemente, senza una morale, senza rispetto per i sacri tabù della sessualità. Ancora non si usavano gli assorbenti, o molto poco, e le madri avevano un controllo diretto su ogni ritardo e il terrore correva sui flirt, gli amori appassionati. E comunque quella fu una scintilla che diventò un incendio perché apparve fin troppo chiaro alla buona società che in quelle facoltà occupate dove gli studenti dormivano – dicevano di dormire! – non potete immaginare che cosa succedesse. Anzi, lo potete immaginare benissimo. La nuova Chiesa di papa Montini, Paolo Sesto, a febbraio aveva abolito l’istituzione dell’inquisizione detto “Indice”, ovvero l’elenco sempre occhiutamente aggiornato dei libri proibiti ai cattolici. Peccato mortale in libreria. I giornali e i settimanali dovevano stare attenti con le foto delle attrici perché se si vedevano, o si fosse solo intuito un capezzolo, bàng: sequestro, rogo, ordine di cattura e galera. Amintore Fanfani, molto basso di statura ma molto autoritario per natura, aveva fatto imporre alla Rai l’uso di body di lana che le ballerine portavano sulle gambe e i glutei. I comunisti non erano meno sessuofobici dei cattolici e però cominciava a fermentare un’area di libertari rompicoglioni e provocatori fra i quali si sosteneva il diritto agli anticoncezionali, nascevano i centri Aied consultori per le donne che inserivano la spirale e spiegavano senza vergogna alle ragazze come far usare il preservativo ai loro fidanzati. Le occupazioni universitarie furono un terreno di coltura fiorente per la prima ondata di liberazione sessuale che sarebbe arrivata di lì a due anni con il famoso Sessantotto. In fondo, dall’impresa di Fiume di D’Annunzio al 1968 erano passati sessant’anni, quanti ne sono passati (più tre) dal ’68 ad oggi, come ricordò Giordano Bruno Guerri che è il miglior studioso delle cose fiumane e dannunziane. L’intervallo di tempo fra il 1918 e il 1968 scandì due rivoluzioni sessuali: finché il “Soviet” di Fiume non fu sloggiato dalla Regia marina a suon di cannonate, tutte le ragazze fuggirono dai collegi per correre all’avventura nella città libera e libertaria, un po’ prefascista e un po’ bolscevica, e così fecero tutti gli omosessuali e i transgender di ogni sfumatura. Nel 1966 era ancora presto, ma già tirava l’aria. L’Arno andò fuori dagli argini il quattro novembre e fu l’alluvione di Firenze. Un disastro che non ha mai avuto l’uguale. Migliaia di opere d’arte devastate, manoscritti impappati, fango ovunque e morti come per la guerra. La gente che si trovava in strada affogò e alcuni si aggrappavano ai mobili che galleggiavano. Secondo Vanna Vannuccini, grande giornalista ed amica, chi stava alla finestra somministrava consigli a chi lottava nei gorghi: “La batta i piedi!”, incitavano gli spettatori all’asciutto. Il disastro fu mondiale, corsero e migliaia a Firenze per salvare la città e anche in quella occasione si formò un movimento spontaneo di volontari detti “gli angeli del fango” e si capì che non esisteva nulla di ciò che noi oggi chiamiamo protezione civile e consideriamo un pubblico servizio. Non esisteva nulla, fango, pompieri e volontari e nottate di discussioni e anche d’amore nel fango. Il governo erogava mezzo milione di lire ai commercianti, ma il Crocefisso di Cimabue era perduto, salvo frammenti. Fu allora uno dei primi grandi eventi unificanti nella disgrazia, del nostro Paese, come lo saranno alcuni terremoti negli anni a venire. Fuori dall’Italia. Le guerre andavano bene: quella fredda era sempre minacciosa ma tranquilla e quella rovente del Vietnam era in preda all’escalation decisa dal presidente Lyndon Johnson inghiottito da un gorgo di rabbia che oggi gli storici spiegano col fatto che gli americani non avevano la più pallida idea di che genere di guerra stessero combattendo e perdendo, mentre arrivavano continue notizie di esecuzioni di massa che provocavano in America impennate di ribellione nelle coscienze. John Lennon intanto dal Regno Unito sosteneva pubblicamente che i Beatles erano «più popolari di Gesù Cristo» e in Unione Sovietica Leonid Breznev diventò segretario generale del Partito comunista sovietico e avrebbe dominato la scena mondiale per molti anni con la sua corporatura sgraziata, le sopracciglia cespugliose e la più scrupolosa assenza di senso dell’humor, uno stile massiccio e sgraziato che sarebbe passato alla storia come “breznevismo”: immobilismo senza speranza e senza afflato di alcun genere alla guida di uno stato di polizia, e di superpotenza. Il generale De Gaulle, presidente francese molto ostile ad americani e inglesi, decise di proporre ai russi un sogno europeo comune “dall’Atlantico agli Urali” e fece uscire la Francia dalla Nato, dopo aver avviato una discreta produzione di bombe atomiche e nucleari che emettevano i loro funghi ovunque, a quei tempi. I test nucleari erano all’ordine del giorno ed eravamo abituati anche a questo. Ancora nessuno parlava di ecologia e di ambiente, inquinamento e plastica, tutti fumavano. Fumavamo come turchi e tutti buttavano bottigliette vuote in giro e sporcavano e le strade erano coperte di cicche e nei cinematografi non respiravi. Ma a suo modo era anche bello: faceva atmosfera quando andavi a vedere i film francesi in bianco e nero nel fumo azzurrino. Negli Usa partì la saga di Star Trek ma a metà dicembre moriva il più grande creatore di fiabe dopo Esopo, La Fontaine e i Fratelli Grimm, e cioè il creatore di Mickey Mouse e Donald Duck, due versioni dell’americano medio, ma anche di tutti gli esseri umani nella loro piccolezza comica e perdente. Walt Disney aveva avviato un impero con la sua matita e io feci in tempo a vederlo dal vivo poco prima, quando a Torino lo incontrai nell’ascensore. Solo nell’ascensore. Rimasi paralizzato e lui sorrise con quei baffetti alla Clark Gable e poi non lo vidi più e morì. Ma nella Cina di Mao avevano, intanto stampato l’infernale Libretto Rosso che diventò l’ossessione di tutti quelli di sinistra. Ne furono fatte varie versioni replicate, ma il vero “libretto rosso”, quello prezioso e autentico doveva avere il marchio del partito comunista cinese di Pechino su carta riso e una stampa nitida con tutte le massime rivoluzionarie simili a quelle di Chance il giardiniere del film Oltre il Giardino con Peter Sellers di cui abbiamo detto nella precedente puntata. Io ne ottenni una copia da amici calabresi di origine albanese perché l’Albania di Enver Hoxha aveva appena abbandonato il campo dell’Urss per passare dalla parte della Cina di Mao (fra le superpotenze comuniste tirava aria di guerra) e dunque gli arbëreshë (albanesi di Calabria e Sicilia) ebbero dal console di Tirana speciali tirature del sacro libretto, insieme forniture di autentici berretti maoisti, come quello che Andy Warhol dipinse mille volte con il faccione di Mao Zedong, alternandolo con quello sexy e sognante di Marilyn Monroe, oltre al barattolo della zuppa Campbell.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1966:

2 gennaio-  viene liberata Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore

9 gennaio – a Madrid si disputa la prima edizione della Coppa Intercontinentale di pallacanestro conquistata dalla squadra italiana della Ignis Varese

13 gennaio – Robert Weaver diventa il primo ministro afroamericano nella storia degli Stati Uniti

4 febbraio – viene abolito l’“Indice dei libri proibiti”

14 febbraio – a Milano, sul giornalino studentesco “La Zanzara” del liceo Parini, viene pubblicata un’inchiesta sul ruolo e sulla sessualità della donna: scoppia uno scandalo di dimensioni nazionali

4 marzo – John Lennon rilascia la famosa dichiarazione all’Evening Standard: «Siamo più popolari di Gesù Cristo»

8 aprile – Leonìd Il’ìč Brèžnev diventa segretario dell’Unione Sovietica

13 aprile – l’elicottero che trasporta il presidente dell’Iraq Abd al-Salam Arif, cade provocando la sua morte e quella di dieci persone

21 aprile – primo impianto di cuore artificiale in un organismo umano

30 luglio – l’Inghilterra batte la Germania Ovest 4 a 2 vincendo la coppa del mondo

13 agosto – disastroso terremoto in Turchia. 2.394 morti e circa 10.000 feriti

21 agosto – ultima esibizione dei The Doors al leggendario Whisky a Go Go

29 agosto – ultima esibizione in pubblico dei Beatles al Candlestick Park

28 novembre – in Burundi un colpo di Stato militare abbatte la monarchia proclamando la repubblica

6 dicembre – massacro di Bình Hòa nella Guerra del Vietnam.

Storia del 1967, dall’uccisione di Che Guevara alla Guerra dei Sei giorni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Evento dell’anno, inatteso ma temuto – la guerra dei Sei Giorni, del mese di giugno con il nuovo Giulio Cesare israeliano: Moshe Dayan, calmo e invincibile con una romantica benda nera su un occhio. La morte più segreta e triste, quella di Luigi Tenco che aveva portato autenticità e poesia nella canzone italiana. E poi le continue e ostinate disfatte dell’esercito americano in Vietnam, cosa che oggi appare incredibile per un evento, una situazione che è sotto i nostri occhi anche se non siamo in grado di vederla con gli occhi di ieri. Chi ha meno di sessanta anni, infatti, non può ricordare il valore emotivo della guerra del Vietnam che seminò veleno in politica, nella letteratura e nel cinema con le canzoni travolgenti di Joan Baez e Bob Dylan che accendevano scontri di piazza in America ed Europa. Ciò che oggi sembra incredibile è che mentre leggete queste righe, proprio adesso, gli Stati Uniti e il Vietnam sono alleati militarmente contro la Cina comunista e schierano insieme le loro flotte nel Mare del Sud della Cina dove le motovedette vietnamite (gentilmente concesse dal Giappone) sono schierate con la flotta americana, australiana, giapponese, indonesiana, la più tecnologica portaerei inglese Queen Elizabeth e navi da guerra francesi, mentre è in corso uno dei più pericolosi “stand off” dei nostri giorni che potrebbe portare a una guerra. Prova ne sia che ieri, nel suo discorso ben soppesato in Parlamento, il nuovo capo del governo Mario Draghi ha dedicato un minuto a quella situazione per dire che l’Italia è schierata dalla parte dell’Occidente ed è consapevole di quel che accade adesso. Ecco perché uno schieramento del genere sembra incredibile ricordando ciò che accadeva nel 1967, quando la Cina comunista di Mao Zedong concesse al Vietnam un enorme prestito per acquistare le sue stesse armi. Le armi usate dal Vietnam per battere l’America. Ma la Cina poi rivolle indietro ogni centesimo, tentando di sottomettere lo stesso Vietnam che aveva resistito ai francesi e agli americani. Nascevano le scarpe da palestra Nike. Morivano gli astronauti americani nel rogo dell’ “Apollo 1” e papa Paolo VI era furioso per l’imminente introduzione del divorzio in Italia. Ma si schiudeva un altro uovo di serpente: con le rivelazioni di Lino Jannuzzi sull’Espresso, secondo cui tre anni prima, nel 1964, l’Italia era sfuggita a un colpo di Stato orchestrato dai servizi segreti italiani e stranieri con un ambiguo intervento del presidente della Repubblica Antonio Segni che – secondo questa ricostruzione – sarebbe stato stroncato da un ictus nel corso di un violento alterco con Giuseppe Saragat (che fu il suo successore) mentre Pietro Nenni, leader dei socialisti, ammetteva di aver udito “un tintinnar di sciabole”, come dire una presenza eccessiva dei militari sui politici. Nella violenta polemica che ne seguì, il direttore dell’Espresso Eugenio Scalfari attaccò frontalmente il leader democristiano Aldo Moro che aveva imposto degli “omissis” su documenti che avrebbero potuto confermare l’esistenza di un tentativo di golpe e si sviluppò una polemica violentissima di cui fui testimone quando partecipai alla nascita di Repubblica e gli anni a seguire. Quando poi finalmente gli “omissis” furono resi disponibili, si vide che non nascondevano alcun segreto. Ho personalmente cercato di andare più a fondo nella vicenda durante l’inchiesta parlamentare sugli agenti sovietici in Italia e vedemmo confermata l’origine sovietica delle indiscrezioni. Ma qualcosa di vero c’era: Ferruccio Parri, il leader della formazione Giustizia e Libertà nella Resistenza e poi brevemente presidente del Consiglio, rivelò che esisteva un lungo elenco di personalità della sinistra e dei sindacati che avrebbero dovuto essere arrestati e trasferiti in un campo di concentramento in Sardegna per un piano della Nato che fu imposto all’Italia dopo i fatti di luglio del 1960 quando una insurrezione diffusa e non coordinata rivelò quanto inconsistenti fossero le capacità di informazione e di risposta da parte dello Stato. Per questo fu imposta, e in Italia accettata, la formazione di una speciale brigata corazzata dei Carabinieri, con il compito di fronteggiare con le armi un’eventuale rivolta che si supponeva diretta da una parte del Pci su cui l’Unione Sovietica aveva più influenza. In realtà non accadde nulla di nulla. Gli elenchi erano veri e provocarono una grave crisi istituzionale, ma non ci fu alcun tentativo di colpo di Stato, ma semmai una forte propaganda reazionaria contro la sinistra del Psi al governo che reclamava – alla maniera dei laburisti britannici – nazionalizzazioni delle industrie più importanti e dirigismo statale. Lo scontro fu giornalistico e poi politico e portò a un processo in cui Scalfari e Jannuzzi furono condannati in primo grado e poi per questo messi in salvo dal segretario socialista Giacomo Mancini nelle liste elettorali del Psi dell’anno successivo, che portarono Scalfari deputato a Milano e Jannuzzi senatore di Sapri, celebre per la sventurata impresa risorgimentale di Carlo Pisacane e dei suoi trecento “giovani e forti” che nel 1857 furono in gran parte massacrati sulla spiaggia dello sbarco dai contadini e dalla gendarmeria borbonica. Quella vicenda, curiosamente, fu la premessa per la nascita del quotidiano la Repubblica perché quando Scalfari, terminato il mandato parlamentare nel 1973 non fu rieletto per una lite con un vigile urbano a Milano, si trovò la porta sbarrata alla direzione dell’Espresso e decise di mettere in cantiere un quotidiano tabloid di formato e contenuti nuovissimi in Italia, che fu appunto La Repubblica. La sindrome del colpo di Stato stava diventando una malattia nazionale e i complotti, non tutti inventati, erano continui. Il 21 aprile di quell’anno un colpo di Stato ad Atene aveva instaurato la dittatura di una giunta militare che aveva esiliato il re (che non tornò più) e instaurato una dittatura anticomunista. Di conseguenza, una massa di fuggiaschi greci dalla dittatura si riversò in Italia per organizzare la resistenza contro il regime di Atene, il quale a sua volta inondò l’Italia di agenti e spioni, per lo più sotto forma di falsi studenti universitari che controllavano gli studenti greci in esilio. La Grecia aveva subito anni di guerra civile per l’ostinazione di una frazione del suo partito comunista deciso a compiere una rivoluzione malgrado il netto no di Stalin da Mosca, che riconosceva la Grecia come parte dell’Occidente secondo gli accordi di Yalta. Il mondo del 1967 era ancora un mondo con l’arma al piede, che stava forzatamente e spietatamente alle regole del gioco. L’anno successivo, nel 1968, i sovietici metteranno fine all’esperimento del “socialismo dal volto umano” del comunista Dubcek a Praga e nessuno muoverà un dito in Occidente, compresi i comunisti italiani che emisero pochi sussurri e proteste. La guerra dei sei giorni in Medio Oriente fu la replica di quella del 1948 quando le potenze arabe rifiutarono il doppio Stato ebraico e palestinese e scelsero la guerra totale a Israele e la persero nella maniera più umiliante. Nel 1967 Egitto, Siria, Giordania e tutti gli Stati arabi formarono una coalizione perfettamente armata dalle più recenti armi sovietiche, mentre gli israeliani perfezionarono la loro strategia fondata sulle unità individuali mobili e l’uso di una aviazione fulminea nel distruggere gli aerei nemici ancora sulle piste di volo, mentre i carri armati conquistavano il Sinai, la striscia di Gaza egiziana e le alture di Golan strappate alla Siria, oltre a Gerusalemme Est e altri territori. L’Egitto si rese conto con Anwar Sadat succeduto a Nasser che era preferibile trovare la via della pace con lo Stato ebraico, ma il resto del mondo arabo appoggiò la nascita e l’azione armata dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dall’ingegnere egiziano Yasser Arafat che per puro caso spese con me la sua ultima notte in Europa per una lunga intervista prima di tornare al suo compound da cui non uscì vivo. La guerra dei sei giorni di giugno di quell’anno spaccò la sinistra: l’ala filoebraica con intellettuali come Bruno Zevi si schierarono con Israele mentre la sinistra ortodossa si schierò con gli arabi. Avvenne così di fatto una mutazione nella sinistra, specialmente quella comunista che già in passato, sotto Stalin, era stata percorsa da occulti sussulti antiebraici. Il 9 ottobre Che Guevara sale ferito dopo uno scontro a fuoco su un treno a La Higuera in Bolivia. Lo riconoscono, lo arrestano e dopo un paio di giorni in una casa dei servizi segreti boliviani el Che è fucilato. Nello stesso mese lo Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi è incoronato Re dei re e nessuno pensava a quei tempi che la Persia sarebbe diventata l’Iran degli ayatollah: Pahlavi era un monarca assoluto con un servizio segreto crudele e sospettoso, ma le donne iraniane portavano la minigonna e lavoravano come in Occidente. Il divo dell’anno fu il fascinoso dottor Christian Barnard. Un sudafricano che fece il primo trapianto di cuore umano. Fu un avvenimento gigantesco e il suo primo paziente pur sapendo di aver potuto prolungare la sua vita solo di qualche mese perché mancavano ancora le terapie antirigetto, si faceva fotografare felice per il miracolo che lo manteneva ancora vivo. Un uomo non altrettanto simpatico saliva intanto al potere in Romania: Nicolae Ceausescu che creò un comunismo nazionalista detestato dai sovietici. Ceausescu adorava la canzone My Way (A modo mio) cantata da Frank Sinatra, perché si vantava di praticare le teorie marxiste a modo suo. Quando caddero i regimi comunisti dopo la caduta del Muro di Berlino, fu barbaramente trucidato con la moglie Elena dopo un processo farsa in una scuola elementare. Le manifestazioni negli Stati Uniti contro la guerra nel Vietnam dilagano: Martin Luther King prende ufficialmente posizione contro la guerra e Cassius Clay – con il nuovo nome di Muhammad Alì – rifiuta il servizio militare e subisce una degradazione non molto diversa da quella che moltissimi anni prima aveva subito il capitano Alfred Dreyfus in Francia. Dreyfus era stato spogliato pubblicamente delle sue mostrine, gradi e medaglie militari. A Muhammad Ali fu tolto il titolo di campione ed escluso dal ring per i successivi tre anni. Intanto, la Spagna del caudillo Francisco Franco, la Cecoslovacchia della nascente primavera di Praga e la Francia della quarta Repubblica erano percorse da profonde fratture e segnali di imminente catastrofe e forse imminente rinascita. Un testo fondamentale – allora – stava scavando sotto le fondamenta degli Stati occidentali, anche se oggi è un testo privo di qualsiasi interesse: L’uomo a una Dimensione di Herbert Marcuse era dal 1964 il più aggiornato compendio dei mali del capitalismo e nel suo nome crescevano ovunque gruppi di dissidenti e rivoluzionari. Non solo il Sessantotto era alle porte, ma l’Europa e l’America covavano la grave crisi degli anni Settanta che sconvolse il mondo e di cui portiamo ancora i segni.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1967

8 gennaio- in Vietnam l’esercito Usa scatena un’offensiva sul delta del Mekong che si rivelerà fallimentare

25 gennaio- Philip Knight e Bill Bowerman fondano l’azienda produttrice di abbigliamento sportivo Nike

11 marzo- a Londra i Pink Floyd pubblicano il primo singolo: Arnold Layne/Candy and a Currant Bun

28 aprile- a Montréal, in Canada si apre l’Expo 67, esposizione mondiale di architettura, design, tecnologia, cultura. Fu l’esposizione di maggior successo della storia, con più di 50 milioni di visitatori

29 maggio- in Nigeria, a seguito della dichiarazione di indipendenza, scoppia la guerra del Biafra

1° giugno- i Beatles pubblicano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, uno degli album-simbolo della musica rock

5-10 giugno- Guerra dei sei giorni tra Israele e Egitto, Siria e Giordania. Le forze israeliane, guidate dal ministro della difesa Moshe Dayan, occupano la penisola del Sinai, la striscia di Gaza, il settore arabo di Gerusalemme, la Cisgiordania e le alture siriane del Golan

11 giugno- Felice Gimondi vince il cinquantesimo Giro d’Italia

25 luglio- a Città del Capo il chirurgo Christian Barnard esegue il primo trapianto di cuore

7 agosto- la Repubblica Popolare Cinese invia aiuti economici al Vietnam del Nord sotto forma di prestito

9 ottobre- Che Guevara, ferito e catturato in un’imboscata delle forze governative in Bolivia, viene fucilato

19 ottobre- la sonda Mariner 5 viene lanciata verso Venere

8 novembre- viene lanciata la prima Emittente radiofonica della BBC

Storia del 1968, quando il mondo impazzì e cambiò tutto in poche settimane. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Marzo 2021. Ero in un piccolo corridoio scalcinato con una decina di telescriventi, macchine di ferro che battevano testi fra pause ronzanti e ripartite tartassanti su rotoli di carta che si dipanava in un serpente e che bisognava tagliare con le forbici e mettere nelle cassette per i diversi servizi del giornale: esteri, interni, politico, cultura, cronaca. E sport. Anche lo sport era in subbuglio. C’erano le agenzie italiane, Ansa, Italia e AdnKronos, e le agenzie internazionali inglesi e francesi, la Reuter, AP, France Presse e naturalmente la Tass sovietica in cirillico per i non rari compagni che avevano avuto frequentazioni. Il luogo del quale sto parlando era la redazione dell’Avanti! organo del Partito socialista con la galleria delle foto di tutti i direttori, salvo quella di Mussolini, che fu cacciato quando si dichiarò a favore dell’intervento nella Prima guerra mondiale. L’Avanti! era un giornale antico, la sua sede aveva vagato in giro per Roma e per Milano ma allora era a vicolo della Guardiola, a un passo dalla gelateria Giolitti dove prendevo il caffè con Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir (cosa di cui mi vantavo moltissimo, anche se avevamo conversato solo sulle differenze del caffè romano e parigino). Esisteva e ruggiva ogni notte la vecchia rotativa che dall’inizio del secolo sfornava copie che si sventolavano nei tumulti e poi anche – più composto – nei consigli del ministri da quando i socialisti erano entrati nella stanza dei bottoni. Nella sala delle telescriventi stava accadendo un prodigio: le macchine fracassavano l’aria e Peppone, il fattorino che tagliava il serpente di carta e lo divideva in notizie separate, con la sua maglietta a righe bianche e blu con l’ombelico scoperto, era sbalordito: “Ma questi se so’ impazziti”, disse. “Chi?” chiesi io, conoscendo la riposta. “Tutti: ma non lo vedi?”. Stava accadendo una sorta di congiunzione astrale planetaria: a Madrid, nella Spagna del regime militare di Francisco Franco, gli studenti erano in piazza e facevano a botte con la Guardia Civil, quelli con la lanterna, una specie di feluca grigia. In Spagna ancora si garrotavano gli anarchici: il boia li legava alla sedia e poi gli stringeva un nastro di ferro alla gola, sempre più stretto fino all’ultimo respiro. Avevo partecipato a un assalto all’ambasciata spagnola presso la Santa Sede in piazza di Spagna, cinque anni prima, quando strozzarono l’anarchico Julian Grimau. La telescrivente accanto mitragliava notizie da Praga. Il regime comunista “dal volto umano” di Dubcek aveva le ore contate perché sarebbero arrivati i carri armati sovietici e tedesco orientali ad agosto, e gli studenti avevano fretta e paura. Avrebbe raccontato tutto Milan Kundera nella “Insostenibile leggerezza dell’essere”. E poi Parigi: era la rivoluzione. I francesi erano stati all’inizio inerti. La rivoluzione veniva dagli Stati Uniti: il campus di Berkeley era stato il vero teatro. La guerra del Vietnam, i sit-in, le canzoni di Joan Baetz e Bob Dylan, i pestaggi della polizia, i fiori nei cannoni, le prime garbate avvisaglie di femminismo che però non aveva ancora le idee chiare. Girava un manifesto in cui una sventola bionda, in minigonna di pelle western con le frange, faceva pipì contro il muro insieme a una fila di maschi. L’ho detto: avvisaglie ancora imprecise. Ma i francesi sembravano indifferenti perché aspettavano il tepore di maggio, le joli Mai, quando Jacques Brel cantava Le Moribond in cui diceva que c’est triste de mourir au printamps, tu sais, è triste morire a primavera e tu lo sai. Barbarà cantava l’amore di maggio quando c’est si joli de parler d’amour dans le rues de Paris a maggio – e quel giorno, nella stanza delle telescriventi, era maggio e Parigi esplose e sembrò che fosse la fine del generale De Gaulle, un tiranno democratico lungo due metri, dinoccolato e pieno di rinvigorente narcisismo che volle sfidare se stesso e i ragazzi del maggio sciogliendo le camere e convocando le elezioni anticipate. Disse: vediamo chi ha la maggioranza, in Francia. Stravinse. Però pure lui esagerò. L’anno dopo varò una riforma costituzionale e un referendum per ratificarla. E dopo il trionfo del 68 ci fu la sconfitta del ‘69: de Gaulle perse il referendum e se ne tornò a Colombay-Les-Deux-Eglises, il paese natale, sbattendo la porta della storia et allez-vous ve faire voir par le Grecs, vatti a far fottere o patria ingrata. Aveva già respinto con riluttanza il programma di fucilare tutti gli imbecilli perché era “un vaste programme”. Mentre gli studenti francesi , guidati da un ragazzino di 20 anni che si chiamava Daniel Cohn Bendit, e aveva i capelli rossi, e oggi è un leader della socialdemocrazia tedesca, sfasciavano Parigi, altri ragazzi sfasciavano Praga. E Madrid. E Roma e Milano e Bologna. E Berlino: la città divisa in due dal muro col suo magico e maledetto Check-Point Charlie, dove passavi dal mondo dell’Ovest a quello dell’Est come nella macchina del tempo. Ero appena tornato da Berlino ed ero vittima del suo fascino perverso e grigio. Una città prussiana in cui i nuovi comandanti avevano notificato agli ex militari della Wermacht di Hitler che da oggi siamo tutti comunisti, e quelli – Jawohl! – marciando allo stesso passo dell’oca, facevano le stesse facce da Stasi o Gestapo, fino al 1989 che poi sarebbe appena trent’anni fa. Nel Sessantotto era ancora vivo e vegeto, un po’ ingrigito, il mondo di coloro che avevano fatto la guerra. Vittime e carnefici sempre di fronte, i conti sempre aperti. E poi c’erano – novità dell’anno precedente – i greci dopo il colpo di Stato dei colonnelli di Atene del 21 aprile del 1967. Migliaia di studenti in fuga, migliaia di studenti di destra a caccia di studenti di sinistra, i loro servizi segreti, era un mondo complicato e anche in Libia tirava un’ariaccia per il re Idris e si sapeva che i nostri servizi segreti avevano in mente qualcosa e quel qualcosa lo vedemmo di lì a poco, era Gheddafi, con altre iniezioni di violenza incontrollabile in casa e fuori casa. Cambiavano le regole e cambiava “the narrative” o narrazione come diciamo oggi, la verità era sempre più polverizzata. Esuli e spie, a tonnellate. Si odiavano, si ammazzavano, cercavano solidarietà, li nascondevamo in casa quando c’era bisogno così come nascondevamo gli ultimi relitti della guerra civile spagnola che ancora cantavano “mamita mia”, “El Quinto regimiento” e la canzone del fronte di “Guadalajara”, dove gli italiani delle brigate internazionali batterono militarmente gli italiani in camicia nera mandati da Mussolini e ne catturarono più di cinquecento. Erano vivi carnefici e vittime, fascisti e partigiani, rossi e neri. Ma con molte, moltissime complicazioni. E a Mosca: mai visti tumulti a Mosca. Il Kgb impazzito sulla strada Arbeit, gli artisti dalla barba caprina strillavano libertà: ma siamo impazziti? E i tumulti in Kazakhistan, in Polonia, nel decadente impero britannico, in Cina dove l’astutissimo Mao Zedong (ma allora si diceva Mao Tze-tung aveva dichiarato lui la rivoluzione nella rivoluzione, ovvero la rivoluzione permanente con le guardie rosse che arrestavano i padri e i padri che arrestavano i figli e tutti in campo di rieducazione, concentramento, esposti al pubblico ludibrio, il libretto di Mai era già nato).

Poi il sesso, non dimentichiamo il sesso. Le ragazze si erano già messe la minigonna inguinale, vedere le mutandine bianche di cotone delle compagne femmine non era più una novità, si cominciava a parlare di corpo umano, dei suoi odori naturali, dell’orgasmo, della rivoluzione sessuale, della coppia aperta, guai a dire che volevi la coppia chiusa, cominciavamo ad avvitarci in una ipocrisia permanente, pseudorivoluzionaria, scandita da slogan, frasi fatte, si diceva “a monte e a valle”, se uno avesse detto “far trovare la quadra” gli avrebbero sparato alla tempia. E nelle scuole era arrivata l’ora della contestazione ai vecchi professori in cattedra, il voto politico, l’assemblea permanente, la puzza di ascelle e di piedi, non c’era grande igiene durante la rivoluzione e le botte. La sinistra scoprì che poteva menare le mani. Poteva sparare e non solo prenderle dai fascisti – sempre militarizzati, sempre in palestra, sempre stracciafemmine – e adesso c’era questa novità per cui i ragazzi di sinistra, per tradizione secchioni pallidi e macilenti o appena un po’ obesi con gli occhiali e una mazzetta di almeno venti giornali sotto il braccio e che finora avevano preso solo schiaffoni e cazzotti, gli venne come una voglia di pistola e di Che Guevara e di Olp palestinese che cominciava ad essere una novità anche quella di moda: con quella kefia, lo straccio intorno al collo e la faccia da onesto musulmano scacciato dalla belva imperialista. Stava diventando una moda, anzi un modo d’essere. Una categoria politica. Ci mancava. Adesso c’era. L’Olp era nata l’anno precedente, dopo la Guerra dei Sei giorni di giugno del ‘67 e ne era nata la resistenza palestinese, molto pro-sovietica, e accadde questo fenomeno oggi rimosso: i nazisti si fecero maoisti e nacque un vero movimento nazi-maoista e tornava l’aria del patto fra Stalin e Hitler, tutti uniti contro il capitalismo, la borghesia giudea e massonica, proletari di tutto il mondo uniamoci sotto le congiunte insegne, guardate che dicevano sul serio e ci fu davvero un grande abbraccio. Principio comune: siamo tutti antiamericani e adesso che Israele è diventata una potenza imperialista possiamo (i nazisti di allora ma anche di oggi) recuperare il nostro antisemitismo razzista spacciandolo per antisionismo. Gli ebrei nel Sessantotto erano spaccati (per fare una cosa nuova) fra fedeli alla patria e ebrei di sinistra. In Italia Umberto Terracini, antifascista fondatore del Pci e padre costituente comunista ed ebreo, fu messo all’angolo nel partito perché sospetto di sionismo. (E non era la prima volta che lo mettevano all’angolo). E poi Oreste. Oreste Scalzone, intendo. Dove sei finito vecchia onesta canaglia? Ecco Oreste con l’ingessatura e la “minerva” che cammina nell’Università La Sapienza dopo che gli hanno tirato sulla schiena un armadio dalla finestra e lui non è affatto morto. Sembrava averlo rinvigorito. “Mi presti cinquecento lire per un taxi, domani te le ridò”. Non era una domanda, era una disposizione. Glieli diedi. Sparito, fuggito per sempre a Parigi e ancora vive lì, precariamente come sempre a 75 anni. Con lui la battaglia di Valle Giulia, studenti contro poliziotti, per la prima volta gli studenti caricano la Celere e la polizia le prende, arretra e fugge. Pierpaolo Pasolini incazzato nero scrisse un’ode in cui si schierava dalla parte dei poliziotti, i veri proletari figli di proletari che si scontravano contro i rimasugli nevrotici della piccola borghesia in fregola rivoluzionaria, tutti figli di papà che non hanno dovuto arruolarsi in polizia per mettere insieme il pranzo con la cena e adesso i ragazzi nella divisa grigia della celere si prendevano a randellate con i liceali e universitari che scandivano slogan sui gradini della Galleria d’Arte moderna (io ero là con la mia scolaresca di un istituto privato di recupero anni perduti dove insegnavo storia e filosofia, ma anche francese italiano e quel che capitava e li portavo alla rivoluzione, vedrete ci divertiremo). Ancora non si usava l’aggettivo squalificativo “sessantottino” per indicare quelli che hanno distrutto la meritocrazia – i primi dell’uno vale uno applicato agli esami universitari – e poi del “sei politico”, degli esami di gruppo come l’amore di gruppo, in tempi in cui si parlava seriamente di “socialismo su un solo pianerottolo” (allusione allo stalinismo del socialismo in un solo stato contro il trotzchismo della rivoluzione permanente e internazionale) della propria comune e delle prime fumerie di canne di marijuana, sotto gli occhi tutt’altro che compiaciuti dei vecchi compagni del Pci e anche del Psi che si contorcevano in Italia su un solo tema: che cavolo fare di fronte al “movimento”? Ammazzarli o assorbirli? Denigrali come provocatori e agenti dell’imperialismo (o del Kgb sovietico o dei cecoslovacchi molto abili come agenti). Fu allora, in quell’anno e come racconteremo nella prossima puntata, che si formarono le commistioni rosso-nere: Giulio Caradonna del Movimento sociale neofascista, dichiarava al Corriere della Sera: “C’è un terreno comune tra destra e sinistra extraparlamentari. Anche se quando si incontrano si basto­nano, la cosa importante per me resta questa: nessuna delle due vuole difendere l’ordine costituito. Se la violenza ha una funzione morale, non mi ripugna certamente”. I gruppi ideologici nero-rossi si uniscono ai gruppi dell’ideologo Franco Freda che diventerà uno dei protagonisti delle “piste nere”, le inchieste sulla strage di piazza Fontana che avverrà il 12 dicembre dell’anno successivo e che metterà l’Italia, moralmente in ginocchio per almeno un ventennio. I maoisti d’Albania giravano fra noi e gli studenti. Il Sessantotto fu il trionfo del libro del filosofo tedesco Herbert Marcuse, “L’uomo a una dimensione” e un effetto della geniale Scuola di Francoforte, e in particolare di Theodor Ludwig Wiesegrund Adorno, che morì un anno dopo. I suoi “Minima Moralia” avevano perforato la muraglia con il loro laser, ma scopriremo che quel meraviglioso libro era stato censurato. Era ancora possibile. Funzionava l’Indice di Santa Romana Chiesa, l’indice della Cia (la cui sezione artistica e intellettuale era attivissima) e l’indice del Kgb sovietico. Il “deep State” era una cosa seria. Polizie, servizi segreti, agents-provocateurs, falsi filosofi e profeti, rivoluzionari al soldo della repressione e repressori pentiti. Cominciavano a pentirsi anche alcuni mafiosi, lunga storia per le prossime puntate, macchiata di molto sangue e ancor più dalle menzogne e dalle fabbricazioni col doppio fondo. Anche triplo.

Storia del 1968, quando i figli ribelli chiusero la bocca ai loro padri. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Primavera. Claudio Orsi, presidente di Giovane Europa, impone al Congresso di Napoli lo scioglimento dell’organizzazione per fondare a Ferrara una “Italia-Cina”. Si tratta di una delle tante manovre “nazi-maoiste” dei gruppi legati a Franco Freda. Troppi cliché, luoghi comuni e frasi fatte sul Sessantotto e i suoi misteriosi sessantottini. Sicuramente fu l’anno in cui due continenti alla deriva si misero in collisione provocando maremoti e crolli. I due mondi erano, banalmente, il prima e il dopo. Il prima – sempre nel tentativo abusivo e frettoloso di tagliare la storia a fette – era il mondo autoritario. Quello dei padri che dicono ai figli: si fa così e così e anche tu farai come tutti hanno sempre fatto. L’altro mondo era quello dei figli che disserro: non avete nulla da insegnarci perché il vostro mondo è cambiato e non sapete interpretarlo, noi siamo ancora puliti e vogliamo prendere tutto e subito, cacciarvi, chiudervi la bocca, per sempre. Questa fu certamente la novità più estrema e unificante. In Israele i bambini insegnavano ai genitori a leggere e scrivere, nel mondo occidentale le macchine erano sempre più complesse e gli anziani troppo conservatori da capire che cosa implicasse la conquista dello spazio o la rivoluzione maoista in Cina. Nelle università saltarono le baronie che poi tornarono con nuove dinastie: decapitati i re di Francia, poi arriva Napoleone con tutta la sua famiglia. La liberazione sessuale arrivò con la liberazione della donna dall’incubo della gravidanza involontaria: spirali, pillola, l’avvio della legalizzazione dell’aborto, la negazione dell’autorità paterna e materna. Le coppie diventarono spesso avide di esperienze e di feroci inflizioni, l’instabilità cominciò a medicarsi con l’uso di droghe di massa che derivavano dalla guerra del Vietnam che aveva portato prima negli Stati Uniti e poi in Europa tonnellate di hashish, erba, Lsd, funghi allucinogeni e con questo materiale entrarono in campo visioni filosofiche mistiche e allucinate oltre che allucinogene, per cui se da una parte il Sessantotto prese la forma di una rivoluzione politica contro i governi, dall’altro prese la forma di una rivoluzione contro le strutture interne della società e della famiglia. Emerse la tossicità della famiglia, l’autoritarismo familiare e scolastico, la voracità indomabile di prendere subito tutto e senza esitazioni. Non si può fare una generalizzazione amalgamata del Sessantotto (e degli anni che ne seguirono, fino agli Ottanta) perché ogni popolo e ogni genere e ogni razza e ogni età prese le armi contro l’oppressore vero o immaginario che fosse, spesso figlio soltanto di fantasmi, luoghi comuni, parole d’ordine ripetute nella babele linguistica che accompagnava e che era il Sessantotto. Il vento di Praga, dove il regime comunista era in crisi con l’arrivo del garbato Dubcek, portava odore di primavera. Tutto ciò che arrivava dalla Russia sovietica appariva prima di tutto decrepito, stantio, immobile, ottuso, come nei peggiori imperi e imperialismi della storia. Il mondo di allora – chi è giovane oggi stenterà a comprenderne le conseguenze. era pieno zeppo di spie. I sovietici si agitavano molto perché temevano che i regimi dei Paesi satelliti non reggessero. E guardavano alla Cecoslovacchia come al nuovo grande malato, dopo l’Ungheria del ‘56, e si apprestavano a somministrarle la stessa cura: una buona iniezione di carri armati. La Polonia era già in subbuglio: non era ancora arrivato il papa polacco che provocherà lui il vero crollo del sistema, prima del decantato crollo del muro di Berlino. In Polonia, dove sono andato parecchie volte in quegli anni, trovavi questo Paese cattolico così diverso dall’Italia cattolica: gli operai andavano ogni giorno a fare la comunione tornati dalle fabbriche e dalle miniere e i loro sindacati erano cattolici e pieni di preti e i monsignori sedevano al caffè ricevendo i loro amici per discutere sotto gli occhi della polizia segreta e non era proprio come prendere un caffè ai Deux Magots con gli antisistema di Parigi. Ciò che accadde di straordinario, fu la simultaneità. L’ho raccontato nel precedente articolo; ero davanti alle telescriventi che mitragliavano notizie dagli Stati Uniti, la Cecoslovacchia, la Spagna franchista, la Francia gollista, il Messico, la Jugoslavia, la Germania occidentale (in quella dell’Est, cupezza grigia e assoluta), in Giappone, persino in Uruguay e in Africa. La Cina Maoista si auto-divorava in una rivoluzione che mangiava la rivoluzione, ma lo strumento che unificava tutti era la musica, prevalentemente americana e di massa, i concerti, le comuni emozioni, le manifestazioni mano nella mano cantando We shall overcome, one day, ce la faremo, vedrete, e si spargeva quest’ottimismo del tutto folle e dissennato perché sembrava che nulla mai, potesse tornare come prima. I carri armati sovietici di un giorno d’estate a Praga fecero capire a tutti che finché si scherza, si scherza. I ragazzi di Praga correvano sui carri russi e tedeschi per parlare con i soldati, le ragazze offrivano fiori ai carristi dagli occhi kirghisi o mongoli, che non capivano e urlavano e qualcuno nella furia e nella frustrazione sparava e uccideva e restavano quei corpi di ragazzi morti sulle strade di Praga. In Italia si sparse il sangue, in scontri che ricordavano l’Ottocento, anziché l’epoca moderna. Ad Avola, fine novembre, tremila braccianti in sciopero affrontarono la polizia che sparò nel mucchio. Due uccisi, una bambina di tre anni ferita, quarantotto persone in ospedale per ferite da arma da fuoco. Questo incidente gravissimo e figlio di un’altra epoca causerà i fatti di Battipaglia dell’anno successivo e i sindacati non riuscivano più a contenere la furia che cresceva dal basso. Tutto ciò che era vecchio, tremava come un pollo alla vigilia di Natale. A Parigi, dove l’altezzoso Partito comunista francese aveva definito “gruppuscoli” i giovani di sinistra che contestavano il partito, si svolse una manifestazione gigantesca con oltre centomila dimostranti che passarono sotto le finestre del partito scandendo lo slogan “Nous sommes les gruppuscules”, noi siamo i gruppuscoli. Nella Chiesa cattolica erano nati i preti operai, in America Latina molti preti passavano alla rivoluzione guevarista mettendo le basi della cosiddetta “teologia della liberazione”: se devi scegliere se avere accanto un crocefisso o un mitra, scegli il mitra, tanto Cristo ti guarda e ti ama lo stesso. In Italia l’estrema destra era impazzita: vedeva questa rivoluzione di sinistra che però era antisistema, e ne andava pazza. Di invidia. Di qui tutti i tentativi di mettere insieme pezzi di nazi-maoismo, sotto gli occhi molto comprensivi e interessati del Kgb sovietico e in parte anche dalla Cia che cercavano in ogni modo di introdurre infiltrati, avere il comando dei gruppuscoli, portare i loro uomini a inserirsi e fare una campagna acquisti. Il principe Junio Valerio Borghese che aveva guidato un corpo speciale della marina durante la guerra e che godeva delle simpatie americane e inglesi fondò un Fronte Nazionale a favore della scheda bianca “da schiacciare in faccia ai partiti” e cominciarono a scoppiare bombe. Piccole bombe. Dimostrative. Alle stazioni di servizio a novembre, poi davanti alle scuole, e tutti sentivano una particolare puzza di servizi segreti, di operazioni occulte, reclutamenti. Anche la mafia siciliana – ancora non si diceva con certezza “Cosa nostra” come si farà dopo l’interrogatorio di Falcone al pentito Buscetta – era in fermento fra il vecchio e nuovo, non certo perché fosse scossa da vibrazioni morali, ma diventava semmai sempre più complicato individuare il potere con cui trattare. Era allora a capo dell’organizzazione Luciano Leggio, detto – chissà perché – Liggio e tutti dicevano che era protetto dalla Procura di Palermo, guidata da Pietro Scaglione. Contro questa apparente impunità insorse l’intera sinistra, da Umberto Terracini a Emanuele Macaluso, da Girolamo Li Causi a Sandro Pertini e dal presidente dell’Antimafia Francesco Cattanei. Liggio, malato di tubercolosi ossea, girava per le cliniche italiane nell’indifferenza delle autorità di polizia. Il procuratore Pietro Scaglione fu scagionato dal ministro degli Interni Franco Restivo e poco dopo si celebrò un processone contro i capi della mafia a Catanzaro da cui uscirono con pochissimi danni alcuni fra i più bei nomi della cupola fra cui lo stesso Liggio, Gaetano Badalamenti, Angelo La Barbera e Totò Greco. Scaglione sarà assassinato tre anni dopo e più tardi ancora il pentito Buscetta, fornitore di prima mano di notizie a Giovanni Falcone, dirà che Scaglione non era un giudice mafioso e che lo avevano incastrato. Stava cominciando una nuova terribile partita in Italia, di cui quelli erano gli albori quasi inosservati fra le fiamme e le esplosioni del Sessantotto dei giovani insorti. L’anno successivo sarà degli operai e poi l’anno della terribile strage di piazza Fontana, il nuovo mostro. Molte uova di serpente erano state deposte e avrebbero cominciato a schiudersi una dopo l’altra.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1968:

5 gennaio: Alexander Dubček sale al potere. In Cecoslovacchia comincia la Primavera di Praga

15 gennaio: il Terremoto del Belice causa la morte di 370 persone

12 febbraio: massacro di Phong Nhi e Phong Nhàt (Guerra del Vietnam)

1º marzo: di fronte alla facoltà di architettura dell’Università di Roma a Valle Giulia, si verificano violentissimi scontri tra gli studenti e la polizia. L’accaduto dà il via a una serie di occupazioni in numerose università italiane

27 marzo: lutto nazionale in Unione Sovietica per la scomparsa di Jurij Gagarin in un incidente aereo

4 aprile: a Memphis, negli Stati Uniti, Martin Luther King viene assassinato a colpi di pistola sparati da James Earl Ray

11 aprile: a Berlino un uomo ferisce gravemente a colpi di pistola il leader degli studenti Rudi Dutschke, che morì a causa delle lesioni nel 1979

1º maggio: l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa dichiara l’indipendenza dell’Isola delle Rose

10 e 11 maggio: nel quartiere latino di Parigi scoppiano gravi incidenti tra la polizia e gli studenti delle università di Nanterre e della Sorbona. È l’apice del Maggio francese

3 giugno: Valerie Solanas spara a Andy Warhol all’entrata dello studio dell’artista

5 giugno: a Los Angeles viene assassinato il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti Robert Kennedy, fratello di John

8 giugno: James Earl Ray viene arrestato per l’omicidio di Martin Luther King

10 giugno: la nazionale italiana di calcio vince i Campionati europei battendo la Jugoslavia.

20 agosto: le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia mettendo fine alla Primavera di Praga

24 agosto: la Francia fa detonare la sua prima bomba all’idrogeno

1º settembre: Vittorio Adorni conquista sul circuito del Santerno a Imola il titolo di Campione del Mondo di ciclismo su strada

11 settembre: il generale francese René Cogny e altre 94 persone muoiono nell’incidente dell’Air France Caravelle, nei pressi di Nizza, nel Mediterraneo

23 settembre: muore il frate cappuccino Padre Pio nella città di San Giovanni Rotondo

3 novembre: una devastante alluvione colpisce il Piemonte e in particolare la zona di Biella, causando oltre cento morti

5 novembre: il repubblicano Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti

2 dicembre: la polizia spara sui braccianti durante uno sciopero. Muoiono due manifestanti, i feriti sono decine (Eccidio di Avola)

Cosa è successo nel 1969, dall’uomo sulla Luna alla strage di Piazza Fontana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Un evento dominò su tutti gli altri: la strage di piazza Fontana, alla fine del 1969, un anno torbido e denso di presagi: il primo in cui le bombe fossero usate per fini terroristici (ne scoppiò una a Ferragosto davanti al portone del Senato) cominciarono ad esplodere, come se avessero dovuto introdurre un nuovo elemento drammatico e anzi criminale in un mondo politico che si faceva sempre più torbido. Non erano all’inizio grandi bombe – fino a quella della strage pomeridiana in una filiale della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana – ma pacchi di esplosivo che mostravano la volontà di far capire qualcosa. Ma che cosa? Verrà creato un termine che ebbe una fortuna: “Strategia della tensione”. Quel termine aveva e ha il limite di partire da una conclusione, anziché da un inizio. E la conclusione non ha potuto essere confermata, neanche in via ipotetica. Avrebbe dovuto essere quella di un colpo di Stato, o almeno dell’instaurazione di un regime autoritario. Nota lessicale: ancora non si usava la parola spagnola “golpe” che verrà soltanto con il colpo di Stato in Cile contro Salvador Allende, qualche anno dopo. Fu dato alla fine per scontato che qualcuno, forse un Grande Vecchio, comunque qualcuno dotato sia di “manone” che di “manine” (questi erano alcuni dei termini che il complottismo dei tempi man mano suggeriva), avesse orchestrato tutto come una partitura d’orchestra. Un piano che doveva innescare una finta rivoluzione che giustificasse un vero colpo di Stato. Il termine si fece Storia senza che la storia lo avesse mai confermato. Di fatto, non ci fu mai alcun colpo di Stato e neanche un credibile tentativo di realizzarlo, salvo una buffa mascherata nell’anno successivo per il cosiddetto “Colpo dell’Annunziata”, essendo avvenuto nel buio degli scantinati del Viminale, l’otto dicembre del 1970. Ma qualcosa era nell’aria. Io ero un giornalista molto intercettato al telefono. Avevo un mio amico tenente colonnello dei Carabinieri che poi sarebbe morto misteriosamente su un tavolo operatorio, che mi informava di quanto risultava all’Arma sul fronte delle intercettazioni. Gli attori erano tanti, troppi. È vero, c’era la Cia. Ma la Cia di quell’epoca apparteneva all’amministrazione di Richard Nixon appena eletto presidente degli Stati Uniti. Sentirete e leggerete soltanto cose orrende su quest’uomo, che però fu – a mio solitario parere – un grande presidente anche se finì malissimo – dimissionario per l’affare Watergate – e forse finì male perché fu un grande Presidente cinico e realista: chiuse la guerra del Vietnam iniziata da John Fitzgerald Kennedy e proseguita dal democratico Lyndon Johnson e aprì alla Cina di Mao Zedong. Ma questo accadrà più tardi. Nel 1969 si cominciò a parlare di uno sganciamento americano dalla tremenda trappola vietnamita. Gli americani erano ossessionati dall’Unione Sovietica e quest’ultima era ossessionata dagli americani. Ma in quell’anno l’Urss portò a termine alcune imprese spaziali formidabili: mandò una sonda verso Venere e poi scagliò in orbita prima una Soyuz e poi un’altra. Poi le fece agganciare in cielo e gli equipaggi passarono dall’una all’altra astronave. Fantastico, mai vista una cosa del genere. Ma stavolta gli americani non restarono più a guardare con invidia quel che facevano i maledetti “commies” (plurale di “Communist”): stavolta gli americani sbarcarono l’uomo sulla Luna. L’uomo sulla Luna si chiamava Neil Armstrong. Il secondo uomo che scese sulla Luna si chiamava Buzz Eldrin e poi Michael Collins. Chi c’era ricorda. Che cosa facevi tu quando gli americani sbarcarono sulla Luna? Alle nostre latitudini non era difficile rispondere: o stavi nel tuo letto perché erano le tre di notte o stavi come tutti incollato a un grosso televisore in bianco e nero, fitto di righine grigie orizzontali che rendevano l’immagine imperfetta e miracolosa. Mentre da noi un grande cronista come Tito Stagno dava il meglio di sé per raccontare l’impresa. I terrapiattisti più tardi sostennero che le ombre delle bandiere piantate sulla Luna erano sbagliate e che l’intero sbarco lunare fu una messinscena della Cia e della Nasa per far credere a tutto il mondo che gli americani fossero davvero andati sulla Luna, da cui riportarono indietro comunque sassi e minerali che sulla Terra non si trovano. Spettacolare la reazione emotiva di Filippo d’Edimburgo, marito (ora agonizzante in ospedale quasi centenario) della regina Elisabetta il quale volle assolutamente un colloquio provato con gli astronauti americani invitati a Londra per strappare dalle loro memorie tutte le emozioni provate durante la loro impresa. I quattro andarono a Londra in trionfo e quando si ritrovarono con Filippo che li interrogava – che cosa avete provato? di che colore era cielo? quali emozioni provavate? – non seppero che rispondere: «Vostra altezza, per noi era soltanto un lavoro, ogni nostro secondo di tempo era impegnato dai protocolli che dovevamo seguire, premevamo dei tasti, giravamo viti e non avevano tempo per provare emozioni». Non fu una cosa da poco, anzi oggi se ne è persa la memoria. Finì con quell’impresa americana l’antico rapporto fra uomo e cielo, l’uomo e il suo cielo stellato, azzurro e tempestato di diamanti. Ora il cosmo appariva come era: una discarica di sassi in fuga circolare secondo orbite ed ellissi, fango e polvere, tutto grigio, immerso nel silenzio cosmico, luce abbagliante o nero assoluto. Il mondo occidentale e filoamericano che aveva molto sofferto a denti stretti per il travolgente successo spaziale sovietico fin dal lancio del primo satellite Sputnik, tirò un sospiro di sollievo per grazia ricevuta: chi, se non gli americani con la bandiera americana, potevano vantare i diritti televisivi, cinematografici e fantastici della scoperta della Luna, che poteva avere come pari soltanto quella di Cristoforo Colombo che volle a tutti i costi scoprire l’America? I sovietici, infatti, incassarono il colpo propagandistico e anche in Europa i giornali comunisti fecero un certo sforzo per non apparire tanto superficiali da non apprezzare il successo americano, purché si ammettesse che sulla Luna non erano atterrati i russi soltanto perché quell’impresa aveva solo un valore propagandistico. La Spagna era ancora un Paese sotto il tacco della dittatura franchista e il caudillo generalissimo Francisco Franco ritenne fosse arrivato il momento di tirar fuori dalla naftalina il giovane principe di Borbone Juan Carlos per investirlo del titolo di “futuro capo dello Stato” alla sua morte. Juan Carlos era allora un giovane vitellone che aveva speso il suo esilio dorato prevalentemente a Roma. Al cinema si dava Easy Rider di Dennis Hopper con Peter Fonda, Jack Nicholson, una svolta libertaria on the bike, in motocicletta mentre Dustin Hoffman e Jon Voight, americani, si facevano dirigere dall’inglese John Schlesinger in Un uomo da marciapiede. In Italia l’estate fu torrida ma tutti temevano l’autunno che sarebbe stato certamente molto caldo, a causa della scadenza dei contratti dei lavoratori più organizzati e sindacalizzati, come i metalmeccanici. I sindacati erano in ebollizione, il Sessantotto studentesco aveva riversato le sue radiazioni sul mondo operaio che era diventato effervescente, scontento, contestatore e in aperta rivolta contro sindacati e partiti. Ci furono scioperi e scontri per quello che era stato già battezzato come “l’Autunno caldo” e fu caldo davvero. A Milano per la prima volta era morto un agente di polizia: Antonio Annarumma, mentre era impegnato nei tafferugli con i dimostranti del movimento studentesco. La manifestazione era stata indetta sia dal Pci che dal movimento studentesco. L’agente Annarumma, a quanto pare, era andato a sbattere contro una impalcatura di ferro. I sindacati di polizia ribollirono, la tensione saliva perché tutta la stampa conservatrice chiedeva azioni draconiane a un governo, guidato dal placido Mariano Rumor, considerato imbelle di fronte alle manifestazioni sempre più minacciose, con il risultato mai visto dalla fine della guerra di avere in terra un agente ucciso. Le voci di un intervento di militari decisi a ripristinare l’ordine costituito. Venerdì 12 dicembre 1969 pioveva sia a Roma dove ero in redazione, che a Milano. Qualcuno gridò: “A Milano sembra che sia esplosa una caldaia e ci sono dei morti”. Non era una stufa ma una bomba e i morti furono 13, con 87 feriti. Era insolito che la sede della banca dell’Agricoltura di piazza Fontana fosse ancora aperta alle 16,37 e si dirà in seguito che coloro che avevano deposto la bomba non avevano intenzione di uccidere ma solo di compiere un atto dimostrativo. Non ci fu solo quella bomba: un ordigno inesploso fu trovato nei locali della Commerciale in piazza della Scala e una terza a Roma a via Veneto nel sotterraneo che collegava due sedi della Bnl di via Veneto e di San Basilio. Anarchici, si disse. Sono gruppuscoli anarchici. L’opinione pubblica era agitata ed esaltata. Anche la sinistra voleva indagini rapide e l’arresto dei terroristi, specialmente se fossero gente del sottomondo pseudo rivoluzionario di sinistra. Nelle redazioni la notizia fu sussurrata: sembra che siano degli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa. Chi li aveva mai sentiti. Uno in particolare, sembra sia il loro capo: Giuseppe Pinelli, detto Pino. Le retate si susseguivano e tutti gli anarchici reperibili furono portati in questura. Poi si scoprirà che le indagini erano state dirottate verso gli anarchici dall’Ufficio Affari Riservati, agli ordini del direttore Federico Umberto d’Amato, uno dei più sottili e ambigui uomini dell’intelligence italiana. Quell’“Ufficio affari riservati” sarà in seguito chiuso e con una riforma dei servizi fu incorporato nel Sisde. L’anarchico Pinelli si è suicidato. La notizia suonò subito poco credibile: in Questura, dopo tre giorni di estenuanti interrogatori il principale indiziato Giuseppe Pinelli detto Pino si è buttato dalla finestra morendo sul colpo. Il commissario Luigi Calabresi, che non era presente al momento del suicidio, fu subito indicato come il malvagio poliziotto che dopo aver torchiato il sospetto lo aveva o defenestrato, oppure messo in condizioni di desiderare la morte. Si disse che a Pinelli furono mostrate prove false del coinvolgimento dei suoi compagni anarchici e che di fronte a quelle (false) prove avesse avuto una reazione disperata: preferisco morire – riferirono che avesse detto, ma non fu provato – che sottopormi a questa vergogna. Ma non si sa. Non si saprà mai. Il commissario Calabresi era totalmente innocente, ma pagherà egualmente con la vita, giustiziato sotto la propria casa da due killer davanti ai suoi due bambini che stava come ogni mattina accompagnando a scuola. Intanto un altro nome saltò fuori dal mazzo. Quello dell’anarchico Pietro Valpreda, un ballerino che viveva fabbricando paralumi liberty in compagnia della vecchia nonna, con cui ebbi il tempo di diventare amico. La saga di Valpreda sarà impressionante, per toglierlo di galera il Parlamento arriverà a votare una legge che lo rendesse idoneo a essere candidato, ma non sarà eletto. L’anno si chiuse in uno strazio di urla, pianti, sospetti, odore di cordite, lamenti di genitori che avevano perso il figlio e figli che avevano perso un padre, l’aria era mefitica in Italia alla fine di quell’anno che era la prosecuzione diretta del dorato Sessantotto, finito in gloria ma che adesso si rivelava un cluster di uova di serpente destinate a schiudersi una dopo l’altra. Eravamo appena all’inizio di una delle pagine più buie della nostra storia che poi diventò ancora più buia con una serie di altri attentati terroristici e poi con l’altro tipo di terrorismo: quello ad personam delle Brigate rosse prima e poi dei Nar fascisti. L’Italia studentesca e riottosa che aveva cantato inni alla libertà, cominciava a macchiarsi di sangue e a intossicarsi di menzogne, dubbi e paura. Paura del peggio. Maurizio Costanzo cominciava a chiedersi e a chiedere con aria sorniona: “Che cosa c’è dietro l’angolo?”.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1969

3 gennaio: nasce il pilota Michael Schumacher

16 gennaio: a Praga, per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, Jan Palach si dà fuoco; morirà tre giorni dopo

4 febbraio: in Egitto, Yasser Arafat è eletto leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina presso il Congresso nazionale palestinese

11 febbraio: la Marina italiana prende possesso dell’Isola delle Rose e la distrugge

3 marzo: Sirhan Sirhan ammette di aver ucciso il candidato alla presidenza Bob Kennedy

4 marzo: Jim Morrison viene arrestato per atti osceni in luogo pubblico

10 marzo: viene pubblicato il romanzo Il Padrino di Mario Puzo

28 aprile: in Francia, a seguito dei risultati del referendum sulla riforma del senato e la regionalizzazione, Charles De Gaulle si dimette da presidente

30 maggio: l’Italia, con la legge 153, introduce la pensione sociale, erogata dall’Inps ai cittadini ultrasessantacinquenni con reddito insufficiente

5 giugno: inizia la conferenza internazionale dei comunisti a Mosca

15 giugno: Georges Pompidou viene eletto presidente della Francia

19 giugno: inizio dell’occupazione non violenta della località di Pratobello a Orgosolo

23 giugno: esce il primo numero della rivista Il manifesto

3 luglio: Brian Jones, celebre componente dei Rolling Stones, viene trovato morto sul fondo della piscina della sua villa, a causa di una overdose di eroina

21 luglio: Neil Armstrong e Buzz Aldrin, sono i primi uomini a camminare sul suolo lunare

9 agosto: nella villa di Roman Polański si compie un efferato massacro, di cui saranno riconosciuti responsabili Charles Manson e alcuni affiliati alla sua setta: perdono la vita 5 persone

15-17 agosto: si tiene a Bethel, nello stato di New York, il festival di Woodstock, che raduna circa 500 000 spettatori

2 settembre: al rientro dalle ferie estive la Fiat sospende dal lavoro 25000 operai. È l’inizio dell’Autunno caldo

4 dicembre: i membri delle Pantere Nere, Fred Hampton e Mark Clark, vengono uccisi nel sonno durante un’incursione compiuta da 14 poliziotti di Chicago

12 dicembre: in Italia scoppiano cinque bombe in meno di un’ora: la prima è a Milano, quella che verrà ricordata come Strage di piazza Fontana in cui muoiono 17 persone, la seconda nel sottopassaggio nei pressi di via Veneto a Roma che causa 13 feriti. Altre due bombe esplodono sempre a Roma davanti all’Altare della Patria (4 feriti). L’ultima, alla Banca Comit di Milano, non esplode

15 dicembre: Pietro Valpreda viene accusato della strage di Piazza Fontana e arrestato. Verso la mezzanotte l’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato e trattenuto in questura, “cade” dal quarto piano dove era in corso il suo interrogatorio.

 Cosa è successo nel 1970: dalle bombe di Milano alla rivolta di Reggio Calabria. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 28 Marzo 2021. L’inizio degli anni Settanta è un calvario. La fine di quel boom rustico, impari ma gioioso del primo miracolo economico e la fine delle illusioni. La guerra fredda fra russi e americani si fece glaciale, con punte di fuoco e in Italia si partì dalla prima grande strage, consumata sullo scadere dell’ultimo degli anni Sessanta: quel dodici dicembre di piazza Fontana che distrusse per avvelenamento l’anima del nostro Paese. Ammazzamenti, tanti. Ma stragi, non se ne erano mai viste fin da quella del cinema Diana a Milano del 23 marzo del 1921 con ventuno morti e ottanta feriti. La bomba tra la folla. Ancora erano sconosciute le stragi islamiche e però tirava ovunque un’aria da guerra imminente, anche in casa, in famiglia, nelle coppie, fra genitori e figli, in un ufficio, in fabbrica, nelle campagne. Stava scomparendo il proletariato rurale dei contadini rapati con i figli dalle orecchie a sventola, tutti andavano a scuola e tutti volevano fare più o meno la rivoluzione. Mao dalla Cina ancora emanava bagliori, la guerra del Vietnam avrebbe impiegato ancora qualche anno per spegnersi, cominciava ad arrivare la droga, mai vista prima. Canne, naturalmente, qualche allucinogeno e un po’ di cocaina che però c’era sempre stata per via dei signori che – si sapeva – usavano quella strana polvere perché erano ricchi e viziosi – ma le altre stavano spuntando da un nuovo nulla: l’eroina, la figura del junk, il drogato irrecuperabile, la parlata strascinata e i balordi, quelli pronti a tutto senza sapere perché e -come sempre – spioni, spioni ovunque. Oggi ci siamo (quasi) abituati al Trojan che ti attivano nel telefonino, ma allora gli spioni ti seguivano e nell’immaginario generale spiccava la figura dell’appuntato dei carabinieri che ascoltava e registrava su grosse bobine che poi sparivano, per riapparire a comando ma con pezzi mancanti, erano strumenti di ricatto e di minaccia. “Il valzer delle bobine” era un titolo ricorrente ed equivaleva più o meno ad un odierno caso Palamara, ma con una differenza. A quei tempi, all’inizio del decennio, la magistratura italiana non era ancora divisa brutalmente in legioni correnti ideologie cordate, come quelle descritte oggi nel “Sistema” di Palamara e Sallusti. La strage di piazza Fontana fu la chiave di volta, l’evento monstre che seguitava a generare nuovi mostri, come matrioske ma matrioske crescenti, non più piccole. Soltanto in tempi recentissimi – mezzo secolo dopo – i giudici hanno certificato che la strage fu opera di un gruppo di eversori fascisti ma anche collegati con una strana sinistra nazi-maoista a sua volta collegata ad ambienti di varie o presunte intelligence. Per quanto: del KGB sovietico non si parlava mai. Era – nell’immaginario – tutto Cia e fascisti, fascisti e Cia, servizi segreti per loro natura deviati e stava per aggiungersi la massoneria delle logge segrete. Ma posso dire, col senno – e i documenti – di poi, che il KGB sovietico mai era stato così attivo in Italia come in quei dannati anni Settanta, come raccontò al Parlamento italiano il dirigente della sezione romana di quella nobile istituzione. Nel frattempo sono morti tutti, o quasi. Ma l’effetto politico di quella prima strage si sviluppò secondo una lunga parabola: all’inizio la strage e il suo retroscena furono descritti come imprese criminali di anarchici balordi di sinistra fra cui quel ballerino anarchico, Pietro Valpreda, danzatore a Milano nonché creatore di lumi liberty da tavolo, e il gruppetto del Ponte della Ghisolfa. Ci fu la morte per caduta dalla finestra della questura dell’anarchico Giuseppe “Pino” Pinelli e l’accusa al commissario Luigi Calabresi – totalmente innocente – di averlo buttato o fatto buttare già morto, forse già morto o forse agonizzante. Il commissario fu poi assassinato da due giustizieri di Lotta Continua due anni e mezzo dopo, e questa è una brutta storia che vedremo più in là. Di Valpreda, di cui diventai amico come quasi tutti i cronisti di quell’epoca, ricordo la nonna che si porta dietro, e la volta che ci fece gelare il sangue mentre eravamo seduti insieme in una trattoria – per fare il cretino – esclamò “Qui se non mi portano da mangiare faccio la seconda strage”. Un gruppo di controinformazione guidato dal giornalista Marco Ligini – mio compagno di liceo – fece un’indagine sul delitto di piazza Fontana e portò prove convincenti del fatto che l’inchiesta ufficiale fosse una montatura e che a mettere la bomba fossero stati dei fascisti. Nacque così la feconda stagione delle “piste nere”. I giornalisti – me compreso ma non fra i primissimi – che si occupavano di questa direzione d’inchiesta furono battezzati pistaroli neri perché il nero portava ai numerosi gruppi neofascisti anche greci, tedeschi, ustascia croati e ad altre ampie costellazioni di gruppuscoli che ancora riverberavano i fuochi fatui del terzo Reich. Valpreda andò in galera e ci restò a lungo e nacque l’idea di tirarlo fuori a suon di voti facendolo candidare alle elezioni del 1972. Lui si candidò con una lista di estrema sinistra sostenuta dal “manifesto” e da “Lotta Continua”, ma la lista non raggiunse il quorum e dunque non elesse nessun parlamentare: Valpreda restò in cella. Per questo, dopo una furibonda battaglia politica delle sinistre contro le destre e parte della Democrazia cristiana, fu approvata una “Legge Valpreda” che consentiva anche a un detenuto in attesa di giudizio per strage di uscire di galera per scadenza dei termini. L’idea di evitare il carcere con le elezioni in Parlamento in quell’poca andava per la maggiore. Fece la fortuna di due imputati notissimi ed eccellenti giornalisti, Eugenio Scalfari direttore dell’Espresso e Lino Jannuzzi suo collega e grande cronista e scrittore, e permise loro di sfuggire al probabile arresto dopo esser stati condannati in primo grado per il processo che subirono per aver descritto un tentativo di colpo di Stato che probabilmente non c’era mai stato ma che sembrava egualmente possibile, nel 1967 (il possibile golpe che loro raccontavano era dell’estate 1964). Condannati, furono candidati nel 1968 per il partito socialista dal segretario Giacomo Mancini che portò Scalfari a Milano e Lino Jannuzzi senatore a Sapri, sicché assunse subito il soprannome di Carlo Pisacane. Quando poi i due su ripresentarono nelle stessa liste socialiste alle successive elezioni, nel 72, furono sconfitti, cosa che generò un effetto di non poco conto perché Scalfari, dopo aver trovato sbarrate le porte per un suo ritorno alla direzione dell’Espresso, molto seccato contro i colleghi allora chiamati “la banda dei quattro”, si mise a lavorare sul progetto di un giornale di formato tabloid mai visto in Italia che uscirà nel gennaio 1976 e sarà “la Repubblica”. Io c’ero, ma questa anche è un’altra storia dei più tardi anni Settanta, quando era ormai in corso una guerra civile a bassa intensità ed alto numero di assassinati, che fu romanticamente chiamata la guerra degli anni di piombo. Ma già nel 1970 quasi tutte le uova di serpente erano state deposte, un po’ come avviene quando inizia una partita a scacchi e ciascuno dispone i propri pezzi. A quel tempo non si conoscevano i pezzi, si ignorava la posta della partita e anche le regole erano segrete. Come se non bastasse, scoppiarono i fatti di Reggio Calabria perché il 1970 fu l’anno delle prime elezioni regionali e la più estrema regione della penisola scoprì che – diversamente da quanto avvertivano i sussidiari scolastici – la città dello Stretto non era il capoluogo, perché tale titolo spettava invece alla citta di Catanzaro perché sede della Corte d’Appello. La Calabria saltò in aria, scoppiarono tumulti, ci furono morti e sparatorie, scoppiarono bombe ci furono manifestazioni di massa e stavolta la novità assoluta fu che il popolo in strada, gli scamiciati e i balordi, gli intellettuali e i capipopolo erano fascisti. Per la verità il fascismo calabrese non aveva mai avuto nulla a che fare con quello romano o romagnolo o lombardo o emiliano. Neanche durante il ventennio. I fascisti calabresi erano i vecchi baroni con la camicia di un colore diverso e un pugno di gente di mano. Ma sulle barricate di Reggio Calabria insorta, dove tutti noi giornalisti di sinistra ci precipitammo avidi di teorie, complotti, retroscena e zeppi di pregiudizi, scoprimmo questo fatto del tutto inaspettato: era davvero una sommossa rivoluzionaria, aveva le sue ragioni anche sociali meridionalistiche immaginabili, era guidata da grandi proprietari agrari terrieri fra cui spiccava il marchese Zorzi, bell’uomo a cavallo in sahariana nera; scese con alcuni manipoli e milizie personali Junio Valerio Borghese principe romano che aveva combattuto una seconda guerra mondiale tutta sua con dei sottomarini suoi e delle imprese tutte sue vincendo la sua piccola guerra con gli inglesi e gli americani di cui poi diventò amico, spuntava un masaniello di nome Francesco “Ciccio” Franco che poi diventò senatore del Msi ma che fu famoso per aver lanciato lo slogan “Boja chi molla” su tutti i muri, e poi si vedevano e si leggevano tanti intellettuali di sinistra stupiti e affascinati perché lì a Reggio, nel 1970, sembrava di essere un po’ in Nicaragua e un po’ nella guerra di Spagna, ma a parti invertite. E poi scesero i calibri massimi del giornalismo da Giorgio Bocca a Gianpaolo Pansa e qui mi fermo non potendoli nominare tutti anche perché ho scoperto con un certo doloroso ribrezzo di essere oggi l’ultimo e unico superstite di quella congrega attendata (lussuosamente peraltro) nel Grand Hotel Excelsior di Reggio, diventato l’avamposto, la sala stampa, il luogo di incontri e di malincontri, I reggini erano furibondi con i socialisti perché il loro leader Giacomo Mancini aveva concluso un patto con i democristiani in base al quale la Calabria avrebbe avuto una università, un’autostrada, un centro siderurgico, un giornale, industrie chimiche e una modernizzazione di cui aveva gran bisogno. Ma la spartizione prevedeva che il capoluogo fosse Catanzaro e non Reggio, da cui la furia dei reggini contro il democristiano Riccardo Misasi di Crotone e il socialista Giacomo Mancini di Cosenza, di cui si bruciavano le foto nelle piazze. E io ero inviato a Reggio per il quotidiano socialista Avanti!, cioè rappresentavo quanto di più odiato dai rivoltosi reggini. Cercarono di tendermi delle trappole un paio di volte e riuscii a rifugiarmi a Messina. Ma spesso dovevo cercare un passaggio su qualche macchina che si avventurasse oltre i piloni distrutti, i fuochi e le barricate. Per fortuna non esistevano i social, si era felicemente anonimi e quasi nessuno mi poteva riconoscere. Però ricordo un viaggio particolarmente raggelante perché il conducente che mi ospitava seguitava a chiedermi: “Ma voi, questo grandissimo stronzo figlio di puttana e cornuto di Paolo Guzzanti, lo conoscete? Perché ci vorrei spaccare le corna personalmente con le mie mani. Glielo potete dire se lo incontrate?”. Giuravo di non conoscermi e di non potermi incontrare e feci in un certo modo amicizia con il mio potenziale carnefice che mi aveva in simpatia soltanto perché intravedeva attraverso di me (gli avevo detto di lavorare per una agenzia di stampa) l’opportunità di rompere personalmente le corna a quel grandissimo cornutissimo figlio di grandissima puttana di questo Paolo Guzzanti. Non mancherò, dicevo con tono rassicurante. Se ne capita l’occasione, ne stia pur certo.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1970:

4 gennaio: nello Yunnan, in Cina, un terremoto di 7.7 gradi della scala Richter causa oltre quindicimila vittime

21 febbraio: a Istanbul prima posa per la costruzione del Ponte sul Bosforo, che verrà terminato nel 1973

5 marzo: entra in vigore il trattato di non proliferazione nucleare accettato da circa 100 nazioni. Non vi aderiscono Francia, India, Israele, Cina e Brasile

15 marzo: ad Osaka, in Giappone, viene inaugurato l’Expo ’70

10 aprile: si scioglie il gruppo musicale dei Beatles

31 maggio: in Perù un forte terremoto colpisce la città di Yungay, provocando 70.000 vittime

11 giugno: Anna Mae Hays diventa la prima donna ad essere nominata generale degli Stati Uniti d’America

17 giugno: si disputa la partita del secolo tra Italia e Germania Ovest ai mondiali messicani. Vince l’Italia 4 a 3

11 luglio: inaugurato il primo tunnel nei Pirenei che unisce i paesi francesi di Aragnouet e quello spagnolo di Bielsa

3-6 settembre: le forze israeliane si scontrano con i guerriglieri palestinesi nel Libano del sud

9 settembre: lo Stato africano della Guinea riconosce la Germania Est

18 settembre: viene ritrovato a Londra il cadavere di Jimi Hendrix

28 settembre: muore il presidente egiziano Nasser; sale al potere il suo vice, Anwar Sadat

25 novembre: Lo scrittore giapponese Yukio Mishima si suicida in diretta televisiva.

12 dicembre: a Milano, durante una manifestazione studentesca per commemorare l’anniversario della strage di piazza Fontana, Saverio Saltarelli, un giovane studente, viene ucciso a colpi d’arma da fuoco durante violenti scontri con la polizia.

Cosa è successo nel 1970: l’anno dei colpi di Stato veri, falsi e minacciati. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Fu l’anno delle uova di serpente. Ne furono deposte molte, un po’ roba russa, un po’ americana, un po’ mafiosa, un po’ nostrana, oggi non è facile sminare il passato per ricostruire i sentieri dei nidi dei rettili perché le tracce più importanti sono state fatte sparire. Visto che mentre scriviamo il capo del governo italiano è di ritorno dalla Libia, partiamo da questa amara ex colonia, che l’Italia strappò alla Turchia con una guerra nel corso della quale il sovversivo Mussolini Benito, pacifista e per questo ricercato, insieme a Pietro Nenni faceva stendere le donne sulle traversine dei binari che portavano le tradotte dei soldati all’imbarco per l’Africa. Giovanni Pascoli -viceversa – il poeta intimista e socialista aveva scritto che “la grande proletaria – l’Italia – si è mossa”. Soltanto molti anni dopo, una volta che furono perse la Seconda guerra mondiale e le colonie, si scoprì che la Libia era un serbatoio di petrolio. Per la verità, l’Italia aveva inventato la Libia recuperando la “Lybia” romana, mettendo insieme Cirenaica e Tripolitana che erano e sono nazioni lontane, nemiche e diverse. Il colonnello Muammar Gheddafi nell’estate 1969 aveva fatto il suo colpo di Stato con l’aiuto del Sid (servizio segreto militare italiano) instaurando una dittatura dagli atteggiamenti contorti e altalenanti verso l’Italia, sul cui suolo comunque il colonnello considerava un suo diritto spedire agenti militari a lui fedeli per liquidare i dissidenti. Questo fu uno sporco compromesso che gli fu concesso in cambio di una politica petrolifera amichevole. All’inizio del 1970 il nostro Servizio segreto sventò un primo tentativo di colpo di Stato contro Gheddafi consegnando gli insorti al capo della polizia segreta libica, maggiore El Houni: si trattava di un gruppo di mercenari ingaggiati dal “principe Nero” Abdullah Ben Abdid nipote dello spodestato re Idris: presi ap­pena sbarcano in Libia, su informa­zione del ministero degli esteri italiano, oltre che del Sid. Nel frattempo, Hafez Assad attua il suo colpo di Stato in Siria, che vive di sovvenzioni del Kuwait e dell’Arabia Saudita. Il colpo di Stato è uno sport molto diffuso in quegli anni e anche in Italia ne viene agitato lo spettro come un salvaschermo, ma anche con molte operazioni di intossicazione e propaganda, visto che si prepara una specie di mascherata che nella notte dell’8 dicembre farà scattare una specie di opera comica con il cosiddetto “Golpe Borghese”, in cui i congiurati radunati negli scantinati del ministero degli Interni, dopo alcune ore di attesa inutile se ne tornano a casa infreddoliti. Ma si parlava molto, a sinistra, del “cattivo amerikano” col kappa, che effettivamente era molto preoccupato per l’atteggiamento tentennante sul piano delle alleanze militari sia dei comunisti che dei socialisti al governo. James Clavio, addetto militare dell’ambasciata Usa a Roma, diplo­matico di origine abruzzese come Carmel Offie e Volpe, secondo quanto dirà depo­nendo Orlandini al processo per lo strano colpo di Stato, diranno che gli americani attraverso il loro ambasciatore sondavano la disponibilità di ufficiali italiani all’ipotesi di un colpo di Stato militare. C’era agitazione anche in Jugoslavia – un altro dei Paesi oggi scomparsi – e infatti l’ambasciatore jugoslavo a Stoccolma, generale Vladimir Rolovic, fu ucciso da due ustascia accusati dal regime di Tito di aver promosso gli scioperi del dicembre 1969. Quest’aria di colpo di Stato, minacce militari e intrighi fu percepita anche da un uomo della sinistra socialista con la testa sulle spalle come Riccardo Lombardi, che disse di aver notizia di un “protocollo segreto” norvegese sottoscritto dai 15 ministri degli Esteri della Nato che prevedeva un intervento eccezionale per operazioni di grande rilievo militare su autorizzazione del comandante delle truppe Usa in Europa. Oggi sappiamo che lo scontro militare fra Usa e Urss stava raggiungendo punte particolarmente pericolose perché entrambe le superpotenze si accusavano di piani aggressivi reciproci e giuocavano sulla scacchiera europea dell’Est e dell’Ovest con tutte le risorse, specialmente quelle propagandistiche in cui bisogna ammettere che i russi erano i più scaltri ed efficaci, perché sapevano inondare la stampa occidentale di una quantità di disinformazione di cui la controparte era semplicemente incapace. Certamente qualcuno stava preparando una operazione golpista, in Italia, prevista per quel mese di dicembre e poi abortita. Fu battezzata col nome in codice “Tora-Tora” (nome rubato ai giapponesi che così chiamarono l’operazione dell’attacco alla base americana di Pearl Harbor nel dicembre 1941 che scatenò la guerra nel Pacifico). Il nome probabilmente fu ispirato da un film che uscì proprio quell’anno e che raccontava l’attacco giapponese. Ma l’intero mondo era in subbuglio. Dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 il Fronte di Liberazione della Palestina di Yasser Arafat era diventato una potenza politica e militare, in particolare con il gruppo “Forza 17” che era la sua ala militare. Cominciò la stagione dei dirottamenti aerei e di una forma di terrorismo del tutto nuova per il mondo occidentale. Fin ad allora si entrava negli aerei senza passare alcun controllo con i metal detector e si poteva persino fumare dopo il decollo. Per la verità ancora tutti fumavamo come turchi e ogni casa o quasi puzzava di fumo. In quell’anno, oltre il femminismo, ci fu una vera New Entry che covava sotto la cenere del 1968: la questione ecologica. Si cominciò a parlare, e a scrivere, di plastica, di rifiuti, di ambiente inquinato e l’inquinamento diventò subito una faccenda politica. L’Est sovietico inquinava come un’unica ciminiera velenosa perché mandava avanti tutte le sue fabbriche a carbone, senza la minima protezione. Da noi la situazione non era migliore, ma si cominciava a guardare all’energia nucleare come a una cosa buona, pulita, molto redditizia e sicura. Erano ancora da venire i tempi di Chernobyl e della politica antinucleare. Ma torniamo al terrorismo e alla tragedia in Medioriente. In un solo giorno di settembre, il 6, le cronache registrano quattro dirottamenti aerei nella Germania oc­cidentale, Svizzera e Olanda con una odissea sulle prime pagine, i teleschermi e i volti dei passeggeri terrorizzati . Tutto si concluse il 15 settembre con il massacro di settemila palestinesi da parte dell’esercito giordano. Questa data sarà ri­cordata come il “Settembre nero”. I palestinesi superstiti, espulsi dalla Giordania, si tra­sferiscono nel Libano dove si organizzarono per costruire uno Stato nello Stato libanese, con una supremazia economica e militare su gran parte delle frazioni etniche e politiche in cui è diviso il Libano. Anche la mafia si sta riorganizzando e le guerre che alimentano questa riorganizzazione ebbero un momento di massimo clamore verso la fine dell’anno, il 10 dicembre, quando un commando di una de­cina di persone, alcune travestite da carabinieri, entra negli uffici del co­struttore Salvatore Moncada e uccide Michele Cavataio, pezzo da novanta durante la prima guerra di mafia. Con questo delitto termina la grande guerra degli anni Sessanta che si conclude con l’insediamento di un quadrumvirato composto da Salvatore “Totò” Riina che agisce per conto di Luciano Liggio, Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti e Bernardo Provenzano. Stava preparandosi una nuova fase, nuove uova di serpente e nuovi serpenti, nuove alleanze con collegamenti internazionali. Tommaso Buscetta – l’uomo che Giovanni Falcone interrogò personalmente ricostruendo tutte le relazioni della rete mafiosa, fu espulso dagli Stati Uniti per iniziativa del Narcotici Bureau che lo considerava il re della cocaina. Buscetta fu un personaggio tragico e centrale nella storia della mafia ma più ancora nella storia di Giovanni Falcone. Quando ci incontrammo per una intervista televisiva, Falcone mi regalò le fotocopie – che ho fatto rilegare e che occupano un bello spazio nella zona Mafia della mia libreria – delle pagine manoscritte in cui lui stesso, Falcone, verbalizzava a mano ogni parola di Buscetta perché non voleva cancellieri intorno, nessuno che in qualsiasi modo potesse interferire nel suo rapporto personale con il trafficante di droga più ricercato e allo stesso tempo più perseguitato dalle cosche. Prima di essere arrestato, Buscetta aveva partecipato al vertice di Cosa Nostra che si era svolto a Zurigo il 14 luglio per varare una stagione di rapimenti e riscatti, prima di tornare in Usa dove però fu arrestato e poi rilasciato insieme al figlio su cauzione di 75 mila dollari riuscendo a fuggire in Brasile dove cambiò nome e mise su una nuova famiglia. E dove i servizi segreti italiani lo scoveranno, lo inviteranno a trattare per ottenere un ritorno blindato in cambio della verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Non c’era da fidarsi, ma il tutore del patrimonio di informazioni venute da Buscetta sarebbe stato un siciliano di ferro: il procuratore Giovanni Falcone. Torniamo ora al ‘70. Il 16 settembre sparisce il giornalista dell’Ora di Palermo, Mauro De Mauro. Sulla sua scomparsa fiorì una letteratura. Posso dire quel che accadde quando la Commissione bicamerale d’inchiesta sul Dossier Mitrokhin, da me presieduta, interrogò l’ex capo della “residentura” romana del Kgb sovietico a Roma, il colonnello Leonid Kolosov, il quale disse molte cose scioccanti, salvo il fatto che non poteva esibire alcuna altra prova se non la sua personale conoscenza. Kolosov parlava un eccellente italiano, disse che davanti al suo ufficio nell’ambasciata di via Gaeta a Roma “c’era la fila degli italiani che volevano collaborare con il Kgb”, disse che non accettò mai la collaborazione di comunisti iscritti al partito ma solo di socialisti e democristiani che non potevano essere compromessi, disse che il famoso “colpo di Stato del generale De Lorenzo” per cui erano stati processati e condannati (e poi assolti) i giornalisti dell’Espresso Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, non era mai esistito e che la diffusione delle notizie su De Lorenzo erano state create ad arte per screditare il capo dei servizi segreti italiani e poi parlò di Mauro De Mauro: «De Mauro – disse davanti all’intera Commissione – era un giornalista italiano e un nostro agente. Ha servito il Kgb per molti anni e fu fatto sparire dagli americani. Una nostra inchiesta si concluse con il ritrovamento del luogo in cui gli agenti della Cia l’avevano fatto sparire: un pilone di cemento sotto un’autostrada». L’audizione in cui Kolosov raccontò questa e molte altre storie avvenne in due giorni di giugno del 2003 nei locali della Commissione in via San Macuto. L’otto dicembre avvenne l’“operazione Tora Tora”, ovvero l’abortito golpe del principe Junio Valerio Borghese che era stato un fascista molto particolare. Non ci fu alcun golpe ma qualcuno aprì gli armadi negli scantinati del Viminale per prendere alcuni fucili automatici che poi furono rimessi a posto e nessuno seppe nulla. L’Italia era ormai entrata in uno dei suoi tunnel più neri e Sergio Zavoli intitolerà la sua inchiesta accurata e drammatica per la Rai, “La notte della Repubblica”.

Cosa è successo nel 1971: la mafia uccide Scaglione, Indirà Gandhi fa la guerra. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Fu l’anno in cui in Italia una legge permise di fabbricare pubblicizzare e vendere i preservativi che erano fino a quel momento merce satanica clandestina e immorale, e fu anche l’anno in cui una delle grandi leader donna, la premier indiana Indira Gandhi, lanciò e vinse una guerra fondata su ragioni etiche contro il Pakistan che stava procedendo al genocidio sistematico della sua popolazione dell’Est. Questa guerra durò due settimane e si svolse nel mese di dicembre dopo il perdurante e feroce tentativo dell’esercito pakistano di sterminare quello che oggi è il Bangladesh. Fu una guerra breve, condotta in modo determinato, vittorioso per buoni motivi, come capita quando a fare la guerra sono donne alla guida degli Stati: così agirà l’israeliana Golda Meir per proteggere Israele dall’attacco egiziano e siriano dello Yom Kippur; e la britannica Margaret Thatcher quando risponderà all’occupazione delle isole Falkland dalle truppe dei generali golpisti del calabro-piemontese generale Galtieri di Buenos Aires, riconquistando le isole e facendo cadere la dittatura argentina. Il femminismo della prima ondata stava appena attecchendo, ma era una novità assoluta dopo gli anni in cui anche le donne rivoluzionarie e più intraprendenti della sinistra finivano col diventare “angeli del ciclostile”, cioè più o meno le segretarie dei leader maschi. Non esistevano ancora leader femmine in Italia, salvo austere signore democristiane e comuniste che avevano combattuto nella Resistenza. La guerra nel Vietnam andava avanti in modo brutale perché gli Stati Uniti invasero il Laos insieme all’alleato Vietnam del Sud, nel tentativo di spezzare la catena dei rifornimenti che arrivavano alla guerriglia Vietcong dal Nord Vietnam di Hanoi, il cui leader Ho Chi Minh era un austero e carismatico uomo che per anni aveva servito come cameriere sulle navi occidentali, aveva vissuto in America crescendo nel mito di Abraham Lincoln, prima di adottare l’indipendentismo rivoluzionario sotto le bandiere comuniste. Il Vietnam sarà liberato dalla presenza degli americani pochi anni dopo, ma da allora il Vietnam si trovò in continuo conflitto armato proprio con la Cina comunista, il fin troppo grande fratello. Il mondo ribolliva di evoluzioni e rivoluzioni che seguivano la morte del colonialismo ma che erano ben monitorate e spesso “eterodirette” (memorizziamo questa ostile parola che vuol dire pilotate dall’esterno) e la penisola italiana era allora come oggi il primo luogo di sbarco, insediamento e rifugio. Il Regno Unito era di nuovo in guerra radicale contro l’Ira, l’esercito repubblicano irlandese che anche ai nostri giorni sta dando segni di ritorno alle armi a causa della situazione di frontiera irlandese che si è creata dopo la Brexit e che allora era una delle più organizzate e disciplinate fazioni armate, guidata da militari regolari che avevano combattuto nell’esercito britannico durante la guerra e in collegamento con i Baschi dell’Eta che era sia una organizzazione antifranchista che una organizzazione nazionalista in guerra con Madrid. Entrambe ebbero certamente rapporti con i vari gruppi rivoluzionari italiani e su tutte queste sigle vegliavano, monitoravano, infiltravano e agivano attraverso lo spionaggio, tutte le maggiori agenzie del mondo, dallo Sdec francese all’Mi6 britannico, dal nostro Sid al Bnd tedesco occidentale e la frenetica Stasi tedesco orientale che aveva conservato gli stili e la sfrontatezza della Gestapo nazista. Infine, il Kgb più attivo esperto e spregiudicato, una Cia più tecnologica eternamente distratta dall’America Latina dove si sentiva minacciata dal castrismo cubano in Cile e in Colombia. Fu in un clima così nebbioso e su una scena teatrale tanto densa che si svolse a Firenze una prima riunione di organizzazioni rivoluzionarie, di guerriglia e di opposizione armata a regimi dittatoriali con delegati dell’Ira irlandese, dell’Eta basco, dell’Erp, dell’Olp e altri dodici gruppi. I servizi segreti israeliani e tedeschi erano particolarmente allarmati perché vedevano nella nascente potenza libica di Gheddafi la voglia e i mezzi per svolgere un ruolo di infiltrazione e di coordinamento. Così come le continue scoperte di sconosciute artiste dei secoli passati che avevano dipinto sotto la copertura di falsi nomi maschili. La liberazione sessuale procedeva come procedono le rivoluzioni: massimalismi e restaurazioni, pogrom di autocoscienza nel corso dei quali era abitudine catacombale processarsi con autocritiche sempre più ridicole, ma di fatto il sistema dei matrimoni stabili temperati dall’adulterio vietato ma consentito, cominciarono a vacillare sotto i colpi della libertà minima garantita. In Italia la società intera si stava spacchettando e riorganizzando intorno e contro i due partiti leader, quello comunista e quello dei cattolici nella Democrazia Cristiana. La dissidenza sembrava la parola d’ordine e nascevano come funghi movimenti, associazioni, fronti, con una festosa mescolanza di sigle di destra e di sinistra, spesso col dichiarato proposito di chiudere la vecchia partita ideologica dei fascisti e dei comunisti, specialmente ora che era in crescita il modello rivoluzionario della Cina, sicché tutte queste divisioni si reverberavano sulla Chiesa, l’arte, gli stili di vita, l’alimentazione, e più di tutto la libertà sessuale. La guerra contro i tabù stava diventando armata, la corsa verso l’ultimo e definitivo livello della provocazione e dello scandalo nel senso piccolo borghese di coppia aperta o coppia chiusa era un tema di ogni giorno; le cosiddette “comuni” nate a imitazione di quelle hippy californiane dei “figli dei fiori” formavano comunità oscillanti fra comportamenti basati sul fumo e gli allucinogeni psichedelici e gli accampamenti rivoluzionari ispirati alle guerriglie latinoamericane. Nel complesso, prevalse il modello rivoluzionario politico figlio e proseguimento di ciò che era stato seminato nel 1968, ma era anche un arcipelago di entità varie e fra loro impermeabili che lentamente si stava spaccando e spacchettando. La parte politica e teorica si schierava ai bordi del partito comunista sotto forma di dissidenza latente, il gruppo del manifesto passò dalla rivista al quotidiano e la sinistra intera – compresi i socialisti che per metà erano filogovernativi e per metà rimpiangevano l’alleanza con i compagni comunisti. Cominciò la guerra contro il fumo e i fumatori: vietata la pubblicità delle sigarette. Si poteva fumare ovunque, cinema e teatri compresi, bus e aerei, ma non si doveva pubblicizzarlo. Gli studi sul cancro avanzavano, l’inquinamento stava diventando un tema quotidiano e già tendeva a diventare un cliché. La guerra fredda in Europa andava verso una stabilizzazione: i leader delle due Germanie, la Rft occidentale e la Ddr orientale cominciarono a scambiarsi timidi segni di dialogo e il 12 agosto avvenne un fatto importante e cupamente evocativo: Unione Sovietica e Germania occidentale firmarono un accordo in cui si promettevano di rinunciare all’uso della forza. Dove l’avevano già sentita? Un patto di non aggressione? Ma certo: il precedente fui nell’agosto del 1939, a poche settimane dall’inizio delle operazioni tedesche in Polonia che tutti consideriamo come l’inizio della Seconda guerra mondiale, precedute dalla firma di un “Patto di non aggressione” fra la Germania di Hitler e l’Urss di Stalin. Quel patto di 32 anni prima prevedeva alcune clausole che furono rivelate soltanto a guerra conclusa, secondo cui l’Urss avrebbe a sua volta invaso la Polonia di cui avrebbe incamerato il 51 per cento, ottenendo anche mano libera per aggredire – come fece – la Finlandia e poi le Repubbliche baltiche, tutti punti effettivamente realizzati, fino al capovolgimento del fronte nel giugno del 1941 quando Hitler attaccò l’ex alleato, firmando la sua stessa fine. Ora tutto era diverso, naturalmente, di Germanie ce n’erano due – cosa che piaceva molto a Giulio Andreotti che ironizzava sul suo amore per i tedeschi che si sarebbe saziato solo con almeno due Germanie – ma stava avvenendo un riallineamento promettente. Nel mese di maggio Pietro Nenni va in visita in Israele e porta con sé la figlia Giuliana e Bettino Craxi. E annota sul suo diario: “Sono da oggi in Israele. Mi accompagnano Giuliana e Craxi”. Craxi è rapito dal fascino di Israele e dei suoi capi laburisti. Il 19 maggio pianta un albero nella foresta dei Martiri a 25 chilometri da Gerusalemme. Bettino Craxi è infatti ancora il delfino di Nenni, considerato un assoluto ammiratore di Israele e ostile alle organizzazioni indipendentiste e terroriste arabe. Avrebbe presto cambiato idea e posizione diventando un amico dell’Olp e un amico più che fraterno di Bourghiba, dittatore socialista della Tunisia, dove poi si rifugiò fino al giorno della sua morte. In Italia fu rivelato ufficialmente il goffo tentativo di colpo di Stato nella notte dell’Annunziata del 1970, attribuito a Junio Valerio Borghese, il principe nero che era già stato sulle barricate di Reggio Calabria. A farlo è il ministro degli Interni Franco Restivo. La notizia esplode con fragore sui giornali e Junio Valerio Borghese scappa in Spagna. Secondo i racconti del pentito Tommaso Buscetta, Borghese avrebbe proposto un’alleanza politica a Cosa Nostra. Intanto, in Libia, i servizi segreti italiani salvano Gheddafi per la seconda volta, dopo averlo portato al potere. Gli agenti del Sid assaltano nel porto di Trieste la nave “Conquistador 13” in procinto di salpare e arrestano un gruppo di 25 persone che nell’attesa dell’imbarco erano alloggiate all’hotel Savoy. Si trattava di una spedizione di cospiratori libici guidati da Umar El Shalhi, ex consigliere di re Idriss, il quale sperava di portare a termine la cosiddetta “Operazione Hilton”: cioè un attacco, previsto per il 31 marzo, alla fortezza-prigione di Tripoli (ironicamente chiamata “hôtel Hilton”). Gheddafi fece fare la pelle ai congiurati ma non ripagò l’Italia con maggior occhio di riguardo in commesse petrolifere ma pretese e ottenne rifornimenti di armi, munizioni, istruttori, e consiglieri militari forniti attraverso la sezione Controspionaggio del servizio segreto militare italiano. In patria, lo shock di un preteso colpo di Stato fascista abortito riaccende gli animi di un conflitto fra lo Stato repubblicano e i nostalgici del regime, e nel dibattito interviene Mario Scelba, il ministro degli Interni che aveva introdotto la “Legge Scelba” con cui si metteva al bando ogni forma anche solo simbolica di espressione o di organizzazione fascista, per dichiarare che non esiste alcun pericolo fascista. A Tripoli l’ambasciatore italiano Enrico Guascone Belcredi riceve dal capo di Stato Maggiore libico, colonnello Yunis la richiesta di cingolati, obici, cannoni, missili e apparati elettronici. Si parla. di una commessa di 25 miliardi di lire intestata a Oto Melara, Snia Viscosa e Fiat. L’incontro con l’ambasciatore Belcredi, stando a una successiva ricostruzione dell’Espresso, è il risultato “di una lunga, complessa operazione patrocinata dal colonnello Roberto Jucci, più tardi promosso a capo del servizio informazioni dell’Esercito e poi generale di divisione”. Il generale Jucci diventerà nel 1985, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Il successivo 17 dicembre quattro alti ufficiali libici vennero a visitare in Italia la Snia Viscosa, la Oto Melara e la Fiat per acquistare armi ma la trattativa fu bloccata dagli americani: le armi in questione avevano il brevetto americano e non potevano essere concesse senza licenza americana. Fu deciso di vendere ai libici una versione riadattata di missili anticarro americani “Tow” in cambio della fornitura all’ente petrolifero italiano di dieci milioni di tonnellate di greggio a prezzi stracciati. Su questo sconto si intreccia una rete di interessi tra uomini d’affari, politici, industriali, militari, servizi segreti e giornalisti che formano una lobby nota come “partito libico” che sembra aver trovato la sua copertura finanziaria. La vicenda ebbe alti e bassi perché Gheddafi accusò gli italiani di non mantenere i patti e ritardare la consegna delle armi, finché l’anno successivo il nuovo governo Andreotti risistemò tutto facendo imbarcare nel porto di La Spezia armi e mezzi italiani su navi riverniciate con i colori libici e con bandiera libica fabbricata in Liguria. In Sicilia Cosa Nostra uccide l’otto maggio il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione e il suo autista Antonino Lo Russo. Nell’intervista concessa dopo la morte di Borsellino a Enzo Biagi (Panorama, 2 agosto 1992), Buscetta sosterrà che Scaglione fu la prima vittima fra quanti tentarono di opporsi all’ascesa dei Corleonesi. A uccidere il magistrato – disse Buscetta – sarebbe stato Luciano Liggio che era stato a lungo protetto dallo stesso Scaglione, o almeno questo è ciò che dissero in Parlamento alcuni membri della Commissione Cattani antimafia. Buscetta insistette nel dire che Cosa Nostra tramava politicamente per un colpo di Stato e che anche l’uccisione del giornalista Mauro De Mauro fu decisa per dare un segno di forte capacità terroristica. Come ho riferito nel precedente articolo, il capo della “residentura” sovietica del Kgb a Roma, interrogato dalla Commissione parlamentare Mitrokhin da me presieduta affermò – senza portare alcuna prova se non le sue stesse parole – che Mauro De Mauro era un suo agente e che fu soppresso dagli americani in modo tale da farlo apparire vittima della mafia. Il suolo della Repubblica italiana diventa il terreno di residenza e azione di molte organizzazioni e bande armate. Nell’ottobre di quell’anno si svolge a Firenze una prima riunione di organizzazioni rivoluzionarie, di guerriglia e di opposizione armata a regimi dittatoriali. Sono presenti delegati dell’Ira irlandese, dell’Eta basco, dell’Erp, dell’Olp e altri dodici gruppi. I servizi segreti israeliani e tedeschi e tutti riconoscono alla Libia di Gheddafi un ruolo di sostegno e coordinamento. Ricordo queste numerose uova di serpente perché in seguito ebbero funzioni determinanti in quel che accadde quando diverse forme di terrorismo e guerriglia cercarono e trovarono sostegni reciproci. Il più attivo benché ancora molto giovane era il venezuelano Ilich Ramirez Sanchez (che sta morendo all’ergastolo a Parigi) noto come “Carlos the Jackal”, che ebbe in Italia un ruolo fondamentale e misterioso su quel che avvenne qualche anno dopo, man mano che le uova si schiudevano.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1971

2 gennaio: disastro dell’Ibrox. Mentre sta finendo il derby tra Rangers e Celtic e i tifosi di casa stanno iniziando a lasciare gli spalti, per ragioni mai del tutto chiarite si produce una calca nella quale muoiono 66 persone e ne restano ferite oltre 200

7 febbraio: un Referendum popolare in Svizzera approva la concessione del diritto di voto alle donne

13 febbraio: durante la guerra del Vietnam le truppe del Vietnam del sud, appoggiate dall’artiglieria e dagli aerei americani, invadono il Laos

26-28 febbraio: moti dell’Aquila

10 marzo: la Corte Costituzionale italiana abroga l’articolo 553 del codice penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali

26 marzo: dichiarazione di indipendenza del Bangladesh dal Pakistan

15 aprile: Richard Nixon mette fine alla convertibilità del dollaro in oro e ai patti di Bretton Woods del 1944

28 aprile: Il manifesto da mensile diventa quotidiano. Il direttore è Luigi Pintor

5 maggio: a Palermo, il procuratore della repubblica Pietro Scaglione e l’autista Antonio Lo Russo vengono uccisi per ordine dei corleonesi di Totò Riina, questo omicidio è il primo della guerra allo stato operata dai corleonesi, che si protrarrà fino alle stragi di Capaci e di via D’Amelio

14 giugno: viene aperto il primo Hard Rock Cafe a Londra

3 luglio: Jim Morrison viene trovato morto nella vasca da bagno della sua abitazione di Parigi

4 luglio: Michael Hart copia in digitale la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. È questa la data di nascita dell’eBook e del Progetto Gutenberg

16 luglio: muore di infarto a Milano Cornelio Rolandi, unico testimone contro Pietro Valpreda nel processo legato alla Strage di Piazza Fontana

1º agosto: lo psichiatra Franco Basaglia diventa direttore del manicomio di Trieste

21 agosto: nel cortile del carcere di San Quintino, a San Francisco, un secondino uccide George Jackson, tra i fondatori delle Black Panthers

7 settembre: l’IVA (Imposta sul valore aggiunto) sostituisce l’IGE (Imposta Generale sulle Entrate)

11 ottobre: viene pubblicato il brano di Jonn Lennon “Imagine”

15 novembre: Intel realizza Intel 4004, primo microprocessore su singolo chip e primo microprocessore commerciale in assoluto

20 dicembre: viene fondata a Parigi Medici Senza Frontiere

24 dicembre: Il democristiano Giovanni Leone, viene eletto sesto presidente della Repubblica Italiana al 23º scrutinio, succedendo a Giuseppe Saragat.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il 15 agosto 1971 un discorso di Nixon cambiò l’economia mondiale. Stefano Magni su Inside Over il 14 agosto 2021. Il 15 agosto 1971, esattamente mezzo secolo fa, mentre il mondo era in vacanza, l’allora presidente degli Usa Richard Nixon annunciava in televisione una nuova politica economica che avrebbe rivoluzionato il sistema monetario mondiale. Pochi se ne accorsero allora e il 15 agosto è un anniversario celebrato solo da chi si occupa professionalmente di finanza. Eppure ha cambiato anche il nostro stile di vita. Cosa annunciò Nixon, in quello che ora è passato alla storia come “Nixon shock”? Sospese “temporaneamente” la convertibilità del dollaro in oro. Da allora la moneta cessò di essere un sistema di scambio basato sull’oro, come era sempre stato, ma una nota di credito il cui valore è interamente basato sulla politica monetaria degli Stati e delle banche centrali. E, in ultima istanza, nella fiducia che tutti noi riponiamo in queste istituzioni. Allora erano in vigore, dal 1945, gli accordi di Bretton Woods, un sistema detto di “gold exchange standard”. Non era più un “gold standard” puro in cui la moneta poteva essere emessa solo in proporzione alle riserve auree possedute dallo Stato ed era convertibile in ogni momento da qualsiasi portatore. Già nella Prima Guerra Mondiale gli Stati belligeranti avevano dovuto emettere molta più moneta rispetto alle riserve auree effettivamente possedute e il gold standard era in declino. La novità del gold exchange standard, negoziato nel 1944 a Bretton Woods, nel New Hampshire (in piena Seconda Guerra Mondiale) ed entrato in vigore nel dicembre 1945 (a guerra appena conclusa) era la dollarizzazione. La valuta di riferimento divenne il dollaro, le altre valute erano legate al dollaro da un sistema di cambi fissi e il dollaro stesso poteva essere emesso in base alle riserve auree disponibili. Solo il dollaro, dunque, poteva essere convertito in oro e solo le banche centrali potevano compiere questa operazione. La “sospensione temporanea” della convertibilità del dollaro fu decisa da Nixon durante la guerra del Vietnam. I costi del lungo conflitto (iniziato nel 1959 ed entrato nella sua fase culminante, con l’intervento militare diretto americano, nel 1965) e, contemporaneamente, la spesa sociale aumentata a causa del programma della Great Society del presidente Johnson, avevano costretto la Federal Reserve (la banca centrale statunitense) a emettere molta più moneta rispetto alle riserve auree, come nelle due guerre mondiali. Il dollaro, inflazionato, stava perdendo valore ed era sempre più soggetto alla speculazione internazionale. Per motivi che oggi chiameremmo “sovranisti”, il presidente Nixon, un Repubblicano, decise di prendere il controllo della politica monetaria in modo più diretto. Nel suo storico annuncio televisivo Nixon fu cautamente ottimista sulla prossima conclusione del lungo conflitto in Vietnam e lanciò un programma economico per una “nuova prosperità” nella pace che ne sarebbe seguita. Per aumentare l’occupazione, tagliò le tasse che gravavano sul lavoro, per combattere l’inflazione impose dei controlli per congelare i prezzi, per proteggere la produzione americana introdusse dei dazi e, infine, per stabilizzare il dollaro e proteggerlo “dagli speculatori”, che a suo dire erano gli unici che stavano guadagnando dalla crisi, sganciò il dollaro dall’oro. Non ci volle più di un anno prima che il sistema nato a Bretton Woods nel 1944 collassasse in tutto il mondo. A cinquant’anni di distanza, gli effetti a lungo termine dello “choc” nixoniano sono ancora oggetto di dibattito. Le banche centrali e gli Stati sono molto più liberi di controllare l’emissione della moneta. Per sostenere la crescita e l’occupazione è ormai prassi consolidata aumentare la liquidità. Così ha fatto Alan Greenspan (che pure era “nato” come sostenitore del gold standard) dopo  l’11 settembre 2001, così come Ben Bernanke dopo la Grande Recessione del 2008 e infine Jerome Powell, attuale presidente della Fed nell’America che sostiene il disastro economico causato dalla pandemia di Covid-19. Il discorso di Mario Draghi del 2012, in piena crisi dei debiti sovrani, passato alla storia per l’espressione “Whatever it takes” e alla base delle iniezioni di liquidità della Banca centrale europea, è possibile solo in un sistema monetario completamente sganciato dall’oro. Questo è l’aspetto che gli economisti neo-keynesiani, monetaristi e anche teorici di scuole minoritarie, come la MMT (Modern Monetary Theory, nuova versione del vecchio “cartalismo”) ritengono comunque uno sviluppo positivo. Anche se si dividono su quanta liquidità immettere nel sistema e sull’opportunità di mantenere o meno l’indipendenza della banca centrale, piuttosto che sottoporla al controllo diretto del governo, concordano sul fatto che la moneta sia fiduciaria (“fiat money”) e non vincolata a una “commodity” fisica, come l’oro. I risultati diretti di queste politiche sono eclatanti. La liquidità globale, M2 (moneta, più i depositi in conto corrente, più tutte le attività ad elevata liquidità e valore certo), è cresciuta di 5 volte in un quarto di secolo, da 20mila a 100mila miliardi di dollari statunitensi. Soprattutto negli ultimi 20 anni, iniezioni di liquidità senza precedenti in occasione della Grande Recessione e della crisi dovuta alla pandemia, hanno portato ad un vero e proprio cambiamento di sistema. Assieme all’iper-liquidità è anche esploso il debito pubblico mondiale che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, attualmente ammonterebbe a 277mila miliardi di dollari Usa, pari al 365% del Prodotto Interno Lordo mondiale. È sostenibile un sistema così indebitato? Secondo una scuola economica di minoranza, la Scuola Austriaca di Economia, corriamo rischi inaccettabili. Oltre ai parametri macro-economici, i cinquant’anni che ci separano dal discorso di Nixon hanno portato ad un peggioramento del tenore di vita generale e a un aumento sensibile delle disuguaglianze fra ricchi e poveri. Questo processo non va inteso in senso assoluto: salvo rari casi, quasi mai abbiamo assistito a un impoverimento generale della società. Semmai, si è sempre meno ricchi di quel che avremmo potuto essere, se si fosse mantenuto il sistema precedente. Secondo i calcoli dell’Economic Policy Institute, la produttività negli Usa è cresciuta del 246% dal 1948 al 2017, i salari del 115%. Ma mentre, fino al 1971 salari e produttività crescevano di pari passo (in alcuni momenti, nei primi anni ’50, i salari sono cresciuti più rapidamente rispetto alla produttività), il divario diventa sempre più grande dopo il 1971. Altro indicatore utile è la disuguaglianza. Secondo i calcoli di un economista marxista, Thomas Piketty, dal 1971 al 2010 la quota di reddito nazionale lordo detenuta dal decile più ricco è passata dal 35 al 45-50%. Piketty attribuisce l’aumento della disuguaglianza alle politiche “neoliberiste”, ma è curioso che invece coincidano con il cambiamento del sistema monetario americano (e mondiale). In un sistema in cui la Banca centrale ha il pieno controllo sulla moneta, chi è più “vicino” al sistema finanziario e allo Stato tende ad arricchirsi di più rispetto agli altri produttori. Terzo: i dati dell’inflazione cumulativa negli Usa, mostrano come sia rimasta sostanzialmente stabile fino al 1971 (salvo alcuni picchi dovuti alle guerre), ma in crescita costante dopo il 1971. Se è cresciuta dal 98% al 306% dal 1920 al 1970, dal 1971 al 2015 è cresciuta dal 306% al 2326,6%. L’inflazione funziona come una tassazione invisibile: riducendo il potere di acquisto, erode i risparmi. Infine, ma non da ultimo, i fenomeni di iperinflazione sono enormemente aumentati dopo l’introduzione del nuovo sistema. Ce n’erano stati sei dal 1916 al 1921, fra cui la famosa iperinflazione tedesca, cinque dal 1941 al 1946, in occasione della Seconda Guerra Mondiale. Ma dopo il 1971 se ne contano ben 28 dal 1971 al 1996 e altri due (Zimbabwe e Venezuela) dopo il 2000. Uno storico non può fare a meno di notare che l’instabilità monetaria sia enormemente aumentata dopo lo “shock” nixoniano.

Nel 1971 la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Accordi di Bretton Woods, 50 anni dopo la stabilità del sistema monetario è ancora lontana. Angelo De Mattia su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Nell’agosto del 1971, l’amministrazione Usa decretò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro (35 dollari l’oncia). La grande quantità di richieste di conversione del biglietto verde indussero Nixon alla decisione di sospensione della convertibilità che poi divenne definitiva. Ma era maturato, prima negli studiosi, poi tra i politici l’intento di svincolare la moneta dal legame con il metallo giallo e di renderne più agile e discrezionale la manovra con la politica monetaria. Keynes aveva definito il legame con l’oro «barbarous relic». Comunque, il 15 agosto del ‘71 veniva meno il sistema monetario internazionale, poggiato sull’àncora dollaro a sua volta legato all’oro, delineato a Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale, anche se diverso da come lo avrebbe voluto lo stesso Keynes. ma ciò accadeva quando si annunciavano le pesanti restrizioni in Italia e in molti Paesi europei con il primo shock petrolifero, le domeniche a piedi, la sopravveniente austerity. Ne sarebbero seguite misure drastiche sulle banche fino ad arrivare alla chiusura del mercato dei cambi per oltre un mese. Intanto si ingrossavano gli introiti dei Paesi produttori di petrolio e si denominava questa rendita crescente come la “tassa dello sceicco” che diede modo a Guido Carli, allora Governatore della Banca d’Italia, di elaborare un progetto per il reimpiego dei petrodollari incassati dai predetti Paesi che intanto circolavano e venivano denominati come xenovalute. Da quel 15 agosto il sistema monetario a livello internazionale – se di sistema si può parlare – non ha trovato una sua disciplina. Hanno agito gli organismi finanziari internazionali, il Fondo monetario, la Banca mondiale, più di recente lo Stability Board, con poteri settoriali; hanno svolto un qualche ruolo il G7, il G8 e il G20 e altri summit informali. Specifici coordinamenti si realizzano per la regolamentazione delle banche, in particolare presso la Banca dei regolamenti internazionali. Ma una funzione fondamentale è stata assolta dalle principali Banche centrali, innanzitutto dalla Federal Reserve e dalla Bce (nell’ultimo ventennio) nel coordinare, e non sempre, informalmente le rispettive politiche. Questi istituti, tuttavia, hanno curato, “in primis”, come del resto è naturale, gli interessi delle rispettive aree. Fare del Fondo monetario internazionale una sorta di Banca centrale mondiale, una specie di nuova àncora come forse l’avrebbe voluto Keynes – il quale aveva progettato una moneta globale, il “bancor” – preposta all’analisi e al controllo della liquidità internazionale è stata l’idea di alcuni personaggi autorevoli, tra cui Antonio Fazio, che tuttavia per ora non ha compiuto i pur possibili passi in tale direzione. In occasione del Giubileo del 2000 e, poi del G20 di Londra del 2009, fu rilanciata la proposta di istituzionalizzare la categoria dei “beni pubblici globali” ( l’acqua, il cibo, le medicine), ma si tratta di un’aspirazione rimasta tale, come quella, forse utopistica, di definire un nuovo diritto internazionale pubblico, un nuovo “ ius gentium”. La crisi del 2008 dei subprime, poi dei debiti sovrani e quella ancora stringente del covid-19 dimostrano la necessità di far progredire l’analisi e le proposte se non altro per coordinare e integrare le manovre monetarie a livello internazionale. D’altro canto, se si pensa alle difficoltà che si incontrano nell’integrazione europea che si vorrebbe attuare disconoscendo “in toto” il principio di sussidiarietà, cioè le autonomie dei singoli partner comunitari benché si tratti di un principio posto a base dei Trattati di Roma, si può dedurre come sia più difficile un processo di raccordo a livello internazionale. Eppure, anche per prevenire, fin dove possibile, le crisi finanziarie internazionali, la via dei raccordi più stretti appare inevitabile. La riacquistata libertà, a suo tempo, nei confronti dell’oro carica ancor più di responsabilità coloro che reggono la cosa pubblica. Dopo cinquanta anni è ancora la deduzione che si deve trarre. Angelo De Mattia

Cosa è successo nel 1972, dalla morte di Giangiacomo Feltrinelli alla strage delle Olimpiadi di Monaco. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Giangiacomo Feltrinelli – editore ed erede di uno dei più grandi patrimoni dell’Europa centrale – saltò su un traliccio a Segrate mentre stava innescando una bomba. Questa la versione accreditata: il ricco intellettuale rivoluzionario rimase ucciso da un innesco terrorista e maldestro. Sarà vero? I dubbi restano. Personalmente seguito a dubitare. Si seppe che i nostri servizi segreti erano stati allertati in anticipo ma in modo vago, che c’era stato uno strano movimento di spie, ma siamo sempre in quell’area terribilmente grigia della politica e della storia e delle mancate rivoluzioni e insurrezioni. L’incredibile fatto avvenne mentre Enrico Berlinguer veniva eletto segretario generale del Partito comunista italiano, succedendo a Luigi Longo, il comandante partigiano cupo disciplinato duro e puro. Enrico Berlinguer era da anni in dirittura d’arrivo con un cursus honorum esemplare, giovane militante perfetto e senza ombre, era la speranza del partito. La vecchia guardia che aveva fatto la Resistenza se ne andava e insediava il sottile intellettuale di famiglia aristocratica sarda, cugino di Francesco Cossiga di cui diceva che “con i cugini al massimo a Pasqua ci si mangia l’agnello”. Enrico era di ottima famiglia, figlio di un vecchio e prestigioso socialista, sposo fedele e padre esemplare, come piaceva al partito che aveva digerito con difficoltà l’irregolarità maritale di Palmiro Togliatti che era sposato con Rita Montagnana ma si unì alla staffetta partigiana Nilde Jotti. Personalmente ho sempre pensato che la santificazione della signora Jotti, persona ovviamente impeccabile, sia stata dettata anche dalla necessità di soddisfare le forme più pedanti della morale comunista di quel partito totalmente oscurantista sul piano della vita privata. Enrico aveva un piano, che poi andò in porto in piccola parte ma che segnò fortemente la storia: un piano che maturò gradualmente ma che era già un germoglio quando prese le redini delle Botteghe Oscure e che non era ignoto al vertice. Lo scopo era quasi impronunciabile, ma veniva sussurrato: sganciare con estrema cautela il Partito dai legami con l’Unione Sovietica a cominciare dai finanziamenti, procedendo per gradi e con il fine di trovare un aggancio in Occidente, ma senza comportarsi come certi socialisti e socialdemocratici che si erano dai all’anticomunismo sguaiato più indecoroso. Berlinguer non amava i socialisti. Apparteneva alla tradizione comunista secondo cui anche con i socialisti, come con i cugini, si può al massimo mangiare l’agnello per Pasqua, ma poco più di questo. Quando nel Psi emergerà la leadership di un altro uomo di sinistra alla ricerca della sua strada originale ed anticomunista come Bettino Craxi, fra i due scoppierà un duello che poi diventerà una guerra letale. Bisognerà aspettare il colpo di Stato in Cile per avere lo spunto che innescò i famosi articoli che Berlinguer pubblicò su “Rinascita”, il settimanale ufficiale del partito, per capire che cosa aveva in mente. Un rilancio del compromesso fra comunisti e cattolici democristiani, che in fondo era nel solco della tradizione della “svolta di Salerno” con cui Palmiro Togliatti, che era a Mosca come numero due del Comintern, si sentì ordinare dal numero uno Georgi Dimitrov per disposizione del compagno Stalin, di tornare in Italia e fare del piccolo Partito comunista puro, settario e militarizzato, un partito largo, aperto, persino magnanimo con i vinti (tanto da irritare socialisti e azionisti) e anche non intransigente con la monarchia. E poi, fraterno con i borghesi purché sostenessero un fronte antifascista che aveva ancora un senso nello schieramento militare dell’ultimo squarcio della guerra. Di lì, Togliatti – che inizialmente non era stato molto contento delle disposizioni staliniane dettate esclusivamente dalle necessità strategiche dell’Urss – sviluppò, con l’uso audacissimo delle cultura, un partito “di tipo nuovo” che scavalcò i socialisti nel consenso popolare e si accreditò come partito ragionevole. Ragionevole al punto di votare l’inclusione nella Costituzione dei Patti Lateranensi firmati da Mussolini per tranquillizzare i cattolici. Fu così che dette forma a un soggetto politico organizzato e riconosciuto da tutti come interlocutore rispettabile. Berlinguer -trent’anni più giovane di Togliatti – era minuto, elegante, sarcastico, tenero in famiglia, ma un piccolo uomo d’acciaio quanto al resto, e dunque iniziò la sua avventura nata da una investitura per cooptazione, come in tutti i partiti comunisti. Gli anziani, il comitato centrale, ma più che altro il vecchio leader che aveva fatto da reggente fra Togliatti e il dopo, e cioè Luigi Longo, lo scelsero come il miglior figlio. Si perpetuava la tradizione per cui il leader comunista doveva appartenere all’area ligure sardo-piemontese. Savoia. Gente di poche parole e fatti di ferro. Il popolo comunista scandì subito nelle strade i nomi dell’albero genealogico appena arricchito dalla new entry e suonava bene: “Viva Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Fu l’inizio di una traversata, come scriveva allora Eugenio Scalfari, che avrebbe dovuto portare il partito al di là del guado consumando fino alla fine il famoso “strappo” dall’Unione sovietica che però non ci fu, anche perché si era fatto tardi e il comunismo mondiale stava collassando da solo. La strategia di Berlinguer coinvolse Aldo Moro e il suo destino tragico, come vedremo quando arriverà l’anno. Intanto questo 1972 si dipanò fra sanguinosi colpi di scena in luoghi diversi e uno dei più tremendi fu l’omicidio del commissario Luigi Calabresi a Milano il 17 maggio. Un delitto per il quale furono processati e condannati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani (che proprio ieri è stato arrestato in Francia, 49 anni dopo l’omicidio che gli viene imputato), Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, quest’ultimo il pentito più volte messo in discussione. L’esecuzione avvenne in strada, sotto l’abitazione del commissario che fu abbattuto dalle revolverate di due assassini in motorino , mentre stava salendo a bordo della sua Fiat 500 per andare in Questura. Il delitto fu considerato la vendetta – anzi l’esecuzione di una sentenza popolare auspicata da Lotta Continua – per la morte di Giuseppe Pinelli, l’anarchico ingiustamente accusato per la strage di piazza Fontana che morì precipitando da una finestra della questura in cui era interrogato. Ma non alla presenza di Calabresi. Il quale fu additato da una feroce campagna di stampa come l’assassino dell’anarchico buono, e definito “commissario torturatore” in un appello agli intellettuali pubblicato dal settimanale L’Espresso, firmato da 757 sottoscrittori fra cui Umberto Eco, Norberto Bobbio, Federico Fellini e tanti altri che in seguito provarono profondo imbarazzo o dissero, come Domenico Porzio, “Eravamo giovani e scatenati”. Erano tempi di spaccatura verticale, peggio di oggi. La strage c’era stata, il morto volato dalla finestra anche. La tensione era altissima e tutti si dedicavano alla propria “teoria della cospirazione” così com’era accaduto in America con l’omicidio Kennedy e le infinite indagini che non approdarono mai a nulla. Intanto i tribunali di Milano, Roma e Catanzaro si rimandavano la palla del processo per la bomba di piazza Fontana. Si parlava sempre più di terrorismo neofascista, anzi neonazista con interventi dei servizi tedeschi mentre in Medio Oriente si costruiva una sorta di internazionale. A Baddawi in Libano si riunisce nel mese di maggio per iniziativa del Fronte popolare di liberazione della Palestina un summit cui partecipano gruppi guerriglieri sudamericani, l’Ira irlandese, sciiti iraniani, i movimenti Eta basco, Jar, Tpla ed elementi che si danno per collegati alle future brigate rosse con esponenti della Baader Meinhof tedesca e il numero due di Yasser Arafat, Abu Ayad capo del gruppo “Al Wicab” il quale emergerà come l’organizzatore ed ideatore della strage di Monaco, che è l’altro atroce fatto di sangue di quell’anno. A Monaco di Baviera, durante le olimpiadi estive, una squadra di killer guidati da Abu Ayad uccise fra il cinque e il sei settembre, undici atleti israeliani. Morirono anche cinque terroristi e un agente di polizia. Per la Germania era il primo grande evento olimpionico organizzato sul suo territorio dalla fine della guerra, e per la prima volta un team di sportivi ebrei dello Stato di Israele andava a partecipare ai giochi organizzati nel Paese in cui sei milioni di ebrei erano stati uccisi. Dal punto di vista simbolico il messaggio era chiaro: nel luogo della Shoà, noi seguitiamo ad uccidere ebrei. L’organizzazione Al Wicab era nota al mondo come Settembre Nero, nome che ricordava la carneficina di palestinesi avvenuta nel 1970 in Giordania per decisione delle autori giordane che intendevano espellere i rifugiati palestinesi dai territori occupati dopo la guerra dei Sei Giorni da Israele e che avevano costituito in Giordania uno Stato nello Stato. Il cancelliere della Repubblica Federale tedesca era allora Willy Brandt, l’ex eroico sindaco di Berlino ai tempi della resistenza contro il blocco voluto dai sovietici. Toccò a Brandt chiamare il primo ministro israeliano Golda Meir mentre era in corso una trattativa fra i terroristi e le autorità tedesche. Golda disse a Willy di non cedere: “Non trattate, sono nostri figli, ne portiano noi la responsabilità”. Dopo il massacro, il Mossad ricevette l’ordine dal Primo Ministro israeliano di identificare tutti i componenti della banda degli assassini, i loro complici, coloro che avevano assicurato la logistica ed ogni tipo di aiuto ed ucciderli tutti. Con calma, con certezza, senza sbagliare un colpo. Come avvenne. Ma prima della strage di Monaco, in tarda primavera, era avvenuto un inspiegabile eccidio a Peteano, in provincia di Gorizia, dove una bomba fece saltare in aria e uccise tre carabinieri ferendone gravemente altri due. Non si era mai visto un delitto del genere. Un delitto simbolico con sacrificio umano di alcuni giovani che indossavano la divisa dei carabinieri e soltanto a causa della loro appartenenza all’Arma. Anche questo delitto schiuderà un buio passaggio attraverso le tenebre del nuovo terrorismo cui l’Italia non era abituata. Dodici anni dopo, nel 1984, si dichiarò responsabile un neofascista friulano, Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine nuovo. Oggi fatichiamo a ricordare queste sigle, quei fatti, quel clima e anzi la maggior parte di noi, di voi, non ne ha mai sentito parlare, ma è bene essere pronti: gli anni Settanta in Italia furono anni di morte, menzogna sangue ostaggi, dei comunicati, dei ricatti, delle false piste, dei killer ideologici e di quelli a pagamento. In fondo al tunnel ci aspetteranno i chiassosi e fatui anni Ottanta, di cui molto male si dirà per la loro sconsiderata fatuità. Ma ancora devono passare otto anni di inferno e li ripercorreremo insieme.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1972

14 gennaio: muore Federico IX, re di Danimarca. Gli succede la figlia Margrethe

27 gennaio: a Parigi il quotidiano Paris Jour cessa le pubblicazioni

21-28 febbraio: il presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon si reca in visita ufficiale in Cina. L’incontro vale al paese asiatico il riconoscimento ufficiale di “grande potenza” e rappresenta il preludio al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti

23 febbraio: si apre a Roma il processo per la strage di piazza Fontana, nel quale sono imputati Pietro Valpreda e Mario Merlino. Dopo pochi giorni il processo viene spostato a Milano per incompetenza territoriale

26 febbraio: Nicola Di Bari vince la 22ª edizione del Festival di Sanremo con la canzone I giorni dell’arcobaleno

15 marzo: viene trovato il corpo dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dei Gruppi d’Azione Partigiana, morto il giorno precedente a causa dell’esplosione dell’ordigno con il quale cercava di minare un traliccio dell’alta tensione

11 aprile: Vittorio De Sica vince il suo quarto Oscar con il film Il giardino dei Finzi Contini, tratto dal romanzo di Giorgio Bassani

30 aprile: a Renato Guttuso viene assegnato il Premio Lenin per la pace

21 maggio: la Pietà di Michelangelo viene deturpata a martellate dall’australiano di origini ungheresi László Tóth

17 giugno: l’atleta Pietro Mennea è primatista europeo dei 100 metri piani

4 luglio: Pier Paolo Pasolini vince l’Orso d’oro con il film I racconti di Canterbury

13 luglio: a Roma si tiene il IV congresso del Psiup: è deciso lo scioglimento del partito e la fusione nel Pci; una minoranza del partito aderisce al Psi

26 agosto: a Monaco di Baviera si aprono con una fastosa cerimonia i ventesimi Giochi olimpici

21 settembre: viene presentato nelle sale cinematografiche delle maggiori città italiane il film Il padrino diretto da Francis Ford Coppola e interpretato, fra gli altri, da Marlon Brando. Il film tratto dal romanzo di Mario Puzo, narra le vicende del boss mafioso Vito Corleone e della sua banda

10 ottobre: la Fiat 500 F cessa di essere prodotta: ne sono stati venduti più di due milioni e mezzo di esemplari. La Fiat presenta la nuova 500 R (rinnovata) e una nuova utilitaria, la 126

13 ottobre: Disastro aereo delle Ande

7 novembre: Richard Nixon viene rieletto a presidente degli Stati Uniti d’America con il 65% dei voti

3 dicembre: viene arrestato il boss mafioso Tommaso Buscetta. Estradato dal Brasile, dovrà scontare 14 anni di carcere.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1972: dal Watergate a Peron. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Alcuni anni guardati a distanza sono sterili come rami secchi, altri non cessano di spurgare conseguenze, e il 1972 di cui abbiamo già ricordato gli eventi più drammatici– omicidio Calabresi, Feltrinelli che salta in aria, la strage di Monaco dei palestinesi di Settembre Nero – seguita ad agire sulla memoria come un buco nero. I buchi neri hanno questa capacità che incanta e ossessiona i fisici: fermano il tempo. Chi si avvicina a uno di questi mostri dello spazio galattico, rallenta fino a zero il ticchettio del suo orologio storico, fino a scomparire nel nulla. Alcuni anni del nostro passato recente hanno agito come mostri. A Buenos Aires torna Juan Peron, il descamisado. Suppongo che gran parte dei lettori sotto i cinquanta sappiano poco di questo bellimbusto della storia, uno di quei rivoluzionari che non sai bene se considerarlo di estrema destra o di estrema sinistra, come purtroppo è capitato spesso nel secolo passato. Juan Peron era riuscito a mettere insieme senza troppo sforzo quel che restava del fascismo sociale italiano, alimentato da centinaia di migliaia di rifugiati italiani in Argentina, con le nascenti teorie rivoluzionarie sudamericane ispirate al marxismo e influenzate dalla vittoria di Castro a Cuba. Alla fine dell’avventura, di Peron restò un grumo di guerriglia nel gruppo dei Tupamaros. Peron distrusse con la furia demagogica sorretta da altrettanto furore popolare e demagogico l’Argentina che era il grande Stato emergente e paradisiaco del Sud America, opulento e aperto alla conquista, stremandolo fino alla miseria da cui ancora oggi non si risolleva tra un sussulto e l’altro di antiamericanismo. Sua moglie Evita creò l’icona da musical, una creatura visionaria e follemente generosa col denaro altrui, che donava case ai poveri attingendole dalle casse dello Stato dimenticando di rifornirle. Peron era stato per diciassette anni in esilio nella Spagna di Francisco Franco, decrepito ma ancora in sella, e tornò a Buenos Aires come se avesse vinto la guerra. Quel ritorno, quella catastrofe e le illusioni connesse, furono causa di una catena di catastrofi letali, ma pervase di romanticismo. L’Argentina che prometteva di essere ricca come gli Stati Uniti della corsa verso l’Ovest diventò succube del cliché secondo cui i malvagi yankee vampirizzavano la ricchezza dei popoli. A Parigi, intanto, ancora si tagliava la testa con la ghigliottina, nel 1972, quattro anni dopo il ’68 rivoluzionario, “le joli May” delle barricate libertarie: zàc, due condanne per omicidio finiscono sullo stesso veloce patibolo macchinale, in un cortile all’alba. I socialisti italiani cambiano strada: la segreteria di Giacomo Mancini, intellettuale calabrese molto vicino ai radicali, anticomunista non isterico ma autonomista, viene detronizzato con un colpo di mano al Congresso di Genova del Psi dove vince il professor Francesco De Martino. Cominciò quell’era napoletano-brezneviana del socialismo italiano che porterà all’incupimento del partito socialista, diventato ideologicamente subalterno al Pci che aveva mal digerito Mancini e che rigetterà il successore di De Martino, Craxi. E qui una nota dolorosa, a margine, sperando di risolvere un equivoco. Come ho ricordato di sfuggita in queste rievocazioni del tempo passato, io ho presieduto fra il 2002 e il 2006 una commissione bicamerale d’inchiesta sulle infiltrazioni sovietiche in Italia durante la guerra fredda. Quelle infiltrazioni non riguardavano, se non marginalmente, lo spionaggio. Lo spionaggio è un lavoro dei manovali del mestiere che trasferiscono informazioni protette da segreto a entità straniere. Ma le infiltrazioni di uno Stato in un altro riguardavano solo marginalmente lo spionaggio. Il vero oggetto del desiderio e del segreto non sono le spie ma i cosiddetti “agenti di influenza”. Che possono essere tali persino a loro insaputa. Il dossier Mitrokhin (dal nome di un vecchio archivista morente di cancro che donò la sua copia delle schede del Kgb agli inglesi) conteneva molti nomi di agenti di influenza e tra questi c’era anche il nome del professor De Martino, che io conoscevo benissimo, che andavo a trovare nella sua casa sul Vomero piena di ninnoli e canarini e che era un socialista certamente molto ossequiente verso l’Unione Sovietica e in ottimi rapporti col Pci. Quando si diffuse la notizia di questo e altri nomi contenuti nelle schede che il servizio segreto inglese aveva consegnato a quello italiano nel corso di alcuni anni, ci furono molte dimostrazioni di sdegno. Come si poteva permettere che si desse credito a quel che riferiva un archivista russo infangando l’onorabilità di esimi protagonisti della politica italiana? L’unica risposta era: chiedetelo ai russi. De Martino non era di sicuro un “agente” di chicchessia, ma era considerata utile la virata impressa ai suoi socialisti verso il grigio-notte e il Psi cominciò a morire nell’emorragia di identità e seguitò a calare nei consensi fino al capitombolo nelle successive elezioni che provocarono la “rivolta contro il padre” dei demartiniani all’hotel Midas di Roma nel 1976, che incoronerà il giovane nenniano rampante Bettino Craxi. Ma allora, nel 1972, al Congresso di Genova si assistette alla fine dell’impennata libertaria che aveva visto lo scontro tra socialisti e servizi segreti. Intanto, entrava in vigore una delle leggi volute dai socialisti: quella che riconosceva l’obiezione di coscienza per rifiutare il servizio militare obbligatorio. Terminava quell’anno l’epopea Fiat delle piccolissime utilitarie: dalla piccolissima alla media borghesia il Paese cresceva e la vecchia gloriosa Cinquecento degli amori difficili a causa della leva del cambio, andò in pensione. L’America era nel frattempo entrata in una delle sue cicliche contorsioni, che secondo il politologo George Friedman costituiscono il convulso motore rivoluzionario della straordinaria crescita americana, sia civile che industriale. Secondo questo analista e molti think-tank, la unicità americana rispetto alle altre nazioni di lingua inglese, starebbe nelle drammatiche crisi di crescenza: dalla rivoluzione indipendentista alla guerra civile, dalla dorata supremazia aristocratica dei Kennedy al Watergate, lo scandalo che travolse Richard Nixon e che cominciò proprio nel 1972 quando questo repubblicano che aveva fatto da vice ad Eisenhower e aveva perso il primo round con Kennedy, conquistò le urne e venne poi rieletto in una votazione intossicata dallo scandalo delle microspie nell’hotel Watergate dove si era installato lo stato maggiore del comitato elettorale democratico. D’altra parte, a Bonn si installava un altro campione della leadership occidentale: l’eroe berlinese Willy Brandt, il sindaco che aveva guidato la cittadella occidentale durante l’assedio con cui i sovietici avevano tentato di soffocare l’enclave democratica contenuta nel territorio della Repubblica democratica tedesca. Il blocco era stato sconfitto grazie al ponte aereo americano che aveva rifornito la città anche col pane, il latte e il carburante, ma a quella prima stretta ostile era seguito un lungo periodo di vero assedio economico e psicologico a Berlino Ovest e Willy Brandt, leader socialista, aveva conquistato la sua corona di campione dell’Occidente. Ma anche la cancelleria Brandt conteneva il suo uovo di serpente. Con un nome: quello di Gunter Guillaume, suo braccio destro, autore dei suoi discorsi, consigliere speciale e numero due, che era in realtà un agente della Stasi della Germania dell’Est e che quando sarà scoperto, processato e messo in galera con una condanna a tredici anni, trascinerà con se nella sua rovina anche il cancelliere più amato, che sarà costretto alle dimissioni. Fu anche l’anno in cui fu rintracciato il famoso – come figura retorica poi abituale – “ultimo giapponese”: il sergente Shoichi Yokoi che viveva la sua personale e patriottica resistenza eremitica agli americani nel folto della foresta dell’isola di Guam, ignorando che la guerra era finita. Altre code di guerra: Gheddafi scopre che le tombe degli italiani ingombrano il terreno libico ed espelle le ossa dei colonialisti. L’Italia vota. In anticipo per una crisi che attanaglia la Democrazia Cristiana e che spinge il partito di maggioranza a giocarsi la carta della conta elettorale, con netto successo: la Dc è al trentotto per cento, il Partito comunista al 27, 1, il Psi sotto il dieci e l’estrema sinistra divora e disperde voti tra Psiup, Manifesto e Movimento Politico dei Lavoratori. Sinistra in crisi, sinistra divisa, sinistra senza direzione né verso, sarà il ritornello di quella battaglia elettorale in cui si vedeva in atto lo stesso genere di crisi di sempre: la sinistra di governo dilaniata dalla sinistra d’opposizione, con in più un Partito comunista che si trova nella scomoda condizione di avere troppi nemici a sinistra, e relativamente pochi a destra. Berlinguer si è appena insediato. La sua svolta chiamerà il partito a tentare la nuova carta dell’indipendenza e dell’Eurocomunismo, che ancora era una vaga forma che si presentava nella nebbia di un’Europa in cui le tensioni della guerra fredda e quelle create dalle influenze dei grandi giocatori internazionali provocavano misteriosi contraccolpi ed ebbe esiti tragici e misteriosi. Si parlava ormai, e fin troppo vagamente, delle famose “piste”, ovvero le oscure tracce dei nuovi attori neri e rossi che agivano penetrando movimenti e bande, con quello che ancora si stentava a chiamare terrorismo. E che infatti era qualcosa di più complicato e inestricabile. Tanto inestricabile che ancora oggi la maggior parte dei fatti di quegli anni, e anzi proprio di quell’anno di doppiezze, uova di serpente ed effetti speciali che fu il 1972, si ripercuotono nel tempo presente.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1973: fine della guerra in Vietnam e golpe in Cile. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Che sensazione amara e lontana tornare a frugare nel 1973, un anno che, come tanti altri può meritare il titolo di anno fatidico della grande svolta. Non fu una sola svolta. Ma molte di più. Fondamentalmente per due eventi e le loro conseguenze. Nel 1973 si chiuse con la catastrofe dei diplomatici in fuga con gli elicotteri da Saigon la guerra del Vietnam con la sconfitta militare americana. Una dura e amara lezione che gli americani hanno capito e digerito con qualche decennio di ritardo e, bisogna dire, con una capacità autocritica di cui noi non abbiamo la più pallida idea. Il secondo evento fu il Cile con il colpo di Stato con bombardieri sul palazzo presidenziale che rovesciò il governo del presidente Salvador Allende per instaurare un regime militare feroce come quello della Junta argentina degli anni successivi, e che sarà abbattuto dalla fermezza di Margaret Thatcher nella guerra delle Falkland. Quel colpo di Stato fece da innesco ad una svolta fondamentale anche se destinata al fallimento: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, trarrà da quella disavventura che mostrava la realistica logica brutalità della guerra fredda tra superpotenze, la ragione logica e politica per rilanciare qualcosa di simile alla svolta di Salerno che Palmiro Togliatti portò in Italia abbandonando la sua residenza all’hotel Lux di Mosca. E quell’oggetto misterioso diventò subito popolare con il nome di Compromesso Storico. La storia del compromesso storico di Enrico Berlinguer è ancora oggetto di molte interpretazioni tra le quali io inclino per quella suggerita dalla raccolta dei documenti della Cia che fu pubblicata in Italia. Ciò che ho imparato come giornalista e poi come parlamentare presidente di una Commissione d’inchiesta sulla vicenda del dossier Mitrokhin è che la “guerra fredda” non fu affatto un conflitto tra ideologie, ma il mascheramento di un vero conflitto militare latente, non poi così freddo. La guerra del Vietnam provocò quasi due milioni di morti e si svolse nella zona calda della guerra fredda, come lo era stata la guerra di Corea nel 1950 quando la Cina scatenò un attacco per impadronirsi della Corea oltrepassando il trentottesimo parallelo. E poi la guerra si manifestava all’improvviso in altri teatri, come l’attacco alla Casa Rosada in cui Salvador Allende si difese fino all’ultimo colpo dell’arma che gli aveva portato in regalo da Cuba Fidel Castro L’ultimo colpo lo riservò a sè stesso. Anche quella fu guerra fredda. Come lo era stato il colpo sovietico a Praga nel 1968. Il golpe in Cile di Pinochet fu la risposta brutale organizzata dalla Cia contro la crescente presenza sovietica in Sud America alla maniera con cui il regime egiziano di Abdel Fattah el-Sisi è stata la risposta brutale contro la jihad dei Fratelli Musulmani. Sono stato molte volte nel Cile di Pinochet come inviato di Repubblica e mi è capitato di alternare le mie permanenze in Cile a quelle nella Polonia in cui il generale Jaruzelski aveva instaurato un’auto colpo di Stato per impedire che al suo Paese capitasse quel che era già successo prima all’Ungheria nel 1956 e poi alla Cecoslovacchia. A Santiago durante la dittatura militare le librerie erano piene zeppe di testi marxisti e castristi non perché il regime fosse liberale, ma perché ignorava la cultura non essendo una questione militare. Al regime non importava quel che pensava la gente. Il mio spagnolo migliorava e mi permise il lusso di leggere davanti alla finestra sulla piazza del palazzo che era stato di Allende, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez El amor en los tiempos del còlera in un’edizione con la copertina gialla ormai corrosa dalle riletture. Sulla piazza i generali avevano trasformato in monumento un’automobile esplosa che avrebbe dovuto colpirli con un’azione della “Izquierda Unida”. E scoprii con incredulità che nella Santiago del regime di Pinochet esisteva un quartiere periferico in cui era arroccata la resistenza della sinistra unita con il suo pueblo di campesinos e che si entrava e si usciva da quella cittadella come attraverso il “checkpoint Charlie” che divideva le due Berlino. Era mai possibile che il regime militare di Pinochet consentisse l’esistenza di un intero quartiere di legno sui cui spalti sventolavano le bandiere rosse con la falce e il martello? La paradossale risposta è sì, perché ai colonnelli cileni non importava nulla delle ideologie ma servivano soltanto uno scopo militare. Scoprii nei miei viaggi successivi al golpe (fu allora che la parola spagnola “golpe” entrò nel nostro vocabolario sostituendo “colpo di Stato”) che in Cile viveva una intera nazione tedesca in una enorme area che si chiamava “Colonia Dignidad” in cui si parlava ancora un tedesco ottocentesco. I cileni avevano pascoli con mucche bavaresi e indossavano calzoni di pelle e penne sul cappello. Da quella parte del Cile venivano i quadri dell’amministrazione e militari. Dall’altra parte, a Varsavia qualche anno più tardi, in un negozio potevi trovare fra tante mensole vuote un unico colbacco malconcio e pagarlo una fortuna. A Varsavia lo Stato era attento alle librerie: letteratura cattolica sì, letteratura comunista castrista, no. Avevo un amico, Cristoph, un buon comunista intellettuale che pretendeva di condire la pasta col ketchup e quando gli spiegavo che nella Santiago di Pinochet si poteva comprare la letteratura castrista che non trovavo nelle librerie di Varsavia, mi guardava come se fossi un agente provocatore. Penso oggi di avere avuto un’enorme fortuna nel fare il mestiere che ho fatto specialmente a Repubblica perché Eugenio Scalfari mi fece partire per ogni angolo del mondo per scoprire frammenti di realtà che facevano a pugni con le versioni accreditate dal politicamente corretto, sia di destra che di sinistra. Berlinguer lo sapeva benissimo essendo stato cooptato dal gruppo dirigente della vecchia guardia togliattiana. E aveva capito che se voleva ottenere i due risultati più ambiti – tagliare il cordone ombelicale con l’Unione Sovietica e portare il suo partito al governo – avrebbe dovuto passare attraverso le forche caudine di un compromesso. Storico, ma non inedito: il Pci di Togliatti aveva già votato l’articolo 7 della Costituzione che convalidava i patti di Mussolini col Vaticano, perché per lui l’obiettivo di conquistare le “masse cattoliche” (tutto si divideva in “masse” a quei tempi) organizzate dalla democrazia cristiana, un partitone con dentro venti partitini, pronto ad adattarsi a qualsiasi politica realistica. Il colpo di Stato in Cile fu una iniezione di realtà e gli articoli di Enrico Berlinguer furono pubblicati non sull’Unità ma su Rinascita, un settimanale meraviglioso perché realista su cui potevi trovare la descrizione dello stato dei fatti quando ancora il partito prendeva sul serio la separazione tra politica e propaganda e rispettava la lezione marxista secondo cui la verità è la premessa per la rivoluzione e non il suo ostacolo. L’Europa intesa come progetto di unione era ancora uno sfrontato cartello di paesi che si erano accordati per impedire la concorrenza e il libero mercato delle materie energetiche e dell’acciaio: il contrario del liberismo, senza alcun rispetto della concorrenza ma anzi l’instaurazione del monopolio come basamento su cui costruire un’Europa politica che per ora non si è vista. L’Italia intanto era sbranata da una vera libidine di guerra civile. Esisteva allora un partito neofascista guidato da un uomo intelligente e di grande qualità come Giorgio Almirante (cosa che mi stupì quando lo andai a intervistare nel suo ufficio) ma l’interdizione nei confronti dei neofascisti costituiva una sorta di riserva energetica per quella parte della sinistra che cercava di ostacolare il compromesso storico attraverso scorciatoie più o meno manesche o da guerra di religione. Tirava un’aria da Brigate Rosse nascenti e c’era stato il primo sequestro del sindacalista Labate che era stato picchiato selvaggiamente, rapato come un collaborazionista e quindi rilasciato con un comunicato in cui si diceva che aveva avuto il suo giusto processo. Emergevano dalla cronaca aree che miravano a soluzioni di forza alimentate da altre aree indistinguibili come matrioske dentro matrioske, perché si diffondeva sempre più la commistione nazi-maoista che accoglieva i cosiddetti “cameragni” (fusione ironica di camerati e di compagni). Il terreno di coltura di questa geografia spezzettata e pretestuosa stava nella imminenza di una guerra europea che tuttavia non sarebbe mai scoppiata: una guerra militare, non ideologica. Da parte occidentale la guerra consisteva nel contenimento dell’espansione sovietica, mentre a Mosca il think-tank del Kgb di Yuri Andropov (che non era solo un servizio segreto ma una scuola di pensiero) puntava a un risultato politico da raggiungere con qualsiasi mezzo, anche militare: una Unione Europea che includesse l’Unione Sovietica (la “Eurss” secondo il titolo di un saggio di Vladimir Bukowski) che corrispondeva al progetto del generale de Gaulle di un’Europa “dall’Atlantico agli Urali”. Il significato geopolitico di allora resta attuale anche nelle vicende russe, bielorusse ed ucraine di oggi: accoppiare la capacità tecnologica dell’Europa con le risorse naturali e la potenza militare russa. A quel tempo non eravamo nelle condizioni di decifrare. Certo è che la presenza di servizi segreti, gente di mano, agenti provocatori e infiltrati di ogni razza agiva da innesco per eventi truci e imprevedibili: bombe che uccidevano chi le stava deponendo, una famiglia di fascisti del Msi arsa viva in casa con i cadaveri carbonizzati dei ragazzi affacciati alla finestra e morti e aggressioni e bastonature e attentati. Era impossibile trovare un filo conduttore. La scelta di Berlinguer avvenne non soltanto come conseguenza del colpo di Stato cileno, ma anche per la presa d’atto di una nuova guerra civile latente in Paese dilaniato da continui scioperi e scontri con la polizia di cui approfittavano frange che puntavano a impedire qualsiasi compromesso. Quel caos ben organizzato rispecchiava gli echi del duello dei titani. La strada che aveva preso Berlinguer non piaceva all’Unione Sovietica perché l’avrebbe privata di uno strumento con cui contrastare le iniziative militari della Nato. Berlinguer aveva aperto un gioco rischiosissimo cercando di mantenere i piedi in entrambe le staffe, quella della scelta occidentale sotto “l’ombrello della Nato” (come dirà a Giampaolo Pansa del Corriere) e quella di fatto filo-sovietica di contrasto all’installazione dei missili di media gittata opposti ai missili sovietici installati sui Balcani. La Democrazia Cristiana con le sue molteplici anime e antenne vedeva e accompagnava processi fra di loro diversi e persino opposti, ma al suo interno sempre di più si confermava la leadership di Aldo Moro, il più attrezzato per capire e appoggiare la proposta di Berlinguer. Appena letti gli articoli sul colpo di Stato in Cile, Moro con cautela snervante ma anche con realismo entrò nella prospettiva di un compromesso storico in cui avrebbe svolto lui il ruolo più rischioso e che probabilmente gli costò la vita: quello del garante per il mondo occidentale, più per gli inglesi e i tedeschi che per gli americani. Ne parleremo quando arriverà all’anno giusto, ma avverto il lettore che nella permanente diatriba sull’origine dell’operazione che portò al rapimento, interrogatorio ed esecuzione di Aldo Moro, ho maturato sui fatti una convinzione che vedo poco contrastata dal comune sentire. Questa convinzione si formò indagando sul caso Moro e in particolare nel corso di una Rogatoria Internazionale da me presieduta a Budapest nel palazzo della Procura generale dell’Ungheria in stile assiro-babilo-sovietico, dove i procuratori magiari ci mostrarono una quantità di rapporti e documenti riservati che ci furono mostrati e poi negati per un intervento della diplomazia russa, con le prove dell’ingaggio di un certo numero di membri delle Brigate Rosse (ricordo di sfuggita Antonio Savasta) arruolati della Stasi delle “vite degli altri” e del Kgb ai tempi in cui a Budapest alloggiava la banda del venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, noto come Carlos lo Sciacallo, il quale portò a termine un centinaio di attentati e omicidi, in particolare in Francia (dove sconta due ergastoli) e in Italia. Quei documenti, con mia parziale sorpresa, nessuno poi li ha più voluti cercare, benché la loro esistenza sia formalmente certificata da atti del Parlamento della Repubblica. È strano perché quelle carte esibite e poi non concesse documenterebbero, anzi documentano, la cosiddetta etero-direzione di una parte delle Brigate Rosse gestite dalla “fiera dell’est”, come del resto anche la logica suggerisce pose fine al tentativo del compromesso eliminando il garante democristiano con la più spettacolare, ardita e mai perfettamente ricostruita operazione di commando in un paese occidentale. Ne parleremo a suo tempo ma voglio ricordare che tutti i colpi sparati contro gli uomini della scorta di Moro in via Fani provenivano da un’unica arma nelle mani di un uomo che a detta di una testimone parlava una lingua straniera incomprensibile dando ordini. Siamo sempre al discorso delle uova di serpente in cui si tenta di cogliere il momento in cui vengono deposte e il meccanismo a tempo che dovrebbe farle poi schiudere portando i suoi frutti crudeli.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1973:

14 gennaio: viene trasmesso il concerto di Elvis Presley Aloha from Hawaii. È il primo concerto della storia della tv ad essere trasmesso in tutto il mondo via satellite

17 gennaio: Ferdinand Marcos diventa presidente a vita delle Filippine

27 gennaio: gli accordi di pace di Parigi pongono ufficialmente fine alla Guerra del Vietnam

8 febbraio: creazione della Confederazione Europea dei Sindacati

17 marzo: Elisabetta II inaugura il moderno London Bridge

24 marzo: viene pubblicato dai Pink Floyd per l’etichetta Emi l’album The dark side of the moon che resterà quasi due anni nelle classifiche di vendita americane

27 marzo: Il Padrino vince l’Oscar come miglior film

4 aprile: viene inaugurato il complesso World Trade Center a New York. Le due Torri Gemelle vengono aperte al pubblico

7 maggio: durante una cerimonia davanti alla Questura di Milano in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima, l’anarchico Gianfranco Bertoli lancia una bomba a mano sulla folla per colpire l’allora ministro dell’Interno Mariano Rumor. L’attentato provocò quattro vittime e quarantacinque feriti

18 maggio: a Washington, in seguito alle rivelazioni di due giornalisti del Washington Post, viene aperta un’inchiesta sullo scandalo Watergate, ovvero lo spionaggio subito dai Democratici nel corso dell’ultima campagna elettorale presidenziale. Nell’inchiesta è coinvolto anche il presidente degli Usa, Richard Nixon

1º giugno: in Grecia un referendum abolisce la monarchia e istituisce la repubblica. Il colonnello Geōrgios Papadopoulos, già al potere dal golpe militare del 1967, diventa presidente

10 luglio: viene rapito a Roma Paul Getty III, nipote dell’uomo più ricco del mondo. Per sollecitare il pagamento, i sequestratori tagliano un orecchio al ragazzo. La liberazione avverrà cinque mesi dopo, a fronte di un riscatto miliardario

23 agosto: a Stoccolma un tentativo di rapina alla Sveriges Kredit Bank si trasforma in un sequestro di persona: è l’evento da cui nacque l’espressione “Sindrome di Stoccolma”

29 agosto: a Bari, Napoli, Palermo, Cagliari, Barcellona ed altre città del Mediterraneo scoppia un’epidemia di colera causata da una partita di mitili provenienti dalla Tunisia

23 settembre: Juan Domingo Perón è eletto presidente dell’Argentina

24 settembre: Nasce il gruppo musicale Kiss

28 settembre: in un saggio su “Rinascita” intitolato Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, il segretario del Pci Enrico Berlinguer lancia la proposta del compromesso storico con la Dc.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Abbiamo parlato nella scorsa puntata del 1973 senza accennare all’evento più drammatico, imprevisto e carico di conseguenze che allora sembrarono catastrofiche e inguaribili. La guerra di Yom Kippur. Quell’anno la festività ebraica di Yom Kippur, la più importante, quella che raduna la stessa tavola dopo lunghissima preparazione tutte le famiglie religiose e laiche del popolo di Israele, coincise con il mese di digiuno e di pace musulmano del Ramadan. Onestamente, proprio nessuno aveva immaginato che potesse accadere una cosa del genere, nemmeno in Israele dove i servizi segreti e le antenne erano irte e sintonizzate da sempre su tutti i segnali provenienti dal mondo nemico di Israele. Fu una guerra tremenda e improvvisa in cui l’Egitto alleato della Siria dell’Iraq attaccò lo stato di Israele nel tentativo di ribaltare le sorti della guerra di sei anni prima, quella del 1967 che in soli sei giorni si era risolta in una disfatta totale delle forze arabe che avevano lungamente pianto per quella sconfitta cocente e disonorevole. Israele non se l’aspettava. Nessuno al mondo se lo aspettava. Fu un grande colpo dell’intelligence sovietica perché la guerra di Yom Kippur fu una guerra sovietica in cui specialmente l’Egitto ricevette dall’Urss le armi più moderne e anche l’addestramento si dimostrò accurato e perfettamente efficiente sul campo di battaglia. L’ artiglieria funzionava e si batteva con quella israeliana il cui personale era stato colto nel sonno e scaraventato alle sue postazioni. All’inizio fu un trauma da formicaio: man mano che la notizia dell’attacco raggiungeva le case, tutti i cittadini, maschi e femmine, vecchi e giovani, si ritrovarono all’istante soldati rispondendo alle chiamate già prestabilite nei punti convenuti. Ma l’effetto sorpresa fu devastante. La notizia arrivò in Occidente e in Oriente come un colpo di fulmine e – in breve – tutti coloro che odiavano gli ebrei gioirono, tutti coloro che provavano pena e senso di protezione per loro e non soltanto per gli israeliani, caddero in uno stato di profonda depressione finché Tsahal (l’esercito) e l’IDF nel suo complesso si riorganizzarono. Quando andai a intervistare Mohachem Begin, qualche anno dopo, gli chiesi quale fosse stato stata la causa della faticosa ripresa e poi della vittoria, e mi rispose: “Gli egiziani fanno come gli inglesi: raccolgono i loro ufficiali nell’alta borghesia e nell’aristocrazia politica. Mettono al comando i figli dei potenti. I nostri sono selezionati tra gli adolescenti più audaci, nelle strade, e così abbiamo un personale militare pronto a combattere senza arrendersi. Noi odiamo la guerra e non possiamo permetterci il lusso della sconfitta. In questo – mi disse ancora Begin – consiste la differenza fra noi israeliani e gli arabi: loro possono perdere tutte le guerre ma essere ancora pronti a cancellarci dalla faccia della terra, mentre noi possiamo vincere tutte le guerre ma sappiamo che se perderemo la prossima perderemo vita, figli e patria”. Tutti dissero allora: questa sarà la più grave crisi energetica della storia. Chiuderanno i pozzi petroliferi. La benzina andrà alle stelle. Il mondo diventerà povero perché non potrà più trasportare cibi al mercato. È l’inizio della fine della civiltà. Parlavano soltanto dei disastri che la guerra mediorientale avrebbe causato al prezzo del petrolio, non ricordando che quando sale il prezzo del petrolio in Medioriente, quello russo fa affari d’oro. La guerra cominciò il 6 ottobre 1973 con un attacco simultaneo e preparato con segretezza militarmente encomiabile dalla Siria, dall’Egitto, e poi dagli altri paesi arabi della coalizione. Ma fu prima di tutto la vendetta egiziana. Gli egiziani erano stati malamente umiliati nel 1956 quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez che apparteneva ad una compagnia privata franco-inglese abilitata ad operare sul territorio nazionale egiziano, e Anthony Eden, già ministro degli Esteri di Winston Churchill, affamato di una guerra che riaffermasse l’esistenza dell’impero britannico, si mise a urlare che Nasser era come Mussolini e che andava trattato come Mussolini e sconfitto come Mussolini. Non che Nasser fosse troppo dissimile da Mussolini, ma era, come quasi tutti gli egiziani, filo-inglese, sentendosi debitore dell’impero per tutte le innovazioni di cui la sua patria aveva fatto uso per diventare una nazione relativamente moderna. Nel ‘56 gli israeliani si accodarono all’attacco franco-inglese mentre americani e sovietici – per la prima volta uniti dopo la seconda guerra mondiale – intimarono l’alt alle operazioni che avrebbero dovuto concludersi con la conquista del Sinai da che lo avevano invaso seguendo un piano secondo cui il Regno Unito avrebbe ottenuto un mandato dell’Onu come peace-keeper per rinsaldare la propria potenza. Nel 1956, sotto la frusta di Mosca e di Washington, inglesi e francesi tornarono alle loro case abbattuti umiliati e gli israeliani semplicemente, si ritirarono. Poi ci fu la grande vittoria israeliana del 1967, i sei giorni. L’esercito di Zahal guidato dal generale Moshe Dyan con una teatrale benda nera, sull’occhio perduto in guerra, travolse l’esercito egiziano con un blitz krieg all’israeliana in cui i soldati combattevano come gruppi di pirati collegati via radio. Stavolta invece le cose andavano per le lunghe: in Siria si era appena installato Hafez al Assad il padre dell’attuale Bashar al Assad, un uomo del partito Baath nazionalsocialista antisemita, a suo tempo alleato dei nazisti tedeschi. Inoltre era un leader laico, anzi ateo e quindi malvisto dei religiosi sunniti che gli negavano il pieno appoggio di una popolazione sensibile quasi soltanto al richiamo dei muezzin. Lo sbandamento israeliano durò sette giorni durante i quali egiziani e siriani penetrarono profondamente in Israele. Ma fu presto chiaro che la loro strategia militare, di scuola tradizionale sovietica, era vecchia anche se bene organizzata. Lo shock nel comando operativo israeliano fu molto duro ma l’analisi che ne seguì dette i suoi frutti. Fu deciso infatti di suddividere le formazioni di carri israeliani in piccoli gruppi di due o tre fra loro dotati di una eccellente comunicazione radiofonica di cui le forze armate sovietiche non erano ancora provviste. I carri israeliani riuscirono così a penetrare attraverso le linee egiziane e con una serie di operazioni di ingegneria molto ardite le avanguardie della fanteria israeliana riuscirono a varcare il canale di Suez su passerelle gettate su pontoni galleggianti dai genieri e su quelle passarono poco dopo gli stessi carri armati israeliani ormai in Africa sulle piste che conducevano al Cairo: alla loro testa era un generale che per questa operazione diventò famoso, Ariel Sharon, che sarà il primo ministro e molti anni dopo decise di donare la striscia di Gaza strappata agli egiziani, personalmente a Yasser Arafat sperando così di chiudere una partita sanguinosa. (Ma Sharon fece questo regalo senza calcolare la forza e la potenza di Hamas, nemica sia dei palestinesi che degli israeliani). Allora i combattimenti furono sanguinosi anche perché i soldati egiziani e siriani si batterono con disciplina e coraggio e morirono in grandi quantità. In tre settimane i morti nel complesso furono 15.000 di cui solo 2000 israeliani. Fu allora che Anwar el Sadat, il presidente egiziano che si era giocato la vita con la guerra, capì che era arrivato il momento di arrivare a far pace con gli israeliani e di mandare al diavolo i russi. Fu a causa di quella guerra del 1973 che l’Egitto decise di normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico, di sfidare le forze che si opponevano al suo interno, e furono proprio quelle forze che qualche anno dopo presentarono il conto con un attentato letale che uccise Sadat mentre assisteva alla parata delle sue forze armate. L’Egitto pagò la propria decisione di far pace con Israele, nel ‘73, con l’espulsione immediata dalla Lega araba, un organismo oggi scomparso, bellicoso, militaresco, e che durò finché durò la guerra fredda cioè fino alla caduta di Berlino nel 1989. La guerra per tentare di sopprimere Israele e che Israele invece aveva vinto, divise la destra dalla sinistra in Italia e nel mondo. In breve, quasi tutta la gente di sinistra sia pur tra qualche se e qualche ma, fece il tifo per una operazione che non avrebbe dovuto soltanto correggere confini ma avrebbe dovuto cancellare lo Stato ebraico che le Nazioni Unite avevano ordinato che nascesse insieme ad uno stato palestinese. Dal 6 all’ 11 ottobre del 1973 era durata l’illusione della vittoria ma già all’alba del 12 si vide che la realtà era diversa. La Siria perdeva definitivamente le alture del Golan, su cui aveva piazzato la sua artiglieria per battere Israele. Mentre ancora duravano i combattimenti, gli Stati Uniti si offrirono come mediatori per un cessate il fuoco. Ma Mosca si oppose finché eserciti arabi sembrava vincessero. Nell’ultima fase, gli americani decisero di rifornire massicciamente e senza alcun sotterfugio le forze israeliane che seguitarono a combattere dopo il cessate il fuoco ordinato dall’Onu. Fu quello uno dei momenti di massimo attrito tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Henry Kissinger, segretario di Stato di Nixon, volò a Mosca per chiedere ai sovietici che intenzioni avessero, perché il suo paese – disse – non avrebbe più tollerato l’uso della guerra per annientare Israele. I russi, a parti invertite, furono costretti loro a chiedere agli americani di imporre all’esercito israeliano di cessare la sua avanzata sul Cairo e di deporre le armi. La guerra di Yom Kippur sconvolse i prezzi del petrolio su cui prese il comando l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, imponendo valori fittizi e cominciò una trattativa che spaccò l’occidente: gli americani erano furiosi con gli europei perché non avevano mosso un dito per soccorrere Israele o anche semplicemente per dire chiaramente da che parte stavano. L’Europa sentiva l’America come una potenza non amica le cui azioni avrebbero potuto compromettere gli interessi europei determinati dal prezzo del petrolio e quindi la guerra di Yom Kippur fu considerata l’evento che mise fine alla perenne amicizia dell’Europa debitrice nei confronti degli Stati Uniti è sua alleata. L’America repubblicana rispose a brutto muso che avrebbe fatto da sola, esattamente come poi accadrà con Donald Trump. Anche l’America si spaccò. La fazione filoeuropea, allora come oggi, cancellò la sua tradizione, che era quella di stare dalla parte degli israeliani, cambiò campo benché il nerbo dell’elettorato democratico americano fosse costituito allora come oggi da ebrei di sinistra. Questo evento gigantesco determinò uno scossone brutale in tutte le agenzie dei servizi segreti europei e americani, un capovolgimento della politica sovietica nei confronti dei paesi arabi, una revisione radicale delle questioni energetiche e dei problemi dei prezzi del petrolio e una risposta conseguente ed immediata di quella guerra fu la vampata del terrorismo sotto le bandiere filopalestinesi e filolibiche pur di creare uno schieramento anti-americano che permettesse la collusione della destra con la sinistra. In Italia subito dopo nacquero le Brigate Rosse cui si sarebbero aggiunte le sedicenti brigate nere dei Nar neofascisti con le stesse modalità e armamenti e sloganistica, di quelle ispirate al mondo sovietico. Cominciava così un lungo decennio in cui si svolse una guerra a bassa intensità coperta da strati di retorica. Le conseguenze più sdolcinate furono quelle delle domeniche ecologiche in bicicletta che tanti ricordano come un’età felice molto simile alle giornate naturalistiche di oggi in cui tutti ci precipitavamo con le bici, i bambini sul collo o in canna, le merende sul portapacchi e le borse a penzolare dal manubrio per raduni in luoghi pieni di zanzare in cui con grande spirito di adattamento ci dichiaravamo ci dichiaravamo tutti più o meno fieri di esser parte di una grande coalizione anticapitalista.

CRONOLOGIA DI VENTI ANNI

1956: Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez. Fallisce l’attacco Anglo-Francese all’Egitto.

1958: Scoppia la rivoluzione in Iraq. Gli Stati Uniti intervengono in Libano. Viene proclamata la Repubblica Araba Unita fra Egitto e Siria.

1960: Nasce l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC).

1965: Prima azione di resistenza armata da parte dei Feddayn di Yasser Arafat.

5/11 giugno 1967: Guerra dei sei giorni, Israele occupa la parte orientale di Gerusalemme, la Cisgiordania, la striscia di Gaza, la penisola del Sinai e l’altopiano del Golan, che si annetterà del dicembre del 1981.

22 novembre 1967: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chiede all’unanimità il ritiro di Israele dai territori occupati.

1970: Muore il Presidente Egiziano Nasser. I Palestinesi vengono espulsi dalla Cisgiordania.

1972: Un gruppo di Palestinesi sequestra gli atleti Israeliani alle Olimpiadi di Monaco, l’azione si conclude in una strage.

1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera.

1974: Arafat pronuncia il discorso del mitra e dell’ulivo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

1975-1976: In Libano è guerra civile, la Siria e Israele invadono il paese.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1974: salta Fanfani, riprendono le stragi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Quell’anno è riassunto in una famosa vignetta di Giorgio Forattini, allora genio del quotidiano comunista romano “Paese sera” – e che diventerà l’editorialista grafico della prima pagina di “Repubblica” quando nascerà nel 1976 anche se poi Giorgio e la sinistra divorziarono clamorosamente. La vignetta era quella di una bottiglia di champagne da cui salta il tappo con la faccia di Amintore Fanfani. Sono passati troppi anni perché tutti possano capire e ricordare, la maggior parte di chi legge probabilmente non c’era o era troppo piccola e quindi va ricordato che il divorzio istituito in Italia del 1970 fu frontalmente minacciato da un referendum abrogativo voluto a tutti i costi dal leader democristiano Amintore Fanfani che era un uomo molto complesso è molto basso. La sua statura lo aveva messo in imbarazzo più volte come quando i fotografi lo colsero su un podio da cui parlava sostenuto da pile di libri per farlo arrivare al microfono. Amintore era un uomo determinatissimo, colto, ai tempi del fascismo fascistissimo e poi anticomunistissimo, tanto da voler rappresentare lui da solo la sinistra della DC, con il proposito di occupare tutto lo spazio disponibile a sinistra per chiuderlo ai socialisti e non parliamo dei comunisti. Per una casuale circostanza mi capitò di conoscerlo poco tempo prima che morisse e per misteri della chimica umana diventammo amici all’istante e mi raccontò molto della sua vita chiamandomi, lui aretino, “Oh barbarossa! Vieni che ti voglio raccontare del divorzio”. E raccontava di se stesso come se parlasse di qualcun altro, con inaspettata ironia. Aveva combattuto una guerra da don Chisciotte, disse, e lo sapeva “ma qualcuno la doveva pur fare e io l’ho fatta,” era la sua spiegazione. Imparai così che era un uomo non solo tosto ma anche molto spiritoso, raffinato e determinato come pochissimi. Per questo da sinistra era anche visto come un fascista, visto che la sua biografia del resto autorizzava perfettamente una tale definizione che peraltro calzava a pennello con quasi tutti i politici italiani che non provenissero direttamente dalla Resistenza. Amintore Fanfani, dunque, si era messo in testa di cancellare dall’Italia cattolica la vergogna sciagurata del divorzio voluto dai nemici della Chiesa e dell’ordine costituito da nostro signore portando soltanto promiscuità, tradimenti, distruzione del nucleo familiare. Andava contro la storia, contro la logica e contro la comune legislazione dei paesi occidentali, avvicinandosi più alla Spagna del dittatore Francisco Franco che alla Francia dei “Lumi” o all’ Inghilterra della Common Law. Si incaponì e scatenò una vera guerra di religione che diventò una guerra di parole violentissime fra destra e sinistra, benché il divorzio all’inizio non fosse gradito ai comunisti che per anni ne avevano visto l’insidiosità sociale esattamente come i cattolici, che del resto aveva sostenuto già nel 1947 con l’’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione che riconosceva i Patti Lateranensi fra Mussolini e il Vaticano. Il divorzio avrebbe distrutto la struttura tradizionale delle famiglie e avrebbe scatenato l’epidemia della libertà sessuale già visibile dall’inarrestabile diffusione della pillola anticoncezionale, grazie alla quale ogni donna avrebbe potuto disporre del suo corpo senza rischiare sgradite gravidanze. Andreotti, d’accordo col Vaticano, aveva tentato una mediazione: potranno divorziare tutti coloro che hanno contratto matrimoni civili ma non quelli religiosi. Ma non ebbe fortuna. Gli italiani andarono alle urne il 12 e il 13 maggio del 1974 e il risultato fu nettissimo: per il divorzio (e quindi contro la sua abolizione) votò quasi il sessanta per cento degli italiani. Il Sud “borbonico” ma non la Sicilia, votarono contro il divorzio, come votò anche il Veneto che allora era una regione “bianca” cioè cattolica prima di tutto e democristiana, quando ancora la Liga Veneta era lontana. Ma i trentini e gli altoatesini furono divorzisti. Oggi è quasi impossibile riprodurre il ricordo di quell’epoca e quegli umori, che furono straordinari, eccitatissimi, e dividevano sia credenti e atei che gente di destra e di sinistra, perché la frontalità di quello scontro fu così apocalittica da sembrare quasi un match sportivo. E il tappo, Amintore Fanfani, l’uomo più basso d’Italia, e più ostinato, saltò. Il referendum fu bocciato. Gli italiani volevano divorziare e se ne infischiavano delle direttive di Santa madre chiesa così come se ne sarebbero infischiati al momento in cui confermarono la libertà di aborto sei anni più tardi. Dal punto di vista politico fu un momento magico perché si ritrovarono insieme a sinistra tutte le anime laiche compresi molti fascisti, tra l’esultanza in particolare dei socialisti che erano stati i veri promotori della legge sul divorzio, e di Marco Pannella e dei radicali che l’ avevano a tutti i costi adottata come loro bandiera. Fanfani, che aveva condotto la sua crociata come segretario della DC confessò (anche a me nei nostri strampalati colloqui, peraltro molto divertenti) di aver generato quella catastrofe con l’intenzione di arginare i comunisti: secondo lui il Pci aveva rotto il suo isolamento abbracciando una bandiera che non era la sua, quella del divorzio, per creare le premesse di un sorpasso e un collante che avrebbe messo insieme un comune sentire di sinistra che includeva anche le ordinate bandiere del partito comunista. E le cose andarono proprio come lui temeva. Il Pci si saldò con i laici e le quotazioni di Fanfani cominciarono a calare dentro il partito di maggioranza relativa. L’anno successivo, Fanfani avrebbe dovuto cedere la segreteria a Benigno Zaccagnini, della sinistra interna, che si insedierà con l’inquietante nomignolo di “onesto Zac”, un preludio della futura questione morale già innescata da Enrico Berlinguer. La festa per la vittoria del divorzio fu eccitata e grandiosa. L’Italia usciva da una prova molto difficile in cui si era formata una maggioranza di sinistra e laica che arrivava fino ai liberali di Giovanni Malagodi molto forte e tuttavia era un paese che doveva ancora attendersi una quantità di traumi violenti e inspiegabili a meno che non si accetti sempre l’etichetta della strategia della tensione che serviva per mettere insieme tutti quegli atti di terrorismo e violenza che sembravano privi di una spiegazione semplicemente logica. Dopo la vittoria del divorzio venne infatti la strage di piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio alle 10 del mattino, nel corso di un comizio sindacale, quando un ordigno nascosto in un cassonetto esplose uccidendo 5 giovani insegnanti, due operai e un pensionato e ferendo più di 100 persone. Era chiaramente un atto terroristico contro gli antifascisti e dunque palesemente una aggressione di forze oscure di estrema destra quel era a quei tempi il movimento Ordine nuovo che era stato fondato nel 1963 da personale militare e con la presenza di uomini che provenivano dai servizi segreti. Quella strage e le indagini che ne seguirono furono un altro dei grandi tormenti della Repubblica, cominciati con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Soltanto nel febbraio del 2014, con una sentenza della Cassazione, alcuni degli imputati furono riconosciuti definitivamente colpevoli benché manchi ancora un frammento di verità coperto dal segreto di Stato che Matteo Renzi aveva abolito con una direttiva del suo governo ma senza che questa direttiva diventasse, a quanto pare, efficace. Il 4 agosto, altra strage. Stavolta in treno: l’ Italicus. All’una di notte sulla carrozza 5 dell’espresso Roma-Monaco di Baviera, l’Italicus, scoppiò una bomba molto potente che provocò morti e feriti. Anche stavolta l’attentato fu riconosciuto di matrice fascista e il paese nel suo complesso avvertiva presenze sempre più minacciose e incontrollate che agivano, provocando moti di paura e di sfiducia (è esattamente questo lo scopo del terrorismo) oltre a generale i meccanismi virtuosi o perversi di tutte le teorie complottistiche che trovavano radici sia nella guerra fredda che nella storia italiana durante il fascismo e la guerra. A Milano nasce il giornale di Indro Montanelli. Nasce come giornale della maggioranza silenziosa borghese laboriosa e anticomunista che fino a quel momento si era sentita sottomessa al mobbing sindacale intellettuale e politico della sinistra. Quella di Indro Montanelli fu una parabola molto curiosa perché partita con un tono radicalmente anticomunista si concluse vent’anni dopo nell’antiberlusconismo militante, fino alla fatidica presentazione di Serena Dandini che lo annunciò sugli schermi televisivi di RaiTre con le fatidiche parole: “Signore e signori, il compagno Indro Montanelli”. Montanelli era stato un grande laico anche fascista ma molto meno fascista di tanti altri, inviato principe del “Corriere della Sera” che Mussolini personalmente aveva spedito a raccontare la guerra che Stalin mosse alla Finlandia nel dicembre del 1939 subito dopo l’invasione della Polonia e che era parte del pacchetto stabilito con i trattati tra Ribbentrop e Molotov. Ma Mussolini era gelosissimo di quell’alleanza, e quando Stalin attaccò la Finlandia e i tedeschi facevano il tifo per Mosca, il duce tentò di far avere ai finlandesi degli aerei spediti per ferrovia che i tedeschi si rifiutarono di far passare. Il miglior giornalista italiano si trovava già ad Helsinki per caso e quando i sovietici attaccarono i finlandesi, il “Corriere” ebbe il permesso di pubblicare le magnifiche corrispondenze sulla resistenza e l’eroismo del piccolo esercito finlandese. Come ha raccontato meglio di tutti Curzio Malaparte, il capo del fascismo più che censore si riteneva redattore capo di tutti i giornali italiani e spostava o ritirava corrispondenti e inviati secondo i suoi gusti. Malaparte scrisse che Mussolini essendo molto geloso di lui, lo spediva ora al confino o per qualche grande reportage. Montanelli era stato usato anche per dar fastidio ai tedeschi e per poco non ci lasciò la pelle. Dopo la guerra diventò il campione dell’anticomunismo, specialmente quando raccontò con la sua piccola Olivetti sulle ginocchia la sventurata rivoluzione degli studenti e operai ungheresi contro i carri armati sovietici nel 1956. Nel 1974 lasciò il “Corriere della Sera” – ormai nettamente orientato a sinistra con l’arrivo di Piero Ottone e se ne andò con alcuni fra i migliori giornalisti e inviati. Si disse allora che Montanelli aveva portato via dal “Corriere” l’argenteria. E cominciò l’avventura di un giornale anticonformista di destra, ma assolutamente non fascista, per il quale Indro pagò il suo pedaggio, gambizzato dalle Brigate Rosse.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1974:

4 gennaio: a Washington il presidente Richard Nixon rifiuta di consegnare il materiale richiesto dal comitato di indagine del Senato sullo scandalo Watergate

15 gennaio: debutta sulla rete televisiva americana Abc la serie Happy Days

13 febbraio: l’Unione Sovietica espelle il dissidente Aleksandr Solženicyn, accusato di aver svolto attività antisovietiche

24 febbraio: protesta dei detenuti del carcere di Firenze “Le Murate” che chiedono l’attuazione della riforma carceraria. Il detenuto Giancarlo Del Padrone, 20 anni, muore falciato da una raffica di mitra esplosa da un agente di custodia

9 marzo: Iva Zanicchi vince con Ciao cara come stai? la XXIV edizione del Festival di Sanremo

18 marzo: dopo due trasferimenti di sede, ha inizio il processo a Catanzaro per la strage di Piazza Fontana a carico di Pietro Valpreda e Mario Merlino. Nel giro di qualche settimana il procedimento si arresta per il coinvolgimento come imputati di Franco Freda e Giovanni Ventura

9-17 aprile: Camera e Senato approvano la legge 195 sul finanziamento pubblico dei partiti

18 aprile: le Brigate Rosse rapiscono il magistrato Mario Sossi, pubblico ministero nel processo contro il gruppo XXII Ottobre; Il 5 maggio le BR propongono lo scambio dell’ostaggio con gli imputati

9 maggio: una rivolta nel carcere di Alessandria provoca sette morti a seguito dell’intervento dei carabinieri

16 maggio: viene arrestato Luciano Liggio

23 maggio: le Brigate Rosse procedono alla liberazione di Mario Sossi in cambio di quella dei membri del Gruppo XXII Ottobre

28 maggio: esplode una bomba in piazza della Loggia a Brescia durante una manifestazione sindacale provocando 8 morti e 101 feriti

25 giugno: Indro Montanelli fonda Il Giornale Nuovo

12 luglio: l’editore Rizzoli acquista le quote azionarie del Corriere della Sera

4 agosto: “strage dell’Italicus” a San Benedetto Val di Sambro. Una bomba esplode nella carrozza 5 dell’espresso Roma-Monaco mentre sta uscendo dalla galleria dell’Appennino. L’attentato, che causa 12 morti e 44 feriti, è rivendicato dal gruppo neofascista Ordine Nero come vendetta per la morte del militante Giancarlo Degli Esposti

9 agosto: Richard Nixon si dimette dalla carica di presidente degli Stati Uniti; subentra alla carica il suo vice Gerald Ford

2 ottobre: la FIAT mette in cassa integrazione 65.000 operai a causa della crisi del settore automobilistico

23 novembre: nasce il IV governo Moro, composto da DC e PRI con l’appoggio esterno di PSDI e PSI

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Watergate, cosa è lo scandalo che portò alla caduta di Nixon. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Chissà se chi è nato dopo può avere una pallida idea di ciò che Richard Nixon ha rappresentato nella generazione mondiale che visse come una tragedia collettiva la guerra del Vietnam? Naturalmente tutti sanno che ci fu uno scandalo detto Watergate e che da allora tutti gli scandali pubblici ricevono un nomignolo che finisce per “gate” in memoria di quello scandalo che fu se non un capostipite, almeno un modello di comunicazione utilizzabile in politica. E certo basta andare su Wikipedia per trovare la descrizione e la cronologia di quel che successe. Ciononostante quella cronaca non significa molto e penso che ciò dipenda dal fatto che si è persa la memoria di ciò che è stato per noi, anche noi italiani, la guerra del Vietnam per la quale Gianni Morandi cantava una canzone di tristi soldati costretti a sparare con un fucile che faceva ta-rat-a- tta-tattà. La guerra nel Vietnam, come abbiamo già ricordato in questi appunti sul passato, non fu una guerra voluta da Nixon, che pure cercò all’inizio di combattere e vincere, ma fu la guerra che Nixon chiuse senza farsi prendere da tentazioni di rivincita. Fu una guerra di John Kennedy e dei suoi successori – in particolare del suo vice Lyndon Johnson che gli succedette giurando sulla Bibbia davanti al suo cadavere ancora caldo e davanti alla vedova Jacqueline che seguitava, dopo l’assassinio del marito e come una Lady Macbeth, a indossare lo stesso vestito sporco del sangue di John, cui Lee Harvey Oswald aveva fatto saltare il cranio con una fucilata esplosa dalla finestra di una biblioteca a Dallas, Texas. Era il 22 novembre del 1963. Kennedy aveva inviato i primi Green Berrets in Laos e in Vietnam, le antiche colonie francesi del Tonchino che i giapponesi avevano conquistato durante la Seconda guerra mondiale e che poi si erano ribellate al ritorno dei francesi. Nixon aveva una personalità geniale e arrogante allo stesso tempo. Pochi sanno che molti anni dopo il Watergate, e da privato cittadino, l’ex Presidente Nixon diventò un ospite fisso del neo eletto Bill Clinton il quale lo faceva entrare da un passaggio sotterraneo nel suo appartamento privato, e Nixon scrisse nelle sue memorie che secondo lui Bill era un bravo ragazzo, disse, ma secondo lui quella Hillary che si era sposato era semplicemente una strega. Richard era un bravissimo avvocato e il suo primo successo politico fu ottenere la vicepresidenza con Dwight Eisenhower che era stato il comandante in capo di tutte le forze alleate nell’ultima parte della guerra, organizzando lo sbarco in Normandia dal suolo inglese, con grande irritazione di Winston Churchill che detestava quell’operazione perché avrebbe voluto risalire tutta l’Europa dall’Italia per ripristinare la rete dell’impero. Era un’epoca di cui pochi ricordano la micidiale rivalità fra inglesi e americani, del tutto mascherata dalla propaganda. Chi ne volesse sapere di più può vedersi la serie di una sola stagione “Traitors” che è di grande accuratezza e piena di soprese. Eisenower, il generale vittorioso e più amato, si presentò candidato vincente per il partito repubblicano, nel 1952, dopo la presidenza di Harry Truman che era succeduto a Franklin Delano Roosevelt prima che la guerra finisse e poi era stato rieletto nel 1948. Nixon era politico scaltro tanto quanto “Ike” Eisenhower era un patriota dall’eloquio scialbo, ma un paziente e vincente programmatore militare, una di quelle persone che sanno usare risorse umane e materiali vincendo le guerre senza ricorrere alla retorica. Nixon, finito il doppio mandato da vicepresidente, volle correre per la Casa Bianca ed ebbe il famoso scontro televisivo col giovane rampollo dei cattolici bostoniani, John Fitzgerald Kennedy: fu allora che gli americani e il mondo impararono che la politica può diventare un match sportivo come un incontro di box, e quella prima volta fu vinta dall’angelico Kennedy, che mise al tappeto Nixon per abilità retorica. Novembre 1960. Lo scandalo Watergate finì nel 1974 con le dimissioni di Nixon che abbandonò la Casa Bianca, ma era scoppiato nel 1972, durante la campagna elettorale per il secondo mandato di Nixon (campagna stravinta con oltre il 60 per cento dei consensi) quando qualcuno scoprì che il quartier generale del Partito Democratico, alloggiato nell’ edificio Watergate, era spiato dai microfoni e dai registratori nascosti degli uomini di Nixon del “Comitato per la rielezione” del Presidente. Nixon fu bravissimo a negare, mentire, e ancora negare le menzogne dette e cambiare versione con una faccia tosta senza uguali, conquistando così il nomignolo di Dicky “Tricky” Dixy, dove “tricky” sta per imbroglione. A quel tempo ancora non si usava con la frequenza di oggi la parola “dick” per indicare sia il pene come sostantivo che in senso di stronzo”, o “mascalzone” come aggettivo. Naturalmente la versione eroica e politicamente corretta dello scandalo Watergate ricorda che due intrepidi giornalisti, Bob Woodward e Carl Bernstein, ricomposero con paziente diligenza il puzzle degli intrighi del potere servendo così alla democrazia e al giornalismo una lezione esemplare che costrinse il potere ad arrendersi. Ma i due avevano un informatore allora segreto e per questo chiamato “gola profonda” che serviva loro le tracce necessarie per far fuori il Presidente. Il colpo riuscì grazie al passaggio dalla parte dei nemici del presidente, del suo uomo più fidato, John Dean che ebbe uno scontro con Nixon in seguito al quale accettò, per mettersi in salvo, di testimoniare contro di lui decretandone la fine politica. Ma nel frattempo Nixon aveva segnato alcuni punti molto importanti nella politica estera americana: aveva approfittato della crescente rivalità tra i due massini Paesi comunisti, Unione Sovietica e Cina di Mao Zedong, per aprire le porte alla Cina e iniziare quella collaborazione cino-americana che ancora dura malgrado le tensioni. La Cina d’altra parte era stata profondamente filoamericana durante la guerra perché aveva combattuto la stessa guerra contro i giapponesi. Dunque fu una svolta storica anche se toccò a Nixon chiudere con un atto di resa la guerra del Vietnam. O per meglio dire: visto che la guerra era impantanata e sempre più impopolare, dopo estenuanti colloqui con il Nord Vietnam a Parigi, Nixon decise di abbandonare la repubblica del Vietnam del Sud, alleata degli Usa, al suo destino. Lo fece in modo cinico e crudele perché lasciò agli ex alleati sud-vietnamiti un apparato militare regalato come se fosse stato un giocattolo, ma senza rifornimenti né pezzi di ricambio. Il Sud Vietnam resistette poco alla spinta dell’armatissimo Nord Vietnam che poteva contare sulle linnee di rifornimento sia cinesi che sovietiche. E agli ultimi americani rimasti toccò fuggire dal terrazzo dell’ambasciata di Saigon, il 30 aprile del 1975, sugli elicotteri su cui cercarono di salire vanamente decine di uomini del regime anticomunista, compromessi quanto bastava per sapere che la loro vita non valeva più un soldo. Nixon chiuse quella guerra e ripeté in tutte le occasioni che soltanto lo smodato narcisismo di Kennedy aveva potuto causare quella insana impresa militare che non aveva alcuna probabilità di successo. La sconfitta americana in Vietnam fu un evento di importanza enorme, perché pochi si aspettavano che la più grande potenza del mondo si sarebbe arresa. Le manifestazioni di destra in America inalberavano cartelli che invocavano “la bomba” (atomica) su Hanoi, capitale della Repubblica popolare del Vietnam. Richard Nixon aveva conquistato la Casa Bianca nel 1968, lo stesso anno in cui il generale De Gaulle mollava per stizza il potere in Francia. Era stato un anticomunista di ferro in un’epoca in cui il comunismo era soltanto un sinonimo di Unione Sovietica. Ma fu un presidente quasi di sinistra dal punto di vista dei diritti civili, difesa ambientale e sgravi fiscali per i più poveri. Furono molti a dire più tardi che quell’uomo era stato in fondo uno dei migliori Presidenti e non il peggiore in assoluto come la vulgata sosteneva. La politica italiana fu in parte influenzata dagli eventi americani del 1974. Il Pci di Enrico Berlinguer scoprì che gli Stati Uniti potevano essere sconfitti, ma soltanto pagando prezzi altissimi. E che però anche l’Unione Sovietica doveva fare i conti con una realtà geopolitica in cui non aveva potere di intervento. Ciò fu una delle cause determinanti per l’esperimento dell’“Eurocomunismo” che avrebbe cercato di varare una politica comunista occidentale autonoma dall’Urss dei partiti comunisti italiano francese, portoghese e spagnolo. La lezione del colpo di Stato in Cile, che aveva eliminato il presidente Salvador Allende sostenuto dalle sinistre, confermava che la nuova guerra fredda – spesso rovente, come in Vietnam e prima ancora in Corea – aveva disegnato delle frontiere invalicabili che somigliavano alle vecchie “aree di influenza”. Gli Stati Uniti non avrebbero più permesso regimi filosovietici nel loro “cortile di casa” e non ci sarebbe più stato spazio coloniale in estremo oriente, dominato dalla presenza cinese, ora legata ad un patto di reciproca tolleranza con gli Stati Uniti. Il mondo sembrò più definito nelle sue frontiere armate, e anche più crudele, mentre in Europa la ricaduta della guerra del Vietnam copriva tutto il fronte dell’arte, della musica rock, delle nuove droghe allucinogene di gran moda, insieme a un ritorno delle filosofie e dei costumi orientali grazie anche al favore che i buddisti vietnamiti avevano conquistato in occidente dopo il suicidio col fuoco di alcuni monaci in segno di protesta per la presenza americana. Cominciò quell’anno in Europa una fase nuova anche se incerta e la società nel suo complesso si ritrovò più laica e di sinistra, ma anche molto ferita dal terrorismo interno e internazionale, di cui diremo di più nei prossimi articoli.

LE TAPPE DEL WATERGATE:

1 luglio 1971: David Young ed Egil “Bud” Krogh gettano le basi di quelli che in seguito divennero i “White House Plumbers” (un’unità segreta di investigazioni speciali della Casa Bianca istituita per evitare fughe di notizie)

3 settembre 1971: i “White House Plumbers” irrompono negli uffici dello psichiatra di Daniel Ellsberg, alla ricerca di materiale che potrebbe screditarlo, Questa fu la prima grande operazione degli idraulici

17 giugno 1972: i “Plumbers” vengono arrestati alle 2:30 del mattino accusati di furto con scasso e installazioni di microspie negli uffici del Comitato nazionale democratico -che organizza la campagna elettorale in vista delle elezioni di novembre – presso il Watergate Building Complex

23 giugno 1972: nello Studio Ovale, HR Haldeman cerca di convincere il presidente Nixon di chiudere l’indagine dell’Fbi sull’irruzione del Watergate tramite i vertici della Cia. Nixon dà l’ordine, ma tutte le conversazioni vengono registrate

15 settembre 1972: i “Plumbers” accusati dell’irruzione al Watergate vengono incriminati da un gran giurì federale

28 febbraio 1973: iniziano le udienze per la conferma di L. Patrick Gray come direttore permanente dell’Fbi. Durante queste udienze, Gray rivela di aver rispettato un ordine di John Dean (consulente legale della Casa Bianca) di fornire aggiornamenti quotidiani sull’indagine del Watergate

17 marzo 1973: un condannato, McCord, scrive una lettera al giudice John Sirica, sostenendo che parte della sua testimonianza fu falsata sotto pressioni terze e che il furto al Watergate fu ordinato dai funzionari del governo, portando così l’indagine alla Casa Bianca

6 aprile 1973: il consigliere della Casa Bianca John Dean inizia a collaborare con i pubblici ministeri federali del Watergate

30 aprile 1973: gli alti funzionari dell’amministrazione della Casa Bianca si dimettono e John Dean viene licenziato

17 maggio 1973: la commissione Watergate del Senato inizia le sue udienze televisive a livello nazionale

3 giugno 1973: John Dean rivela agli investigatori di aver discusso con Nixon dell’insabbiamento delle prove del Watergate

13 luglio 1973: Alexander Butterfield, ex segretario per le nomine presidenziali, rivela che tutte le conversazioni e le telefonate nell’ufficio di Nixon sono state registrate dal 1971.

18 luglio 1973: Nixon ordina la disconnessione dei sistemi di registrazione della Casa Bianca

23 luglio 1973: Nixon si rifiuta di consegnare i nastri presidenziali alla commissione Watergate del Senato o al procuratore speciale

17 novembre 1973: Nixon pronuncia il discorso “Io non sono un truffatore” in una conferenza stampa televisiva a Disney World

28 gennaio 1974: Herbert Porter, collaboratore di Nixon, si dichiara colpevole di falsa testimonianza

25 febbraio 1974: Herbert Kalmbach, consulente personale di Nixon, si dichiara colpevole di due accuse di attività illegali nella campagna elettorale

1 marzo 1974: in un atto d’accusa contro sette ex aiutanti presidenziali, consegnato al giudice Sirica insieme a una valigetta sigillata destinata al Comitato sulla magistratura della Camera, Nixon viene indicato come un co-cospiratore non incriminato

4 marzo 1974: i “Sette Watergate” (Mitchell, Haldeman, Ehrlichman, Colson, Gordon C. Strachan, Robert Mardian e Kenneth Parkinson) vengono formalmente incriminati

16 aprile 1974: il procuratore speciale Jaworski emette un mandato di comparizione per 64 nastri della Casa Bianca

30 aprile 1974: la Casa Bianca pubblica le trascrizioni modificate dei nastri di Nixon

9 maggio 1974: iniziano le udienze di impeachment davanti alla Commissione Giustizia della Camera

24 luglio 1974: a Nixon viene ordinato di consegnare i nastri agli investigatori

8 agosto 1974: Nixon pronuncia il suo discorso di dimissioni davanti a un pubblico televisivo nazionale

9 agosto 1974: Nixon si dimette dall’incarico. Gerald Ford diventa presidente

8 settembre 1974: il presidente Ford chiude le indagini concedendo la grazia a Nixon

31 dicembre 1974: a seguito degli abusi della privacy dell’amministrazione Nixon, il Privacy Act del 1974 diventa legge

4 maggio 1977: Nixon rilascia la sua prima importante intervista sul Watergate con il giornalista televisivo David Frost

15 maggio 1978: Nixon pubblica le sue memorie, dando più del suo lato della saga del Watergate.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1975: dalla guerra civile tra fascisti e rossi alla morte di Mara Cagol. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Il 1975 è un anno di guerra civile latente. Molti scontri fisici tra estrema sinistra e neofascisti, in cui il numero di neofascisti uccisi superava quello dei morti di sinistra: un altro segno dell’evoluzione di una linea armata e organizzata nell’area su cui dominavano le Brigate rosse. Tirava ormai un’aria di feroce legittimazione e una voglia di resa dei conti come se la guerra non fosse finita e ne fosse in corso un’altra, latente e armatissima. Fu l’anno in cui una laboriosa sociologa di nome Mara Cagol con un assalto sudamericano al carcere in cui era recluso suo marito Renato Curcio riuscì a farlo evadere per poi morire durante lo scontro a fuoco con i carabinieri che avevano circondato i brigatisti che avevano sequestrato l’industriale Gancia al fine di ottenere un riscatto. Fu l’anno in cui Pierpaolo Pasolini morì ucciso barbaramente a Ostia dal Rana che gli passò su e giù con la macchina sfigurandone il cadavere nel fango della più tenebrosa periferia romana. È anche l’anno in cui i Khmer Rossi del dittatore comunista Pol Pot prendono il potere in Cambogia e scatenano un genocidio che fa concorrenza per mostruosità a quelli di Hitler e di Stalin, ma anche l’anno in cui i Pink Floyd raggiungono l’apice del successo e in cui la Soka Gakkai internazionale, la versione giapponese del buddismo organizzato, viene fondata ufficialmente. È ancora l’anno in cui seguita a trascinarsi l’eterno processo per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 in cui adesso sono imputati sia estremisti di destra che di sinistra: un processo destinato di nuovo ad arrestarsi perché è emerso un personaggio equivoco, certo Giannettini che si rivela un agente del servizio segreto Sid e la sua posizione appare tanto scandalosa quanto inspiegabile. Sicché tutto si ferma in un ingorgo di reticenze. In Inghilterra accadono grandi cose: Charlie Chaplin viene insignito col titolo di baronetto dalla regina Elisabetta e Margaret Thatcher viene eletta leader del partito conservatore inglese e dunque candidata a diventare Prime Minister quando i tories vinceranno le elezioni. A marzo si apre il quattordicesimo congresso del partito comunista che Enrico Berlinguer vince largamente con la sua idea del Compromesso Storico contro l’ala filosovietica di Armando Cossutta. Lo scontro permette di contare quanti nel partito sono filosovietici e pronti a una resistenza ad oltranza all’idea un eurocomunismo sotto la leadership italiana, che colleghi sullo stesso fronte i comunisti francesi, spagnoli e portoghesi, anche se Spagna e Portogallo stanno vivendo ancora sotto dittature di destra agonizzanti. La nuova alleanza ha il progetto di staccare la spina con l’Unione Sovietica evitando però uno strappo troppo doloroso. Lo strappo definitivo, infatti, non arriverà mai e, per gli anni a venire, Eugenio Scalfari dalla Repubblica (che ancora non è nata ma nascerà di lì a pochi mesi) inciterà Berlinguer a “varcare il guado” essendo il partito comunista sempre in mezzo al guado benché protetto (parole di Berlinguer) dall’ombrello atomico americano e la scelta di campo occidentale sia ormai matura. Ma è anche chiaro che Berlinguer non vuole rompere da destra e dunque dedica tutta la sua attenzione a una ideologia che vada oltre l’ormai esangue Rivoluzione d’Ottobre, fondata sulla questione morale. La questione morale sollevata da Berlinguer consiste in una affermazione di supremazia etica: i comunisti, oltre che bravi sono per definizione anche onesti. L’onestà compare per la prima volta come una questione ideologica. La dissociazione dal marxismo leninismo sovietico diventa una necessità che porta a radicalizzare le differenze tra i comunisti e gli altri. Questa “linea” serve a Berlinguer per gettare un ponte e stringere il patto di alleanza, detto compromesso storico, con la Democrazia cristiana intesa come il partito dei cattolici. In questo Berlinguer seguiva fedelmente la strada battuta da Palmiro Togliatti quando volle approvare, con un colpaccio a sorpresa nell’articolo 7 della Costituzione, l’inclusione dei Patti Lateranensi sottoscritti da Benito Mussolini col Vaticano (e che sono alla base dell’attuale conflitto sul progetto di legge Zan) e che secondo Togliatti era la password necessaria per avvicinare le masse cattoliche rispettandone l’identità. L’eurocomunismo da una parte e il compromesso storico dall’altra furono i due strumenti attraverso i quali il segretario del partito comunista italiano cercava la via d’uscita dalla tutela sovietica, mantenendo salda una sinistra orgogliosa e anche sdegnosa, competitiva e di fatto definita come geneticamente superiore, dunque ostile a qualsiasi altra forza di sinistra perché non si sarebbe capito per quale motivo un militante di sinistra non dovesse essere comunista dal momento che soltanto quel partito garantiva il bene. Lo scontro con il Partito socialista era dunque inevitabile, anche se il Psi dopo la parentesi manciniana era in mano al professor Francesco De Martino, uomo convintissimo della consanguineità con il Pci: una posizione che lo esporrà al colpo di maggioranza di qui a un anno con l’avvento di Bettino Craxi nella sede di via del Corso. Il 13 aprile del 1975 una violenta esplosione a Beirut scatenò la guerra civile in quel paese che finora fino a quel momento era considerato la Svizzera del Medio Oriente. Un evento importante sotto ogni punto di vista ma, se il lettore mi consente una digressione personale, molto importante per me che oggi scrivo queste note, perché coprii gran parte di quella guerra per la Repubblica e quella prima uscita in un Medio Oriente inferocito e polveroso, dove la vita non valeva assolutamente nulla e meno ancora le dichiarazioni, fu per me il primo incontro con la realtà inimmaginabile. La guerra del Libano metteva in crisi un paese occupato dall’Olp di Yasser Arafat che vagava nel Medio Oriente senza trovare pace né patria, e di lì nacque anche una mia conoscenza diretta con Arafat che si concluderà molti anni dopo con l’ultima intervista che quest’uomo dette a un giornalista quando lo andai a trovare a Roma all’hotel Excelsior e lui malato e spaventato mi dedicò tutta la notte per raccontarmi la sua vita e poi sparire inghiottito dal suo compound dove sarebbe stato avvelenato e ucciso. Tutto ciò era ancora da venire e certo allora non si potevano conoscere le conseguenze dei fatti che avvenivano giorno per giorno tra cui la prima attività di uno sconosciuto ragazzo intraprendente di nome Bill Gates che aveva impiantato una azienda informatica in un garage da cui sarebbe uscita Microsoft e il personal computer. In Spagna muore il dittatore Francisco Franco che aveva tenuto il potere per trentasei anni dopo essersi ribellato alla Repubblica spagnola e aver vinto quella guerra con l’aiuto di Hitler e Mussolini, mentre la parte opposta aveva ricevuto armi e istruttori dell’Unione sovietica. La guerra di Spagna aveva lasciato una grande piaga aperta che seguitava a produrre dolore e nostalgie ancora durante gli anni Sessanta e Settanta quando nelle nostre case venivano a cena con le loro chitarre gli ultimi esuli di quella guerra e delle meravigliose canzoni dei fronti di Guadalajara, dell’Ebro, del bombardamento di Madrid, tanto che oggi appare curioso che quelle canzoni di sinistra dedicavano versi feroci a “los moros” ovvero i soldati di colore delle truppe coloniali che Francisco Franco aveva usato per il suo colpo di Stato. Francisco Franco morì quell’anno, dopo una infinita malattia e le ostinate cure che lo avevano imbalsamato mentre era ancora vivo. Finalmente era sparito dalla scena e la Spagna si trovava di colpo senza dittatore e senza democrazia. La situazione fu presa in mano dall’unico organismo sotterraneo sopravvissuto che era l’Opus Dei che provvide a reinsediare sul trono di Madrid il principe Juan Carlos di Borbone, un giovanotto che aveva vissuto il suo esilio a Roma e che Sandro Pertini si vantava di avere avuto più volte ospite in casa sua. La Spagna voltava pagina senza avere risolto i suoi problemi ideologici e alla fine della dittatura il partito comunista di Santiago José Carillo Solares si vide che era ben poca cosa rispetto al ruggente Partito comunista spagnolo guidato dal comandante Carlos, nome di battaglia dell’italiano Vittorio Vidali che io conobbi a Trieste ben vivo e fiero delle sue antiche battaglie. L’ultimo capo comunista rivoluzionario spagnolo era dunque stato un italiano figlio di un operaio di Monfalcone e animatore dell’organizzazione socialista triestina “Arditi Rossi” per poi diventare un valoroso e crudele agente di Stalin nella guerra di Spagna come Comandante Carlos, fondatore del leggendario “Quinto Regimiento”. La sua azione in quella guerra aveva prodotto un conflitto sempre più violento fra comunisti e sinistra non comunista, le cui conseguenze si riverberavano ancora nella politica italiana del dopoguerra, provocando la crescita di quell’anticomunismo di sinistra che fu una componente genetica dei socialisti italiani, fra loro spaccati tra frontisti e autonomisti, come gli anni di Craxi mostreranno subito dopo quel 1975.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1975

25 gennaio: il presidente di Confindustria Giovanni Agnelli e i sindacati confederati firmano un accordo sul punto unico di contingenza

27 gennaio: inizia il terzo processo per la strage di Piazza Fontana

11 febbraio: Margaret Thatcher è la nuova leader del partito conservatore inglese

4 marzo: Charlie Chaplin viene nominato baronetto dalla regina Elisabetta

8 marzo: in Italia viene approvata la legge 39/75 che abbassa la maggiore età da ventuno a diciotto anni

18 marzo: si apre il XIV congresso del Pci: è vincente la linea del compromesso storico di Enrico Berlinguer

27 marzo: esce il primo film di Fantozzi

4 aprile: Bill Gates crea la “Microsoft Corporation”

9 aprile: Federico Fellini vince il suo quarto Oscar con il film Amarcord

13 aprile: un attentato a Beirut è la causa scatenante dello scoppio della guerra civile

6 maggio: viene rapito da una formazione dei Nap il magistrato Giuseppe Di Gennaro

10 maggio: la Ferrari dopo vent’anni torna a vincere il Gran Premio di Montecarlo con Niki Lauda

19 maggio: con la legge 151/75 viene riformato il diritto di famiglia: è sancita la parità giuridica fra coniugi, attribuita ad entrambi la patria potestà, eliminato l’istituto della dote e il riconoscimento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio

31 maggio: è approvata la legge 191 sul servizio militare di leva, che riduce la durata del servizio da 24 a 12 mesi

13 giugno: viene assassinato a Reggio Emilia Alceste Campanile, attivista di Lotta Continua

19 luglio: viene inaugurato il parco divertimenti Gardaland

24 agosto: Giacomo Agostini vince a Brno il suo quindicesimo titolo mondiale

15 settembre: viene pubblicato Wish you were here, nono album dei Pink Floyd

2 novembre: viene barbaramente ucciso Pier Paolo Pasolini

6 novembre: circa 350.000 marocchini sotto la guida di re Hassan II invadono il Sahara Occidentale. È l’evento della “Marcia Verde”

20 novembre: a 83 anni, muore Francisco Franco, dittatore spagnolo al potere da 36 anni

10 dicembre: in Inghilterra viene abolita la distinzione giuridica tra uomo e donna

30 dicembre: in Italia viene approvata la legge 685 sugli stupefacenti: viene stabilita una distinzione tra spacciatore e consumatore; viene introdotta la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti e la nozione di modica quantità per uso personale permette la non punibilità di quest’ultimo

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1975: l’ascesa di Margaret Thatcher. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Luglio 2021. Nella mia più amata gag di Roberto Benigni quando era ancora un comunista di campagna, annunciava ai componenti della sezione la serata con film, segue dibattito: «Pòle la donna esse come l’omo? No. Chiuso il dibattito». Ecco, nel 1975, fra tanti conflitti, imbrogli, complotti veri e presunti, venne fuori un creaturo la cui gestazione aveva richiesto nove anni. Il Diritto di Famiglia. In due parole: Pòle la donna esse come l’omo? Sì, pòle: la donna infatti, dice la nuova legge dopo la lunga e faticosa gravidanza, è tale e quale quanto a diritti all’uomo, salvo magari che è una creatura totalmente diversa e nella sua diversità e unicità ha diritto al totale rispetto, per lo più negato. Parole tanto importanti quanto banali, perché se apriamo oggi le cronache dopo quasi mezzo secolo troviamo femminicidi e vessazioni. Ma nel 1975 era ancora vivo il primo femminismo italiano che sembrava aver prodotto effetti irreversibili: sembrava non si potesse più tornare indietro. E invece è stata – sia pure a zigzag – tutta una retromarcia. Al diritto di parità seguirono le quote rosa e altre diluite annacquature di diritti annunciati solo sulla carta. Intanto, l’orgogliosa figlia di un salumiere inglese, Margaret Thatcher conquistava la leadership del partito conservatore, si apprestava a installarsi al numero 10 di Downing Street per servire il suo paese insieme a un’altra donna con una corona come cappello e che non avrebbe esitato a muovere guerra al dittatore argentino Galtieri – mezzo calabrese e mezzo piemontese – per riprendersi le isole Falkland strappate all’impero con un colpo di mano. E c’erano state donne al potere come il primo ministro israeliano Golda Meir, o Indira Ghandi in India, per non dire dell’infausta e venerata Evita Peron, seconda dirompente moglie del dittatore neofascista Juan Peron. In tutto il mondo le donne erano già al comando da decenni e delle italiane l’unica ad aver fatto carriera mondiale era stata Maria Montessori. Non che il diritto di famiglia fosse un pilastro di efficienza e democrazia. Risolse alcuni problemi di principio ma ne aprì altri. Oggi esiste la piaga sociale degli uomini maschi cacciati di casa dalle loro compagne o consorti, che dormono in macchina estenuati dagli obblighi di alimenti, ma questa è un’altra faccenda. Allora, negli anni Settanta, passarono uno in fila all’altro il divorzio, lo statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, e tutta la legislazione innovativa apparve allora giusta e sull’onda della nuova aspirazione ai diritti civili ma anche molto ideologica, qualcosa di mezzo fra un giacobinismo in conflitto col confessionalismo cattolico e una forte voglia di cambiar pagina rispetto a tutto ciò che aveva rappresentato l’Italia conservatrice del Regno e poi quella fascista che sulla questione delle donne era stato chiarissimo: possono marciare in uniforme agitando cerchi e leggeri bastoni nelle parate ginniche, ma devono fabbricare e tirare su marmocchi sotto il comando dei maschi di casa. I fratelli godevano del comando sulle sorelle come nella società arcaica, cristiana, musulmana ed ebraica. Le donne, nel 1975, ancora non facevano le giornaliste come gli uomini. Erano esperte di cucina, arte, letteratura, moda e costume, benché qualcuna sapesse di economia. Sarà soltanto l’anno successivo – anzi in realtà alla fine del 1975 quando anch’io venni convocato a partecipare alla fattura dei “numeri zero” di Repubblica che andò in edicola nel gennaio del 1976 – che una intera redazione fu aperta alle donne, purché sotto l’’etichetta pretesto del “movimento”. Ma ancora, di una donna che avesse una penna rapida ed efficace si diceva “scrive bene come un uomo”. Seguivano inevitabilmente battute sessuali, di un gusto – un cattivo gusto, di cui si è quasi persa la memoria ma che allora erano ancora non solo di uso comune, ma di fronte alle quali le donne reagivano con sentimenti misti di irritazione, complicità, gradimento, furia moralista. I rapporti uomo-donna si stavano facendo sempre più evoluti e complicati: la questione della “coppia aperta” era dominante e soltanto con l’inizio della vera stagione del terrorismo brigatista e dei Nar fascisti si assisté a uno spontaneo ritorno in famiglia, usata come presidio fisico e quasi militare di difesa contro le minacce esterne. Nel 1975 il “fuori” era ancora vivo e praticato – dopo la caduta del regime di Francisco Franco in Spagna e quella del regime gemello di Salazar in Portogallo per un colpo di mano di militari di sinistra che inaugurarono la rivoluzione dei garofani rossi – un clima di attesa messianica di qualcosa di veramente rivoluzionario che compattò i laici e i comunisti insieme ai socialisti e ai radicali, ma anche larghe zone della Democrazia Cristiana. Il Papa in carica era il bresciano Giovan Battista Montini, che era succeduto a Papa Giovanni XXII col nome di Paolo VI. Montini era un intellettuale macerato, dalla vista (storica) molto acuta: per la sua asciuttezza magra somigliava un po’ a Pio XII, il principe Eugenio Pacelli di cui era stato un agente diplomatico esperto durante la guerra e subito dopo. Ma non era un conservatore dichiarato come Pacelli e la sua espressione dolorante e incline al dubbio irrisolto dava ai cattolici militanti la sensazione che la Chiesa fosse alla finestra ad aspettare gli eventi. Gli eventi non mancano. L’America Latina è percorsa da venti rivoluzionari che spingono a stringere patti di alleanza con formazioni guerrigliere e milizie al servizio di molte bandiere in tutto il mondo. Fra i personaggi più importanti ce n’è uno che li supera tutti e che oggi è un povero vecchio malato in un carcere di massima sicurezza parigino dove sconta ben due ergastoli per attentati in Francia negli anni Settanta e Ottanta. Quando sarò eletto presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spie sovietiche in Italia, mi imbatterò in questo personaggio in diverse occasioni anche grazie alla frequentazione dei procuratori francesi che avevano indagato e poi fatto condannare Ilich Ramirez Sanchez, detto “The Jackal”, e che ispirò un famoso film: I tre giorni dello sciacallo con Robert Redford, in cui agiva un professionale killer a contratto al soldo di diverse potenze. Nel 1975 Carlos lavora per i libici. Per conto di Gheddafi sequestrò i ministri del petrolio dell’Opec a Vienna, circostanza poi rivelata al Mossad israeliano da Joachim Kline, transfuga del gruppo di Carlos il quale nel frattempo si era trasferito stabilmente in Libia dove era continuamente intervistato in televisione, cosa che appagava il suo insaziabile narcisismo. Gli agenti francesi Roland Jacar e Dominique Nasplèzes, dell’“Observatoir du Terrorisme”, Carlos era a disposizione del leader militare palestinese Wadi Haddad. Questo aggancio con un comando palestinese indipendente da Arafat dava a Carlos la possibilità di non dover rendere conto ai sovietici delle sue azioni, rendendole note nei suoi rapporti come azioni dell’organizzazione Fplp, armata e assistita dal servizio segreto militare sovietico Gru. Lo so, è complicato, ma il Gru militare sovietico agiva all’insaputa del Kgb che non aveva alcun potere sui suoi uomini, sicché il terrorista Carlos ebbe la possibilità di giocare una partita doppia sempre dalla parte sovietica, ma servendosi dai due forni in concorrenza fra loro. Vale la pena ricordarlo solo perché questa posizione strategica di quell’uomo d’azione causò molti attacchi terroristici anche in Italia, benché non sia mai stato condannato da un tribunale italiano. A quel punto Carlos disponeva del controllo di circa trentamila agenti e alcuni commandos Spetsnaz messi a disposizione dai sovietici per dirigere i corsi di addestramento nel campo di Lahej. Lì si formarono dal punto di vista militare molti combattenti della Raf tedesca e fu in Germania che il leader palestinese Walid Haddad fu preso in carico dai servizi militari. Ciò che non appare evidente nei giornali e telegiornali è la tensione spasmodica fra i due schieramenti sovietici e americani in Europa. È in quest’anno che un giovane ufficiale sovietico di nome Vladimir Putin viene assunto nella Quinta Sezione del Kgb, nota come “Quinto direttorato” creato da Juri Andropov dopo la Primavera di Praga del 1968 per isolare ed espellere gli intellettuali dissenzienti per i quali furono aperti appositi ospedali psichiatrici diretti da un certo dottor Luns che diagnosticò una “schizofrenia strisciante” a eminenti critici del regime come Begoraz, Grigorenko, Siniavsky, Daniel, Brodsky, Kovalev e tanti altri. Come Presidente della commissione d’inchiesta parlamentare fra il 2002 e il 2006, lessi una informativa interna ai nostri servizi secondo cui una affascinante signora di nome Inge Schoenthal era stata invitata con particolare riguardo a un grande ricevimento dell’ambasciata cubana. Inge Schoenthal era stata la moglie di Giangiacomo Feltrinelli. morto sul traliccio di Segrate il 14 marzo del 1972. Tutti sappiamo che Inge Feltrinelli fu in un certo senso la tutrice di Giangiacomo, ricchissimo erede di un impero cartaceo prima ancora che editoriale, nel senso che cercò di temperarne le “follie” rivoluzionarie. Nessuno ha ancora raccontato con la forza letteraria che il mistero consente, quegli anni terribili e sul filo della guerra che non scoppiò ma che molti si dedicavano a rendere possibile. L’abbiamo detto: quello e gli anni che verranno, saranno anni terribili, non solo di piombo e sangue, ma di cover-up, ovvero di insabbiamenti e segreti mortali mal seppelliti.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1976: l’inizio della sfida feroce tra Craxi e Scalfari. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Fu un anno che morse la Storia, almeno quella italiana, il 1976. I socialisti aprono una crisi di governo, provocano le elezioni anticipate, le perdono. Francesco De Martino, il segretario della stabilità glaciale ma molto vicina al PCI, perde la testa, spiccata con un colpo di mannaia dalla congiura di tutti i suoi figli – i giornali parlarono tutti di “parricidio” - all’Hotel Midas sulla via Aurelia, a Roma. Viene eletto al suo posto un giovanottone altissimo e milanese di nome Bettino Craxi. Lo votano in massa per levarsi dalle scatole l’insigne professore napoletano che aveva messo il piombo sulle ali del partito. Enrico Berlinguer esulta per un grande successo elettorale del Pci che ha imboccato la linea dell’Eurocomunismo, teoricamente comune ai comunisti francesi, spagnoli e portoghesi. Grandi eventi, e li ho visti tutti. Ho visto anche il terremoto del Friuli che segnò l’inizio del successo della Lega che esploderà nel 1980, quando il Nord fece un confronto fra il comportamento civile dei cittadini del Friuli e quello dei cittadini del Sud nell’Irpinia e Campania. E poi, “la Repubblica” che venne al mondo, anzi in edicola, il 14 gennaio ed era il primo tabloid italiano: che genere di giornale sarebbe stato? Scalfari, il fondatore, aveva un recente passato di deputato socialista e dunque i socialisti speravano che questo nuovo misterioso nato in edicola fosse consanguineo o almeno parente del partito di via del Corso. I comunisti avevano molto sostenuto il nuovo giornale che assunse una prima ondata di giornalisti che provenivano da Paese Sera, giornale vicinissimo al Pci che aveva la sede nello stesso palazzo dell’Unità. Poi le sorprese: doveva esserci Andrea Barbato, grande firma di quei tempi, ma all’ultimo momento preferì la direzione di un telegiornale della Rai. Corsero le firme monumentali del “Giorno” ormai esangue e vennero Giorgio Bocca e Natalia Aspesi. La redazione centrale di Repubblica era a piazza Indipendenza, la stessa piazza in cui sorge il Palazzo dei Marescialli del Consiglio superiore della magistratura e occupava il quarto piano. Poi si allargherà in su e in giù. Nello stesso Palazzo c’era la redazione del Corriere dello Sport e una dependance della facoltà di Magistero (allora esisteva la facoltà di magistero che raccoglieva gli studenti delle magistrali). Nella redazione del nuovo quotidiano io avevo lavorato fin da novembre quando utilizzai le ferie arretrate al Giornale di Calabria, dove con Piero Ardenti avevamo messo in piedi il primo quotidiano calabrese, ed ero entrato a far parte d volontari aspiranti giornalisti giovanissimi del “movimento” come si diceva allora, che includeva le femmine femministe (e anche quelle non), e poi i militanti di vari gruppi extraparlamentari di sinistra fra cui Avanguardia Operaia, Potere Operaio e un po’ di socialisti sparsi. C’era l’anarchico e romantico Luca Villoresi – da poco scomparso – con cui diventammo più parenti che amici e c’era Carlo Rivolta con l’orecchino dei contestatori e una Colt in tasca con porto d’armi perché le Brigate Rosse spingevano alla militarizzazione anche del giornalismo. È morto anche lui, molto giovane. Era una baraonda e in poche ore Scalfari si rese conto che io ero l’unico giornalista professionista che sapesse fare cose molto tecniche come le chiusure in tipografia, e così fui subito promosso redattore capo notturno con obbligo di presenza diurno. Era un gran bel giornalismo e i fatti venivano da soli a portare acqua al mulino dell’impresa. Il primo fatto fu la crisi di governo a freddo decisa da De Martino che fece cadere il governo Moro. Salto tutto fino alla presa d’atto della sconfitta elettorale bruciante (20 giugno) e al famoso Comitato Centrale nell’Hotel Midas sulla strada per l’aeroporto di Fiumicino. La Repubblica si schierò a favore di Antonio Giolitti, figlio dello storico primo ministro Giovanni, che aveva clamorosamente lasciato il Pci nel 1956 insieme a pochi intellettuali come Piero Melograni, e che era approdato nel Psi. Ma l’astro nascente era Bettino Craxi, luogotenente di Nenni, già odiatissimo e amatissimo, temuto a sinistra. Allora non si poteva sapere, ma stava per iniziare un duello titanico fra due campioni: Bettino Craxi e lo stesso Eugenio Scalfari che era appena uscito con la sua Repubblica. I due si odiavano e seguitarono ad odiarsi finché uno dei due – Craxi – morì, e io ho avuto il privilegio di ascoltare da entrambi il racconto di come andarono le cose che poi determinarono un innalzamento della temperatura politica in Italia, già rovente per conto suo. Bisogna tener conto del fatto che la politica di Enrico Berlinguer sembrava pagante: il giovane segretario comunista, scelto con accuratezza dalla vecchia guardia di Togliatti e Longo che lo avevano selezionato come il leader ideale, sembrava aver trovato la sua strada per un “eurocomunismo” occidentale che avrebbe dovuto consolidare l’autonomia dei partiti comunisti da Mosca, ma senza arrivare ad una vera rottura. Mosca non era affatto contenta, e tuttavia cercava di ostacolare questo percorso senza ricorrere a maniere drastiche come avrebbe fatto nei suoi domini nella cintura dei Paesi “satelliti”. Mosca lasciava fare e più che altro non lesinava il suo contributo finanziario annuo per la vita dei partiti comunisti. Secondo le memorie di vari protagonisti e di quella dell’ex presidente della Repubblica Cossiga, che era stato prima sottosegretario e ministro degli Interni, ogni anno un emissario del Pci si recava a Mosca con una valigetta e veniva accolto al Cremlino negli uffici di Boris Ponomariov che si occupava di queste operazioni. L’incaricato delle Botteghe Oscure consegnava la valigia e intanto beveva del buon tè o conversava con gli addetti all’ospitalità, finché Ponomariov non entrava con la famosa valigetta, si avvicinava all’emissario, gli stringeva la mano e gli restituiva il prezioso contenitore pieno di milioni di dollari americani dal momento che Mosca pagava e commerciava usando la moneta americana. La cerimonia aveva poi un suo seguito all’aeroporto di Roma dove l’emissario del Pci avrebbe trovato ad attenderlo un alto personaggio del ministero degli Interni (e lo stesso Cossiga partecipò personalmente a un paio di queste cerimonie annuali) e due agenti del Tesoro americano con il compito di controllare che i dollari non fossero falsi. L’accertamento non avveniva per strada, ma negli uffici dello Ior (Istituto Opere Religiose) ovvero la banca vaticana allora diretta da monsignor Marcinkus, il quale provvedeva al cambio dei dollari in lire che entravano nella stessa valigetta per essere trasferiti nel Palazzo delle Botteghe Oscure e di lì smistati sui diversi conti del partito. Questi dettagli, oltre ad essere cronaca vera e nota, sono importanti perché il punto fondamentale su cui si giocava la partita del PCI era uno solo: sarebbe il partito “rimasto in mezzo al guado” (copyright di Eugenio Scalfari) oppure avrebbe consumato il tanto atteso “strappo”? Anche “strappo” è una parola importante, di cui ormai si è persa memoria e significato. Gli alleati occidentali, Stati Uniti in testa come dimostrano i documenti della Cia e del Dipartimento di Stato già noti e pubblicati, facevano il tifo affinché i comunisti italiani rompessero con Mosca e si avviassero al governo. Ma a condizione di una frattura totale, perché per Usa e Nato la questione era soltanto militare e non sociale: avevano già favorito la rottura di Nenni con restituzione del Premio Stalin per la famosa “svolta a sinistra” del governo italiano, e adesso sia a Washington che a Bonn (capitale della Repubblica federale tedesca) che a Parigi, tutti facevano silenziosamente il tifo per l’Eurocomunismo e il Compromesso storico di cui Aldo Moro era di fatto il garante. E Moro era anche al governo quando il PSI di De Martino provocò una crisi inspiegabile che portò alle elezioni anticipate. All’Hotel Midas di Roma si doveva dunque svolgere un traumatico cambio della guardia. I voti determinanti per l’abbattimento di De Martino e l’incoronazione di Bettino Craxi vennero da Giacomo Mancini, il segretario socialista calabrese amico dei radicali, era stato defenestrato da De Martino al congresso di Genova del 1972 e quindi per lui era arrivata l’ora di pareggiare i conti. Molti demartiniani passarono con Craxi che fece una rivoluzione libertaria portando ad esempio Paolo Flores D’Arcais, futuro direttore di Micromega e suo acerrimo nemico, a guidare la sezione cultura del partito. Ma il vero sconfitto della rivolta interna che incoronò Craxi fu Eugenio Scalfari, che aveva tentato fino all’ultimo di far vincere il suo amico Antonio Giolitti. Da quel momento in poi fra Craxi e Scalfari fu guerra aperta e senza esclusione di colpi, mentre contro Craxi si schieravano quasi tutti i maggiorenti degli altri partiti: per primo Berlinguer che aveva inaugurato la “questione morale” come nuovo motore ideale del partito, essendosi “esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. La trionfale campagna elettorale del Pci del 1976 si svolse intorno a questo slogan: “Noi abbiamo le mani pulite…”. Ma anche nelle più sottili questioni ideologiche va sempre considerato il fattore umano, e l’odio fra Craxi e Scalfari era stato di natura molto umana. Quando Scalfari fu fatto eleggere nelle liste del PSI alla Camera per Milano (e Lino Jannuzzi a Sapri per il Senato) per esser messi in salvo da una condanna per gli articoli dell’Espresso sul cosiddetto colpo di Stato del 1964, Scalfari una volta eletto si alleò col vicesegretario del PSI Giovanni Mosca contro Bettino Craxi per essere rieletto. Ma ci fu il celebre episodio del ghisa milanese, della patente illeggibile e del “lei non sa chi sono io”, che fece perdere le elezioni a Scalfari per un pugno di voti. E quando tornò all’Espresso sicuro di poterne riprendere la direzione, si trovò la porta sbarrata dalla cosiddetta “banda dei quattro” e per questo si decise a fondare un nuovo giornale di cui aveva il progetto chiaro in testa, e che illustrò anche a me negli uffici dell’Espresso di via Po. La versione di Scalfari così come me la ha raccontata (a me e a mille altri): “Ero alla stazione centrale in attesa che arrivasse una signora, quando un vigile mi disse di spostare la mia macchina. Gli risposi che si trattava di pochi minuti ma che comunque c’era già un’altra macchina posteggiata in quello spazio. Il ghisa (vigile urbano) disse: quella è la macchina del Prefetto e può restare. Io allora gli dissi: e questa è la macchina di un deputato della Repubblica e può restare anche la mia. Allora il vigile mi chiese la patente che si era un po’ sbiadita con la sabbia del mare e mi ordinò di andare con lui al commissariato”. La versione di Craxi, per chi lo ricorda, è fatta di grandi gesti circolari e pause snervanti. La ricordo così: “Scalfari si fece beccare a dire a un vigile lei non sa chi sono io. Quello allora gli disse sono molto curioso, mi dica chi è lei e in tanto mi faccia vedere la patente. Scalfarti tirò fuori una partente scaduta e il vigile lo portò al commissariato dove per fortuna c’erano dei nostri compagni della cronaca del Corriere della Sera che mi avvertirono subito. E io dissi: cercate di farlo pubblicare. E così la mattina dopo la prima pagina del Corriere aveva un titolo basso che diceva: Eugenio Scalfari portato al commissariato dopo aver detto a un vigile lei non sa chi sono io. E così finì la sua avventura a Milano.” E così iniziò anche l’avventura di Repubblica e quella di tanti giornalisti come me che trascorsero in quella testata totalmente monarchica un bel po’ di anni. Del resto, il suo direttore e fondatore un giorno arrivò alla quotidiana messa solenne, ovvero la grande riunione redazionale di metà mattinata, lanciando con trascuratezza sul tavolo una copia del libro “Il cittadino Scalfari” di Claudio Mauri accompagnando il lancio con queste parole: “In questo libro si sostiene che io sia stato prima fascista, poi monarchico, poi liberale, poi radicale, poi socialista, poi comunista e democristiano ed è tutto vero”.

1º gennaio: a Milano viene diffuso per la prima volta il segnale di Radio Popolare

7 gennaio: il Psi ritira la fiducia al governo. Si dimette il IV governo Moro

14 gennaio: esce il primo numero del quotidiano la Repubblica

18 gennaio: a Milano dopo un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, vengono arrestati i brigatisti Renato Curcio e Nadia Mantovani

29 gennaio: la Corte di Cassazione condanna il film Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci: viene vietata la proiezione e vengono bruciate tutte le copie del film

1º febbraio: rubati al Palazzo dei Papi di Avignone 119 quadri di Picasso

30 marzo: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman vince il Premio Oscar come miglior film

1º aprile: la Camera dei deputati approva con i voti di Dc e Msi l’articolo 2 della legge sull’aborto: la pratica è considerata reato ed è ammessa solo in casi di pericolo per la vita della madre

6 maggio: terremoto del Friuli. Una serie di scosse del X grado Mercalli con epicentro a Monte S. Simeone causano 965 morti, 3000 feriti, 45000 senzatetto

17 maggio: a Torino si apre il processo contro le Brigate Rosse, ma il procedimento si blocca subito a causa del rifiuto degli imputati di nominare avvocati difensori

21 maggio: durante il Giro d’Italia muore a causa di una caduta il ciclista spagnolo Juan Manuel Santisteban

30 maggio: Adriano Panatta vince gli Internazionali d’Italia di tennis

12 giugno: Felice Gimondi vince il 59º Giro d’Italia di ciclismo

20-21 giugno: alle elezioni politiche il Pci di Berlinguer trionfa guadagnando ben 3.545.000 voti rispetto a quattro anni prima

10 luglio: a Roma viene ucciso da membri del movimento neofascista “Ordine Nuovo” Vittorio Occorsio, giudice che si occupa dell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana

29 luglio: viene emessa la sentenza di primo grado nel processo per il massacro del Circeo: ergastolo per Gianni Guido e Angelo Izzo, ergastolo in contumacia per Andrea Ghira

9 settembre: muore Mao Tse-Tung, leader della Cina moderna

14 ottobre: il nuovo presidente del Partito Comunista Cinese è Hua Guofeng.

2 novembre USA: Jimmy Carter ottiene il 51% dei voti: sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti

3 dicembre: a Cuba Fidel Castro diviene presidente del consiglio di stato e del consiglio dei ministri

11 dicembre: esce nelle sale cinematografiche il Casanova di Fellini

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

Cosa è successo nel 1976, quando il terremoto del Friuli aprì la strada a due Italie. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Fu uno di quegli anni che mandano in bestia tutti coloro che cercano di trovare un senso e una ragione nella storia. Il 1976 fu l’anno in cui morì Mao Zedong, se vogliamo anche Agatha Christie, nacque il complesso degli U2 che prima si chiamavano Feedback, e a novembre fu eletto il presidente americano Jimmy Carter ancora vivo e ultracentenario che ebbe la sfortuna (alla fine del suo mandato, nel 1980) di scontrarsi dopo alcuni anni con il nascente stato islamico uno scontro da cui gli Stati Uniti uscirono con le ossa rotte, gli elicotteri fracassati, i prigionieri derisi, mai così in basso dopo la rotta del Vietnam. Ma ancora era presto e nessuno lo sapeva. Fu l’anno di Seveso e della diossina. Seveso è una cittadina italiana in provincia di Monza. La diossina è un veleno chimico che venne liberato in quantità enormi da uno stabilimento industriale francese (l’Icmesa) a causa di un errore umano e che per la prima volta introdusse nel paesaggio italiano l’idea della morte per avvelenamento chimico globale, l’idea delle modificazioni genetiche mostruose che avrebbero fatto nascere bambini infelici, l’idea che il capitalismo con le sue maledette fabbriche altro non è che una criminale ricerca del profitto a spese della salute e dell’ambiente. Poi ci fu, già lo abbiamo accennato nella precedente puntata, il terremoto del Friuli che colpì Gemona e molte altre città di quella piccola regione il cui popolo, secondo la tradizione, discende da un insediamento di legioni romane delle quali mantenne la severa austerità e compattezza civile. Abbiamo già accennato al fatto che ancora non era emerso in tutta la sua forza, che tra il nord e il sud dell’Italia era maturato un gap di civiltà. Non si dovrebbe dire, ma si disse, e oggi io, anche perché fui uno dei tanti testimoni, posso confermarlo: fui mandato come inviato di Repubblica al terremoto del Friuli del ‘76 e più tardi all’altro terremoto, quello dell’Irpinia. L’enormità che emerse nella differenza dei comportamenti fu questa: nel Friuli tutti coloro che erano stati colpiti dalla disgrazia del terremoto si rimboccarono le maniche e piangendo in silenzio ma senza fermarsi un attimo salvarono i loro compatrioti sepolti, e quando arrivarono la protezione civile e i militari, aveva già fatto da soli, sicché la collaborazione tra uomini in divisa e quelli in borghese fu una specie di proseguimento di immediata azione civile collettiva. Ciò che vedemmo, nel terremoto irpino di quattro anni dopo fu uno spettacolo scoraggiante. La gente urlava e protestava, ma per lo più non muoveva un dito aspettando tutti seduti sui muretti che i sodati scavassero e facessero il lavoro faticoso e sporco. Così nacque La Lega Nord, da una constatazione scoraggiata dell’impossibilità di convivere con un’Italia arretrata nella coesione civile, quella eternamente disfatta e dolente ma sostanzialmente inerte del Regno delle due Sicilie. Avendo fatto in precedenza il giornalista in Calabria per anni, avendo vissuto anni a Napoli ed essendo di famiglia di origine siciliana, posso dire di conoscere abbastanza alcuni caratteri permanenti o latenti di quella parte d’Italia che chiamiamo Mezzogiorno, di cui ci è vietato in ogni caso dir male perché non è politicamente corretto. Mi prendo la responsabilità di queste cose che dico, sperando che il direttore (di origini pugliesi) non tagli con l’accetta. Fu l’anno in cui iniziò la grande spaccatura fra le due Italie, una spaccatura che sembrava riassorbita dopo l’emigrazione di massa dal Sud al Nord, come aveva raccontato Luchino Visconti in “Rocco e i suoi fratelli”. Un’altra grande spaccatura emerse con la questione dell’aborto, quando la Democrazia Cristiana finì in preda ai tormenti dovuti all’incertezza tra la fedeltà alla Chiesa, contraria a qualsiasi legge permissiva sull’interruzione della gravidanza, e la sua stessa base civile che tentennava. Dopo grandi zuffe parlamentari venne fuori una legge violentemente punitiva nei confronti dell’aborto, votata con 298 voti della Democrazia Cristiana e del Movimento Sociale neofascista, contro 286 contrari per riconfermare che l’aborto è reato “salvo in casi di gravissimo pericolo per la salute della madre”. Le grandi città del nord e del centro furono percorse da manifestazioni di massa imponenti e si raccolsero 700.000 firme per un referendum abrogativo che spingerà il Parlamento, due anni più tardi, ad approvare una legge che permetteva l’aborto. La legge passò per pochissimo voti proprio nei giorni successivi al sequestro e all’uccisione di Moro e successivamente fu confermata nel 1981 da due referendum nei quali il 68 per cento degli elettori votò a favore dell’aborto. Nel 1976 le donne che marciavano nelle strade con i cartelli che reclamavano leggi moderne per eliminare la piaga dell’aborto clandestino erano chiamate sui giornali conservatori “le puttanelle”. Abbiamo già detto delle elezioni politiche di quell’anno, vinte dalla DC, con un gran balzo avanti del partito comunista di Berlinguer, il collasso del partito socialista di De Martino il quale fu costretto ad abbandonare sostituito dal rampante Bettino Craxi. Alla vigilia di quelle elezioni Indro Montanelli disse e scrisse la celebre frase “Tappatevi il naso e votate DC”. Il rischio che si paventava alla vigilia delle elezioni, che si svolsero il 20 giugno, era quello del sorpasso da parte del Pci. Proseguiva e si alimentava intanto un clima di guerra civile con continui scontri armati, accoltellamenti, morti a destra e a sinistra. Organizzazioni extraparlamentari come Lotta Continua intervenivano con la forza per impedire ai fascisti di prendere la parola e dall’altra parte la risposta era altrettanto pesante. Fu anche l’anno in cui il futuro presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro degli Interni prima nel governo Moro e poi nel governo Andreotti (insediato con l’stensione, per la prima volta, del Pci) diventò rapidamente il nemico giurato della sinistra extraparlamentare con una formula grafica di successo: l’uso della lettera K al posto della C. Avevamo già letto sui muri “gli ameriKani” e adesso avevamo Kossiga. I fascisti uccidevano ormai quanto le Brigate Rosse. Ricordo che in uno dei miei primi servizi giornalistici di quell’anno, per Repubblica, andai all’alba a vedere il cadavere di Vittorio Occorsio, procuratore della Repubblica ucciso nella sua auto a colpi di mitra dai terroristi fascisti. Ricordo le formiche sul suo braccio e sulla sua guancia. Il sangue rappreso, la carrozzeria scossa da un trauma come il corpo del suo conducente, così stupìto e immobile da non sembrare reale. Fu uno dei tanti incontri con i giustiziati della guerriglia italiana che raramente avveniva per scontri a fuoco tra forze dell’ordine e ribelli ma più spesso, per non dire sempre, attraverso esecuzioni codarde e lungamente programmate, in cui cadevano, senza potersi difendere, magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, politici, sindacalisti, chiunque rappresentasse lo Stato o una istituzione. Era una mattanza per simboli e non una guerra di coraggiosi ribelli. Benigno Zaccagnini fu eletto segretario della Democrazia cristiana e ribattezzato col nomignolo “Onesto Zac”. Il paese aspettava che prima o poi avvenisse il sorpasso del partito comunista sulla Democrazia Cristiana che si preparava sia ad essere sorpassata e a fare alleanza col partito comunista. Negli Stati Uniti cominciarono a costruire grandi computer che costavano ciascuno milioni di dollari e che come performance non valevano la metà della metà del vostro telefonino. Erano dei bestioni lenti che sapevano soltanto accumulare dati ma indecisi su come trattarli. La IBM già aveva progettato una stampante laser. La Apple era nata in un garage di Los Angeles. Si fiutava nell’aria la rivoluzione tecnologica che sarebbe arrivata di lì a poco e di cui oggi vediamo alcuni perforanti danni e minacce come quelli degli hacker che possono disossare un sistema informatico e distruggere le prenotazioni sanitarie come accaduto al Lazio. Al cinema usci Taxi driver di Martin Scorsese con Robert De Niro (che aveva appena vinto l’oscar per Il padrino parte seconda), ed era uno dei nuovi film sugli orrori della guerra nel Vietnam, per di più compariva una ragazzina di 13 anni di nome Jody Foster che fu candidata per l’Oscar. La lira fu svalutata del 12% e tirava aria di disfatta economica. Negli Stati Uniti dove nascevano i computer e dove vinceva un presidente ultra democratico, alcuni stati tra cui il Texas e la Florida reintrodussero la pena di morte sostenendo che la moratoria aveva rivelato che soltanto la pena di morte costituisce un deterrente sufficiente per certi delitti. Questa teoria di fatto non è stata mai contestata da alcun candidato presidente americano per quanto di sinistra, compresi Obama, Bill Clinton, lo stesso Joe Biden. (L’unico che ebbe il coraggio di contrastarla fu lo sfortunato Mike Dukakis, che poi fu travolto al voto da George W. Bush). Per un breve periodo fu ripristinata la ghigliottina in Francia dove l’ultima testa cadde nel 1981. In Inghilterra non fu fatta alcuna legge per sospendere la forca ma semplicemente i tribunali smisero di comminare la pena di morte e passarono all’ergastolo. In Italia si parlava moltissimo di golpe. La parola golpe in luogo di colpo di Stato o era diventata popolarissima e prevalente dopo la presa del potere con la violenza del generale Pinochet a Santiago del Cile con gli aerei nazionali che bombardavano la casa presidenziale e il legittimo presidente Salvador Allende abbattuto a colpi di mitra (era l’11 settembre del 1973). In tutti gli ambienti militari si parlava di golpe. Di ciò che sarebbe potuto avvenire nel caso in cui i comunisti avessero preso il sopravvento. Fu l’anno in cui Luciano Violante (allora magistrato) fece arrestare la medaglia d’oro alla Resistenza Edgardo Sogno, il quale aveva realmente progettato un colpo di Stato in caso di vittoria comunista, sostenendo, come confesserà prima di morire ad Aldo Cazzullo, che la regola delle libere elezioni con i comunisti non vale perché dovunque essi le abbiamo vinte non hanno rispettato la democrazia e hanno trasformato la loro vittoria in dittatura. C’era poi sullo sfondo la guerra fredda. Di questa guerra noi tutti allora vedevamo poco. Io mi sono fatto per così dire un occhio in più quando negli anni successivi ebbi l’occasione di guidare una inchiesta parlamentare con i poteri del magistrato. Ma la lezione più eloquente che imparai in seguito sta tutta in un grosso libro tuttora reperibile su internet, che è semplicemente la collezione di tutti i verbali delle riunioni militari del patto di Varsavia (che univa a Mosca i paesi dell’est Europa) il cui tema annuale era sempre lo stesso: le forze capitaliste tentano un attacco ai paesi comunisti e immediatamente questi rispondono con un devastante contrattacco. Era quel contrattacco la chiave di volta e secondo la maggior parte degli analisti era molto solida in Unione Sovietica la corrente di pensiero che originariamente era di Yuri Andropov secondo cui l’Unione sovietica avrebbe dovuto garantirsi il controllo dell’Europa occidentale lasciando gli Stati Uniti fuori dal continente per potersi avvalere della tecnologia di cui non era in grado di far uso. Dal punto di vista del costume e delle abitudini degli italiani ricordo che d’estate si andava al campeggio si piantavano le tende si pescava il pesce da cucinare e la sera al fuoco di bivacco si beveva molto generosamente in attesa dell’alba.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1977: la guerra vera tra Br e fascisti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Settembre 2021. Nel 1977 ci sparavamo. Anche chi non era armato sapeva di avere intorno e vicino persone che portavano un’arma, Morti ammazzati a decine, Brigate Rosse in azione, i Nap (Nuclei di azione proletaria) al debutto, i fascisti in genere le prendevano ed erano più cacciati che cacciatori. Francesco Cossiga era ministro di polizia, ovvero degli Interni ed era morta con una revolverata di Stato la manifestante Giorgiana Masi. Cossiga si scriveva col Kappa. Come AmeriKani. Col Kappa. Fu l’anno in cui Luciano Lama, segretario carismatico della Cgil entrò all’Università della Sapienza di Roma per parlare al movimento studentesco e fu sommerso di fischi e costretto ad andarsene. Più che il fatto conta l’impressione del fatto: Lama fischiato dagli studenti? E che è successo? Il Partito comunista era perplesso e cercava di drenare materiale umano dal movimento per liquidarlo dopo aver scelto le sue pepite più promettenti. I socialisti del neoeletto Bettino Craxi prendevano una inaspettata linea di comprensione e analisi dell’area rivoluzionaria, Autonomia operaia e le stesse Brigate Rosse, tessendo contatti e lasciando che si formasse intorno al Psi un’area contigua e un approdo a tutta la dissidenza di sinistra. Questo atteggiamento fece imbestialire la Dc di Ciriaco De Mita e il Pci di Enrico Berlinguer, Si stava già profilando il fronte che l’anno successivo dividerà la sinistra fra i “trattativisti” e quelli contrari alla trattativa, quando Aldo Moro sarà catturato dalle Brigate Rosse e da chiunque fosse con loro. Ma il Partito Comunista paradossalmente viveva la sua epoca d’oro in Emilia e in particolare nella rossa Bologna governata da Renato Zangheri per oltre tredici anni di continuo successo amministrativo. Un successo tale da spingere gli inviati speciali delle testate giornalistiche straniere a venire a visitare il capoluogo emiliano e capire che cosa avesse di così straordinariamente vincente e diverso il “Pcb” – come veniva scherzosamente chiamato – e cioè il partito comunista bolognese. Zangheri era stato eletto sindaco nel 1970 ed era uno storico accademico in grado di ampliare le sue conoscenze e il metodo di studio alla città facendone un caso esemplare di decentramento. Il “modello Bologna” piaceva ai giovani ed era in concorrenza con le fumisterie rivoluzionarie. Con Zangheri il Pci poteva dire: noi la rivoluzione la stiamo già facendo, venite a vederci. La città scopriva il piacere della festa insieme a quello dell’organizzazione, fino al celebre concerto rock dei Clash. L’amministrazione Zangheri fu un lungo successo, ma in quell’anno particolare, torbido e insanguinato, rappresentò la miglior pubblicità per il partito anche all’estero e specialmente fra i Democrats americani che vennero a studiare il fenomeno dei comunisti italiani. Fu allora che al Dipartimento di Stato a Washinton prese forma la rivoluzionaria idea: e se favorissimo l’entrata nel governo italiano di questo genere di comunisti, liberandoci di tutti quei democristiani che ci fanno pagare il pizzo per il fatto che l’Italia è la cerniera fra Est e Ovest? Certo, era in fondo lo sviluppo desiderabile del compromesso storico ideato da Berlinguer sulla scia del colpo di Stato del generale Pinochet in Cile. Naturalmente un tale piano si sarebbe potuto attuare soltanto se Berlinguer si fosse deciso allo strappo netto e definitivo con l’Unione Sovietica. Il ragionamento non solo degli americani, ma della Nato, di Londra e di Bonn (capitale della Repubblica Federale Tedesca) era tutto fondato su un’esigenza militare: non si possono avere come alleati politici di governi nella Nato, persone in grado di passare segreti militari alla controparte nemica sovietica: prima lo strappo, poi vediamo. In campo giornalistico la neonata Repubblica di Eugenio Scalfari era l’organo di stampa di sinistra che a viva voce chiedeva “lo strappo” e l’uscita dal “guado”. Berlinguer intanto sviluppava una ideologia alternativa a quella del comunismo sovietico, puntando sulla diversità morale, quasi razziale, dei comunisti e delle loro “mani pulite”. Quest’espressone, “mani pulite” cominciò a circolare come una citazione di Berlinguer e Bologna si presentava come la vetrina dell’amministrazione intelligente, moderna, pensata a misura d’uomo, una rete di servizi “friendly”, fatti per venire incontro a ogni esigenza, un quasi paradiso. E quando i tafferugli scoppiarono proprio a Bologna, con le squadre dell’Autonomia operaia considerate l’acqua in cui nuotava il pesce brigatista, il Pci prese questa invasione nella sua cristalleria come un’aggressione insostenibile. Probabilmente dal conflitto bolognese con atti di violenza selvaggia, accoltellamenti, colpi di pistola, bastonature, attentati raduni e atti di vandalismo, si profilò definitivamente uno stato di guerra fra il Partito comunista e la sinistra movimentista. Fino a quel momento il Partito aveva cercato di cooptare e incamerare le migliori teste dei movimenti, ma adesso si vedeva il limite oltre il quale ci sarebbe stata soltanto la guerra, che avrebbe visto il Pci schierato con lo Stato, delegando l’ex partigiano pluridecorato Ugo Pecchioli alla funzione di ministro degli Interni ombra. Aggiungo una mia opinione sulla base della documentazione raccolta nella Commissione d’Inchiesta sullo spionaggio sovietico di cui fui Presidente. Per quanto ho potuto vedere, a Mosca era diventata in quegli anni una priorità sabotare il mito comunista bolognese ed emiliano, proprio perché alternativo a quello sovietico e spendibile per un passaggio del Pci in campo occidentale, come del resto aveva annunciato Enrico Berlinguer nella sua celebre intervista a Giampaolo Pansa allora al Corriere della Sera, in cui ammetteva di “sentirsi molto più sicuro sotto l’ombrello della Nato che non sotto quello sovietico”. Dunque, è lecito immaginare senza troppi sforzi che gran parte delle turbolenze di quell’anno e delle successive rivolte contro il Pci fossero ispirate e organizzate dalle centrali Kgb in Italia, benché – lo ripeto – questa è soltanto un ragionevole e fortemente indiziato, sospetto. Intanto in Francia gli intellettuali precorrevano i tempi del XXI secolo: il filosofo esistenzialista e comunista Jean Paul Sartre insieme ad un gruppo di accademici presentò al Parlamento francese una petizione per proteggere i minorenni dagli abusi sessuali in casa e sul lavoro, modificando l’età in cui un minore può dirsi “consenziente”. Erano con lui la moglie Simone de Beauvoir, Luis Aragon e molti altri. Era la prima volta che il mondo occidentale affrontava un tale tema avendo sempre considerato gli eventi interni alle mura domestiche come fatti privati e panni sporchi da lavare in casa. Simone de Beauvoir aveva contribuito molto con la sua monumentale opera Il secondo sesso a ricostruire la figura della donna intesa come persona strutturalmente altra rispetto all’uomo, i cui diritti devono essere riconosciuti e garantiti. Insomma, fu un primo grande passo in avanti. Ma erano anche i tempi in cui i comunisti, non solo francesi, si battevano come leoni contro la nascente Unione Europea. Sartre nello stesso 1977 in cui presentava la sua petizione contro la pedofilia, attaccava violentemente «l’Europa che ci presentano i signori Carter, Schmidt, Giscard e Andreotti (che) non ha alcun rapporto con l’internazionalismo proletario, è estranea all’Europa dei lavoratori che per un secolo è stata l’ideale operaio occidentale e trovo ridicolo l’entusiasmo per le elezioni europee e l’Unione economica. Alla fine, tutto si ridurrà ad un’egemonia della Germania e per un po’ della Francia, con i paesi del sud estremamente vessati e gli inglesi che saranno vinti dalla propria spocchia, pronti a farsi un mercato proprio». L’Unione europea era allora vista come fumo negli occhi dall’Unione Sovietica, almeno finché Michail Gorbaciov non tentò di agganciare le due unioni secondo una strategia che era stata inventata da De Gaulle, che vedeva un’Europa dall’Atlantico agli Urali, dunque Mosca compresa. Dunque, il mondo era ancora spaccato in due, il Pci destava grande interesse oltre che curiosità in Occidente e Bettino Craxi era ancora schierato con Israele. La Repubblica Federale Tedesca era uno Stato con molta grinta. Quando ad ottobre un commando palestinese sequestra un aereo della Lufthansa a Mogadiscio chiedendo la liberazione di alcuni uomini della banda Baader Meinhof (equivalente alle nostre Brigate rosse), da Bonn partì un gruppo di ventotto teste di cuoio del “Grenzschutzgruppe-9” che uccise tre dei quattro dirottatori, e il quarto verrà arrestato subito dopo e tutti gli ostaggi sono liberati. Ma appare chiaro che palestinesi, banda Meinhof e le nostre sigle eversive sia di sinistra che di destra, sono unite in una internazionale che include anche l’Ira irlandese e l’Eta dei Paesi Baschi. È dunque un mondo in guerra, quel tipo di guerra a bassa intensità che è conseguenza di tre circostanze: impossibilità di combattere e vincere una guerra totale con armi nucleari, presenza e politica di armamenti e finanziamento di eserciti post-coloniali o inquadrati nel conflitto mediorientale e guerra civile latente interna non solo in Italia, ma anche in Francia con Action Dirette e in Germania. Noi vivevamo in questo stato di guerra e ci avevamo fatto l’abitudine, altro che Covid.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1977

1º gennaio: terminano ufficialmente le trasmissioni di Carosello e la Rai passa al tipo di spot pubblicitari attuali

18 gennaio: a Catanzaro prende il via il processo per la strage di piazza Fontana

20 gennaio: Jimmy Carter è ufficialmente il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America

1º febbraio: hanno inizio ufficialmente le trasmissioni televisive a colori della Rai

15 febbraio: viene arrestato a Roma il bandito Renato Vallanzasca

2 marzo: in Libia, il colonnello Gheddafi annuncia la nascita della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista

7 marzo: il Partito Radicale chiede l’imputazione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone per lo scandalo Lockheed

17 marzo: esce nei cinema Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli, interpretato da Alberto Sordi, tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami

22 marzo: si dimette il primo ministro indiano Indira Gandhi

27 marzo: disastro di Tenerife. Il più grave incidente nella storia dell’aviazione civile in cui perdono la vita 583 passeggeri

2 aprile: viene arrestato il gangster Francis Turatello a Milano

30 aprile: a Buenos Aires, in Argentina, cominciano le manifestazioni pacifiche delle “Madri di Plaza de Mayo” di fronte alla Casa Rosada chiedendo l’apparizione dei loro figli rapiti dalla dittatura militare argentina

3 maggio: prima udienza del processo contro i capi storici delle Brigate Rosse. Sedici giudici popolari inviano un certificato medico per dirsi affetti da “sindrome depressiva” e perciò impossibilitati a esercitare la loro funzione

2 giugno: il Partito Radicale organizza un “sit-in” in Piazza Navona per celebrare l’anniversario del referendum sul divorzio del 1974. La polizia interviene sparando colpi di pistola: sul Ponte Garibaldi muore la studentessa Giorgiana Masi

27 maggio: Enzo Tortora presenta la prima puntata di Portobello

2 giugno: viene gambizzato dalle Brigate Rosse il direttore del Giornale nuovo Indro Montanelli

3 giugno: i brigatisti feriscono alle gambe il direttore del Tg1 Emilio Rossi

16 settembre: muore a Parigi all’età di 53 anni “la divina” Maria Callas

16 novembre: le Brigate Rosse sparano quattro colpi di pistola contro il vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno, che muore dodici giorni dopo

28 novembre: un commando neofascista uccide a coltellate l’operaio comunista Benedetto Petrone

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1978: dall’omicidio Moro all’elezione di Sandro Pertini. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Ottobre 2021. Fu l’anno della tragedia più grande: il rapimento – con la strage dei suoi agenti di scorta – e l’interrogatorio che si concluderà poi con l’assassinio di Aldo Moro, il più eminente dei “cavalli di razza” della Dc, più volte presidente del Consiglio, l’uomo che avrebbe dovuto guidare, da presidente della Repubblica, il “compromesso storico” con il Partito comunista, nella veste di garante nei confronti degli alleati della Nato. Fu poi l’anno dei tre Papi e del presidente partigiano Sandro Pertini, il quale riacciuffò un paese dilaniato dal terrorismo e dall’odio, incarnandone l’anima e vincendo alla fine del suo settennato la sua sfida. Fu un anno terribile e violento, ma con molti germi di speranza. L’Italia del 1978 era un paese ancora agricolo ma si vedeva bene che l’industrializzazione avrebbe vinto. Eravamo, insomma, a cavallo tra il prima e il dopo. E, malgrado tutto il sangue versato e il terrore diffuso, si vedeva che avrebbe vinto il dopo, un po’ come oggi con il governo Draghi che rappresenta la fine della “Guerra dei trent’anni” contro Silvio Berlusconi e quel che restava dell’Italia liberale. Anche allora si concludeva una guerra che era stata prima latente e poi insanguinata, prima che si aprisse un periodo di pace che sarebbe stato a sua volta breve, durato fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica e all’inizio di Tangentopoli e di tutti quei processi di decadimento della democrazia parlamentare che porteranno all’effimera fiammata del Movimento 5 stelle e alle furie no-vax di oggi. Era un anno, il 1978, in cui l’economia cresceva a ritmi incredibili, fino al 17%, annuo, nella quasi assenza di un debito pubblico, mentre la disoccupazione giovanile era di dieci punti più bassa di quella di oggi. L’Europa cominciava a nascere tant’è che si parlava della prima elezione di un Parlamento europeo, anche se mancava del tutto un sentimento collettivo paragonabile a quello delle grandi rivoluzioni. Infatti, non sarebbero nati gli Stati Uniti d’Europa sognati da Altiero Spinelli e dagli altri che avevano fondato l’idea di Europa con manifesto di Ventotene. Sul rapimento Moro e il suo significato, posso offrire la mia versione che in parte contrasta con quella di molti autorevoli “contributors” di questo giornale. Quando andai a Budapest per svolgere una rogatoria internazionale da presidente di una Commissione bicamerale di inchiesta, mi vidi proporre dal Procuratore generale magiaro una valigia di documenti che non ci furono poi mai consegnati, ma nei quali c’erano le prove dei collegamenti tra il Kgb, la Stasi tedesca orientale, il gruppo del terrorista Carlos che aveva stazionato con la sua banda a Budapest facendo il gradasso e progettando i suoi piani criminali e un nucleo dirigente delle Brigate Rosse, a conferma dell’ipotesi delle Br “eterodirette” di cui molto si parlò senza prove. Come è provato dai documenti della Cia e del Dipartimento di Stato desegretati e pubblicati ormai da molti anni, gli Stati Uniti erano assolutamente favorevoli all’ingresso dei comunisti nel governo italiano, purché avessero consumato lo strappo con Unione Sovietica. A tutti gli alleati stava bene la persona di Enrico Berlinguer e nessuno aveva da ridire sul fatto che l’Italia avesse una politica di sinistra. Ciò che rendeva impossibile l’ingresso del Partito Comunista nel governo era soltanto la questione militare: gli alleati della Nato e principalmente i tedeschi della Repubblica Federale e la Gran Bretagna non ne volevano sapere di condividere i segreti con i comunisti italiani ancora in stretto legame con Mosca. La guerra che non ci fu sembrava imminente perché, come si legge dai verbali delle riunioni annuali del patto di Varsavia ovvero della Nato dell’Est, una guerra fulminea e con uso di armi nucleari avrebbe dovuto portare l’Armata Rossa fino all’Atlantico espellendone gli americani e catturandone la produzione tecnologica. Quei piani erano sempre attuali e rinnovati anno dopo anno, esercitazione dopo esercitazione. Dunque, la questione militare, di cui la crisi degli euromissili fu il momento di massimo attrito, bloccava l’atteso ricambio della classe dirigente italiana che gli alleati occidentali avrebbero voluto ma che non riuscivano a ottenere. La classe dirigente italiana aveva speculato sul ruolo dell’Italia come paese cerniera fra Est ed Ovest per fare affari leciti e illeciti con il mondo radicale islamico e con quello dell’impero sovietico oltre a taglieggiare gli alleati con ricatti e dimostrazioni di disaffezione. Per quello che ho potuto ricostruire da allora, e sono passati quarantatré anni, il delitto Moro così come il tentativo di uccidere Enrico Berlinguer in Bulgaria fu la risposta sovietica al progetto di compromesso storico e il rapimento costituì il più grave vulnus che fosse mai stato inflitto alla Repubblica italiana prima del delitto Falcone. A via Fani, un solo killer che fu udito da una testimone esprimersi in una lingua straniera, uccise tutti e cinque gli uomini di scorta. Sono passati dunque quarantatré anni da allora, me ne rendo conto oggi, il che vuol dire che soltanto coloro che hanno un’età prossima alla sessantina possono averne un vago ricordo di quell’epoca e di quei fatti, mentre soltanto i settantenni e i vecchi ne hanno un ricordo netto. Gli italiani di oggi non possono dunque ricordare e rivivere l’angoscia provocata da quel delitto ed è veramente difficile trasmettere oggi quelle emozioni di allora che appartenevano ad un mondo totalmente scomparso le cui conseguenze sono attualissime. Durante le lunghe settimane che passarono dalla cattura alla morte di Moro, si formarono due partiti: uno favorevole alla trattativa (socialisti, radicali, gruppi extraparlamentari e liberali) e uno detto “della fermezza” (Pci e Dc) che di fatto voleva Moro morto. Ci dividemmo con odio. Io fui per la trattativa e sottoscrissi un documento di Lotta Continua perché si salvasse Moro e sperimentai la prima messa al bando. Ricordo Bettino Craxi nel suo impermeabile sbottonato che spiegava ai giornalisti le ragioni del “primum vivere” e Marco Pannella, tutti per la trattativa. La trattativa ci fu, fu segreta, drogata dalle bugie e dai segreti di Stato e Moro, del resto, era stato già condannato a morte fin dall’inizio. La violenza terroristica allora era al suo massimo, le Brigate Rosse, come anche le brigate nere dei Nar erano all’apice della notorietà internazionale. Le azioni dei terroristi di fatto rappresentavano quelle di uno Stato dentro lo Stato, una rivoluzione che sembrava imminente ma che non venne mai e tuttavia si annunciava continuamente con una catena di omicidi, delitti di una rara codardia compiuti invariabilmente dopo lunghe indagini sulle vittime affinché i loro carnefici potessero assassinarle indisturbati facendola franca. Il mio amico Piero Bellanova, uno dei maestri della psicanalisi italiana dell’epoca, mi raccontò che molti brigatisti chiesero agli psicoanalisti di essere curati per il senso di colpa che provavano dopo aver compiuto i loro delitti. E gli psicanalisti erano costretti a rifiutare queste richieste non soltanto per motivi legali e morali ma perché non potevano far nulla contro il rimorso del male compiuto, ma potevano curare soltanto i sensi di colpa, che sono la fantasia di un male che non è stato realmente inferto. Era un’Italia grigia, eccitata, con la pistola in tasca sia per difendersi che per offendere. Ed erano anni in cui la guerriglia di destra trovava molte occasioni per legarsi a quella di sinistra formando dei sodalizi che ricordavano il patto sovietico nazista dell’agosto 1939. Erano gli anni dei “nazi-maoisti” e si respirava questa strana aria di collusione tra forze che esplicitamente ripudiavano la democrazia (parlamentare, borghese e occidentale) e si ritrovavano dalla stessa parte. L’Italia contadina si stava estinguendo, Ermanno Olmi proprio in quell’anno realizzò L’albero degli zoccoli, un tributo all’Italia dei discendenti dei servi della gleba con le loro facce antiche e i loro rituali eterni. Era un mondo che scompariva di fronte all’industrializzazione ed era anche il mondo in cui Grease era il film che registrava gli incassi più alti. Fu l’anno in cui la legge Basaglia impose la chiusura dei manicomi con una legge molto discutibile perché funziona bene nelle piccole città ma malissimo in quelle grandi imponendo di fatto alle famiglie di persone con disagi psichici la cura dei loro parenti malati con un alto tasso di violenza interna, omicidi e suicidi che furono un altro prezzo pagato alla chiusura delle cliniche psichiatriche che in tutti i paesi del mondo civile esistono, sono moderne e accettabili e non somigliano minimamente a quella specie di Marat-Sade (un film di successo di quell’epoca) che fu Santa Maria della Pietà a Roma e tutti gli altri infami lager psichiatrici. Fu l’anno in cui l’aborto fu regolato per legge e diventò una conquista delle donne e fu anche l’anno in cui iniziò a funzionare davvero il servizio sanitario nazionale. La morte di Aldo Moro, che era destinato a salire al Quirinale per diventare presidente di un Italia in cui sarebbe dovuto avvenire il grande ricambio della classe dirigente, costrinse i partiti a cercare un sostituto e Bettino Craxi per una volta ebbe successo nel proporre il più importante dei socialisti che avevano guidato la resistenza e la lotta al fascismo. Quell’uomo fu ovviamente Sandro Pertini, uomo che conoscevo benissimo da quando ero redattore dell’Avanti e lui veniva spesso a richiedere pezzi che mai avrebbe pagato da pubblicare sul Lavoro nuovo di Genova. Pietro Nenni lo prendeva in giro spesso dicendo «Il nostro Sandro ha una testa fatta di solo osso” ma l’icona “Pertini, il partigiano Presidente” era perfetta: asciutto, magro, con una bella pipa, un viso con zigomi solidi e quando andò al Quirinale volle un alloggio che io visitai accompagnato da Francesco Cossiga molti anni dopo, che fosse il più possibile simile alla sua cella di prigioniero politico di Mussolini. Nell’ultima fase della Italia fascista gli oppositori eminenti in prigione erano stati Antonio Gramsci, Sandro Pertini e Giancarlo Pajetta. Il suo alloggio consisteva in una stanza spoglia con un letto di ferro, un tavolo di legno, una sedia, un piccolo armadio e una lampadina che pendeva dal soffitto con un lungo filo elettrico. Pertini aveva avuto un violento alterco con la madre, un alterco epistolare ma egualmente acceso quando scoprì che lei aveva chiesto la grazia ma non solo per suo figlio. Essere prigioniero per patire era il più grande vanto di uomo intransigente e sapeva rafforzare questa sua immagine con il racconto dei giorni convulsi in cui lui inseguiva a Milano Mussolini su e giù per le scale dell’Arcivescovado con la pistola in tasca per giustiziarlo. Pertini per la prima volta parlò pubblicamente delle trame e degli intrighi dei servizi segreti sovietici davanti a un Paese del tutto ignaro. Si conoscevano le trame vere o supposte della Cia americana, delle spie fasciste, i massoni, i nazisti tedeschi che ancora proliferavano nel Bnd il servizio segreto della Repubblica federale ma non sapevano nulla della polizia e dello spionaggio sovietico. Pertini tenne insieme un Paese sull’orlo della disfatta che sarebbe imploso se non avesse avuto una guida come la sua, fatta di parole secche, talvolta brusche, ma molto affascinanti e la cui forza si trasmetteva per contagio. Dei tre Papi che si succedettero in quell’anno diremo nella prossima puntata.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1978:

7 gennaio: a Roma si consuma la strage di Acca Larentia in cui due militanti missini, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, vengono uccisi durante l’assalto a una sezione del partito in via Acca Laurentia (quartiere Appio). Poco dopo i carabinieri uccidono, nella ressa che segue al duplice omicidio, Stefano Recchioni, altro esponente missino.

25 gennaio: in Spagna, l’ex-sindaco franchista di Barcellona e sua moglie vengono assassinati. Sono stati uccisi da una bomba a pressione applicata al petto dell’uomo con un nastro adesivo.

11 febbraio: la Cina proibisce la lettura delle opere di Aristotele, Shakespeare e Charles Dickens.

21 febbraio: a Città del Messico alcuni operai delle linee elettriche si imbattono in quelle che si scopriranno essere le rovine del Templo Mayor.

1º marzo: a Corsier-sur-Vevey, in Svizzera, le spoglie di Charlie Chaplin vengono trafugate dal cimitero in cui è sepolto, a scopo di estorsione.

14 marzo: in Libano le forze armate israeliane invadono il Libano dando il via all’Operazione Litani.

16 marzo: a Roma, in via Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e uccide i cinque uomini della sua scorta.

1º maggio: in California la DEC invia la prima email di spam (messaggio commerciale indesiderato).

9 maggio: viene ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro nel baule di una Renault 4 rossa in via Caetani, una laterale di Via delle Botteghe Oscure.

9 maggio: viene assassinato Peppino Impastato.

17 maggio: il corpo di Charlie Chaplin viene ritrovato nei pressi del Lago di Ginevra.

8 luglio: il socialista Sandro Pertini viene eletto presidente della Repubblica Italiana al 16º scrutinio.

25 luglio: nasce Louise Brown, la prima “bimba in provetta” mediante la procreazione assistita (o fertilizzazione in vitro).

28 settembre: muore Papa Giovanni Paolo I dopo soli 33 giorni di pontificato.

23 dicembre: viene approvata la legge che istituisce il “Servizio Sanitario Nazionale”.

27 dicembre: la Spagna diventa una democrazia dopo 40 anni di dittatura.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1978: l’anno dei tre Papi, dell’omicidio Moro e di Carlos lo sciacallo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Novembre 2021. Ancora nessuno lo conosceva, ma il giovane Ali Agca, che il 13 maggio 1981 avrebbe sparato al papa Giovanni Paolo II mancando di pochi millimetri la sua aorta, dalla Turchia si trasferì a Beirut per un corso di addestramento militare organizzato dall’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat. Oggi i nomi dei grandi terroristi di allora non fanno più effetto perché bisogna avere una sessantina d’anni per ricordare chi fosse Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, o anche Carlos lo Sciacallo, il quale si allea con Abu Nidal mentre Gheddafi fa piazzare bombe in giro, specialmente sugli aerei, ma anche nei locali notturni. Vale la pena tenerne nota considerando che siamo a due anni dalla tragedia di Ustica. E così in questo anno di transizione violenta si registra l’esplosione del Boeing Francoforte-New York su Lockerbie (275 morti), il volo di linea Uta Brazzaville-Parigi esploso sul Niger (200 morti), la bomba nel locale di Berlino Ovest frequentato da militari americani, per non parlare degli assassinii di dissidenti libici all’estero (Italia compresa) né dei finanziamenti a gruppi terroristici di ogni colore e tendenza, né dell’appoggio al gruppo Abu Nidal, con cui Carlos aveva stretto alleanza. Gheddafi agiva ormai con tratti di follia egocentrica: nel corso di un’intervista spettacolarmente litigiosa con la giornalista Oriana Fallaci a urlare “I am the gospel”, “Io sono il Vangelo”. Gheddafi era allora circondato da bellissime soldatesse che indossavano uniformi da circo equestre. In Francia, il giudice Jean-Louis Bruguière, che otterrà alla fine della sua carriera due condanne all’ergastolo per Carlos lo Sciacallo, decise di mettere sotto inchiesta la galassia dei gruppuscoli sedicenti marxisti-leninisti, armate rivoluzionarie, anarchiche e simili, che negli ultimi trent’anni avevano colpito la Francia, anche durante il governo socialista con mezzo migliaio di attentati tutti puntualmente attestati dagli archivi della Stasi, il triste e famoso servizio segreto della Repubblica Democratica Tedesca che usava il gruppo di Carlos con parecchi italiani. Quando io svolsi il ruolo di presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta, scoprii una quantità enorme di quei rapporti che erano finiti nel retrobottega dei nostri servizi segreti e anche di qualche giudice molto distratto. Giorgio Bocca, grande giornalista inviato di punta di Repubblica scriveva che «la minaccia di golpe autoritario tra il 1965 e il 1970 è più forte, più reale che il suo opposto, la rivoluzione proletaria». Nel suo saggio Il terrorismo italiano: 1970-1978, ricostruì i legami tra il fondatore delle Brigate Rosse Curcio con Feltrinelli e i suoi viaggi a Cuba per incontrare Fidel Castro e come, grazie alle relazioni internazionali di Feltrinelli, stabilì i primi rapporti con la Raf (L’esercito rosso tedesco) e con la formazione “Gauche Proletarienne francese. Vladimir Bukovskij, un importante dissidente sovietico rifugiato a Londra, quando poté spulciare gli Archivi segreti di Mosca, scrisse che «in un rapporto del 1978 il leader sovietico Jurij Andropov, affrontò seriamente il tema dell’elezione a papa del cardinale Wojtyla come parte di un complotto internazionale per staccare la Polonia dal blocco sovietico». Gli americani furiosi per l’uccisione di Moro sbatterono la porta in faccia al Partito comunista italiano. Il Dipartimento di Stato, dopo aver richiamato per consultazioni l’ambasciatore in Italia Richard Gardner, emise un comunicato in cui si diceva: «L’atteggiamento del governo statunitense nei confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, compreso quello italiano, non è in alcun modo mutato. I leader democratici devono dimostrare fermezza nel resistere alla tentazione di trovare soluzioni tra le forze non democratiche». Fino a quel momento avevano dato carta bianca a Moro, che all’assemblea dei gruppi parlamentari della Dc era riuscito a far approvare la costituzione di una maggioranza programmatica e non politica che comprendeva anche il Pci. Moro aveva contrattato con il Pci il primo passo del compromesso: i comunisti avrebbero accettato di fare parte della maggioranza del nuovo governo, ma senza ministri e con presidenze di Commissioni e di un ramo del Parlamento, senza accesso alla stanza dei bottoni strategici. Così era nato il governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti quando Aldo Moro fu rapito il 16 marzo, giorno della nascita del nuovo esecutivo, per essere trattenuto per quasi due mesi sotto interrogatorio e infine assassinato il 9 maggio del ’78 nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, una strada che si trova a metà delle due casemadri di via delle Botteghe Oscure del Partito comunista e piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana. Il cinque giugno, travolto da una campagna di stampa e sospetti giudiziari, il presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimise. Molti anni dopo lo intervistai sul suo letto di morte insieme alla moglie Vittoria e mi disse con grande pena come fosse stato incastrato dalla campagna orchestrata durante l’inchiesta sullo scandalo delle tangenti connesse con l’acquisto di aerei militari della casa aeronautica americana Lockheed. Disse che la campagna aveva uno scopo molto preciso: eliminarlo dal Quirinale per permettere l’elezione di Aldo Moro al suo posto. Quando Moro fu ucciso, mi disse, la campagna proseguì con la stessa volenza con cui era cominciata, perché ormai era inarrestabile e tutti non facevano altro che consigliargli di cedere e andarsene. L’otto luglio Sandro Pertini fu eletto presidente della Repubblica, indicato da Craxi come candidato della sinistra – proposta respinta da Pertini – e poi votato dall’intero “arco costituzionale”. Pertini fu il primo a parlare delle violente intrusioni dei servizi segreti sovietici in Italia. Fu uno dei pochi punti su cui Pertini e Bettino Craxi erano d’accordo e gli accenni alla superpotenza sovietica furono considerati allora molto imbarazzanti a sinistra. In agosto, sull’Avanti! Bettino Craxi denunciò i “collegamenti internazionali del terrorismo”. Aldo Moro era stato assassinato da poco e Craxi si chiedeva se fosse stato ucciso soltanto per decisione delle Br, oppure perché la sua condanna era stata ratificata altrove. Craxi scrisse che esistevano “indicazioni sufficienti” per affermare che Aldo Moro era nel mirino del terrorismo internazionale. Il primo ottobre i reparti speciali antiterrorismo comandati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa entrarono nell’ex covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano. La brigatista Nadia Mantovani, arrestata insieme a Lauro Azzolini e a Franco Bonisoli, nel corso del blitz era stata delegata dalle Br a studiare il carteggio scaturito dal sequestro di Aldo Moro. Il capitano Umberto Bonaventura disse in seguito in Commissione Stragi: «Il primo ottobre mi trovavo in via Olivari… dopodiché mi reco in Via Monte Nevoso, dove comincia la perquisizione. Mi reco in sede dove un collega mi informa che sono state ritrovate delle carte di Moro. Ne parlo e me le faccio mandare. È chiaro che il generale Dalla Chiesa le ha viste e le avrà senz’altro portate a Roma. Facciamo delle fotocopie, le diamo al generale Dalla Chiesa, e poi questo materiale ritorna nel covo per fare la verbalizzazione». Si disse che le carte originali non ritornarono tutte ma che una parte fu messa in sicurezza dal generale. Il 16 ottobre il cardinale di Cracovia Karol Wojtyla viene eletto Papa e sceglie il nome di Giovanni Paolo II. Prima di lui, il 26 agosto, era stato eletto un altro papa, Albino Luciani col nome di Giovanni Paolo I, ma il 28 settembre era stato trovato morto nel suo letto. Fu allora che le cose cominciarono a mettersi veramente male per il blocco sovietico. Wojtyla era stato un prete resistente all’occupazione nazista, affascinante attore e prete popolarissimo, connesso con i rappresentanti operai del sindacato semi clandestino Solidarność. Nei verbali del Comitato Centrale del Pcus, resi pubblici negli anni Novanta, si legge una raccomandazione affinché fossero adottate tutte le “misure attive” nei confronti del nuovo papa, affinché non scardinasse il rapporto fra sovietici e polacchi. Tra i firmatari c’era anche Michail Gorbaciov, che sarà l’ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1979: dai carrarmati sovietici a Kabul alla caduta di Pol Pot. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Novembre 2021. Il mondo camminava con tutta la sua umanità verso un assetto che sarebbe stato quello della fine della guerra fredda e l’inizio di nuove ere sempre più convulse, come quella dei nostri giorni che spesso ci asteniamo dall’interpretare. Stati Uniti e Cina fecero accordi che stabilivano una priorità per entrambi in funzione antisovietica e l’Urss sentendosi circondata invase l’Afghanistan poco prima di Natale. I carri sovietici a Kabul, con rovesciamento di governo e inizio di dieci anni di guerriglia afghana alimentata dagli americani per dare filo da torcere a Mosca. Fu così che questi strani personaggi che imparammo a conoscere – i Mujaheddin – diventarono popolari. In Italia nacque RaiTre per il Partito comunista: l’assetto era perfettamente lottizzato e anche bilanciato: il Pci che fino a quel momento era stato tenuto fuori dal governo diretto della Rai, diventò titolare di un’intera rete televisiva. RaiUno restava saldamente demo cristiana, Rai Due altrettanto saldamente socialista anzi craxiana e una gentile signorina molto sexy apparve sullo schermo per avvertire che d’ora in poi ci sarebbe stato questo piacevole terzo incomodo, RaiTre. Il telegiornale della nuova rete fu inizialmente diretto da Agnes ma la personalità più caratteristica e caratterizzante fu quella di Sandro Curzi, vecchio giornalista comunista dall’età di quattordici anni, un sindacalista che avevamo imparato a conoscere nelle redazioni perché veniva a illustrare con il suo smisurato impermeabile, lo stato dell’informazione. Il suo Tg3 fu ribattezzato “Tele-Kabul”, qualcosa di rovesciato rispetto a Radio-Londra, perché Curzi aveva intenzione di rompere gli schemi e quando verrà il momento della caduta del muro di Berlino, riuscì ad appropriarsi di quell’evento di per sé “anticomunista” e farne un cavallo di battaglia di sinistra. Ma questo accadrà dieci anni dopo, quando anche il corpo di spedizione sovietico in Afghanistan se ne tornerà sconfitto e umiliato, in un Paese- l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche – destinato a finire di lì a pochi anni. La Terza Rete della Rai diventerà gradualmente un grande laboratorio guidato da Angelo Guglielmi, uno degli intellettuali del “Gruppo 63” e questo fu un notevole rimescolamento di carte televisive, con un elemento costante. In fondo, anche oggi si può vedere che il Tg1 non è più grillino con grande malumore di Conte e il Tg2 è pallidamente leghista, ma il Tg3 e la rete sono e restano i rappresentanti dell’area di sinistra dominata allora dal Pci ed oggi dal Pd. I morti ammazzati furono ancora moltissimi: gli scontri fra neofascisti e gruppi armati di sinistra lasciavano cadaveri sulle strade mentre proseguivano anche le vigliacche esecuzioni con un colpo alla nuca delle Brigate Rosse o di Prima Linea, come quello che uccise il giudice Emilio Alessandrini che indagava sulla pista fascista di piazza Fontana. A proposito della strage di piazza Fontana, in quell’anno ci fu una prima sentenza che sembrava definitiva e non lo fu, ma che condannava i soliti Freda, Ventura (che riuscì a evadere e fu poi riacciuffato in Argentina) e Guido Giannettini. Assolti l’anarchico Mario Merlino e Marco Pozzan. Ma altre sentenze rovesciarono il verdetto fino a una estenuazione dell’attenzione pubblica che nel frattempo aveva dimenticato piazza Fontana e quel tremendo 12 dicembre del 1969 quando per la prima volta dai tempi dell’occupazione tedesca era avvenuta una strage di civili in un pomeriggio avanzato nella filiale della Banca dell’Agricoltura a Milano. Il primo febbraio l’ayatollah Khomeini lasciò Parigi che lo aveva ospitato per oltre dieci anni e sbarcò a Teheran accolto da folle deliranti che pensavano di aver conquistato la libertà dopo la cacciata di Reza Pahlavi. La dittatura di Khomeini e degli altri ayatollah mostrò al mondo occidentale qualcosa che ancora non aveva mai visto: un regime autoritario religioso sciita, cioè nemico dell’altra metà dell’Islam che è sunnita, come era ad esempio l’Iraq di Saddam Hussein con cui il nuovo Iran ingaggerà una guerra estenuante e sanguinosissima durante la quale il dittatore iracheno farà largo uso di gas letali. Sparisce in un attimo la Teheran moderna delle impiegate in minigonna dei tempi dello Shah e comincerà la repressione contro le donne costrette a indossare il velo e il burka che lascia visibili soltanto gli occhi. Il mondo faceva anche i conti con le scorte petrolifere perché il nuovo regime esercita un potere militare sul Golfo Persico da cui transitavano e transitano le petroliere che portano milioni di tonnellate di rifornimenti petroliferi in Occidente e fu subito ansiosamente l’apertura di un nuovo fronte: non più e non solo quello fra capitalisti americani e comunisti sovietici, ma quello con gli islamici. E neppure tutti gli islamici, ma solo quelli fedeli alla tradizione del cognato Alì del Profeta. L’Urss si era gettata in un certo senso a capofitto nel primo conflitto mondiale di carattere etnico e religioso attaccando l’Afghanistan che è in prevalenza sciita e dunque con una popolazione che allora come oggi guarda a Teheran più che alla Mecca. Tutto ciò era totalmente nuovo per il mondo occidentale che aveva pochissima confidenza con le diverse culture ed etnie di religione islamica. L’ayatollah Khomeini durante i quindici anni trascorsi in un compound parigino protetto dallo Stato francese, aveva spiegato in decine di interviste il carattere autoritario religioso della dittatura che avrebbe instaurato una volta rientrato nel suo Paese e dunque nessuno poté sentirsi davvero sorpreso. Tuttavia, la sorpresa fu egualmente enorme e ben presto sarebbe arrivato il momento della resa dei conti fra Iran khomeinista e gli Stati Uniti d’America, e il primo round andò nettamente a favore di Teheran, con la crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana e il maldestro tentativo del presidente americano Jimmy Carter di risolvere la situazione con un colpo di mano miseramente fallito. Dunque, dopo le guerre fra Israele e i Paesi confinanti con lo Stato ebraico, adesso sia l’Occidente filoamericano che l’Oriente filosovietico si trovavamo a fare i conti con una realtà che avrebbe pesato sempre di più sullo scenario internazionale. In Italia a marzo termina il processo per lo scandalo Lockheed, di cui si è persa ormai traccia nella memoria collettiva, che invece quarantadue anni fa fu quasi travolta da una storia di tangenti e imbrogli che portarono alle dimissioni del presidente della Repubblica Leone su cui gravava il sospetto – mai dimostrato – di essere il misterioso “Antilope cobbler” (il ciabattino o il massacratore di antilopi) secondo una indicazione in codice di uno dei personaggi americani della trattativa che incluse in molti Paesi d’Europa e del mondo delle stecche destinate ai politici che facilitarono il contratto. Lo scandalo stroncò anche la carriera del leader democristiano Luigi Guy – totalmente innocente ma dato per due anni in pasto agli attacchi giornalistici e politici – e il segretario del Partito Socialdemocratico Mario Tanassi che fu condannato a un paio d’anni di servizi sociali. Ricordo di averlo intervistato all’inizio dello scandalo e Tanassi mi disse che sospettare di lui equivaleva a sospettare il papa di essere un molestatore di bambini. Il curioso paragone fece il giro del mondo e non giovò alla sua causa. Comunque, lo scandalo Lockheed, legato all’acquisto di alcuni aerei americani militari da trasporto Hercules, richiese la formazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Mino Martinazzoli che sarebbe diventato un giorno il segretario della Democrazia Cristiana, l’ultimo. Diventammo amici – io ero uno dei giornalisti di Repubblica che avevano seguito la vicenda fin dall’inizio – perché condividevamo la passione per il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein e del suo “Tractatus Logico-philosophicus”. Il Pci schierò uno dei suoi più onesti intellettuali, Ugo Spagnoli. Fu quella una battaglia durissima che anticipò la crisi della Repubblica prima ancora che cadesse il sistema basato sugli equilibri della guerra fredda. La vicenda giudiziaria italiana era peraltro figlia di quella americana: negli Stati Uniti era stata istituita un’altra Commissione di indagine congressuale sulle stesse vicende, guidata dal senatore Frank Church, che a sua volta era il seguito o lo sviluppo di un’altra inchiesta sulle malefatte della Cia, guidata dal senatore Pike e che già aveva messo a sconquasso il campo dei servizi segreti in tutto il mondo. L’inchiesta giudiziaria che aveva viaggiato parallelamente a quella parlamentare si era chiusa con un punto interrogativo: era davvero Giovanni Leone – stando al suo cognome – quel “divoratore di antilopi”, citato in un rapporto segreto americano? Ebbi la ventura di intervistare per ultimo Giovanni Leone poco prima della sua scomparsa per La Stampa e l’ex Presidente, profondamente traumatizzato ancora a molti anni di distanza mi giurò di non aver saputo mai nulla della storia di quegli aerei e mi ricordò quanto non avesse bisogno di farsi concedere mance dai fornitori stranieri per un tenore di vita che aveva raggiunto da molto tempo con i suoi mezzi di grande avvocato napoletano, prima ancora che come Presidente prima della Camera e poi della Repubblica. Io stesso ero stato uno dei giornalisti che, sia pure indirettamente, aveva fatto parte della campagna che specialmente l’Espresso e la Repubblica avevano condotto contro di lui con il massimo spiegamento di forze giornalistiche e confesso che provai un grande imbarazzo e per lui una pena profonda perché credevo alle sue parole. Pile di teschi a milioni: le foto invasero televisioni e giornali e settimanali rotocalco: il più feroce regime del mondo, quello dei Khmer rossi in Cambogia venne deposto con l’intervento armato della Repubblica del Vietnam e del suo esercito regolare che cacciano Pol Pot – in testa alle classifiche mondiali dei peggiori assassini di massa insieme a Stalin e Hitler. Ma di questo ed altro parleremo nella seconda puntata dedicata a questo anno di grandi eventi e impreviste trasformazioni.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1979

7 gennaio: Cambogia, dopo quattro anni di dittatura il regime comunista dei Khmer rossi di Pol Pot viene deposto dalle truppe vietnamite

9 gennaio: a Roma un commando neofascista irrompe negli studi di Radio Città Futura, ferisce a colpi di pistola cinque conduttrici e dà fuoco ai locali

16 gennaio: Giovanni Ventura, imputato per la strage di Piazza Fontana, evade: sarà arrestato in Argentina in agosto

24 gennaio: a Genova le Brigate Rosse uccidono l’operaio-sindacalista Guido Rossa

29 gennaio: Milano, un commando di Prima Linea uccide il giudice Emilio Alessandrini

2 febbraio: il bassista dei Sex Pistols, Sid Vicious, viene trovato morto per overdose a New York

18 febbraio: Sahara, nevica per mezz’ora nel deserto del Sahara

23 febbraio: Catanzaro, si conclude il processo per la Strage di Piazza Fontana: condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini; è riconosciuta l’inconsistenza della pista anarchica con l’assoluzione di Pietro Valpreda. Assolti Marco Pozzan e Mario Merlino

4 marzo: le immagini inviate da Voyager I mostrano che Giove è circondato da un anello

26 marzo: trattato di pace fra Egitto e Israele

4 maggio: Regno Unito, vittoria elettorale dei conservatori di Margaret Thatcher, prima donna ad occupare la carica di primo ministro

20 giugno: Roma, la comunista Nilde Iotti è la prima donna ad essere eletta Presidente della Camera dei deputati

1º luglio: viene immesso in vendita in Giappone dalla Sony il primo lettore stereo portatile, il Walkman

16 luglio: Iraq, Saddam Hussein diventa presidente della repubblica

4 agosto: Roma, formazione del primo governo Cossiga, composto da DC, PSDI e PLI con l’astensione di PSI e PRI

27 agosto: rapiti in Sardegna Fabrizio De André e Dori Ghezzi

12 settembre: Pietro Mennea stabilisce il record del mondo nei 200 metri piani con il tempo di 19”72

25 settembre: il magistrato Cesare Terranova viene ucciso a Palermo insieme al maresciallo Lenin Mancuso

6 ottobre: Papa Giovanni Paolo II visita gli Stati Uniti

9 dicembre: l’Oms dichiara eradicato il Vaiolo

22 dicembre: liberato Fabrizio De André (Dori il giorno precedente) dall’Anonima sequestri sarda

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1979, l’anno della guerra dell’Islam all’Occidente. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Dicembre 2021. A Teheran il 10 febbraio 1979 la guardia imperiale dello Scià attacca i cadetti dell’aviazione schierati con gli islamici e fa un massacro. Subito dopo gli insorti contrattaccano la Guardia imperiale e il primo ministro Baktiar, dopo la resa fugge in esilio. Immediatamente si forma una specie di legione volontaria di agenti islamici che cercheranno di farlo fuori a Parigi e il loro arresto da parte della polizia francese provoca rappresaglie islamiche. Intanto le cose precipitano anche in Afghanistan dove l’invasione sovietica provoca catene di azioni folli di agenti segreti e soldati di ventura e ancora rappresaglie e delitti: l’unica logica di questi anni è l’assassinio, il capro espiatorio, il martirio, la messa a morte, la minaccia di altri delitti e il 13 febbraio anche l’ambasciatore americano a Kabul è liquidato in un attacco. Il mondo occidentale fatica a capire di essere nel mezzo di un macello di cui pure è responsabile. Perché la Francia ha ospitato Khomeini e lo ha spedito a Teheran? Perché gli americani cedono sia in Iran che in Afghanistan? E in Italia si susseguono come del resto in Libia e in Spagna riunioni di tutti i gruppi rivoluzionari, mercenari e patrioti, infiltrati e spie, grande traffico di armi e grandi partite a poker con le teste degli ostaggi. Fra il 16 e il 20 febbraio sono fucilati in Iran otto generali dello Scià. E pochi giorni dopo, il 28, scoppia una guerra aperta fra i due Yemen, quello del Nord e quello del Sud. Ma la partita vera si sta giocando sul fronte arabo-israeliano: l’Egitto di Anwar al-Sadat accetta i negoziati con Gerusalemme e si prepara la prima vera pace per lo Stato ebraico, ma Sadat la pagherà con la propria pelle. E dunque il 16 marzo Anwar al-Sadat e Menachem Begin firmano la pace fra Egitto e Israele sotto gli auspici di Jimmy Carter e la straordinaria cerimonia è trasmessa in mondovisione. Secondo gli accordi, Israele caccerà dal Sinai tutti i coloni che si erano affrettati a occupare terre e costruire case, per restituire il fecondo deserto all’Egitto: lo stesso deserto che i carri armati di Moshe Dayan avevano disceso nella loro vittoriosa controffensiva minacciando di arrivare fino al Cairo. È previsto uno scambio di ambasciatori e una certa autonomia per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania entro il 1985. Ma i venti della guerra latente che è sempre pronta a esplodere e che per fortuna non esplose soffiano ancora più forte. L’Urss di Breznev si sente circondata, vede come imminente lo schieramento degli euromissili occidentali in risposta allo schieramento dei suoi Ss-20 e il 17 marzo raduna nel Mediterraneo la più grande flotta dai tempi della guerra: dieci unità fra cui le portaerei Minsk e Kiev, più l’incrociatore Tashkent e la nave da sbarco Ivan Rogov. Negli Stati Uniti il presidente Jimmy Carter sembra colto alla sprovvista e non sa come reagire, ma la Casa Bianca è sia irritata che spaventata, Intanto in Iran procede la rivoluzione che non è solo politica ma culturale e religiosa con un bagno di sangue uno dopo l’altro. Il 19 marzo le truppe iraniane fanno 179 morti fra gli indipendentisti del Kurdistan. Israele si allarma perché vede consolidarsi il potere di un nuovo grande nemico dove prima aveva un grande amico e decide di preparare piani che non ha mai smesso di aggiornare. Israele ha bisogno di chiudere in fretta il capitolo egiziano e così il 26 marzo comincia a evacuare il Sinai mentre intanto soffia un vento limaccioso di unità musulmana contro l’Occidente, tanto che anche la Libia di Gheddafi si autoproclama “Popolare” con un referendum che la consacra repubblica islamica. È un’altra sconfitta per gli occidentali. Durante la cerimonia per consacrare il nuovo stato islamico, alla presenza di Gheddafi, oltre che del premier maltese Dom Mintoff, gli inglesi abbandonano Malta ammainando la bandiera da forte sant’Angelo. La Nato chiude ogni rapporto: si sta creando un nuovo fronte che comprende alcuni gruppi palestinesi, i Paesi che condannavano l’Egitto, i Fratelli Musulmani che hanno il vento in poppa e il nuovo Iran fondamentalista con evidenti intenzioni egemoni nella regione. Il 31 marzo Khomeini supera a gonfie vele il referendum popolare che aveva indetto per ottenere una conferma a valanga e il primo aprile viene proclamata la Repubblica islamica dell’Iran. L’Occidente reagisce convulsamente: la Nato vuole mostrare i muscoli, più ancora degli americani e fra il 12 e il 13 maggio viene lanciata l’esercitazione Nato di Napoli “Dawn Patrol 79” con cento navi e 400 aerei di Italia, Turchia, Stati Uniti, Grecia, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo. Partecipa massicciamente anche la Francia che non fa parte della Nato e due giorni dopo viene deciso a Bruxelles un aumento delle spese militari del 3 per cento annuo. Tutti percepiscono il vento di guerra e la linea calda fra Cremlino e Washington viene fortemente potenziata. Risultato: il 15 giugno Breznev e Carter firmano a Vienna il trattato Salt II per la limitazione delle armi nucleari, di scarso valore effettivo, ma serve per confermare davanti al mondo che nessuno ha veramente intenzione di scatenare una guerra. Un giornale iraniano lancia l’idea di un concorso a premi con viaggio e vacanze pagate a chiunque ammazzi in qualsiasi parte del mondo lo Scià Reza Pahlavi. A Teheran proseguono le fucilazioni di massa. L’ayatollah Khalkhali, capo del tribunale iraniano, annuncia: “Chi uccide lo scià esegue una sentenza già emessa”.

Gli Stati Uniti preoccupati della possibile ondata di attentati e atti terroristici reintroducono la pena di morte che era stata sospesa con una moratoria durata alcuni anni e così tutto il mondo dà notizia il 25 maggio della prima esecuzione in Florida. L’assalto dei Fratelli Musulmani procede intanto in Siria dove si registra una strage di cadetti dell’accademia militare assassinati dalla setta dei Fratelli Musulmani che vengono però arrestati e subito impiccati: quattordici forche mostrano al mondo il pugno duro di Assad. All’inizio del mese di agosto, accade un fatto che turba molto la coscienza degli italiani: il famoso e chiacchieratissimo finanziere Sindona scompare dall’hotel Pierre di New York dove abitava. Avrebbe dovuto comparire davanti alla corte federale di Manhattan per rispondere di bancarotta fraudolente ma fa spargere la voce secondo cui sarebbe stato rapito. Ma è una messinscena: è un finto rapimento, visto che Sindona riapparirà in Sicilia e secondo la ricostruzione che si farà in seguito, saranno proprio le sue tracce di finto fuggiasco a far scoprire gli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi. Sembra una missione preparata da altri eseguendo un piano. Infatti Michele Sindona, tornato clandestinamente dalla Sicilia così come clandestinamente era partito, ricomparirà a New York il 16 ottobre per essere condannato a dieci anni ed estradato in Italia dove deve rispondere di bancarotta fraudolenta e omicidio volontario. Qualcosa di grosso bolle nella pentola italiana e si cominciano ad affacciare una nuova serie di misteri eterodiretti. Ma da chi? In agosto il governo di Kabul non riesce a contenere i ribelli molti dei quali riparano nell’Iran khomeinista dove il 27 agosto le forze speciali della rivoluzione islamica decidono di eliminare fisicamente i curdi che non intendono accompagnare il nuovo ordine. E così avviene una mattanza di cui in Occidente pochi parlano perché i curdi sono giustiziati a centinaia dalla Guardia della Rivoluzione e le poche foto che giungono in Occidente mostrano uomini sdraiati in terra uccisi a revolverate. I regimi si stanno assestando a colpi di stragi ma nel mese di settembre arriva la stretta finale in Afghanistan con un colpo di Stato che destituisce il primo ministro Taraki, sostituito da uno ancor più filosovietico di lui, una creatura del Kgb di nome Hafizullah Amin. In Italia avviene un fatto che avrà una grande scia e che dimostrerà come il territorio nazionale sia dominato dalle fazioni mediorientali connesse con l’area dell’Autonomia, a sua volta vicina alle Brigate Rosse. Nel mese di settembre il brigatista Mario Moretti va a Beirut con il panfilo “Papago” per rifornirsi di armi palestinesi, apparentemente sotto lo sguardo non ostile del capo dei nostri servizi segreti, il colonnello Giovannone che finirà col farsi incriminare con l’accusa di aver protetto questo e altri traffici fra brigate rosse, palestinesi, agenti stranieri e mercanti di petrolio. Il 4 Novembre comincia il sequestro di 63 ostaggi a Teheran nell’ambasciata americana: i cosiddetti studenti islamici chiedono che venga loro consegnati dagli Stati Uniti lo scià Reza Pahlevi e comincia una delle più angosciose operazioni diplomatiche, militari ed ideologiche di quegli anni. Benché 13 ostaggi fossero stati liberati per benevola concessione di Khomeini, il sequestro durerà 444 giorni e segnerà alla fine la vittoria elettorale del presidente repubblicano Ronald Reagan in Usa. Carter si decise a mandare alcune navi da guerra con la portaerei Kitty Hawk nell’Oceano indiano, con una serie successiva di manovre navali americano-spagnole, mentre tutto il mondo parla di preparativi in vista di un attacco nucleare. Il ministro degli Esteri sovietico Gromyko a questo punto compie un gesto fortemente intimidatorio presentandosi in Spagna il 19 novembre per minacciare di rappresaglie gli spagnoli per dissuaderli dall’entrare nella Nato. In Italia accade un altro fatto grave e preoccupante: l’8 novembre ad Ortona in provincia di Chieti una pattuglia di carabinieri trova due lanciamissili Sam 7 antiaerei di fabbricazione sovietica su un furgone Peugeot fermo. Sono arrestati tre militanti dell’”area dell’autonomia” romana e poi a Bologna l’esponente del Fplp Abu Anzeh Saleh. Daniele Pifano, noto leader degli “autonomi” del Policlinico di Roma e capo del “Collettivo di via dei Volsci”, è fra gli arrestati con altri personaggi dell’area. Gli imputati saranno tutti condannati a diverse pene detentive ma Abu Anzeh, che dovrebbe scontare 5 anni, sarà scarcerato nel 1981 per decorrenza dei termini. Dal novembre 1983 è irreperibile. Nel corso del processo l‘organizzazione palestinese di George Habash, l’Fplp, inviò una lettera ai giudici per scagionare gli autonomi italiani: quel missile – diceva Habbash nella lettera – era in transito in Italia, essendo destinato al loro gruppo. Ma i palestinesi sostengono anche che quel viaggio era noto alle autorità italiane. Intanto, il presidente Jimmy Carter si prepara ad andare alla guerra, ma la perderà. Il 20 novembre Carter dichiara di non escludere un intervento militare mentre alla Mecca si consuma un massacro di fedeli venuti dall’Iran. L’episodio si aggiunge agli altri alimentando un’ondata di antiamericanismo nel mondo islamico eccitato dalla vicenda degli ostaggi di Teheran, Il 6 dicembre è la data di un evento storico e drammatico: è approvata dal Parlamento italiano l’installazione degli euromissili, con il voto contrario del Pci. La Nato decide di installare 572 euromissili nucleari in Germania, Italia, Olanda, Belgio e Gran Bretagna per il 1983. Per il mondo sovietico questa accettazione è presa quasi come una dichiarazione di guerra, anche perché il presidente Carter che erra stato sempre molto mansueto e poco incline a mostrare i muscoli, annuncia la formazione di flotte americane “in tutti i punti caldi del mondo”. Il 29 dicembre l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan con 150 mila soldati, 100 carri armati e 200 aerei da trasporto truppe. Ufficialmente l’Urss risponde all’appello di Babrak Karmal che ha eliminato Afizullah Amin. È un disastro totale: i comunisti si fanno la guerra, i nuovi sciiti sostenuti dall’Iran insorgono: l’intervento sovietico la rende ancora più confuso e sanguinoso. La resa dei conti arriverà poche settimane dopo, all’inizio del 1980 che si preannuncia come un altro anno terribile e tuttavia con germi di speranza e segnali di nuove catastrofi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1980: la Milano da bere e la vita dietro ai sacchi di sabbia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Gli anni Ottanta nel retrobottega della memoria e secondo la tradizione, furono gli anni della Milano da bere, della fine della guerra civile, della ripresa della vita normale, di un rampante ritorno sulla scena degli Stati Uniti con l’elezione del vecchio attore di film western e poi governatore della California Ronald Reagan. Il decennio si chiuse con il crollo pilotato per tappe dell’impero sovietico con una trattativa tra l’ultimo segretario del Pcus Michail Gorbaciov e i due leader dell’occidente armato, Margaret Thatcher e il successore di Jimmy Carter, il più sfortunato dei presidenti americani per la bruciante sconfitta anche militare di fronte alla nuova potenza degli ayatollah iraniani. Ma questo fu il finale di partita ancora lontano ma di cui si percepiscono i sintomi e che fece dire a qualche storico affrettato che la storia stessa era finita e che il nuovo mondo sarebbe stato quello dominato dalla mono-potenza americana.

Le cose furono molto meno lineari di quello che si ricorda. Partiamo proprio dall’anno di rottura: il 1980. In Italia avvennero due stragi che ancora chiedono di verità: quella di Ustica e quella di Bologna avvenute a distanza di circa un mese l’una dall’altra e che molti (me compreso) considerano probabilmente collegate. Devo avvertire i lettori che su questi fatti la mia opinione diverge da quella del comune sentire che sbrigativamente si può definire di sinistra. Secondo la visione accreditata anche da sentenze della magistratura il DC9 di Ustica sarebbe stato abbattuto da missili destinati a un aereo su cui viaggiava Gheddafi con la complicità di ufficiali italiani che avrebbero per questo pagato un carissimo prezzo e quella di Bologna del 2 agosto liquidata come una dissennata e criminale azione fascista senza capo né coda. Secondo la versione che mi dette Francesco Cossiga presidente della Repubblica e molto addentro le segrete cose, la strage di Bologna sarebbe avvenuta per un incidente causato dalla disattenzione di chi portava la valigia con l’esplosivo che non avrebbe saputo mettere in sicurezza il detonatore.

Il grande fatto italiano di quell’anno fu la sconfitta militare e politica delle brigate rosse, dell’area circostante dell’autonomia e quindi della vittoria dello Stato su misteriosi personaggi che per qualcuno erano “boy scout della rivoluzione” e per altri delle marionette al servizio di potenze straniere, ma diciamo pure dell’Unione sovietica e della Germania orientale. E poi ancora un evento di portata gigantesca che quasi nessuno fu in grado – quando accadde in quell’anno rivoluzionario – di valutare politicamente: il terremoto nella Irpinia che provocò danni enormi, moltissime vittime e una serie di scandali successivi che portarono alla luce malversazioni, imbrogli, ipocrisie e la spaccatura civile dell’Italia con l’affermarsi delle molte “Leghe” del Nord, per prima la “Liga Veneta” e poi quella lombarda. Io passai molte settimane come cronista sia nelle terre del terremoto del Friuli del 1976, che a quello del 1980 nell’Italia del Centro-Sud. Fu lì che si spaccò l’Italia. Fu a quel punto che la Lega nacque come insurrezione morale contro il sud corrotto, inerte, civilmente sconnesso e guidato da politici fortemente inquinati.

I due terremoti erano a quel tempo fortemente con connessi con la memoria collettiva degli italiani: il terremoto del Friuli, che pure era stato estremamente violento e distruttivo, aveva portato sui teleschermi italiani un popolo, quello friulano, che aveva opposto alla violenza della natura un comportamento civile non gridato, paziente e onesto. Tutti coloro che allora andarono nelle città del primo terremoto ricordano come i discendenti del Forum Julii (ovvero delle legioni romane che andarono costituire il segmento di quella Regione, discendenti che ancora parlano un dialetto romanzo diverso dall’italiano) presero la pala, caricarono i morti, erano in prima linea insieme agli uomini della protezione civile e delle forze di polizia nel riparare, soccorrere, agire in laborioso silenzio e uniti in una un forte legame collettivo. In Irpinia, sotto gli occhi di tutti, accadde l’opposto. Tutti vedemmo una società collassata che nel dolore si esprimeva prevalentemente con urla, ma senza scavare, salvare, coprire e nutrire, i giovani seduti sui muretti a guardare i soldati e gli uomini della protezione civile.

Fu uno shock per tutta l’Italia. Il nord insorse in maniera sempre più aspra e sferzante dichiarando pubblicamente che i due popoli del nord del Sud non avevano nulla a che vedere fra di loro e che quello del nord aveva diritto a chiedere un’autonomia crescente e poi la possibilità di federarsi con altre aree europee e insomma si sviluppò quell’idea a metà fra federalismo e secessione che fu la politica di Umberto Bossi. L’Irpinia fu un banco di prova tremendo perché si scoprirà abbastanza presto che tutti i fondi stanziati per le aree devastante nel terremoto sarebbero stati assorbiti dalla malavita e dalle camarille politiche sparsi tra rivoli di corruzione e di taglieggiamento. Inoltre, questo lo ricordo perché l’ho visto con i miei occhi, non esistevano costruzioni antisismiche salvo uno stabilimento della Fiat e una scuola che infatti rimasero in piedi salvando chi c’era dentro. Il resto fu spappolamento delle città e delle coscienze. Molte urla, molti reclami, una assenza di coesione civile deplorevole spietatamente rappresentata dai filmati e i reportage giornalistici. A Torino si svolse la famosa marcia dei Quarantamila quadri Fiat, che ebbe l’effetto di un macigno contro la cristalleria del sindacato che fino allora era stato visto dall’opinione pubblica come un’entità onnipotente, anche perché sempre tallonato dall’area dell’autonomia e delle brigate rosse piemontesi.

Sarà stata una riuscita messa in scena manovrata dalla famiglia Agnelli, proprietaria della Fiat, ma c’ero e sono testimone dello shock dolcemente traumatico con cui una parte dell’Italia prese atto di un evento inatteso ma sperato: finiva lo strapotere intimidatorio che collegava parte dei sindacati con quella dell’area dell’autonomia operaia che aveva esercitato per oltre un decennio un una egemonia fatta di gesti e minacce. Quella marcia in aperta sfida al sindacato e alle brigate rosse fu da molti considerata come una improvvisa, insperata vittoria non già della destra ma della normalità. Anche su questo episodio il dibattito è ancora acceso e le opinioni sono divise: mi limito a ricordare e sottolineare lo stato emotivo con cui quell’evento fu percepito da qualcuno come un momento di liberazione. L’anno era cominciato con eventi fra loro non collegati, ma che disegnarono un’epoca, come l’uscita con enorme successo mondiale de Il nome della Rosa di Umberto Eco e successivo film con Sean Connery. In Italia, però, si registravano costantemente esecuzioni di condanne a morte: il giorno dell’Epifania fu ucciso Piersanti Matterella, fratello dell’attuale presidente Sergio, che all’epoca era segretario regionale della Dc siciliana.

Fu un delitto orrendo come tutti gli altri delitti di mafia, con un carico insopportabile di sfida e di vendetta. La mafia era allora in aperta concorrenza con i carnefici delle brigate rosse che a febbraio uccisero il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet. Eravamo ancora abituati a questo andamento della cronaca che oggi ci sembra così lontana. Le brigate rosse, la vita dietro i sacchetti di sabbia, Cosa Nostra all’apice della sua potenza, una guerra fredda sempre più minacciosa specialmente dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan per cui Jimmy Carter annuncia il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca che si svolgeranno senza gli atleti americani, con grande saccheggio di medaglie d’oro da parte degli atleti sovietici e tedeschi orientali. Il mondo sovietico è in affanno: il dissidente Andrej Sacharov viene spedito al confino a Gorki. In Europa, e in Italia in particolare, prende consistenza anche dentro il Pci la corrente ostile ai sovietici.

Erano tempi in cui periodicamente scoppiava lo scandalo del “calcio-scommesse” che portava a galla imbrogli miliardari e fu a causa di quel fattaccio che il giornale in cui lavoravo, Repubblica, mi spedì al seguito di una delle squadre coinvolte, il Bologna, nella speranza di carpire dichiarazioni di dirigenti e giocatori. Fu così che mi trovai ad assistere per la prima volta in vita mia a una partita di calcio, sport cui sono allergico a meno che non vinca la Roma. Il Bologna giocava contro il Catanzaro nel capoluogo calabrese e trovai delizioso il comportamento dei tifosi del Catanzaro, i quali anziché guardare la partita seduti nelle tribune, correvano a sciame intorno al campo di gioco seguendo l’azione dei giocatori e quando un giocatore del Bologna attaccava verso la porta avversaria, la massa dei tifosi urlava “Ma unni cazzu vai cu stu cazzu ‘i palla?”. Scrissi dunque un pezzo in cui raccontavo questo evento divertente mai immaginando che il mattino dopo mi chiamasse un telegiornale della Rai per chiedermi di rispondere al sindaco di Catanzaro che mi aggredì urlando: “Perché lei odia Catanzaro e la Calabria?” Spiegai inutilmente che io adoro Catanzaro e la Calabria, ma fu tutto inutile e dovetti pretendere atto che in quella città ero considerato indesiderabile.

Un fattarello minimo che mi fornì un’idea della dimensione del campanilismo italico non solo del Sud, perché poco dopo ebbi “l’ostracismo nordico” della città di Mantova agitatissima per un mio articolo sulle siringhe che si trovavano nel quartiere Lunetta, per cui sono ancora ricordato come una canaglia, ma perdonato a quarant’anni di distanza. La crisi esistenziale del comunismo colpisce anche Cuba dove Fidel Castro prende una decisione clamorosa: dice ai cubani che chi non si sente a suo agio nella sua patria, può fare le valigie e andarsene senza trovare ostacoli. Le folle che si ammassano agli imbarchi vengono chiamate “gusanos”, vermi. Ad agosto accadono fatti che avranno un peso nell’anno successivo e oltre. Papa Wojtyla, polacco, assume il comando del sindacato Solidarnosc e da Roma conduce le trattative con il governo comunista messo in crisi dalle ondate di scioperi nei cantieri navali di Danzica. Il papa diventa il nemico pubblico numero uno dell’impero sovietico e l’anno successivo subirà un attentato a colpi di pistola che fallì per un solo millimetro del percorso della pallottola e il mondo si troverà – senza averlo davvero capito bene – sull’orlo della terza guerra mondiale. E questa sarà un’altra storia cui dedicheremo spazio e alcune rivelazioni.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1980

6 gennaio: ucciso dalla mafia il Presidente democristiano della Regione Siciliana Piersanti Mattarella

20 gennaio: il presidente Usa Jimmy Carter annuncia il boicottaggio alle Olimpiadi di Mosca

9 febbraio: Toto Cutugno vince il XXX Festival di Sanremo

19 marzo: il giudice Guido Galli viene assassinato dal gruppo Prima Linea all’interno dell’Università Statale

23 marzo: esplode lo scandalo delle scommesse nel mondo del calcio

10 maggio: inizia in Giappone la commercializzazione del videogioco Pac-Man

22 giugno: si apre la riunione del G7 a Venezia

25 luglio: il gruppo hard rock australiano AC/DC pubblica l’album Back in Black che diventa il secondo album più venduto della storia della musica

2 agosto: alle 10:25 una bomba esplode nella sala d’attesa della stazione di Bologna causando 85 morti e 203 feriti. Quella che sarà ricordata come la strage di Bologna

14 ottobre: marcia dei quarantamila: quadri, impiegati della Fiat, ma anche di operai e comuni cittadini che, inaspettatamente ed in contrapposizione ai sindacati, manifestano per il ritorno alla normalità della città, scossa dalle proteste per la messa in Cassa integrazione guadagni di ben 24.669 operai

4 novembre: il repubblicano Ronald Reagan è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America

23 novembre:  terremoto dell’Irpinia. Alle 19:34 una scossa di 6,9 sulla magnitudo momento pari al X grado Mercalli provoca circa 3000 morti, 9000 feriti, 280.000 sfollati e danni incalcolabili tra Campania e Basilicata

12 dicembre: viene rapito dalle Brigate Rosse il giudice Giovanni D’Urso

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La nostra storia: 1955 - 1959. L'Espresso racconta gli anni del boom in un ebook. L'Espresso il 16 giugno 2021. Il primo di dodici libri in formato digitale riservati ai nostri abbonati. Per ripercorrere la storia d'Italia a partire da una parola chiave. Con le grandi firme del giornale e le fotografie d'autore. La politica, la cultura, l’economia, i cambiamenti del costume e della società raccontati da grandi giornalisti e scrittori, e illustrati con fotografie d’autore. L’Espresso racconta in un ebook per i propri abbonati “Gli anni del Boom" fra il 1955 e il 1959. È il primo di 12 libri, ognuno dei quali abbraccia cinque anni di storia, e sono intitolati a una parola chiave, che riassume il significato di quel momento. Il settimanale fondato da Eugenio Scalfari in quel periodo muove i primi passi. E come leggerete, non è solo un giornale, è una comunità legata da valori condivisi e profondi, è memoria del Paese, è la sua coscienza critica. È identità orgogliosa e appassionata. Il 2 ottobre 1955 scrive L'Espresso: «I promotori di questo giornale ritengono che l’assoluta indipendenza della stampa sia il fondamento più solido del regime democratico. Questa indipendenza, nelle condizioni attuali della stampa italiana, si è rivelata molto spesso illusoria…». Parole profetiche. Allora come ora è l’impegno che L'Espresso ha con i suoi lettori. Nel solco della tradizione e dell’innovazione.

L’Italia cambia, 1960-1964. La nostra storia in un ebook. Redazione su L'Espresso il 25 giugno 2021. Il secondo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Per ripercorrere gli avvenimenti salienti del nostro Paese. Con le grandi firme del giornale e le fotografie d'autore. Il Bel Paese che cambiava più di sessant'anni è raccontato attraverso le pagine de L’Espresso (1960 - 1964) il settimanale fondato da Eugenio Scalfari, specchio di un Paese e del mondo di quegli anni. “L’Italia cambia” è un volume che raccoglie storie, reportage e immagini d’autore. «All’inizio del 1960 la giuria internazionale del “Financial Times” consegna alla lira l’oscar della moneta più stabile». Incredibile ma vero come sottolinea nell'introduzione Marco Damilano. “Leoni, Piccioni ed altri animali” è il titolo del primo degli storici articoli raccolti nel libro. Lo firma Eugenio Scalfari, era il 13 marzo 1960. Si continua con “Il Gotha dei bugiardi” di Livio Zanetti; “Con Fanfani a scuola, in ufficio, a casa” di Camilla Cederna; “Il petrolio del parroco” di Jean Paul Sartre. Mentre Gianni Corbi il 26 gennaio 1964 intervista Ernesto Che Guevara. 

La rivolta, 1965-1969. La nostra storia in un ebook. Massimo Cacciari su L'Espresso il 2 luglio 2021. Il terzo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Un volume che ripercorre gli avvenimenti salienti del nostro Paese attraverso i racconti delle grandi firme del giornale, illustrate da fotografie d’autore. «O patria mia - cantava un disperato figlio di questo Paese (Leopardi) centocinquant'anni prima - dove sono i tuoi figli?». Nel '68 fu davvero la loro rivolta. Una breve stagione, ma figli e figlie si sollevarono allora contro “il secolo morto", "questo secol di fango", e immaginarono nuove forme di vita e nuovi linguaggi. Fu la rivolta contro la "patria potestas", contro il fatale connubio tra "padre" e "potere", che ebbe nel femminismo la sua espressione più radicale e matura. Un salto d'epoca culturale, nel senso antropologico del termine, tra chi si era formato prima della guerra e chi a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Una catastrofe, in senso letterale, che si rifletteva essenzialmente nel linguaggio, in tutti i campi. Ricordate Bob Dylan? «Venite madri e padri da tutto il paese e non criticate quello che non potete capire; i vostri figli e le vostre figlie non li potete comandare». Alla base del Sessantotto vi è una rottura linguistica, che davvero impedisce la comunicazione tra generazioni; le parole dei padri non riescono più a comandare semplicemente perché non se ne comprende più il senso. Si giustifica, sì, la ribellione ad esse denunciandole come l'ideologia di un sistema di sfruttamento, sottomissione, disuguaglianza ma, nella sostanza, avviene qualcosa di infinitamente più radicale di un conflitto tra visioni del mondo, ha luogo un salto d'epoca che tutti coinvolge e di cui nessuno è davvero l'autore o il soggetto. Certo questo "salto" ha anche cause ben materialmente definibili. L'Italia (ma lo stesso vale per i paesi occidentali, in genere) è ancora relativamente giovane e la mobilità sociale all'alto formidabile. Dall'inizio degli anni Cinquanta al1968 gli iscritti alle medie superiori passano dal 10 a oltre il 40 per cento dei ragazzi di quell'età; esplosiva addirittura la crescita nell'università: da 250mila nel1961 a quasi 600mila alla fine del decennio. Quantità è qualità: in tali condizioni diviene fisiologica la spinta a prender parte a tutti i processi decisionali che interessano la scuola, a rivedere programmi e metodi didattici. La risposta politica e accademica (con alcune eccezioni, minoritarie fino al patetico) è testimonianza luminosa dell'"ontologica" ignoranza delle precedenti generazioni per i linguaggi e gli interessi che animano l'"anno degli studenti". La moltiplicazione di corsi, cattedre, sedi, insieme a forme di partecipazione meramente "discutidore", costituiranno negli anni successivi la sola riforma di cui i padri si mostrino capaci. Nel mondo del lavoro le trasformazioni materiali che precedono l'autunno caldo del 1969 sono altrettanto imponenti. Collassa l'Italia pasoliniana. Nel1970 si raggiunge il massimo storico dell'occupazione industriale (42 per cento del totale), e al suo interno è la classe operaia ad assumere l'egemonia. Ma è una classe operaia completamente diversa da quella sindacalizzata dell'immediato dopoguerra, da quell'operaio di mestiere, che tanto piaceva al paterno Pci. Sono i 150mila della Fiat, i giovanissimi della chimica di Marghera, quelli dei Comitati di Base della Pirelli, che esprimono problemi e rivendicazioni oggettivamente analoghi ai contenuti delle lotte studentesche: la contestazione di ogni potestas padronale (baronale), l'autonomia nella definizione dei propri obbiettivi (in quella dei programmi e dell'ordinamento universitario), il rifiuto di ogni forma di disuguaglianza (diritto allo studio). Vi è molta etica della responsabilità in questo "estremismo". Sarebbe bene non dimenticarlo. Non si tratta solo della denuncia di arcaiche, intollerabili relazioni di potere nella scuola e nel lavoro. Non solo il grido libera torio: "il re è nudo!". Cogitare è co-agitare: nell'agitazione universale fermentano pensieri e progetti, idee e forme nuove di una democrazia davvero agita. Può esservi democrazia senza isonomia, senza uguaglianza davanti alla legge? Già Aristotele l'avrebbe negato! Senza ribellarsi alle forme odiose della disuguaglianza, senza prendersi cura del prossimo, senza coniugare il proprio individuale interesse a principi di solidarietà, non può esistere democrazia. Più ancora: viveva nella rivolta una repulsione quasi naturale per corrotti e corruttori, per trasformisti e ipocriti - fino all'estremo di una sacralizzazione, molto ingenua certo, del linguaggio franco, diretto, aut-aut, sì sì-no no. Tuttavia diciamocelo: poteva trovarsi in tutto questo anche il germe di un vero riformismo, il potenziale per un rinnovamento delle classi dirigenti e del sistema politico del paese. Vi era pure in queste figlie e in questi figli, per dirla ancora col poeta, qualche "valore vero e virtù, modestia e fede e di giustizia amor", beni divenuti negli anni successivi "alieni in tutto e lungi" dai nostri affari. Rottamatori volevano essere, non c'è dubbio, e magari avevano idee vaghe, da extraparlamentari o quasi, su come passare alla fase costituente, ma certo non avrebbero mai raccontato la favola di rottamare con i rottamandi e che fosse innovazione il compromesso con questi ultimi. Che fine quel germe abbia fatto lo dimostra la storia di questo paese fino ad oggi. Fu anche colpa dei ribelli, non c'è dubbio. Molta ideologia, poca analisi. Onestà intellettuale tanta, realismo e disincanto quasi assenti. Mancava nei figli la capacità di comprendere davvero la patria potestas nella sua storia, nelle sue contraddizioni e di scavarle dall'interno e di far leva su di esse per riformare il sistema. Ma soprattutto emerse subito la "vocazione" propria di ogni rivolta tentata sull'italico suolo: il parricidio si trasformò subito in fratricidio. Ben lungi dall'amarsi in vista di assumere insieme la responsabilità dell'erede, si armarono l'un contro l'altro. Prima metaforicamente e ben presto letteralmente. Il terrorismo distrusse figlie e figli e riconsegnò al Padre il potere. A un Padre che, da parte sua, aveva risposto alla rivolta in due forme assolutamente opposte, per quanto complementari: o in termini eversivi, stragisti, da controrivoluzione preventiva (causa, questa, essenziale della deriva terroristica che afferrò una parte del movimento), oppure, ignorandone le potenzialità costituenti, limitandosi a tentare di integrarla in un puro riassetto di maggioranze parlamentari. Così il Sessantotto è divenuto immagine di un Paese mancato (come intitola Guido Crainz il suo bel libro sulla storia italiana dal "miracolo" agli anni Ottanta), di un Paese che ha continuato a mancare fino ad oggi. "Studenti e operai uniti nella lotta" non sono oggi immaginabili neppure come fantasmi. Dal Sessantotto è passato il carro armato di una rivoluzione nei rapporti sociali e di produzione più "catastrofica" di quella industriale del XVIII secolo. Chi sarà il soggetto della rivolta prossima ventura? Sarà "moltitudine" il suo nome? O Nessuno?

L’ora dei diritti civili, 1970-1974. La nostra storia in ebook. Stefano Rodotà su L'Espresso il 2 luglio 2021. Il quarto libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Ripercorriamo gli avvenimenti salienti del nostro Paese attraverso i racconti delle grandi firme del giornale fondato da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti, illustrate da fotografie d’autore. E il testo introduttivo di Stefano Rodotà.

Così cominciò in Italia la rivoluzione dei diritti. Nel 1970 il Parlamento italiano approva le leggi sull'ordinamento regionale ordinario, sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sui termini massimi della carcerazione preventiva, con un addensamento di interventi riformatori che non ha paragoni nell'intera storia repubblicana. In un solo anno viene modificato l'assetto dello Stato, si ampliano gli spazi delle libertà individuali e sociali, si riconosce ai cittadini il diritto di intervenire nelle scelte legislative. Istituzioni e società cambiano nel profondo, e comincia quella rivoluzione dei diritti che accompagnerà la politica italiana lungo gli anni Settanta. Non fu un miracolo. L'avvio di questo processo era stato preparato da quello che venne chiamato il "disgelo costituzionale": la progressiva e sempre più diffusa consapevolezza della necessità non solo di dare attuazione a fondamentali istituti previsti dalla Costituzione, ma di svilupparne le indicazioni più significative. Si verifica così una benefica congiunzione tra consapevolezza politica, spinte sociali, innovazione culturale. La buona cultura pervade la società e produce buona ed efficiente politica, smentendo le tesi alimentate dalla diffusa ignoranza recente che dipinge i tempi della cosiddetta Prima Repubblica come una fase di stagnazione, di assenza di cambiamenti profondi. Alle leggi approvate nel 1970 seguono quelle sul diritto del difensore ad assistere all'interrogatorio dell'imputato, sulle lavoratrici madri e sugli asili nido, sulla scuola elementare a tempo pieno (1971); sull'obiezione di coscienza al servizio militare e sull'ampliamento dei casi in cui è possibile la concessione della libertà provvisoria (la cosiddetta "legge Valpreda", 1972); sul nuovo processo del lavoro e sulla protezione delle lavoratrici madri e la disincentivazione del lavoro a domicilio (1973); sulla tutela della segretezza e della libertà delle comunicazioni e sulla delega al governo per l'emanazione del nuovo Codice di procedura penale (1974); sul nuovo ordinamento penitenziario, sulla riforma del diritto di famiglia e sulla fissazione a 18 anni della maggiore età, con immediati effetti anche sulla composizione del corpo elettorale (1975); sulla parità tra uomo e donna in materia di lavoro e sulla disciplina dei ruoli (1977); sull'interruzione della gravidanza, sulla chiusura dei manicomi ("legge Basaglia") e sull'istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978). Esaminando una legislazione così ricca e variegata, colpisce subito il fatto che non ci si trova solo di fronte all'espansione di logiche tradizionali, ma alla introduzione di modelli profondamente innovativi. Si aprono nuovi spazi di libertà e si creano gli strumenti istituzionali per rendere effettivi i diritti. Questa politica si muove soprattutto lungo tre linee:

la restituzione all'individuo di poteri di decisione confiscati dall'organizzazione statuale, ampliando così immediatamente l'area della sua azione libera (è il caso delle leggi sul divorzio, sull'aborto, in parte di quella sull'obiezione di coscienza al servizio militare, della sentenza della Corte costituzionale che abroga la norma penale sul divieto di propaganda anticoncezionale);

l'avvio del riconoscimento di pari dignità e di sostanziale eguaglianza a gruppi fino a quel momento oggetto di discriminazioni dirette e indirette, palesi e occulte (le donne in primo luogo, e i minori, gli omosessuali, i portatori di handicap);

l'estensione dei diritti riconosciuti anche a chi si trova costretto nelle istituzioni "totali" (manicomi, carceri).

Più specificamente, un cambiamento radicale investe l'organizzazione familiare con l'abbandono di un modello fondato sulla gerarchia, la costrizione e la discriminazione, affidando l'organizzazione familiare ad una costruzione libera alla quale possono partecipare tutti i suoi componenti.

Altrettanto evidente è la profondità del mutamento nel complesso legislativo più ricco dell'epoca, quello riguardante il lavoro, dove spiccano le "norme sulla libertà e dignità dei lavoratori", più note come Statuto dei lavoratori, vera e propria carta dei diritti accompagnata dalla legge sulla parità del 1977. Si estendono le garanzie della libertà personale e si mette mano alla disciplina del processo penale. Le leggi sulle istituzioni "totali" fanno rinascere soggetti di diritto là dove, carcere o manicomio, esistevano soltanto destinatari d'un controllo. Ma rivelano pure, spesso drammaticamente, lo strettissimo rapporto che lega talune leggi sui diritti alle strutture necessarie per attuarli, pena un rigetto sociale che mette in discussione la scelta stessa di percorrere la strada dei diritti. Sono tutte riforme profonde, rese possibili anche da forti dinamiche sociali. Dietro lo Statuto dei lavoratori si colgono le spinte dell'autunno caldo sindacale del 1969 e della scoperta delle schedature Fiat; le vicende seguite alla strage di piazza Fontana rendono indispensabili nuove norme a tutela della libertà personale; il cambiamento sociale forza la mano a una politica timida e porta alle leggi sul divorzio, sulla riforma del diritto di famiglia, sull'interruzione della gravidanza: determinante si rivela sempre più spesso la cultura delle donne. Il voto referendario nel 1974 e nel 1981 conferma leggi fondamentali, e all'origine controverse, come quelle sul divorzio e l'aborto. Ma il 1974 è pure un anno fortemente simbolico, davvero uno spartiacque tra due epoche: da quel momento comincia prima un difficile convivenza tra provvedimenti espansivi e provvedimenti limitativi delle libertà; poi sono questi ultimi a prendere il sopravvento. Mentre i diritti civili trovano nel referendum una sorta di corale consacrazione, un decreto legge del 1974 sull'aumento dei tempi della carcerazione preventiva e la legge Bartolomei contro i sequestri di persona dello stesso anno aprono la lunga fase della "legislazione dell'emergenza", che già l'anno successivo troverà nella legge Reale sull'ordine pubblico una delle sue più consistenti manifestazioni. A questa legislazione, con un inquietante pendolo tra provvedimenti pericolosamente restrittivi e parziali restaurazioni della legalità, verrà affidata la sorte dei diritti di libertà nei lunghi anni che seguiranno, durante i quali assai spesso diverrà evidente che la risposta "ordinamentale" (così venivano globalmente definite le diverse norme limitative di diritti) serviva a poco o a nulla quando mancavano le condizioni organizzative e politiche per affrontare i problemi della criminalità e del terrorismo.

Gli anni di piombo, 1975-1979. La nostra storia in ebook. Michele Serra su L'Espresso il 19 luglio 2021. Il quinto libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Il volume raccoglie tutti gli avvenimenti di quel periodo che ha scosso il Paese attraverso i racconti di grandi firme del giornale, tra cui Giorgio Bocca, Camilla Cederna, Sergio Saviane, Cristina Mariotti, Alberto Moravia, Umberto Eco, Tiziano Terzani e Gabriel Garda Marquez, accompagnati da fotografie d’autore. L’ebook si apre con un testo firmato da Michele Serra.

La violenza non aveva divorato tutta la speranza. La vulgata sugli anni Settanta italiani è inevitabilmente lugubre. Per le stragi fasciste, le tante persone freddate dal terrorismo rosso, la sordida fellonia di uomini dello Stato, la violenza anche spicciola, l'odio anche solo recitato, anche solo parolaio, che però avvelenava discorsi e pensieri. Teniamo dunque per buona la qualifica di "anni di piombo", che vale se non altro a conservare memoria di quell'inaudito sbocco di sangue. Anche se, per equità, sarebbero Piombo e Tritolo (primo il tritolo, in ordine di apparizione) i materiali simbolici del periodo. Ma l'applicazione della pena di morte da parte di bande di superbi ("superbi" è l'aggettivo, secondo me di mirabile precisione, adoperato dal professar Enrico Fenzi per definire il fondamentale vizio umano del terrorismo rosso, nel quale aveva militato) non racconta, dei Settanta, che l'aspetto più macroscopico e più mediatico. Quello che produceva i titoli cubitali, magari offuscando il resto o quasi tutto il resto. Dovessi cercare di riassumerlo, quel "resto", direi che consisteva soprattutto nella facoltà di immaginare il futuro come un patrimonio ancora intatto. Non solo ancora da vivere. Ma ancora da progettare, da pensare, da forgiare in forme differenti, non coincidenti l'una con l'altra e tanto meno coincidenti con ciò che già esisteva. (A nessuno, a quei tempi, poteva venire in mente di parlare di "pensiero unico"). Per dirla un poco retoricamente, la violenza non aveva ancora divorata tutta intera la speranza. Il dibattito sul "come saremo" stava ancora nel bel mezzo della politica, vissuta con passione non solamente dalle avanguardie, ma da larghi strati sociali. Uno strumento potentissimo per costruire, pezzo su pezzo, il futuro collettivo e quello individuale. Nessuno, all'epoca, per quanto portato alla disillusione, per quanto di indole moderata, avrebbe creduto possibile che la politica sarebbe stata, quarant'anni dopo, retrocessa a mera disciplina amministrativa, a diligente ostaggio dei numeri e dei bilanci: era, la politica, la leva della mutazione, l'arma semi-divina grazie alla quale l'uomo poteva elevare se stesso a demiurgo, e cambiare il mondo. Di qui la "superbia" che genera violenza; ma di qui, anche, una vitalità sociale straordinaria, la tensione al meglio di chi stava peggio, il sogno di raddrizzare, mutare, rifare daccapo. La straordinaria energia artistica di quel periodo trasportò dentro la cultura di massa prodotti fino allora di fronda o di cantina, come la canzone d'autore. Non solo la letteratura, il teatro, il cinema, la grafica, il fumetto, i festival di poesia: fu la socialità nel suo complesso a vivere una stagione febbrile e creatrice, nella quale sperimentare a tutti i costi - anche nei costumi sessuali - fu certamente anche un vezzo e una moda; e generò non pochi fenomeni di vero e proprio kitsch "di sinistra"; però dava voce e corpo a un'irrequietezza culturale e politica che si respirava a pieni polmoni, ovunque, fino a stordirsi. Il contagio era ingovernabile, trascinava "fuori casa", sconsigliava la pigrizia, quasi obbligava a confrontarsi con abitudini, scenari, consumi inediti. Tra i quali il consumo di droghe prese la mano a molti: tra le stragi del decennio quella dell'eroina è ricordata poco e male, ma lo contraddistinse, nel male e nel dolore, tanto quanto la violenza politica. Una decina di anni fa, rievocando per "Repubblica" la Milano degli anni Settanta (e dunque dei nuovi vent'anni: fate voi la tara, voglio dire, di eventuali eccessi di entusiasmo), la raccontavo così: «Si dice anni di piombo ma non rende l'idea di quanto fosse viva la città, non allegra - Milano lo è mai stata? - ma tremendamente viva. Le strade erano piene di ragazzi, anche d'inverno, anche in quei giorni di pioggia fradicia e di luce livida che nel Duemila paiono scomparsi, come le serate di nebbia. Si usciva di casa per baciarsi in pace o anche solamente per rimanere insieme e parlare (quanto parlare! anche a vanvera!). Noi studenti vivevamo per la strada, nei bar. I ricordi di quegli anni sono di fermate d'autobus, camminate interminabili, spiccioli contati per sapere se potevamo sederci al chiuso per un paio d'ore, e pagarci un caffè o una bibita ... Milano era una città di impiegati e di operai, di drogherie e ferramenta, mercerie, cartolerie, bar scuri e non lindi, con zaffate di periferia industriale che arrivavano ben dentro la cerchia dei Navigli, quasi per preannunciare i cortei operai del sabato che arrivavano a tingere di rosso le strade del centro. E le cime degli striscioni di fabbrica andavano a sfiorare i balconi dei palazzi dei ricchi». Nel tratto di strada dove sono cresciuto - oggi costa un fantastilione a metro quadro – negli anni Settanta c'erano panetteria, drogheria, latteria, edicola, parrucchiere e fiorista nel giro di cinquanta metri, oggi più niente. Non erano lontanamente immaginabili corso Como e Fabrizio Corona. Si andava nei cinema d'essai (il Rubino di via Torino e l'Orchidea di via Terraggio erano aperti anche al mattino) per bigiare scuola. Ci siamo sorbiti cose bellissime ma anche cose da pazzi: cicli di cinema rumeno, tutto Tarkovskij e tutto Bergman, fantascienza di serie B e C. Risate, discussioni interminabili, litigi, riconciliazioni. Nel circuito "normale" spiccavano le ultime sale di terza visione, due film a quattrocento lire. In un enorme cinema dalle parti di Greco (credo fosse l'Abanella) vidi un horror in una sala vuota con volo di pipistrelli veri, in un altro cinema di Porta Romana (forse l'Habanera) mi sono goduto Tamburi lontani con Gary Cooper e una massaia seduta a fianco che cimava i fagiolini portati da casa. Era ancora aperto il formidabile, minuscolo Teatro Gerolamo in piazza Beccaria. Ho ascoltato lì per la prima volta Ivan Della Mea e i fratelli Ciarchi, Gualtiero Bertelli, la Marini che veniva da Roma, la canzone politica.

Si andava al Pierlombardo a sentire Parenti che faceva Testori, si riconoscevano nelle parole gli effluvi e le oscurità, così milanesi, delle periferie, i fianchi interminabili delle fabbriche. Stava per arrivare Kantor con la sua Classe morta in uno di quei pazzeschi teatrini di periferia disadorni, con panche durissime, riscaldati male, che poi sarebbero diventati (giustamente) parodia dell'"impegno", dello spirito vagamente punitivo e lugubre della Kultura naturalmente di sinistra: ma allora ci parevano bellissimi, nuovissimi, si risalivano le linee tranviarie fino a remoti capolinea per scovare gli spettacoli più stravaganti delle compagnie più sconnesse, la parola "decentramento" ci pareva il magico passepartout della democrazia di base, la cultura per tutti, la Scala che va in periferia e la periferia che va alla Scala. Le uova che tiravano "i contestatori", come si chiamavano allora, alla prima della Scala non erano necessariamente "marce", anzi. Mi sono sempre chiesto: ma dove si comperano le uova marce da tirare alla prima della Scala? lo non ho mai visto un uovo marcio, a pensarci bene, in tutta la mia vita. È importante non dimenticare quegli anni. Non perché fossero migliori di questi, la nostalgia è la cosa più inutile e noiosa del mondo. Ma perché non meritano di passare agli archivi come l'ostaggio inerte dell'ideologia. Furono anni troppo disordinati, troppo agitati, troppo pieni di vita perché li si ricordi come una pedante raffica di spari.

Stragi e misteri, 1980-1984. La nostra storia in ebook. Claudio Lindner su L'Espresso il 19 luglio 2021. Il sesto libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Il volume raccoglie tutti gli avvenimenti di quel periodo che ha scosso il Paese attraverso i racconti di grandi firme del giornale, tra cui Maurizio De Luca, Giampaolo Pansa, Mario Scialoja, Luigi Pintor, Tiziano Terzani, Sergio Saviane, Alberto Ronchey, Gad Lerner, Franco Giustolisi, Pier Vittorio Buffa, Alessandro De Feo e Paolo Mieli, accompagnati da fotografie d’autore. L’ebook si apre con immagini e testi che analizzano le stragi senza colpevoli di quegli anni. Lo scandalo Calvi-Gelli-Corriere. Con morti e delitti eccellenti. Casi su cui L’Espresso ha indagato per lungo tempo.

Trame e questione morale. Negli anni Ottanta matura una netta inversione di tendenza rispetto alle lotte e all'impegno politico e sociale che avevano marcato i vent'anni precedenti. Si apre l'era del Riflusso, del ripiegamento nella sfera del privato, regnano l'edonismo, l'apparenza, il cinismo. E concorre a questa svolta la forza di due leader di grande personalità come Margaret Thatcher e Ronald Reagan che, andati al potere rispettivamente nel maggio 1979 e nel novembre 1980 (entrambi verranno confermati nelle elezioni successive), diventano i profeti della rivoluzione liberista: meno stato e più individuo. L'Italia segue l'onda del tandem conservatore. Galoppa la Borsa, impazzano gli yuppies, c'è il boom delle televisioni commerciali di Silvio Berlusconi e il programma "Drive in" diventa l'incarnazione dell'homo, chiamiamolo, ludens. Mattatore della nuova epoca è Bettino Craxi, il leader socialista che vuole aprire un varco nell'egemonia dei due partiti dominanti, la Democrazia cristiana da un lato e il Partito comunista dall'altro, e conquistare il ceto medio delle nuove professioni, dalla moda al design, dalla pubblicità ai media in generale. Suo grande amico è proprio Berlusconi, che lui aiuta da Presidente del Consiglio nella battaglia per la libertà d'antenna dopo che tre pretori hanno ordinato il sequestro degli impianti del Biscione. L'emergente Craxi stringe un patto con Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti dando vita al Caf, che governerà per tutto il decennio. Con gli ideali che si annacquano e gli arricchimenti che fioriscono senza scrupoli e fuori controllo, pullulano gli intrighi che condizionano la vita politica ed economica per molto tempo. Se dal decennio precedente si ereditano il caso Sindona e gli scricchiolii del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, nel quinquennio in esame esplode lo scandalo della P2 di Licio Gelli che tira in ballo politici, finanzieri, imprenditori, generali e il primo quotidiano italiano, il "Corriere della Sera". È il periodo degli inquietanti Misteri d'Italia, tra truffe, corruzione, ricatti, mafia, omicidi, senza tralasciare due stragi sostanzialmente irrisolte come quella alla stazione di Bologna e del DC9 Itavia abbattuto su Ustica. Vicende oscure seguite con particolare attenzione dall'"Espresso" di Livio Zanetti, che dedica a questi scandali una quindicina di copertine in quattro anni con inchieste, documenti inediti, interviste esclusive. Un'informazione indipendente che emerge con forza anche in altre circostanze. Per esempio nell'occuparsi del terrorismo che continua a uccidere. Due inviati di punta dell'"Espresso", Mario Scialoja e Giampaolo Bultrini, vengono arrestati nella notte del primo gennaio 1981 dopo la pubblicazione dell'interrogatorio cui le Br hanno sottoposto il giudice D'Urso. Resteranno in carcere ben due mesi. E l'anno dopo tocca a Pier Vittorio Buffa finire in prigione per aver rivelato le torture ai brigatisti del sequestro Dozier. Ma è sul racconto delle grandi trame italiane che L'Espresso riesce a dare il meglio. Lo scandalo del finanziere siciliano Michele Sindona aveva già occupato le cronache nella seconda metà degli anni Settanta ed era culminato con l'assassinio nel luglio 1979 di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana. Nel1980 il finanziere di Patti viene processato negli Stati Uniti e condannato con 65 capi d'imputazione, dalla frode all'appropriazione indebita alle false dichiarazioni bancarie. Quattro anni dopo è condannato ed estradato in Italia per il processo come mandante dell'omicidio Ambrosoli. Nell'aprile del1981 L'Espresso pubblica in esclusiva i verbali dell'interrogatorio dell'ex braccio destro Carlo Bordoni da parte della Commissione d'inchiesta parlamentare con i nomi dei titolari di conti cifrati in Svizzera. È la cosiddetta "lista dei 500", che comprende politici, finanzieri, imprenditori come Anna Bonomi Bolchini e Glauco Lolli Ghetti. Vi figura anche Licio Gelli, da anni legato a Sindona. La P2 in quel momento non è un oggetto sconosciuto. Tutt'altro. Appare ogni tanto nelle cronache, viene per esempio citata nell'inchiesta sul treno Italicus. Sindona aveva presentato Calvi a Gelli già nell'agosto del1975, quando il banchiere milanese si era iscritto alla superloggia. Cinque anni dopo cercherà finanziamenti in quegli ambienti per salvare dal crac il Banco Ambrosiano dopo averne già ottenuti dall'Eni, secondo gli atti processuali, grazie a tangenti a Craxi e Claudio Martelli. Tra maggio e giugno 1981 scoppia la bomba P2 e il numero del 21 sintetizza bene il malaffare di quei giorni con la copertina "Il chi è dell'Italia corrotta". Si parla della lista di 953 "fratelli", tra ministri, parlamentari, finanzieri, militari e imprenditori. «La cosa più preoccupante dello scandalo- scrive nell'editoriale il direttore Zanetti- è il fatalismo, più che la indignazione, con noia più che con rabbia, con cui viene accolto. Una rilassata disperazione, da "indifferenti" degli anni Ottanta. Ciò che tiene assieme tutti quei personaggi dalle origini e dalle storie così disparate, è una totale mancanza di principi». Sullo stesso numero appare un grande ritratto di Calvi, arrestato per esportazione illecita di capitali, "Un banchiere così non si era mai visto", mentre in "Mal di testata" si entra nel vivo della bufera al "Corriere della Sera". Piduisti soci sostenitori sono sia Angelo Rizzoli sia il direttore generale Bruno Tassan Din che verranno poi arrestati nel febbraio 1983 per bancarotta fraudolenta. In un'intervista rilasciata a Nello Ajello in quel giugno 1981 Indro Montanelli, uscito sette anni prima da via Solferino per fondare "Il Giornale", ammette sinceramente di non aver profetizzato che il "Corriere" potesse finire nelle mani di un «magliaro di quelle dimensioni», pur sapendo che «avrebbe perso la propria indipendenza finanziaria, non sarebbe stato più gestito da un editore puro com'erano i Crespi ... ». Attorno al "Corriere" scoppia una guerra di potere nella quale sono coinvolti un po' tutti e sui Misteri d'Italia si allunga l'ombra dello spregiudicato Craxi e della "volpe" Andreotti. In un vortice del malaffare che porterà a Tangentopoli. Se ne accorge anzitempo il leader del Pci, Enrico Berlinguer, che lancia l'allarme sulla "questione morale" in un'intervista rilasciata il28 luglio 1981 al direttore di "Repubblica", Eugenio Scalfari.

Cadono i muri, 1985 -1989. La nostra storia in ebook. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 22 luglio 2021. Il settimo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Vengono analizzati e raccontati gli avvenimenti di quel periodo storico attraverso le immagini di fotografi d’autore e di importanti firme del giornale, tra cui Guido Quaranta, Wlodek Goldkorn, Gad Lerner, Federico Bugno, Enrico Arosio, Sandro Acciari, Giorgio Bocca, Leonardo Sciascia, Umberto Eco, Sergio Saviane, Rita Levi Montalcini e Gore Vidal. A 26 anni dalla caduta del Muro di Berlino, cosa rimane dell'Europa? Il confine orientale del Continente è instabile: tra regime autoritario a Mosca, guerra in Ucraina, territori dalla sovranità incerta, come la Transnistria, pezzo di Moldova in mano ai russi; mentre l'Ungheria, Paese membro dell'Ue è saldamente in mano ai populisti nazionalisti e anti-democratici di Viktor Orban. Sul fianco Sud si sta affacciando l'integralismo islamista le cui avanguardie colpiscono obiettivi considerati simbolici nelle nostre capitali. Perfino il cuore della vecchia Europa mostra segni di stanchezza: in Francia è in crescita il Front national, un movimento xenofobo e anti-europeista; e lo stesso accade in Germania, dove Dresda, una delle città epicentro della rivolta che ha portato al crollo del Muro, è culla e luogo simbolo di raggruppamenti che propagano l'ostilità verso gli immigrati e verso l'Unione europea. Se a questo elenco, incompleto, aggiungiamo gli orrori della guerra balcanica degli anni Novanta (quel conflitto fu una delle conseguenze del crollo del Muro) avremmo un bilancio, in apparenza, fallimentare dell'ultimo quarto di secolo del nostro continente, tanto di essere tentati di rimpiangere il vecchio ordine. Ma è davvero così? Per rispondere a questa domanda conviene ripartire da dove comincia questo volume, dal 1985. Nel marzo di quell'anno il Comitato centrale del Partito comunista sovietico elegge un relativamente giovane (aveva 54 anni) burocrate Mikhail Gorbaciov alla carica del Primo segretario. L'Unione sovietica, all'epoca, è retta da una gerontocrazia priva di immaginazione e che governa coi metodi di segretezza modellati sull'esempio di satrapie orientali: esisteva perfino una scienza, la cremlinologia, che dà segni difficilmente percettibili, come l'ordine di apparizione dei leader a qualche cerimonia ufficiale, traeva conclusioni su ciò che succedeva ai vertici di potere. Nel vicino Afghanistan è in corso una guerra che le truppe dell'Urss non sono in grado di vincere; ogni giorno aerei Antonov riportano nell'Urss bare con cadaveri di ragazzi morti inutilmente. E ancora: l'economia è a pezzi, causa inefficienza, corruzione, clientelismo. Il fianco occidentale del Paese è un'altra ferita aperta: in Polonia il movimento di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, continua la sua attività, nonostante anni prima fosse stato messo fuori legge, ed è aiutato dalla Chiesa e dal pontefice Karol Wojtyla. E ancora: il dissenso, così si chiamava quel fenomeno che vide intellettuali e attivisti democratici organizzare una vera opposizione ai regimi autoritari, ha preso piede in Cecoslovacchia (protagonista un grande scrittore Vadav Havel), Ungheria, perfino nella Ddr. Tutto questo, mentre il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, affiancato dalla premier britannica Margaret Thatcher, è convinto che quello comunista fosse "l'impero del Male", condannato a morte (simile intuizione ebbe da noi Bettino Craxi, l'unico tra i leader italiani a onor del vero). È difficile sapere quale fosse il vero programma politico di Gorbaciov nel momento in cui diventò il padrone del Cremlino. Probabilmente, stava pensando a una graduale riforma del paese, a qualche misura per rendere l'economia un po' più vivace. Ma, spesso nella storia accade che un incidente in apparenza tecnico, finisce per cambiare il corso degli eventi e lo spirito del tempo. È stato questo il caso del disastro di Cernobyl nell'aprile del1986. L'esplosione di un reattore nucleare e la nube radioattiva che si propagò per tutto il continente, fino all'Oceano Atlantico non potevano essere nascosti all'opinione pubblica, come avveniva invece in Urss, per decenni. Il mistero cui era avvolta la vita dei sovietici era tale che non venivano pubblicati elenchi telefonici; le cartine geografiche portavano dati falsi, conglomerati urbani di importanza militare, ufficialmente non esistevano. Gorbaciov colse quindi l'occasione dell'incidente nucleare per farla finita con l'ossessione della segretezza. Il segretario del Pcus aveva compreso che senza la libertà d'informazione l'Urss sarebbe stata condannata a morte. O meglio, il suo tentativo di introdurre la libertà di parola (lo chiamò glasnost, seguì un progetto di riforma dell'economia definito perestrojka) fu un tentativo eroico e tragico, tragico perché intrapreso troppo tardi e non per colpa sua, di salvare il salvabile. In questa sua impresa Gorbaciov trovò un alleato in Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace, confinato da anni nella città di Gorkij (Niznyj Novgorod). La scena è da grande romanzo: il 23 dicembre 1986, l'uomo, che siede al Cremlino (simbolo di un potere assoluto) chiama al telefono il suo prigioniero più illustre e gli dice: da domani sei libero e sappi che ho bisogno di te. I primi a capire quello che stava accadendo a Mosca sono stati i polacchi. Il paese era allo stremo; nei negozi mancavano beni di prima necessità; gli ospedali erano privi di medicine. I comunisti non erano più in grado di governare: per stanchezza, per mancanza di fiducia in se stessi, e lo sapevano bene. Dall'altro lato della barricata, nonostante la messa fuori legge di Solidarnosc (dicembre 1981) in seno all'opposizione democratica ha continuato a crescere una classe politica straordinariamente ben preparata, colta, intelligente e generosa. E basti pensare a intellettuali come il cattolico Tadeusz Mazowiecki (fu il primo Presidente del Consiglio non comunista; mori nel 2013, povero); o il grande storico Bronislaw Geremek, o a Jacek Kuroii (nove anni nelle patrie galere; a casa sua non chiudeva mai la porta perché chiunque potesse entrare e chiedere aiuto). A Varsavia nel 1988 i comunisti intavolavano un negoziato con l'opposizione e con la mediazione della Chiesa, e che finì con il passaggio di potere l'anno dopo. Seguivano, con un simile modello, gli ungheresi. Poi, manifestazioni di piazza hanno finito per rovesciare gli altri regimi, e fino e oltre (in caso cecoslovacco) alla sera del 9 novembre 1989 in cui è caduto il Muro. Comunque, quelle rivoluzioni furono, tra le ultime guidate da grandi intellettuali prestati alla politica (in Cecoslovacchia da Vaclav Havel, una delle menti più eccelse del secolo scorso), e forse per questo, prive di rancore e generose invece. L'entusiasmo era contagioso. Tanto che in Palestina era in atto l'Intifada, una rivolta popolare contro l'occupazione israeliana, mentre in Cina gli studenti reclamavano libertà e democrazia. Di quell'entusiasmo, come si diceva, rimane poco. Ma due cose vanno ribadite. La prima: la memoria, anche e soprattutto quella degli in apparenza sconfitti (come appunto i generosi intellettuali o Gorbaciov) può in ogni momento trasformarsi in un progetto dell'avvenire. Lo sapeva bene il grande pensatore ebreo tedesco Walter Benjamin. La seconda cosa da ricordare è che nessuno può negare quanto nonostante tutto l'Europa sia oggi un posto migliore: basta andare in visita a Berlino, Varsavia o Vilnius per constatarlo. E comunque quel Muro doveva cadere.

Mani pulite, 1990-1994. La nostra storia in ebook. Gianluca Di Feo su L'Espresso il 22 luglio 2021. L'ottavo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Il volume raccoglie gli avvenimenti di quel periodo attraverso i racconti di grandi firme del giornale, tra cui Chiara Beria di Argentine, Giampaolo Pansa, Claudio Rinaldi, Vittorio Zucconi, Alberto Moravia e Umberto Eco, accompagnati da fotografie d’autore. L’ebook si apre con l’inchiesta di Milano sui soldi ai partiti e apre la strada a Berlusconi. Nulla è stato più come prima. Politica, economia, l'intera società: in cinque anni è cambiato tutto. Sono spariti Democrazia cristiana e Partito comunista, lasciando il posto alle sfide tra Forza Italia e Pds. Alle cabine telefoniche della statalissima Sip si sono sostituiti i cellulari della Telecom, anticamera delle privatizzazioni sfrenate. Nelle strade poco alla volta sono comparsi gli immigrati, costringendoci a fare i conti con un mappamondo dove ogni giorno spuntavano nuove nazioni, figlie dello sgretolamento dell'Urss, mentre l'Europa smantellava le frontiere. Il Muro di Berlino era crollato da un po', ma per un paio d'anni in Italia le cose sono rimaste sospese, con gli stessi riti e gli identici sprechi che hanno dominato il decennio della Milano da bere: i Mondiali di calcio del1990 sono stati l'ultimo valzer di un paese che ballava sull'orlo del baratro. Ovunque si percepiva già la volontà di cambiare, si sentiva il rumore delle crepe nel sistema rimasto bloccato per mezzo secolo, con incrostazioni rugginose che legavano politica ed economia. La trasformazione però è cominciata tutta d'un botto, come se ci fossimo caduti dentro all'improvviso. Come se la voragine della strage di Capaci avesse inghiottito l'intero paese. Dalla primavera del 1992 la Storia inizia a correre, velocissima. La corrente di un fiume che procede placido per mezzo secolo e poi avvicinandosi alla cascata accelera, fino a farsi onda travolgente. O meglio, per citare la profetica metafora evocata allora da Luciano Cafagna, «è come se in una valle nella quale si sta formando una slavina, con pareti da ogni parte pronte a smottare e ricongiungersi nella gran palla, dal vicino monte Everest cominciasse a piovere giù una paurosa gragnuola di sassi. Il povero villaggio che sta in attesa a valle è la democrazia italiana». A scatenare la valanga è stato un pugno di banconote. Quei sette milioni di lire che il boiardo socialista Mario Chiesa ha intascato il 17 febbraio 1992 nella presidenza del Pio Albergo Trivulzio, l'istituzione milanese che assiste gli anziani, erano insignificanti nella routine di mazzette che quotidianamente gli imprenditori mettevano sulla sua scrivania. Un'inezia rispetto alla caterva di denaro lecito e illecito che alimentava l'apparato elefantiaco dei partiti, raccolto da una macchina spietata che aveva allungato tentacoli su ogni aspetto della vita pubblica: non c'era neppure bisogno di chiedere, tutti sapevano che bisognava pagare. Anche per Bettino Craxi, lo statista che aveva segnato il decennio precedente e il regista di un sistema colossale di finanziamenti, quella era una vicenda piccola piccola: l'ha liquidata con una battuta, sostenendo che Mario Chiesa era solo "un mariuolo isolato". La replica da San Vittore è arrivata in una decina di verbali che descrivevano il rito ambrosiano delle mazzette e davano in pasto ai magistrati il gran capo e la sua corte: il cognato Paolo Pillitteri, sindaco in carica, il suo predecessore Carlo Tognoli, tutti gli uomini d'oro che il Psi aveva insediato al vertice di progetti colossali come la costruzione dell'aeroporto di Malpensa o le nuove linee della Metropolitana. È stato l'esordio di un terremoto, con scosse proseguite per tre anni e intensità crescente. In estate, l'inchiesta coinvolge i vertici lombardi di tutti i partiti. In autunno non è più Tangentopoli, ma una questione nazionale, con accuse alle grandi holding pubbliche come Enel ed Ferrovie e i big degli appalti in cella, inclusi i top manager della Fiat. In inverno tocca ai segretari di quel pentapartito che aveva arbitrato le sorti del Paese, un anno esatto dopo la prima bustarella l'intera catena di comando dell'Eni finisce a San Vittore. Ma è da Palermo che arriva l'onda più devastante. Prima l'uccisione di Salvo Lima, il proconsole siciliano di Giulio Andreotti, poi le bombe contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mettono a nudo l'incapacità della classe politica, che dopo avere intessuto rapporti antichi con la mafia adesso ne subisce l'attacco più spietato. ll tritolo rade al suolo le architetture della vecchia politica, condizionando l'elezione al Quirinale. E il sacrificio dei due giudici cementa un consenso popolare verso i magistrati mai visto prima. La folla urlante che irrompe nella cattedrale normanna durante i funerali di Borsellino e quella che marcia esibendo manette davanti al Palazzo di Giustizia meneghino si trasformano nella pioggia di monetine scagliate contro Craxi all'uscita dell'Hotel Raphael, anticamera di un esilio senza ritorno. Le stragi di Cosa nostra colpiscono alle spalle i palazzi romani, scompaginando i disegni per frenare l'indagine sulla corruzione. Il pool di pubblici ministeri milanesi sa che soltanto la rapidità può permettergli di andare avanti. È una squadra composta di persone estremamente diverse: l'ex poliziotto Antonio Di Pietro è il motore, capace di definire approcci semplici ai problemi più complessi. La visione strategica però è quella di Francesco Saverio Borrelli. Al suo vice Gerardo D'Ambrosio va il merito di avere affiancato a Di Pietro Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, due magistrati con visioni diverse e uguale tenacia. Hanno un'esperienza comune: si sono scottati in passato cercando di fare luce sul lato oscuro del potere - dalle trame di Piazza Fontana ai fondi neri di Michele Sindona - e questa volta vogliono che le indagini vadano fino in fondo. I pm, a cui si aggiungeranno Francesco Greco, Paolo Ielo e più tardi Ilda Boccassini, lavorano sempre, domeniche e ferragosto inclusi. Una macchina a ciclo continuo, inarrestabile. Non si fanno intercettazioni, tutto si decide in tempo reale nelle stanze della procura, facendo leva sulla paura del carcere e sul danno di immagine che si rovescia sugli imputati. Ogni giorno arresti, interrogatori, confessioni destinate a trasformarsi in altri mandati di cattura. I verbali sono telegrafici, quasi epigrafi, con elenchi di pagamenti senza confine: davanti all'ufficio di Di Pietro c'è una coda che attende di confessare. «Gli imprenditori consapevoli di avere ormai perso ogni protezione politica e di non poter più disporre di denaro per realizzare grandi opere pubbliche, cercavano in questo modo una forma di riscatto dalla riprovazione della pubblica opinione», ha ricordato D' Ambrosio. In meno di diciotto mesi si passa dai sette milioni di lire afferrati da Mario Chiesa ai 150 miliardi distribuiti dalla Ferruzzi per manovrare il futuro della chimica italiana. È una rivoluzione? Davigo ripete spesso che è accaduto il contrario, che il pool ha salvato la credibilità dello Stato. Le retate scattano mentre la crisi cancella aziende storiche, spariscono l'Alfa Romeo di Arese e l'Ilva di Bagnoli, la disoccupazione è alle stelle e la lira sottoterra, tanto che il governo mette le mani nei depositi bancari di tutti per sostenere il debito pubblico. Gli ordigni della mafia sfregiano gli Uffizi, San Giovanni in Laterano, il centro di Milano. Un voto del marzo 1994 incorona una nuova classe politica. Quarantenni come Walter Veltroni, Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini, Umberto Bossi, con leader di poco più anziani: Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Resteranno al timone per un ventennio, finché un'altra crisi economica - più lunga e ancora più profonda - non darà uno scossone al paese. I risultati del pool sono stati eccezionali, con numeri che restano incredibili: 4.520 persone indagate, un terzo delle quali condannate in pochi mesi. La strada italiana al cambiamento però è finita tutta lì, incanalata in un'unica direzione: il sogno delle Mani pulite ha fatto dimenticare le riforme per rimettere in moto il Paese. Superata la crisi, tutto è ricominciato come prima. Le privatizzazioni sono servite solo a creare un'altra razza padrona, che non ha brillato. E sul fronte della corruzione, invece di fare tesoro delle lezioni per cambiare pagina, si è gradualmente ridotta la possibilità di fare giustizia, paralizzando i tribunali. Eppure in quegli anni abbiamo sognato. Abbiamo creduto in un paese diverso, più onesto, più giusto. L’Espresso è stato il metronomo, che ha scandito il passo della trasformazione. Una lettura praticamente obbligata. Nelle pagine c'erano le rivelazioni sulle inchieste, che anticipavano i nuovi fronti dello tsunami giudiziario. Ma soprattutto ogni settimana c'era la chiave per decifrare quello che stava accadendo. Gli interventi di Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa, la visione di un direttore come Claudio Rinaldi, il primo a rendersi conto di quanto Silvio Berlusconi avrebbe trasformato l'Italia. La fine di Mani pulite comincia con la prima vittoria elettorale dell'imprenditore che si è comprato tutto, il Milan e i giudici, la stampa e gli avversari politici. Ma questa un'altra storia, quella che ha condizionato la nostra vita fino a ieri. 

·        Truffa o Scippo: La Spesa Storica.

Le elemosine hanno sfasciato il Mezzogiorno. Carlo Lottieri il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. È un dato preoccupante quello segnalato dall'Inps là dove evidenzia che nel corso del 2021 nel Mezzogiorno si è avuto un raddoppio dei certificati di malattia. È un dato preoccupante quello segnalato dall'Inps là dove evidenzia che nel corso del 2021 nel Mezzogiorno si è avuto un raddoppio dei certificati di malattia. Ovviamente, la questione non è sanitaria, ma culturale e obbliga a interrogarsi su cosa s'è fatto in tutti questi decenni per danneggiare in tal modo il tessuto della società meridionale. È chiaro che questo numero abnorme di assenze dal lavoro per ragioni di salute è da ricondurre a un malcostume, le cui cause sono ben note. L'Italia, in generale, e ancor più il suo Mezzogiorno da troppo tempo disprezzano quella cultura del lavoro che comporta dedizione ai propri compiti e alla parola data. Dove le entrate non sono una conseguenza dell'attività, ma provengono da logiche redistributive, quella che s'impone è la logica dei più furbi. Le virtù borghesi s'affermano, come non si stancava di evidenziare Sergio Ricossa, nelle economie basate sul contratto, sull'impresa privata e sulla concorrenza. Se invece regna l'assistenzialismo, anche gli schemi morali che dovrebbero regolare i comportamenti dei singoli finiscono per essere trasformati e, naturalmente, in peggio. In una società nella quale un reddito può giungere tutti i mesi sul nostro conto corrente anche senza far nulla, si finisce per perdere ogni nesso tra la fatica e il premio, tra il lavoro e il salario. Quasi senza accorgersene, si entra in universo in cui ognuno cerca di vivere parassitariamente rispetto al prossimo, adottando ogni genere di imbroglio e malizia. Come spesso si evidenzia (ma mai a sufficienza!), il costo più oneroso del reddito di cittadinanza non è di carattere economico, ma invece sociale e culturale. E in fondo questa è solo l'ultima di una lunga serie di misure politiche che hanno guardato al Sud come a un semplice serbatoio elettorale: un vasto spazio nel quale distribuire favori (spesso di modesta entità) scollegati da quella capacità di fare e intraprendere che, invece, è condizione fondamentale per un vero sviluppo. Anni e anni di elemosine statali non hanno aiutato il Mezzogiorno, ma invece l'hanno corrotto in profondità. Ne discende che oggi il Sud ha bisogno di accantonare tutto questo, perché una nuova cultura della responsabilità può affermarsi soltanto se le nuove generazioni saranno chiamate ad affrontare nel bene e nel male tutti i rischi e tutte le opportunità del mercato. Carlo Lottieri

SPESA STORICA GHIGLIOTTINA SUL FUTURO DELLA SCUOLA E DEI RAGAZZI DEL SUD. Al Sud l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione inferiore del 30,89% rispetto a quella standard: ricevono cioè dallo Stato meno del necessario per garantire un servizio decente. Il Nord può invece permettersi di spendere più di quello di cui avrebbe bisogno perché ha avuto più risorse per almeno 15 anni. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 16 novembre 2021. Al Sud l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione che è nettamente inferiore rispetto a quella standard: vuol dire che i sindaci ricevono dallo Stato meno soldi di quelli che sarebbero realmente necessari per garantire un servizio degno di questo nome. La situazione è diversa al Centro, dove oltre la metà degli enti, il 52%, registra una spesa storica superiore a quella standard e lo stesso vale per i Comuni del Nord-Est (51%) e, in misura minore, per quelli del Nord-Ovest (45%).

IL RAPPORTO

È quanto emerge da un nuovo report della fondazione Openpolis e Sose: il sistema italiano di federalismo fiscale, attraverso Sose, si occupa di stimare il fabbisogno finanziario di cui necessitano tutti i Comuni delle Regioni a statuto ordinario per offrire i servizi legati all’istruzione. Un calcolo che concorre a determinare la distribuzione delle risorse perequative del fondo di solidarietà comunale. «La maggior parte (3.929, cioè il 61%) dei Comuni italiani delle Regioni a statuto ordinario registra – si legge nel report – per la funzione istruzione una spesa storica inferiore a quella standard. In questo caso parliamo di enti che, o sono particolarmente efficienti nell’offrire ai cittadini i servizi legati all’istruzione, oppure scelgono di destinare più fondi a un’altra funzione rispetto a questa, o ancora hanno scarse risorse e quindi non riescono a spendere a sufficienza per garantire un livello di servizi adeguato». A soffrire maggiormente, poi, sono i Comuni più piccoli, infatti nei centri inclusi nelle fasce 60mila-99mila e oltre 100mila abitanti la spesa storica supera quella standard.

IL GAP SPESA STORICA

«Una condizione, quest’ultima, che può dipendere da una scelta delle amministrazioni di investire più risorse di quelle stimate, per ampliare l’offerta di servizi ai cittadini. Un’ipotesi che trova riscontro, per esempio, nei dati relativi alla superficie degli edifici scolastici comunali e statali. Se per i Comuni con oltre 60mila abitanti parliamo di oltre 13 metri quadri per abitante, per i territori con meno di 500 residenti il dato cala a 4 mq pro capite», scrive Openpolis. Così, mentre Napoli ha una spesa storica per l’istruzione di 78,24 euro e una spesa standard di 86,61 euro, Bologna ha una spesa storica di 189.36 euro e una spesa standard di appena 118.52 euro. E ancora: Bari presenta una spesa storica di 64.13 euro e una spesa standard di 74.8 euro; Firenze ha una spesa storica di 133.96 euro e una standard di 104.54 euro. Al Nord possono permettersi di spendere più di quello di cui realmente avrebbero bisogno, perché hanno potuto usufruire di maggiori risorse per almeno 15 anni. Al Sud, invece, i sindaci devono fare i salti mortali e ricevono meno soldi di quanti ne sarebbero necessari. Sino a quando non verrà superato definitivamente il criterio della spesa storica per la ripartizione dei fondi nazionali, la sperequazione non avrà fine e il Mezzogiorno continuerà ad ottenere meno risorse rispetto al Nord ma anche rispetto alle reali esigenze.

CONTI IN ROSSO

D’altronde, basti pensare che la Regione Puglia, nel 2016, per garantire ai 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più. Le Regioni del Mezzogiorno, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi: hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma. Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno.

IL SALENTINO DE VITI DE MARCO E LA BATTAGLIA ANTIPROTEZIONISTA CONTRO LA TARIFFA DOGANALE DEL 1887. Michele Eugenio Di Carlo. (pubblicato il 12.11.21 sul Quotidiano l'Attacco, pp. 24-25). Le tesi meridionaliste del salentino Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858, possono essere ritenute, per alcuni versi, la via di passaggio da un meridionalismo moderato liberale, incarnato da Villari, Franchetti, Sonnino, Fortunato, a un meridionalismo popolare, democratico, rivoluzionario, che con Salvemini, Gramsci, Dorso segnerà lo strappo definitivo dalle pretese antipopolari e autoritarie della monarchica sabauda e dalla gestione illiberale dei governi conservatori dei primi quarant’anni unitari. Il transito quindi da un meridionalismo critico, ma piantato nell’alveo di governi fedeli alla monarchica sabauda dai labili e, spesso inapplicabili, principi di democrazia liberale, a un meridionalismo di rottura che prevedeva il netto superamento della monarchia e indicava la via di una nuova forma di gestione del paese, democratica, repubblicana, partecipata dalle masse popolari. De Viti De Marco è sostanzialmente un liberaldemocratico, tanto che aderisce nel 1904, insieme a Francesco Saverio Nitti, al neonato Partito Radicale Italiano, l’ala più moderata e liberale della Sinistra non trasformista. Dal punto di vista economico è stato uno dei maggiori liberisti ed è in questa veste che sviluppa la sua polemica contro la tariffa doganale protezionista del 1887. Da questo punto di vista imposta il suo meridionalismo, portando avanti per primo la tesi che la protezione degli interessi industriali del Nord ha danneggiato irrimediabilmente l’economia e lo sviluppo del Mezzogiorno. De Viti De Marco, nonostante nella prima fase avesse visto nel fascismo una possibilità concreta di riforme e una barriera contro il pericolo socialista, diventa antifascista appena si rende conto che democrazia e libertà sono a rischio. Nel 1931 è uno dei diciotto docenti universitari che rifiuta, perdendo la cattedra, di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista come previsto dal decreto regio n. 1227 del 28 agosto 1931. Il salentino, nato in una famiglia di grandi proprietari terrieri di origini nobiliari, consegue la laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1881 e, passando per le università di Camerino, Macerata e Pavia, giunge ad ottenere la cattedra di Scienze delle finanze nel 1887 proprio nella Capitale. Nel 1890, insieme ai fedeli amici economisti Maffeo Pantaleoni, conosciuto durante gli studi universitari, e Ugo Mazzola, acquisisce la maggioranza azionaria della nota rivista accademica “Giornale degli economisti”, diventandone condirettore. De Viti De Marco non usa mezzi termini per contestare la tariffa doganale del 1887, posta a tutela degli interessi delle piccole e nascenti industrie del Nord, a discapito del mondo agricolo meridionale. Diventa sicuramente il capostipite della campagna antiprotezionista e del liberalismo economico, tanto che già nel 1891 pubblica sul “Giornale degli economisti” un articolo che precisa le sue posizioni denunciando un protezionismo che altera il corso dello sviluppo economico incentivando una politica che sacrifica il mondo agricolo più produttivo. Come rivela chiaramente lo storico Rosario Villari, riprendendo l’articolo dell’economista salentino, il protezionismo «devia i capitali e le energie dai settori più produttivi, instaura un rapporto privilegiato e parassitario tra produttori e consumatori nocivo alla vita economica e politica; aggrava e rende permanente, in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud». La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, aveva garantito con il dazio sul grano il silenzio e la complicità dei grandi proprietari latifondisti, ma aveva determinato un forte contrasto con gli altri comparti agricoli più intensivi e produttivi, innanzitutto con il settore della viticoltura, le cui esportazioni con la Francia erano entrate in una profonda e irrisolvibile in crisi. Per De Viti De Marco, che considera e condivide quanto scrive il direttore del “Giornale degli economisti”, Ugo Mazzola, sul «connubio tra protezionisti industriali e agrari» , il dazio sul grano è «il prezzo che i così detti ceti agrari, auspici gli on. Branca e Salandra» avevano ricevuto in cambio dell’appoggio ai «dazi industriali propugnati dagli on. Ellena e Luzzatti» . Ma i dazi sul grano e sul riso, secondo l’intellettuale pugliese, erano inefficaci, in quanto la produzione di grano e riso era quasi sempre sufficiente al consumo interno, mentre la chiusura del mercato francese causato dalla tariffa doganale aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio e vino. Inoltre, l’applicazione della tariffa aumentava i prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord che andavano a gravare soprattutto sul Mezzogiorno, oltre che sulle entrate dello Stato; infatti, «i produttori di grano, di olio, di vino, di riso, di bestiame, ecc., videro a un tratto falcidiato il loro reddito non solo in ragione della caduta dei prezzi agricoli, ai quali vendevano i loro prodotti, ma ancora in ragione dei prezzi industriali, ai quali compravano!». Per De Viti De Marco queste erano le due cause della «depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano». Per l’economista salentino non vi erano dubbi: i maggiori prezzi dei manufatti industriali nazionali erano dovuti ai costi di produzione non competitivi di un’industria nazionale che riteneva poco produttiva. Le tariffe doganali avevano deviato «il capitale e il lavoro dagl’investimenti più fruttiferi», diminuendo complessivamente «la produzione nazionale e quindi la ricchezza privata del paese», da cui derivavano le entrate pubbliche. L’Italia dei primi anni del Novecento - l’economista salentino veniva eletto in Parlamento nel 1901, rimanendoci quasi ininterrottamente fino all’avvento del fascismo - aveva appena superato il tragico ultimo decennio dell’Ottocento, tra conflitti sociali e risoluti tentativi repressivi e autoritari dello Stato. Le organizzazioni dei lavoratori si erano notevolmente rafforzate: nel 1891 nasceva a Milano la prima Camera del lavoro con funzioni di assistenza, tutela e rappresentanza, nel 1892 a Genova veniva fondato il Partito dei lavoratori italiani, dal 1895 Partito socialista. Francesco Crispi, l’ex garibaldino già capo del governo dal 1887 al 1991, oltre alla svolta protezionistica, si era decisamente orientato in direzione di prospettive politiche imperialistiche e colonialiste nell’intesa di rafforzare il blocco industriale-agrario dominante, concedendo il minimo possibile alle masse subalterne in termini di legislazione sociale. Tornato al governo nel 1893, dopo le brevi parentesi al governo del marchese Antonio Starabba di Rudinì (1891-1892) e di Antonio Giolitti (1892-1893), diversamente dalla moderazione di quest’ultimo nell’affrontare i conflitti sociali, Crispi si scagliava con violenza estrema contro il movimento dei fasci siciliani proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, come in Lunigiana, e affidando la risoluzione del conflitto alla repressione militare e poliziesca. In perfetta continuità con la legge sulla pubblica sicurezza varata nel 1889, che prevedeva misure di limitazione della libertà quali la sorveglianza speciale e il domicilio coatto, oltre che restrizioni nell’ambito della possibilità di riunirsi e di esprimere opinioni, nel 1994, il governo Crispi emetteva provvedimenti contro le associazioni anarchiche e metteva in atto lo scioglimento del Partito dei lavoratori italiani e delle associazioni operaie. L’ex garibaldino era costretto alle dimissioni nel 1996, a seguito della sconfitta militare di Adua, orma indelebile del fallimento delle sue politiche imperialistiche. Tornava a capo del governo di Rudinì, il quale, scoppiati nel 1998 tumulti in tutta Italia generati dal malcontento popolare e dall’aumento del prezzo del pane, consegnava, in maggio a Milano, al generale Fiorenzo Bava Beccaris la facoltà di reprimere col sangue i tumulti, lasciando sul selciato centinaia di morti e feriti e portando davanti ai tribunali militari migliaia di contestatori. Niente affatto soddisfatti, prima di Rudinì, poi il suo successore Luigi Pelloux da fine 1998, tentavano di far approvare in maniera definitiva le cosiddette leggi liberticide, nonostante la forza delle proteste popolari e l’ostruzionismo dell’opposizione parlamentare dell’Estrema Sinistra (socialisti, repubblicani, radicali). Il tentativo reazionario della Destra si arrenava: a Milano alle amministrative del 1899 veniva eletto il radicale Mussi e alle politiche del 1900 il Partito socialista raddoppiava gli eletti in parlamento rispetto alle precedenti elezioni del 1897. Il 29 luglio a Monza re Umberto I°, che aveva decorato il generale Bava Beccaris per l’eccidio di Milano, veniva assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci. Con il governo Zanardelli del 1901 iniziava l’Età giolittiana, più disponibile a trattare i conflitti sociali con gli strumenti della politica e dell’economia. In un noto articolo del 1898, l’economista salentino spiegava le cause delle sommosse, represse con il sangue, con il disinteresse dello Stato verso i lavoratori e i ceti deboli, asfissiati dalle tasse e dal carovita, impoveriti dal protezionismo industriale, minacciati nelle libertà fondamentali, mai loro realmente riconosciute. Nel 1904, De Viti De Marco incontrava nei banchi del Parlamento, eletto nel suo stesso partito, Francesco Saverio Nitti, il quale con “Nord e Sud” pubblicato nel 1900 aveva reso noto, studiati i bilanci dello stato dal 1862 al 1896-97, che la ripartizione della spesa pubblica in Italia era stata costantemente discriminante nei riguardi del Mezzogiorno e fondamentalmente tesa allo sviluppo industriale del Nord. Pur condividendo le cause che avevano portato nel giro del primo quarantennio unitario all’enorme divario economico tra le “due Italie”, i due economisti proponevano soluzioni diverse e confliggenti: Nitti, in stretti rapporti con Giolitti, suggeriva un forte impegno statale con leggi speciali volto all’industrializzazione del Mezzogiorno, De Viti De Marco, in sintonia con Fortunato, puntava tutto sull’eliminazione della tariffa doganale e su una riforma fiscale più favorevole all’agricoltura. La fondazione a Milano, nel marzo del 1904, della Lega antiprotezionista, che metteva insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali e, persino, per poco tempo sindacalisti rivoluzionari, era l’occasione per ribadire posizioni pacifiste contrapposte a un protezionismo sempre più legato a tendenze nazionaliste e imperialiste, oltre che per iniziare una collaborazione con Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, che lo riterrà sempre il “Maestro”. Lasciato nel 1911 il Partito socialista, Salvemini fondava “L’Unità”, un giornale che avrebbe avuto tra i propri collaboratori le migliori menti dell’epoca: Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Ettore Ciccotti, Gino Luzzatto, Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre ai giovani Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Il giornale avrebbe affrontato tutti i temi economici, sociali e politici del secondo decennio del Novecento, dalle questioni tributarie e fiscali alle riforme elettorali, dalla questione meridionale al protezionismo, dalla questione agraria all’emigrazione. De Viti De Marco vi giungeva nel 1912, dopo aver risolto i suoi rapporti con “Il Giornale degli economisti”. L’attività di De Viti De Marco, culturale nel “Giornale degli economisti” e in numerose collaborazioni, poi politica da deputato, nel 1929, per volontà di Umberto Zanotti Bianco e di Ernesto Rossi, è stata raccolta nel testo “Un trentennio di lotte politiche 1894-1922” .

Il Pnrr si è fermato a Eboli: progetti sbagliati e incertezze allargano il divario tra Nord e Sud. Reti idriche, asili, porti, assunzioni: i primi bandi non consentono al Meridione di recuperare il gap con il resto del Paese. E la soglia del 40 per cento, anche se sarà rispettata, non tiene conto di popolazione, Pil e disoccupati. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 25 ottobre 2021. Il divario nord-sud è cresciuto negli anni difficili della pandemia e continua a crescere ogni giorno che passa. Ma questa frattura tra le due aree del Paese rischia di diventare ancora più profonda, per paradosso, dopo la piena attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Un piano che stanzia oltre 220 miliardi di euro, soldi concessi dall’Europa proprio per ridurre le distanze tra questi due pezzi d’Italia, considerando che nessun altro Stato dell’Ue ha al suo interno livelli così diversi di crescita come il nostro Paese. I primi bandi del Pnrr, e le prime graduatorie con distribuzione delle risorse, premiano però ancora chi alcuni livelli di assistenza e di servizi li ha già. Il dibattito politico nelle ultime settimane si è concentrato solo su due aspetti: la carenza di tecnici ed esperti negli enti pubblici delle regioni meridionali per presentare progetti adeguati ad attrarre le risorse del Piano, e la soglia minima del 40 per cento delle risorse cosiddette «territorializzate» che devono essere destinate alle aree che vanno dalla Campania alla Sicilia. Su entrambi gli aspetti il governo Draghi ha offerto le più ampie rassicurazioni. Il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha avviato la selezione degli esperti da affiancare alle amministrazioni meridionali e la ministra del Mezzogiorno, Mara Carfagna, ha chiesto e ottenuto che in Parlamento passasse un suo emendamento per fissare al 40 per cento la soglia minima delle risorse che devono andare alle regioni più svantaggiate, in totale 82 miliardi di euro. Ma tra le promesse e l’avvio dei primi bandi qualcosa non torna e cresce la protesta degli amministratori meridionali. 

I PRIMI BANDI DEL PIANO

Agli onori della cronaca è arrivato recentemente il caso Sicilia: nessuno dei progetti per migliorare le condotte irrigue per agricoltura e imprese è stato finanziato per errori nella documentazione consegnata a Roma. Ma il vero problema è che degli 1,6 miliardi di euro messi a gara, solo 475 milioni (il 29 per cento del totale) è stato destinato a regioni del Sud. Al centro e al nord sono andati 1,1 miliardi di euro.

In Sicilia quasi il 50 per cento dell’acqua si perde perché le condotte sono vecchie e bucate in più parti, percentuali simili si registrano in Calabria (41 per cento) e Campania (46 per cento), mentre il record negativo di acqua che si disperde va alla Basilicata con il 56 per cento e alla Sardegna con il 55. Al Nord, la dispersione delle reti idriche è inferiore della metà: in Lombardia è del 28 per cento, in Emilia Romagna del 30 per cento, come in Liguria. Conti alla mano, per recuperare il gap e raggiungere livelli simili al Mezzogiorno occorrerebbe ben più del 40 per cento delle risorse: sul bando da 1,6 miliardi, però, Basilicata, Calabria, Sardegna, Campania e Puglia hanno avuto ammessi progetti per 475 milioni, il 29 per cento del totale. La Lombardia ha avuto finanziati progetti per 197 milioni, il Piemonte per 159 milioni, la Campania si è fermata a 168 milioni, Puglia e Sardegna sono arrivate a meno di 3 milioni. Non è andata meglio sugli asili nido e il bando da 700 milioni di euro ha visto decine di Comuni meridionali restare fuori dai finanziamenti. Qui il 58 per cento delle risorse è andato agli enti locali meridionali, con i Comuni della Campania che hanno attratto risorse per 138 milioni, seguiti da quelli della Lombardia che hanno ottenuto 58 milioni e della Sicilia arrivati a quota 56 milioni. Il divario nord-sud però così non si ridurrà, considerando che su 100 bambini in Sicilia solo 12 trovano posto in asili nido pubblici e privati, in Campania e Calabria 10 bambini, in Puglia 18, mentre in Valle d’Aosta i bambini che trovano risposta per servizi di nido sono 44, in Lombardia 31, in Piemonte 30, in Toscana ed Emilia Romagna 40 (dati Openpolis). Discorso analogo accadrà anche per un altro bando finanziato con il Pnrr, quello destinato all’assunzione di assistenti sociali: alcuni criteri premieranno i Comuni che già hanno un buon numero di assistenti sociali e chi non ha questa rete non avrà alcun fondo in più per ridurre i divari. Un’altra ripartizione delle risorse già conclusa è quella sui grandi porti commerciali. Il Pnrr varato dal governo Draghi ha fatto solo una fotografia dello status quo. Secondo i dati del ministero delle Infrastrutture, tra fondi già stanziati e Pnrr per la portualità, nei prossimi cinque anni saranno investiti 3,3 miliardi di euro e, assicurano, il 43 per cento andrà ai porti del Mezzogiorno. Ma già solo questa cifra non rispecchia nemmeno il traffico merci attuale, visto che il 47 per cento transita negli scali portuali da Napoli in giù. Tra fondi per progetti e infrastrutture di certo c’è che solo i porti di Genova e Trieste riceveranno un miliardo di euro, molto di più degli scali di Napoli, Gioia Tauro, Augusta o Palermo. Qualcosa non torna perfino nella distribuzione territoriale degli esperti assunti a tempo determinato per aiutare le amministrazioni pubbliche in difficoltà nel presentare i progetti finanziati con il Piano Ue. Dei mille giovani tecnici chiamati in servizio, per una spesa di 320 milioni di euro, secondo la bozza del Dpcm, chi ne riceverà di più è la Lombardia con 131 assunti, seguono Campania e Lazio con 101 e 87, mentre l’Emilia Romagna ne avrà 64, qualche unità in meno della Puglia. La Calabria ne avrà 40, la Toscana 52 e il Piemonte 62. Ma non si dovevano aiutare gli enti pubblici senza personale? 

L’ALLARME DI SINDACI ED ESPERTI

Il professore dell’Università di Bari Gianfranco Viesti, esperto di società ed economia meridionale, non è molto sorpreso da questo avvio di attuazione del Pnrr e non ha molta speranza in una vera riduzione dei divari grazie a questo fiume di denaro in arrivo da Bruxelles: «Anche prendendo per buona la cifra di 82 miliardi di risorse che andranno davvero al Mezzogiorno, la vera domanda è: quanti di questi soldi rappresentano concretamente nuovi investimenti? Sulle infrastrutture abbiamo assistito a una partita di giro, con opere finanziate da tempo con fondi statali ai quali adesso sono subentrati i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Conti alla mano, studiando le poche cifre certe del documento sul Pnrr consegnato in Parlamento e a Bruxelles, solo 35 miliardi di risorse aggiuntive andranno al Mezzogiorno. Il resto è un grande punto interrogativo. Ma anche dando per certa la soglia del 40 per cento, questa non basta certo ad avvicinare i livelli dei sevizi nelle regioni del sud alla media nazionale. Per gli asili nido, al Mezzogiorno dovrebbero andare il 70 per cento delle risorse, solo così Reggio Calabria potrebbe avvicinarsi a Reggio Emilia: oggi la prima città ha 3 asili nido, la seconda 60. C’è poi il grande tema della burocrazia: è evidente che considerando il poco tempo per realizzare i progetti il sistema burocratico del Sud non può competere. Occorrono misure speciali e immediate per aiutare la macchina degli enti locali». Proprio quello della burocrazia è il tema che preoccupa di più i sindaci. Cinquecento amministratori meridionali si sono riuniti in una grande rete, tra questi il primo cittadino di Acquaviva in Puglia, Davide Carlucci: «Abbiamo creato un'alleanza tra sindaci di tutto il Sud. L'occasione è stata proprio il Pnrr: non vorremmo che fosse l'ennesimo treno perso per eliminare il divario con il resto d'Italia, che invece negli ultimi anni è cresciuto. La soglia del 40 per cento sembra un'enormità, è in realtà un tradimento delle indicazioni che ha dato l'Unione Europea stanziando i fondi in base alla popolazione, al Pil pro capite e al tasso di disoccupazione degli ultimi cinque anni. Se si fossero utilizzati questi parametri anche nella distribuzione delle risorse all'interno della nostra nazione, al Mezzogiorno sarebbe dovuto andare il 68 per cento. La Lombardia, così, otterrà 35 miliardi di euro, quasi la stessa somma della Francia che ha gli stessi indicatori economici ma una popolazione sei volte superiore, mentre la Calabria, terza regione più povera d'Europa, ne avrà solo 9,5. Inoltre sebbene il presidente del Consiglio Draghi abbia a più riprese sottolineato la necessità di rafforzare la pubblica amministrazione, nulla di concreto è stato fatto. Oggi Bassano del Grappa, di 43mila abitanti, può contare su 256 dipendenti a tempo indeterminato, mentre Corato, 48mila abitanti, ha 128 unità, la metà». Carlo Marino, presidente dell’Anci Campania, aggiunge: «Dal governo ci attendiamo tre cose: mettere i Comuni al centro della spesa e dare loro delle procedure semplificate; un piano straordinario di assunzioni che destini ai Comuni meridionali 5 mila giovani progettisti; garantire senza trucchi che il 40 per cento delle risorse resti al Sud. Punti sui quali, a partire dall’ultimo, siamo pronti a dare battaglia». Dall’Unione europea intanto si dicono preoccupati per la distribuzione reale delle risorse del Piano in Italia. Dolors Montserrat, presidente della Commissione per le petizioni, ha dichiarato «ricevibile» una istanza di verifica sulla spesa dei fondi Ue fatta dai sindaci del Sud. Una istanza che chiede un costante monitoraggio all’Ue sull’impiego delle risorse del Piano.  Montserrat nella lettera di risposta ha aggiunto: «Ho chiesto alla Commissione europea di condurre un'indagine preliminare sulla questione». I primi bandi del Pnrr sono già più di un campanello d’allarme.

L’allarme dell’Istituto Tagliacarne e di Unioncamere. Metà della ricchezza italiana in venti province, nessuna è al Sud. Andrea Esposito su Il Riformista il 9 Ottobre 2021. Nelle prime venti province italiane si concentra più della metà della ricchezza prodotta in Italia. E tra quelle non ce n’è una del Sud. Bisogna scorrere fino alla quarantesima posizione della graduatoria – guidata, manco a dirlo, da Milano – per trovarne una leggermente più giù di Roma. Ed è quella di Cagliari, certo non quella di Napoli che è soltanto 83esima, preceduta da Palermo e seguita da Salerno. Segno che il gap tra il Nord e il Sud del Paese aumenta, nonostante il Mezzogiorno abbia per certi versi retto meglio all’urto della pandemia. Ecco la drammatica fotografia scattata dal Centro Studi Tagliacarne e da Unioncamere attraverso un report dedicato agli effetti del Covid sul valore aggiunto prodotto nelle aree metropolitane italiane. Il primo dato che balza all’occhio è la differente velocità alla quale viaggiano i vari territori italiani. A Roma e a Milano e dintorni, per esempio, si produce il 19,7% della ricchezza dell’intero Paese: un dato addirittura in aumento di due punti percentuali rispetto al 2000. Ma il capoluogo lombardo si conferma leader anche nella classifica provinciale per valore aggiunto pro capite con 47.495 euro e stacca la capitale addirittura di sette posizioni. La provincia più “vicina” a Milano è quella di Bolzano, lontana addirittura di 21 punti percentuali: uno scarto mai così alto dal 2012. Insomma, Milano vola rispetto al resto d’Italia nonostante l’impatto della pandemia sia stato più sensibile nelle province del Nord, dove si concentrano le aree a maggiore vocazione industriale e le imprese con meno di 50 addetti che, soprattutto nei settori della moda e della cultura, sono risultate le più penalizzate dalla crisi. Qui il valore aggiunto è calato del 7,4%, mentre al Sud la flessione è stata del 6,4: danni limitati grazie alla più consistente presenza pubblica nell’economia e alla massiccia presenza di imprese attive nei settori della green e blue economy, per certi versi meno colpiti dal Covid. «La crisi non ha risparmiato nessuna provincia – spiega Andrea Prete, presidente di Unioncamere – ma al Sud gli effetti sono stati più limitati grazie ai provvedimenti messi in campo dal Governo nazionale e dalla tenacia delle imprese». Ma come si sono comportate le province della Campania? Quella di Napoli ha perso il 6,9% di valore aggiunto, cioè meno di quelle di Caserta (-9,2%) e di Avellino (-8,2%), ma nettamente di più rispetto a quella di Benevento (-3,3% grazie alla consistente presenza del settore pubblico nell’economia locale) e di quelle di Milano e di Roma (rispettivamente -5,6 e -6,6%). In Campania come nelle altre province meridionali, dunque, «la crisi ha agito su un’area già provata economicamente e socialmente in termini di reddito pro capite e di incidenza delle situazioni di povertà». Ora, ovviamente, si tratta di rimettere in moto il sistema economico. E, soprattutto, di ridurre quelle diseguaglianze che il Covid ha reso ancora più evidenti. Lo strumento c’è ed è il Piano nazionale di ripresa e resilienza nell’ambito del quale la Campania vede ora finanziati i primi nove progetti. Poca roba, se si considera la consistenza del gap in termini di servizi e infrastrutture che allontana sempre di più i territori dell’Italia meridionale da quelli dell’Italia settentrionale e dal resto d’Europa. Una situazione che associazioni come la Svimez hanno denunciato a più riprese sottolineando la necessità di abbandonare una volta per tutte l’idea del Nord come unica “locomotiva” dell’economia nazionale e di considerare il Sud come “secondo motore” dello sviluppo del Paese. La politica sembra avere recepito il messaggio: ieri il ministro Enrico Giovannini ha precisato che il 56% dei 62 miliardi da investire in infrastrutture e mobilità sostenibile andrà al Mezzogiorno. Stesso discorso per il decreto per la rigenerazione urbana che vale quasi tre miliardi per 159 progetti destinati a migliorare la qualità della vita nelle città meridionali senza consumare suolo. «Ora l’importante è avviare le iniziative del Pnrr – conclude Prete – Non c’è un minuto da perdere». Andrea Esposito

Autonomia differenziata, il cadavere riesumato da un blitz della Lega. Un disegno di legge per attuare il regionalismo differenziato collegato alla legge di bilancio. Il piano B del Carroccio in caso di flop elettorale: tornare al Federalismo padano. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud l'1 ottobre 2021. Accompagnata all’uscita dalla porta principale, l’autonomia differenziata è pronta a rientrare dalla finestra. Con il solito blitz leghista è riapparsa sotto forma di disegno di legge, un collegato alla nota di aggiornamento al Def. Un fantasma pronto a riprendere forma tutte le volte che il fanatismo elettorale lo richiede. Ma questa volta sotto le sembianza del “federalismo spinto” ci potrebbe essere dell’altro. La scappatoia esistenziale di una parte del Carroccio. Le bandiera del popolo padano sono rimaste negli armadi, basterebbe spolverarle e riportarle in piazza per tornare alle origini. Il blitz è stato ispirato dai soliti governatori oltranzisti, il lombardo Attilio Fontana e il veneto Luca Zaia e con la benedizione di Giancarlo Giorgetti. Una rete di protezione in vista del possibile flop alle amministrative. Il dopo Salvini insomma è già cominciato. Se il sogno di una Lega sparsa su tutto il territorio nazionale sfuma, come dicono i sondaggi, si torna all’antico. Salvini, dicono le malelingue, si è esposto nella difesa del suo ex digital-guru Luca Morisi per non lavare i “panni sporchi”. La caduta dal podio è vicina. Ed ecco allora rispuntare il vecchio disegno, i confini segnati dal sacro fiume Po, l’occhio strizzato agli elettori delle regioni del Nord, la resurrezione del bossismo, come raccontato da questo giornale qualche giorno fa.

FEDERALISMO AD OROLOGERIA

La riesumazione dell’autonomia differenziata, dunque, come effetto collaterale. La Lega che si slega. Ed ecco che, depotenziato dalla crisi sanitaria, logorato dal protagonismo dei governatori, il federalismo ad orologeria si materializza nella sua forma più estremista. La versione già bocciata del primo governo Conte. L’interpretazione più talebana dei criteri di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Un nuovo assetto federale per regolare il rapporto economico-finanziario tra lo Stato e le autonomie territoriali. Che vuol dire superamento del sistema di finanza derivata, maggiore autonomia di entrata e di spesa agli enti decentrati. E al diavolo i princìpi di solidarietà, riequilibrio territoriale e coesione sociale che dovrebbero guidare tutte le scelte del PNNR secondo i dettami Ue. Non c’è da stupirsi se ancora una volta l’attenzione dei governatori e della Lega – ma non solo – riguarda la parte economico-finanziaria dell’autonomia differenziata. La legge n. 42/2009 ha introdotto il principio di territorialità per regolare l modalità di attribuzione alle Regioni del gettito dei tributi regionali e delle compartecipazioni al gettito. Ed è questo che fa gola, la possibilità di tener conto del luogo di consumo, localizzazione dei cespiti, prestazione del lavoro, residenza del percettore. In una parola la fiscalità regionale, ovvero la fiscalizzazione dei trasferimenti statali alle Regioni e alle Province. Attuare il federalismo per i leghisti di ieri e di oggi – detto in soldoni – ha sempre voluto dire questo: incassare i dané e tenerseli in cassaforte considerando propri anche quelli destinati alla perequazione. Da qui la richiesta di rideterminare l’aliquota dell’addizionale regionale Irpef per garantire alle Regioni a statuto ordinario entrate corrispondenti ai trasferimenti statali soppressi. Ciò che prima ti veniva passato per trasferimento dallo Stato si può trattenere a monte. A pensarci bene non è molto diverso dal principio declinato in ambito sanitario con il decreto legislativo n. 68 del 2011. E i risultati sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti; disparità di trattamento, disuguaglianza, assenza di medicina territoriale, ospedali tagliati, trattamenti economici differenziati, migrazione sanitaria, viaggi della speranza etc, etc. Da giorno in cui la Lega ha iniziato a cavalcare quella che doveva essere la tigre dell’autonomia poco o niente s’è fatto. Arranca la determinazione dei fabbisogni standard, indicatori tratti da una banca dati, informazioni che provengono dal territorio per costruire un meccanismo perequativo. Non si riesce a dare forma e contenuto ai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni previsti dal Pnrr: per farlo bisognerà aspettare almeno fino al 2026. In compenso, come se nulla fosse, si torna a parlare del luminoso destino che attenderebbe le regioni del Nord pronte ad affrancarsi dal centralismo cristallizzante. Il solito tormentone, la solitaria accelerazione di un partito in crisi di identità. Il ritorno a scoppio ritardato di un modello che lo stesso Salvini aveva riposto nel guardaroba tra gli abiti dismessi. Indumenti logori, lisi, già usati. Le iniziative assunte ormai vari anni fa, in un altro clima politico e sociale, in un’altra Italia, da alcune Regioni, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna spacciate per atti di fondazione. Referendum-farsa ai sensi dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione.

COME FINIRÀ?

In passato blitz di questo tipo si sono conclusi con un nulla di fatto. E così dovrebbe essere anche questa volta. Tanto più che una bocciatura netta al disegno leghista è arrivata anche dagli esperti nominati dalla ministra agli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Una commissione di docenti, giuristi e tecnici che ha giudicato il passaggio di alcune competenze, come ad esempio l’istruzione, impraticabile. Anche perché l’impianto generale scelto per il riconoscimento dell’autonomia differenziata dovrà essere uguale per tutti. E invece i percorsi per arrivare all’autonomia sono molto diversi fra loro.

RISPOLVERATE LE PRE-INTESE

Nella scorsa legislatura furono firmati tre accordi separati. In realtà pre-intese senza alcun valore giuridico dall’allora segretario Gianclaudio Bressa, esponente del partito democratico. Una strada diversa è stata invece quella scelta dall’ex ministro agli Affari regionali, anche lui dem, Francesco Boccia, un sistema di legge quadro, la definizione di un perimetro entro il quale declinare le varie forme di autonomia. Poi la Pandemia ha smontato tutto, messo a nudo le crepe, smascherato gli egocentrismi, i personalismi gli sprechi e le inefficienze proprio delle regioni e dei governatori che più di altri agitavano il vessillo dell’autonomia.

LO SCONTRO CON FICO

Fin qui il passato e anche il presente, con l’ultima recente riesumazione ad uso interno leghista. Con il sospetto che questa volta intorno al tema del federalismo si possa costruire una sorta di alleanza. L’asse Giorgetti-Gelmini è cosa fatta (e non promette nulla di buono). Vorrebbe saldarsi con un fronte moderato al quale si sta avvicinando sempre di più Luigi Di Maio, il ministro sempre più stressato dai conflitti del M5S, sempre più insofferente all’alleanza con il Pd. Lo scontro con Roberto Fico a Napoli, il sostegno ai “propri” candidati lo tiene molto più occupato delle questioni internazionali, uno scontro che va oltre l’orizzonte stretto delle prossime elezioni amministrative. Il regionalismo differenziato potrebbe essere contropartita per un accordo più ampio che taglierebbe fuori Giuseppe Conte. Il regionalismo differenziato come contropartita. Un negoziato scellerato sulla pelle del Mezzogiorno.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 22 settembre 2021. Di Italie, si sa, ce ne sono almeno due. E una, quella più a Sud, è costretta ogni giorno a fare i conti con un gap infrastrutturale che riguarda in primis la scuola e i suoi servizi. Un divario che ha raggiunto ormai proporzioni inaccettabili. Un dato su tutti (dal report di Legambiente Ecosistema Scuola): nella Penisola vengono stanziati in media 4,60 euro a studente per finanziare progetti o iniziative extrascolastiche dedicate agli under 14. La statistica però trae in inganno e se al Nord per ogni alunno gli euro sono 9,3, al Centro sono 1,4, a Sud 1 e nelle Isole addirittura 0. Una fotografia che non migliora allargando il campo alla gestione delle strutture scolastiche. Negli ultimi 5 anni infatti sono stati spesi - sempre in media - 5.679 euro per la manutenzione ordinaria di ogni singolo edificio della Penisola. Riprendendo la suddivisione precedente, a fronte di uno stanziamento da parte dello Stato e della Ue di 7.258 euro per ogni istituto, gli edifici scolastici del Nord hanno ricevuto 7.248 euro, mentre le scuole del Centro si sono accontentate di 5.864 euro, quelle del Sud di 4.495 euro e, sulle Isole, di appena 1.879 euro. Eppure a guardare quali di questi edifici necessitino di manutenzione urgente la situazione è opposta: nelle Isole sono oltre il 63 per cento, al Sud oltre il 31 per cento, al Centro il 27,4 per cento e al Nord il 22,9 per cento.

IL PIANO Non è dunque un caso se il Piano nazionale di ripresa e resilienza varato dal governo, destina al Meridione 82 miliardi di euro proprio con l'intenzione di colmare questo gap. Fondi da spendere però con attenzione per evitare che neanche un euro di queste risorse finisca con l'essere impegnato senza questa finalità. Tant'è che alte fonti di governo, senza confermare l'esistenza di tali distorsioni, commentano: «Stiamo lavorando una valutazione dell'avvio del Pnrr e comunque la cabina di regia prevista servirà anche a monitorare e coordinare l'attuazione equilibrata del piano». Qualche criticità ad esempio, si è già presentata con il primo finanziamento da 700 milioni di euro destinato ad asili nido e scuole dell'infanzia. Come denunciato ieri dal Messaggero infatti, tra i criteri del bando (varato dal precedente governo) che premiavano le domande, c'era anche quello del cofinanziamento. Un criterio che assegnava ben 10 punti, contro gli appena 3 destinati a quelle richieste in arrivo da comuni in cui il numero degli asili nido è inferiore alla media nazionale. Inevitabile quindi, che a fronte di un'assegnazione di fondi destinata alle aree più disagiate del Paese, tra i 453 progetti approvati compaiano diversi casi in cui lo svantaggio non è poi così evidente. Dall'asilo nido di Torino a 2 chilometri da piazza Castello fino a quello milanese vicino ai Navigli e alla scuola per l'infanzia in pieno centro a Udine.

GLI ASILI Una stortura che, contestualizzata con i dati dell'associazione Con i bambini e di OpenPolis, appare ancora più evidente. Nella Penisola infatti, a fronte di un Centro-Nord che ha quasi raggiunto l'obiettivo europeo di 33 posti disponibili ogni 100 bambini (sono a 32) e dove comunque in media due comuni su 3 offrono il servizio, c'è un Mezzogiorno in cui i posti disponibili sono invece solo 13,5 ogni 100 bambini, e il servizio è garantito in meno della metà dei comuni (il 47,6 per cento). In particolare la differenza è di 18,5 punti e si sostanzia in un singolo esempio: A Bolzano ci sono quasi 7 posti ogni 10 bambini, a Catania e Crotone quasi 5 su 100. Il dramma è che si potrebbe continuare all'infinito. Le mense scolastiche? Secondo Legambiente che ha analizzato un campione di oltre 6mila edifici scolastici nelle regioni del Nord ce n'è una nel 74 per cento degli istituti. Il servizio invece al Centro e al Sud è disponibile in meno di una scuola su due (rispettivamente nel 46 e nel 41 per cento delle strutture), e nelle Isole in uno su tre (33,5 per cento). Le palestre? Nel settentrione le hanno il 55 per cento delle scuole, al Centro il 38,9 per cento, al Sud il 44,8 per cento e sulle Isole il 35,1 per cento. Infine il risultato peggiore, quello sull'apprendimento. Dati Invalsi alla mano (Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna hanno oltre il 50% degli alunni che raccoglie risultati scarsi in Italiano, il 60% in Matematica) c'è una sola interpretazione possibile: l'intero sistema scolastico funziona meglio al Nord. Ma non ci sono più scuse, è ora di rimediare.

Autonomia differenziata: come scappare con il bottino. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2021. LA BOCCIATURA è solenne e senza appello. Ed è il motivo per cui Luca Zaia e Attilio Fontana dopo aver letto la relazione redatta dal comitato dei saggi nominati dal ministero hanno chiesto subito di poterne parlare con la ministra agli Affari regionali Mariastella Gelmini. Non era il testo che il presidente del Veneto e della Lombardia si aspettavano. Al contrario era un’analisi lucida e particolareggiata, dal punto di vista giuridico ed economico, delle ragioni per cui parlare di regionalismo differenziato nell’anno di grazia 2021 non ha più molto senso. La Commissione tecnica, presieduta dal professor Beniamino Caravita, formata da 5 costituzionalisti di chiara fama, ha sollevato molti dubbi. A partire dall’interpretazione nel merito dell’articolo 116 della Carta costituzionale e a seguire dell’articolo 117, quello che indica le materie che lo Stato può devolvere “in particolari condizioni” alle Regioni. Stessi rilievi del gruppo di lavoro sulla parte finanziaria, oggetto nel giugno scorso di una serie di audizioni formali alle quali hanno preso parte tra l’altro membri del Consiglio direttivo dell’Ufficio parlamentare di Bilancio. Stiamo parlando di esperti in materia di federalismo fiscale come l’economista Alberto Zanardi e Chiara Gobetti, chiamata qualche giorno fa da Mario Draghi a far parte della cabina di regia che gestirà il Pnrr. Si è partiti da una prima bozza di documento raccogliendo i pareri di esperti di settore. E alla fine si sono tirate le somme. Ma il documento finito sui tavoli regionali non è quello che i due governatori leghisti avrebbero voluto.

ISTRUZIONE PUNTO CRITICO. Il punto più critico è il trasferimento delle funzioni relative all’Istruzione. Il cuore dell’autonomia differenziata, la materia che insieme alla sanità fa più gola agli autonomisti 4.0 e senza la quale qualsiasi forma di regionalismo spinto si svuota. Le valutazioni raccolte su questo punto non riguardano il carattere politico della richiesta. I saggi e gli esperti erano esentati da esprimere valutazione sul carattere identitario cose simile, aspetto centrale almeno quanto le risorse. Era importante però indicare in che modo quantificare l’entità dei trasferimenti e sciogliere le questioni finanziarie collegate al disegno di finanziamento del decentramento che la Commissione. Ed è proprio su questo punto che nel corso delle audizioni gli esperti hanno smontato pezzo a pezzo le pretese dei governatori del Nord. Nella bozza d’intesa scritta nel febbraio del 2019 i nodi nevralgici erano tutti ancora aggrovigliati. Solo disposizioni generali, identiche per tutte le regioni richiedenti. Nella successiva bozza, datata novembre 2020, si faceva un generico riferimento ad una compartecipazione al gettito erariale e alla possibilità di misure transitorie in attesa del solito ormai leggendario aggiornamento dei Lep. Per avere una dimensione finanziaria di tutto quello che si porta dietro la scuola ad esempio il solo trasferimento del personale scolastico in Lombardia, basti dire che la sola Regione Lombardia riceverebbe dallo Stato 4,6 miliardi, 2,3 il Veneto e oltre 2 miliardi l’Emilia Romagna: 26,5 miliardi se tutte le regioni a statuto ordinario dovessero fare la stessa richiesta. Tutte le fonti di finanziamento dovrebbero essere ricollocate a favore delle regioni. Senza entrare nel merito delle funzioni richieste, cambiando il soggetto che fornisce questo servizio pubblico, si modificherebbe l’aspetto organizzativo-regolamentare e tutto questo avrebbe un costo aggiuntivo. Uno spostamento di risorse che avrebbe comportato una profonda revisione dell’assetto normativo. Il finanziamento delle funzioni aggiuntive, separato dalla struttura generale di finanziamento delle regioni a statuto ordinario, non sarebbe stato oltretutto coerente con l’articolo 116 “che fa espresso riferimento all’articolo 119 e dovrebbe realizzarsi con modalità «il più possibile coerenti e integrate con il meccanismo di finanziamento di tutte le altre regioni». Questi punti critici nella relazione dei saggi – relazione che la Gelmini avrebbe voluto restasse “segreta” – vengono puntualmente elencati. Così come le questioni più giuridiche sollevate dalla professoressa Anna Poggi, docente di Diritto pubblico all’Università di Torino e dal professor Giulio Maria Salerno, titolare nella stessa materia all’Ateneo di Macerata.

SENZA LA SCUOLA IL REGIONALISMO SI SVUOTA. Tutto il dibattito sul regionalismo differenziato per quanto riguarda gli aspetti delle risorse finanziaria gira intorno alla scuola. Da qui la delusione di Fontana e Zaia, Anche se in questi anni si è registrato da parte loro un atteggiamento ondivago. Da una parte la rivendicazione, il vessillo da esporre, dall’altra il rischio che comporta la gestione concreta dell’Istruzione. Un complicato periodo di transizione, l’eventuale scelta proposta ai docenti e non docenti di optare per ruoli statali o regionali. Un nuovo sistema di offerta formativa, la ridefinizione delle retribuzioni con eventuali differenziazioni di trattamento.

LA SCUOLA COME LA SANITÀ? NO GRAZIE. Per la geografia della finanza pubblica spostare una piccola funzione organizzativa non è come spostare la fornitura complessiva dell’Istruzione. I costi si moltiplicano. Tanta prudenza da parte dei saggi, con relativa inversione di tendenza, si spiega con gli effetti collaterali della Pandemia. Se si andasse avanti in questa direzione, con la regionalizzazione della scuola bisognerebbe costruire un sistema simile alla sanità sviluppando in modo simmetrico a tutte le regioni e non solo in quelle che ne hanno hanno richiesta. Per la sanità c’è un ammontare di risorse destinate a quella specifica funzione, quota che viene rivista di anno. Per la scuola dovrebbe esserci un meccanismo analogo, un fondo scolastico che alimenterebbe le regioni. Le risorse – fanno osservare gli esperti, tenuti alla massima discrezione – dovrebbero essere attribuite in modo perequativo in tutti i territori a prescindere dal soggetto pubblico che li eroga. E questo contrasta con le richieste vagamente declinate da Veneto e Lombardia. L’ex ministra agli Affari regionali Erika Stefani, la pasionaria leghista dell’autonomia, aveva stilato una bozza d’accordo in cui si fissava un’aliquota sui grandi tributi nazionali fotografando la situazione in base alla spesa storica. Una scommessa al buio fuori da ogni dinamica economica, contro ogni principio perequativo e contro ogni regola di riparto.

IL PARLAMENTO ESAUTORATO. L’altro punto sul quale la Commissione tecnica ha eccepito è l’iter di una eventuale legge-quadro modificata e corretta. I governatori, specie quelli del Nord, chiedono che le bozze di intesa una volta concordate non passino più attraverso una discussione parlamentare che le possa emendare. Governo centrale e governo regionale fissano un testo e quel testo rimane. Più che una richiesta, una pretesa. Vincenzo Presutto, senatore campano del M5S, è vice presidente della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale. Spiega: «Non mi sorprende che la relazione della Commissione tecnica abbia evidenziato serie criticità in merito al trasferimento dell’Istruzione alle Regioni.  Il tema del Regionalismo differenziato – rileva Presutto – ha sollevato da sempre diverse perplessità, basta tenere presente gli accadimenti legati alla pandemia da Covid-19 durante la quale la Sanità gestita dalle Regioni, alcune delle quali si sono in più di un caso poste in conflitto con le indicazioni dello Stato centrale, al punto tale che diverse voci si sono sollevate per mettere in discussione addirittura la stessa riforma del Titolo V della Costituzione con la quale fu avviato il trasferimento di alcune materie concorrenti, quelle cosiddette “simmetriche”, alle Regioni. Tale percorso, avviato nel 2001, ancora oggi è rimasto incompleto». L’Italia è a un bivio: o si applichiamo le logiche del Regionalismo e delle Autonomie nel rispetto della Costituzione, salvaguardando i principi di coesione e solidarietà, o, secondo Presutto, «dovrà essere rivista l’impostazione dell’intero Titolo V». «Il Pnrr ha in sé il presupposto per l’applicazione del Federalismo e delle Autonomie Regionali – osserva il senatore – consente allo Stato di adottare una politica nazionale strategica sui grandi temi, superando quel concetto di “spezzatino” regionale voluto con un Regionalismo differenziato che finora ha solo alimentato la competizione tra le Regioni. Con il PNRR, potendo operare sui grandi obiettivi e le relative missioni, si creano le condizioni per rilanciare l’Italia rendendola un Paese più moderno e competitivo, in grado di adeguarsi alle regole mondiali che stanno cambiando radicalmente e che, nel nostro caso, necessitano di un Paese sempre più unito, coeso e solidale colmando il divario economico, sociale e culturale tra Nord e Sud, come peraltro ci è stato esplicitamente richiesto dall’Unione Europea». «Per questo – conclude il senatore Presutto – appaiono più chiari i motivi per i quali la Commissione tecnica, voluta dal ministero abbia escluso che il diritto allo studio possa essere sottratto al controllo dello Stato, e che sia attribuito invece alle singole Regioni richiedenti, visto l’alto rischio di creare sul tema dell’Istruzione, che è un valore portante della nostra democrazia, disparità tra i cittadini a livello territoriale».

QUANDO I NUMERI PARLANO. VACCINO, SCUOLA, ECONOMIA, INFRASTRUTTURE E AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. C’è da pedalare, ma la bicicletta è già stata comprata. Anche l’incubo di una notte di mezza estate, che riveliamo in esclusiva, di un’autonomia differenziata che sarebbe costata dieci miliardi in più solo per consentire ai governatori di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto di assumere e pagare loro i docenti e di fare la loro scuola, è caduto sotto i colpi della Costituzione ritrovata e della verità dei fatti e dei numeri. Stiamo uscendo tutti insieme dal mondo dell’irrealtà e questo vale anche per i partiti del rumore che alla fine non dicono mai no. Anche le Regioni sono state messe in riga. Hanno scadenze da rispettare e cose da fare. Chi sa di avere il Paese dietro manda il suo messaggio ai partiti. Fate pure le vostre sceneggiate, ma sappiate che state parlando al vento. Io vi porto cifre e fatti, voi portate aria e polemiche inutili. Certo, dobbiamo vedere che cosa succede nei prossimi due trimestri perché quella sarà la prova vera, ma fino a oggi in economia abbiamo fatto il nostro. Anche le Regioni sono state messe in riga, dicono sì prima e devono fare il loro nei trasporti locali. Hanno scadenze da rispettare e cose da fare. Ancora. Il 91% di vaccinati del personale docente e la grande corsa a vaccinarsi dei ragazzi sono il segno concreto di un Paese che vuole rimettersi in cammino. I 59 mila insegnanti messi in ruolo contro i 19 mila dell’anno precedente sono il frutto dell’azione paziente del ministro Bianchi e di un metodo di lavoro che guarda lontano e si prepara per tempo. Lo stesso metodo che ha consentito di recuperare in estate un milione e seicentomila ore di scuola per la linguistica e la matematica, ma ancora prima per tornare a fare scuola insieme e a parlare insieme. Si è arrivati all’inizio dell’anno scolastico con una grande voglia di tutti di ritornare tra i banchi perché il governo non è andato in vacanza “a passeggiare”. Obbligo dei vaccini? Sì. Terza dose? Sì. Afghanistan e Europa inconcludente? Sì, perché c’è stato qualcuno che è stato concludente? La verità è che l’Europa è assente perché non è organizzata, ma ci stiamo lavorando e tutte le relazioni diplomatiche stanno cambiando. Noi governo Draghi, questo è il senso, stiamo facendo e sappiamo di avere il Paese dietro. Voi alle spalle non avete niente, i centri decisionali lavorano con noi. Potete fare solo un po’ di confusione sui social, ma tutti hanno capito che il governo fa le cose e vogliono confrontarsi e trovare un accordo perché è troppo importante. Stiamo uscendo tutti insieme dal mondo dell’irrealtà e questo vale anche per i partiti del rumore che alla fine non dicono mai no. L’incubo di una notte di mezza estate che riveliamo in esclusiva di un’autonomia differenziata che sarebbe costata dieci miliardi in più solo per consentire ai governatori di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto di assumere e pagare loro i docenti e di fare la loro scuola, è caduto sotto i colpi della Costituzione ritrovata e della verità dei fatti e dei numeri. Sempre quelli. È grave che si pensino architetture simili, ma oggi a differenza del passato c’è un muro di buon senso che le rende irrealizzabili. Perché il Paese è uno e può ripartire solo insieme non con gli egoismi miopi che hanno segnato i venti anni della crescita zero. L’abilità di Draghi è evidente. Lui loda il Parlamento e lavora con il governo. Arriva in conferenza stampa mai da solo e circondato da sempre più ministri. Si vede la squadra e si percepisce la guida. Il messaggio di prima battuta è: noi stiamo lavorando, basta che aprite gli occhi e ve ne accorgerete. Il messaggio di seconda battuta è ai partiti: guardate che la gente se ne è accorta.  Come dire: fate, ma sappiate che ci saranno delle conseguenze. C’è da pedalare, ma la bicicletta e già stata comprata. Hanno capito tutti, insomma, meno che il solito supertalk italiano che continua a parlare di partiti, maggioranze, Quirinale, e delle loro consunte varianti che sono il problema della Lega, il problema del Pd, i Cinque stelle arrabbiati. Francamente sono quasi tutti un po’ patetici perché giorno dopo giorno succederà a loro sempre di più quello che già succede ai partiti. Guadagneranno in modo più fastidioso dei partiti l’irrilevanza. Perché la gente ha capito e la Nuova Ricostruzione è cominciata.  

Posti letto negli ospedali e rifiuti, è sprofondo Sud. I dati relativi ai trasporti (strade, ferrovie, aeroporti e porti) segnalano nel Mezzogiorno una dotazione inferiore alla media italiana. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. La minorità infrastrutturale del Mezzogiorno è un leitmotiv della passione civile che anima questo quotidiano. Un recente studio della Banca d’Italia («I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso», di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller, nella collana «Questioni di Economia e Finanza») è venuto a confermare, con dovizia di analisi innovative, questa minorità, e più volte è stato presentato su questo giornale (vedi il “Quotidiano del Sud” dell’8, 11, 13, 18 agosto, con le analisi sulle dimensioni dei trasporti, della rete idrica, della rete elettrica, delle reti di telecomunicazioni…). In quest’ultimo articolo guardiamo, traendo ancora una volta da quello studio meritorio, alla ‘foresta’ delle infrastrutture, e non più ai singoli ‘alberi’. La tabella mostra, per una selva di indicatori e per ogni regione della penisola, oltre alle grandi ripartizioni territoriali (Nord, Centro, Sud e Isole), i valori di ogni indicatore rispetto al valore medio dell’Italia intera. Per meglio interpretare la tabella, è bene ricordare che non sempre un valore più basso per il Mezzogiorno indica una minorità. Tipico è il caso dell’indicatore relativo alle reti elettriche: per la rete a bassa tensione un valore più alto indica che sono più numerose le interruzioni nella fornitura di corrente, mentre il contrario vale per la rete a media tensione (che interessa le imprese): in quel caso un valore più basso indica che è minore il numero di utenze conforme agli standard di qualità fissati dall’ARERA (Agenzia di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente). Prima di commentare la tabella è utile ricordare le premesse di questa analisi dei divari infrastrutturali nelle Regioni italiane. Questi sono stati esaminati a partire dai singoli SLL: Sistemi locali del lavoro, una partizione territoriale – in Italia sono più di 600 – basata sul pendolarismo, che a sua volta segnala aree economicamente omogenee al loro interno. E L’esame si è valso dei criteri analitici della ‘Nuova geografia economica’ (NGE): una branca dell’economia, in pratica fondata dal Premio Nobel Paul Krugman, che “si caratterizza per il ricorso a sofisticati modelli analitici basati sulle distanze per spiegare la distribuzione delle attività economiche sul territorio e i processi agglomerativi all’origine dei divari di sviluppo locali”, e quindi considera quale elemento determinante nei processi di espansione economica la centralità di un’area rispetto alle destinazioni economicamente più rilevanti (mercato potenziale). Per fare un esempio non strettamente economico, fra gli indicatori di qualità delle cure ospedaliere (vedi la terzultima colonna della tabella), l’indice di accessibilità (dopo aver normalizzato i posti letto per la popolazione) consente di cogliere in che tempi il singolo individuo di un dato SLL può raggiungere le strutture di cure ospedaliere. E veniamo alla tabella. I dati relativi ai trasporti – strade, ferrovie, aeroporti e porti – segnalano nel Mezzogiorno una dotazione inferiore alla media italiana (e ricordiamo che ogni indicatore ha più di una dimensione – per esempio, come già detto nell’articolo dell’11 agosto, non si considerano solo i chilometri di strade, ma anche i tempi di percorrenza). Il solo indicatore per il quale il Mezzogiorno ha un dato superiore alla media italiana è quello relativo ai passeggeri che transitano per i porti, il che è facilmente spiegabile a causa dei collegamenti con le isole. Seguono le telecomunicazioni, e sono questi i soli indicatori per i quali il Mezzogiorno fa bella figura. Ma anche qui l’apparenza inganna. È vero, l’offerta – cioè la disponibilità della rete – è generosa con il Sud, ma la fruizione dei servizi digitali è molto più elevata al Nord. Come recita la Relazione annuale 2020 dell’Agenzia per le Comunicazioni, “in definitiva, tali evidenze mostrano ancora una volta la necessità di affiancare alle politiche di offerta (grazie alle quali si sono raggiunte importanti coperture della banda larga e ultra-larga nella gran parte delle zone del Paese) interventi dal lato della domanda, ossia che stimolino la diffusione dei servizi presso la popolazione italiana”. Per quanto riguarda le altre grandi reti, di quella elettrica si è appena parlato, mentre per quella idrica non c’è che da reiterare le disfunzioni, a sfavore del Mezzogiorno, già descritte su queste colonne il 18 agosto. La dotazione ospedaliera ha tutto il diritto di essere considerata fra le infrastrutture di base. Come recita il contributo di Banca d’Italia, “La letteratura economica ha ampiamente dimostrato che la tutela della salute contribuisce allo sviluppo economico attraverso il suo effetto positivo sull’accumulazione di capitale umano e sulla produttività del lavoro; la crisi innescata dalla pandemia ha ulteriormente messo in luce quanto siano profonde le interconnessioni fra sanità pubblica ed economia. Nel contesto istituzionale italiano la salute è un bene pubblico universale, essendo le prestazioni sanitarie costituzionalmente garantite a tutti i cittadini”. Ebbene, gli indicatori di posti-letto sono tutti più bassi al Sud, specie per la pneumologia e le malattie infettive, per non particolare dell’indicatore di qualità (di cui sui è dato un esempio più sopra), dove il livello per il Mezzogiorno è poco più della metà di quelli del Centro-Nord. Un residente nel Sud o nelle Isole ha possibilità di accedere a posti letto in strutture ospedaliere inferiori del 40 per cento rispetto a un residente in una regione centrosettentrionale. Infine, un altro aspetto della salute attiene alla gestione dei rifiuti, dove ancora una volta gli indicatori descrivono un livello tragicamente basso per il Meridione: “Anche l’erogazione dei servizi ambientali soffre di una carenza di infrastrutture particolarmente accentuata nel Sud del paese, che presenta condizioni sfavorevoli di accesso agli impianti di trattamento dei rifiuti in modo particolare per quanto riguarda la gestione della componente differenziata organica. La minore disponibilità di impianti incide sui costi pagati dall’utenza e ostacola una riorganizzazione del servizio basata sull’adozione di tariffe puntuali (che inducono le famiglie a produrre meno rifiuti e a differenziare di più, ma richiedono una dotazione di impianti adeguata)”. Lo studio di banca d’Italia ha alzato il velo su un campo di indagine che promette altri approfondimenti. Gli stessi autori prevedono ulteriori linee di sviluppo che si allarghino ad altre infrastrutture sociali (asili nido, residenze per anziani, scuole…), che arricchiscano gli indici di accessibilità con altre informazioni qualitative, e che arrivino – qui si potrebbe ricorrere alla metodologia usata nei rapporti Svimez sull’argomento – a individuare metodi per collassare i diversi indicatori in una misura sintetica di tutte le infrastrutture considerate.

Il teschio della discordia. L'ultima polemica su Lombroso minacce alla studiosa che lo difende. Massimo Novelli, la Repubblica, 28/03/2014. Il brigante Villella torna a far parlare di sé. Nel mirino adesso finisce l'antropologa che smonta il mito che ne aveva fatto un eroe. E, per motivi di ordine pubblico, il paese dove è nato cancella la presentazione del saggio. Questo libro non si deve presentare: almeno non ora, e forse mai. Succede a Motta Santa Lucia, paese calabrese di ottocento anime in provincia di Catanzaro, arroccato sulle montagne che sovrastano la valle del Savuto. Il volume in questione, appena pubblicato dalla casa editrice Salerno, in una collana diretta dallo storico Alessandro Barbero, è Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Loha scritto l'antropologa Maria Teresa Milicia. Avrebbe dovuto essere presentato domani proprio a Motta Santa Lucia. L'avvenimento, però, è stato annullato all'ultimo momento. Le ragioni? Si temevano contestazioni da parte di esponenti di quei movimenti neoborbonici e antiunitari che da tempo, mediante un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d'Italia e del Risorgimento, impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro. A fare infuriare ancora di più i neo-legittimisti del Mezzogiorno ci sono, poi, le origini calabresi di Maria Teresa Milicia, stimata docente di antropologia culturale all'Università di Padova. Quale è la sua "colpa"? Quella di avere smontato un mito, del tutto fasullo e strumentale, caro ai neo-borbonici. Nel suo saggio ripercorre con rigore scientifico, e attraverso una ricerca meticolosa, le vicende che hanno portato alcune associazioni nostalgiche del Regno delle Due Sicilie a trasformare Giuseppe Villella, un verosimile ladruncolo di polli e di caciotte, vissuto nell'Ottocento, in una sorta di eroe nazionale, alfiere della lotta del Sud contro il colonialismo del Nord. Da qui le violente contestazioni contro il Museo Cesare Lombroso di Torino; lì, tra gli altri reperti appartenenti al criminologo nato a Verona e morto a Torino (1835-1909), è conservato il cranio di Villella. Proprio esaminando i suoi resti, sul finire dell'Ottocento, il fondatore dell'antropologia criminale partì per elaborare la sua teoria, rivelatasi sbagliata, sul presunto atavismo del delinquente. É nato poi persino un Comitato "No Lombroso", con cui è stata chiesta, anche per vie giudiziarie (la causa sarà discussa in appello a dicembre), la restituzione al comune di Motta Santa Lucia del cranio di Villella, pretesa vittima del razzismo sabaudo e di Lombroso. Nel frattempo è stato incoronato dai borbonici del 2000 a leggendario patriota del Sud. In realtà, come dimostra Maria Teresa Milicia, costui non fu né un brigante e tantomeno un patriota, bensì soltanto un poveraccio. Autore di piccoli furti, morì di malattia nel carcere di Pavia. La studiosa, inoltre, smentisce nel suo lavoro le accuse di razzismo e di antimeridionalismo mosse a Lombroso, riscoprendo certi suoi scritti sulla Calabria in cui denunciava alcuni guasti dell'unificazione nazionale, «troppo più formale che sostanziale», e il peso della criminalità locale. Sicuramente chi contesta il libro non può averlo già letto, dato che non è ancora stato distribuito in tutte le librerie italiane. Saperlo in uscita, in ogni caso, è bastato per far saltare l'appuntamento di Motta Santa Lucia, annunciato da giorni dai manifesti affissi nelle vie del paese. È stato il sindaco, l'avvocato Amedeo Colacino, lo stesso che aveva invitato la Milicia, a parlarle mercoledì sera di una informativa dei carabinieri della zona, che, preoccupati per le proteste ventilate, avevano consigliato di cancellare la presentazione. Ora Colacino precisa: «Diciamo che si è preferito rinviare l'incontro per motivi di opportunità, anche per quanto è stato pubblicato su alcuni siti». Su quello del comitato "No Lombroso" si sprecano insulti, e contumelie assortite, alla Milicia. Aggiunge il sindaco: «Magari presenteremo il libro della dottoressa Milicia in contraddittorio con quello, più neo-meridionalista, che ha scritto Francesco Antonio Cefalì». Quest'ultimo, comunque, risulta essere soprattutto il coordinatore della sezione Michelina De Cesare, che era davvero una brigantessa, del cosiddetto Partito del Sud di Lamezia Terme. Commenta l'autrice di Lombroso e il brigante: «Senoncifosse stato di mezzo Lombroso, il cranio del povero Villella sarebbe stato sepolto in una fossa comune. E nessuno ne avrebbe mai parlato. Invece, intorno alla sua figura, è stata costruita una leggenda identitaria e storica del Mezzogiorno, che purtroppo si è diffusa molto». Basti dire che la segreteria telefonica del centralino del comune di Motta Santa Lucia recita che «è la città del pane, dei portali e del brigante Villella». Nella prefazione al saggio, Maria Teresa Milicia ricorda: «Ho scritto questo libro anche perché sono convinta che il Museo Lombroso non è un museo razzista», e che «i modi, il linguaggio della protesta e il palese tentativo di mistificare la verità storica istigano all'odio gli italiani e danneggiano i calabresi ». Non tutti, in Calabria, la pensano come gli animatori dei gruppi borboneggianti. Il 9 aprile, infatti, il libro verrà discusso all'Università di Cosenza da storici e antropologi come Brunello Mantelli, Silvano Montaldo e Marta Petrusewicz, Vito Teti e Mary Gibson, studiosa del "maledetto" Lombroso. E il 16 sarà il Museo Lombroso di Torino a presentarlo.

Una nuova puntata di “quando si difende l’indifendibile”: Lombroso, il razzista antimeridionale. Da neoborbonici.it.

UN LIBRO DA NON COMPRARE E UNA QUERELA PER "LA REPUBBLICA" (TESTO ALLEGATO). INTERVENTO PUBBLICATO.  Da qualche giorno è uscito un nuovo libro per dimostrare che Lombroso non era antimeridionale, che Giuseppe Villella non era un “patriota” e che non ha senso richiedere la restituzione dei suoi resti. Ovviamente vi consigliamo di non comprare questo libro (“Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso”) e ci aspettiamo a breve una nuova pubblicazione della stessa casa editrice che possa cercare di dimostrare che anche i nazisti, in fondo in fondo, non ce l’avevano così tanto con gli ebrei… Intanto, però, assistiamo al consueto rituale con uno schema abusato e ripetitivo quando ci sono di mezzo  

A. Barbero e la cultura “ufficiale”: si pubblica un libro contro revisionisti&neoborbonici accusandoli pure di “fini immondi” o (in questo caso, come da dichiarazioni dell’autrice in questione), “di mistificare la storia e danneggiare i calabresi”, ci si  lamenta di “attacchi e insulti” o addirittura di ipotetiche e anonime “minacce” sul web (Repubblica 28/3/14) cercando polemiche che dovrebbero servire (ricordate la famosa “mamma, Ciccio mi tocca”?) a pubblicizzare e vendere gli stessi libri dai titoli sempre “ambivalenti” che, analizzati nei dettagli, rivelano l’inconsistenza delle loro tesi. In questo caso già nella scheda introduttiva della casa editrice le parole sono più che chiare: si tratta della calabrese  M. T. Milicia, una antropologa definita “nativa” con terminologia discutibile, utilizzata in maniera quasi (per restare in tema) freudiana in genere riferita ai popoli colonizzati o conquistati… Nelle (consuete) paginate di quotidiani con commenti carichi di entusiasmo il (consueto) repertorio: tutti noi (neoborbonici in testa che avviarono con il sindaco di Motta Santa Lucia, Amedo Colacino, la richiesta di restituzione di quei resti) “piegheremmo la storia a fini politici”: eppure non risulta un solo neoborbonico mai candidato neanche in una municipalità da quando nel 1993 è nato il Movimento; eppure del Comitato No Lombroso che quella battaglia l’ha portata avanti con grande determinazione fanno parte centinaia di studiosi e interi consigli comunali forti anche di una sentenza addirittura di un Tribunale italiano (e non delle Due Sicilie)… Involontariamente comiche (se non si trattasse di fatti tragici) le dichiarazioni della ricercatrice “nativa” (Repubblica 25/3/14) secondo le quali nessuno ricorderebbe Villella se Lombroso non l’avesse studiato: un po’ come attribuire meriti magari ai nazisti per aver costruito i campi di concentramento “altrimenti nessuno conoscerebbe lo sterminio degli ebrei”… E così Lombroso “non si era accanito contro i meridionali”, “non avallava teorie antimeridionali e neanche il museo”… Eppure lo scienziato veneto-piemontese passò diversi mesi in Calabria per studiare le razze locali al seguito dell’esercito schierato contro il “brigantaggio”. Eppure fu lui ad elaborare la ridicola teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione” (la prima portata naturalmente a delinquere). Eppure fu proprio lui a scrivere “È  agli  elementi  africani  ed  orientali  (meno  i  Greci),  che  l'Italia  deve, fondamentalmente,  la  maggior  frequenza  di  omicidii  in  Calabria,  Sicilia  e  Sardegna, mentre  la  minima  è  dove  predominarono  stirpi  nordiche  (Lombardia)”. Eppure per Lombroso il calabrese presentava il carattere della tribù e costituiva un attentato continuo alla sicurezza degli altri. Eppure sempre lui, perito di parte del soldato (calabrese) Salvatore Misdea che aveva ucciso diversi commilitoni nel 1884, ancora sosteneva l’importanza della “barbarie del paese d’origine e della famiglia”. Eppure è storicamente innegabile che fu Lombroso il primo ad associare le idee di meridionali/briganti/criminali e che mai prima di allora qualcuno aveva diffuso quel tipo di associazione (tuttora attuale e diffusa). Eppure fu un suo seguace, il siciliano Niceforo, a teorizzare l’esistenza della razza maledetta… In questo senso, allora, la studiosa “nativa” autrice di quest’ultimo libro, tra gli estimatori (anche meridionali) del Lombroso, è in buona compagnia e non ci sorprende più di tanto la scelta di pubblicare questo libro con quel curatore e con quelle dichiarazioni rese a mezzo stampa… Eppure quelle “suggestioni lombrosiane” arrivano direttamente fino alle teorie antisemite del nazismo… Eppure la testa di quel povero calabrese se oggi “è diventato il totem del razzismo antimeridionale”, per un secolo e mezzo e fino ad oggi (con tanto di sala ad esso dedicata nel museo torinese) diventò il simbolo, il totem dell’inferiorità dei meridionali in un contesto politico che subito dopo l’unificazione e durante la guerra del “brigantaggio” (e per certi aspetti fino ad oggi) trovava nell’inferiorità dei meridionali le motivazioni per le feroci repressioni e per la mancata risoluzione delle questioni aperte dopo il 1860 e tuttora irrisolte (v. i tanti e recenti libri che vorrebbero dimostrare che “è tutta colpa del Sud”). Del resto furono i Colajanni, i Salvemini o i Gramsci stessi a denunciare quest’uso che di quelle teorie veniva fatto (v. nota). “Brigante” o meno che fosse, i resti del povero Villella, allora, e ancora di più se si trattava di un semplice ladro (ma resta il mistero sulle motivazioni per le quali, se fosse stato un semplice ladro, fu deportato a 1151 km dal suo paese…), simbolo troppo carico di significati, ormai, dovrebbero essere restituiti al Comune che li richiede per assicurargli semplicemente una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia.

Il fenomeno del revisionismo del revisionismo, in realtà, per quanto irritante, è ben poca cosa in termini sia di contenuti che di diffusione (o vendita di copie) ed è circoscritto al solito giro di intellettuali: in questo caso si tratta del terzo libro pubblicato da A. Barbero (il “negazionista di Fenestrelle”, docente di storia medioevale ma di recente molto attivo sulla storia risorgimentale) in una sua collana per la Salerno Edizioni: un primo libro di due ricercatori locali che avrebbero dovuto chiarire (senza riuscirci) la questione-Fenestrelle, quello di R. De Lorenzo che avrebbe dovuto smantellare (senza riuscirci) i “miti neoborbonici della Borbonia felix” e ora questo dell’antropologa “nativa” per salvare (senza riuscirci) il soldato Lombroso…

Un caso? Tutt'altro e, consapevoli o meno e, soprattutto, meridionali o meno, i "collaboratori" dell'operazione diventano artefici di un attacco significativo a tutto il nuovo e sempre più vasto fronte neo-meridionalista che, in un processo inarrestabile e nonostante i mezzi e le inquietudini evidenti dei suoi “avversari”, sta ricostruendo la memoria storica e restituendo al Sud una dignità per troppo tempo calpestata.

Gennaro De Crescenzo 

NOTA Dicono di Lombroso… 

Napoleone Colajanni (1898) si indignò contro "le stolte teorie dei superuomini e delle super-razze, che segnalano la razza maledetta non alla progressiva trasformazione, ma alla distruzione…  nessuno ha fatto tanto uso e abuso di questa forza misteriosa e l'ha fatta intervenire nella spiegazione dei fenomeni sociali con tanta leggerezza quanto la famosa scuola di Antropologia criminale… La teoria della ‘razza maledetta’ fu un romanzo antropologico che pure influenzò l'opinione pubblica del Nord”. 

“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale” (Antonio Gramsci, 1926). 

“Nel Lombroso si riscontra la sostanziale equiparazione tra brigantaggio meridionale ed una primordiale ferocia animale” (D. Palano, Il potere della moltitudine) 

“Sergi, Rossi e Niceforo, riprendendo e sviluppando le argomentazioni di Cesare Lombroso e della scuola di antropologia criminale fondata da quest'ultimo, ripropongono l'alternativa dei meridionali criminali, barboni, oziosi di questa razza inferiore” (V. Teti, La razza maledetta); 

Per Ettore Ciccotti quel pregiudizio antimeridionale era una sorta di “antisemitismo italiano” (1898). 

Bibliografia minima (a cura di Alessandro Romano) 

Pierluigi Baima Bollone, 1992, Cesare Lombroso, ovvero il principio dell’irresponsabilità, S.E.I., Torino

Rivista di discipline carcerarie, anno XV, 1885

Congresso ed esposizione d’Antropologia criminale, dalla Rivista di discipline carcerarie, anno XV, 1885

Catalogo Lombroso strumenti di tortura, 1874, a cura di G.B. Piani

Rivista di discipline carcerarie del 1897, sezione Varietà, p. 559

Circolare n. 272 del 25 gennaio 1932, diretta ai Direttori degli Stabilimenti di Prevenzione e di Pena del Regno

Roberto Vozzi, Tipografia delle Mantellate, 1943

Roberto Vozzi, Autorità di polizia, autorità giudiziarie, militari, coloniali, musei storici nazionali o regionali, archivi d Stato, 1943

Catalogo di G. Colombo (2000), La scienza infelice, con prefazione di Ferruccio Giacanelli, Bollati Boringhieri

Lombroso, 1894, Bulferetti, 1975

Bulferetti L. 1975. Cesare Lombroso. Unione Tipografico-Editrice Torinese. UTET, Torino.

Ciani I., Campioni G. (1986) La scienza infelice di Cesare Lombroso. In: I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria (Giorgio Antonucci Ed.) Coordinamento Editoriale di Alessio

Colajanni N., Per la razza maledetta, Roma, 1898

Colajanni C., Settentrionali e Meridionali, Roma, 1908

Coppola Cooperativa Apache srl - Roma  

Colombo, Giorgio - La scienza infelice : il Museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso / Giorgio Colombo ; introduzione di Ferruccio Giacanelli - Torino – 2000

Gramsci A., La questione meridionale, Roma, 1926

Lombroso C. L'uomo delinquente. Torino: Bocca; 1878.

Lombroso C. L'uomo di genio. Torino: Bocca; 1894.

Lombroso C. 1873. Studi clinici ed antropometrici sulla microcefalia ed il cretinismo con applicazione alla medicina legale e all'antropologia. Tipi Fava e Gragnani. Bologna.

Lombroso C. 1872. Sulla statura degli italiani in rapporto all'antropologia ed all'igiene.

Lombroso C. 1880. La pellagra in Italia in rapporto alla pretesa insufficienza alimentare. Torino.

Lombroso C., Ferrero G. 1893. La donna delinquente. La prostituta e la donna normale. Torino. L. Roux.

Mazzarello P. 1998. Il genio e l'alienista: la visita di Lombroso a Tolstoj. Ed. Bibliopolis. Napoli.

Miraglia B.G., 1847, Cenno di una nuova classificazione e di una nuova statistica delle alienazioni mentali, Aversa.

Palano D., Il potere della moltitudine, milano, 2002

Rondini A. 2001. Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura. Ist. Edit. E Poligr. Internazionali. Pisa.

Vito Teti, “La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale”,  Manifestolibri, Roma, 1993 

Alla c. a. del direttore di La Repubblica 

Ai sensi della normativa vigente si richiede di pubblicare la seguente nota in merito a quanto pubblicato su La Repubblica del 28/3/14 p. 31 in un articolo a firma di Massimo Novelli riservandoci la possibilità di agire anche in sede legale per tutelare l’immagine del Movimento Neoborbonico essendo stati fatti nell’articolo indicato espliciti riferimenti ai “movimenti neoborbonici” riconducibili all’unico “movimento neoborbonico” rappresentato dagli scriventi, esistente fin dal 1993, con uso del nome dimostrato da ampia rassegna stampa (oltre 6000 pagine) e con marchio regolarmente registrato (UIBM n. 1486299).

Novelli riferisce ai “movimenti neoborbonici” “minacce” e “proteste” che sarebbero state prospettate in occasione della presentazione di un libro di un’antropologa che “smonterebbe un mito caro ai neoborbonici”: quello del brigante calabrese Villella il cui cranio servì a Cesare Lombroso per dimostrare la sua folle teoria del “delinquente nato” e che da alcuni anni i neoborbonici, il sindaco di Motta di Santa Lucia e il Comitato No Lombroso (che conta l’adesione di migliaia di persone e di un centinaio di amministrazioni comunali italiane, Torino compresa, forte anche di una sentenza di un Tribunale italiano) hanno richiesto per seppellirlo cristianamente nel suo Comune di origine. Nello stesso articolo si afferma che i neoborbonici sarebbero artefici di “un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d'Italia e del Risorgimento” e  artefici di un “palese tentativo di mistificare la verità storica, istigando all'odio gli italiani e danneggiando i calabresi”. Le affermazioni risultano false e calunniose nei confronti di un movimento culturale che conta diverse migliaia di adesioni ed ha realizzato, fin dal 1993, ricerche e pubblicazioni che hanno cambiato e condizionato la storiografia anche ufficiale in particolare sulla storia del Regno delle Due Sicilie, dell’unificazione italiana e delle conseguenze che ebbe per il meridione d’Italia. False, calunniose e non riferibili in alcun modo a iscritti o responsabili del Movimento Neoborbonico le affermazioni nelle quali si dichiara che i neoborbonici “impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro”. Alla luce di quanto pubblicato dal sindaco di Motta Santa Lucia, avv. Amedeo Colacino sul suo profilo facebook in data 28/3/14 risulta falsa anche l’affermazione nella quale si sostiene che la presentazione sarebbe stata annullata “per motivi di ordine pubblico” (evidentemente riferibili alle minacce di cui sopra). Entrando sinteticamente  nel merito della questione storico-culturale, il libro di M. T. Milicia tenta (inutilmente) di dimostrare che le tesi di Lombroso non erano antimeridionali mentre esistono un’ampia documentazione e un’ampia bibliografia (tra gli altri Gramsci, Colajanni, Ciccotti, Salvemini) che dimostrano l’esatto contrario evidenziandone anche l’uso che la politica fece di quelle teorie.  Fu Lombroso ad elaborare la teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione”; a scrivere che era “agli  elementi  africani  ed  orientali  che  l'Italia  deve, fondamentalmente,  la  maggior  frequenza  di  omicidii  in  Calabria,  Sicilia  e  Sardegna, mentre  la  minima  è  dove  predominarono  stirpi  nordiche  (Lombardia)”; è storicamente innegabile che fu Lombroso il primo ad associare le idee di meridionali/briganti/criminali e che mai prima di allora qualcuno aveva diffuso quel tipo di associazione (tuttora attuale e diffusa); fu un suo seguace, il siciliano Niceforo, a teorizzare l’esistenza della “razza maledetta” e in tanti riconducono a lui le stesse teorie del razzismo nazista. Eppure la testa di quel povero calabrese se oggi “è diventato il totem del razzismo antimeridionale”, per un secolo e mezzo e fino ad oggi (con tanto di sala ad esso dedicata nel museo torinese) diventò il simbolo, il totem dell’inferiorità dei meridionali in un contesto politico che subito dopo l’unificazione e durante la guerra del “brigantaggio” (e per certi aspetti fino ad oggi) trovava nell’inferiorità dei meridionali le motivazioni per le feroci repressioni e per la mancata risoluzione delle questioni aperte dopo il 1860 e tuttora irrisolte. “Brigante” o meno che fosse, i resti del povero Villella, allora, e ancora di più se si trattava di un semplice ladro (ma resta il mistero sulle motivazioni per le quali, se fosse stato un semplice ladro, fu deportato a 1151 km dal suo paese…), simbolo troppo carico di significati, ormai, dovrebbero essere restituiti al Comune che li richiede per assicurargli semplicemente una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia. 

Napoli, 28/3/14 Prof.

Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico

Avv. Antonio Boccia Ufficio Legale Movimento Neoborbonico 

INTERVENTO PUBBLICATO SU REPUBBLICA DEL 3/4/14 

Nel suo articolo del 28/3/14 M. Novelli pubblica alcune notizie non vere e calunniose nei confronti dei “movimenti neoborbonici” in riferimento alle presunte “manipolazioni della storia” da essi operate ed alle presunte minacce che avrebbero impedito ad una antropologa di presentare un suo libro in cui si dimostrerebbe che lo scienziato razzista Cesare Lombroso non sarebbe stato anti-meridionale. Il Movimento Neoborbonico da me rappresentato fin dal 1993 ha realizzato ricerche in gran parte archivistiche e pubblicazioni sempre più diffuse e che in questi anni hanno cambiato e condizionato anche la storiografia ufficiale e nessuno dei suoi iscritti/militanti ha mai minacciato alcuno. Tanto più se si considera che parliamo di un libro dedicato a teorie totalmente smentite dalla scienza e che tanti danni, però, procurarono (e procurano) associando, come mai era avvenuto in precedenza, l’idea della “razza meridionale/calabrese” a quella della delinquenza e dell’inferiorità così come confermato da intellettuali come Salvemini, Colajanni o Gramsci e da una politica che utilizzò quelle teorie giustificando i massacri indiscriminati dei cosiddetti “briganti” e la mancata risoluzione di questioni meridionali mai conosciute prima del 1860 e tuttora irrisolte. “Brigante” o meno che fosse (misteriosamente deportato a 1500 km da casa sua), i resti del povero Villella, il simbolo delle folli teorie lombrosiane, dovrebbero essere semplicemente restituiti al Comune che li richiede per assicurargli una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia.

Prof. Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico, Napoli

Dagli intellettuali del Sud. Un saggio sull’antimeridionalismo: nasce in Nord Europa nel ’700. Mirella Serri il 23 Ottobre 2012 modificato il 19 Novembre 2019 su lastampa.it. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, sono loro queste opinioni sul Mezzogiorno, vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale (Feltrinelli ed., 253 pag, 20 euro). La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente. Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente.

A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio. Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi.

Autore: Antonino De Francesco Titolo: La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale Edizioni: Feltrinelli Pagine: 253 Prezzo: 20 euro

AGIOGRAFIA E RETORICA RISORGIMENTALE, MENTRE NEL MEZZOGIORNO NASCE LA “SECESSIONE” LETTERARIA.  Michele Eugenio Di Carlo su ilgiornaledimonte.it il 17 settembre 2021.  Edmondo De Amicis con il romanzo Cuore[1], pubblicato nel 1886 e anticipato da una battente campagna promozionale dell’editore milanese Treves, mette in luce un presente positivo e in evoluzione, farcito di buoni sentimenti quali la patria, la famiglia, i doveri, lo spirito di sacrificio. Un’opera che ottiene un successo straordinario, che non solo comporta la pubblicazione in pochi mesi di circa quaranta edizioni, ma viene divulgata attraverso i nuovi e moderni programmi che riguardano la scuola e la pubblica istruzione[2] e che i governi liberali apprezzano anche sotto l’aspetto pedagogico ed educativo. Quella che abilmente De Amicis diffonde nel sentire comune è una percezione alterata di un Risorgimento edulcorato e romantico, risultato di un ampio movimento popolare e non di una minoranza elitaria intellettualmente altolocata. Mentre nel campo della poesia saranno i componimenti lirici del marchigiano Luigi Mercantini[3] ad essere apprezzati e diffusi negli ambienti liberali e governativi della seconda parte dell’Ottocento. Infatti, con La spigolatrice di Sapri [4] e L’ Inno di Garibaldi [5], Mercantini diventerà uno dei più apprezzati poeti proprio grazie alla sua ispirazione di natura patriottica e nazionalista, pur essendo tuttora ritenuto un poeta di secondo piano nell’ambito della letteratura italiana dell’Ottocento. I suoi versi, peraltro, assumeranno una alta valenza educativa e pedagogica, in quanto saranno presenti in tutte le edizioni delle antologie scolastiche fino ai nostri giorni. Non minor successo ebbe l’opera memorialistica dell’epopea garibaldina scritta da Giuseppe Cesare Abba[6]: Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille [7], pubblicato in edizione definitiva nel 1891, quando al trasformismo politico in atto serviva propagandare un’impresa dei Mille epica e leggendaria, priva di quegli elementi distintivi che avevano caratterizzato la feroce contrapposizione tra i «padri della Patria», perché – scrive Roberto Bigazzi, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Siena, – occorreva costruire il mito fondativo della nazione, annullando le differenze e le asperità tra i protagonisti. In questo senso l’autore ligure ha influenzato sicuramente l’educazione delle nuove generazioni, e «avendo addolcito gli eventi, eliminato i contrasti, ristabilito le distanze sociali e filtrato i sentimenti giovanili, Abba ha raggiunto facilmente la qualifica di best seller tra i memorialisti dell’Unità d’Italia»[8]. Una letteratura minore, quindi, propagandata a servizio della classe dominante liberale e sabauda, mentre come spiega Giovanni Capecchi, docente di Letteratura italiana all’Università per stranieri di Perugia, ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860). Nel Mezzogiorno intanto, che subisce il peso di politiche fiscali, finanziarie e doganali che, colpendo e affondando l’economia, generando drammatiche condizioni sociali, la «secessione»[9] letteraria sarà poderosa ed irreversibile. 

[1] E. DE AMICIS, Cuore, Milano, Treves, 1886. L’autore, attraverso i racconti di Enrico, un bambino di 10 anni che frequenta la 3ª elementare in una scuola di Torino, descrive l’Italia e il mondo della scuola dei primi anni successivi all’Unità d’Italia. Un’Italia divisa da profonde differenze sociali, linguistiche e culturali, dove la scuola rappresenta lo strumento essenziale per raggiungere una reale unione di intenti e di interessi. Il libro è pubblicato nel 1886, proprio quando lo Stato sta per introdurre politiche fiscali che negheranno i buoni intenti illustrati dagli episodi dell’autore ligure, approfondendo quel solco e quel divario che avrà ripercussioni drammatiche per le popolazioni del Sud. Da questo punto di vista, Cuore risulta un’opera retorica e agiografica.

[2] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», articolo del 14 giugno 2014.

[3] Luigi Mercantini (Ripatransone, 1821 – Palermo, 1872), poeta ed esule marchigiano, direttore del settimanale La donna, divenne definitivamente noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla spedizione fallita di Carlo Pisacane. Con l’annessione delle Marche al Regno d’Italia torna in patria, assumendo la direzione del Corriere delle Marche appena fondato. Nel 1861 pubblica l’Inno di Garibaldi, che l’eroe stesso gli aveva commissionato. Eletto deputato nella prima legislatura del Parlamento italiano preferisce rinunciare per dedicarsi all’insegnamento. Si trasferisce a Palermo nel 1865 per insegnare Letteratura italiana all’Università. Muore nel 1872.

[4] La spigolatrice di Sapri che inizia con i versi, diventati famosi, «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti», pubblicata nel 1858, resta sicuramente uno dei maggiori esempi di poesia patriottica risorgimentale. I suoi versi sono stati riportati in canzoni quali Ciao amore ciao di Luigi Tenco e Frammenti di Franco Battiato; hanno inoltre ispirato il regista Gian Paolo Callegari nel film Eran trecento del 1952. I versi narrano la storia della spedizione di Carlo Pisacane attraverso una spigolatrice di Sapri che, presente allo sbarco, segue gli avvenimenti della sfortunata avventura.

[5] L’ Inno di Garibaldi fu richiesto dallo stesso eroe in un incontro tenutosi a Genova nel 1858. Contiene i famosi versi: «Si scopron le tombe, si levano i morti, i Martiri nostri son tutti risorti» ed è stato l’inno patriottico passato indenne attraverso la storia italiana dall’Unità alla resistenza partigiana.

[6] Giuseppe Cesare Abba (Cairo Montenotte, 1838 – Brescia, 1910), scrittore e patriota, ha partecipato alla spedizione dei Mille e ha combattuto a Bezzecca meritandosi una medaglia. Attraverso diverse rielaborazioni ha pubblicato in via definitiva, nel 1891, Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille, secondo il Carducci un piccolo capolavoro, che ebbe una larga diffusione e un notevole successo. Fu sindaco di Cairo Montenotte dal 1867, docente di Italiano al Liceo ginnasio di Faenza, docente e preside presso l’Istituto tecnico “Tartaglia” di Brescia. Fu nominato senatore nel 1910, anno della sua scomparsa.

[7] G. C. ABBA, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, Bologna, Zanichelli, 1891. È considerato il miglior testo di memorialistica garibaldina. Prima di essere definitivamente pubblicato dalla Zanichelli nel 1891 è stato più volte rielaborato e ampliato. In questo testo l’avventura dei Mille appare immersa in un alone leggendario dalle tinte celebrative e idealizzate.

[8] R. BIGAZZI, Risorgimento e letteratura, in Leggere le camicie rosse di B. Peroni (a cura di), Milano, Edizioni Unicopli, 2011, p. 14.

[9] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», 14 giugno 2014. Michele Eugenio Di Carlo 17 Settembre 2021

L'ALLEANZA TRA INTELLETTUALI, LATIFONDISTI E ARISTOCRAZIA SABAUDA – IL RUOLO DI DE SANCTIS. Michele Eugenio Di Carlo su ilgiornaledimonte.it il 10 settembre 2021. Sin dai primi anni successivi all’unità i grandi proprietari terrieri del Sud e i grandi intellettuali, anche meridionali, si erano messi al servizio dell’aristocrazia civile e militare che costituiva il nucleo portante della decrepita monarchia sabauda. Un’alleanza tra ceto intellettuale, proprietari terrieri e aristocrazia sabauda che realizza quel “blocco agrario” funzionale al capitalismo e al sistema bancario del Nord che estrae dal Sud risorse e capitali messi a disposizione di una nascente industria nordica finanziata con interventi pubblici e favorita da protezioni doganali, mentre i grandi proprietari latifondistici meridionali possono tranquillamente continuare a godere di privilegi feudali, abusando pesantemente della massa povera di contadini e braccianti meridionali, mai supportati nei processi organizzativi di tutela della propria dignità da un adeguato ceto di medi e piccoli intellettuali e, pertanto, portati alla rivolta violenta e non organizzata e votati all’emigrazione di massa negli ultimi decenni dell’Ottocento, a causa di un sistema fiscale e doganale che non permettendo la messa a frutto dei risparmi mette in crisi persino i piccoli e medi ceti agrari borghesi. Per Francesco De Sanctis la costruzione dell’identità nazionale doveva necessariamente passare attraverso l’istituzione scolastica con metodi e strumenti educativi, tanto che la sua "Storia della letteratura italiana" fu scritta e modellata, secondo il giudizio degli esperti, ad uso dei licei, non certamente per diventare un’opera di riferimento degli studiosi. Tanto che anche Marco Grimaldi, ricercatore di Filologia della letteratura italiana alla “Sapienza”, Università di Roma, autore del saggio "Francesco De Sanctis e la scuola del Risorgimento" , avverte in proposito che «solo in questo modo si spiegano le contraddizioni e si sintetizzano le diverse anime del De Sanctis: il ministro della pubblica istruzione che spende le sue energie per la scuola popolare e l’autore della “Storia”. Una “Storia”, si noti, che ebbe poi nelle scuole scarso successo… » . Nella “Storia” è d’obbligo non sottovalutare mai le pulsioni patriottiche e le inclinazioni educativo-politiche dell’autore, rivolte verso la nuova classe dirigente del giovane stato unitario che si stava consolidando con l’ulteriore occupazione militare di Roma del 1870. Un anno in cui viene pubblicato il primo volume della “Storia”. Peraltro, come afferma fondatamente Grimaldi, non è affatto trascurabile la circostanza che con il R. D. del 10 ottobre 1867 n. 1942, e i relativi programmi Coppino, l’insegnamento della storia letteraria diventava disciplina autonoma, impegnando la nascente editoria scolastica a corrispondere alle indicazioni ministeriali. Per un intellettuale del calibro di De Sanctis non era agevole sottrarsi alle ragioni economiche che la questione comportava. Pertanto, ai moventi ideali che esigevano la stesura di una storia letteraria solo a monografie ultimate venne sostituendosi l’esigenza utilitaristica di scrivere un testo per i licei, sacrificando la scienza all’utile. È lo stesso De Sanctis ad illustrare nei "Ricordi" come era insegnata la storia della letteratura prima della sua opera, quando, tra il 1831 e il 1832, il giovane studente frequentava a Napoli le lezioni della scuola del matematico e fisico viestano Lorenzo Fazzini: "La scuola dell’abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi direbbesi un liceo. Vi si insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso durava tre anni, e si poteva fare in due. Quell’era l’età dell’oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina cominciava la sua carriera aprendo una scuola. I seminari erano scuole di latino e di filosofia. Le scuole del governo erano affidate a frati. La forma dell’insegnamento era ancora scolastica […] Le scienze vi erano trascurate, e anche la lingua nazionale… ". Mentre l’istruzione inferiore era gestita dal mondo clericale, l’istruzione superiore veniva quasi sempre svolta in scuole private gestite da laici, in quanto le risorse economiche non permettevano scuole pubbliche in tutti i comuni. Del Settecento borbonico, Grimaldi accoglie la tesi che il Regno di Napoli «era stato all’avanguardia nelle politiche scolastiche» e che l’espulsione dei Gesuiti aveva non poco determinato e favorito un sistema scolastico laico. Nel 1833 De Sanctis passa a frequentare la scuola di Basilio Puoti, dove affronta lo studio della letteratura del Trecento e del Cinquecento in quegli spazi angusti riservati alla letteratura italiana, mentre ancora prevaleva il latino. Diventato docente al Collegio Militare della Nunziatella, De Sanctis insegna la storia dei maggiori trecentisti ottenendo un buon successo. Ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860). Michele Eugenio Di Carlo 10 Settembre 2021

Fake Sud, la verità sui pregiudizi verso il Mezzogiorno. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina. Pietro De Sarlo il 19 Ottobre 2020 su basilicata24.it. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina.

Modus operandi. Il modus operandi del killer è spietato. Si insinua nelle menti delle persone e le annichilisce portandole a dire stupidaggini prive di senso e sganciate dalla realtà. Non parliamo di persone qualunque ma del gotha del pensatoio nostrano. Ad aiutare l’autore nelle indagini ci sono i numeri, che impietosamente smontano uno dopo l’altro ogni pregiudizio e che con la loro disarmante forza e attitudine alla verità inchiodano ogni menzogna e sono in aggiunta disponibili in copiosa quantità: archivio ISTAT e i CPT (Conti Pubblici Territoriali). Archivi che, insieme ad EUROSTAT, ho saccheggiato anche io infinite volte. Le evidenze sono talmente forti che ci si chiede se il nostro killer, il pregiudizio, non abbia trovato terreno già fertile in persone già predisposte alla disonestà intellettuale e privi di anticorpi.

Un lungo elenco di maître a penser. Cominciamo da Luca Ricolfi, della cui disonestà intellettuale insieme a quella della Fondazione Hume avevo già sospettato. Di lui ricorderete il ponderoso saggio Il sacco del Nord. Sacco ad opera del Sud parassita, ovviamente. La cronaca di una telefonata tra l’autore del libro e il prode Ricolfi è esilarante. Basta una domanda, una sola, dell’autore, basata su fatti e numeri incontestabili per smontare prologo, tesi, postulati e tutti gli ammennicoli del saggio dell’illustre sedicente neo illuminista. La tesi del Nord saccheggiato dal Sud frana in un amen e Ricolfi balbetta tra un “non ricordo cosa ho scritto” e un penoso distinguo tra “finali” e “conclusive”. Poco ci manca che Ricolfi dica che il libro sia stato scritto a sua insaputa. Non tocca sorte migliore a Tito Boeri, che ci ha spesso deliziato con fantasiose analisi economiche e previdenziali. Boeri propone le gabbie salariali al Sud. E che fa il nostro autore? Gli sfila una carta dal traballante castello spiegando all’iconico Tito del “sinistro” pensiero come si leggono i dati ISTAT. L’arrampicata sugli specchi del gagliardo Boeri ricorda le scenette di Willy il Coyote, che inseguendo Beep Beep sbatte su una parete rocciosa e senza appigli per scivolare a terra con le stellette che gli roteano intorno alla testa. E che dire di Salvatore Rossi, uomo con un curriculum stratosferico, che per qualche suo singolare tormento interiore non ritiene di prendere in considerazione né dati certificati né l’impatto di infrastrutture essenziali, come le ferrovie, per elaborare le sue “innovative” tesi sul Sud assistito? L’elenco è ancora lungo. Leggete, stupite e chiedetevi come sia possibile per un Paese sollevarsi quando questa è la qualità della classe intellettuale e dirigente.

E i politici? Le cose non vanno meglio. C’è però una differenza tra i politici settentrionali e quelli meridionali. I primi fanno squadra per aumentare le risorse al Nord. Nelle commissioni e in parlamento quando si decide sull’autonomia differenziata si passano la palla. Giorgetti, Lega (Nord), la passa a Buffagni, MoVimento 5S, questi a Zanoni, PD, e via così. Occupano le posizioni in cui si decide dell’autonomia all’ANCE e in parlamento. I politici meridionali non sanno, non capiscono e non si interessano della trama a danno del Sud che si va tessendo con l’autonomia differenziata e sono assenti ovunque si parli del tema. Zaia imperversa, i governatori del Sud balbettano infastiditi. Marco Esposito scrive un libro verità e mai smentito, Zero al Sud, che scopre gli altarini e i misfatti criminali che si consumano dietro all’autonomia differenziata. Non sono un giornalista né un parlamentare e quindi, a parte quelli di cittadino, non ho altri obblighi sociali eppure la mistificazione sulla autonomia differenziata è talmente evidente, brutale e volgare che mi sento in obbligo, utilizzando anche i dati dei CPT, di urlare al mondo la mia indignazione su tante misere falsità in tre interventi ( uno , due e tre ). Intanto le discussioni in stanze segrete, grazie a Marco Esposito, diventano pubbliche. Lo scippo ai danni del Sud è talmente evidente che Giorgetti in commissione chiede di secretare i numeri e si arriva al punto di violare la costituzione e introdurre coefficienti riduttivi della perequazione completamente inventati. Coefficienti correttivi non calcolati ma gettati lì ad mentula canis con l’unica finalità di spostare risorse dal Sud a Nord. I politici del Sud, di tutti i partititi, hanno altro di più importante da fare: non si capisce cosa.

La democraticità del Covid – 19. Questo orribile virus, che sta bruciando le nostre esistenze, ha però un pregio. Colpisce in egual misura gli imbecilli, Trump, Johnson, Zingaretti, le persone per bene e gli umarell. Non fa sconti a nessuno e si diffonde subito prevalentemente e in modo violento al Nord. Questo perché contagia chi incontra e per primi incontra chi ha più scambi con il resto del pianeta, non certo per una fatwa lanciata da noi terroncelli invidiosi verso il Nord. Inoltre sembra volersi accanire in modo particolare con chi lo sottovaluta: #Milanononsiferma, #Bergamoisrunning e Zingaretti, che lo sfida a suon di mojito.

La sanità lombarda collassa e a Bergamo i camion dell’esercito portano via i cadaveri. Il Paese è sconvolto e al Sud ci si chiede: se la migliore sanità che abbiamo in Italia, a Milano, non tiene botta cosa succederebbe se il virus colpisse con uguale forza il Sud? I genitori e i nonni pregano figli e nipoti di rimanere a Milano e non tornare a casa. Il ragionamento è semplice: “Se ti ammali hai più probabilità di essere curato a Milano che non a casa tua al Sud. In più se ci contagi moriamo anche noi e poi chi tira la cinghia per mantenerti agli studi alla Bocconi o alla Cattolica?” Logico, no? Si chiude quindi quel che si può. Questo è il ragionamento che fanno tutte le persone per bene: al Nord come al Sud e lo fanno nell’interesse generale. A proposito, se volete sapere perché la sanità al Sud non funzioni leggete il libro. Un atteggiamento responsabile e normale dovrebbe spingere a chiedersi cosa non abbia funzionato nel modello della sanità lombarda e emendarlo. Invece al Nord gli opinion leader prendono cappello. Il killer, il pregiudizio, ha azzerato le sinapsi dei giornalisti del Corrierone e del ceto intellettuale e politico milanese. Questa palpabile angoscia che si è vissuta al Sud viene tradotta in un florilegio di scempiaggini, puntualmente ricordato da Marco Esposito, su cui fanno a gara a chi spara la minchiata più grossa Galli Della Loggia, Polito, Bassetti, Imariso, Sala e persino il normalmente pacato De Bortoli, sollevando una polemica inesistente e completamente inventata sul Sud che gode delle disgrazie del Nord.

Il razzismo fa parte del panorama. Il killer maledetto, il pregiudizio, è stato nutrito amorevolmente negli ultimi 160 anni. Nel 1870, numeri alla mano e carta canta, la Campania era la regione più ricca d’Italia. Dal 1860 ad oggi le fake nei confronti del Sud hanno prodotto uno strisciante razzismo a cui ci si è abituati. Fa ormai parte del panorama, né più né meno come un edificio crollato le cui macerie nessuno rimuove e che nessuno ricostruisce. La conseguenza è che sulle principali testate televisive, a volte anche sulla TV pubblica, si agitano dei personaggi di infimo livello che si permettono di arrivare a dire: io non credo ai complessi di inferiorità. Credo che in molti casi i meridionali siano inferiori. Si tratta di Feltri intervistato da un gongolante Giordano. Reazioni? Misere. “De stercore Feltrii” nessuno ne parla e indossa non dico una maglietta rossa ma almeno rosa venata di bianco. Nella trappola del killer cadono, con sfumature diverse, anche Mentana, Merlino e Letta, che neanche si rendono conto del perché le loro uscite siano sbagliate e offensive. In sintesi: “Io razzista? È lui che è nero!” Nel mentre, come ci ricorda il libro, l’insulto più diffuso su twitter è terrone, seguito a ruota da zingaro, e a distanza da negro e muso giallo. Ma, inopinatamente, tra i razzismi da battere individuati dalla commissione parlamentare Jo Cox, e presieduta da Laura Boldrin, quello nei confronti dei meridionali non merita neanche due righe.

Conclusioni. Alessandro Barbero, che firma la prefazione del libro, che conclusioni ne trae? Con una disarmante parsimonia intellettuale si limita a promettere un libro che smonti i primati delle Due Sicilie. È questa la principale e meschina preoccupazione del neo sabaudo Barbero? Ma Barbero lo conosciamo già ! E che dire di Augias, stigmatizzato anche da me , che propone di mettere tutto nel dimenticatoio?

Le mie conclusioni invece sono diverse. Dovrei gioire e essere grato per le verità che smontano tanti pregiudizi. Invece sono angosciato. Perché la montagna da scalare dei pregiudizi è talmente grande che è difficile ipotizzare un percorso di salvezza del Paese. Se il ceto dirigente e intellettuale è così ottuso come si può sperare in una sana progettualità di rinascita? Anche perché alle fake news sul Sud se ne aggiungono altre sull’Europa  e altre ancora sempre sul Sud e su tutto quello che è fuori dal pensiero unico del liberismo imperante. E anche perché l’atteggiamento del ceto intellettuale italiano sull’Unione Europea è troppo simile all’atteggiamento del ceto intellettuale duosiciliano che portò alla Unità d’Italia e alla conseguente questione meridionale. Loro uccisero il Sud, questi stanno uccidendo l’Italia intera. Se non si sgombra il campo dal pregiudizio le ricette saranno sempre le stesse: quelle che non hanno mai funzionato ma che si continuano a proporre. Come la fiscalità di vantaggio o le gabbie salariali, come gli incentivi o l’autonomia differenziata.

Eppure il potenziale di sviluppo del Sud è enorme. Forse è arrivato il momento che Marco Esposito e altri si uniscano per una proposta di sviluppo organica e di visione del Sud e quindi del Paese. Questo perché anche se avremo smascherato tutte le fake sul Sud, sull’Europa e sui benefici effetti del liberismo, e anche se avremo ristabilito tutte le verità sul Risorgimento e sui primati delle Due Sicilie non avremo risolto comunque nulla se questo liberarsi dai pregiudizi e dalle fake non avrà generato un piano di visione e al contempo operativo per una diversa prospettiva del futuro del Paese. Piano magari da proporre in un prossimo libro. Pietro De Sarlo

La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale. Libro di Antonino De Francesco. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia.

Foibe, Aldo Grasso incenerisce Barbero sul “Corriere”: “Mi è caduto un mito”. Gabriele Alberti sabato 11 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mi è caduto un mito”. Il “mito” infranto è il professor  Alessandro Barbero. A leggere le prime parole dell’articolo di Aldo  Grasso, Tommaso Montanari ha avuto uno sturbo. Il critico del Corriere della sera  non perdona allo studioso e volto di Rai Storia la posizione  in materia di foibe e  Giorno del Ricordo con la quale si è adagiato sulle posizioni negazioniste dell’incasato rettore di Siena. “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente- scrive l’editorialista- . Mi è caduto un mito, quando, intervistato dal Fatto quotidiano , il prof. Barbero ha avallato le teorie di Tomaso Montanari sulla «falsificazione storica» delle foibe” . Grasso aveva già demolito le tesi negazioniste di Montanari in un articolo feroce. Alla firma del Corriere non è affatto piaciuto che il professor Barbero si sia attestato sulla posizione di Montanari su un capitolo di storia italiana così drammatico. Con toni molto pacati ma irrevocabili concede allo storico (“un divo di Rai Storia”) il dono della simpatia e della capacità del divulgatore. Ma sulla storia non si può scherzare: è il pensiero di Grasso. Subito risponde insultando Montanari, con toni da odiatore seriale. L’invasato rettore – che ha promesso che il suo impegno antifascista aumenterà – ‘scrive e offende. ‘Oggi Aldo #Grasso si scatena contro Alessandro #Barbero , naturalmente sempre per le #Foibe (e per l’odio viscerale e invidioso contro i professori universitari). Penso che il giornale della classe digerente italica non sia mai sceso così in basso come con questo figuro”. Così in un tweet lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena  inveisce in maniera scomposta.  A sinistra è vietato dissentire e chi lo fa è un “figuro invidioso”. Che non a caso aveva definito Montanari un “agit prop”. Alla  triste vicenda Aldo Grasso dedica solo altre due righe: Barbero “ha scritto un pezzo in cui ha preso le distanze dalla scivolata, con onestà; lo seguirò sempre ma l’amaro in bocca è rimasto”. Il professore sul Fatto aveva avallato la definizione di Montanari sul giorno del Ricordo  come «tentativo neofascista di falsificare la storia». Intervistato su La Stampa è scomparso il neofascismo ed è apparso lo “Stato”. Giochetti che non sono piaciuti ad Aldo Grasso e non solo a lui.

Intervista ad Alessandro Barbero. “Le foibe furono un orrore, ma ricordare quei morti e non altri è una scelta solo politica. Il Giorno del Ricordo? E’ una tappa di una falsificazione storica”. Foibe, verità e menzogne dietro la canea delle destre. Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano l'1 settembre 2021. Tomaso Montanari, storico dell’Arte e Rettore eletto dell’Università per Stranieri di Siena, ha scritto su questo giornale che la legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica di parte neofascista. Ne sono seguite accuse di negazionismo (anche da giornali “liberali”) e richieste di dimissioni da parte di esponenti politici di destra (FdI, Lega, Iv). Interpelliamo sul tema Alessandro Barbero, storico e docente.

Professore, è d’accordo con Montanari?

Sono d’accordo, ma bisogna capirsi. Montanari non ha affatto detto che le foibe sono un’invenzione e che non è vero che migliaia di italiani sono stati uccisi lì. Nessuno si sogna di dirlo: la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugoslavi sul confine orientale, e questo è un fatto. La falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del ricordo costituisce senza dubbio una tappa, consiste nell’alimentare l’idea che nella Seconda guerra mondiale non si combattesse uno scontro fra la civiltà e la barbarie, in cui le Nazioni Unite e tutti quelli che stavano con loro (ad esempio i partigiani titini, per quanto poco ci possano piacere!) stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata; ma che siccome tutti, da una parte e dall’altra, hanno commesso violenze ingiustificate, eccidi e orrori, allora i due schieramenti si equivalevano e oggi è legittimo dichiararsi sentimentalmente legati all’una o all’altra parte senza che questo debba destare scandalo.

Perché l’istituzione della Giornata del ricordo rappresenterebbe una parte di questa falsificazione, se i fatti in sé sono veri?

Ma proprio perché quando di fatti del genere se ne sono verificati, purtroppo, continuamente, da entrambe le parti (ma le atrocità più vaste e più sistematiche, anzi programmatiche, le hanno compiute i nazisti, questo non dimentichiamolo), scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto. Intendiamoci, se io dico che la Seconda guerra mondiale è costata la vita a quasi mezzo milione di italiani, fra militari e civili, e che la responsabilità di quelle morti è del regime fascista che ha trascinato il Paese in una guerra criminale, qualcuno potrebbe rispondermi che però le foibe rappresentano l’unico caso in cui un esercito straniero ha invaso quello che allora era il territorio nazionale, determinando un esodo biblico di civili e compiendo stragi indiscriminate; e questo è vero. Ma rimane il fatto che se io decido che quei morti debbono essere ricordati in modo speciale, diversamente, ad esempio, dagli alpini mandati a morire in Russia, dai civili delle città bombardate, dalle vittime degli eccidi nazifascisti – che non hanno un giorno specifico dedicato al loro ricordo: il 25 Aprile è un’altra cosa – il messaggio, inevitabilmente, è che di quella guerra ciò che merita di essere ricordato non è che l’Italia fascista era dalla parte del torto, era alleata col regime che ha creato le camere a gas, e aveva invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio: tutto questo non vale la pena di ricordarlo, invece le atrocità di cui gli italiani sono stati le vittime, quelle sì, e solo quelle, vanno ricordate. E questa è appunto la falsificazione della storia.

Ritiene ci siano fascisti, nostalgici, persone che mal sopportano il 25 Aprile nelle Istituzioni?

Parliamo di sensazioni. Io ho la sensazione che come gran parte d’Italia era stata più o meno convintamente fascista, così in tante famiglie si sia conservato un ricordo non negativo del fascismo, e un pregiudizio istintivo verso quei ribelli rompiscatole e magari perfino comunisti che erano i partigiani. E le famiglie che la pensavano così hanno insegnato queste cose ai loro figli. Per tanto tempo erano idee che rimanevano, appunto, in famiglia, e non trovavano una legittimazione esplicita dall’alto, nella politica o nel giornalismo: oggi invece la trovano, e quindi emergono alla luce del sole.

Appartiene alla normale dialettica politica l’auspicio dell’on. Meloni, lanciato dalle pagine del Giornale, di “fermare” il professor Montanari? Si vuole costituire un precedente in democrazia di intimidazione del mondo accademico?

Non solo non appartiene alla normale dialettica politica, ma è inconcepibile in una Repubblica antifascista. E tuttavia va pur detto che non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e i licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto. Il nostro Paese vieta l’apologia di fascismo, sia pure con tante limitazioni e distinguo da rendere il divieto inoperante, e questo divieto ha buonissime ragioni storiche, ma io forse preferirei vivere in un Paese dove chiunque, anche un fascista, può esprimere qualunque opinione senza rischiare per questo di essere cacciato dal posto di lavoro.

La sinistra, proclamando la fine delle ideologie, ha aperto la strada alla minimizzazione, alla riabilitazione e infine alla riaffermazione dell’ideologia fascista?

Il problema è che non sono finite le ideologie, è finita la sinistra. Il sogno che gli operai potessero diventare la parte più avanzata, più consapevole della società, e prendere il potere nelle loro mani, è fallito; il risultato è che nei Paesi occidentali non c’è più nessun partito che si presenti alle elezioni dicendo “noi rappresentiamo gli operai e vogliamo portarli al potere”. Ma la sinistra era quello, nient’altro. Invece la destra, cioè la rappresentanza politica di chi vuole legge e ordine, rispetto dell’autorità e libertà d’azione per i ricchi, e non si sente offeso dalle disuguaglianze sociali ed economiche, è ben viva. E in un mondo dove la destra è molto più vitale della sinistra è inevitabile che la lettura del passato vada di conseguenza, e che si possano diffondere enormità come quella per cui il comunismo sarebbe stato ben peggio del fascismo.

Alessandro Barbero, da «Superquark» a star del web: il Premio Strega, i meme e altri 6 segreti su di lui.  Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 agosto 2021. Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sul professore e storico, tra i protagonisti del programma condotto da Piero Angela (in onda mercoledì 11 agosto su Rai1 alle 21.25)

Gli studi. I suoi video su YouTube ottengono migliaia di visualizzazioni, i suoi podcast finiscono spesso nella classifica dei più ascoltati e ogni volta che appare in tv stuoli di fan adoranti non aspettano altro che i suoi racconti: non parliamo dell’ennesimo rapper ma di Alessandro Barbero, lo storico di «Superquark» - programma in onda questa sera su Rai1 alle 21.25 -, che nel giro di qualche anno è diventato una vera e propria star del web (anche se, come vedremo, non è sui social). Nato a Torino il 30 aprile 1959 ha studiato al Liceo classico Cavour e si è poi laureato in Lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito ha conseguito il dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha vinto il concorso per un posto di ricercatore in storia medievale all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Dal 1998 è prima professore associato e dal 2002 ordinario di storia medievale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Ma queste non sono le uniche curiosità (poco note) su di lui...

Quando è approdato a «Superquark». Dicevamo di «Superquark»: ha iniziato a collaborare con il programma condotto da Piero Angela nel 2007. Con il divulgatore scientifico ha pubblicato nel 2012 il libro «Dietro le quinte della Storia».

Non ha i social. Il professor Barbero è completamente assente dai social. Esistono pagine Facebook che portano il suo nome (come «Alessandro Barbero guidaci verso il Socialismo» o «Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli») e gruppi («Alessandro Barbero: la Storia», «Le invasioni Barberiche: fan di Alessandro Barbero»), ma tutto è gestito da altre persone.

Ha vinto il Premio Strega. Nel 1996, a 37 anni, ha vinto il Premio Strega con il suo primo romanzo «Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo», pubblicato grazie all’interesse di Aldo Busi. Il volume, ambientato all’epoca delle guerre napoleoniche, è stato tradotto in sette lingue.

Vita privata. Pochissimo si sa della vita privata se non che il professor Barbero è sposato.

La tessera del PCI firmata da Berlinguer. Intervistato da Daria Bignardi a L’Assedio lo storico ha raccontato di essere stato iscritto al Partito Comunista Italiano: «Da qualche parte devo avere la tessera firmata da Enrico Berlinguer. Ne sono felice perché in quel partito c’era la gente migliore che facesse politica in quel momento in Italia. Ora quel partito non c’è più, come non ci sono più partiti come li intendevamo noi da giovani».

Il Festival della Mente di Sarzana. Dal 2007 Barbero partecipa al Festival della Mente di Sarzana con cicli di tre lezioni (da qualche anno sempre sold out, come i migliori concerti rock).

I Longobardi fenomeno virale. La puntata di «Superquark» in cui il professor Barbero ha parlato dei Longobardi è diventata virale grazie ai numerosi video-parodia incentrati sulle parole della lingua italiana che (come spiegato) derivano dalla lingua longobarda come «zuffa», «spranga» e «pizza». 

I neoborbonici querelano Barbero. Ma a processo dovrebbero andarci loro. Giuseppe Ripano il 24/10/2020 su ilcaffetorinese.it. “Il Movimento Neoborbonico ha querelato Alessandro Barbero dopo alcuni recenti articoli sul Mattino e alcune recenti prefazioni (ultima quella del nuovo libro del giornalista Marco Esposito)”. Il post facebook di una nota pagina di revisionismo storico che tra i propri curatori non annovera neanche uno storico di formazione e professione è ben più lungo del breve estratto riportato. Ma il senso è chiaro: il celebre storico Alessandro Barbero viene querelato – di nuovo – dall’autoproclamato movimento neoborbonico. Per capire le ragioni di una ostilità vecchia di un decennio, è utile fare un passo indietro. È il 22 ottobre 2012, i festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unita si sono da poco conclusi, e su La Stampa appare un articolo firmato da un volto ben noto della cultura torinese e nazionale, lo storico Alessandro Barbero. Il pezzo trae le mosse da un documento esposto in una delle tante mostre allestite per la ricorrenza: un processo celebrato nel 1862 dal Tribunale militare di Torino contro alcuni soldati, di origine meridionale, che si trovavano in punizione al forte di Fenestrelle. Lì avevano estorto il pizzo ai loro commilitoni che giocavano d’azzardo, esigendolo «per diritto di camorra». Come riportato dallo stesso Barbero, “In una brevissima chiacchierata televisiva sulla storia della camorra, dopo aver accennato a Masaniello - descritto nei documenti dell’epoca in termini che fanno irresistibilmente pensare a un camorrista - avevo raccontato la vicenda dei soldati di Fenestrelle. La trasmissione andò in onda l’11 agosto; nel giro di pochi giorni ricevetti una valanga di e-mail di protesta, o meglio di insulti: ero «l’ennesimo falso profeta della storia», un «giovane erede di Lombroso», un «professore improvvisato», «prezzolato» e al servizio dei potenti; esprimevo «volgari tesi» e «teorie razziste», avevo detto «inaccettabili bugie», facevo «propaganda» e «grossa disinformazione», non ero serio e non mi ero documentato, citavo semmai «documenti fittizi»; il mio intervento aveva provocato «disgusto» e «delusione»; probabilmente ero massone, e la trasmissione in cui avevo parlato non bisognava più guardarla, anzi bisognava restituire l’abbonamento Rai”. Per quanto all’epoca il vocabolario riportato non fosse d’uso corrente, oltre che essere spaventosamente simile ai ben noti rigurgiti di bile dei soliti frustrati urlatori social, era comune all’interno dei cosiddetti ambienti “neoborbonici”. Ci perdoni, il lettore, la colpa di pedanteria che commettiamo fornendo una definizione scolastica di neoborbonismo. La comprensione dei successivi paragrafi potrebbe altrimenti risultare ostica ai meno navigati della materia. Il termine neoborbonismo, apparso per la prima volta nel 1960, definisce una visione nostalgica enfatizzante il regno borbonico delle Due Sicilie, sopita per decenni dopo l'Unità d'Italia, ridestatasi con la nascita dei movimenti autonomisti in Italia verso gli anni '90 del secolo XX. Prosegue Barbero: “Superato lo shock pensai che l’unica cosa da fare era rispondere individualmente a tutti, ma proprio a tutti, e vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Molti, com’era da aspettarsi, non si sono più fatti vivi; ma qualcuno ha risposto, magari anche scusandosi per i toni iniziali, e tuttavia insistendo nella certezza che quello sterminio fosse davvero accaduto, e costituisse una macchia incancellabile sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. Del resto, i corrispondenti erano convinti, e me lo dicevano in tono sincero e accorato, che il Sud fino all’Unità d’Italia fosse stato un paese felice, molto più progredito del Nord, addirittura in pieno sviluppo industriale, e che l’unificazione - ma per loro la conquista piemontese - fosse stata una violenza senza nome, imposta dall’esterno a un paese ignaro e ostile. È un fatto che mistificazioni di questo genere hanno presa su moltissime persone in buona fede, esasperate dalle denigrazioni sprezzanti di cui il Sud è stato oggetto; e che la leggenda di una Borbonia felix, ricca, prospera e industrializzata, messa a sacco dalla conquista piemontese, serve anche a ridare orgoglio e identità a tanta gente del Sud. Peccato che attraverso queste leggende consolatorie passi un messaggio di odio e di razzismo, come ho toccato con mano sulla mia pelle quando i messaggi che ricevevo mi davano del piemontese come se fosse un insulto. Ma quella corrispondenza prolungata mi ha anche fatto venire dei dubbi. Che il governo e l’esercito italiano, fra 1860 e 1861, avessero deliberatamente sterminato migliaia di italiani in Lager allestiti in Piemonte, nel totale silenzio dell’opinione pubblica, della stampa di opposizione e della Chiesa, mi pareva inconcepibile. Ma come facevo a esserne sicuro fino in fondo? Avevo davvero la certezza che Fenestrelle non fosse stato un campo di sterminio, e Cavour un precursore di Himmler e Pol Pot? Ero in grado di dimostrarlo, quando mi fossi trovato a discutere con quegli interlocutori in buona fede? Perché proprio con loro è indispensabile confrontarsi: con chi crede ai Lager dei Savoia e allo sterminio dei soldati borbonici perché è giustamente orgoglioso d’essere del Sud, e non si è reso conto che chi gli racconta queste favole sinistre lo sta prendendo in giro”. Cosa fa uno storico, a questo punto? Va a visionare i documenti, setacciare le fonti, vagliare le pezze d’appoggio citate nei libri e nei siti che parlano dei morti di Fenestrelle, e una volta constatato che di pezze d’appoggio non ce n’è nemmeno una, cerca di capire cosa sia davvero accaduto ai soldati delle Due Sicilie fatti prigionieri fra la battaglia del Volturno e la resa di Messina. Fa, in buona sostanza, quello che i giornalisti responsabili di questo tentativo di revisionismo storico non hanno fatto: cerca di trarre conclusioni adattando le teorie ai fatti, piuttosto che distorcere (o addirittura inventare) i fatti pur di adattarli alle proprie teorie. Nasce così, grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, il libro I prigionieri dei Savoia: che contiene più nomi e racconta più storie individuali e collettive di soldati napoletani, di quante siano mai state portate alla luce fino a quel momento. A quel punto si scatena sul sito dell’editore Laterza una valanga di violentissime proteste, per lo più postate da persone che non hanno letto il libro (da parte nostra, dubitiamo siano in possesso dei requisiti minimi per poterlo fare) e invitano a non comprarlo; proteste in cui, in aggiunta ai soliti insulti razzisti contro i piemontesi, il dottor Barbero viene “graziosamente paragonato al dottor Goebbels”. E arriva la querela, indirizzata in questo caso all’autore della recensione per il Corriere della Sera del testo di Barbero e alla stessa testata. La polemica monta, da parte neoborb capeggiata da giornalisti e blogger i cui titoli accademici restano – in larghissima parte dei casi – un mistero: Pino Aprile, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore tra i più noti, sostenuti e amplificati da portali social come I Nuovi Vespri e Terroni. Già, Terroni. Titolo del libro best-seller firmato proprio da Pino Aprile un decennio fa, Antico Testamento del neoborbonismo, dal quale è nata l’omonima pagina Facebook e al quale ha fatto seguito Carnefici (2016). Proprio con quest’ultimo il buon Aprile tenta di ampliare il discorso revisionista nato con Terroni, tentando di elevarne la dignità da giornalistica a storiografica. Ma in base a quali meriti Aprile tenta di inserirsi nel dibattito storiografico? Il curriculum parla da sé: perito industriale, dopo il diploma fa gavetta ne La Gazzetta del Mezzogiorno. Entra poi nel circuito accademico rivestendo incarichi in prestigiose facoltà e firmando pubblicazioni destinate a cambiare i canoni di studio della Storia? No, diventa vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, firmando rotocalchi in cui appaiono soubrette, conduttrici tv e donne di successo, sempre il meno vestite possibili. Ci sono poi giornalisti come Angelo Del Boca, ex partigiano novarese (autore di una torrenziale produzione dedicata principalmente ai presunti crimini di guerra del Regio Esercito, punteggiata da un notevole numero di errori storici e una selezione faziosa delle fonti, ma anche di testi nei quali viene data per certa l’idea – lo ribadiamo: smentita in toto dalla storiografia – di Fenestrelle antesignano di Auschwitz), e il giornalista Gigi Di Fiore, che ne I vinti del Risorgimento per primo ha inaugurato il falso mito di Fenestrelle lager. Proprio Barbero ha smontato, nel testo sopracitato, tutte le teorie complottiste (e quando scriviamo tutte, intendiamo esattamente ciascuna di esse) partorite da Di Fiore e rapidamente divenute mistificazione. Come? Fondando lo scritto sui documenti d’archivio, sull’esame incrociato di una valanga di fonti (non soltanto custodite presso l’Archivio di Stato di Torino) e sulla ponderazione storiografica delle stesse (non tutte le fonti hanno pari dignità: nessuno studierebbe, ad esempio, la storia romana post augustea basandosi sugli scritti di Svetonio, notoriamente poco attendibili). Altra eminenza del movimento neoborb è Gennaro De Crescenzo, anch’egli giornalista. I testi di De Crescenzo tentano, ben più dei trattati di propaganda di Aprile, di fornire documentazione su cui fondare e reggere le teorie del movimento, pur di presentarle come verità storiografiche all’uditorio più analfabeta dell’abc storiografico. Ma che, in realtà, quando non riportano vere e proprie fake news distorcono i fatti pur di adattarli a un fine propagandistico tutto politico (l’articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno in data 6 giugno 2019 reca un titolo in questo senso emblematico: “La carica dei neoborbonici. «Nostre liste alle Regionali. Ci vorrebbe uno come Zaia»”). Persino ottimi trattati circa la condizione del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell’unità (ne citiamo uno: Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo di Renata De Lorenzo, direttrice dell’Archivio storico per le province napoletane, membro del corpo docente del Dottorato in Storia della Società europea dell’Università Federico II, del Centro interdipartimentale di Studi di Storia comparata delle società rurali in età contemporanea del medesimo ateneo, del comitato scientifico della Rivista italiana di studi napoleonici e del comitato di redazione di Napoli nobilissima, del consiglio di presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e dal 2007 della giunta del Dipartimento di Discipline storiche, socia dell’Accademia pontaniana di Napoli e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli) sono stati oggetti del tentato revisionismo di De Crescenzo (ammesso sia in grado di revisionare alcunché). Come osservato da Marco Vigna, “il grosso delle obiezioni di questo signore è viziato alla base da un errore radicale: De Crescenzo replica a ciò che De Lorenzo non ha scritto”. Il testo di De Crescenzo, edito – ironia della sorte – a Milano, non lo menzioneremo nemmeno: non siamo inclini alla pubblicità gratuita. Ciò che accomuna i due autori, nonché gli adepti di quella che nel tempo si è strutturata come una vera e propria religione antistorica (e passeremo a spiegare il motivo), è una forma di retorica del primato. A sentir loro la felix Borbonia era, prima dell’Unità Nazionale, paradiso perduto in Terra: “terza” potenza mondiale (come da più parti invocato, e non sappiamo in base a quali parametri) e all’avanguardia nei progressi tecnologici, legislativi e culturali (come mai un reame tanto avanguardistico si è fatto sconfiggere da un manipolo di garibaldini, accolti a braccia aperte da una popolazione evidentemente ignara della bontà dei suoi sovrani?). E proprio con il fine di dimostrare la fondatezza di queste tesi vengono invocate vere e proprie bufale storiche. Non le enunceremo: non è questa la sede. Ma la redazione de L’Indygesto ha fornito un compendiato ed efficace contributo al web, del tutto adatto anche a coloro che di storia s’intendono poco o nulla, che invitiamo a consultare. Ma, per coloro che volessero approfondire la materia senza addentrarsi nella più complessa letteratura accademica, il libro di Tanio Romano (messinese: dovrebbe essere superfluo, ma onde evitare accuse di negazionismo poiché del Nord lo specifichiamo) La grande bugia borbonica, edito a Lecce nel 2019, può essere d’aiuto. Come sapientemente ha scritto lo storico Lorenzo Terzi, gli scritti neoborb impiegano, più che il vocabolario della storiografia, toni e figure retoriche caratteristiche del linguaggio propagandistico e pubblicitario: “Tanto Aprile quanto De Crescenzo, infatti, conferiscono alle loro dissertazioni un carattere aggressivo e polemico del tutto immotivato – per giunta, condito da un’ironia alquanto greve – sicuramente incompatibile con un discorso storiografico di natura scientifica. Gli stessi avversari cui di volta in volta indirizzano i loro strali hanno contorni indefiniti: non si capisce se gli autori se la prendano con un generico Nord, con non meglio identificati politici meridionali oppure con altrettanto indistinti accademici. Ciò che importa a entrambi, infatti, non è tanto argomentare, ma suscitare un’intensa eco emotiva in un lettore già predisposto ad ascoltare i contenuti da loro veicolati. Il neoborbonismo quindi – pur richiamandosi ideologicamente, per definizione, all’antico – dimostra tuttavia di saper fare leva con indubbia abilità su dinamiche cognitivo-relazionali in tutto e per tutto contemporanee, caratteristiche dello spazio del web, come quelle che i sociologi della comunicazione hanno definito echo chambers. Nella rete, per come oggi è strutturata, si creano delle sfere ideologiche abbastanza impermeabili, dove rimbalzano idee tra loro simili che si fanno eco reciprocamente: «Il risultato è un progressivo rafforzamento di tali sfere, sempre più estranee al dissenso e sempre più consolidate nelle proprie convinzioni». Non c’è spazio, in questa strana forma di balcanizzazione del pensiero, per le logiche rassicuranti del dibattito pubblico, basate sul confronto, sul dissenso, sul dialogo e, in definitiva, sulla partecipazione. D’altra parte, l’uso di artifici retorici volti a sollecitare l’emozione, e non il ragionamento, di un ipotetico lettore, è presente sin dal titolo della pubblicazione seriale comprendente il saggio di De Crescenzo. «Altre fonti», «altre storie», «altro che “meridionali analfabeti”»: l’iterazione dà più forza all’aggettivo magico «altro». I sottintesi emergono con chiarezza: vi sarebbero, dunque, risorse inedite di conoscenza che, una volta riportate alla luce, permetterebbero di ricostruire una storia, per l’appunto, altra (e, va da sé, vera) veicolo di riscatto e di orgoglio nel presente. Da questa impostazione paralogica emerge un corollario alquanto preoccupante: chi non accetta il discorso neoborbonico e rivendicazionista è, perciò stesso, degno di riprovazione civile e morale. È un ascaro, un venduto e peggio”. Altro tratto che accomuna i due autori citati è l’impiego bizzarro e disinvolto delle fonti indirette, la cui attendibilità storiografica è sempre (non solo nel caso dei neoborb) da verificare. Perché? Perché le fonti indirette altro non sono che citazioni di passi reperibili su altri testi o addirittura nel mare magnum del web. E, nella bibliografia dei saggi di Aprile e De Crescenzo, compaiono quasi esclusivamente fonti indirette, che spesso e volentieri rimandano a loro stessi libri editi precedentemente. Un terzo ma non ultimo trait d’union dei due è il rigetto in chiave propagandistica di quanto sfornato dal mondo accademico. Il motivo va ricercato nel pubblico a cui il movimento neoborb si rivolge: un pubblico di cultura media, non specialistica, in grado di capire le coordinate storico-cronologiche del discorso, ma non di verificarne e, magari, contestarne assunti e conclusioni. Sempre Lorenzo Terzi osserva: “il fatto che l’ambiente definito con grossolana approssimazione accademico non sia disposto a riconoscere la fondatezza della narrazione dei neoborbonici non rappresenta per questi ultimi un problema. Anzi: ciò, semmai, costituisce per i simpatizzanti una riprova del loro essere controcorrente, anticonformisti, fuori dai giri di potere. Tutto questo poi si traduce, presso lo stesso pubblico, in una crescita esponenziale di credibilità: i neoborbonici sono coloro i quali raccontano, attraverso altre fonti, un’altra storia, mistificata, travisata o addirittura celata dalla cultura ufficiale. Qui la strategia neosudista gioca la carta della untold history, tipica di certo revisionismo: «non ci hanno mai detto che», «ci hanno nascosto che», «non sapevamo che»”. Ma torniamo a Barbero. La ragione della querela sta nella prefazione che lo storico torinese ha scritto per Fake Sud, libro di Marco Esposito recentemente edito. Barbero avrebbe la colpa di considerare “scellerate fantasie” le dichiarazioni dei neoborbonici, che avrebbero “reinventato, con informazioni false, la storia del Sud e dell’Italia influenzando la mentalità italiana e accendendo con mezzi immondi passioni violente”. A sentire l’ufficio legale da cui è partita la citazione in giudizio, e al quale De Crescenzo si appoggia, le affermazioni sarebbero calunniose non soltanto verso iscritti e simpatizzanti neoborbonici, ma anche verso i drammi vissuti da migliaia di soldati meridionali nella “fortezza-lager sabauda”. Negli ambienti “barberiani” del web si è paventata la possibilità di una controquerela per lite temeraria da parte del professore. Noi, nell’ambito giuridico, non ci addentriamo: Barbero farà ciò che reputerà più utile. Ma un’ultima considerazione ci permettiamo di fornirla. Altro che Barbero, a processo dovrebbero andarci i neoborbonici: per malafede, circonvenzione d’ignoranti e vilipendio alla Storia. Nonché alle vittime dell'Olocausto, puntualmente asservite alle voluttà di vanagloria di qualche scarto della cultura che conta in cerca di fama. 

Il razzismo, Gramellini, Barbero e altre questioni (meridionali).  Da parlamentoduesicilie.it. Su “La Stampa”, in pochi giorni, una serie di interventi significativi. Gramellini ha definito “borbonico” quel prefetto che rimproverava un sacerdote per un “vizio di forma”. Dopo l’episodio increscioso del giornalista piemontese della Rai che “assecondava” il razzismo contro i napoletani “che puzzano” e in risposta a Saviano che aveva ricordato l’antichità del bidet “borbonico” (sconosciuto in Piemonte), lo stesso Gramellini sottolineava la mancanza di fogne a Napoli con il popolo costretto a vivere “nella melma” a quei tempi. Qualche giorno prima, invece, Alessandro Barbero, autore di un libro in cui si sarebbe ricostruita la verità sul carcere di Fenestrelle e sui soldati napoletani deportati durante l’unificazione, continuava a definire “mistificatori”, “inventori ai limiti dell’impudicizia” e “strumentalizzatori con fini immondi ” coloro che ricordavano quei caduti meridionali o quella che lui definisce la “leggenda della Borbonia felix”.  Come premessa e ricordando anche la storia, bisognerebbe sempre verificare e distinguere chi attacca da chi si difende (i Piemontesi che ieri invasero il Sud e oggi gridano sugli stadi e i meridionali che reagirono e reagiscono per difendersi).  Secondo Barbero non si può “impunemente stravolgere il passato, reinventarlo a proprio piacimento per seminare odio e sfasciare il Paese”. Premesso che grazie a studi sempre più documentati e diffusi quelle relative ai primati borbonici sono tutt’altro che leggende (cfr. i dati archivistici a nostra disposizione o gli ultimi studi del CNR, della Banca d’Italia, dell’Istat o della belga S. Collet in merito ai livelli di industrializzazione, del Pil o delle finanze del Sud pre-unitario, pari o superiori a quelli del resto d’Italia); premesso che i Borbone furono tra i primi in Europa a costruire un sistema fognario o un sistema idrico urbano e agricolo e che Napoli fin dal  Quattrocento era “pavimentata” (altro che “melma”) a differenza delle altre città italiane, qualche domanda potrebbe essere utile. Si è proprio sicuri che commemorare i soldati napoletani deportati e caduti (1, 100 o 1000 che siano e Barbero, dati archivistici alla mano, nel suo libro non risolve affatto la questione) sia più pericoloso di quei cori razzisti e impuniti degli juventini o degli stessi cori che spesso ascoltiamo da decenni ai raduni della Lega (vera fucina di “invenzioni” come la “padania”) o di certe scelte che da 150 anni penalizzano il Sud con questioni sempre più drammatiche e irrisolte? Si è proprio sicuri che 150 anni di retorica risorgimentalista che ha cancellato i saccheggi e i massacri subiti dalle popolazioni meridionali (senza l’intervento “chiarificatore” di alcun prof. Barbero di turno) abbiano reso un buon contributo alla costruzione dell’identità italiana? Sconcertanti, del resto,  i passi del suo libro in cui si riportano (senza alcuna “pietas” e con uno stile presumibilmente somigliante a quello di un funzionario sabaudo) numerosi episodi di razzismo contro i nostri soldati reduci da migliaia di chilometri di viaggio tra offese e insulti terribilmente somiglianti a quelli degli stadi di oggi (“sporchi”, “luridi”, “puzzolenti”)… E se il Sud si fosse finalmente e veramente stancato di quei cori, di offese e di umiliazioni che durano da un secolo e mezzo, partono da quei soldati, passano per le curve, arrivano nelle redazioni di tv e giornali e, troppo spesso, fino alle stanze di parlamenti e ministeri? E se fosse naturale e ovvia una reazione di fronte a chi ci definisce “borbonici” con disprezzo o che scrive che eravamo “nella melma”, “puzziamo” e abbiamo dei “fini immondi”? E se i “terroni”, i “neoborbonici” o i “meridionali” stessero davvero ritrovando il loro orgoglio perduto per troppo tempo?

Prof. Gennaro De Crescenzo - Commissione Cultura - "Parlamento delle Due Sicilie"

Aprile: Hanno paura della memoria. L’autore di “Terroni” contro gli storici. Un gruppo di docenti aveva promosso una petizione per fermare l’iniziativa della Regione che vuole istituire la giornata in ricordo delle vittime meridionali dell’Unità. Pino Aprile 26 luglio 2017 su Il Corriere del Mezzogiorno. Altro che Lea Durante, roba da dilettanti, siamo all’uso «proprietario» e politico della storia, teorizzato da Alessandro Barbero, sull’onda degli storici «sabaudisti»: scegliere cosa narrare e farne miti fondanti, per formare patrioti. Quindi è pedagogia, politica; nessuna meraviglia, che la storia «non scelta», la raccontino altri. Il popolo vota (bene, male, come gli pare: è il difetto della democrazia, pur così malmessa); i rappresentanti eletti votano (bene, male, eccetera); sul Giorno della Memoria delle vittime dimenticate (e diffamate: guai ai vinti!) dell’unificazione d’Italia con saccheggi, stupri e genocidio, gli eletti dicono sì, all’unanimità o quasi, in Basilicata, Puglia, una mezza dozzina di Comuni, e la Campania stanzia 1,5 milioni di euro in manifestazioni, studi, approfondimenti. Al che, altri eletti (nessuno li ha votati, forse si ritengono tali) ordinano al presidente della Puglia di ignorare il voto a loro sgradito; non «finanziare alcun momento pubblico» (clandestino, invece sì?) dell’iniziativa voluta dal parlamento regionale; non consentire che di storia si parli nelle scuole (da «non coinvolgere in alcun modo»), se non come deliberato da lorsignori. Scusate, le orecchiette con le cime di rape: l’alice sì o no? Metti che uno si sbagli e parta una petizione... «Diremo agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione italiana?», scrivono i firmatari della petizione. No, perché, scusate, voi ancora raccontate che il Regno delle Due Sicilie era arretrato e sono arrivati i civilizzatori a dirozzarli, distruggendo le fabbriche o mandandole in rovina dirottando gli appalti al Nord, rubando l’oro delle banche e sterminando centinaia di migliaia di «arretrati», quindi poco male...? Leggete cosa scrive il ministro Giovanni Manna al re, rapporto sul censimento 1861, sul fatto che mancano 458mila persone, per la «guerra», rispetto al totale atteso; leggete, archivio Istat, con tabelle, i padri della demografia unitaria, Pietro Maestri e Cesare Correnti, sul fatto che, appena arrivati i piemontesi, al Sud, la popolazione, che cresceva più che nel resto d’Italia, smette di farlo e diminuisce di 120mila unità in un anno; o Luigi Bodio, capo della statistica, archivio Istat, sui 110mila giovani, quasi tutti terroni, renitenti alla leva, tutti morti, o «clandestinamente» emigrati (peccato che non si trovino...); o dei 105mila terroni, tutti maschi, scomparsi («emigrati» pure loro?). Leggete dei 600mila incarcerati nel ‘61, dei 400mila ancora nel ‘71, riferisce il di Rudinì, in Parlamento, della mortalità nelle carceri che arrivò al 20 per cento; dei deportati, almeno 100mila, di cui 20mila, denunciò il Maddaloni, nel solo 1861. E dopo aver tacciato quali «fantasiose ricostruzioni», «leggende», «fole» le ricostruzioni degli eccidi sabaudi al Sud, ora che non si riesce più a negarli, ci è offerta come «onestà intellettuale» l’ammissione che «gli storici devono fare di più per portare alla luce e spiegare e stigmatizzare i numerosi episodi di violenza a carico delle popolazioni meridionali». E già, in 156 anni è mancato il tempo... Han dovuto dircelo gli storici stranieri, come Denis Mac Smith, che ci furono più mort’ammazzati (per il loro bene, si capisce) per annettere l’ex Regno borbonico che in 11 anni di guerre di indipendenza contro l’Austria. Ed è ancora uno straniero (temibile neoborbonico?), il professor John Anthony Davis («Napoli e Napoleone»), università del Connecticut, fra i maggiori studiosi della nostra storia di quegli anni, a dirci che la favola dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie fu «inventata» da Bendetto Croce, per giustificare le condizioni sempre peggiori in cui precipitò l’ex Regno divenuto «Sud», dopo le amorevoli cure unitarie. Lo dimostrano gli studi dei prof Paolo Malanima e Vittorio Daniele, del Consiglio nazionale delle ricerche, di Stephanie Collet dell’università di Bruxelles, dell’Ufficio studi della Banca d’Italia (Carlo Ciccarell e Stefano Fenoaltea), di Vito Tanzi (Fondo monetario internazionale). Ma bastavano Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, unitarista deluso, quando scoprì che «questi sono più porci dei peggiori porci nostri», Gramsci che parla del Sud «colonia». Inutile l’ottimo ciclo di studi ricordati, su queste pagine, dal professor Saverio Russo (che ne fu un protagonista), sull’inconsistenza della vulgata «miseri e arretrati», o del professor Luigi De Matteo («Noi della meridionale Italia»), dell’Orientale di Napoli; eccetera. Il Regno delle Due Sicilie non era più povero del Nord (più o meno stesso reddito) né arretrato (il doppio degli studenti universitari del resto d’Italia messo insieme; le fabbriche più grandi della Penisola; addetti all’industria più numerosi di oggi). Ma fosse stato economicamente indietro del 15-20 per cento, come arditamente sostenuto di recente (con riaggiustamenti successivi, però...) da un poi fortunato titolare di cattedra in «Tutta colpa del Sud»: quale affare avremmo fatto, se in 156 anni siamo precipitati al 56 per cento del reddito medio del Nord, 3-4 volte peggio? Ci vuole coraggio a spacciare questo per unità (ma non prendono treni lorsignori, non hanno figli in partenza per altrove, mentre Milano forse si fotte l’ennesima mammella, un’Authority europea, dopo l’Expo-mafia, Human Technopole eccetera sempre con soldi pubblici?); a pensare di liquidare tutto come «propaggini estreme di un meridionalismo “piagnone” e rivendicazionista» (e ci trovate pure qualcosa da ridere?) o nominando tutti «neoborbonici» sul campo, «sanfedisti», faccia buia della luminosa medaglia di quei giacobini che presero a cannonate i loro concittadini, per consegnare il Paese a un esercito straniero, che lo spogliò di tutto, massacrando (il solo generale Thiebault) 60mila persone. Discutiamo delle idee, ma pure del prezzo di vite altrui che si è disposti a pagare per imporle a chi non si riesce a convincere. Ma che paura fa il Giorno della Memoria? Saranno convegni, dibattiti, manifestazioni... E cosa impedisce a chiunque, in civile confronto (sempre che non sia proprio questo che inquieta), di esporre dati e opinioni cui si attribuisce maggior fondatezza? Dovreste esser lieti di una possibilità così succulenta di sbugiardare il branco di...? di...? «Neoborbonici»! Evvai (ma che palle!). Invece di virare sulla paura che si alimenti «l’inconsapevole sentimento antiunitario contro il leghismo del Nord». Mentre non fa paura il consapevole (dimostrato e gridato) sentimento antiunitario della Lega Nord contro il Sud. Se no una petizione l’avreste fatta. Mi sbaglio? Lea Durante ha mai promosso petizioni per adeguare la rete ferroviaria (tutto a Nord, nulla a Sud) con o senza alta velocità (o è revanscismo neoborbonico?). O contro l’esclusione, da parte del ministero dell’Istruzione, di poeti e scrittori meridionali, pur se premi Nobel, dai programmi di Letteratura del Novecento per i nostri licei? No? Eppure son 7 anni che si fanno raccolte firme, proteste di istituti scolastici, interrogazioni parlamentari. O contro la normativa che «premia il merito» degli atenei che sorgono nelle regioni più ricche e condanna a morte prossima quelli meridionali?

O contro i criteri in base ai quali la salute di un terrone vale meno di quella di un settentrionale? (A meno che i firmatari, non abbiano taciuto per non parer «piagnoni» e «revanscisti»). La cultura faccia ponti non fossati, professoressa. Il Giorno della Memoria serve a discutere. Chi ne ha paura, teme di non aver da dire o quel che può esser da altri detto. Ma quanne ‘na cose niscune te la vo’ di’, allore la terre se crepe, se apre, e parla.

Il revisionismo e il falso mito di Pino Aprile.  Saverio Paletta il 22 maggio 2019 su indygesto.com. Il business del giornalista pugliese, dalla navigazione a vela alla controstoria. Vi ricordate Oggi e Gente? I due settimanali ora fanno a gara a sparare in prima pagina le immagini di soubrette, conduttrici tv e donne di successo, il meno vestite possibili. Tra gli anni ’70 e ’80 gareggiavano in cose più serie, almeno dal punto di vista storiografico: ritratti e titoli sui membri della famiglia Savoia, allora in esilio, sui superstiti della famiglia Mussolini e sullo scià di Persia. In quei giornali fece la sua brava carriera il giornalista pugliese Pino Aprile, che fu direttore del primo e vicedirettore del secondo. Aprile, di cui – come per tanti giornalisti, che non ne hanno – sono sconosciuti i titoli accademici, proveniva dalla classica gavetta nei giornali locali, come La Gazzetta del Mezzogiorno. Parliamo, ovviamente, dello stesso Pino Aprile che, dal 2010 in avanti, dopo una fortunata parentesi come esperto di navigazione sportiva a vela, si è riscoperto ultrameridionalista (almeno in pubblico, visto che altre tracce precedenti di questa sua passione non ce ne sono), ha buttato alle ortiche la precedente attività di divulgatore storico e si dedica al revisionismo antirisorgimentale. I Savoia restano in cima alle sue preoccupazioni, ma non come personaggi da prima pagina bensì come bestie nere. L’Unità d’Italia, a sentire l’Aprile di oggi, è stata la iattura del Sud. Il Risorgimento fu una guerra di conquista, con tanto di genocidio annesso, almeno tentato e, a sentir lui, in parte riuscito. Con questa ricettina, il Nostro ha scritto uno dei più grandi best seller del decennio: quel Terroni (Piemme, 2010) che, forte di oltre 250mila copie vendute, ha suscitato un dibattito fortissimo, che dal mondo della cultura (e nonostante esso) è tracimato nella politica. Se sette anni fa non ci fosse stato Terroni oggi il Movimento 5Stelle non avrebbe lanciato l’idea di una giornata della memoria dedicata alle vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Senza il successo di Terroni, che ha trasformato il suo autore in una specie di Messia dei movimenti sudisti, le tesi dei neoborbonici giacerebbero in una nicchia più piccola di quella che occupano adesso. E non ci sarebbe, soprattutto, il battage editoriale che, a sette anni dal centocinquantenario dell’Unità, continua a martellare l’opinione pubblica, a dispetto della crisi dell’editoria. Inutile dire che tanta fortuna si basa sul nulla o quasi: le tesi storiografiche di Aprile suggestionano al primo impatto ma si smorzano non appena si inizi una seconda lettura. Non solo per una questione di stile, che non è proprio gradevole (irrita ad esempio la scrittura in prima persona e l’abbondanza di dialettismi, roba che ad altri verrebbe censurata in qualsiasi giornale di provincia), ma soprattutto di contenuti e di onestà intellettuale. Evitiamo di scendere nei dettagli del corposo revisionismo apriliano e soffermiamoci, piuttosto, su un’espressione che ricorre come un mantra in tutti i libri dell’autoproclamato storico di Gioia del Colle: «Certe cose non le sapevamo perché nessuno ce le ha mai raccontate». Non sapevamo, ad esempio, che l’Unità d’Italia fu la guerra di conquista vinta da uno Stato, il Regno di Sardegna, nei confronti di tutti gli altri della Penisola. Non sapevamo che all’Unità seguì un periodo di disordini profondissimi con episodi tragici, stermini e abusi da guerra civile. Non sapevamo che, in effetti, il Sud iniziò ad arretrare con l’Unità (o meglio, restò al palo mentre le altre zone, altrettanto non sviluppate, crebbero). Ma non è vero che non sapessimo tutto questo perché «nessuno ce l’ha mai raccontato». Non lo sapevamo perché semplicemente non abbiamo studiato oppure non ci siamo documentati a dovere. Dopodiché, persino il cinema si è occupato di certe cose. Si pensi all’eccidio di Bronte, rievocato da Aprile col tono di chi rivela novità assolute: a quest’episodio, tragico ma non sconosciuto, il regista Florestano Vancini dedicò nel 1971 Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, una coproduzione italo-jugoslava trasmessa varie volte dalla Rai e perciò vista da milioni di telespettatori. Nel 1999, invece, Pasquale Squitieri (la cui recente scomparsa è passata inosservata ai neoborbonici e agli aficionados di Aprile) girò Li chiamarono briganti, dedicato, appunto, alle gesta del brigante lucano Carmine Crocco. Anche la musica ha fatto la sua parte: nel 1974, ben prima che il milanese Povia si convertisse alle tesi neoborboniche per rilanciare la sua carriera con la stucchevole Al Sud, gli Stormy Six, band di punta dell’underground milanese, dedicarono una canzone al massacro di Pontelandolfo. Se ci concentriamo invece sui libri, che poi sono le uniche fonti utilizzate da Aprile, che tuttavia ben si guarda dal fornire una bibliografia, ci accorgiamo che tutto era stato già scritto, anche con un certo rigore e che nessuno, a partire dal compianto Carlo Alianello e da Franco Molfese, autore di una pregevolissima Storia del brigantaggio dopo l’Unità, è mai stato censurato. Tutt’altro. Tutto ciò che è riportato nei libri del pugliese a partire da Terroni era già stato pubblicato prima. È stato solo grazie al clima d’odio creato dalla crisi economica e politica del Paese e dalla rinascita dei pregiudizi localistici, in particolare quello antimeridionale sfruttato alla grande dalla Lega Nord dell’era Bossi, che certe tesi sono state distorte e trasformate nella clava politica che in tanti, adesso soprattutto i grillini, cercano di brandire per cattivarsi un po’ di consensi. Ma secondo Aprile, che ha rincarato la dose nel suo ultimo Carnefici (Piemme, 2016), non sapevamo altro, e cioè che il Risorgimento è stato quasi un genocidio concertato ad arte. Peccato che il nostro non sia riuscito a provare le cifre da Prima Guerra Mondiale snocciolate per avallare la tesi che il Sud è quel che è perché i settentrionali, a furia di massacri e rapine, l’hanno depauperato. Peccato, inoltre che certe narrazioni siano state smontate nel frattempo. Ad esempio, quella secondo cui Fenestrelle, il forte alpino in cui erano alloggiati i Cacciatori Franchi, cioè il corpo punitivo del Regio Esercito (italiano e non piemontese), fosse nientemeno una sorta di Auschwitz sabauda in cui sarebbero stati macellati a migliaia i soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie. Al riguardo, val la pena di menzionare la polemica a distanza tra Aprile e lo storico torinese Alessandro Barbero, autore di I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle (Laterza, Roma-Bari 2012). Per parare il colpo dello storico piemontese, Aprile scende piuttosto in basso: definisce in Carnefici il suo contraddittore «un medievista e romanziere prestato alla storia contemporanea» e si arrampica sugli specchi, non riuscendo a controbattere coi documenti. Su questo punto si potrebbe rispondere non senza ironia che un medievista è uno storico e, in quanto tale, applica un metodo affinato sullo studio di documenti difficili come quelli medievali, redatti in latinorum o, peggio, in volgare. Di Aprile si sa, per sua stessa pubblica ammissione, che è un perito industriale. Nulla di male in ciò. Ma si ammetterà che il passaggio da perito industriale a storico attraverso il giornalismo è più tortuoso e dà meno garanzie sulla qualità della ricerca, o no? Al netto delle polemiche, si potrebbe concludere che il potere di firma permette ad alcuni ciò che i titoli non consentono ad altri. Nel caso di Aprile si va oltre e il potere di firma diventa transitivo e generazionale. Infatti, Marianna Aprile, figlia di Pino e piezz’e core come tutti i figli d’arte, è una firma di Oggi e, di tanto in tanto, fa comparsate in Rai. Questo lo sappiamo. E sappiamo altro. Sappiamo che i guai del Sud di oggi non sono il prodotto dei Savoia di ieri, ma di quella classe dirigente corrotta, incapace, impreparata e collusa che, spesso, ricicla il sudismo alla Aprile per dotarsi di una linea culturale. Sappiamo queste cose perché ce le raccontano tanti giornalisti che sfidano il precariato e le querele in redazioni spesso improbabili e fanno i conti in tasca a chi amministra quel po’ di potere rimasto e i suoi dividendi. E sappiamo che il compito di questi giornalisti è difficile perché la censura, anche fisica, è un rischio quotidiano. Diffamare i morti (se il generale Cialdini risuscitasse, quante querele beccherebbe Aprile?) invece è facile. Sappiamo anche questo, per averlo sperimentato di persona. Ma prima o poi le mode passano. Sono passate quelle estetiche, che hanno condannato alla bulimia e all’anoressia qualche migliaio di ragazze, passeranno quelle culturali, che condannano all’odio migliaia di persone. Forse questo non lo sappiamo di sicuro. Ma ci speriamo.  Saverio Paletta

Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. 

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020 su Il Nuovo Sud.it.  

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). UNA SCELTA DOLOROSA MA NECESSARIA (E MOTIVATA). “Non ci interessano strategie, giochini o compromessi: la nostra storia va rispettata. Punto”. I motivi per cui non consiglierò ai miei amici di comprare FAKE SUD di Marco Esposito si legano alla prefazione di Alessandro di Barbero e anche a tanti contenuti del libro stesso. In premessa dobbiamo ringraziare gli autori di libro e prefazione perché concedono molto spazio ai neoborbonici, evidentemente preoccupati o stimolati dal successo delle loro tesi (se qualcosa non ci preoccupa, non ci interessa o la si ritiene inutile, non se ne parla o almeno non se ne parla con questa frequenza o con certi toni). Ognuno è libero di scegliersi i firmatari della sua prefazione (e anche di pubblicizzarli con le fascette sui libri) ma forse è meno libero di consentire offese e insulti anche personali nelle stesse prefazioni. Si tratta, in realtà, delle solite offese rivolte da Barbero ai neoborbonici (non solo nostri simpatizzanti o collaboratori ma migliaia di persone e tutto il mondo che ruota intorno al seguitissimo “neo-meridionalismo”) fin dalla uscita del suo libro che cercava di negare o ridimensionare i drammi vissuti dai soldati delle Due Sicilie a Fenestrelle (e confermati da diverse domande “archivistiche” che posi a Barbero anni fa e alle quali non ha mai risposto e che saranno confermati in pieno da un libro di un coraggioso accademico e in uscita nel prossimo inverno). Non ho mai offeso personalmente Barbero e nell’unico confronto che ho avuto con lui, di fronte alle sue risatine mentre io parlavo di quei poveri soldati morti di freddo e stenti, oltre a tante osservazioni sul piano storico-archivistico, mi limitai ad osservare che forse le distanze tra noi non erano solo storiografiche. Dalla quantità degli insulti che ci ha rivolto in questi anni (mai ricambiato) e anche in questa prefazione, devo pensare che forse quella mia osservazione dovette colpirlo, anche se ricordo la cortesia dei saluti e addirittura l’idea che qualcuno gli aveva proposto (quella di scrivere un libro insieme). Evidentemente, visto che è stata quella l’unica occasione di incontro, avrà ripensato a quella serata, ne avrà rivisto il video e il ricordo non deve essere positivo (al contrario di quanto posso dire io). Detto questo, da anni abbiamo rinunciato a incarichi, a guadagni facili e a seggi elettorali e stiamo perdendo (altro che “mezzi” o fini “immondi”) tempo e denaro nelle nostre vite sottraendolo a noi e alle nostre famiglie e non possiamo consentire a nessuno insulti gratuiti personali o alle migliaia di persone che da anni ci seguono con rispetto e affetto. Non ci interessano le reazioni “infuriate” (esistono degli ottimi rimedi anche naturali) e non ci interessano neanche le strategie politiche o pubblicitarie e, anche se si tratta di famosi docenti onnipresenti in tv, ci tuteleremo e tuteleremo i nostri tanti iscritti e simpatizzanti in ogni modo e con ogni mezzo (legale, democratico e civile). Detto questo, è opportuna un’analisi per illustrare i (tanti) motivi per cui questo libro non ci convince. In premessa devo ammettere una mia mancanza: non ho mai letto una premessa così carica di astio e rancore in un libro che per giunta parla di “pendoli” e di necessità di moderare i termini dei confronti. E se la scelta di Barbero (dopo le tante e innumerevoli offese rivolte ai suoi “oppositori”) poteva essere un’idea pubblicitaria (al netto delle ovvie critiche nel nostro “mondo”, lo stesso contro il quale si rivolge spesso Barbero e che magari poteva acquistare il libro di Esposito), quando l’autore e l’editore hanno letto il testo forse avrebbero potuto avere qualche dubbio… Ve lo riportiamo. “Prefazione di Alessandro Barbero. Si tratta dell’insieme di scellerate fantasie che il movimento neoborbonico ha messo in circolo dalla fine del secolo scorso reinventando da cima a fondo la storia del Mezzogiorno d’Italia e dell’Unità d’Italia […], qui si tratta di influenzare la mentalità collettiva del nostro paese e si accendere passioni violente sulla base di informazioni false […]. Altrove ho scritto di un fine immondo e mi correggo: sono i mezzi che sono immondi” […]. Marco Esposito è stato troppo rispettoso di persone come Pino Aprile o Gennaro De Crescenzo (anche se io per primo, avendoli incontrati entrambi, riconosco che fra i due c’è una bella differenza di statura umana […]; c’è da provare ripugnanza […]; si tratta di primati tragicomici e di buffonate dei neoborbonici”. E se Esposito scrive a Pino Aprile che le sue (presunte) fake danneggiano la parte buona del resto dei suoi libri, potremmo dire lo stesso di Esposito di fronte a queste parole. Ma andiamo avanti con il resto dei contenuti. Solo una nota a cui tengo: Barbero, forse sbagliando parola, parla di “statura umana” e io, con tutto il rispetto e pur nei miei limiti, con il mio 1.78 credo di essere più alto sia di Barbero che di Pino Aprile…

La base del libro è “l’errore del pendolo” e cioè gli eccessi antimeridionali e gli eccessi meridionali anche se per contestare i secondi Esposito contesta le tesi dei neoborbonici. La motivazione in sostanza è “dobbiamo essere infallibili se vogliamo essere credibili”. Bene chiarire, forse, che non esistono ricerche e tesi infallibili. Facciamo qualche esempio. Tra i primi che mi vengono in mente c’è la proposta secessionista di Marco Esposito che (Barbero lo sa?) qualche anno fa il giornalista del Mattino sintetizzò nel libro “Separiamoci”, un progetto forse anche estremistico sul piano del diritto italiano e nel quale mai nessun neoborbonico si era mai avventurato. Qualche anno prima, sempre per fare un esempio, il successo relativo del suo progetto di moneta alternativa come assessore a Napoli (nome non molto felice: il “Napo”) o il suo progetto elettorale con percentuali non superiori allo “zerovirgola”. Nessuno, però, a differenza di quanto Esposito fa nel libro lamentandosi per la mancata autocritica di Pino Aprile o per la mancanza della dichiarazione di qualche correzione (e neanche delle correzioni) magari nell’elenco dei primati, ha mai pensato di chiedere a Esposito autocritiche o “dichiarazioni di omessa dichiarazione di integrazione di un primato”… Nel libro una serie di dati puntuali che conosciamo bene anche per i numerosi articoli e per gli altri libri che Esposito ha scritto sulle sottrazioni di fondi a danno del Sud e anche su diverse bugie che circolano in merito a sprechi e inefficienze da queste parti.

Quello che però più sorprende è il fatto che Esposito metta sullo stesso piano l’eventuale errore del “terzo posto industriale” (neanche del sottoscritto ma di diversi altri autori o semplicemente di tante persone su facebook) e oltre un secolo e mezzo di fake, di cancellazioni, di mistificazioni e umiliazioni contro il Sud. Da un lato, allora, una storia ufficiale che in maniera monopolistica, con tv, giornali, università e case editrici e anche libri di scuola di ogni ordine e grado ci racconta le (vere) fake di Garibaldi&Garibaldini o di un Sud arretrato e inferiore con le conseguenze culturali e anche politiche ed economiche che il libro stesso evidenzia, dall’altro un gruppo di storici volontari e autofinanziati che ha tirato fuori storie cancellate con le conseguenze (positive) che hanno e potranno avere. Ma per Esposito siamo tutti uguali e il pendolo vale per loro e per noi. È grave per lui, allora, che qualcuno abbia tirato fuori la storia del “terzo posto” (secondo i suoi dati forse era sesto o settimo) ma non che qualcun altro non abbia mai parlato delle industrie del Sud pre-unitario. Ci convince poco anche la motivazione di tutto questo (la potremmo pure condividere ma il rischio della retorica e della pre-sunzione è troppo alto): “potremmo tornare ad essere un modello armonico di esistenza”. E allora la sensazione è che “l’errore del pendolo” non sia dei neoborbonici o dei neomeridionalisti ma di… Esposito che non si è accorto che quel pendolo era spostato tutto da una parte da oltre 150 anni.

“Se quei primati vengono esaltati oltremodo l’operazione di riscatto della memoria dei neoborbonici da necessaria diventa perniciosa”: peccato che quei primati siano oltre 150, che quelli “integrati” e aggiornati” nel libro siano solo sette e che per 150 anni di quei primati non si conosceva l’esistenza e non ricordiamo libri di Esposito che ne abbiano mai parlato e neanche libri nei quali abbia difeso il Sud dalle umiliazioni di tutta la storiografia italiana. Notiamo oggi (anzi) un Esposito tutto intento a calcolare i metri cubi della Reggia di Caserta per dimostrare che non è la reggia più grande (ed è costretto a riconoscere che il primato è riportato anche dal sito della Reggia) o con il vocabolario di tedesco per dimostrare che la prima cattedra di economia era in Germania e non a Napoli (eppure bastava dare un occhio alla Treccani) o a confrontare gli elenchi di primati sul sito dei neoborbonici (2005) con il mio libro del 2019. Tante le pagine dedicate ai moti del 1820 e al “primo parlamento a suffragio universale” (omettendo le critiche che i Nitti o i Croce rivolsero contro quei moti carbonari-massonici ed etero-diretti), uno dei pochi primati borbonici anti-borbonici (il Borbone, per accordi internazionali e, resosi conto delle reali intenzioni dei rivoluzionari, bloccò tutto). Esposito insiste anche con una vecchia tesi della storiografia ufficiale a proposito della implosione del Regno ma Esposito non cita altre fonti: fu sempre Croce, come riportato da un recente libro di Gigi Di Fiore, ad evidenziare che si trattò di una caduta “per urto esterno” e libri recenti e documentatissimi dimostrano che si trattò anche in quel caso di una operazione etero-diretta.

Per Esposito, poi, è “vomitevole” (aggettivo non proprio moderato e tendente a quella armonia vagheggiata in altre pagine) la storia divulgata (sul web e sui social!) dei “10 o 15 anni di chiusura delle scuole del Sud dopo il 1860”. A questo proposito cita anche il sottoscritto quando riporto i dati del più alto numero di iscritti all’università. Qui cita il mio (“bel”) libro sui primati ma forse non lo avrà letto tutto perché in quel libro e in altre mie pubblicazioni il dato degli iscritti è solo uno dei tanti elementi portati come “prove” (archivistiche) relative alla falsità dei dati del censimento del 1861 (in testa quelli del Fondo Ministero Istruzione a Napoli e quelle successive degli Annuari). Sono quelle le fonti che dimostrano la chiusura di un numero enorme da un notevole numero (oltre 6000) di scuole presenti nelle Due Sicilie fino alla nefasta applicazione della legge Casati (che Esposito cita senza analizzarne le conseguenze). In questo caso Esposito dimentica anche di completare la lettura del libro di Daniele che pure cita in più passaggi: in particolare non riporta i dati relativi al numero di scuole presenti nelle Due Sicilie (in media con quelle del resto dell’Italia).

Surreale il capitolo relativo alla deportazione dei meridionali in Patagonia progettata dallo stato italiano: nel corso dell’intervista inserita nel libro Barbero in un primo momento nega questa possibilità ritenendola una “leggenda neoborbonica” e di fronte a diversi documenti accetta in parte la tesi ma con un suo strano distinguo che applicò anche ai prigionieri di Fenestrelle: quei progetti “per atterrire le nostre impressionabili popolazioni” non erano pensati per i meridionali ma per tutti gli “italiani” perché dal 17 marzo 1861 eravamo tutti italiani… Per Barbero, allora, le decine di migliaia di meridionali deportati con la legge Pica e ritrovati (nomi e cognomi) negli archivi dell’Italia centrale e settentrionale sono una fake news (peccato che Esposito non l’abbia inserita nel libro)…

Schema simile sempre a quello seguito da Barbero anche quando “Fake Sud” affronta il tema di Fenestrelle usando “la parte per il tutto”: per Esposito Di Fiore “ha scritto prima ‘in tanti morirono in quelle prigioni’ per poi correggersi (già negli Ultimi giorni di Gaeta) dicendo che ‘per loro il ritorno a casa non fu semplice’ e poi riconoscendo che non fu persecuzione scientifica”. In realtà, leggendo bene e conoscendo bene i libri di Di Fiore, non risulta affatto questo “climax” suggerito in maniera quasi subliminale da Esposito: in Nazione Napoletana (successivo agli “Ultimi giorni”), a proposito dei campi di prigionia sabaudi, Di Fiore scrive di “migliaia di militari rinchiusi” e anche “a centinaia non fecero più ritorno”. Stesso schema quando cita il prof. Gangemi e i suoi documentatissimi studi di prossima pubblicazione: si parla solo dell’errore di Barbero sui 1200 soldati (forse erano 1300) e non delle pluriennali ricerche archivistiche con le quali Gangemi dimostra la morte a Fenestrelle e altrove di diverse migliaia di soldati. Proprio su Fenestrelle i passaggi forse più (in negativo) significativi: abbracciando in pieno le tesi barberiane, Esposito sostiene che non era un lager, che non c’era la volontà di sterminare i soldati napoletani ma (giuriamo che la frase è proprio questa) “semmai l’ingenua pretesa di inquadrarli rapidamente nel nuovo esercito nazionale”. Non possiamo non evidenziare l’aggettivo “ingenua” riferito a quella scelta che, pure ammesso che la volontà iniziale non fosse lo sterminio, stride con le condizioni di quei viaggi e di quelle prigioni ritenute infernali per decenni. A parte il fatto, poi, che l’idea della “rieducazione” rievoca spettri impronunciabili, a parte il fatto che avrebbero potuto anche evitare de-portazioni a oltre 1000 km e a oltre 1200 metri di altezza (magari “rieducandoli” nelle loro zone di origine), a parte il fatto che dal numero di ospedalizzati, di morti, di fughe e di rivolte avrebbero potuto dedurre che forse non era il caso di insistere per tanti anni (e ben oltre quel 1862-data semi/fake usata da Barbero per chiudere le sue ricerche con lacune che saranno presto evidenti nel libro di cui sopra), a parte il fatto che Esposito avrebbe potuto chiedere lumi a Barbero in merito ai misteri di quei 40.000 soldati attestati a Fenestrelle non dai neoborbonici ma dai Carabinieri nel loro museo in epoca fascista, Esposito si risponde da solo quando, nella stessa pagina, scrive che “la maggior parte di quei soldati rifiutò [di essere inquadrata nel nuovo esercito] avendo giurato fedeltà a Francesco II”. Qui Esposito, però, non si chiede e non chiede neanche a Barbero quale fosse la sorte di quei soldati visto che non volevano essere rieducati e inquadrati e i sabaudi volevano “solo” rieducarli e inquadrarli. Forse, allora, a Fenestrelle non c’era un cartello con la scritta “campo di sterminio” ma quel forte lo diventò e non fu neanche l’unico caso.

Da notare anche qualche “distrazione” come quando riferisce ai neoborbonici la tesi “con 7 secoli di storia potevamo dirci neogreci, neoangioini o neoaragonesi” ma (senza leggere il testo riportato da circa 20 anni sul sito dei neoborbonici e limitandosi a cercare la notizia dal web) ci ricorda che i secoli, “partendo dai Greci sarebbero 28” (io ho scritto 3 libri sulla storia di Napoli e non ho mai parlato di “7 secoli”).

Nel libro contro le fake anche un’altra mezza fake: quella secondo la quale in Italia nessuno emigrava fino al 1860. Esposito forse non ha letto i testi che attestano emigrazioni consistenti (tra gli altri) di Comaschi, Genovesi e Parmigiani con cronisti che arrivarono a parlare di “fanatismo migratorio” (G. Goyau, M. Porcella, F. Bellazzi, G, Calzolari, tra gli altri).

Non è affatto vero, poi, che Aprile “peraltro non ha fatto alcuna ricerca diretta ma ha riassunto con toni vivaci quanto è stato scritto sul tema dal 1993 in poi” (Aprile non inserisce note ma riporta nei testi le sue tante fonti frutto anche di ricerche complesse) e non è vero che Terroni “riassume gli errori e le inesattezze della storiografia fai-da-te” e che “Pino Aprile cade in fallo” perché sottovaluterebbe il fatto che “anche un solo scivolone rischia di inquinare il resto” (e fa l’esempio –sbagliato- di Fenestrelle che non era un luogo di sterminio) e non è accettabile neanche l’altra tesi su Aprile: da un lato, infatti, Esposito scrive che con il suo Terroni “sempre più meridionali si sono liberati del senso di minorità”, dall’altro, però, in virtù della sua mancata “autocritica”, “chi legge quel libro prende per buone tutte le affermazioni e qualcuno anzi, come in un gioco al rialzo, si attiva in rete e magari aggiunge altro di suo e il rischio è che l’informazione inesatta o esagerata abbia l’effetto della mela marcia e spinga a buttare l’intera cesta”. Ovvio che Aprile non possa rispondere di quello che fanno i suoi lettori (se scrivo che Mertens non ha giocato bene non sarà colpa mia se qualcuno gli buca le ruote del motorino) così come… scagli la prima pietra uno scrittore infallibile.

Surreale la denuncia della fake news relativa alla frase di Bombrini (“I meridionali non dovranno più essere in grado di intraprendere”) perché, premesso che io nei miei libri non l’ho mai usata (amo le fonti da quando mi specializzai in archivistica), se è vero che (finora) non c’è una fonte che la documenti, è altrettanto vero (e lo specifica poche righe dopo) che Bombrini fece una lunga e articolata serie di scelte che potrebbero essere sintetizzate in maniera esemplare in quella frase, come attestano le eccezionali ricerche del grande Nicola Zitara. Dopo oltre un secolo e mezzo di silenzi omertosi e colpevoli (e dannosi) sulle politiche antimeridionali uno slogan e una locandina su facebook possono essere più efficaci di 100 libri soprattutto se sintetizzano una loro intrinseca e profonda verità.

Surreale anche un’altra delle tesi del libro: “non siamo ancora in un tempo pacificato”. Esatto. Ma per il motivo contrario: qui al Sud, nell’opera di ricostruzione di identità e di liberazione dal senso di minorità, siamo ancora all’anno zero e semplificazioni o anche e addirittura esagerazioni (legittime dopo 150 anni di umiliazioni) sono più che mai preziose. E forse abbiamo ancora più bisogno di orgoglio che di “maestrine con le penne rosse” pronte a bacchettare questo o quel passaggio (è un lusso che, forse, ci potremo permettere tra qualche anno). A meno che qualcuno non pensi che questo processo sia già concluso (e non è concluso affatto, come dimostrano le politiche antimeridionali di questi anni e che nel libro sono anche sintetizzate). A meno che qualcuno non pensi che questo processo non serva (e allora, forse, non ama davvero il Sud e non vuole davvero risolvere le questioni meridionali) e non ci meraviglieremmo molto se questo libro (soprattutto per le parti nelle quali in fondo sostiene che “è tutta colpa del Sud”) avrà molti spazi televisivi e giornalistici e venderà le sue brave copie… E magari in questo tipo di discorso rientrano anche certi titoli (quello più adatto, in questo caso, forse, era un più equilibrato e coerente con i contenuti “Fake Sud e Nord”, così come all’epoca “I prigionieri dei Savoia” di Barbero poteva far pensare ad una denuncia delle malefatte sabaude).

In conclusione (evitiamo di ripetere la formula usata da Barbero per iniziare la sua prefazione perché non riusciamo a capirla bene: “Nella conclusione a questo libro Esposito racconta…”), non possiamo non rilevare che Esposito forse per la prima volta parla del passato in un suo libro e ha scelto una strada (secondo il nostro parere personale) non del tutto felice, sia per la scelta della prefazione (e dei toni) che per diverse notizie riportate nel testo. Di fronte a oltre 150 anni di bugie (quelle sì tutte contro il Sud), di fronte a quei “400 gruppi facebook antimeridionali” (quelli sì carichi di un razzismo pericoloso), di fronte all’avanzare di una Lega (sempre) Nord (quella che condiziona non la “mentalità” ma la politica da decenni, quella che porta in giro odio vero e simboli di personaggi storici medioevali inventati sui quali, però, non ci risultano, ad esempio libri, articoli e premesse “infuriate” di Barbero che tra l’altro è anche medioevalista), di fronte all’avanzare di quel “partito unico del Nord” (che non si è mai messo e non si metterà mai a cavillare sui suoi aderenti e a cercare vie politicamente corrette), pur lusingati dallo spazio e dall’importanza attribuitaci in questo libro, ci auguriamo che il prossimo libro di Esposito e Barbero possa evitare di offendere o andare a cavillare tra libri e siti neoborbonici rivolgendo le loro attenzioni altrove (un altrove molto vasto a partire magari da tante storie-fake risorgimentali).

Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020

Sepolti dai pregiudizi contro il Sud. «Bufale blasonate». Sepolti dai pregiudizi contro il Sud. Di e da pietrodesarlo.it il 6 luglio 2021. Nel libro “Perché il Sud è rimasto indietro” l’autore, Emanuele Felice,  fornisce la serie storica del divario Nord – Sud dal 1871 ad oggi. Avvisa subito che i dati del 1861, anno in cui fu annesso il Regno Duosiciliano, non ci sono, e che ricostruirli “… sarebbe un esercizio poco serio e quindi risparmiamocelo”. Però, dopo poche pagine, si lancia proprio nell’”esercizio poco serio” e afferma che nel 1861 fatto 100 il PIL pro capite nazionale quello del Sud era tra il 75% e l’80%. Ci spiega poi che, grazie all’Unità d’Italia, il PIL del Sud crebbe miracolosamente per 10 anni fino al 90% del 1871, anno in cui le serie storiche diventano universalmente accettate.  Però appena queste diventano ufficiali puff … il miracolo finisce e dal 1871 il divario peggiora costantemente. Nel 2001 il Sud è al  69% del PIL medio italiano, e oggi siamo intorno al 65%. In sintesi per Felice quando non c’erano i dati, proprio grazie all’Unità d’Italia, il divario Nord – Sud è diminuito, ma da che ci sono i dati è invece aumentato ma non a causa dell’Unità d’Italia. Perché allora? E qui il nostro si lancia nella solita poltiglia anti meridionalista giustificandola prendendo i numeri e i fatti che gli fanno comodo e ignorando gli altri.

Luca Ricolfi. Qualche anno prima di Felice, Ricolfi aveva pubblicato un libro “Il sacco del Nord”. In questo libro sostenne che il Sud viveva alle spalle del Nord e che in realtà fosse più ricco del Nord stesso. Come? Dando un valore economico al tempo libero. Vengono così stravolti i divari Nord Sud. Ovviamente dimentica, il Ricolfi, che l’abbondanza di un bene lo deprezza e che il tempo libero di un disoccupato ha un valore diverso da quello di un neurochirurgo, ma tant’è. Nella pubblicistica antimeridionale tutto fa brodo.

Barbero e Augias. Passiamo a Barbero, che per contestare i Neo Borbonici su Fenestrelle scrive un corposo libro . I Neo Borbonici pongono la quota a cui si trova il Forte di Fenestrelle a 1800 metri sul livello del mare, Barbero a 1200. Differenza non da poco per stabilire quanti fossero nel 1861 i morti tra i prigionieri mal nutriti e mal vestiti dell’esercito napoletano chiusi nel Forte posto nella gelida Val Clusone. Chi ha ragione? Nessuno dei due. In realtà il Forte è un insieme di strutture poste tra quota 1200 e quota 1800. Però Barbero è rock e non fa propaganda ma storia, i neo borbonici sono lenti e guai a chiamare  Barbero neo sabaudo. Andiamo ad Augias che sulle vicende risorgimentali, quando non gli conviene, propone l’oblio … a senso unico però, visto che a Torino, presso l’università statale, c’è un Museo dedicato al Lombroso. Di la dalle intenzione del Lombroso stesso le sue teorie furono utilizzate per giustificare la feroce repressione ai briganti, relegandoli a sub specie umana. Come Felice, memoria selettiva: ricordiamo quello che conviene.

Perché faccio questa tiritera? Perché la pubblicistica anti meridionale crea un costante pregiudizio nei confronti del Mezzogiorno e quindi tutte le volte che c’è un pregiudizio non si riescono a capire cause e soluzioni dei problemi.

Quando questi pregiudizi sono poi diffusi da Felice, che è il responsabile economico del PD che ha proprio nel Sud il proprio bacino elettorale, da Ricolfi, che si definisce illuminista e fa parte della fondazione che pomposamente si richiama a Hume, oppure da mostri della cultura in pillole come Augias e Barbero diventa quasi impossibile ragionare e capire. Se uno ci prova viene insultato sui social.

Facciamo una prova. Se vi chiedessi perché la sanità campana funziona peggio di quella lombarda cosa rispondereste? Non fate i timidi, suvvia! Bravi, ci siete: i campani sono brutti, sporchi e cattivi. Insomma la risposta antropologica è l’unica che vi viene in testa. A nessuno mai verrebbe in mente di rispondere perché lo Stato spende in Campania per la sanità 1.593,11 euro anno per abitante mentre in Lombardia ne spende 2.532,79.

Sorpresi? Ora vi tolgo il fiato perché lo so già che state pensando che tanto è inutile dare soldi ai campani perché li butterebbero dalla finestra. Ma il monitoraggio della spesa sanitaria italiana mostra che in un solo anno, e tutti gli anni da 10 anni, la sanità campana produce un avanzo di gestione di più di 43 milioni di euro. Quello che la ricca Lombardia ci mette 10 anni a produrre. Ma le sorprese non finiscono qui. Per le politiche sociali, che insieme a quelle per la sanità rappresentano il 50% delle spese regionali, nel 2018 in Lombardia sono stati spesi 6.711,16 euro per abitante. E in Campania? Solo 4.672,77!

Differenze imbarazzanti. Le differenze sono imbarazzanti e moltiplicandole per il numero di abitanti della Campania si vede che questa riceve 17 miliardi di euro l’anno in meno, che per 10 anni fanno 170 miliardi. Se applichiamo questa differenza a tutto il Sud parliamo di 45 miliardi l’anno che in 10 anni fanno 450 miliardi: più del doppio del recovery plan. E fino ad ora non abbiamo parlato del divario infrastrutturale del Sud con il Nord. Se proprio sentite la necessità di arrampicarvi sugli specchi ora direte che la spesa pubblica non produce PIL. Eccome se lo produce! Si possono assumere medici e infermieri scegliendo i migliori, attrarre malati da altre regioni che portano i loro famigliari a occupare alberghi e pensioni per l’assistenza ai parenti. Con i quattrini per la coesione sociale si sviluppa il terzo settore. Andate a vedere in Lombardia quanti ci campano! Siete tramortiti, ammettetelo. Vi vedo affannati a cercare conferme ai vostri pregiudizi nell’evasione fiscale, ma, fidatevi, l’evasione, se in tale ambito mettiamo anche quella legale dei grandi gruppi, FIAT, Ferrero, Mediaset, eccetera, è di gran lunga maggiore al Nord e la povera Basilicata, per esempio, ha un incidenza di imposte pagate sul PIL simile a quella della Lombardia, a dispetto della progressività impositiva.

E la Cassa per il Mezzogiorno? Finalmente vi vedo sorridere, pensate di avermi fregato: e la Cassa per il Mezzogiorno dove la mettiamo?  La Cassa nacque nel 1950 per la viabilità rurale al Sud. Volete dirmi che nello stesso periodo non è stato fatta neanche una strada interpoderale al Nord? A parte le autostrade e il resto, intendo. Oppure che qualche aziendina del Nord, come la Fiat per esempio, non ha munto alle casse pubbliche per decenni tra incentivi e cassa integrazione? Il punto è che ogni spesa al Sud si strombazza come “intervento straordinario”, per fare un centesimo di quello che in silenzio si fa come “intervento ordinario” al Nord. Si guarda solo la parte straordinaria della spesa pubblica e mai si somma regione per regione la spesa corrente e quella per investimenti e si confrontano i totali. Se si facesse questo esercizio si scoprirebbe la vera ragione del divario Nord Sud: la differenza di spesa pubblica sia per le spese correnti sia per gli investimenti!!!

Fake News? Lo so che pensate che io spacci fake news? Ebbene no: qui trovate i dati della spesa pubblica ordinaria per regione e qui  il monitoraggio della spesa sanitaria. Su qualsiasi cartina d’Italia trovate invece la differenza di infrastrutture tra Nord e Sud, dall’Alta Velocità alle autostrade e persino sulla piantina dell’ultimo giro d’Italia che non è arrivato neanche ad Eboli. Ma anche il Giro d’Italia muove PIL e fa pubblicità ai luoghi dove passa.

Ma non ditelo a Felice o a Ricolfi che i dati preferiscono inventarli, invece di prenderli dai conti pubblici territoriali prodotti dalla relativa agenzia. Occorrerebbe prima esaminare i numeri e verificarne la consistenza, poi elaborare una teoria. Molti, come Ricolfi e Felice, preferiscono il contrario: elaborare una teoria e cercare una conferma nei … segni o nelle rune. È così che nascono i terrapiattisti.

Ma veniamo al PNRR. Se questo fosse ripartito in Italia con gli stessi criteri utilizzati dall’Europa per distribuirlo nei vari stati europei al Sud ne competerebbe il 70% almeno. Non ci credete? Qui c’è tutto .

Il fatto è che in Europa la divergenza tra le economie dei vari paesi è considerato un problema che potenzialmente può disgregare l’Europa stessa. Lo stesso presidente del consiglio, Mario Draghi,  nel suo ultimo discorso alla camera ha detto : “Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7” .

I due Draghi. Ovviamente si tratta del Mario Draghi che prima di diventare presidente del consiglio faceva il commesso alla Standa e non di quel Mario Draghi corresponsabile di questi disastri e di cui, per fortuna, non si sente più parlare e che da DG del Ministero del Tesoro scrisse i contratti per la svendita del patrimonio pubblico ai privati e comperò titoli tossici da Goldman Sachs. Che da Governatore della Banca D’Italia autorizzò l’acquisto di Antonveneta da parte di MPS. Che da neo Governatore della BCE scrisse una lettera, insieme a Trichet, con i compiti assegnati al governo Berlusconi, e che fece il Governo Monti e che da governatore della BCE mise, inutilmente visti i risultati, in ginocchio la Grecia. Ma quale è il punto di questa chiacchierata? Il punto è che il PNRR è un elenco di progetti privo di visione e che, purtroppo, darà esiti molto modesti rispetto agli sforzi richiesti.

Sepolti dal pregiudizio. Ma come si fa a maturare la visione di un futuro che recuperi centralità politica, logistica ed economica al Mezzogiorno d’Italia che è il centro del Mediterraneo che è a sua volta il luogo di incontro di tre continenti e dove invece di sviluppo e progresso c’è il desereto? Come si fa in una Italia divisa dai pregiudizi e dalla propaganda della pubblicistica antimeridionale a far comprendere l’importanza del Sud nelle strategie di sviluppo dell’intero Paese? Come si fa a far capire che il potenziale dei porti del Sud, in specie quello di Taranto e di Gioia Tauro, è un multiplo rispetto a quello di Genova e di Trieste? Come si fa a far comprendere tutto questo in una Italia in cui appena si parla del Ponte sullo Stretto ci sono i soliti soloni che affermano che fare il Ponte, e le infrastrutture, al Sud equivale a fare un regalo alla mafia? Come si fa a far capire che poi all’estero non fanno distinzione e che il pregiudizio dal Sud si trasferisce all’intero Paese? Non era un giornale tedesco a dire che dare i soldi all’Italia equivaleva a darli alla mafia? Ecco perché questa pubblicistica stucchevole contro il Mezzogiorno arricchita di analisi fantasiose e false uccide la capacità di rinascita non del Sud, ma dell’intero Paese perché impedisce di capire i problemi e individuare  le soluzioni. Inoltre questi continui pregiudizi sul Sud rendono diviso il Paese diffondendo tossine sempre più difficilmente smaltibili ma quando i seminatori di tossine sono parte fondante di quel ceto che dovrebbe invece combattere i pregiudizi al Paese non resta che soccombere.

IL SUD CHE LOTTA ANCHE SENZA GLI IMPIANTI HA CONQUISTATO 6 ORI SU 10 ALLE OLIMPIADI DI TOKYO. Il Corriere del Giorno il 10 Agosto 2021. La mappa pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera sui luoghi in cui in Italia si pratica l’atletica leggera, conferma che la Puglia e le altre regioni meridionali sono assenti. Meno “trombonate” sotto mentite spoglie di elogi e dichiarazioni politiche. Più palestre, piste, piscine e impianti anche per gli sport cosiddetti “minori”. Dieci medaglie d’oro alle Olimpiadi, tre conquistate da atleti pugliesi; una da un calabrese d’adozione, nato in Texas, due medaglie con la vittoria nella 400×100, insieme a un sardo e a due lombardi, uno di origine sarda, l’altro nigeriana; un’altra medaglia d’oro vinta da un siciliano. I nomi dei nostri azzurri saliti sul podio olimpionico sono ormai ben noti a tutti.  La vera sorpresa di questi Giochi è stata la Puglia che ha regalato ben tre ori e un argento con la vera sorpresa di questi Giochi è la Puglia che ha regalato ben tre ori e un argento con Vito Dell’Aquila, Massimo Stano, Antonella Palmisano e Luigi Samele, rispettivamente delle province di Brindisi, Bari, Taranto e Foggia. La distribuzione delle medaglie italiane – 10 ori, di cui la metà nell’atletica, 10 argenti e ben 20 bronzi, record nel record – è spesso frutto di lavoro di squadra e quindi superiore alle 40 assegnate per disciplina. La mappa che emerge è dominata dagli atleti delle Regioni settentrionali: ben 36, infatti, provengono dal Nord, 18 dal Centro, 17 dal Sud e dalle isole. Ma il nostro Sud ha conquistato 6 medaglie su 10 calcolando solo quelle di oro, oltre a quella, storica, vinta nella boxe dalla campana Irma Testa, medaglia di bronzo che vale nel suo caso più dell’oro con una delle storie più belle, probabilmente non la più bella, di questa Olimpiade. Emblematiche le parole della la pugilatrice azzurra : ” Sono felicissima, tenere in mano questa medaglia è uno dei momenti più belli della mia vita. Penso alla mia scalata, ai sacrifici che ho dovuto fare, da dove sono partita e dove sono oggi. Il mio è stato un percorso di riscatto: ce l’ho fatta, la medaglia olimpica è il sogno di ogni atleta. Tutto quello che ho fatto è servito a qualcosa. A chi la dedico? Alla mia famiglia che ha fatto tanti sacrifici per me, il maestro con cui ho iniziato, Biagio Zurlo, e il maestro di oggi Emanuele Renzini che ha fatto di tutto per farmi arrivare fin qui”.  Atleti ed allenatori che non guadagnano come i calciatori e gli allenatori diventati delle vere star milionarie. Più della metà dell’oro italiano è figlio del Sud; i meridionali su 384 atleti tricolore a Tokyo, sono soltanto 66 mentre dalla Lombardia ne sono partiti 59. Tutto ciò significa che il Sud, pur vantando un terzo della popolazione nazionale, è stato presente con un sesto della delegazione sportiva italiana alle Olimpiadi di Tokyo, ma smentendo i numeri e le politiche ottuse che non garantisce adeguati impianti sportivi nel mezzogiorno d’ Italia conquistato il 60 per cento delle medaglie d’oro . Basti pensare che l’Italia nella marcia, aveva 5 concorrenti, 3 dei quali pugliesi, e 2 dei tre pugliesi hanno conquistato la medaglia d’oro: maschile e femminile per l’Italia. Riassumendo i dati del medagliere azzurro alle Olimpiadi di Tokyo un sesto degli atleti è figlio del sud, conquistando il 60 per cento dell’oro tricolore. Fa riflettere l’attenta osservazione di Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione ConIlSud:  nella “equa” distribuzione degli impianti sportivi, delle possibilità offerta ai giovani di fare sport, lo sbilanciamento territoriale delle infrastrutture dell’Italia non si smentisce: a fronte di 41 metri quadrati pro-capite di aree sportive a disposizione dei ragazzi residenti nel Nord-Est, sono soltanto 4 i metri quadrati al Sud . Fra le 10 province italiane con minor numero di palestre, 9 sono meridionali e tutte e 5 le province calabresi sono presenti in quelle 9. Il medagliere degli atleti figli del Sud hanno reso quattro volte più (in oro) alle Olimpiadi, ma lo hanno fatto avendo a disposizione in proporzione aree sportive, palestre e attrezzature, dieci volte in meno rispetto agli atleti del Nord. Lo sport mette in competizione, ma rende gli atleti “fratelli” e le differenze territoriali-strutturali scompaiono sui campi di gara, sulle pista, perché lo sport è uno degli strumenti più efficienti di unione nazionale e condivisione sociale. Il nostro amato Sud ha dato prove incredibili di orgoglio, nonostante lo svantaggio impostogli anche nello sport. L’esempio è rappresentato dalla storia del barlettano Pietro Mennea: l’italiano più veloce di sempre che stupì il mondo, il cui record sui 200 metri, dopo 40 anni ancor’oggi imbattuto in Europa,  era costretto ad allenarsi su tratturi campestri e strade asfaltate, non avendo piste a campi di atletica adatte. Pietro Mennea dal fisico sgraziato ed ossuto rappresentava visivamente l’antitesi strutturale del velocista . Per chi ha buona memoria i suoi avversari erano tutti muscoli e potenza, mentre lui pareva il più debole fisicamente, ma quando partivano la “Freccia del Sud” correva contro tutto e tutti, talvolta persino contro se stesso entrando in crisi a Mosca. Il suo storico avversario russo Valeriy Borzov, lo aiutò e spinse a ritrovare se stesso, dicendogli quello che rendeva grande l’atleta: “Non ho mai visto tanta volontà in un uomo solo“. Assurdo scoprire che quando hanno finalmente pensato di realizzare un campo d’atletica a Barletta, degno di essere chiamato tale, l’ex delegato regionale pugliese del Coni Elio Sannicandro (con un passato di assessore della giunta Emiliano al Comune di Bari) venne beccato con le mani nella marmellata affidando l’appalto di progettazione per circa 800mila euro ad un suo nipote ! Ed ancora più assurdo e vergognoso è ritrovarlo a capo dell’ ASSET, l’agenzia regionale pugliese che vuole organizzare e realizzare le strutture dei Giochi del Mediterraneo che vorrebbero organizzare in Puglia nel 2026. La mappa pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera sui luoghi in cui in Italia si pratica l’atletica leggera, conferma che la Puglia e le altre regioni meridionali sono assenti. Meno “trombonate” sotto mentite spoglie di elogi trionfalistici e e le solite dichiarazioni politiche. Più palestre, piste, piscine e impianti anche per gli sport cosiddetti “minori”. Così come non esiste famiglia, non c’è palestra, più di quella di judo dei Maddaloni che abbia conquistato più medaglie all’Italia.  Questa volta siamo in Campania, che grazie a papà Gianni Maddaloni che la volle a Scampia, nel quartiere simbolo del degrado sociale. Ma il vero combattimento quotidiano di Gianni sono le bollette, i conti da pagare, rifiutando tutte le offerte di trasferire altrove a Napoli la sua palestra, che gli avrebbe consentito di non aver più avuto problemi di soldi. Maddaloni però preferisce restare a Scampia, esentare i frequentatori che non possono pagare le rette mensili, aiutare i disabili. Gianni Maddaloni spiega e racconta sempre a tutti che la forza dei ragazzi delle Vele di Scampia è la rabbia che spesa male, si ribella ad una società che discrimina, esclude, mentre quando viene controllata ed educata da un allenatore capace di avere una visione, si trasforma in medaglie, risultati, crescita personale e sociale do ogni atleta. Lo sport è un campanello d’allarme per il nostro Paese. Tenendo ben presente che pur avendo strutture sportive dieci volte in meno del resto d’ Italia, gli atleti del Sud hanno vinto in proporzione quattro volte di più, è sempre possibile trovare l’imbecille di turno pronto a dire senza vergogna alcuna : “Vuol dire che non ne hanno bisogno”!

Ecco perchè i poveri del Mezzogiorno restano poveri e il Nord si arricchisce. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. LA “NUOVA frontiera” della questione meridionale sono i Lep – e i Fab, e la Sose. A questo punto, per non scoraggiare il lettore, andiamo a districare la matassa di questa “nuova frontiera” partendo dalla zuppa di acronimi.

I Lep sono i “Livelli essenziali di prestazioni”, cioè quegli ammontari di servizi che devono essere disponibili per ogni cittadino: asili nido, spazi verdi, scuole, ospedali, connessioni, strade, raccolta rifiuti… il tutto in relazione all’area e alla popolazione.

I Fab sono i “Fabbisogni standard” che, come spiegheremo meglio in seguito, si potrebbero definire come i "parenti poveri" dei Lep.

La Sose (Soluzioni per il Sistema Economico Spa) è una società per azioni creata dal Ministero dell’economia e delle finanze e dalla Banca d’Italia per l’elaborazione degli ISA -Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (strumento che ha sostituito gli studi di settore) nonché per determinare i fabbisogni standard di cui sopra.

E torniamo ai Lep. Il lignaggio è illustre. Come si legge nel box, la Costituzione prescrive, all’Articolo 117 che lo Stato determini i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». “L’uomo propone, Dio dispone”, dice un vecchio proverbio. Audacemente sostituendo a Dio il Governo della Repubblica italiana, si potrebbe speranzosamente parafrasare il detto in: “La Costituzione propone, il Governo dispone”. Il problema è che il Governo non dispone: a tre quarti di secolo di distanza dalla prescrizione costituzionale, questi Lep non sono mai stati determinati. Lo scopo dei Lep, ovviamente, era quello di rispondere a un altro pressante invito della Costituzione, che all’Articolo 2 statuisce che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ci fu qualche tentativo di rimediare alla colpevole omissione della messa in campo dei Lep. Più di dieci anni fa (Legge 42/2009) il Governo legiferò che i detti Lep dovevano essere introdotti – un altro “propone” – cui però non seguì mai un “dispone”. Ma non c’è il “Fondo perequativo” disposto (vedi Box) all’Articolo 119 della Costituzione? Sì, c’è, ma non perequa veramente. “Il diavolo è nei dettagli”, afferma un altro vecchio detto. E una più che meritoria ricerca della Fondazione Openpolis è andata ad annusare nei dettagli. Rispondendo a una richiesta del Comune di Catanzaro, la ricerca si è chinata sul perché e sul percome dei fondi ricevuti da quel Comune a valere sul Fondo perequativo.

Per spiegare i meccanismi del Fondo perequativo partiamo da due concetti: fabbisogni standard (Fab) e capacità fiscale. I primi sono determinati dalla Sose valendosi di una serie di indicatori che si basano in massima parte sulla spesa sostenuta per una serie di servizi (che dovrebbero mimare i famosi ‘livelli essenziali di prestazioni’). La seconda si riferisce alle entrate proprie dei Comuni. Orbene, i Comuni italiani contribuiscono al Fondo quando la loro capacità fiscale (entrate proprie) è superiore alla spesa per i Fab; e ricevono dal Fondo quando i Fab sono superiori alla spesa. In teoria questo meccanismo dovrebbe portare alla riduzione delle diseguaglianze territoriali: dato che i Comuni con ridotta capacità fiscale sono i più poveri, questi finirebbero per ricevere, riducendo quindi le distanze dai Comuni più ricchi. Ma questo non avviene per una semplice ragione, legata al modo con cui vengono calcolati i Fab: essendo questi calcolati sulla spesa per i servizi, i Comuni del Nord, che offrono più servizi, avranno Fab più alti. Mentre i Comuni che offrono meno servizi spendono meno e di conseguenza si vedono riconosciuti fabbisogni più bassi. Il lettore avvertito riconoscerà in questo modo di procedere la stessa stortura sulla quale questo giornale si è scagliato dal giorno della fondazione: il criterio della spesa storica. I soldi che lo Stato spende nelle diverse Regioni italiane sono erogati sulla base della spesa dell’anno prima, talché chi riceveva di più continua a ricevere di più. Il meccanismo del Fondo perequativo è simile, conclude giustamente la ricerca di Openpolis: “genera un circolo vizioso: anziché abbattere le disparità, penalizza nella ripartizione proprio i territori con meno servizi, allargando in prospettiva il divario tra le aree del Paese”. La soluzione a questo stato di cose non è difficile: si tratta di definire i Fab, innalzandoli, dal rango di parenti poveri dei Lep, a dei veri Lep, con indicatori fisici, quantitativi, anziché di spesa: per esempio, per gli asili-nido, stabilire che devono essere tot per ogni 1000 abitanti in quella fascia di età.

Il Governo Draghi sta facendo dei passi in questa direzione. Sia la ministra Mara Carfagna che la vice-ministra al Mef Laura Castelli spingono per una definizione di Lep efficaci ed efficienti. La conferenza Stato-città, riunitasi il 22 giugno 2021, ha adottato lo schema di decreto per le spese sociali del Presidente del consiglio dei ministri, con una particolare attenzione agli asili-nido. Ma per passare dal “propone” al “dispone” i compiti non sono solo del governo centrale. Le amministrazioni locali, che devono fornire alla Sose le materie prime per il calcolo dei Fab, sono spesso latenti. La ricerca di Openpolis ne ha dato una grafica distribuzione nel caso di Catanzaro. Come si vede dalla tabella, che si riferisce ad alcuni dati Sose 2017 per Catanzaro, succede che le informazioni siano assenti o carenti. Risulta poco verosimile, si chiede giustamente Openpolis, “che in un comune di questo tipo, in un anno non siano state effettuate potature di piante, né riconosciuti permessi per sosta disabili e accesso ZTL, né stipulati contratti da parte del comune”. Nell’ottica einaudiana di "conoscere per deliberare", le amministrazioni comunali devono essere in grado di fornire a Sose dati e informazioni corrette. È “fondamentale che i comuni, specialmente i più grandi, siano dotati di un ufficio statistico che si occupi della raccolta sistematica dei dati relativi ai servizi, alle strutture, alle attività del territorio”, e li collochi in piattaforme accessibili “opendata che permettano a tutti (cittadini, giornalisti, società civile) di accedere ai dati, di scaricarli ed elaborarli in articoli, report, campagne, con finalità informative o di attivismo civico”. La definizione dei Lep, il superamento dell’iniquo criterio della spesa storica, sono la chiave per chiudere finalmente i divari fra Centro-Nord e Mezzogiorno nella cruciale fornitura di servizi pubblici, e per avviare a compimento quell’Unità d’Italia che esiste sulla carta e che vogliamo esista nei fatti. Ma per questo, tutti devono fare la loro parte, in tutti i punti cardinali della Penisola.

L'ingiusta ripartizione delle risorse statali che affossa il futuro dei cittadini meridionali. Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. QUALCOSA si muove nei Comuni calabresi. E verrebbe da scrivere: finalmente. I sindaci, a partire da quello di Catanzaro, Sergio Abramo, si sono accorti della grande balla, narrata da anni, del Sud sprecone che rappresenta la palla al piede per il Paese e hanno capito che in realtà, dietro le difficoltà economiche dei municipi, grandi e piccoli, meridionali c’è l’ingiusta ripartizione delle risorse da parte dello Stato. Il Comune di Catanzaro che nel solo 2021, a fronte di un fabbisogno di 11,4 milioni, ne riceve meno di 4 è un dato che grida vendetta.

PRIVAZIONE SCIENTIFICA. Una privazione quasi scientifica, come in splendida solitudine ha dimostrato questo giornale con numeri e dati, che ha prodotto un risultato esplosivo. Se guardiamo alla Calabria troviamo 46 Comuni in dissesto, fra cui capoluoghi di provincia come Cosenza, Reggio Calabria, Vibo, e 35 in pre-dissesto fra cui città importanti come Rende e Lamezia Terme. A questo dobbiamo aggiungere un’evasione fiscale importante dovuta da un lato alla debolezza del tessuto sociale calabrese, dall’altro dalla difficoltà dei Comuni a effettuare la riscossione. Il risultato finale è un mix micidiale, visto che i sindaci devono comunque garantire i servizi minimi essenziali come acqua, rifiuti, trasporti che troppo spesso i cittadini calabresi si vedono negati. Prendiamo ad esempio il bubbone della sanità. La Ragioneria generale dello Stato lo scorso anno ha indicato chiaramente i soldi distribuiti per la sanità per ogni cittadino italiano. La media è 1.920 euro, mentre i calabresi ne percepiscono 1.760: la differenza è quasi 200 euro pro-capite, il che significa, per una regione come la Calabria, 400 milioni di euro. «Ricordo – ha detto il sindaco Abramo ieri in conferenza – che la Calabria è commissariata per uno sforamento del bilancio di 300 milioni, e di questi 200 milioni 140 li pagano i calabresi con l’addizionale Irpef, 60 lo Stato. Se la Calabria riuscisse ad avere quello che ha la Lombardia, la nostra sanità avrebbe 400 milioni in più: con 200, quindi, pareggeremmo il bilancio, gli altri 200 li potremmo investire. Questa differenza non è giusta».

I FONDI EUROPEI. Su questo sfondo si inserisce poi il tema dei fondi europei che troppo spesso, anziché essere aggiuntivi rispetto alle risorse statali, di fatto sono stati troppo a lungo sostitutivi. Anche su questo punto, però, è nato il luogo comune di un Sud incapace di spendere le risorse generosamente concesse dall’Europa. Certo, i numeri assoluti sembrano parlar chiaro, con un monte di risorse che tornano indietro e, a furia di rimodularle, diventano quasi virtuali. Il punto, però, è che molti Comuni sono nell’incapacità di spendere questi stanziamenti per il famoso blocco del turn over che ha reso la burocrazia del Meridione scarsa nell’organico, avanti negli anni, decisamente poco tecnologica. Un esempio paradigmatico, visto che siamo in estate, in Calabria è la depurazione. Nei cassetti della Regione da anni ci sono i quattrini (parliamo di milioni di euro) per l’ammodernamento o il riefficentamento dei depuratori. Il problema è che i sindaci non hanno il personale adatto per la progettazione o per bandire le gare europee e quei soldi rimangono sempre lì, mentre l’Unione europea continua a comminarci sanzioni su sanzioni a causa delle infrazioni legate alla depurazione. Un tema, questo, che torna di grande attualità con il Pnrr, come pure è emerso nel corso dell’incontro di Catanzaro. Anche qui siamo di fronte a una sfida che il Meridione rischia di perdere se non si metteranno in sicurezza i Comuni sotto il profilo finanziario e della dotazione organica. Allora fanno bene i sindaci a tenere alta la guardia e pretendere un’inversione di rotta netta rispetto al passato.

Lo scandalo di una tv pubblica pagata da tutti ma che promuove solamente il Centronord. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. AMADEUS sarà il conduttore del prossimo festival di Sanremo. Mancano “appena” sei mesi all’evento e già la tv pubblica strombazza la notizia, che evidentemente interessa molti italiani. Il festival è un evento ormai conosciuto in tutto il mondo, con ascolti da capogiro e tradizione importante. Bene ha fatto la Rai a farne uno dei programmi di punta della propria programmazione.

LO SQUILIBRIO STORICO. Il servizio pubblico spesso sponsorizza eventi importanti del Paese che vengono così conosciuti e apprezzati, oltre che in Italia, in tutto il mondo. La Scala è al centro della programmazione dell’Opera lirica. Rai 5 vive trasmettendo le opere, sempre con un cast di primissimo piano, che La Scala propone. Così come tutto quello che accade all’Arena di Verona costituisce evento nazionale. E il festival del cinema di Venezia ha sempre grande spazio, come è giusto, nella programmazione televisiva pubblica. La domanda che ci si pone, però, è se un servizio pubblico possa concentrarsi solo sugli eventi di una parte del Paese, anche se questi dovessero essere migliori rispetto a quelli che si svolgono in altre parti. Se una televisione pubblica, pagata con i canoni di tutti gli italiani, peraltro non in proporzione al loro reddito tranne che per poche fasce esentate, si possa consentire di concentrarsi solo su una parte. Se, per esempio, non si possa e non si debba puntare anche sugli eventi, per esempio, del teatro greco di Siracusa, rappresentazioni uniche al mondo, o sulla Sagra del mandorlo in fiore di Agrigento, che si svolge in una Valle fiorita di mandorli che è un must da vedere, o se non si possa spingere eventi che si svolgono a Ravello o a Taormina, piuttosto che a Segesta o a Ercolano, a Pompei, a Napoli. In realtà l’esigenza che il Sud abbia media nazionali che facciano da megafono rispetto non solo agli spettacoli, ma alle istanze, alle problematiche di questi territori diventa sempre più importante.  

DISINFORMAZIONE SISTEMATICA. E invece si assiste alla progressiva chiusura di testate (l’ultima è quella della Gazzetta del Mezzogiorno) che in ogni caso non sono state mai nazionali, ma che hanno rappresentato voci di queste terre. E anche nell’informazione il Sud diventa area colonizzata, nella quale arriva quello che la classe dirigente nazionale, prevalentemente centrosettentrionale, vuole che arrivi. Per cui è necessario che arrivi un nuovo quotidiano, il nostro, per quella Operazione verità che una stampa attenta e non di parte, né parziale, avrebbe potuto svolgere. Nella quale passa soltanto l’informazione canonica che difficilmente dà spazio a visioni eretiche o a punti di vista meno maggioritari. L’informazione, per esempio, sul ponte di Messina è esemplare rispetto al modo in cui le problematiche economiche e sociali del Sud vengono trattate. Disinformazione, ampliamento delle posizioni critiche, fino a stravolgimento della realtà. Mentre al momento opportuno si ha l’invio di giornalisti, che raccolgono informazioni spesso dai tassisti per poi dare un’immagine del Sud molto pittoresca, ma spesso non veritiera. È chiaro che tutto questo non giova al Paese, perché la mancata conoscenza della realtà porta a decisioni del governo nazionale totalmente distanti dalle esigenze reali. Mentre interessi di parte, spesso proprietari di media nazionali, fanno il loro mestiere per difendere interessi consolidati o per accreditare verità parziali. L’informazione recente diffusa nel Paese a proposito della pandemia dà una visione della realtà che conduce al discorso fatto fino adesso.

AL DI SOTTO DI ROMA È TUTTA SERIE B. Quando vi è da intervistare un virologo, un medico, non si capisce perché debba essere sempre di Bologna o Padova, come se i ricercatori e i medici del Mezzogiorno fossero assolutamente di livello inferiore. Questo avviene anche quando si parla di economia, per cui le università meridionali sono sempre sottorappresentate. Si capisce che questo poteva avvenire quando le trasmissioni venivano realizzate con la presenza fisica, e allora era più facile utilizzare professionalità più vicine. Ma adesso che tutto avviene via web non si capisce questa discriminazione. Se non con un preconcetto di fondo, sempre presente, che le professionalità sotto Roma siano di serie B. Peraltro anche i direttori di giornali che vengono chiamati sono sempre di una parte, anche se magari dirigono testate assolutamente con diffusione limitata, come la Nazione, ma che hanno grande spazio, e tutto ciò avviene anche nella televisione pubblica. Sindrome da vittimismo, la mia, o reale fenomeno da denunciare? Certamente è un argomento sul quale riflettere.

BARAGHINI VUOL DIRE CENSURA. Marco Castoro su Il Quotidiano del Sud il 6 agosto 2021. Cari Lettori del Quotidiano del Sud, parenti e amici nonché telespettatori di SkyTg24, vi vorremmo rassicurare: il nostro e vostro quotidiano è vivo, è in edicola, è su internet e sui social. Non fatevi condizionare dalla rassegna stampa notturna di Skytg24 che quando è condotta da Francesca Baraghini ignora il nostro e vostro quotidiano. In rassegna ci sono più di 20 prime pagine diverse ma del Quotidiano del Sud neanche l’ombra. Per fortuna questo tipo di censura avviene soltanto quando c’è la Baraghini. Aspettiamo tutti con ansia il cambio turno.

I Comuni più indebitati sono al Sud ma gli aiuti di Stato volano al Nord. Vincenzo Damiani u Il Quotidiano del Sud il 23 giugno 2021. I Comuni del Sud sono in difficoltà nel far quadrare i conti e sono i più indebitati. Ma gli aiuti per superare la crisi generata dal Covid si sono concentrati soprattutto al Nord. È quanto emerge dall’indagine della sezione delle Autonomie della Corte dei conti che ha approvato la “Relazione sulla gestione finanziaria di Comuni, Province, Città metropolitane per gli esercizi 2019-2020”. Complessivamente, attraverso l’analisi della gestione di cassa dei Comuni «si è rilevato – si legge nel report – che nell’esercizio 2020 non si sono manifestate le tensioni temute per effetto della crisi sanitaria in quanto è stato offerto, in via preventiva, un adeguato sostegno alle immediate esigenze di risorse stimate alla luce degli andamenti storici dei flussi delle riscossioni e dei pagamenti».

Ma questo non vale per tutti gli enti locali: i magistrati, infatti, rilevano che «l’indagine condotta sulle procedure di riequilibrio finanziario pluriennale conferma come le criticità finanziarie sono prevalentemente concentrate negli enti del Centro-Sud».

L’INDEBITAMENTO. Come sempre, i numeri descrivono la situazione: nel 2019, il debito pro-capite dei Comuni è molto più elevato al Sud rispetto al resto d’Italia. La Campania è quella messa peggio, con un debito per abitante pari a 2.206 euro, il più alto del Paese e sul quale incide la “vicenda Napoli”. Ma la Calabria non può certo sorridere: il debito pro-capite accumulato dai Comuni è di 2.159 euro. Si tratta delle due regioni più in difficoltà a cui fa da contraltare la Puglia, dove il debito pro-capite nel 2019 era di 951 euro, sotto la media italiana, pari a 1.228 euro. Sopra la media, invece, la Basilicata (1.325 euro). Al Nord, le due regioni più in “sofferenza” sono la Liguria (1.649 euro pro capite) e il Piemonte (1.547 euro), mentre le altre sono tutte sotto la media nazionale: Lombardia (1.060 euro), Veneto (733), Emilia Romagna (758), Toscana (907), Friuli (1.025). «I Comuni (5.558) osservati – si legge nella relazione – presentano complessivamente debiti pari, nel 2018, a 63.790,9 milioni di euro e nel 2019, pari a 62.443,6 milioni di euro, con una riduzione pari a -2,1%. I Comuni più grandi (oltre i 250.000 abitanti) hanno manifestato tra il 2018 e il 2019 una inversione di tendenza rispetto a quanto rilevato nel precedente rapporto, registrando una riduzione dell’indebitamento pari a 320,96 milioni di euro». «Si osservano – precisano i magistrati contabili – significative variazioni sull’indebitamento complessivo tra il 2018 e 2019 in termini percentuali sia per i Comuni della Regione Calabria (133 milioni, + 5,5%), sia per quelli della Regione Lazio (247 milioni + 3,4%) e per importi decisamente inferiori, anche per alcuni Comuni della Sicilia, rispetto alla tendenza delle altre autonomie locali a ridurre l’indebitamento complessivo anche con percentuali importanti, come nel caso dei Comuni della Campania che hanno ridotto del 16,5% il proprio indebitamento per un ammontare complessivo di 217,2 milioni di euro ed i Comuni della Regione Lombardia del 15,5% pari a un ammontare complessivo di 371,3 milioni».

AIUTI PER IL COVID: LA DISTRIBUZIONE. Questa la situazione pre Covid: ora vediamo cosa è successo nel 2020. Il decreto Rilancio ha previsto l’istituzione di un fondo con una dotazione di 3,5 miliardi di euro per l’anno 2020 per assicurare agli enti locali le risorse necessarie per l’espletamento delle funzioni fondamentali. La dotazione è stata successivamente integrata con ulteriori 1,67 miliardi per il 2020, di cui 1,22 miliardi in favore dei Comuni e 450 milioni in favore di Province e Città metropolitane. «Il riparto del fondo – spiega la Corte dei conti – è demandato a un decreto del ministro dell’Interno (di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze e previa intesa in Conferenza Stato Città e Autonomie locali), sulla base degli effetti determinati dall’emergenza Covid-19 sui fabbisogni di spesa e sulle minori entrate». Risultato: «Analizzando i dati pubblicati dal ministero dell’Interno a fine 2020 – evidenziano i magistrati – si evidenzia una netta prevalenza di ristori per presumibile perdita di gettito stimata nei Comuni del Nord Italia (53%) a fronte di una particolare contrazione delle entrate nella zona nord-occidentale, che ha maggiormente risentito degli effetti della crisi sanitaria. In particolare, solo in Lombardia vengono assegnate risorse (con clausola soglia minima e salvaguardia acconti) per un importo totale di circa 880 milioni. Seguono, poi, i Comuni del Lazio con 413 milioni di risorse assegnate e del Veneto con 377 milioni». «Provando ad aggregare i dati secondo l’area di appartenenza dei Comuni – si legge ancora – emerge che la maggior parte delle risorse destinate al ristoro delle entrate è stata destinata agli enti appartenenti alle Regioni del Centro-Nord, come conseguenza delle stime effettuate dalla Ragioneria sulla perdita di gettito riscontrata, attraverso un confronto con l’esercizio precedente. La distribuzione dei ristori per le maggiori spese sostenute a seguito dell’emergenza presenta lievi differenze». I Comuni della Lombardia hanno ricevuto il 20,4% del totale dei ristori per le mancate entrate, segue il Lazio con il 17,3%, Toscana con il 12,1% e il Veneto con l’11,1%. La Campania ha ricevuto il 6,6%, la Puglia il 3%, la Basilicata lo 0,5% del totale, la Calabria l’1,5%. Per quanto riguarda, invece, i ristori per le maggiori spese sostenute, i Comuni lombardi hanno ricevuto il 26,6% del totale del fondo.

COMUNI IN DISSESTO. È sempre al Sud che si concentra il maggior numero di Comuni che hanno dichiarato “fallimento”. I dissesti attivi, deliberati tra il 2016 e il 2020 sono 154, «con una significativa concentrazione territoriale – scrivono i magistrati – in Calabria (42 casi), Campania (35) e Sicilia (40). I rimanenti 37 casi si rilevano nel Lazio (11), in Puglia (6), in Basilicata (4), in Abruzzo (3), in Lombardia (3), nel Molise (3), nelle Marche (2), in Piemonte (2) e, infine, un caso in Liguria (Lavagna), uno in Toscana (Massarosa) e uno in Umbria (Terni).

LO STATO DI SALUTE DEI COMUNI. Dall’analisi dei rendiconti finanziari, il risultato di amministrazione dei Comuni risulta complessivamente positivo (38,7 miliardi), ma al netto degli accantonamenti, dei vincoli e della parte destinata agli investimenti si determina un disavanzo di circa 6 miliardi (5,98 miliardi). I Comuni che hanno registrato un disavanzo sono complessivamente in aumento del 28% rispetto allo scorso esercizio: dall’indagine, si nota che prosegue nel 2019 la ripresa nella dinamica della spesa per gli investimenti che trova riscontro sia negli impegni (+17,7%) sia nell’incremento delle somme iscritte al fondo pluriennale vincolato (+15,2%), indice dell’avvio di iniziative da realizzare nel medio-lungo periodo.

Sanità Lombardia, ecco come il privato sceglie gli interventi più redditizi Le liste d’attesa. DATAROOM di Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 27 giugno 2021. La Lombardia è l’unica Regione italiana che ha stabilito per legge parità di diritti e doveri fra soggetti pubblici e privati convenzionati che operano all’interno del servizio sanitario. Le intenzioni della norma n. 31 voluta nel 1997 da Roberto Formigoni sono quelle di promuovere la competitività tra strutture per soddisfare meglio i bisogni dei pazienti, che possono scegliere dove farsi curare, e accorciare le liste d’attesa. E la Regione rimborsa indifferentemente gli uni e gli altri (all’interno di tetti di spesa contrattati). Ma la sanità lombarda presa spesso anche come esempio da esportare in altre regioni, ha davvero un sistema pubblico-privato in grado di garantire cure più tempestive? I dati, forniti dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) e che per la prima volta è possibile rendere pubblici, permettono di capire come funziona nella realtà il modello. L’analisi riguarda le tipologie dei ricoveri e degli interventi chirurgici eseguiti nel pubblico e nel privato e la corrispettiva entità dei rimborsi ottenuti dal sistema sanitario. Quel che emerge non è una conseguenza dell’intasamento degli ospedali causato dal Covid, perché è stata fotografata la situazione considerando i numeri del 2019. Dopo è andata solo peggio.

Posti letto a confronto. I posti letto totali sono 29.308, 70% pubblici e 30% privati. Vuol dire che di tutti i tipi di ricoveri, oltre 1,2 milioni, il 70% è pubblico e il 30% privato. Intanto su 100 posti letto in un ospedale pubblico, 45 sono occupati da chi entra per un’emergenza passando dal Pronto soccorso. Su 100 posti nel privato, solo 20 pazienti arrivano dal Ps. Per gli altri 80, le strutture accreditate possono programmare per tipologia i ricoveri. Per accedere in ospedale chi ha bisogno di un intervento chirurgico deve prenotarsi la visita specialistica: per le strutture pubbliche c’è un sistema di prenotazione trasparente dove il contact center regionale dice dov’è possibile andare e in che tempi. Per quelle private, invece, bisogna rivolgersi alle singole strutture accreditate che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno mai voluto mettere a disposizione pubblicamente le loro agende, nonostante siano state sollecitate a farlo già a partire dal 2016.

Quali prestazioni offre il privato? Per una lunga lista di ricoveri e interventi chirurgici il rapporto pubblico-privato 70 a 30 s’inverte, con alti volumi in una serie di prestazioni. Vediamo quali. Primo: gli interventi ben pagati, spesso a rischio inappropriatezza perché il medico ha ampia discrezionalità nel decidere se è utile o meno eseguirli. Sono quelli per obesità, che le strutture accreditate eseguono per il 74,5%, con un rimborso di 5.681 euro; sulle valvole cardiache, che valgono 21.882 euro e sono svolti dal privato per il 51% (a Milano per il 66,2%); le artrodesi vertebrali, dove vengono inchiodate le vertebre della schiena, fatte per oltre l’80% dal privato. Nell’agosto 2019 il rimborso da 19.723 euro è stato tagliato di quasi il 40% dall’allora direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo, proprio per renderli meno redditizi e tentare di limitare gli interventi inutili.

Interventi più remunerativi. Secondo: le prestazioni più remunerative delle specialità di cardiologia/cardiochirurgia e ortopedia. Si tratta di interventi che prevedono l’impianto di protesi, dove le strutture private già hanno margini di guadagno elevati perché negli acquisti hanno meno vincoli e standard del pubblico. A Milano, dove sono concentrati i colossi della Sanità accreditata, i privati impiantano il 60% dei defibrillatori (rimborso 19.057 euro), il 68% delle valvole cardiache (17.843 euro), l’88% dei bypass coronarici (19.018 euro). Inoltre: il 90% degli interventi sulle articolazioni inferiori (12.101 euro), e il 68% delle sostituzioni di anca e ginocchio (8.534 euro). Nell’intera regione comunque, per gli stessi tipi di intervento, la percentuale di prestazioni svolte dal privato supera il 40%, con punte che arrivano al 77%. Terzo: su oltre 500 tipi d’intervento, il privato fa la metà del suo fatturato con 25 prestazioni, il pubblico 43. Segnale evidente che l’attività si concentra in ambiti di specialità più convenienti. Le più diffuse riguardano le malattie degenerative del sistema nervoso, che valgono l’8,8% del fatturato, la sostituzione di articolazioni maggiori o il reimpianto degli arti inferiori (8,5%), le diagnosi del sistema muscolo-scheletrico (3,7%), e gli interventi sul sistema cardiovascolare (4,4%).

Milano: dominio del privato. Su Milano, se si prendono in considerazione anche i pazienti da fuori Regione, la sanità privata, rispetto ai grandi ospedali pubblici, raggiunge percentuali tra l’85 e il 97% degli interventi e ricoveri di cardiologia, cardiochirurgia, ortopedia, e quelli ad alto fatturato, ma a rischio di inappropriatezza. È la stessa Regione Lombardia ad ammettere: «La Sanità privata si è concentrata su alcune specifiche linee di attività che, tuttavia, impongono controlli incisivi in termini di appropriatezza» evitando che «gli erogatori si concentrino su attività caratterizzate da buona redditività e da non verificata necessità epidemiologica» (qui il documento).

Cosa fa il pubblico?. Gli interventi molto costosi e rischiosi, a partire dai trapianti, che può farli solo l’ospedale pubblico. E poi l’80% delle emorragie cerebrali, l’87% delle leucemie, l’82% delle neoplasie dell’apparato respiratorio, il 75% dell’ossigenazione extracorporea. I neonati gravemente immaturi sono curati per l’87,2% nelle strutture pubbliche. Oltre a tutti quegli interventi poco remunerativi, ma molto comuni: parti (81,8%), aborti (90%), calcoli (80%), polmoniti (78%), appendiciti (83,9%), tonsille (79,3%). Le operazioni per tumore al seno sono, invece, equamente ripartite. A conti fatti gli ospedali pubblici sono in perdita, con la Regione che ogni anno deve ripianare i bilanci: 44 milioni il Policlinico di Milano, 58 il San Paolo e il San Carlo, 87 i Civili di Brescia, 75 il Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Mentre i gruppi privati fanno utili importanti: 27 milioni il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, 66,9 l’Humanitas di Gianfelice Rocca, 6,7 la Multimedica di Daniele Schwarz. Certo, il pubblico sconta inefficienze, mentre il privato è più manageriale, ma non basta a spiegare un divario di questa portata.

Le liste d’attesa restano. Le linee guida nazionali danno i tempi: nel caso di rischio di aggravamento rapido della malattia l’intervento chirurgico deve essere eseguito entro 30 giorni. In Lombardia per un intervento chirurgico oncologico bisogna aspettare 66 giorni nel 36% dei casi; per uno non oncologico 83 giorni nel 23% dei casi. In Regioni comparabili per offerta sanitaria, vediamo altri numeri: in Veneto solo il 6% delle operazioni urgenti sui tumori non viene eseguito entro i 30 giorni, per gli altri interventi gli sforamenti sono del 9%. In Emilia Romagna sono rispettivamente del 22% e del 15%. E questo era l’andamento fino ad attimo prima dell’arrivo della pandemia. Va detto che in quei mesi durissimi, con le strutture pubbliche al collasso, il privato ha messo a disposizione il 40% dei posti letto per pazienti Covid.

Modello da riformare. Tirando le fila, il modello non garantisce nei fatti quella «parità» di diritti e doveri prevista dalla legge regionale, non risolve le liste d’attesa, ma porta pian piano al deperimento del pubblico e all’accaparramento dei medici migliori. A quel punto sarà difficile tornare indietro. Infatti è in discussione un piano di riforma che in autunno dovrà sfociare in una legge, considerata dall’assessore al Welfare Letizia Moratti una delle priorità del proprio mandato. Nelle linee di indirizzo allo studio, l’assessore scrive che è necessario «un miglior governo dell’offerta». Dovrebbe voler dire: ti accredito per fare di più quello che serve e non solo quello che ti conviene. Vedremo se dalle parole si passerà ai fatti. (ha collaborato Alessandro Riggio)

Da "Ansa" l'1 luglio 2021. Un bambino residente nel Mezzogiorno ha un rischio del 50% in più di morire nel primo anno di vita rispetto ad uno che nasce nelle regioni del Nord. Tanto che, solo nel 2018, se il Mezzogiorno avesse avuto lo stesso tasso di mortalità infantile delle regioni del nord, sarebbero sopravvissuti 200 bambini. A mettere in luce le profonde disparità è uno studio in pubblicazione sulla rivista Pediatria, presentato in conferenza stampa della Società Italiana di Pediatria (Sip). In base agli ultimi dati Istat disponibili, nel periodo 2006-2018 si è verificata una progressiva diminuzione della mortalità neonatale (nei primi 28 giorni di vita) e infantile (nel primo anno di vita), che hanno portato l'Italia a raggiungere tra i più bassi del mondo. In particolare, nel 2018 si sono avuti 1266 decessi nel primo anno di vita e la mortalità neonatale è stata del 2,01 per 1000 nati vivi. Si continua però ad osservare un'ampia variazione territoriale. Nel Mezzogiorno dove si sono avuti il 35,7% di tutti i nati, i decessi neonatali e infantili sono stati rispettivamente il 48% e il 45% rispetto a quelli avvenuti in Italia. La Sicilia, la Calabria e la Campania sono state quelle con i tassi più elevati. Inoltre, le differenze diventano ancora più evidenti per i figli di genitori stranieri che risiedono al Sud (+100%). "L'idea che nascere in un particolare territorio possa offrire una minore probabilità di cura e di sopravvivenza non è accettabile", ha commentato la presidente Sip Annamaria Staiano. "Serve sinergia per invertire questi trend allarmanti e la Sip sta già mettendo in campo iniziative per intervenire in modo proattivo su un modello assistenziale così a rischio di disuguaglianze," ha concluso Giovanni Corsello, ordinario di Pediatria all'Università di Palermo ed Editor in Chief di Italian Journal of Pediatrics.

SANITÀ SCIPPATA PER DARLA AI PRIVATI E COME SEMPRE IL SUD PAGA PIÙ DI TUTTI. Il trend 2010-2019: dal calo delle strutture pubbliche agli organici tagliati. Allarme della Corte dei conti sulle disparità territoriali. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2021. L’assistenza ospedaliera in Italia corre verso il privato. Nel 2010 gli ospedali erano 1.165, il 54,4% gestiti direttamente dai sistemi regionali sanitari pubblici. Nel 2019, invece, le strutture di ricovero sono diventate 992, di cui il 51,9% pubbliche, cioè 515, mentre quelle private sono 477. Se però, al conteggio aggiungiamo le case di cura non accreditate, 64 in tutta Italia, ecco che c’è addirittura il sorpasso del privato con 541 centri. A scattare la fotografia è il nuovo annuario statistico del Sistema sanitario nazionale pubblicato dal ministero della Salute, che descrive come si sta evolvendo la sanità in Italia. La maggior parte degli ospedali privati sono concentrati al Nord, ma iniziano a diffondersi anche al Sud: il record spetta alla Lombardia, con 64 strutture accreditate, seguono Lazio e Campania con 61, poi c’è la Sicilia con 59, Emilia Romagna (44), Piemonte (38). Le altre son distanti, ma le cliniche private proliferano ovunque: ad esempio in Calabria ce ne sono 29, in Puglia 26, Toscana 21, Veneto 17.

LE STRUTTURE. «Il sistema sanitario nazionale – si legge – dispone di circa 190mila posti letto per degenza ordinaria, di cui il 21,4% nelle strutture private accreditate, 13.202 posti per day hospital, quasi totalmente pubblici (83,8%) e di 8.043 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici ( 76,2%). A livello nazionale sono disponibili 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti, in particolare i posti letto dedicati all’attività per acuti sono 2,9 ogni 1.000 abitanti». Il Sud, però, sui posti letto è largamente penalizzato: «La distribuzione risulta piuttosto disomogenea a livello territoriale», è scritto nel report ministeriale. E in effetti, stando ai dati, le differenze sono palesi: in Puglia ci sono 10.153 posti letto nel settore pubblico, contro i 12.571 dell’Emilia Romagna, i 13.449 del Piemonte, i 15.798 del Veneto, regioni simili per numero di residenti. La Campania, molto più popolosa, ha solo 11.916 posti letto, 11.771 la Sicilia. Anche sui «posti letto destinati alla riabilitazione e lungodegenza, 0,6 ogni 1.000 abitanti, c’è una notevole variabilità regionale» a discapito del Mezzogiorno.

GLI ORGANICI. Meno strutture, meno posti letto e anche meno personale ospedaliero per il Sud. Nel 2019 i dipendenti in Italia ammontano a 603.856 unità e risultano così ripartiti: il 72,2% ruolo sanitario, il 17,5% ruolo tecnico, il 10,1% ruolo amministrativo e lo 0,2% ruolo professionale. Il Piemonte conta 54.117 lavoratori complessivi, il Veneto 56.778, l’Emilia Romagna 58.628, 48.219 la Toscana e la Lombardia 88.142; contro i 35.453 dipendenti della Puglia, i 39.879 della Campania, i 39.272 del Lazio, o i 18.048 della Calabria. Nel dettaglio, mentre la Puglia ha 6.431 medici, l’Emilia Romagna, a quasi parità di popolazione, ne ha 8.742; il Piemonte 8.412, il Veneto 7.672, la Toscana 8.109. Al Nord, per ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti nel comparto sanità: medici e infermieri, ma anche tecnici di laboratorio, amministrativi, operatori socio sanitari. Al Sud la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti ogni mille residenti. Se la Puglia avesse avuto le stesse risorse dell’Emilia Romagna e avesse, quindi, potuto mantenere lo stesso rapporto dipendenti/residenti, oggi avrebbe 16.662 medici, infermieri, amministrativi in più. Come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 23mila lavoratori in più?

LA CORTE DEI CONTI. Anche la Corte dei Conti ha evidenziato la disparità «Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito». Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere. Non solo: dal 2012 al 2018 l’Italia ha “perso” oltre 42mila operatori sanitari e il record spetta al Sud: è infatti la Campania ad aver dovuto fare a meno di 10.490 dipendenti sanitari.

Emiliano: «Affrontato il Covid con un quarto delle risorse del Nord». L'incontro dell'associazione Welfare a Levante. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2021. «Abbiamo affrontato l’emergenza Covid in Puglia dimostrando una capacità di gestione tra le migliori di Italia. E lo abbiamo fatto pur vivendo uno storico gap, con un quarto delle risorse e del personale rispetto ad alcune regioni del Nord Italia a parità di abitanti». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano intervenendo oggi ai lavori congressuali dell’associazione di categoria Welfare a Levante, su invito del presidente Antonio Perruggini, che si sono svolti all’Anche Cinema di Bari. «Voi - ha detto Emiliano rivolgendosi ai rappresentanti delle strutture socio sanitarie - siete stati nella prima fase della pandemia il bersaglio numero uno del Covid. Il sistema sino a prima dell’emergenza era fondato sul rispetto del Dm70, in sintesi il Governo diceva alle regioni: o li fai tu i tagli, oppure ti commissariamo e li facciamo noi. Questa azione noi in Puglia l’abbiamo realizzata e i risultati attesi sono arrivati, lo dicono i conti in ordine e i dati sui Lea, visto che siamo la regione che più è cresciuta in Italia nei livelli essenziali di assistenza. Ma adesso che affrontiamo una nuova fase della pandemia non meno complessa, bisogna attuare le perequazioni. E per farlo servono risorse e personale».

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa  fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

Storia di Francesco Saverio Nitti, lo studioso che nel 1900 dimostrò scientificamente che il Nord derubava il Sud. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 14 maggio 2021. L’economista lucano, docente universitario poco più che trentenne, pubblicò “Principi di scienza delle finanze”, opera che è diventata nota in tutto il mondo. Fino a prima di Nitti il Sud e la Sicilia erano economicamente arretrati perché antropologicamente inferiori. La forza dei numeri e della cultura assestò un colpo a certi razzisti e disonesti del Nord. Che purtroppo ci sono ancora. Nitti dimostrò che un’iniqua distribuzione della spesa pubblica, nel periodo 1862- 1897, aveva favorito il Nord e penalizzato il Sud. La cosa incredibile è che ancora oggi è così! I Borbone erano molto più corretti degli italiani. Non a caso, nel Nord, la parola “Borbone” ha un’accezione negativa. Così come, per noi del Sud e della Sicilia, le parole “Nord Italia” sono in alcuni casi sinonimi di banditi e predoni Da Nitti ad oggi la situazione è mutata? Come già accennato, assolutamente no! L’economista lucano, docente universitario poco più che trentenne, pubblicò “Principi di scienza delle finanze”, opera che è diventata nota in tutto il mondo. Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 – Roma 1953), l’economista lucano che sarebbe diventato Presidente del Consiglio nel 1919, pubblicava nel 1900 a Torino un volumetto, destinato a renderlo famoso, sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato dal titolo “Nord e Sud”, edito dall’amico deputato torinese Luigi Roux. L’autore, all’epoca trentaduenne e già docente ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario presso l’Università di Napoli, con questo testo verrà annoverato tra i maggiori studiosi meridionalisti, avendo affrontato per la prima volta in maniera compiuta e originale il tema del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97 e avendo portato alla luce, contrariamente a quando era allora comunemente ritenuto da politici, studiosi, accademici, l’iniqua ripartizione della spesa pubblica in Italia: dall’unità in poi il Mezzogiorno aveva subito un continuo e costante drenaggio di risorse atto a favorire lo sviluppo infrastrutturale e industriale dell’Italia settentrionale. Nitti, il cui nonno paterno dal passato carbonaro era stato ucciso a Venosa dai briganti di Carmine Crocco in una reazione filoborbonica, sarà aspramente contestato e, addirittura, accusato di aver fomentato e alimentato divergenze e contrasti in un’Italia, allora come oggi, già profondamente divisa. Ciononostante, le lucide analisi di Nitti, che indicavano chiaramente la responsabilità delle politiche attuate dai governi, succedutisi nel primo quarantennio unitario, per aver sostenuto e accresciuto il divario tra le “Due Italie”, lo porteranno nel 1903 a pubblicare il testo “Principi di scienza delle finanze” , un’opera di fama mondiale adottata da diverse università in Italia e all’estero, e nel 1904 ad essere eletto nel Parlamento. Da deputato, Nitti metterà le sue competenze a disposizione di Giovanni Giolitti, parteciperà all’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Basilicata e della Calabria, sarà impegnato nella costituzione dell’Ente Volturno, volto alla produzione di energia elettrica, e nelle trattative affinché nascesse a Bagnoli l’Ilva, al fine di restituire all’ex capitale Napoli uno spiraglio di produzione industriale. Fino a prima di Nitti il Sud e la Sicilia erano economicamente arretrati perché antropologicamente inferiori. La forza dei numeri e della cultura assestò un colpo a certi razzisti e disonesti del Nord. Che purtroppo ci sono ancora. In “Nord e Sud”, l’economista lucano sgombra il campo da analisi superficiali o di comodo che tentavano di ridurre a mera speculazione antropologica la natura del divario che si era venuto creando negli ultimi decenni. A chi legava il mancato sviluppo del Mezzogiorno con razzistiche teorie che suggerivano l’inferiorità della “razza” meridionale, Nitti opponeva analisi, studi, statistiche che dimostravano scientificamente che il divario tra le due aree del Paese era diventato così consistente in relazione a precise scelte di politiche finanziarie, economiche e doganali. Nitti si contrapponeva nettamente alla tesi «molto comune […] non solamente radicata nel Nord d’Italia, che il Sud sfrutti il bilancio nazionale»; i meridionali non pagavano affatto meno tasse e meno imposte come era solito dirsi e non conservavano i propri risparmi in maniera improduttiva come si credeva comunemente. Anzi, il Mezzogiorno fino al 1860 aveva conservato «più grandi risparmi che in quasi tutte le regioni del Nord», vi si «viveva una vita molto gretta, ma dove il consumo era notevolmente alto». E fino a prima delle politiche doganali del 1887, tra il 1880 e il 1888, «la ricchezza agraria del Veneto non era superiore a quella della Puglia, e tra Genova e Bari, tra Milano e Napoli era assai minore differenza di sviluppo economico e industriale che ora non sia. Ma adesso (1900, n.d.a.), insieme a una diminuzione nella capacità di consumo, si notano i sintomi allarmanti dell’arresto del risparmio, dello sviluppo della emigrazione povera, della pigra formazione dell’industria di fronte al bisogno crescente. Tra il 1870 e il 1888 la importanza del Mezzogiorno nella vita sociale ed economica dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia». Nitti dimostrò che un’iniqua distribuzione della spesa pubblica, nel periodo 1862- 1897, aveva favorito il Nord e penalizzato il Sud. La cosa incredibile è che ancora oggi è così! Emergeva chiaramente dall’analisi dei bilanci dello Stato dal 1862 – anno di unificazione del sistema tributario con l’estensione agli altri Stati preunitari del sistema fiscale piemontese ad opera del ministro livornese Pietro Bastogi, tramite ben cinque disegni di legge – al 1896-97, che il divario nord-sud era notevolmente cresciuto, non solo a causa di una iniqua ripartizione territoriale della spesa pubblica, ma anche per la deleteria sostituzione del «semplice e quasi elegante organismo della finanza napoletana» con gli ordinamenti finanziari del Regno di Sardegna, gestiti da una macchina burocratica dal «numero strabocchevole di agenti di ogni grado…» . Grazie agli studi di Nitti iniziava a delinearsi un quadro delle finanze degli Stati preunitari che si era cercato accuratamente di occultare: «senza l’unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento»; le finanze piemontesi si erano salvate dal fallimento grazie all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie. I Borbone erano molto più corretti degli italiani. Non a caso, nel Nord, la parola “Borbone” ha un’accezione negativa. Così come, per noi del Sud e della Sicilia, le parole “Nord Italia” sono in alcuni casi sinonimi di banditi e predoni. Ai Borbone si potevano fare le critiche più disparate, «ma qualunque il giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona e, in generale, onesta». E queste considerazioni, coraggiose ed esplosive per quei tempi, Nitti le ricavava da documenti inoppugnabili: la pubblicazione del Ministero delle Finanze del luglio 1860 sui bilanci napoletani dal 1848 al 1859 e la relazione di Vittorio Sacchi, inviato fiduciario a Napoli del Conte di Cavour, in qualità di segretario generale delle finanze dal 1° aprile al 31 ottobre 1861. Eppure ancora oggi, persino nei vocabolari, il termine borbonico viene impropriamente utilizzato nell’accezione negativa quale sinonimo di cattiva amministrazione o di ridondante e poco trasparente burocrazia. Da Nitti ad oggi la situazione è mutata? Come già accennato, assolutamente no! Dalle analisi di Nitti del 1900 ad oggi, le politiche economiche e finanziarie italiane in riferimento alla ripartizione territoriale della spesa pubblica sono diventate più eque? La risposta la troviamo nel Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani, il quale attesta incontrovertibilmente che, in relazione alla percentuale di popolazione residente, nel Mezzogiorno dal 2000 al 2017 è stata sottratta una somma pari a 840 miliardi. Tanto che il presidente Gian Maria Fara, commentando il rapporto ha indirettamente reso merito a proprio a Nitti, dichiarando ad una stampa distratta le seguenti significative espressioni: «Sulla questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne. Il Sud, di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia, come luogo di concentrazione del malaffare, come ricovero di nullafacenti, come gancio che frena la crescita economica e civile del Paese, come elemento di dissipazione della ricchezza nazionale, attende ancora giustizia e una autocritica collettiva da parte di chi – pezzi interi di classe dirigente anche meridionale e sistema dell’informazione – ha alimentato questa deriva».

Il Regno delle Due Sicilie? Era molto più ricco del Regno di Sardegna. Parola di Nitti. I Nuovi Vespri il 23 settembre 2017. Un post su facebook di Ignazio Coppola, con una pregevole citazione tratta dalle opere di Francesco Saverio Nitti, fa giustizia di tutti i disinformati (o “scrittori salariati”, come li definiva Gramsci) che scrivono e blaterano sullo stato delle finanze del Regno delle Due Sicilie prima della disgraziata unificazione del 1860. Quando Nitti parla di finanze è difficile che sbagli, visto che nei primi del ‘900 il suo testo di Scienza delle Finanze veniva adottato dalle università di mezzo mondo. Il tema non è nuovo: il Regno delle Due Sicilie era più ricco del Regno di Sardegna? Insomma, nel Sud Italia, prima dell’unificazione – o presunta tale – del 1860 si stava meglio o peggio? Ci sembra molto interessante un post pubblicato su facebook da Ignazio Coppola, che come i nostri lettori sanno è un collaboratore apprezzato di questo blog. Coppola riposta un passo di un grande meridionalista, Francesco Saverio Nitti, che ha giustizia delle bugie interessate che quelli che Antonio Gramsci, sempre a proposito della questione meridionale, definiva “scrittori salariati”, ovvero gli storici, o presunti tali, che ancora, su tale tema, negano la verità dei fatti. Leggiamo insieme la citazione di un passo degli scritti di Nitti: “Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1857 non solo il più reputato d’Italia per la sua solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita – ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito, le imposte non gravose e bene ammortizzate, semplicità grande in tutti i servizi fiscali e della tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi, dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte senza criterio; con un debito pubblico enorme, su cui pendeva lo spettro del fallimento. Bisogna, a questo punto, riconoscere che, senza l’unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento. La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata fra il ’49 e il ’59 da una enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, avea determinato una situazione da cui non si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro Stato più grande”. “Ed infatti – commenta Ignazio Coppola – è quello che avvenne dopo il 1860 con l’unificazione e la confusione delle disastrose finanze piemontesi con quelle floride e rigogliose condizioni economiche del regno delle Due Sicilie. Per cui il Sud fu costretto ad accollarsi l’enorme debito accumulato negli anni precedenti l’Unità d’Italia dal regno di Sardegna. Questo per la verità dei fatti”. Questo scritto è importante perché Nitti, nato a Melfi, in Basilicata, nel 1868 e morto a Roma nel 1956, oltre che essere stato un grande uomo politico è stato anche – e forse soprattutto – un grande meridionalista e un grande economista. Quando Nitti parla di condizioni economiche del Mezzogiorno d’Italia bisogna seguirlo attentamente, non tanto e non soltanto perché, come già ricordato, è stato un meridionalista, ma soprattutto perché nel suo lavoro di economista è stato un’autorità, in Italia e in altri Paesi del mondo. Nitti, di mestiere, era professore di Scienza delle finanze e diritto finanziario presso l’Università di Napoli e conosceva a fondi i problemi dell’agricoltura italiana e meridionale. “La scienza delle finanze”, pubblicata ne 1903, è considerata universalmente la sua opera più importante. Un volume che, all’epoca, ebbe una distribuzione a livello mondiale, se è vero che fu tradotta russo, in francese, in giapponese, in spagnolo e in portoghese. Un testo adottato in Italia, nell’Europa centrale, in Russia e in Sudamerica. Quando Nitti scrive delle condizioni economiche del Sud Italia prima dell’unificazione lo fa con cognizione di causa: con la conoscenza che gli derivava dai suoi studi, dalla sua profonda conoscenza dell’economia del Sud e della Scienza delle finanze e, anche, dal fatto di essere stato molto vicino a un altro grande meridionalista, Giustino Fortunato.  Questo ci dice che chi scrive cose diverse, su questo tema, da quello ha scritto Nitti, o è in malafede (e qui torniamo agli “scrittori salariati”…), o non conosce le cose. Il resto sono chiacchiere. 

Il “blocco agrario del Sud” funzionale agli interessi del Nord. Il Regno di Napoli all’avanguardia nella scuola. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri l'1 settembre 2021.

Il vero significato politico ed economico del “blocco agrario”. Sin dai primi anni successivi all’unità i grandi proprietari terrieri del Sud e i grandi intellettuali, anche meridionali, si erano messi al servizio dell’aristocrazia civile e militare che costituiva il nucleo portante della decrepita monarchia sabauda. Un’alleanza tra ceto intellettuale, proprietari terrieri e aristocrazia sabauda che realizza quel “blocco agrario” funzionale al capitalismo e al sistema bancario del Nord che estrae dal Sud risorse e capitali messi a disposizione di una nascente industria nordica finanziata con interventi pubblici e favorita da protezioni doganali, mentre i grandi proprietari latifondistici meridionali possono tranquillamente continuare a godere di privilegi feudali, abusando pesantemente della massa povera di contadini e braccianti meridionali, mai supportati nei processi organizzativi di tutela della propria dignità da un adeguato ceto di medi e piccoli intellettuali e, pertanto, portati alla rivolta violenta e non organizzata e votati all’emigrazione di massa negli ultimi decenni dell’Ottocento, a causa di un sistema fiscale e doganale che, non permettendo la messa a frutto dei risparmi, mette in crisi persino i piccoli e medi ceti agrari borghesi.

La “Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis. Per Francesco De Sanctis la costruzione dell’identità nazionale doveva necessariamente passare attraverso l’istituzione scolastica con metodi e strumenti educativi, tanto che la sua “Storia della letteratura italiana” fu scritta e modellata, secondo il giudizio degli esperti, ad uso dei licei, non certamente per diventare un’opera di riferimento degli studiosi. Tanto che anche Marco Grimaldi, ricercatore di Filologia della letteratura italiana alla “Sapienza”, Università di Roma, autore del saggio “Francesco De Sanctis e la scuola del Risorgimento” , avverte in proposito che «solo in questo modo si spiegano le contraddizioni e si sintetizzano le diverse anime del De Sanctis: il ministro della pubblica istruzione che spende le sue energie per la scuola popolare e l’autore della “Storia”. Una “Storia”, si noti, che ebbe poi nelle scuole scarso successo… ». Nella “Storia” è d’obbligo non sottovalutare mai le pulsioni patriottiche e le inclinazioni educativo-politiche dell’autore, rivolte verso la nuova classe dirigente del giovane stato unitario che si stava consolidando con l’ulteriore occupazione militare di Roma del 1870. Un anno in cui viene pubblicato il primo volume della “Storia”. Peraltro, come afferma fondatamente Grimaldi, non è affatto trascurabile la circostanza che con il R. D. del 10 ottobre 1867 n. 1942, e i relativi programmi Coppino, l’insegnamento della storia letteraria diventava disciplina autonoma, impegnando la nascente editoria scolastica a corrispondere alle indicazioni ministeriali. Per un intellettuale del calibro di De Sanctis non era agevole sottrarsi alle ragioni economiche che la questione comportava. Pertanto, ai moventi ideali che esigevano la stesura di una storia letteraria solo a monografie ultimate venne sostituendosi l’esigenza utilitaristica di scrivere un testo per i licei, sacrificando la scienza all’utile.

Il Regno di Napoli all’avanguardia nelle politiche scolastiche. È lo stesso De Sanctis ad illustrare nei “Ricordi” come era insegnata la storia della letteratura prima della sua opera, quando, tra il 1831 e il 1832, il giovane studente frequentava a Napoli le lezioni della scuola del matematico e fisico viestano Lorenzo Fazzini: “La scuola dell’abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi direbbesi un liceo. Vi si insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso durava tre anni, e si poteva fare in due. Quell’era l’età dell’oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina cominciava la sua carriera aprendo una scuola. I seminari erano scuole di latino e di filosofia. Le scuole del governo erano affidate a frati. La forma dell’insegnamento era ancora scolastica […] Le scienze vi erano trascurate, e anche la lingua nazionale… “. Mentre l’istruzione inferiore era gestita dal mondo clericale, l’istruzione superiore veniva quasi sempre svolta in scuole private gestite da laici, in quanto le risorse economiche non permettevano scuole pubbliche in tutti i Comuni. Del Settecento borbonico, Grimaldi accoglie la tesi che il Regno di Napoli «era stato all’avanguardia nelle politiche scolastiche» e che l’espulsione dei Gesuiti aveva non poco determinato e favorito un sistema scolastico laico. Nel 1833 De Sanctis passa a frequentare la scuola di Basilio Puoti, dove affronta lo studio della letteratura del Trecento e del Cinquecento in quegli spazi angusti riservati alla letteratura italiana, mentre ancora prevaleva il latino. Diventato docente al Collegio Militare della Nunziatella, De Sanctis insegna la storia dei maggiori trecentisti ottenendo un buon successo. Ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860).

SPESA STORICA, SCATTA LA RIVOLUZIONE CONTRO IL DIVARIO TRA NORD E SUD. Si cambia passo nella ripartizione dei fondi. La Commissione tecnica per i fabbisogni standard del ministero dell’Economia ha definito gli obiettivi per i servizi sociali dei Comuni e le relative regole di monitoraggio Lia Romagnolo su Il Quotidiano del Sud il 17 giugno 2021. Se fino a ieri il comune di Reggio Calabria aveva a disposizione circa 78 euro per abitante per garantire l’assistenza agli anziani e ai disabili, servizi domiciliari, centri educativi, centri sociali per gli anziani, case famiglia, da ieri può contare su 102,83. Mentre per il Comune di Giugliano, in Campania, la disponibilità passa da 59 euro a 95,84 per ogni cittadino, da 68,46 a 89,38 per Matera. Sono i numeri di una «rivoluzione» nel segno di un importante passo avanti verso il superamento del criterio della spesa storica, la madre del divario nei diritti di cittadinanza tra il Nord e il Sud del Paese. Una battaglia questa “contro” la spesa storica, che il nostro giornale ha combattuto fin dal suo primo giorno in edicola. Oggi si “celebra” un primo taglio al divario tra città come, per esempio, Reggio Calabria e Reggio Emilia. La Commissione tecnica per i fabbisogni standard del ministero dell’Economia e delle finanze ha definito ieri gli obiettivi di servizio per lo sviluppo dei servizi sociali dei Comuni, e le relative regole di monitoraggio. «Per gli asili e per la spesa delle funzioni sociali, si supera finalmente la spesa storica e, da oggi, rendiamo tutti i Comuni più uguali, assicurando le stesse risorse e gli stessi servizi ai cittadini, indipendentemente dall’area geografica in cui vivono», ha affermato il viceministro dell’Economia, Laura Castelli, sostenendo che si tratta di «un’operazione di vero riequilibrio che non penalizza gli altri Comuni, grazie alle risorse in più che abbiamo messo nell’ultima Legge di Bilancio, e che cresceranno dal 2021 al 2030». Un «cambio di paradigma», ha sottolineato Castelli, che porta «una rivoluzione vera». Punto di approdo di un processo che ha portato alla ridefinizione dei fabbisogni standard non più individuati sulla base del livello medio storicamente offerto, ma del livello di servizi e della spesa standard delle realtà più virtuose. Sono stati quindi quantificati i fabbisogni aggiuntivi, con l’obiettivo di colmare il gap sui servizi sociali dei territori, quelli del Sud in prima fila: all’appello risultavano mancanti risorse per oltre 650 milioni (650,9). Pertanto con la legge di Bilancio nel Fondo di solidarietà comunale (Fsc) sono state conferite risorse aggiuntive pari a 215,9 milioni per il 2021, per arrivare nel 2030 a 650,9 milioni nel 2030. La scorsa settimana il Comitato tecnico per i fabbisogni standard ha stabilito i criteri di riparto delle nuove risorse che, insieme alla variazione della metodologia di calcolo della Funzione sociale nell’ambito del Fondo di solidarietà comunale, si sottolinea, ha consentito di riportare equità nei comuni italiani. Ieri l’ok definitivo al nuovo metodo. «È il primo, vero passo per i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, che ci porterà gradualmente alla convergenza, accompagnando l’attuazione dei livelli essenziali – ha affermato la viceministra – I servizi sociali e gli asili nido hanno sempre rappresentato la vera grande differenza tra Nord e Sud. Queste distanze noi le abbiamo azzerate». L’“operazione”, in pratica, rende omogenei i fabbisogni standard, con l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini, dalla Calabria alla Lombardia, gli stessi servizi. Un passaggio “intermedio”, sottolineano dal Mef, sulla strada delle definizione dei Lep. «Potevamo decidere di attendere l’individuazione dei livelli delle prestazioni – ci ha detto Castelli – lasciando i Comuni ancora in questa situazione di disequilibrio per anni, oppure percorrere una strada diversa. Noi abbiamo lavorato su questa seconda ipotesi e ci siamo inventati un modo che, da subito, azzerasse il divario. Con un doppio beneficio, in primis mettiamo i comuni nelle condizioni di erogare da subito i servizi ai cittadini e poi creiamo le condizioni per una transizione più morbida». I Comuni che riceveranno le “nuove” risorse dovranno rendicontarle, con un passaggio formale in Consiglio comunale: un’operazione di responsabilità, oltre che di trasparenza, quindi. Ai fini della rendicontazione delle risorse aggiuntive da parte degli enti “sotto” obiettivo, spiegano dal Mef, l’impegno delle risorse aggiuntive effettive oggetto di rendicontazione potrà avvenire con riferimento all’assunzione di assistenti sociali a tempo indeterminato qualora l’incidenza del numero di assistenti per il Comune o l’Ambito territoriale sociale di appartenenza sia inferiore a un operatore ogni 6.500 abitanti; l’assunzione di altre figure professionali specialistiche necessarie per lo svolgimento del servizio; l’incremento del numero di utenti serviti; il significativo miglioramento dei servizi sociali comunali in relazione ad un paniere di possibili interventi definito al paragrafo “Interventi per un significativo miglioramento dei servizi sociali”; le risorse aggiuntive trasferite all’Ambito territoriale sociale di riferimento.

NORD-SUD, LE PROFONDE DISEGUAGLIANZE RESISTONO IN SPREGIO ALLA COSTITUZIONE. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. Il bellissimo discorso del Presidente Sergio Mattarella, in occasione del 75° anniversario del referendum che creò la Repubblica nel 1946, ha messo l’accento sul gap sociale ed economico fra le due Italie. Lo sviluppo ottenuto nel secondo dopoguerra, come la marea, alzò tutte le barche. Ma, dopo la stagione migliore della Cassa del Mezzogiorno, il divario fra Nord e Sud ricominciò ad allargarsi. «Fra uomini e donne ci sono delle differenze…”. La frase del pomposo discorso di un relatore all’Assemblea francese di molto tempo fa fu interrotta da un anonimo membro del Parlamento, che gridò: «Vive la différence!», innescando un’omerica risata nell’aula affollata. Il problema è che non tutte le differenze, come quella appena citata e quelle della biodiversità, meritano un applauso. E questo è tanto più vero in quanto negli ultimi lustri sono aumentate le "différences", cioè le diseguaglianze, in giro per il mondo: diseguaglianze di reddito, di censo, di territori, di genere, di opportunità…E questo aumento non ha nulla di buono quando si manifesta nel corso di una crisi, come nella Grande recessione del 2008-2009 e nel “Grande lockdown” (copyright del Fondo monetario) del 2020-2021. Se le cose vanno bene per tutti, non ci lamentiamo troppo se vanno bene più per alcuni che per altri. Ma se le cose vanno male, le diseguaglianze si sentono di più. Se mettiamo assieme la compressione dei redditi della classe media e l’esplosivo aumento dei redditi dei più ricchi creiamo una ricetta per l’invidia sociale. Viene acuito il senso di ingiustizia, questa avversione stinge sulla fiducia e dà la stura a un malessere diffuso che va a sfociare nell’appoggio a movimenti politici populisti che raccolgono queste tensioni, anche se poi non hanno rimedi efficaci da proporre. Il bellissimo discorso del Presidente Sergio Mattarella, in occasione del 75° anniversario del referendum che creò la Repubblica nel 1946, ha messo l’accento sulle diseguaglianze italiane: «C’è un articolo, in particolare, della nostra Costituzione, quello sull’uguaglianza, che suggerisce una riflessione su quanto sia lungo, faticoso e contrastato il cammino per tradurre nella realtà un diritto pur solennemente sancito. Questo principio, vero pilastro della nostra Carta, ha rappresentato e continua a rappresentare una meta da conquistare. Con difficoltà, talvolta al prezzo di dure battaglie. Per molti aspetti un cammino ancora incompiuto». Ecco l’articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»). Ed è significativo che, al primo posto nell’elenco dei divari, il Presidente abbia messo «le differenze economiche, sociali, fra territori». Mattarella racconta: «Non fu un inizio facile, settantacinque anni fa. L’Italia era divisa: la Repubblica aveva prevalso per due milioni di voti, ma il risultato non era stato omogeneo e, in un Paese in ginocchio, c’era il rischio di una spaccatura tra il Mezzogiorno e il Settentrione. É la storia del lavoro, motore della trasformazione del nostro Paese. É la storia della Ricostruzione, delle fatiche, dei sacrifici, spesso delle sofferenze, di tanti che si trasferirono da Sud a Nord, dalle campagne alle città, animando uno straordinario periodo di sviluppo». Quello sviluppo, come la marea, alzò tutte le barche, nei quattro punti cardinali del Paese. Ma, dopo la stagione migliore della Cassa del Mezzogiorno, il divario fra Nord e Sud ricominciò ad allargarsi. I lettori di questo giornale sanno quanto accanita, perseverante, minuziosa e documentata sia stata la denuncia di quei divari, fra il Mezzogiorno e il resto d’Italia, che da decenni negano il dettato costituzionale e di cui accludiamo un ennesimo florilegio. Dietro questi divari – è stato detto e lo ripetiamo – c’è un’altra abdicazione a un altro dettato costituzionale. L’articolo 117 della Costituzione elenca le materie in cui lo Stato ha legislazione esclusiva, e al punto ‘m’ specifica: «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». A onor del vero, nell’anno di grazia 2009, il Parlamento varò una legge per stabilire i Lep – ‘Livelli essenziali di prestazioni’ – livelli che avrebbero dovuto fissare un congruo numero di parametri minimi a valere su tutto il territorio nazionale: per esempio, in termini di letti di ospedale, addetti ai servizi sanitari, metri quadrati di spazio scolastico, posti in asili nido… il tutto espresso per 100mila abitanti. Ma è passata una dozzina di anni da allora, e nulla è stato fatto in proposito. E le cifre nude e crude continuano a riflettere una secolare iniquità. Oggi c’è una singolare comunanza di intenti nel tentativo di correggere quegli sfibranti divari. L’Unione Europea, nello stilare i principi ispirativi del piano di ripresa (NextGen EU) ha messo ai primi posti, per l’Italia, la rimozione di quelle diseguaglianze fra Nord e Sud che hanno fatto del Mezzogiorno una ‘palla al piede’ della crescita dell’Italia, e, per transitiva proprietà, dell’Italia una ‘palla al piede’ della crescita europea. Sì che l’Europa è venuta a meritare la ‘laudatio’ di Mattarella: «L’Unione Europea è essa stessa – per noi – figlia della scelta repubblicana. L’Europa è il compimento del destino nazionale. É luogo e presidio di sovranità democratica. É un’oasi di pace in un mondo di guerre e tensioni. Il filo tessuto con il Risorgimento e la Resistenza ricompone qui la tela di una civiltà democratica che sa parlare al mondo, senza essere in balia di forze e potenze che la sovrastano». Ora non ci sono più scuse: il Governo Draghi, con l’invito e l’appoggio dell’Ue, ha in cima alla lista delle cose da fare la correzione delle diseguaglianze territoriali. E la ministra Mara Carfagna è determinata a fare quello che dodici anni di Parlamenti imbelli non hanno saputo fare, cioè procedere all’elencazione di quei famosi ‘livelli essenziali di prestazioni’ che sono – appunto – essenziali per ridirigere le risorse pubbliche verso le aree disagiate del Paese.

DOSSIER - LA SPEREQUAZIONE TRA NORD E SUD NUMERO PER NUMERO VOCE PER VOCE. Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. Questo dossier è il frutto di un lavoro collettivo del Quotidiano del Sud L’Altravoce dell’Italia, diretto da Roberto Napoletano, a cui hanno partecipato: Patrizio Bianchi, Pietro Massimo Busetta, Antonio D’Amato, Fabrizio Galimberti, Adriano Giannola, Ercole Incalza, Cesare Mirabelli, Paolo Pombeni, Massimo Villone Questo è un dossier aggiornato al 31/12/2020, ogni 6/12 mesi faremo un aggiornamento congiunturale e strutturale:

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Assalto ai fondi europei targato Sud (e Pd). Vittorio Macioce il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Non basta spendere i soldi. L'Italia ha una malattia antica che preoccupa molto l'Europa. Dove andrà a finire quel flusso di denaro che sta arrivando con il Recovery? Non basta spendere i soldi. L'Italia ha una malattia antica che preoccupa molto l'Europa. Dove andrà a finire quel flusso di denaro che sta arrivando con il Recovery? È una domanda a cui un giorno si dovrà rispondere. Il timore è che si cada nel solito vizio: le clientele. Aiuto chi mi vota. Il rischio chiaramente c'è. È un'abitudine, un abito mentale, una patologia che si nasconde spesso verso chi rivendica una vocazione governativa. È la tentazione di chi interpreta il potere in modo un po' troppo feudale: i signori del territorio. È per questo che vale la pena di raccontare una storia piccola che svela però certi vizi culturali. Non si parla di reati, ma di visioni politiche. La Regione Campania nel 2019 scrive un bando per l'assunzione di 2243 persone nella pubblica amministrazione. È uno dei grandi concorsi che aprono un sentiero nella roccaforte del posto fisso. I candidati sono 303.965. La Regione fa però una prima selezione. Si inventa un corso per la preparazione al concorso. È un bando nel bando. Gli ammessi sono 2610, che diventano 1880 perché qualcuno più fortunato ha trovato altro da fare. Il corso dura 10 mesi, fino al 31 maggio 2021, e chi partecipa riceve anche una borsa di studio di mille euro lordi mensili. È un po' strano ma non c'è nulla di male. Chiamiamola formazione. Ora però nel Pd a qualcuno è venuta una brillante idea: perché perdere tempo con il concorso? Si fa prima ad assumere tutti quelli che stanno facendo il corso. Tra gli ispiratori di questa mossa c'è Piero De Luca (in foto), vice-capogruppo del Pd alla Camera e figlio del presidente della Campania. Non è un caso. Il padre ci tiene molto e ha fatto pressioni anche sul governo. Il primo aprile è stato firmato un decreto legge per sbloccare i concorsi ancora fermi, compreso quello campano. Solo che lì non c'è la scorciatoia per i corsisti, allora il Pd si è subito mosso per riparare la dimenticanza. Lo fa con un emendamento firmato da Valeria Valente. È il tentativo di far approvare in Parlamento il lodo De Luca, padre e figlio. Qui si apre lo scontro con Renato Brunetta. Il ministro fa le barricate: «Non si può entrare nella pubblica amministrazione senza un concorso». Non è un vezzo, lo dice l'articolo 97 della Costituzione. Ma, replica il Pd, c'è il corso. Appunto. Il corso non è un concorso. Non sono la stessa cosa. Il partito di Enrico Letta alza ora la bandiera degli «apprendisti statali». Il clima non è dei migliori. I corsisti pretendono il posto e sono già iniziate le proteste. È un primo segno di quello che ci aspetta, ma la pubblica amministrazione non è una scorciatoia.

SCIPPANO IL SUD DI ALTRI 60 MILIARDI, MA LA GUERRA CONTINUA. Raffaele Vescera il 06.05.2021 su movimento24agosto.it. Il furto al Sud di una sessantina di miliardi del Recovery fund, ovvero il piano di rilancio europeo per l’Italia, condotto a termine dal governo non suscita proteste e indignazione da parte della stragrande maggioranza dei parlamentari italiani che, fregandosene delle indicazioni europee di usare il 70% dei fondi per colmare il divario Nord-Sud, per appartenenza al partito unico del Nord, ignoranza, ignavia o peggio opportunismo personale, hanno votato a favore del furto contenuto in quel piano. Un piano che anziché ridurre il divario lo aggraverà, peggiorando le condizioni di vita del 34% della popolazione italiana, lasciato senza lavoro, trasporti, sanità, infrastrutture, istruzione, giustizia, un piano insulsamente chiamato PNRR, un suono che per il Mezzogiorno e le aree interne si traduce in una sonora pernacchia. A ciò si aggiunge il vergognoso comportamento di alcuni capi politici, in primis Renzi e Salvini, i quali con disinvolte giravolte eludono le domande che il Paese pone loro, in questo aiutati dall’omertoso silenzio dei partiti, i quali tranne la finta opposizione della Meloni fanno tutti parte del governo. Tutti colpevoli nessun colpevole?  Nient’affatto, i colpevoli ci sono le loro colpe sono emerse, tali che in un qualunque governo democratico li avrebbe portati alle dimissioni da incarichi pubblici, eppure uomini che tramano facendo visita a Denis Verdini in carcere come i due Matteo nazionali sono lì a ricoprire il loro seggio in Parlamento intascando fior di soldi pagati da noi tutti. Matteo primo, ben pagato, vola da un impresentabile dittatore di un ricco paese arabo che grazie ai miliardi del petrolio compra armi a volontà, uccide gli oppositori e scatena guerre di aggressione contro i Paesi vicini, sterminando e impoverendo gli abitanti, con una politica criminale da Renzi definita “nuovo rinascimento”, e poi di ritorno in Italia incontra “per caso in strada” uomini dei servizi segreti con i quali si trattiene a lungo a chiacchierare. E Matteo secondo, detto il Capitone, tace sull’ennesimo scandalo del suo partito che continua a rubare soldi pubblici, come se i 49 milioni non bastassero, l’ultima richiesta di condanna a 4 anni di due commercialisti lombardi della Lega (Nord), il trucco del due per mille intascato due volte con il trucco del “doppio partito”, gli scandali amministrativi diffusi dalla Lombardia persino sulla pelle dei contagiati, fino al Sud da un partito che primeggia nella corsa alla corruzione, ultima quella emersa al Comune di Foggia che ha costretto alle dimissioni il sindaco leghista, il quale consegnò le chiavi della città a Salvini, nemico numero uno del Sud, condannato dalla Magistratura per razzismo antimeridionale. Un tutti d’accordo che sa di regime pro ricchi, mentre i mass-media tacciono sulla protesta di centinaia di sindaci meridionali e di quelli di alcuni senatori e deputati che a decine hanno votato no, mentre il senatore Saverio De Bonis ha scritto alla Von Der Leyen Sassoli e Michel per violazione norme delle Ue  contenute nel Pnrr, e l’europarlamentare Piernicola Pedicini nel Parlamento europeo prepara un gruppo di interesse per il Mezzogiorno per denunciare le discriminazioni di cui esso è vittima, invitando la Commissione europea a rigettare il piano Draghi, cui non resta che restituirgli un bel pnrrrrrrrrrrrrrrrrr .

SUD TI DERUBANO DI 60 MILIARDI? E DI CHE TI LAMENTI, C’E’ CHI S’ACCONTENTA E GODE. Raffaele Vescera l'1.05.2021 su movimento24agosto.it, di Paolo Mandoliti. Sig. Imperatore, Le facciamo notare che purtroppo se Lei la mattina si sveglia e incontra una persona che si lamenta, che definisce "lamentoso cronico" più che metterlo alla berlina, esortandolo a fare trade off, ovvero il vecchio e caro (a Lei, forse) do ut des, dovrebbe, in virtù di blogger del Fatto Quotidiano, chiedersi del perché del lamento continuo. Sempre secondo Lei, questo lamentoso cronico dovrebbe essere addirittura felice, in virtù del trade off, degli 82 miliardi (in realtà sono di meno, considerando che 12 miliardi del fondo di sviluppo e coesione del mezzogiorno sono finiti nel calderone degli importi del piano in generale) promessi (a parole, poiché sempre nel piano non c'è una tabella riepilogativa degli investimenti suddivisi territorialmente tra le macro aree del Paese) al mezzogiorno! Il lamentoso cronico dovrebbe essere felice (utilizza spesso questo aggettivo, non sarà che fa riferimento al guru economico del PD?) perché è una cifra enormemente superiore agli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, che, tra l'altro, dimostrandosi preparatissimo sulla  data della  legge, è abbastanza impreparato sulla premessa e sulla finalità della stessa: quanto alla premessa, non è assolutamente un intervento straordinario post bellico per il Mezzogiorno, poiché l'intervento straordinario post bellico per il Mezzogiorno doveva essere il piano Marshall (ERP), considerato che era il Mezzogiorno l'area del Paese che aveva subíto i maggiori danni (e vittime) civili durante la risalita degli alleati per la liberazione dai nazi-fascisti. Eppure il governo De Gasperi dirottò l'87% delle risorse ERP al Nord. Tanto che in quello stesso periodo un illuminato meridionalista (non come Lei che si auto definisce tale, per le persone come Lei noi meridionali e meridionalisti utizziamo un altro termine) coniò il termine ERP-ivori per denunciare il primo furto, ai danni del Mezzogiorno, da parte della neonata repubblica italiana. Quanto alla finalità, Le rammentiamo che la Caspermez fu istituita per "finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico per il meridione d'Italia". Una roba completamente diversa e non paragonabile in alcun modo al Next Generation EU. Anche se gli effetti macro economici (e qui siamo nel Suo campo) della Caspermez furono estremamente positivi: il PIL italiano crebbe come non mai (miracolo economico, do you know?) e per la prima e unica volta il reddito pro-capite del Mezzogiorno crebbe più di quello del resto del Paese (sono dati facilmente recuperabili, ergo non discutibili). Prova inoppugnabile che se si investe al Mezzogiorno ne beneficia tutto il Paese. Sull'inefficienza della Caspermez a partire dal 1971 (successivamente alla nascita delle Regioni come Enti pubblici e al passaggio del livello decisionale da economisti e meridionalisti di enorme fattura come Pasquale Saraceno a politici e burocrati di mezza fattura) siamo completamente d'accordo con Lei: ma se questo significa per Lei giustificare il refrain "al mezzogiorno non si sa spendere", accusando perfino di "incapacità genetica" Le rispondiamo subito dicendoLe che se la classe politica è stata inefficiente nella spesa, questo peccato originale non può essere pagato in modo perenne sottoforma di sperequazione ai danni di 20 milioni di cittadini. E non può essere assolutamente la motivazione della mancata ripartizione secondo i criteri di ripartizione fissati dalla Commissione europea e approvati dal Parlamento europeo. Così come non può essere la giustificazione del mancato trasferimento di 61 miliardi all'anno per la mancata determinazione e applicazione dei LEP. Così come non può essere la scusa dei "criteri sperequativi" inseriti ogni volta che si sottraggono risorse al Mezzogiorno. Se per lei trade off significa subire l'essere cornuti e mazziati, sinceramente non ci stiamo. E combatteremo in tutte le sedi affinché i princípi costituzionali di solidarietà e sussidiarietà siano finalmente effettivamente realizzati. Al suo trade off potremmo rispondere in inglese con una locuzione che ci farebbe rima.

AL SUD SPETTANO 140 MILIARDI E GLIENE DANNO 82? “I PIAGNONI MERIDIONALISTI LA SMETTANO DI LAMENTATERSI” PAROLA DI UN FELICE IMPERATORE. Raffaele Vescera l'1.05.2021 su movimento24agosto.it, di Pino Aprile. Immaginate che al Veneto spettino 100 miliardi; lo Stato gliene dia 60, e dinanzi alle proteste di chi chiede conto del furto della differenza, un giornalista veneto scriva insultando “l'esercito dei venetisti lagnosi che piagnucolano”, mentre lui è “felicissimo, anche se la soluzione 'migliore' non c'è”. Oddio, la soluzione migliore sarebbe il rispetto dei criteri con cui si assegnano i soldi e in forza dei quali al Veneto spettano 100 miliardi e non 60. Ma, come si dice: chi si contenta gode. E che c'è chi gode a farsi umiliare (Bacia la mano che ruppe il tuo naso/ Perché le chiedevi un boccone). V'arimbarza?, direbbero a Roma. Ovviamente mai lo Stato si permetterebbe di trattare il Veneto come una regione del Sud, quindi se al Veneto spettassero 60 miliardi, gliene darebbe 100, ma tutti si lamenterebbero lo stesso del fatto che sono pochi, i giornalisti veneti si direbbero scontenti perché non si è adottata “la soluzione migliore“ (130-150?) e la Cgia di Mestre produrrebbe una “ricerca” per “dimostrare” che ne sarebbero giusti 200. Invece se al Sud spettano 140 miliardi e gliene danno 82, eccoti la ministra complice del furto al Sud che grida al grande successo di essere riuscita a farlo derubare di un po' di meno di quanto certi cattivoni avrebbero voluto (eh, ma c'era lei, caro lui!); parlamentari del Sud che votano in ginocchio contro il Sud, perché così vuole il padrone (Bacia la mano che ruppe il tuo naso/ Perché le chiedevi un boccone), anzi, no, mi scuso: perché sono davvero contenti di aver ottenuto un grande risultato. E il giornalista meridionale di complemento che si dice “felicissimo” e insulta chi osa ricordare (“l'esercito dei meridionalisti lagnosi che piagnucolano”) che, stando alle regole, al Sud spetta una cifra maggiore: trade off, trading up e trading down (che non è la sindrome). Che vuol dire? Chiedetelo a Vincenzo Felicissimo Imperatore. Io cito i suoi anglicismi solo per darmi un tono e far vedere che pure io ho fatto il militare a Cuneo e dico up and down e non 'ngoppa e abbascio. Ma perché la ministra contro il Sud, Mara (Maria Rosaria) Carfagna è così contenta? E Vincenzo addirittura felicissimo? Perché sono riusciti ad avere per il Sud più di quanto avrebbe meritato, stando ai criteri di suddivisione delle risorse del Recovery Fund? Noooo, la ministra ammette che non il 40 per cento, era diritto che ricevesse il Mezzogiorno, ma più del 60 (ah, ma allora lo sai!). E Felicissimo Imperatore (a occhio, ho idea che ci siano dei superlativi di troppo) scarica la sua ironia contro “l'esercito dei meridionalisti lagnosi che piagnucolano” perché “ricordano che al Sud sarebbe dovuta spettare una quota del 70 per cento”. Ovvero: pretendono qualcosa a cui il Mezzogiorno non ha diritto? Noooo, lui stesso riconosce che “forse è vero che la cifra spettante, in base ai parametri previsti, doveva essere maggiore”. Quindi, nonostante quel “forse” per cercare di mettere in dubbio quanto è costretto ad ammettere (ma se te lo dice pure la ministra contro il Sud che la percentuale giusta è superiore al 60!), lui conferma che il 40 è il resto di un furto (trade off, trading up e trading down, che non è la sindrome). Ma siccome il 40 per cento sono 82 miliardi, “tanti soldi”, la smettano di lamentarsi i piagnoni meridionalisti. A chiunque sia il datore di lavoro del Felicissimo Vincenzo, suggeriamo di darli una busta paga ridotta di quasi la metà. Così la smetterà di essere infelice perché guadagna troppo e finalmente potrà godere del fatto di avere meno di quanto gli spetta (i sogni si avverano!). Oh, se poi, metti caso, Vincenzo non ne fosse felicissimo, allora potremmo avere speranza che capisca pche chi protesta se invece di 140 miliardi ne arrivano 82, non è un meridionalista lagnoso che piagnucola, ma uno che fa i conti meglio di lui e chiede rispetto per i suoi diritti (si chiama dignità. Ma Imperatore faccia conto di non averlo letto, non vorremmo confonderlo con concetti che non sopportano il ribasso compiacente). E comunque, trade off, trading up e trading down (che non è la sindrome), uozzamerican. È così astiosamente proteso alla denigrazione del diritto e della sua rivendicazione, da dire ai lagnosi meridionalisti che somme come quella, 82 miliardi, non le hanno mai viste al Sud. Beh, tutta Italia non ha mai visto somme come quella del Recovery Fund, nemmeno il Nord, con la differenza che al Nord il Felicissimo con l'inchino non ha nulla da obiettare; né sul fatto che parte di quelle somme mai viste al Nord sono soldi del Sud. Ma Vincenzo è contento quando glieli portano via, perché lui, modestamente, trade off, trading up e trading down (che non è la sindrome). E mi sa che gli paiono troppi pure gli 82 miliardi del 40 per cento, soprattutto per il rischio, felicemente sventato da Sua Draghità Mario, che siano gestiti dai politici locali. In tal caso “scoppia il pianto della Maddalena di chi non può accettare che si riconosca ufficialmente una incapacità genetica nella gestione dei soldi pubblici, arrivando addirittura a sostenere considerazioni razziste e classiste”. V'cienz, e mo' non si scherza più: classista è il tuo modo indegno sia di ritenere accettabile il meno del dovuto al Sud e non censurabile il di più al Nord, sia di rivolgerti a chi, al contrario di te, chiede il giusto, secondo i criteri stabiliti. Razzista è chi attribuisce a incapacità genetiche altrui una differenza al ribasso, squalificante. Quanto a politici locali da cui imparare come gestire i soldi pubblici, potremmo chiedere consulenze agli esperti del Mose, dove ogni tre euro, due sono andati in mazzette; ai geni dell'Expo, inaugurata senza le grandi opere annunciate e il 40 per cento dei capannoni non finiti, con più ditte mafiose in pochi mesi lì che in mezzo secolo sulla Salerno-Reggio Calabria; oppure a chi fa l'alta velocità ferroviaria a costi sette volte maggiori, a chilometro, rispetto a quelli di Francia e Spagna; o ai luminosi esempi della Bre-Be-Mi e della Pedemontana veneta, dove le gallerie crollano per difetti di costruzione e materiali scadenti, mentre le stanno facendo o a quelli che facevano la manutenzione del ponte Morandi; o a Roberto Formigoni a Giancarlo Galan, se non hanno più problemi carcerari. Se ti va di scodinzolare felice nel cortile di chi ti deruba, sono fatti tuoi; rispetta chi ricorda che i criteri di ripartizione sono altri e altre dovevano essere le cifre. Non basta essere napoletano per dirsi meridionalista (i primi furono quasi tutti del Nord, mentre a Napoli c'era gente felicissima di farsi umiliare). Poi ognuno può dire quello vuole (resti fra noi: Cicciolina mi ha confidato di essere vergine. E meridionalista).

TRA IPOCRISIA, FANDONIE E PREGIUDIZI, L’ITALIA HA FIRMATO LA SUA CONDANNA A MORTE. LA VOTAZIONE DEL PNRR.  Antonio Picariello il 28.04.2021  su movimento24agosto.it. Mentre vi scrivo in Senato sono in corso le comunicazioni del presidente del consiglio in merito al PNRR e la camera ha già espresso il suo voto favorevole. Il tutto tra discorsi ipocriti, di facciata e colmi di pregiudizi nei confronti del Mezzogiorno. Eviterò di riportarvi dell’alt(r)a velocità di Draghi o delle idiozie proferite dalla Bonino, o ancora dell’operetta burlesca messa in scena da Dario Stefano degna del miglior copia incolla di un tesista alle prime armi. Sarebbero parole sprecate e mi restano già poche battute. Quel che è certo è che oggi l’Italia firma la sua condanna a morte. Più volte nelle aule di camera e senato si è abusato del motto “Se cresce il Sud, cresce l’Italia”. Un abuso che sa di sberleffo, di presa in giro nei miei e nei vostri confronti e di tutti coloro che abbiano un po’ di sale in zucca. Più volte abbiamo riportato i criteri da adottare per il riparto del Recovery Fund (per la verità poche mosche bianche tra senatori e deputati lo hanno ribadito nelle aule del governo) eppure per far ripartire il Sud gli è stato assegnato il 26,64% al netto di quel fenomeno che abbiamo imparato a conoscere con il nome di interdipendenza economica. E qualcuno, tra ministri e partiti i cui membri siedono dove siedono perché votati a Sud, pretendeva anche che festeggiassimo, pronti con la canna da pesca in mano, magnanimamente elargitaci, per andare a pescare. Ebbene noi pescheremo, eccome se lo faremo. Pescheremo tra quei deputati e senatori che con coscienza e con coraggio avranno votato contro questo furto; pescheremo tra i giovani appassionati ed affezionati alla propria terra che daranno ulteriore forza al nostro ideale di equità; pescheremo tra i 500 sindaci che intanto saranno diventati mille, duemila e ancor di più per dare sempre maggior voce ai nostri diritti. Perché, tra gli sberleffi e i pregiudizi, agli onorevoli senatori e deputati servi del dio nordico è sfuggita una cosa fondamentale: oggi in parlamento l’Italia è morta tra gli applausi. Oggi nasce il Sud, nasce con una nuova coscienza, con rinnovata forza. E chi c’è, c’è, mentre di chi non c’è ce ne ricorderemo alla resa dei conti.

Da liberoquotidiano.it il 20 maggio 2021. Tensione alle stelle nel Movimento. Tra le battaglie esterne con Davide Casaleggio che non vuole fornire ai 5S i dati sugli iscritti e quelle interne, il partito fondato da Beppe Grillo è dilaniato. Martedì sera 18 maggio si è tenuta un'assemblea che è stato un tutti contro tutti e nella quale il ministro delle Politiche agricolo Stefano Patuanelli, pentastellato contiano, ha minacciato le dimissioni. Patuanelli infatti è stato attaccato da una sessantina di parlamentari del M5S , in gran parte del Sud, furiosi per la distribuzione dei soldi del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale. Le risorse, 6 miliardi per il prossimo biennio, vanno spartite tra Regioni e Province autonome. E secondo i grillini la ripartizione cui lavora da mesi anche Patuanelli, riporta il Fatto quotidiano, penalizzerebbe le regioni meridionali, e in particolare la Sicilia, che aveva parlato addirittura di "scippo". La discussione è accesissima: "Si spostano solo 110 milioni rispetto allo schema precedente, e non andranno tutti al Nord", tuona Patuanelli.  "Al Sud abbiamo il nostro principale bacino di voti, va tutelato", lo attaccano. Giulia Grillo e Carla Ruocco si scatenano contro il ministro: "Il governo e i suoi membri ottengono la fiducia in aula, ma la fiducia si può anche togliere". Quindi Patuanelli sbottai: "Se questa è la situazione ne traggo le conseguenze". Più tardi, nella chat dei senatori, annuncia di "valutare le dimissioni", per poi uscire dalla chat. "Stefano è rimasto scosso dalla riunione" raccontano. Difficile che lasci davvero ma la tensione nel Movimento è evidente. Ci sono troppi nodi da sciogliere: i grillini sono a disagio nel governo Draghi, la leadership di Giuseppe Conte ancora bloccata dalla guerra con Casaleggio. "Credo che tra fine maggio e i primi di giugno voteremo Conte come nuova guida" dice a Porta a Porta il ministro Federico D'Incà. Ma il tempo passa e come dice lo stesso Vincenzo Spadafora: "La leadership se non la eserciti ti sfugge di mano".

Cinque storie di buona sanità siciliana, per archiviare i viaggi della speranza. Giusi Spica su La Repubblica il 15 aprile 2021. In molti casi spostarsi al nord per curarsi non è più inevitabile. Dai volti ricostruiti in 3D alla banca del sangue raro: ecco i protagonisti dell'eccellenza isolana. Il superchirurgo belga che opera i bambini di tutta Europa, la scuola di chirurgia maxillo-facciale che ricostruisce i volti con l’aiuto della stampante tridimensionale, la rete per la cura delle malattie del fegato con i farmaci innovativi, l’équipe che ha eseguito il primo trapianto di utero in Italia, la banca del sangue con oltre 25mila donatori. Sono cinque eccellenze siciliane che hanno un volto e un nome. Il professor Jean de Ville de Goyet, grande esperto belga di chirurgia addominale e dei trapianti pediatrici, è stato arruolato da Ismett nel 2017. Da allora ha eseguito più di 70 trapianti. Ha operato bambini siciliani, laziali, campani, pugliesi, valdostani, lombardi. Per lui sono arrivati anche da fuori nazione: da Danimarca, Ungheria, Romania, Ucraina. Viaggi della speranza “al contrario”, da Nord a Sud, verso l’Isola dove ogni anno un paziente su dieci prende l’aereo per farsi curare. «Utilizziamo una tecnica unica che si chiama “bypass Meso Rex” per le malformazioni del sistema portale: per questo i nostri piccoli pazienti vengono da tutta Europa», spiega de Ville, approdato a Palermo dopo essere stato al Bambino Gesù di Roma e in altri centri fra Parigi e Bruxelles. Dal Sant’Orsola di Bologna è arrivato invece Alberto Bianchi, 59 anni, che nel 2018 — dopo aver vinto un concorso da professore associato all’università di Catania — ha impiantato una scuola di chirurgia maxillo-facciale specializzata nell’uso delle tecnologie. È stato uno dei primi chirurghi italiani a introdurre l’uso della stampante 3D per realizzare protesi personalizzate in titanio con cui ricostruire i volti sfigurati delle vittime di incidenti stradali ma anche di pazienti affetti da tumore. Negli ultimi sei mesi sono stati sei gli interventi di ricostruzione della mandibola su pazienti oncologici. "Gli altri due filoni di ricerca — spiega il professore belga — sono la simulazione computerizzata degli interventi e la Tac intraoperatoria unica in Sicilia". Il prossimo obiettivo è creare a Catania una “smile house” per restituire il sorriso ai bambini con malformazioni: "Al momento — dice — ne operiamo 10-12 l’anno e siamo stati inseriti fra i centri di eccellenza dalla Società italiana per la labiopalatoschisi". La Sicilia è all’avanguardia nelle cure delle malattie del fegato, grazie a una rete di quindici centri per la cura delle epatiti con i nuovi antivirali, coordinata dal Policlinico di Palermo. A guidarla è Antonio Craxì, professore di Gastroenterologia e Medicina interna e direttore del dipartimento di Promozione della salute all’università di Palermo. "Il progetto in cantiere — spiega Craxì — è la rete per i tumori primitivi del fegato, finanziata dalla Regione, che prevede la gestione multidisciplinare e comprende unità di epatologia, radiologia, chirurgia e oncologia di cinque aziende sanitarie: Policlinico di Palermo, Policlinico di Messina, Garibaldi-Nesima di Catania, Villa Sofia-Cervello di Palermo e Ismett". A settembre del 2020 la Sicilia esegue il primo trapianto di utero in Italia. Il primato è del Policlinico di Catania, in collaborazione con l’ospedale Cannizzaro. È stato eseguito su una trentenne siciliana dall’équipe composta dai professori Pierfrancesco e Massimiliano Veroux e dai ginecologi Paolo Scollo e Giuseppe Scibilia. "Lavoravamo a questo obiettivo da quattro anni — spiega il professor Paolo Scollo — siamo gli unici in Italia a essere autorizzati a questo tipo di trapianto che nel resto d’Europa si fa in Svezia. Nel nostro Paese è permesso solo da donatrici di cui sia stata certificata la morte cerebrale, in altre parti del mondo si fa anche da donatrici viventi". Un’altra eccellenza è la Banca dei gruppi sanguigni rari di Ragusa, l’unica in Italia oltre a quella di Milano. Anche in piena pandemia la città iblea è riuscita a mantenere il primato in Europa: il 7,9 per cento degli abitanti dona il sangue, rispetto a una media italiana del 3 per cento e a una europea vicina al 4. "Dal 2011, anno di nascita della Banca dei gruppi rari, abbiamo tipizzato 25.132 donatori in network con undici servizi trasfusionali e identificato 31 gruppi sanguigni rari", dice il responsabile del servizio trasfusionale dell’ospedale ragusano Giovanni Garozzo. Da quando è nata, ha risposto a 381 su 476 richieste di emazie di gruppi rari. La sanità che funziona, nonostante la sanità che non funziona.

La lungimiranza del Mezzogiorno e il miope egoismo del Nord. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 15 aprile 2021. Nel lontano 1984, quando iniziarono i lavori del Piano Generale dei Trasporti, come ho ricordato più volte, l’obiettivo portante della iniziativa era basata essenzialmente sulle riforme dell’intero sistema della offerta dei trasporti nel Paese. Tra gli obiettivi prioritari c’era quello di ridare ruolo e funzione strategica al trasporto ferroviario. I dati erano in calo in tutta l’Europa: l’Italia era passata da una percentuale del 16% ad una percentuale dell’11%, almeno per le merci e anche gli altri Paesi come la Germania dell’Ovest dal 28% era scesa al 24%. Il Commissario della Unione Europea Clinton Davis aveva informato la Commissione e tutti i Paesi della Unione (nel 1985 fatta solo di 12 Stati) che in mancanza di un rilancio organico della offerta ferroviaria, cioè non legata alla organizzazione della offerta all’interno dei singoli Paesi ma integrata a scala europea, la offerta ferroviaria stessa, nell’arco di un decennio, sarebbe diventata una modalità non essenziale, addirittura l’intero assetto comunitario sarebbe stato supportato da una sola modalità di trasporto e la rete ferroviaria sarebbe diventata “residuale”. Quel rischio, quella inarrestabile tendenza avrebbe provocato automaticamente una serie di danni in termini di costi della mobilità e, soprattutto, avrebbe prodotto un rilevante inquinamento atmosferico. L’allarme sollevato dal Commissario Davis non era, ripeto, mirato solo ad una riorganizzazione e ad un rilancio delle singole reti ferroviarie, ma della intera rete europea. Il nostro Paese ed in particolare il Dicastero dei Trasporti preposto alla redazione del Piano Generale condivise subito l’allarme e ritenne opportuno porre come condizione prioritaria l’approfondimento del sistema dei valichi lungo l’intero arco alpino. Per i redattori del Piano Generale dei Trasporti, tra cui il Premio Nobel Wassily Leontief, il rilancio della offerta ferroviaria era possibile solo rendendo la intera rete integrata in termini di omogeneità tecnica (stesse caratteristiche nella erogazione di energia, stesse caratteristiche nel sistema di segnalamento, ecc.) ma, soprattutto, garantendo una reale osmosi tra le reti assicurando proprio la realizzazione degli anelli mancanti presenti in particolare: nell’attraversamento della catena dei Pirenei, nell’attraversamento delle Alpi.

L’Italia aveva un dato di riferimento sulla quantità di merci transitate nel 1967 pari globalmente a circa 19 milioni di tonnellate e nel 1986, come si evince dalla Tabella riportata di seguito, tale valore era salito a 65,9 milioni di tonnellate e nel 2006 a quasi 128 milioni di tonnellate.

Il Mezzogiorno sesto Stato d’Europa ma “grazie” al Nord conta meno di Malta. Sono solo cinque le nazioni più popolose: al Sud converrebbe un rapporto diretto con la Ue invece che con uno Stato che lo umilia. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 14 aprile 2021. Ma non sarebbe meglio il rapporto diretto con l’Europa? L’Unione europea ha 448 milioni di abitanti, con una media per nazione di 17 milioni. Il Mezzogiorno, se fosse uno Stato, sarebbe il sesto Paese, per dimensione demografica, dopo Germania, Francia e Italia del Nord, che sarebbe ovviamente ridimensionata a 39 milioni e diventerebbe la quarta dopo la Spagna. Poi verrebbe la Polonia, che sarebbe quinta con i suoi 38 milioni, e poi il Mezzogiorno che sarebbe il sesto Paese. A seguire gli altri 21 Paesi europei, dodici dei quali sono più piccoli della sola Campania, gli altri nove della Sicilia. Tutti questi dati per avere un’idea della dimensione comparativa di un’area che invece non riesce ad avere una sua forza all’interno del Paese di appartenenza.

LINEA DIRETTA. Per cui a qualcuno potrebbe venire in mente che un collegamento diretto con l’Unione potrebbe essere vantaggioso per un Sud che di volta in volta potrebbe trattare le condizioni direttamente sia con gli organismi europei che con quelli internazionali. In termini di richieste di agenzie europee, per esempio, visto che non ve ne è localizzata nessuna. O in termini di grandi eventi che non hanno mai luogo in tali aree. O in termini di visibilità globale, partecipando a tornei internazionali come ha fatto la Croazia, che di abitanti ne ha un quarto. Oggi il Mezzogiorno conta meno di Malta, che ha meno di un quarantesimo della sua popolazione e del suo territorio. Nel caso del Recovery Plan la battaglia incredibile che sta portando avanti, con i sindaci in testa, i presidenti delle Regioni, gli ordini professionali, molti dei rappresentanti politici è difficilissima. E tutto per avere ciò che l’Europa ha destinato all’area. L’Unione ha distribuito le risorse in funzione della popolazione, del tasso di disoccupazione, commettendo un errore perché doveva farlo riferendosi agli occupati sulla popolazione, così avrebbe evitato la distorsione degli scoraggiati e del reddito pro capite. L’Italia in tal modo riesce ad avere una somma rilevante e assolutamente maggiore di quella che avrebbe avuto se il parametro di riferimento fosse stato quello della sola popolazione: 82 miliardi di euro a fondo perduto contro i 32 miliardi della Francia malgrado abbiano la stessa popolazione.

LE MISTIFICAZIONI. Si tenta intanto di mistificare. Ecco cosa scrive sul sito della Stampa Giacomo Barbieri il 14 gennaio 2021. «L’Italia è stata la Nazione più colpita dalla pandemia, e ha ricevuto quindi la maggior parte dei fondi Next Generation EU per la ripresa dal coronavirus». Affermazione chiaramente falsa. Intanto molti dei nostri governanti si prodigano con affermazioni che sostengono che il Sud avrà più del 34% della sua popolazione. Cioè ci “regalano” qualcosa in più di quello a cui avremmo diritto in base alla popolazione, ma certamente molto meno di quello che ci spetterebbe in base ai parametri utilizzati dall’Unione. Cioè si deve fare una grande battaglia per avere quello che l’Europa ha destinato e che sarebbe ovvio arrivasse, se il Meridione fosse uno Stato autonomo.

INFRASTRUTTURE TRADITE. Stesso discorso si potrebbe fare per il ponte sullo stretto che l’Europa ha sempre voluto e che solo l’insipienza della classe dirigente nordica del Paese, in combutta con gli sparuti ambientalisti locali, con grande visibilità costruita da parte di quel Nord miope, ha rinviato sine die, insieme al ponte, l’alta velocità Salerno Augusta, facendo perdere al nostro Paese quel ruolo di piattaforma logistica che hanno acquisito, udite udite, i furbi e frugali olandesi, facendo diventare centrale un porto periferico, rispetto ai traffici mediterranei e a quelli dell’Estremo Oriente, come quello di Rotterdam o favorendo anche TangeriMed, certamente più defilato di Augusta e Gioia Tauro.

GLI UTILI IDIOTI. Essere utili idioti, in mano a una classe dominante estrattiva locale predominante e idrovora, figlia spuria della aristocrazia locale dalla quale ha imparato il metodo, è triste. Ma essere portatori d’acqua di una realtà dominata dalla destra leghista lombardo veneta, in combutta con la sinistra tosco emiliana, vera classe dirigente inadeguata del Paese, che non capisce che insegnare al suo asino a non mangiare può portare a risparmiare ma alla fine lo porta alla morte, è disarmante. Tranne che in un moto d’orgoglio questo Sud maltrattato, ma anche disperso e conflittuale, riesce a trovare una voce unica competente e professionale, mettendo da parte i mille rivoli di protagonismo o alcune volte di rendite di posizione, per cui ormai si sono costituiti professionisti dello sviluppo del Sud che, come quelli dell’antimafia di sciasciana memoria, continuano a dare ricette per soluzioni improbabili, malgrado i fallimenti che hanno caratterizzato finora quelle dagli stessi proposte. O pensano sempre a nuovi progetti, come per il ponte/ tunnel subalveo/tunnel adagiato/ponte a più campate che possano foraggiare, con nuove soluzioni, già scartate in anni di studi, le proprie esigenze di commesse professionali milionarie. Mentre Pietro Salini, ad di We Build, dopo 30 anni di studi del progetto, dice di essere pronto a partire con 100.000 occupati, immagino nei sei anni di costruzione, quindi 15.000 l’anno. Aggiungendo poi i sei miliardi che ogni anno verrebbero pagati dalla Regione Sicilia per i costi dell’insularità, come afferma uno studio della Regione con il timbro prestigioso di Prometeia, l’operazione è di quelle che sembra incredibile non partano.

GLI OBIETTIVI MANCATI. Certo, se non ci fosse stata l’intermediazione del Paese ma un rapporto diretto con la Ue il ponte e l’alta velocita/capacità ferroviaria sarebbero già realtà da decine di anni, e avrebbero cambiato il destino non solo del Mezzogiorno ma anche dell’Italia. Chi pagherà per questi ritardi e questa mancanza di visione è chiaro a tutti. Pagano le migliaia di giovani meridionali, 100.000 annui secondo Svimez, che ogni anno, armi e bagagli e volo low cost, si trasferiscono verso altri lidi, in parte italiani. Con una perdita per il Sud di 20 miliardi in termini di costi affrontati per la loro formazione e di parecchi punti di Pil per il Paese, ormai fanalino di coda nella crescita rispetto a tutti gli altri Paesi europei. Con buona pace dei Bonaccini e degli Zaia, dei Fontana o dei Sala che con orgoglio parlano degli emiliani romagnoli, o dei veneti o dei lombardi, dimenticando le lotte e il sangue per far passare il nostro Paese dall’Italia dei Comuni alla grande Nazione che è conosciuta nel mondo.

L’ESPERIENZA DELLA GERMANIA EST E QUELLA DEL MERIDIONE D’ITALIA. Dopo la caduta del Muro i tedeschi hanno speso ogni anno per il loro “Mezzogiorno” fino al 5% del Pil. Da noi si è arrivati al massimo all’1%.  Dal 1989 a oggi si è investito 5 volte in più di quello che si è speso in 60 anni nel Sud. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 6 aprile 2021. Il quotidiano La Repubblica il 29 marzo ha dedicato ampio spazio ad un articolo di Isaia Sales dal titolo “Investire sul Sud come la Germania fece sull’Est”. Entrerò dopo nel merito dell’articolo e mi soffermerò su alcuni passaggi contenuti in tale nota ma ritengo utile subito fornire un dato: dopo la caduta del Muro i tedeschi hanno speso ogni anno per il loro “Mezzogiorno” fino al 5% del Prodotto Interno Lordo. Da noi si è arrivati al massimo all’1%. Forse non ha senso prendere come riferimento la storica operazione varata dalla Germania dell’Ovest nel 1989 ma ritengo utile soffermarmi su tale confronto perché da una simile esperienza, a mio avviso, traspare cosa sia la volontà di un popolo a recuperare una parte della sua storia sociale ed economica. Ed è forse utile, trattandosi di dimensioni demografiche quasi paragonabili (la Germania dell’Est aveva circa 16 milioni di abitanti, il Sud poco meno di 20 milioni di abitanti), soffermarsi su quanto concretamente si è speso nella Germania dell’Est e quanto si è speso nel Sud. Dall’avvio della Cassa del Mezzogiorno nel 1950 al 2008 (cioè fino all’inizio della crisi economica globale che ha chiuso definitivamente qualsiasi politica pubblica per il sud lasciandola solo legata all’utilizzo dei fondi europei di coesione) sono stati investiti 342 miliardi di euro. In Germania dell’Est si è investito in trenta anni, cioè dal 1989 ad oggi, quasi cinque volte in più di quello che si è speso in circa 60 anni nel Sud d’Italia, cioè tra 1.500 e 2.000 miliardi di euro. Nelle regioni orientali tedesche quasi 70 miliardi di euro l’anno, nel Mezzogiorno appena 6 miliardi di euro. Ma ciò che sconcerta di più è la diversa forma con cui tali risorse abbiano inciso sulla crescita del PIL pro capite: in Germania nel 1989, cioè prima della unificazione, il PIL pro capite degli abitanti della Germania dell’Est era la metà di quello della Germania dell’ovest, alcuni addirittura sostengono che non superava il valore di un terzo, ebbene nel 2009 era salito a due terzi e nel 2018 al 75,1%. Se effettuiamo una analisi sulla differenza tra il PIL pro capite del Centro Nord e quello del Sud scopriamo che nel 2019, prima della pandemia, la differenza ha superato il 55%. Ancora più grave la differenza tra Sud e Est tedesco in termini di disoccupazione: il 17,6% nel Sud e il 6,9% in Germania orientale. Prende corpo però una particolare anomalia, sembra quasi che nel caso italiano le tesi di molti studiosi basate su fatto che l’unità nazionale sia un valore che trascenda la logica economica e rivesta una aspirazione che travalica qualsiasi contabilità economica, un sacrificio da sopportare in cambio di una soddisfazione civile e “morale”, non siano valide. In Italia, in realtà, una concreta unificazione, in termini di omogeneità dei parametri e degli indicatori macro economici, viene percepita come un danno alla crescita. Le reazioni a questa mia considerazione saranno immediate e la maggior parte dirà che invece proprio il Centro Nord, dalla seconda guerra mondiale ad oggi, ha cercato sempre di ridimensionare l’assurda dicotomia tra le due macro aree del Paese; io però non cadrò in un simile confronto e mi limiterò a leggere i numeri prima elencati. Ed è interessante leggere, sempre nell’articolo di Isaia Sales, come l’operazione tedesca dimostri che il vantaggio di un’area non si possa spiegare e giustificare con l’arretratezza antropologica dell’altra; in realtà sono le scelte strategiche che possono modificare radicalmente l’economia e la vita di un territorio. I benefici generali dell’intera realtà economica tedesca sono stati nettamente superiori ai costi investiti: prima della unificazione la crescita del PIL della Germania Ovest si attestava su un valore pari all’1,8%, negli anni successivi la crescita del PIL si è attestato su un valore superiore al 4,5%. Oggi c’è per il nostro Mezzogiorno una grande occasione che potrà davvero rendere possibile una unificazione, quella tra il Centro Nord ed il Sud, finora rivelatasi impossibile ed il motore per dare vita ad una simile operazione ce lo fornisce la Unione Europea; infatti le risorse europee presenti nel Recovery Fund sono tante perché assegnate sulla base delle difficoltà economiche proprio delle Regioni meridionali. La Unione Europea con atti formali e più volte il Vice Presidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis ha ribadito: “l’Italia non ce la farà a riprendersi riattivando solo un motore produttivo, quello legato essenzialmente all’area settentrionale del Paese, ha oggi la possibilità di accenderne un secondo che renderà sicuramente più veloce ed efficiente il primo; fare crescere il Sud è, in realtà un affare per la intera economia italiana”. Quindi, come ho avuto modo di ricordare in diverse occasioni, questa attenzione al Sud e questo pieno convincimento a “unificare” concretamente il nostro sistema socio economico non trova origine all’interno del nostro Paese ma viene da fuori, viene dalla Unione Europea; in fondo gli atteggiamenti ipocriti che hanno caratterizzato il rapporto tra il Centro Nord ed il Sud sono ormai tutti leggibili e misurabili; forse la fase più critica di un simile atteggiamento è esplosa proprio negli ultimi sei anni, cioè dal 2015 ad oggi, in questo arco temporale in cui praticamente, nel migliore dei casi, si sono bandite opere, si sono redatti programmi, si sono presi impegni ma in realtà non si è praticamente fatto nulla; ritengo solo ridicolo l’atteggiamento di alcuni Presidenti delle Regioni del Mezzogiorno carico di entusiasmo per aver impegnato oltre l’80% o, addirittura, oltre il 90% delle risorse previste nei Programmi supportati dal Fondo di Coesione e Sviluppo quando però la quota globale spesa, in sei anni, non supera il 10 – 12 %. Ed è davvero preoccupante leggere il Piano del Sud e le proposte di decontribuzione per le aree del Mezzogiorno; in particolare l’esonero contributivo parziale è concesso per la forza lavoro impiegata nelle otto Regioni del Mezzogiorno per una quota del 30% fino al 31 dicembre del 2021 e non, come riportato il Legge di Stabilità 2021, fino al 2029 perché la Unione Europea non ha ancora autorizzato una simile proposta. È preoccupante perché in realtà viviamo ancora un prolungamento di comportamenti molto distanti da quello posseduto dalla Germania dell’Ovest, da quello voluto e realizzato da Helmut Kohl. 

Dieci anni di rivoluzione allo sportello hanno cancellato il credito al Sud. IL RAPPORTO DELLA FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETÀ - Nel Mezzogiorno accrescono le difficoltà di accesso al credito da parte di imprese e famiglie. Nino Sunseri su Il Quotidiano del Sud il 6 aprile 2021. In Italia ci sono sempre meno banche e meno sportelli. Un segnale che al Nord può essere un indice di efficienza. Nel mezzogiorno, invece, accresce le difficoltà di accesso al credito da parte di imprese e famiglie. E senza un tessuto finanziario robusto è complicato fare sviluppo. Non a caso il declino del sud è diventato inarrestabile dopo la scomparsa di grandi istituzioni come Banco di Sicilia e Banco di Napoli. A scattare la fotografia è un Rapporto preparato dalla Fondazione per la sussidiarietà guidata da Giorgio Vittadini. Emerge che in dieci anni sono sparite quasi diecimila agenzie: da 34.036 nel 2010 a 24.312 del 2020, circa il 30% in meno. La media nazionale è di 40 sportelli ogni centomila abitanti con una forte disparità geografica. Tutte le regioni meridionali stanno sotto l’indice nazionale: venti in Calabria, ventidue in Campania e 25 in Sicilia.  Si sale in Puglia (27), Sardegna e Molise (33), Basilicata (36).  Opposta la situazione nel centro-nord. Tutte le regioni, ad eccezione del Lazio (35), e Abruzzo (40) stanno sopra la media italiana di 40 agenzie per centomila abitanti. Si parte dalla Liguria (44) fino a record del Trentino (70). La classifica per province testimonia del deserto creditizio: in cima Reggio Calabria, Vibo Valentia e Caserta, con appena 17 filiali ogni 100.000 abitanti. Napoli si ferma a 20: metà della media nazionale.  La densità maggiore si registra a Trento (76), Cuneo (72) e Sondrio (71). %). «Il digitale, la concorrenza e la sfida della sostenibilità stanno rivoluzionando le banche e le relazioni con i clienti», osserva Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione. La strada da fare sulla via dell’innovazione è tantissima considerando che la diffusione dell’home- banking in Italia è ancora limitato: sia a causa della scarsa dimestichezza con la tecnologia sia per la carenza delle connessioni. La percentuale dei clienti che usano il digitale è passata in dieci anni dal 18 al 35%. Uno “share” che, pur raddoppiato, resta lontanissimo dalla media europea del 58%. «In Italia le banche hanno storicamente privilegiato le aree più sviluppate, con maggiore presenza di imprese e clienti ad alto reddito», dice Luca Erzegovesi, docente all’Università di Trento, uno dei curatori del Rapporto. Le difficoltà di accesso al credito per le aree meridionali, aggiunge lo studio, crescono per via dell’avanzare del “risiko” bancario: a fine 2019 i primi cinque istituti di credito controllavano circa il 47% delle attività totali.  La concentrazione come sempre distorce il mercato. Una ricerca del centro studi di Unimpresa ipotizza l’esistenza di un cartello per tenere alti i tassi: «L’analisi dettagliata dei principali gruppi bancari italiani conferma che il divario di tassi tra gli istituti di credito sia estremamente contenuti» osserva Salvo Politino, vice presidente dell’associazione.  Un danno enorme per il sud che non conosce finanza d’impresa. Oggi come oggi, la realtà è drammatica: «Impossibile trovare un Fondo immobiliare che investa a Sud di Roma», dice Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione con il Sud.  L’osservazione vale per ogni altro canale diverso dallo sportello. «C’è molto da lavorare – aggiunge – per mettere il Mezzogiorno nei circuiti finanziari serve un maggiore coinvolgimento anche dei soggetti non profit nel farsi parte attiva nelle questioni finanziarie. A sostegno delle realtà imprenditoriali del territorio, duramente provate dalla pandemia, si sono mosse le Bcc. Non a caso – sottolinea il presidente della Federazione Campana, Amedeo Manzo, il credito cooperativo è passato a livello nazionale dall’8% al 15%». Ed è proprio sullo sviluppo delle banche del territorio che insiste Giuseppe De Lucia Lumeno, segretario di Assopopolari. Ricorda che il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz nel 2020 in “Riscrivere l’economia europea” «ha dimostrato come banche di comunità e di territorio, banche popolari e cooperative, rappresentano una importante fonte di finanziamento per le imprese minori grazie soprattutto alla relazione più stretta con la clientela».

Il Nord spende (male) più del suo reale fabbisogno. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 9 aprile 2021. Per il trasporto pubblico locale la Puglia ha investito molto nel 2019, anno prima dell’irruzione del Coronavirus: 182 milioni, soldi impiegati soprattutto per rinnovare uno dei parchi mezzi più vetusto d’Italia, con l’acquisto di oltre 500 bus. Ma pensate cosa avrebbe potuto realizzare se la giunta Emiliano avesse potuto contare sui 304 milioni dell’Emilia Romagna. Nel corso degli ultimi 15 anni c’è chi ha ricevuto fette più importanti del riparto del fondo nazionale destinato al Tpl e chi ha dovuto fare le nozze con i fichi secchi. Basta dare uno sguardo ai bilanci delle Regioni: se la Campania (5,8 milioni di residenti) può spendere 700 milioni di euro per migliorare una complicata mobilità interna perché di più non riceve dai trasferimenti statali, il Veneto (4,9 milioni di abitanti) stanzia 860 milioni e il Piemonte (4,3 milioni) 750 milioni, quindi cifre decisamente superiori per una platea di utenti inferiore. La Puglia (4,1 milioni di residenti) per alla voce “Trasporti e infrastrutture” ha potuto mettere in bilancio 499 milioni nel 2019, l’Emilia Romagna (popolazione quasi identica, 4,4 milioni) ha impegnato una somma ben più corposa, 646 milioni. Eppure i risultati dell’ultimo anno, quello della pandemia Covid, non sono lusinghieri: i bus e i treni hanno fatto da “vettore” del virus come dimostrato dagli accertamenti dei Nas. Il governo Draghi ha stanziato per il 2021 altri 800 milioni per sostenere il settore del trasporto pubblico locale e regionale, le risorse sono destinate a compensare parte della flessione dei ricavi dovuta al calo di passeggeri subito dalle imprese del Tpl. La Puglia, più in generale, nel 2016, per garantire agli oltre 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più. È quanto emerge consultando il database di OpenCivitas, il portale di accesso alle informazioni degli enti locali, un’iniziativa di trasparenza promossa dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Il portale permette di confrontare due o più enti (Comuni, Province o Regioni) per effettuare un benchmarking rispetto ai livelli di spesa sostenuta e ai servizi erogati per le funzioni analizzate. I servizi che possono essere paragonati sono sei: costo della macchina amministrativa, spesa per la polizia locale, l’istruzione, la viabilità, la gestione dei rifiuti e per gli asili nido. Confrontando la spesa storica con la spesa standard (il reale fabbisogno finanziario di un ente) emerge che il Nord spende più del suo reale fabbisogno, potendo contare su maggiori trasferimenti statali. Ecco qualche esempio: le Regioni del Mezzogiorno, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi. Hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma. Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Anche per finanziare la rete degli asili nido il Mezzogiorno ha dovuto fare i salti mortali: infatti, rispetto al reale fabbisogno, le Regioni hanno ottenuto trasferimenti inferiori dell’8,46%, mentre il Nord-Ovest ha speso l’8,25% in più rispetto alle esigenze. Se le Regioni del Mezzogiorno per l’istruzione possono spendere per ogni loro ragazzo 42 euro, quelle del Nord hanno a disposizione più del doppio: circa 92 euro pro capite. E mentre nella gestione dei vaccini in Lombardia si susseguono errori, è utile ricordare che la stessa regione, dal 2017 al 2018, ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0,75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise. Lo stesso Veneto nel 2018, rispetto al 2017, ha ricevuto da Roma lo 0,87% in più. Dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, per sei regioni del Nord la quota è lievitata del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno aumentato la loro parte solo dell’1,75%.

E POI C’E’ AUGIAS. IL SUD, L’UNITA’ E L’EUROPA SECONDO CORRADO. STORIA DI UN PERVICACE AMORE PER I LUOGHI COMUNI. Giancarlo Pugliese su movimento24agosto.it il 21.03.2021. E poi ci sono i dotti commentatori. Quelli che si prentendono “al di sopra dei sospetti”. E a cui viene affidato il lavorìo storico-culturale. Come Augias, l’ineffabile. A lui, come in effetti era lecito aspettarsi, “la Repubblica” affida il 12 Marzo scorso l’articolo che “apre le danze” alle “celebrazioni” del quotidiano romano (ormai solo come sede fisica…) per il 160° dell’Unità ricorrente il giorno 17 (data sempre un po’ temuta, da un po’ di anni a questa parte). Titolo: “A che punto è l’Unità d’Italia”. Sottotitolo: “A 160 anni dalla nascita il Paese è migliore nonostante il Covid” (migliore per chi?). Svolgimento: “(…) Ma poiché parliamo di unità nazionale, per restare aderenti alla realtà si deve citare anche l’enorme divario tra il nord e il sud del paese.” (Bontà sua). Indi, citazione di libro di accademico, invariabilmente meridionale, su Nord e Sud nella Storia d’Italia, al fine di corroborare la seguente tesi: “Per una quantità di ragioni storiche, sociali, geografiche (ben nota pappardella introduttiva abbondantemente recitata dai nostri sussidiari di scuola media, ndr), la diversità di sviluppo tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia oltre a essere ampio, è cronico. (…) Per di più pare essere in aumento (ah, se n’è accorto anche lui! ndr). La realtà storica è che nel 1861 si unificarono Italie diverse perché diverse erano le storie degli Stati preunitari per livelli d’istruzione (altra nota supecazzola, ndr), strutture sociali e istituzionali, clima, alimentazione (a proposito di quest’ultima, mi viene in mente che in effetti al Sud a quanto è dato sapere non si soffriva la pellagra come in altri regioni più a settentrione, ndr). Anche nell’Italia centro-settentrionale esistevano sacche di povertà e di arretratezza. Però la disparità dei redditi, tutto sommato modesta al momento dell’unità, cominciò ad aumentare alla fine dell’Ottocento, quando il Nord-Ovest si aprì all’industrializzazione e il Sud no (ohibò! Come mai? Ndr). La parte settentrionale di questa lunga penisola s’avvicinava all’Europa, quella meridionale meno, anche perché afflitta (anche questo lo apprendiamo da Augias e ci piacerebbe sapere in base a quali dati e da quali fonti, ndr) da una dilagante criminalità”. Quindi, se il Sud è meno sviluppato, e se questo divario l’Unità non solo non lo ha sanato ma lo ha visto anche aumentare da cosa dipende? Di chi è la colpa? Ma del Sud, ovviamente. I “ritardi”. I “differenti livelli di istruzione”. La “dilagante criminalità”. Finanche “il clima”! Il tutto va a parare, almeno a quanto appare a noi stolidi malpensanti, nel solito quadretto di sfondo: dato che il Nord “si è avvicinato all’Europa e il Sud meno” – o per niente, par di capire – perché mai dover conferire quei miliardoni dalla stessa Europa proprio al Sud che proprio non ce la fa (e dire che è stato anche “unificato”!) a stare al passo? Del resto il Sud a stare in ritardo c’è abituato: a detta di Augias, ci stava già 160 anni fa….Resterebbe da capire allora, magari proprio dal caro Augias, a cosa sia servita, a cosa sia valsa, per il Sud, una siffatta Unità, e un siffatto suo svolgersi nel corso di un secolo e mezzo. Interrogativi che forse resteranno inevasi. In compenso, sappiamo però a cosa serve Augias a questa Unità: a contribuire a svuotarla di senso, con un reiterato, vecchio, stantìo e malevolo modo di raccontarcela.

LO SVILUPPO DA SUD CHE FA PAURA AL NORD. Paolo Mandoliti su movimento24agosto.it il 03.04.2021. Iniziamo col dire che le ovvietà, naturalmente, non piacciono a chi non vuole cambiare l'ordine precostituito. Ma se l'ordine precostituito è arrivato al punto di non ritorno perché, prima o poi (anche se dopo 160 anni) i nodi vengono al pettine, gli "irredentisti" del nord se ne devono pur fare una ragione e accettarla così com'è. La pandemia ha scoperchiato una pentola che i diavoli (dai Savoia & co. in avanti, compresi i vari Giolitti, Mussolini, De Gasperi fino ad arrivare ai vari esponenti del partito unico del nord, ascari compresi) avevano organizzato per bene, oscurando di volta in volta le malefatte ai danni del mezzogiorno d'Italia: dal furto dei 3 principali fattori di produzione (terra, capitale e lavoro) subito dopo l'invasione di un regno pacifico, alle leggi pro-nord Giolittiane, agli accordi con i latifondisti per far sì che le camicie nere facessero votare il partito nazionale fascista, al furto degasperiano sul piano Marshall, destinato in quelle quantità all'Italia poiché il mezzogiorno aveva avuto i maggiori danni dalla guerra, ma dirottati per l'87% al nord (un poco come oggi si vorrebbe fare col Recovery Fund) e parzialmente risarcito con la Cassa per il Mezzogiorno (che, peraltro, quando si accorsero che investendo al mezzogiorno si ebbe il "miracolo economico" dell'Italia, e il reddito pro-capite cresceva di più al sud, l'affossarono), fino ad arrivare alle ignobili azioni del PUN (spesa storica, 840 miliardi spariti, sanità meridionale commissariata per portarla a condizioni da terzo mondo in maniera da favorire la sanità, specie privata, padana). La pandemia ha contribuito a far emergere tutto ciò, e un punto fermo: lo sviluppo del paese non può più essere come prima. Si deve ripartire con un nuovo modello di sviluppo che non è più "la locomotiva padana". E più cresce questa consapevolezza, più gli irredentisti scalpitano e sparano cazzate di ogni tipo: come il Presidente ANCI Veneto che si è opposto all'assunzione di 2800 tecnici nel mezzogiorno, dimenticandosi di leggere i numeri: al mezzogiorno (dati della Ragioneria Generale dello Stato, non dell'Osservatorio di Cottarelli) mancano, rispetto al nord, oltre 20 mila dipendenti "funzioni locali"! O come la bocconiana docente che boccia il southworking, auspicando perfino le gabbie salariali! Non si capacita che presto, mancando gli studenti mancherà il suo posto di lavoro. Dimentica di analizzare come la sua Università, a costo zero (anzi, si strapaga per entrarvi) ruba un ragazzo ad un territorio su cui è stato ampiamente investito dalla famiglia oltre al costo sociale della perdita di "un cervello". E se il nuovo modello di sviluppo da SUD portasse ad un miracolo economico territoriale (terrone, naturalmente)? Quanti bravi medici tornerebbero? Quanti bravi tecnici tornerebbero? E la padania? Se per una volta nella storia assisteremmo all'immigrazione dal nord, ce ne faremo una ragione, e a differenza loro, li accoglieremmo a braccia aperte.

LA BABELE DI “NORME TRUFFA” CHE DISCRIMINA IL SUD. Pietro Fucile su movimento24agosto.it il 24.03.2021. La ministra per il Sud, Mara Carfagna, ha definito la loro attuazione “la madre di tutte le battaglie” ma, in barba a quanto stabilisce la Carta costituzionale, lo Stato italiano non ha mai adempiuto al compito, assegnatogli nel 2001 con la riforma del Titolo V, di determinare i “Livelli Essenziali delle Prestazioni”, i cosiddetti LEP, che garantirebbero una certa uniformità di base ai Servizi pubblici essenziali, dalle Alpi a Pantelleria. È in virtù di questa diserzione che, lontano dal clamore dei media, per quel che concerne la ripartizione delle risorse a garanzia dell’erogazione di quei Servizi (che ricadono sul livello qualitativo di settori come la sanità, l’istruzione e i trasporti), ci si è regolati riuscendo a determinare, e a favorire, una vera e propria discriminazione territoriale, tessuta con il varo di una serie di norme e procedure "truffaldine" stratificatesi nell’ultimo ventennio. In un articolo firmato da Marco Esposito e pubblicato sul “Mattino” di ieri l’altro, si è dato conto di qualcuna di queste “regole capestro” con le quali si è, ad esempio, permesso a un bambino di Reggio Emilia di poter godere, accedendo al fondo di solidarietà comunale, delle vacanze estive a spese di tutti gli italiani. Un trattamento negato ai bambini di Reggio Calabria per i quali, disgraziatamente, non è prevista neanche la mensa scolastica ...e di conseguenza neppure il tempo pieno. Sono meccanismi normativi come quello che dal 2015 determina il fabbisogno standard di tempo pieno scolastico, non ricavandolo dall’esigenza, ma dalla conferma dei servizi che storicamente sono stati erogati. Significa che se in un Comune il servizio non c’è, per la norma, i cittadini di quel comune non ne hanno bisogno. Un po’ la stessa cosa che avviene per il Trasporto Pubblico Locale dei centri popolosi, come quelli dell’area metropolitana di Napoli (per i capoluoghi non più), ai quali è assegnato un fabbisogno pari a zero. Esattamente come quanto accaduto per gli asili nido, la cui gestione è stata sì, parzialmente sanata un paio d’anni fa ma, al gap ancora molto (troppo) ampio tra Nord e Sud, già va ad aggiungersi un trucchetto escogitato a tutto vantaggio delle comunità più ricche per costruirne di nuovi, con l’inserimento di una priorità ai comuni che hanno le risorse per cofinanziare il progetto. La tela di norme discriminanti per il Sud è fitta, e investe anche il delicato ambito della salute pubblica, tanto che, per la ripartizione del fondo sanitario, l’unico criterio che si è voluto finora tenere in considerazione è quello della quota di popolazione anziana (più alta al Nord). Non sono state, invece, considerate da nessuna norma le condizioni socioeconomiche dei territori, il numero dei familiari, la disoccupazione, le reali entità delle patologie per i diversi livelli di età e neanche la speranza di vita alla nascita (in Campania si muore prima). Tutti criteri che avrebbero favorito il Sud, che invece la Lega Nord ha tentato nuovamente di raggirare un mesetto fa, quando ha provato ad utilizzare i dati 2019 della migrazione sanitaria (alla base di un sistema premiale per i posti letto ospedalieri) invece che, come da prassi, quelli del 2020 fortemente ridotti dall’emergenza Covid-19. Anche i 4,2 miliardi di ristori stanziati dal governo per i comuni e le comunità montane non sono andati in direzione dell’equità, per come l’intende il giusto, ma ha seguito il criterio della capacità fiscale: di più ai ricchi. E alle più ricche Università del Nord si è garantito un turnover che in molti casi ha permesso non solo di ripianare i pensionamenti con altrettante assunzioni, ma addirittura di accrescere l’organico. Mentre, con il criterio (la scusa) delle tasse d’iscrizione più basse (siamo al Sud effettivamente più poveri), molte di quelle del Mezzogiorno hanno dovuto fare i conti con scarse assunzioni che spesso non hanno coperto nemmeno la metà delle uscite. Un capitolo a parte meriterebbe la questione della politica (dis)fatta con i bonus, dei quali in Italia si è profusamente abusato, nonostante siano stati ampiamente dimostrati gli effetti distorsivi che operano al contrario dell’auspicabile. Spesso ampliando le disuguaglianze Nord-Sud, come è per il “Super-Cashback”, per il “Bonus mobilità” e anche per l’“Art-Bonus” con cui lo Stato rinuncia ad incassare, incentivando una raccolta di fondi che finiscono poi per il 97% al CentroNord e per appena il 3% al Sud.

La docente della Bocconi stronca il southworking: “Danneggia imprese, lavoratori e società: il Sud non deve essere dormitorio del Nord”. Daniela Uva il 2/4/2021 su it.businessinsider.com. Sono circa 50mila i lavoratori italiani che, complice la pandemia, nell’ultimo anno hanno deciso di dedicarsi allo smartworking da luoghi normalmente associati alle vacanze. Piccoli borghi, spiagge, città del Sud, paesi di montagna si sono ripopolati e oggi consentono di operare a distanza senza rinunciare a una maggiore qualità di vita, come dimostra l’ultimo rapporto elaborato dalla Svimez. C’è chi applaude al fenomeno del cosiddetto “southworking” e chi, al contrario, lo ritiene deleterio per imprese e dipendenti. Perché determina isolamento sociale, maggiori costi di organizzazione e minore produttività. A pensarla così è fra gli altri Rossella Cappetta, docente di Management e Tecnologia all’università Bocconi di Milano.

“Le imprese moderne sono nate per affrontare situazioni di grande complessità – spiega -. Questo vuol dire che danno il massimo e generano valore solo in questa condizione. Che non si verifica se i suoi dipendenti operano da remoto”.

Secondo l’esperta il lavoro agile non è sempre negativo, a patto che sia limitato nel tempo e nelle mansioni.

“Solo un pezzo del coordinamento può essere effettuato a distanza – specifica -. Inoltre non è pensabile abbandonare del tutto l’ufficio. L’ideale sarebbe creare un equilibrio che consenta di stare a casa due giorni e in azienda i restanti tre”.

Un mix ideale per le imprese, ma del tutto incompatibile con il southworking. La maggior parte dei lavoratori che scelgono il Sud è infatti dipendente da aziende localizzate nel Centro-Nord del Paese e non potrebbe quindi diventare pendolare su distanze troppo lunghe. “Questa forma di flessibilità può essere sostenibile adesso, in piena pandemia, ma non è ipotizzabile nel futuro – prosegue Cappetta -. Non è possibile amministrare a distanza il cento per cento del lavoro”.

Naturalmente questo vale per le imprese, perché nel caso dei liberi professionisti il discorso cambia.

“I lavoratori autonomi potrebbero trovare nel southworking un bilanciamento fra vita professionale e vita privata – dice -. Già molti grandi studi professionali hanno consulenti esterni che vivono dove preferiscono”.

Quando invece si parla di aziende strutturate la situazione è opposta.

“Le imprese sono comunità sociali, svolgono funzioni educative proprio come fa la scuola – dice -. Ma questi meccanismi funzionano solo in presenza. Il southworking li distruggerebbe”.

Senza apportare benefici in grado di compensare questa perdita.

“Le aziende risparmierebbero i costi di affitto, ma quelli necessari per organizzare il lavoro a distanza sarebbero molto maggiori – specifica -. Inoltre verrebbe a mancare la formazione continua delle persone. Tutto questo si tradurrebbe in una flessione della produttività e quindi del fatturato. Ecco perché il southworking non può che essere una logica di breve periodo”.

Secondo l’esperta anche i dipendenti finirebbero con il pagare la propria scelta.

“Si sentirebbero soli, isolati dai colleghi, avulsi dal contesto – conferma -. Potrebbero perdere occasioni di avanzamento di carriera e perfino soldi”.

Oggi in Italia una retribuzione differenziata non è possibile, perché la legge lo vieta. Ma nel tempo il southworking istituzionalizzato potrebbe portare a enormi disparità.

“Negli Stati Uniti già succede – spiega Cappetta -. Ci sono dipendenti di grosse aziende della Silicon Valley che vivono negli Stati centrali del Sud per risparmiare. Ma per questo vengono anche pagati meno. Inoltre questo paradigma si tradurrebbe in una sconfitta politica. Dimostrerebbe che al Sud non è possibile investire e fare impresa, trasformando questa parte del Paese in un dormitorio del Nord”.

Per questo in un mondo senza Covid è possibile pensare al lavoro agile, ma solo nella sua dimensione smart.

“La vita di impresa si fa in presenza – conclude Cappetta -. Magari non con la presenza al cento per cento, ma con un mix sapiente che permetta di lavorare al meglio sentendosi parte integrante di una realtà”.

SOUTHWORKING: RISORSA PER IL SUD, INCUBO PER IL NORD. Assunta Pavone su movimento24agosto.it il 03.04.2021. Chi l’avrebbe mai detto che la ‘‘locomotiva‘‘ a vapore (il nord) avrebbe cominciato a dar di testa e, non sapendo più che pesci prendere, si sarebbe rivolta al fratellastro povero (il sud) minacciandolo di ritorsioni per il caso in cui non si volesse degnare di correre in soccorso del parente ricco e viziato? La bocconiana (questo aggettivo inizia a suonare male, bocconiano diventa sempre più sinonimo di servitore del sitema nordcentrico che ha ormai distrutto tutto ciò che di buono era stato fatto in questo paese) Rossella Cappetta, in un’intervista, spiega che ‘’il sud si è trasformato in un grande dormitorio del nord’’ e che ‘’i lavoratori rischiano di ritrovarsi isolati’’ e che ‘’il lavoro a distanza costerebbe di più alle imprese’’ ecc…Una serie di spiegazioni che non hanno alcun senso, totalmente senza capo né coda. È, infatti, risaputo che i lavoratori, vivendo nei propri luoghi d’origine, ci hanno guadagnato in qualità della vita e non credo proprio che sentano la mancanza dell’ufficio al di fuori dell’orario di lavoro, durante il quale possono comunque collegarsi con i propri colleghi grazie ai mezzi che tutti  abbiamo imparato ad usare. Quella dei costi per le aziende, poi, è un’affermazione davvero scarsa per un’economista. È un’affermazione messa lì senza alcun riferimento a dati e cifre concreti, quindi una balla buttata lì tanto per voler dire qualcosa. Ad un certo punto, viene fuori il danno economico che una città come Milano sta subendo dall’assenza di questi lavoratori fuori sede. Quindi, in conclusione, la Cappetta ci sta dicendo che i meridionali devono rientrare per rimettere in moto l’economia dei ristoranti, bar, servizi vari delle città settentrionali. E nel chiarire questo, per rendere la cosa più urgente, vi aggiunge la minaccia velata che tali lavoratori rischiano la perdita degli avanzamenti di carriera e tagli agli stipendi. E perché mai? Centinaia e centinaia di lavoratori nordeuropei stanno acquistando case e appartamenti per venire a trascorrere lunghi periodi nelle regioni del nostro sud (e non solo quindi durante le vacanze) consci del fatto che un totale ritorno al lavoro in ufficio non si realizzerà, mentre in Italia si minacciano i lavoratori meridionali per il fatto di restare a lavorare a casa loro. Nel nord Europa, il posto da cui scrivo, è ormai chiaro a tutti che, dopo questa pandemia, l’organizzazione del lavoro prenderà nuove forme e si avvierà a sostituire le permanenze in ufficio che verrano ridotte a quelle necessarie solo in determinati casi e per determinati compiti. In Italia, invece, i geni della Bocconi, vengono a farci la predica sulla necessità di rientrare negli uffici, offendendo chi sta lavorando in smartworking, perché dire che il sud è diventato un dormitorio equivale a dire che non stanno lavorando. La verità è che a città come Milano servono i nostri ragazzi, la nostra gente per gli affitti esorbitanti, spesso pagati a nero, per le consumazioni nei bar e nei ristorante della città, per gli acquisti fatti nei loro negozi e per tutto il fatturato che questi eserciti di lavoratori meridionali regalano alla città settentrionali, complice la mancanza di lavoro nelle loro terre d’origine. In poche parole, il nord ha bisogno del sud e non il contrario. Dopo decenni in cui ci hanno raccontato che il sud è una palla al piede, che blocca lo sviluppo e l’evoluzione del nord, scopriamo adesso che il sud è, in realtà, la riserva a cui attingere per far funzionare le loro città e la loro economia. La povertà del sud è la ricchezza del nord. La pandemia ha messo a nudo la fragilità e l’inefficienza di quelle che si credevano e che anche al sud erano ritenute regioni modello. Il southworking è diventato il paradigma di uno stravolgimento a cui le città del nord non vogliono abituarsi. Il futuro è già cominciato e il southworking fa parte del futuro. Non si può più tornare indietro. Sarà il caso che il nord cominci a cercare nuove strade, per il proprio rilancio, che non contemplino lo sfruttamento del sud. Il sud s’è svegliato e si è accorto di essere importante per il paese. E, soprattutto, il sud ha capito che ci sono nuove strade. Caro nord, sei avvertito, tu con tutti i tuoi bocconiani.

LA PROVA DELLA SPEREQUAZIONE NORD-SUD. Pil pro capite e disoccupazione, numeri-vergogna. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud l'1 aprile 2021. Pil procapite e disoccupazione, due parametri – citati dagli oltre 300 sindaci del Sud nella lettera al capo dello Stato e al premier italiano – che misurano la distanza tra il Nord e il Mezzogiorno. Pil e reddito procapite di Nord e Sud viaggiano su livelli talmente diversi che sembrano dati provenire da due Paesi lontani. La classifica del Pil procapite vede in cima alla graduatoria l’area del Nord-Ovest con un valore in termini nominali di oltre 36mila euro, quasi il doppio di quello del Mezzogiorno, pari a circa 19mila euro annui. Dati sopra i 30mila euro anche per il Nord-Est, con 35,1mila euro e il Centro, con 31,6mila euro. Le ragioni di un divario tanto profondo sono a ricercarsi nel tasso di crescita del Prodotto interno lordo, cresciuto dell’1,4% nel Nord Est, dello 0,7% nel Nord Ovest e nel Centro e di appena lo 0,3% nel Mezzogiorno. Media nazionale: 0,8%. La Calabria chiude la classifica Istat, confermandosi la regione più povera d’Italia, con un Pil procapite di 12,7 mila euro. Le famiglie residenti nel Nord-ovest dispongono del livello di reddito disponibile per abitante più elevato (22,6mila euro), quasi il 60% in più di quelle del Mezzogiorno (14,2mila euro). Con 48,1mila euro Bolzano ha il Pil procapite più elevato, seguono Lombardia (39,7mila euro) e Valle d’Aosta (38,8mila euro). Con 34,2mila euro, Il Lazio risulta la prima regione del Centro in termini di Pil per abitante. Nel Mezzogiorno la prima regione è l’Abruzzo con 25,1mila euro, mentre l’ultimo posto della graduatoria è occupato dalla Calabria, con17,3mila euro. Nel 2019 in Italia la spesa per consumi finali delle famiglie per abitante, valutata a prezzi correnti, è stata di 18,1mila euro. I valori più elevati di spesa pro capite si registrano nel Nord-ovest (20,8mila euro) e nel Nord-est (20,6mila euro); il Mezzogiorno si conferma, invece, l’area in cui il livello di spesa è più basso (13,9mila euro). A un maggior dettaglio territoriale, il più alto livello di consumi finali pro capite si registra in Valle d’Aosta e nella Provincia Autonoma di Bolzano (rispettivamente 25,7mila e 24,8mila euro), mentre il livello più contenuto si registra in Campania (12,8mila euro). Il tasso di disoccupazione in Italia, a dicembre 2020, era al 9,8%, nel Mezzogiorno al 16,6%, contro il 6,5% nel Nord e il 9,2% del Centro. Nel Mezzogiorno una donna su cinque non trova un impiego. Il tasso di disoccupazione rilevato dall’Istat sfiora infatti il 20%. Nel 2019 il tasso di disoccupazione era del 17,6% nel Mezzogiorno, e del 6,8% nel Centro-Nord. Per la disoccupazione giovanile era del 21,2% nel Centro-Nord e del 45,5% nel Mezzogiorno (per le giovani donne del Sud si sfiora il 50%). Se vogliamo aggiungere ai disoccupati anche coloro che non hanno cercato lavoro ultimamente, ma lo vorrebbero, e i cassintegrati a zero ore (si giunge così al cosiddetto “tasso di disoccupazione corretto”) le percentuali sono del 9,1% nel Centro-Nord del 27,6% nel Mezzogiorno. Dal 2008 al secondo trimestre del 2020) l’occupazione nel Centro-Nord è cresciuta molto poco, ma quel poco ha il “segno più”. Nel Mezzogiorno, invece l’occupazione è molto al di sotto del livello di dodici anni prima.

Assunzioni al Sud, il Nord insorge ma i numeri lo fanno vergognare. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 30 marzo 2021. La sfida lanciata dal ministro Renato Brunetta, 2.800 assunzioni nella Pubblica amministrazione del Sud in appena 100 giorni, ha fatto arrabbiare i sindaci del Veneto: secondo la loro tesi, gli organici al Mezzogiorno sono già sovradimensionati. Proviamo a ristabilire, dati alla mano, la realtà dei fatti: quella del ministro è un’operazione “benemerita”, lo dicono i report della Corte dei Conti e di Anci. In ogni settore, dalla sanità alla scuola agli uffici comunali, il Sud deve fare i conti con poco personale, meno rispetto a quello attivo al Nord.

Partiamo proprio dai Comuni: secondo una elaborazione Ifel-Fondazione Anci-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati ministero dell’Economia, negli uffici tecnici del Nord sono in servizio 174.693 dipendenti su 221.315 previsti dalle piante organiche, una copertura dell’82,7%. Al Sud, invece, i lavoratori sono 121.740 contro i 166.418 posti previsti nelle piante organiche, una copertura del 73,2%, quasi dieci punti in meno rispetto a quanto avviene nel Settentrione.

MENO MEDICI E INFERMIERI. Ma è nel comparto sanitario che le differenze diventano più macroscopiche se vogliamo. Al Nord, per ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti nel comparto sanità: medici e infermieri, ma anche tecnici di laboratorio, amministrativi, operatori socio sanitari. Al Sud la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti ogni mille residenti. Se la Puglia avesse avuto le stesse risorse dell’Emilia Romagna e avesse, quindi, potuto mantenere lo stesso rapporto dipendenti/residenti, oggi avrebbe 16.662 medici, infermieri, amministrativi in più. In Puglia, infatti, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità. Come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 22mila lavoratori in più? La fotografia è immortalata dalla Corte dei Conti: “Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)”. Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere.

L’EMORRAGIA DEGLI OSPEDALI DEL SUD. Non solo: dal 2012 al 2018 l’Italia ha “perso” oltre 42mila operatori sanitari, tra medici e infermieri e altre figure ospedaliere, e il record spetta ancora una volta ad una regione del Sud: è infatti la Campania ad aver dovuto fare a meno di 10.490 dipendenti sanitari, in pratica gli ospedali si sono svuotati di dipendenti. Colpa della spending review, ma soprattutto del blocco del turn over, che ha impedito di sostituire chi andava in pensione o si trasferiva altrove. La Campania non è l’unica danneggiata, basti pensare che la Calabria di operatori sanitari ne ha persi 3.889, il piccolo Molise 1.027, la Puglia 2.229. Anche il Nord Italia ha visto una contrazione di dipendenti ospedalieri, ma ben più contenuta: per fare un rapporto, gli organici della Lombardia si sono ridotti di 2.888 lavoratori, un quinto rispetto alla Campania, meno della Calabria e poco più della Puglia. Non solo: la Lombardia, dal 2012 al 2018, non ha perso medici, anzi quelli sono aumentati: +290, mentre la Campania ha visto andar via 1.739 camici bianchi, la Puglia 374, il Molise 204. Anche il Veneto ha conosciuto una riduzione degli organici di 1.924 operatori sanitari, ma i medici “persi” sono stati solamente 73. La Toscana, come la Lombardia, ha potenziato il numero di medici: +97. L’Emilia Romagna ha limitato i danni con -1.328 dipendenti e -102 medici. La Campania ha anche il record, poco invidiabile, di infermieri persi: -3.251.

CONFRONTO TRA REGIONI. Esaminando i dati delle singole regioni emerge ancor più chiaramente il divario: la Valle d’Aosta può contare, nel comparto sanità, su un rapporto di 17,5 dipendenti ogni mille abitanti, il Friuli Venezia Giulia di 16,2 lavoratori ogni mille abitanti, seguono Liguria (15,2), Toscana (13,7), Sardegna (13,5), Emilia Romagna (13), Piemonte (12,6), Umbria (12,6), Marche (12,5). Per trovare la prima regione del Mezzogiorno bisogna scendere sino al 12° posto: lì c’è la Basilicata che, con un rapporto di 12,4 dipendenti ogni mille residenti, è l’unica del Sud sopra la media nazionale (10,8), davanti al Veneto (12,2). Le altre regioni del Mezzogiorno devono fare le nozze con i fichi secchi: il Molise ha un rapporto di 9,9 lavoratori per ogni mille abitanti, seguono Calabria (9,6), Puglia (8,9), Sicilia (8,8), Lazio (7,9) e infine Campania, con soli 7,8 dipendenti ogni mille abitanti.

MENO DIPENDENTI AL SUD IN TUTTI I SETTORI. E vale per la sanità come in altri settori. Prendiamo, ad esempio, il costo della macchina burocratica: sapete quanto spendono le Regioni per i “Servizi istituzionali, generali e di gestione”? E’ riportato nei singoli bilanci: la Lombardia 742 milioni, il Veneto 482 milioni, il Piemonte 911 milioni; conto i 256 milioni della Puglia e i 207 della Campania. Per le “risorse umane” la Lombardia investe 71 milioni, la Campania appena 23 milioni. E quanto spendono le Regioni del Nord in costo del personale? A scattare la fotografia è sempre la Corte dei Conti. La magistratura contabile nella relazione sulle Autonomie relativa al triennio 2015-2017 non fa sconti a nessuno. Nel 2017, Le Regioni a statuto ordinario del Nord hanno registrato un costo per i dipendenti pari a 533 milioni di euro, con un incremento dell’8,99% (Emilia Romagna fa segnare un record, +20,09%, seguita da Piemonte, +11,02%). Il Centro spende meno (399 milioni) ma i costi sono in aumento: +11,6% nel 2017. Il Sud spende meno del Nord (520 milioni) ma, soprattutto, fa segnare una contrazione dei costi: -2,41%. Le Regioni del Nord superano il Mezzogiorno anche per quanto riguarda il numero di personale: 14.418 contro 13.861. Non solo: mentre al Nord dal 2015 al 2017 cresce il numero di dipendenti (+14,6%), al Sud diminuisce (- 2,56%).

LE PARTECIPATE. Dalle piante organiche degli apparati burocratici a quelli delle società partecipate il canovaccio non cambia: in tutta Italia sono 7.090 le società partecipate, di cui attive 5.766, e danno lavoro a 327.807 persone. Nei 962 organismi della Lombardia, ad esempio, sono impiegati 59.924 dipendenti, in Emilia Romagna, invece, 557 enti danno occupazione a 30.342 persone, in Veneto sono 29.296 gli impiegati; di contro, in Campania i dipendenti sono 16.805, in Puglia 10.199, in Calabria 4.391, in Basilicata 668, solo la Sicilia si avvicina ai numeri delle Regioni del Nord con 23.512 dipendenti.

MENO PROF AL SUD. Il Mezzogiorno ha anche meno insegnanti: nelle scuole del Nord ogni professore, mediamente, insegna a 10 studenti; al Sud, invece per ogni docente ci sono 13,5 alunni. Nel Mezzogiorno le scuole pubbliche sono 2.528, il personale docente è pari a 231.051: in sostanza, in ogni istituto scolastico, mediamente, sono impiegati 91 insegnanti. Al Nord, invece, le scuole sono 3.266 e i professori 356.100: risultato, in ogni istituto lavorano circa 109 docenti. Non solo: le classi sono più sovraffollate in Puglia, Campania e Calabria rispetto a Piemonte, Lombardia o Liguria. Infatti, mentre al Nord per 3.646.003 alunni iscritti ci sono 200.828 classi (poco più di 18 studenti per classe), al Sud per i 3.121.930 ragazzi ci sono 112.214 classi (il rapporto è di 27,8 alunni per classe).

SENZA VERGOGNA. I leghisti veneti contro il Sud per i fondi previsti dal Recovery Plan. «Chiediamo di investire in progetti concreti, perché il Veneto è terra di fatti e non di parole». Il Friuli non vuole più versare il suo 13% allo Stato (e la Gelmini apre un tavolo). Giuseppe Pietrobelli su Il Quotidiano del Sud il 18 marzo 2021. Lega bifronte a Nordest. In Veneto ha approvato l’altra sera (con i voti anche del Pd) una mozione a favore di un piano regionale di resilienza con la richiesta di cambiare il piano Recovery del governo Conte, che per due terzi prevedeva fondi per il Meridione. In Friuli Venezia Giulia, invece, inneggia all’unità d’Italia e all’essere “uniti nelle diversità da Nord a Sud”. Non possono non colpire le due diverse posizioni assunte dallo stesso partito in due realtà dove si trova al governo regionale. A Venezia sono state discusse tre mozioni relative alle proposte per il Recovery Fund. La prima della Lega di Luca Zaia, la seconda di Verdi-M5S, la terza del Pd. Sulla mozione della Lega, pur con qualche distinguo, sono confluiti i voti del Pd, che in cambio ha avuto dalla Lega il sostegno per far approvare la propria mozione. La proposta della giunta regionale punta su 155 progetti, per un valore di 25 miliardi di euro. Il Quotidiano del Sud ne ha analizzato a suo tempo i contenuti, visto che si tratta di un libro dei sogni che equivale al 12 per cento dell’ammontare dei finanziamenti europei per il rilancio dell’Italia. Troppo per pensare che una regione possa portarseli a casa, visto che il Recovery individua anche finalità globali. In questo contenitore c’è davvero di tutto: ospedali, infrastrutture, strade, idrovie e perfino alcune opere (come la pista di bob) per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026. Contenuti a parte, hanno colpito le motivazioni anti-meridionaliste di leghisti e Fratelli d’Italia. La mozione di maggioranza era presentata da Alberto Villanova, capogruppo in consiglio regionale della Lista Zaia Presidente. «Il precedente Governo aveva affrontato questa battaglia facendo errori macroscopici: aveva del tutto tagliato fuori Regioni ed enti locali, contravvenendo apertamente a quelle che erano le direttive di Bruxelles. Aveva operato una suddivisione ingiusta delle risorse, concentrandole per i due terzi al Sud Italia». Ecco il tarlo per i leghisti veneti, troppi soldi al Sud. «Al nuovo premier Draghi chiediamo di porre rimedio a questi errori, di tornare indietro su quello che era stato uno schiaffo alla parte produttiva del Paese, di inserire benzina nel vero motore del Paese, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna». Chi più è ricco non deve ricevere di meno. «Lasciare al margine queste tre grandi regioni, sarebbe una scelta davvero miope.  Chiediamo di investire in progetti concreti, perché il Veneto è terra di fatti, e non di parole. Chiediamo che il Veneto abbia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza quanto gli spetta, perché fino ad ora ha dimostrato di saper non solo spendere i fondi assegnati, ma di saperli investire nel migliore dei modi». Posizione-fotocopia per Giuseppe Pan, capogruppo Lega Salvini Premier. «Sarà fondamentale investire questi fondi nel migliore dei modi.  Sappiamo tutti quale è il male principale della nostra Italia: la burocrazia, l’eccessiva lentezza e macchinosità dei nostri ministeri. Se Roma pensa di poter gestire una quantità di fondi come questa senza coinvolgere le Regioni, sbaglia di grosso. Ed è anche sbagliato, come aveva fatto il premier Conte, concentrare la stragrande maggioranza delle risorse al Sud». La convinzione di Pan è granitica: «Dobbiamo dimostrarci all’altezza di questi fondi, dobbiamo dimostrare di saperli investire. Ma conosciamo purtroppo tutti la capacità di spesa del Mezzogiorno. Solo che la Regione Puglia ha restituito 90 milioni dell’ultimo Piano di sviluppo rurale europeo, proprio perché non è stata capace di investirli». Ma c’è qualcuno che si è spinto ancor più in là. Non un leghista, ma un consigliere di Fratelli d’Italia-Giorgia Meloni. Enoch Soranzo ha detto: «Il territorio  merita un riparto dei fondi proporzionale al nostro PIL regionale». Chi più ha, più deve continuare ad avere. «Visto che la nostra regione contribuisce per il 10% del PIL nazionale, se ne riconosca il merito e si ripensi un PNRR ove troppe risorse del Recovery Fund sono già state ipotizzate per il Sud Italia». FdI ha anche punzecchiato la Lega. «Oggi siede in Consiglio dei Ministri: ci aspettiamo non una via privilegiata, ma un riconoscimento concreto che per il Veneto si traduce nell’avere la benzina per tornare a correre in termini di rilancio dell’economia». Qualcuno, nel Pd, ha alzato la testa, Vanessa Camani: «La denuncia di un Nord penalizzato nelle scelte per favorire il Sud è in contrasto con l’europeismo che deve ispirare questa pianificazione». I leghisti friulani hanno detto qualcosa di molto diverso.  Il gruppo regionale, in occasione del 160 anniversario dell’Unità d’Italia, ha dichiarato: «Riscoprire il nostro essere comunità, uniti nelle diversità da Nord a Sud, è una necessità quanto mai stringente per affrontare la drammatica situazione di emergenza causata dalla pandemia. Stiamo affrontando un’emergenza sanitaria senza precedenti, con pesantissime ripercussioni anche di natura economica, finanziaria e sociale. Dunque, ricordare l’Unità nazionale significa mantenere vivi quei valori di solidarietà, di fratellanza e di spirito di sacrificio che serviranno per costruire l’Italia del domani».

ORGOGLIO SUD. RECOVERY PLAN. L’OPERAZIONE VERITÀ HA VINTO: ORA TOCCA A NOI. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 23 marzo 2021. Abbiamo fatto rotolare a valle il macigno della verità e si è sbriciolato il luogo comune del Sud che vive sulle spalle del Nord. C’è il segno di una nuova consapevolezza. Attenzione, però, a cantare vittoria. I soldi ora ci sono, sbucano da ogni angolo. Bisogna spenderli, però, questi soldi. Bisogna fare progetti buoni e bisogna saperli attuare. Questa volta davvero tocca a noi. Dimostriamo di essere capaci di fare squadra e smettiamola di inventarci nemici. Orgoglio Sud. Il segno di una nuova consapevolezza che nasce da una vittoria culturale che è entrata nella coscienza comune del Paese. È figlia dell’operazione verità sulle abnormi sperequazioni territoriali della spesa pubblica sociale e infrastrutturale lanciata in assoluta solitudine due anni fa da questo giornale. Orgoglio Sud. Ce ne era da vendere negli interventi documentati dei Presidenti delle Regioni del Mezzogiorno (primo nei tempi di pagamento della sanità, primo nella somministrazione dei vaccini) alla due giorni di ascolto voluta da una donna tenace, la ministra Mara Carfagna, e inaugurata dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, alla vigilia della definizione del Recovery Plan italiano. Il segno di una nuova consapevolezza che ha fondamento granitico nella geografia ribaltata del piano vaccinazioni delle Regioni. La Puglia, la Campania e la piccola Basilicata fanno con dignità e efficienza un lavoro che non sono stati in grado di fare Regioni del Nord come la Lombardia e l’Emilia-Romagna arbitrariamente foraggiate molto di più dalla spesa pubblica. Ci sono piaciute molto le ultime parole dell’intervento di Draghi. Ve le riproponiamo: “In questa sfida un ruolo cruciale è anche vostro, classi dirigenti. Ma un vero rilancio richiede la partecipazione attiva di tutti i cittadini. Vi ringrazio per il vostro contributo e vi auguro buon lavoro. Grazie.” Queste parole colgono il punto di svolta necessario per cambiare stabilmente passo perché segna il passaggio dai tanti piccoli e grandi io in guerra tra di loro alla condivisione di una comunità che si rimette in gioco insieme. Domenica scorsa per esprimere esattamente questo concetto, avevamo usato le seguenti parole: “Sarebbe bello che la mobilitazione della pubblica opinione portasse a dire: noi siamo qui insieme per fare questa operazione e ti mettiamo a disposizione questo capitale comune, non di questo o di quell’altro. Insomma: butta il seme perché troverai un terreno già dissodato, buttalo con fiducia perché non cadrà nella roccia. Questa è la battaglia civile e culturale per cui è nato questo giornale e per cui intende continuare a combattere. Sprecare l’occasione del governo Draghi sarebbe imperdonabile.” Non avremmo molto da aggiungere se non che l’operazione verità sui Livelli essenziali di prestazione, come ci scrive la ministra Carfagna, è partita perché nessuno oggi può fare finta di niente. Abbiamo fatto rotolare a valle il macigno della verità e si è sbriciolato il luogo comune del Sud che vive sulle spalle del Nord. Attenzione, però, a cantare vittoria. I soldi ci sono, sbucano da ogni angolo: Next Generation Eu, 2 piani europei settennali, Fondo di sviluppo e di coesione, Fondo di perequazione infrastrutturale. Bisogna spenderli, però, questi soldi. Bisogna fare progetti buoni e bisogna saperli attuare. Questa volta davvero tocca a noi. Dimostriamo di essere capaci di fare squadra e smettiamola di inventarci nemici. Il tempo della propaganda è finito.

Sud, dalle opere alla sanità: 20 anni di iniquità da risarcire. Nel Mezzogiorno ampiamente disatteso il diritto alla salute e ad avere infrastrutture efficienti: sono questi i settori che, più di altri, necessitano di un’iniezione di liquidità per recuperare il gap storico con il Nord. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 23 marzo 2021. Sanità e infrastrutture sono i settori che, più di altri, necessitano di una iniezione di liquidità al Mezzogiorno per recuperare quel gap che si è creato negli ultimi venti anni di sottofinanziamento rispetto al Nord Italia.

LA SANITÀ. La spesa per investimenti in sanità, ad esempio, è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. E’ questa l’analisi che emerge dal sistema Cpt (Conti pubblici territoriali): in termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro. Altri indicatori confermano che ogni anno al Nord arrivano maggiori trasferimenti da Roma destinati alla sanità: dal 2017 al 2018, ad esempio, la Lombardia ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0,75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise. Lo stesso Veneto, nel 2018 rispetto al 2017, ha ricevuto da Roma lo 0,87% in più. Dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

LA CORTE DEI CONTI. Ecco come è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati soltanto 685 milioni in più. Basterebbero questi dati – certificati dalla Corte dei conti nella relazione sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali – per far emergere la disparità di trattamento tra due aree dello stesso Paese. Ma possiamo aggiungerne altri: le disuguaglianze sono ancora più palesi se analizziamo la spesa pro-capite totale. Per un pugliese, ad esempio, nel 2020 ha speso complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati a un emiliano o i 1.877 a un veneto. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spettano appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana.

LE INFRASTRUTTURE. Capitolo infrastrutture: fra il 1950 e il 1960 la dote per le infrastrutture era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Ma non è finita qui: solamente nel 2018 mancano all’appello 3,5 miliardi di euro di investimenti per il Sud, calcolo effettuato dalla Svimez partendo dalla regola, spesso e volentieri, per non dire sempre, tradita del 34% della ripartizione delle risorse in conto capitale da destinare al Mezzogiorno. Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che negli anni Settanta erano circa la metà di quelli complessivi, negli anni più recenti sono calati a un sesto di quelli nazionali. In valori pro capite, calcola Cpt, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro; nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro. Fra il 2008 e il 2018 – aggiunge Banca d’Italia – gli investimenti fissi lordi della Pubblica amministrazione sono calati del 20 per cento, attestandosi a quota 37 miliardi, un taglio netto di dieci miliardi di euro.. E i sacrifici maggiori, neanche a dirlo, sono stati fatti dal Sud.

INVESTIMENTI PUBBLICI. Stesso copione nelle tabelle sugli investimenti pubblici in rapporto alla popolazione: la quota destinata al Sud è risultata sistematicamente inferiore rispetto al Centro-Nord. Tra il 2008 e il 2016, sempre secondo i dati di via Nazionale, il calo degli investimenti al Sud è stato del 3,6% annuo; più debole e in maggior flessione rispetto al resto del Paese è stata anche l’attività di progettazione di opere pubbliche. Eppure, secondo uno studio di Bankitalia, un incremento degli investimenti pubblici nel Sud, pari all’1% del suo Pil per un decennio, cioè 4 miliardi annui, avrebbe effetti espansivi significativi per tutta l’economia italiana.

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«L’INFANZIA AL SUD SENZA DIRITTI». IL RAPPORTO ONU CONDANNA L’ITALIA. «La mancata definizione dei Livelli essenziali di Prestazioni rende di fatto discriminante per un bambino nascere e crescere in una Regione piuttosto che in un’altra». Giovanna Gueci su Il Quotidiano del Sud il 10 marzo 2021. Un Sud ancora off limits per bambini e ragazzi. Ancora escluso dagli standard minimi di istruzione, salute, sicurezza sociale e benessere economico. Messo a dura prova dalla pandemia, che nel Mezzogiorno ha finito per aggravare diseguaglianze preesistenti, denunciate a più riprese dall’ONU, oltre che dall’Unione Europea, dall’ISTAT e dai Ministeri interessati. Il Rapporto 2020 sul monitoraggio della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, curato dal Gruppo CRC (Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza) – giunto al suo ventesimo anno di età e licenziato volutamente dopo le rilevazioni dell’effetto pandemia – conferma i numeri disastrosi del Sud e mette in luce il forte aggravio delle criticità registrate negli anni. Su tutto, “l’assenza dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nella cultura politico-amministrativa, nell’agenda politica e la mancanza di un coordinamento efficace in tale ambito”. Mancanza accentuata dalla riforma del Titolo V, parte II della Costituzione, che “attribuendo allo Stato potestà legislativa esclusiva in ambiti quali la determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, ha fatto sì che la loro mancata definizione accentuasse, nel tempo, le diseguaglianze già esistenti nell’offerta di determinati servizi essenziali, da Regione a Regione. Diseguaglianze che l’attribuzione alle autorità locali di potestà legislativa concorrente, in materie quali la tutela della salute e l’istruzione, non ha fatto che aumentare; rendendo di fatto discriminante per un bambino nascere e crescere in una Regione, piuttosto che in un’altra”.

SCUOLA E INTERNET. L’istruzione è stata il versante più colpito dall’emergenza sanitaria e dalle diseguaglianze della didattica a distanza, collegate a loro volta alla singola condizione familiare di bambini e ragazzi ed a quella sociale ed economica dei diversi territori di nascita e di appartenenza. Non a caso proprio la necessità di connessioni durante il lockdown da parte dell’intero nucleo familiare – didattica a distanza e telelavoro – ha evidenziato il digital divide preesistente, allarmante e fortemente sbilanciato a sfavore del Mezzogiorno. I dati ISTAT in questo senso sono molto chiari: per quanto riguarda la dotazione tecnologica, se il 12.3% dei minori dai 6 ai 17 anni non possiede un tablet o un computer, al Nord questa percentuale si attesta al 7.5% e al Centro al 10.9%, mentre il Meridione registra il primato del 19% (470.000 minori). Il divario si riscontra anche nella disponibilità di connessione a banda larga, indispensabile per l’accesso alla didattica a distanza: se il 77.9% dei minori nella fascia 6-17 anni vive in famiglie che dispongono di banda larga, questa percentuale si riduce al 73.1% al Sud e al 64.6% nelle Isole. In sostanza, secondo l’Istat, il 26% delle famiglie non dispone di accesso alla banda larga da casa e la differenza fra la Regioni con maggiore (Trentino) e minore (Molise) copertura è di ben 15 punti. Anche le differenze socio-economiche contano molto: solo il 16% delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95% delle famiglie di laureati. Deficit che, sotto pandemia, si sono sommati nel Mezzogiorno alla necessità di rinunciare più a lungo alle lezioni in presenza anche a causa di un trasporto pubblico locale inadeguato e maggiormente esposto ai contagi. Dati, nel complesso, che se messi in relazione al reddito procapite ed alla spesa pubblica territoriale, penalizzano il Sud a 360 gradi: dall’accesso agli strumenti digitali, a una connessione Internet adeguata, fino al possesso delle competenze necessarie per utilizzare al meglio questi strumenti, sfruttandone quindi le potenzialità senza incorrere nei rischi di un loro uso scorretto o poco consapevole. Già nel 2019, con riferimento alla condizione pre-pandemia, il Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza aveva espresso preoccupazione per le “disparità esistenti tra Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita essenziale e all’istruzione per tutti i minorenni nel Paese”, segnalandole come “violazioni del principio di non discriminazione” e raccomandando “l’adozione di misure urgenti per affrontare le disparità esistenti tra le Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita essenziale, a un alloggio adeguato, allo sviluppo sostenibile e all’accesso all’istruzione di tutti i minorenni in tutto il Paese”. Insomma, l’impegno a garantire una crescita effettiva, in grado di annullare le due povertà strettamente connesse, quella economica e quella educativa. “Le opportunità che saranno offerte dai prossimi finanziamenti, a partire da Next Generation dell’Unione Europea – sottolinea il CRC – rappresentano un’occasione da non perdere se si vuole innovare e rendere più efficace e inclusivo il sistema di istruzione e rafforzare i settori dell’università e della ricerca, particolarmente penalizzati in termini di risorse e diritto allo studio”, evitando a causa del mancato completamento dell’anno scolastico e della fruizione a macchia di leopardo della didattica a distanza, di accrescere in modo esponenziale i divari territoriali nei livelli di apprendimento già molto forti in Italia.

SERVIZI ALL’INFANZIA. Premesso il riconoscimento legislativo italiano sia della natura educativa anche dei servizi per i più piccoli, che del carattere unitario del percorso educativo dalla nascita ai sei anni, l’Italia resta spaccata in due anche per la fascia 0-6 anni. Al sud, infatti, nonostante la scuola dell’infanzia sia ampiamente diffusa, un numero ancora molto alto di bambini ne fruisce solo a tempo parziale, in sezioni antimeridiane o per non più di 25 ore settimanali. Questo significa che molti di loro non condividono né un pasto quotidiano completo, né una socialità continuativa, mancando oltretutto turni di compresenza di due docenti per attività di gioco e apprendimento. In sostanza, se ancora oggi l’offerta educativa per i bambini sotto i tre anni non ha raggiunto da noi l’obiettivo europeo del 33% (il cui raggiungimento era stato fissato entro il 2010), fermandosi a poco meno del 25%, a fare la differenza è la diffusione dei servizi nelle diverse aree del Paese: tutte le regioni del Centro-Nord sono sopra la media nazionale e diverse hanno superato l’obiettivo europeo del 33%, soprattutto nelle aree metropolitane; mentre tutte le regioni del Sud, esclusa la Sardegna, sono sotto la media nazionale. In particolare, in Calabria, Sicilia e Campania, l’offerta educativa è disponibile al massimo per il 10% dei bambini sotto i tre anni. Non solo. I percorsi separati dei due segmenti dell’offerta educativa 0-3 e 3-6 anni trovano un drammatico punto di incontro nelle Regioni meridionali dove, di fronte alla carenza di servizi educativi, la crescente domanda delle famiglie trova sfogo nell’ingresso anticipato di molti bambini di due anni e qualche mese nella scuola dell’infanzia. Mentre infatti l’ingresso anticipato alla scuola dell’infanzia interessa soltanto il 10% dei bambini di due anni nel Centro-Nord, l’incidenza è di 1 bambino su 4 nel Sud e 1 su 5 nelle Isole, dove peraltro il fenomeno sembra riflettersi anche nel maggior numero di ingressi anticipati nella scuola primaria, con possibili ripercussioni sul successivo percorso scolastico.

POVERTA’ E DISPERSIONE SCOLASTICA. In generale, le disuguaglianze sociali sono in aumento, sia in termini di povertà assoluta, che di povertà educativa, con evidenti e reciproci condizionamenti. I divari regionali, innanzitutto, appaiono molto ampi già riguardo la povertà minorile in generale, che una volta di più ha finito per aumentare a causa dell’emergenza sanitaria proprio nel Mezzogiorno. Come emerge infatti da uno Studio regionale del Gruppo CRC, nel nostro Paese i minorenni che vivono in povertà sono il 56% in Sicilia, il 49% in Calabria, il 47% in Campania ed il 43% in Puglia. All’opposto si trovano Friuli ed Emilia Romagna (rispettivamente con il 14.9% e il 15.8%), poi Veneto (17.5%) e Umbria (20%). Con una compromissione obbligata ed inevitabile rispetto alla frequenza scolastica, al coinvolgimento delle famiglie nella formazione culturale e sociale dei minori e persino alla realizzazione effettiva del diritto allo sport, al gioco e alla salute. Solo per fare un esempio, sono proprio i motivi economici – uniti alla mancanza di impianti sul territorio – a costituire un ostacolo alla pratica sportiva per molti bambini e ragazzi, in particolare nelle regioni del Sud Italia, dove sono ancora del tutto insufficienti le aree pubbliche attrezzate. A tutto questo si aggiunge quanto registrato da Eurostat per il 2020: la quota di Early School Leavers (18-24enni che hanno conseguito un titolo di studio al massimo ISCED 2 – scuola media – e che non partecipano ad attività di educazione o formazione, sul totale della popolazione di pari età) in Italia è quasi dimezzata negli ultimi venti anni, passando dal 25.9% del 2001 al 13.5% del 2019. Il numero tuttavia è ancora lontano dalla media UE27 (10.2%) e non raggiunge l’obiettivo della strategia Europa 2020 della Commissione Europea, in cui viene richiesta la diminuzione del tasso di abbandono scolastico sotto la soglia del 10% entro il 2020. E, soprattutto, il dato più preoccupante resta ancora una volta quello territoriale, se si considera che gli abbandoni precoci permangono su valori elevatissimi al Sud (16.7%) e nelle Isole (21.4%). Con l’ulteriore aggravante che separa il Centro e il Nord del Paese dal Sud e dalle Isole dove, secondo i Rapporti INVALSI più recenti, le percentuali di studenti con performance giudicate come non sufficienti sono prossime o superiori al 50%. “Malgrado le numerose azioni intraprese negli anni da Governo, Ministero dell’Istruzione e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – si legge nel Rapporto CRC – i numeri di dispersione scolastica e formativa permangono su livelli allarmanti, richiamando alla necessità, non più differibile, di costruire e attuare un Piano nazionale di contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica e formativa che sappia guardare a una prospettiva di medio-lungo termine sullo sviluppo di un sistema di istruzione e formazione inclusivo e sulla riduzione dei divari tra Nord e Sud del Paese”.

MORTALITA’ INFANTILE. Il miglioramento nazionale è indubbio, dal momento che negli ultimi anni la mortalità infantile italiana è passata, secondo l’ISTAT, da 3.8 a 2.8 morti per mille nati vivi, con una progressiva riduzione del 50% negli ultimi 15 anni, soprattutto grazie al miglioramento della qualità dell’assistenza al parto e al bambino nel periodo perinatale. Il 75% dei decessi nel primo anno, infatti, continua a interessare bambini che hanno meno di un mese di vita. Un fenomeno, tuttavia, che se vede maggiormente coinvolti i maschi (2.9) rispetto alle femmine (2.6), registra il triste primato tra i bambini del Sud rispetto a quelli del Nord (Sicilia 4.2 contro Lombardia 2.7). Da non sottovalutare il fatto che, a livello regionale, le differenze riguardanti la mortalità perinatale sono da attribuire alla diversa efficienza territoriale del Sistema Sanitario, a conferma del fatto che in alcune Regioni persistono carenze nell’assistenza neonatale e infantile. Non bisogna dimenticare che la mortalità perinatale è un esempio di “morte evitabile” ed è costituita da due componenti: la natimortalità e la mortalità neonatale precoce. Ebbene, è vero che la natimortalità resta inferiore al 3%, ma anche in questo caso sono le le differenze regionali ad essere considerevoli: il dato infatti è inferiore al 2% in Valle d’Aosta, Provincia Autonoma di Bolzano, Lazio e Molise; mentre è superiore al 3.5% in Puglia e nelle Marche ed è oltre il 4% in Basilicata. Ancora, i risultati del progetto SPItOSS (Italian Perinatal Surveillance System), che si è concluso dopo tre anni di lavoro e che ha coinvolto tre Regioni italiane, rilevano che ogni 1.000 bambini nati si registrano 4 morti in Sicilia, 3.5 in Lombardia e 2.9 in Toscana.

ABUSI E MALTRATTAMENTI. Capitolo a cui mancano numeri certi e aggiornati. Non a caso, il Comitato ONU sollecita da anni l’Italia a dotarsi di un sistema nazionale di raccolta dati sulla violenza verso i minori, a partire da un’indagine sul maltrattamento condotta nel 2015 su 231 Comuni a cura di AGIA-CISMAI-Terre des Hommes: rispetto ai minori in carico ai Servizi Sociali, dalla ricerca emergeva che sono oltre 91.000 i minori maltrattati in Italia. In altre parole, circa 1 bambino su 5 – di quelli in stato di bisogno seguiti dai Servizi Sociali – è vittima di maltrattamento. 212 per mille sono femmine e 193 per mille sono maschi, mentre i minorenni stranieri sono il 20 per mille, a fronte dell’8 per mille dei minorenni italiani. E se il 47.1% dei minori è vittima di grave trascuratezza, il 19% di violenza assistita, il 13.7% di maltrattamento psicologico, l’8.4% di patologia delle cure, il 6.9% di maltrattamento fisico e il 4.2% di abuso sessuale, il recente Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia (a cura di Cesvi, CISMAI, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, ISTAT, MIUR, Istituto degli Innocenti, Consiglio nazionale Ordine degli Assistenti sociali) che valuta come il contesto socio-economico e i servizi presenti nelle varie regioni possano incidere, positivamente o negativamente, sul benessere dei bambini/e o, viceversa, sulla loro vulnerabilità a fenomeni di maltrattamento, mostra ancora una volta un Paese a due velocità, con un’elevata criticità dei territori del Sud, che rispetto alla media nazionale registrano peggioramenti sia tra i fattori di rischio che tra i servizi. In sintesi, la Sardegna è l’unica regione a registrare, rispetto al 2019, un abbassamento dei fattori di rischio e un miglioramento dei servizi.

E mentre le otto Regioni del Nord Italia sono tutte al di sopra della media nazionale, nel Mezzogiorno si riscontra un’elevata criticità: le ultime quattro posizioni dell’Indice sono occupate da Campania (20°), Calabria (19°), Sicilia (18°) e Puglia (17°). La Regione con la maggiore capacità nel fronteggiare il problema del maltrattamento infantile, sia in termini di contesto ambientale che di sistema dei servizi, si conferma invece, come negli anni precedenti, l’Emilia Romagna, seguita da Trentino Alto Adige (2°), Friuli Venezia Giulia e Veneto che si scambiano il terzo e il quarto posto, e Toscana, confermata in quinta posizione. Durante l’emergenza sanitaria le misure di contenimento e di limitazione degli spostamenti e dei contatti hanno esposto i minorenni a un maggiore rischio di violenza soprattutto in quelle regioni meno fornite di servizi territoriali, il cui rallentamento ha comunque inciso in generale sulla capacità di rispondere alle richieste. Il divario Nord-Sud ha finito anche qui per aggravarsi proprio per la capacità di resilienza offerta dalle maggiori disponibilità economiche dei territori del Nord.

Anna Laura de Rosa da repubblica.it l'1 marzo 2021. Rimuovere lo slogan "Prima il Nord" dal sito personale del ministro al Turismo Massimo Garavaglia. È la battaglia ingaggiata da Visit Italy, famoso portale di promozione turistica fondato da due imprenditori partenopei, Ruben Santopietro e Paolo Landi. Le notizie e i comunicati stampa sul sito personale dell'esponente della Lega nominato dal governo Draghi sono fermi al 2017/2018 ma "un rappresentante delle istituzioni così attento al web dovrebbe rimuovere dalla propria pagina messaggi che dividono il Paese" dice Santopietro di Marketing Italia, società leader in Europa per la promozione turistica e che gestisce portali di successo come appunto "Visit Italy" e progetti di promozione del territorio sia pubblici che privati. "Il turismo è una risorsa essenziale anche per Centro e Sud Italia - prosegue - Da Nord a Sud lo stivale ha bellezze paesaggistiche che il mondo ci invidia. Tra i compiti di un ministro, soprattutto come quello del turismo, c'è sicuramente la promozione dell'Italia e delle sue meraviglie". Da qui la richiesta di rimuovere la scritta "Prima il Nord" presente su massimogaravaglia.net, la pagina del neoministro del Carroccio ferma a qualche anno fa. "Sicuramente l'attaccamento al partito è importante - sottolinea l'imprenditore partenopeo - ma quando si ricopre un ruolo istituzionale che interessa l'intero paese, alcuni slogan dovrebbero essere messi da parte". Questo è il secondo round della polemica a distanza scattata tra il ministro e Santopietro nel salotto di Porta a Porta su Rai 1, dove Garavaglia aveva dichiarato mercoledì scorso: "Dobbiamo investire nel digitale, avere una piattaforma che funzioni bene è fondamentale oggi, se un americano cerca 'visit Italy' non trova italia.it, ma un sito di un privato". "È triste - commenta Santopietro su Facebook - lavorare per anni ad un progetto, ottenere anche dei riconoscimenti a livello europeo, per poi essere considerati quasi come un problema da un ministro della Repubblica Italiana. Siamo sicuri della buona fede ma le sue parole hanno chiaramente un tono provocatorio. Ancora oggi, nel 2021, la sensazione è che la politica veda il privato più come un nemico che come un alleato. Risultare primi negli Stati Uniti alla ricerca "Visit Italy", senza disporre dei 45 milioni investiti per Italia.it è stato un duro lavoro e ha previsto un impegno che forse merita più rispetto". Dopo aver visto la trasmissione, il team ha cercato il sito personale del ministro "e abbiamo appurato che nella home in prima pagina c'è lo slogan: "Prima il Nord" - conclude Santopietro - Noi siamo una realtà nata a Napoli e da anni promuoviamo i territori di tutta Italia in 180 paesi del mondo. Speriamo che non sia stato proprio questo ad infastidire il ministro della Lega. Certo è che se adesso ricopre una carica istituzionale, il suo dovere è lavorare per l'Italia intera, centro e sud inclusi. Chiediamo formalmente la rimozione di questo slogan a nome di migliaia di operatori del settore".

Il governo Draghi con i ministri quasi tutti del Nord preoccupa il Mezzogiorno. di Antonio Fraschilla su L'Espresso il 23 febbraio 2021. L’ultimo esecutivo di Conte, con il bacino di voti del Sud del 5 Stelle e il dem Provenzano, spostava risorse al meridione. Ora c’è il timore di un cambio di asse per reddito di cittadinanza e fondi europei. La speranza e il timore. La speranza che il governo Draghi grazie alle risorse del Recovery fund provi a ridurre il divario Nord-Sud. Il timore che al di là dell’assenza, tra i nuovi ministri, di meridionali, ad accezione della salernitana Mara Carfagna, con il governo dell’ex capo della Bce si sia spostato un asse politico-culturale verso un pezzo solo del Paese rappresentato, un volto su tutti, dal leghista Giancarlo Giorgetti al ministero dello Sviluppo economico. Da sindaci, docenti, economisti, la classe dirigente meridionale, nelle riflessioni sul nuovo esecutivo emerge questo doppio sentimento: la speranza e il timore. Gli ultimi due governi, il Conte primo e il Conte secondo, grazie anche alla forte spinta del Movimento 5 Stelle che al Sud aveva raccolto messe di voti, hanno in parte riequilibrato una distribuzione delle risorse pubbliche che negli ultimi decenni aveva fatto aumentare a dismisura il divario tra le due aree del Paese. A partire dal reddito di cittadinanza: su 3,5 milioni di beneficiari, 2,2 milioni risiedono al Sud e nelle Isole e questo significa distribuire sul territorio meridionale ogni anno oltre 4 miliardi di euro alle fasce della popolazione più disagiate. Il ministro del Sud uscente, il dem Giuseppe Provenzano, ha consegnato a chi gli è succeduto, Mara Carfagna, un volumetto di sessanta pagine sulla programmazione delle risorse per il Meridione: 140 miliardi da qui al 2030 per il Piano Sud, 40 miliardi di euro da destinare agli sgravi contributivi per le aziende delle regioni povere, il raddoppio degli investimenti per il Meridione nel bilancio statale, passati dai 10 miliardi del 2008 ai 21 miliardi dello scorso anno, facendo rispettare il vincolo del 34 per cento di spesa dello Stato da destinare al Sud in base alla popolazione residente. Cosa farà adesso il governo Draghi? Metterà in discussione alcuni interventi come il reddito di cittadinanza? Rimetterà al centro dell’agenda il federalismo fiscale come impostato da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e tanto caro alla Lega e a un pezzo di Pd? Secondo il direttore del centro studi Svimez, Luca Bianchi, «il rischio da molte parti paventato di uno spostamento del baricentro del governo Draghi verso il Nord dovrà essere messo alla prova dei fatti»: «La provenienza geografica dei ministri non può essere un criterio utile per stabilire il grado di nordismo o di sudismo dell’azione di governo. La verifica dipenderà dalle scelte politiche. E due sono i principali banchi di prova: l’attuazione del Recovery fund e l’eventuale attuazione dell’autonomia differenziata. Come Svimez avevamo già criticato il Piano nazionale di ripresa e resilienza predisposto dal governo Conte. Non si può applicare in maniera ragionieristica il criterio del 34 per cento delle risorse del Recovery da destinare al Mezzogiorno in base alla popolazione, perché al Sud si concentrano i ritardi più rilevanti in termini di offerta di servizi pubblici essenziali. E non si può non porre il tema di una riforma della burocrazia e della governance della spesa al Sud». Bianchi insiste sul tema dei divari: la spesa pubblica pro-capite per investimenti nella sanità è stata pari a 25 euro nel Meridione, contro i 75 euro del Nord-Est. Al Sud mancano asili nido e il tempo pieno nelle scuole è garantito per meno di un terzo rispetto a regioni come Piemonte o Lombardia: «Concentrare le risorse dove sono più ampi i divari e quindi i fabbisogni non è un atto di generosità verso il Sud ma è l’unica maniera per rispondere all’obiettivo di una crescita più sostenibile. L’Europa ha destinato al nostro Paese la quota più alta di risorse, circa 200 miliardi, in considerazione di questi ampi divari». La speranza e il timore. Mauro Calise, scrittore e docente dell’Università di Napoli, tende più verso il secondo sentimento. Per lui la strada è segnata e non a causa del nuovo governo, ma perché Draghi non ha altra scelta che concentrare le risorse là dove c’è un tessuto sociale e imprenditoriale che ne consentirà una spesa veloce. «Draghi ha un problema di tempistica, in un anno e qualche mese dovrà avviare una spesa enorme e quindi non mi sorprenderei se iniziasse a lavorare su quello che già conosce e che sa che può camminare. Sotto Roma non c’è una rete imprenditoriale alla quale affidarsi, né una rete bancaria e sociale forte. Il turismo, una delle poche cose che potrebbe aiutare il Sud, è in mano alla Lega. Quindi che può fare Draghi? Poco, non a caso di Sud non se ne parla più e il presidente del Consiglio alla fine ha salvaguardato la linea tecno-finanziaria e industriale sua, l’asse Colao-Franco-Cingolani. Vedremo sul fronte tassazione se ci sarà una ridistribuzione delle risorse, ma certo non vedremo molto sul fronte delle infrastrutture. Tutto questo avrà comunque delle conseguenze politiche nel medio periodo, perché la parte debole del Paese sarà ancora più debole e dopo Draghi il conto arriverà». Un sindaco di frontiera, impegnato nella battaglia per la riconversione green del più grande polo dell’acciaio a servizio proprio delle industrie del Nord, è più fiducioso. Dice Rinaldo Melucci, primo cittadino di Taranto: «Credo che la vicenda dell’Ilva sia un paradigma per il sistema Paese, non solo perché riguarda anche le manifatture del Nord, ma anche perché qui tutta la classe politica nazionale ha commesso errori enormi. La strada è segnata e va verso una vera transizione ecologica su Taranto. Se ce la fa Taranto, ce la può fare anche il Sud, e anche il Nord ne avrà benefici. Il governo Conte aveva aperto una buona strada con i contratti di sviluppo, i tavoli istituzionali e la semplificazione. E sono convinto che il ministro dello Sviluppo economico può essere anche della Lega. Tanto se non sostiene la transizione ecologica di un polo come quello nostro non va da nessuna parte, né lui né il Nord». Ma un velo di timore c’è: «Al Sud abbiamo accumulato sul fronte delle imprese e delle infrastrutture talmente tanti ritardi che dobbiamo fare in fretta, altro che federalismo differenziato. Ma come si può pensare di stare insieme nella pandemia e poi al primo respiro di novità mettere da parte ogni principio di solidarietà tra le regioni?». «Se Draghi non ricucirà lo strappo ormai sempre più evidente tra aree dello stesso Paese, e non solo sull’asse Sud-Nord ma anche centro-periferia, città-aree interne, penso che fallirà agli occhi dell’Europa. E in questo senso il Mezzogiorno per lui sarà il principale banco di prova», prevede il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Condivide il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro: «Provenzano è stato un buon ministro, ma sono convinto che anche Mara Carfagna farà bene. Non credo che il programma per far ripartire il Sud dipenda dalla provenienza territoriale dei ministri e tutti sanno, ormai, che se non riparte il Meridione non riparte nemmeno il resto del Paese».

Colao, Giavazzi, Gorno: così il partito del Nord vince alla corte di Draghi. Da Brescia a Bergamo la Lombardia e i suoi ceti produttivi arrivano a Roma e si fanno governo. Nella stessa filiera, in quota Lega, anche Giorgetti. Roberto Mania su La Repubblica il 25 febbraio 2021. C’è una Bre-Be-Mi (politica) che arriva fino a Palazzo Chigi. Come l’autostrada A35 parte da Brescia, passa da Bergamo, arriva a Milano e dintorni ma poi (quella politica) scende giù, nel cuore del potere romano. Con l’arrivo di Francesco Giavazzi, come consigliere economico del presidente Mario Draghi, si rafforza l’asse del Nord e soprattutto l’asse lombardo del governo. Giavazzi è di Bergamo, Vittorio Colao, ministro dell’Innovazione e della transizione digitale, è di Brescia, Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, è di Milano, Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, arriva da Cazzago Brabbia nel varesotto. E poi Giovanni Gorno Tempini, anche lui di Brescia, presidente della Cassa depositi e prestiti, crocevia di economia, politica, partiti e finanza, e sempre meno la “vecchia” banca del risparmio postale. Prende forma così un nuovo soggetto di potere molto trasversale, nel quale il tratto distintivo è l’appartenenza al territorio lombardo, con la sola eccezione del romano Mario Draghi che però è il regista di questa operazione. Comunanza di sensibilità, percorsi professionali paralleli, incroci. Ci sono l’Università Bocconi, la cultura di impresa, le banche, l’innovazione tecnologica, l’integrazione europea e la globalizzazione con le sue lunghe filiere produttive. Dopo anni di discussione intorno alla scarsa rappresentanza politica del Nord, dopo la “questione settentrionale” intensa come il malessere dei ceti produttivi incompresi dalla politica romanocentrica e pronti, per ripicca, a cavalcare la rivolta lega-populista, la Lombardia si fa governo, forte di quel 25% circa di Pil nazionale. Il Pil pro capite in Lombardia (ultimi dati dell’Istat) è di 39,7 mila euro, la prima regione del Mezzogiorno è l’Abruzzo con 25,1 mila euro. Nel governo a trazione settentrionale ci sono 18 ministri nordici su un totale di 23. C’è un filo conduttore in questa storia e si chiama Next Generation Eu. Ci sono 209 miliardi, di cui 82 a fondo perduto che l’Europa, cioè, non vorrà restituiti. Debito comune, un salto senza precedenti nella politica dell’Unione in cui in Nord italiano si sente profondamente integrato. Con le aziende, medie e grandi ma anche le piccole della fornitura, connesse con l’industria tedesca di alto valore aggiunto. Imprese internazionalizzate e che meglio hanno resistito alla pandemia. Secondo un sondaggio di Bankitalia la perdita di fatturato delle imprese manifatturiere è stato sensibilmente inferiore per quelle inserite nei processi della produzione globale: intorno al 13,7% contro il 30% di quelle con lo sbocco al solo mercato domestico. A Brescia, dove sono nati il manager-ministro Colao e il finanziere Gorno Tempini, esponente di quel che è stata la finanza bianca di rito bazoliano, l’industria esporta oltre il 60%. Il mercato italiano è minoritario. I due bresciani Colao e Gorno Tempini sono talmente amici che il primo è stato testimone di nozze del secondo. E poi condividono in maniera profonda l’esperienza formativa nei Carabinieri. Dunque le risorse del Recovery Fund per la trasformazione digitale ed eco-sostenibile, questioni strategiche, insieme a quella dell’aggiornamento infrastrutturale, per l’apparato produttivo nazionale con tutti gli effetti sul modello di sviluppo, proprio come chiede Bruxelles. Draghi ha affidato la gestione al ministero dell’Economia, dove Daniele Franco è un suo fedelissimo ma anche un bellunese. Oltre che tecnici, i ministri che riscriveranno il Recovery plan, disegnando l’Italia del futuro, sono nordici, con la sola eccezione del romano Enrico Giovannini (Infrastrutture): Franco, Colao, Cingolani. Assistiti dal professor Francesco Giavazzi. E poi Giancarlo Giorgetti, l’uomo del ripensamento europeista della Lega salviniana a vocazione nazionale. Il leghista bocconiano, che piace agli industriali e che dà del tu a Draghi, ha riportato — nei fatti — la Lega nel suo alveo territoriale tradizionale. Sì, certo Salvini ha allargato come non era mai accaduto l’area geografica del consenso al Centro e al Sud, ma la constituency leghista resta ancora il Nord. Dove i piccoli imprenditori non avrebbero capito — di fronte alla richiesta di un governo di ricostruzione nazionale — una Lega all’opposizione fuori dalla gestione delle risorse europee. «Non c’è sovranità nella solitudine», ha detto Draghi pensando alla cacofonia del sovranismo anti-euro. Salvini continuerà ad alzare la voce, ma è prevalsa la linea Giorgetti. E la Bre-Be-Mi politica ha aumentato le corsie con il lombardo Bruno Tabacci a fare il sottosegretario al coordinamento della politica economica. Il nuovo potere lombardo.

CANCELLARE LE VERGOGNE. Non sono tollerabili 540 euro pro capite per un abitante di Bolzano e 22 euro per chi abita in Calabria. Il punto delle distorsioni territoriali della spesa pubblica va chiarito. Perché non c’è futuro se prima non si fa l’operazione verità. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 23 febbraio 2021. Non sono tollerabili 540 euro pro capite per un abitante di Bolzano e 22 euro per chi abita in Calabria. La prova del nove l’avremo quando andremo a verificare quanta quota del Recovery Plan andrà al Mezzogiorno per ogni singola missione. Attenzione, però, nella concertazione del fare di cui ha vitale bisogno questo Paese per combattere il virus e fare ripartire l’economia il punto delle distorsioni territoriali della spesa pubblica va chiarito. Perché non c’è futuro se prima non si fa l’operazione verità. FATE presto. Fate bene. Il Paese ha bisogno di tornare a sperare. Se non volete sprecare tempo per decidere bene cosa fare vi consiglio la lettura dell’ultimo rapporto dell’Istat sulla spesa dei Comuni per i servizi sociali. Gli abitanti della provincia di Bolzano ricevono pro capite 540 euro, gli abitanti della Calabria sempre pro capite hanno 22 euro. La spesa media nazionale per abitante è pari a 124 euro che diventano 58 di media per i cittadini del Mezzogiorno. Che sempre come media percepiscono un terzo di quanto (177 euro) riceve pro capite ogni cittadino del Nord Est (Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto). Se non avete ancora capito qual è il quadro reale della situazione, allora rendetevi conto che la spesa sociale media dei Comuni più grandi del Mezzogiorno (96 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli del Nord (119 euro). Quali sono le leggi dell’etica prima di quelle dell’economia che consentono una simile vergogna non è dato sapere. Quello che è certo è che parliamo di spesa pubblica di un Paese superindebitato che continua a regalare a chi sta meglio e taglia all’inverosimile la spesa per i servizi educativi, gli asili nido, l’assistenza domiciliare agli anziani proprio in quei territori meno ricchi che di questi servizi hanno maggiormente bisogno. Che tipo di società e di sviluppo si può immaginare in quelle grandi e piccole periferie urbane del Mezzogiorno dove non esiste un asilo nido pubblico, una mensa scolastica pubblica e quasi sempre nemmeno un ospedale pubblico degno di questo nome? Come si può concepire lo sviluppo del turismo stanziale in luoghi bellissimi del nostro Mezzogiorno se il contesto ambientale è così drasticamente penalizzato alla voce servizi sociali per non parlare di scuola, banda larga ultra veloce, ospedali, treni veloci e così via? Non credo che qualcuno possa mettersi a discutere i numeri dell’Istat e non voglia cadere nel ridicolo di fronte all’Europa che sarà costretta suo malgrado a scoprire che nel cuore dell’Italia c’è un’area estesissima di territori e di popolazione dove sono negati i diritti di cittadinanza e gli standard minimi di civiltà. Abbiamo già detto ieri con chiarezza che occorre fare presto e bene con una visione di lungo termine. Abbiamo sottolineato dal primo momento che i segnali dati in questa direzione da Mario Draghi indicano nei contenuti e nel metodo ciò che serve per cambiare rotta. Fiducia reciproca tra funzionari dello Stato, controlli preventivi, controlli intransigenti ma rapidi. Di questo, non di altro, ha bisogno la politica italiana per sbloccare gli investimenti pubblici produttivi e alimentarne altrettanti di privati nazionali e internazionali, fare buona spesa sociale e fare davvero la Nuova Ricostruzione. Che vuol dire uscire dalla trappola delle emergenze per dare risposte che durano a partire dalla crisi dei vaccini e delle tante crisi economiche a questa crisi collegate. Per ciò la prova del nove la avremo quando andremo a verificare quanta quota del Recovery Plan nell’ambito di ogni singola missione (green, digitale, scuola, infrastrutture e così via) sarà destinata al Mezzogiorno secondo un’idea chiara di sviluppo dell’intero Paese e rispettando i criteri di equità territoriale e di genere previsti dal regolamento europeo. Per capirci, ci saranno solo i progetti per i porti di Trieste e di Genova o anche quelli per Taranto, Gioia Tauro e così via? Nella prima bozza c’era pressoché nulla (per il Sud si parlava di banchine turistiche). Poi c’è stato un importante intervento di correzione del Tesoro e la seconda bozza del governo Conte è migliorata. Ora bisogna ancora rafforzare e vigilare perché non si scenda sotto il 50% in tutte le singole missioni. Ovviamente i progetti devono essere credibili, migliorati e aggiustati. Attenzione, però, senza cambiare i criteri di riparto della spesa sociale per gli enti locali e per le Regioni non andiamo da nessuna parte. Questi criteri non si possono continuare a basare sulle capacità fiscali dei territori mascherate dietro il grimaldello della spesa storica, ma devono contemperare il disagio sociale, definire i livelli essenziali di prestazione, in breve attuare il principio costituzionale dei diritti di cittadinanza. Se no i soldi continueranno a andare dove ci sono più soldi e, cioè, Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, e a chi non ha niente andrà sempre meno. Il suicido economico del Paese parte da qui, parte dalla miope irresponsabilità del federalismo dei ricchi e dalle intollerabili coperture della Conferenza Stato-Regioni a questi soprusi. Nella concertazione del fare di cui ha vitale bisogno questo Paese per combattere il virus con una nuova macchina pubblica e fare ripartire l’economia questo punto va chiarito. Perché non c’è futuro se prima non si fa l’operazione verità.

SUDISMI - La cittadinanza negata, il primo gap che nega la speranza ai giovani del Sud. Cosa chiederebbe un ragazzo di Canicattì al premier? Cure migliori, scuole adeguate, diritto alla mobilità, un lavoro senza dover emigrare. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 23 febbraio 2021. Il programma del Recovery plan dovrebbe passare da un mantra che dovrebbe ritrovarsi in tutte le sue parti. I Paesi sono due, per reddito pro-capite, per speranza di vita, per tasso di natalità, per tasso di occupazione, per infrastrutturazione, per export pro capite, per diritto alla salute, all’istruzione, quindi compito primo di un Governo è procedere all’Unità d’Italia economica e sociale, finora mai compiuta. Infatti proviamo ad immaginare cosa chiederebbe al Presidente Draghi un ragazzo, nato nel 2005 a Canicattì visto che parliamo di Next Generation. Credo che la prima richiesta possa essere quella di aver garantita la possibilità per sé e per la propria famiglia uguale diritto alla salute di un suo coetaneo nordico. Ne consegue che il primo atto di questo Governo dovrebbe essere quello di riequilibrare le risorse destinate per la sanità ad ogni cittadino italiano, evitando quello che é stato denunciato dal nostro Quotidiano, e mai smentito, che per ogni cittadino venga riservata una diversa somma a seconda della residenza anagrafica. Il Presidente dovrebbe avere l’obiettivo di far ricredere il giovane siciliano della convinzione che nascere a Canicattì non é una disgrazia del fato cinico e baro. La seconda richiesta dovrebbe essere quella di avere una buona formazione, a cominciare da un asilo nido, per gli eventuali suoi figli, che possano consentire alla futura moglie di lavorare. Certo il Paese potrà dare quello che si può consentire, ma il giovane forse potrebbe pretendere di avere lo stesso trattamento, o perlomeno uno simile, a quello del suo amico nordico. Bene sembrerebbe strano in un Paese che ciò non avvenga, anche la Costituzione lo afferma nella totalità dei suoi articoli, ma ancora oggi tale principio non é attuato, per questo sarebbe un compito di un esecutivo di salvezza procedere. La terza richiesta potrebbe essere di avere lo stesso diritto alla mobilità. Di potersi muovere all’interno della sua Regione, e del Paese con la stessa facilità con la quale ciò avviene nelle altre parti. Ma quello che sicuramente chiederà è che abbia la stessa possibilità, a parità di potenzialità e preparazione, di trovare un posto di lavoro in un ambito territoriale circostante. Le stesse possibilità del suo coetaneo lombardo. La mobilità è un valore. Ma che debba emigrare per forza e che l’unica opzione sia quella, certo no. Il nostro giovane canicattinese tra 4-5 anni, al compimento degli studi ed al conseguimento della laurea, sarà come quel cacciatore che va in un bosco, aiutato o no dal navigator, per cercare una selvaggina che non c’è. Certo se vorrà fare l’astronauta non potrà pretendere di restare nel suo paesello, dovrà andare a Houston e se vuole vincere il Nobel della fisica forse é meglio che faccia l’M.I.T. Ma se invece vuole guadagnare i suoi 1.500 euro ed ha una laurea forse può pretendere che abbia qualche opzione di lavoro, vicino casa. Perlomeno che ne abbia simili, più o meno, al suo coetaneo. Ed invece sa bene fin dalla sua scelta universitaria che non avrà alcuna possibilità e che é meglio che si iscriva ad un ateneo del Nord per avere qualche possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro, se non vuole diventare un NEET o ricorrere al reddito di cittadinanza. E sono 3 milioni coloro che oggi nel Sud sono in queste condizioni. Se poi sei una ragazza questa problematica è ulteriormente aggravata. Qualcuno può dire che per raggiungere questo obiettivo non serve un SuperMario ma un Superman. E probabilmente non sarà un Recovery plan che potrà eliminare le differenze che si sono stratificate, frutto di politiche che risalgono all’Unita d’Italia. Quello che si può chiedere è che tale problematica sia quella che ispira l’azione del Governo, che essendo a prevalenti professionalità settentrionali potrebbe avere qualche difficoltà a percepire i problemi degli ultimi, magari concentrandosi ancora in una autonomia differenziata, che ha l’obiettivo di cristallizzare una situazione di disparità, certamente non accettabile da una parte che scalpita. Le poche frasi che sono state dedicate da Draghi al Mezzogiorno non confermano né negano che ci sia questa sensibilità. E probabilmente la composizione della sua maggioranza e del suo esecutivo, con sensibilità differenti, non consigliavano di essere più esplicito. Ma le tante relazioni presentate nelle tante occasioni e nei tanti ruoli ricoperti ci fanno essere ottimisti sulle priorità che vorrà dare. Anche perché credo che la convinzione che senza il Sud questo Paese non può competere ad armi pari con gli altri grandi d’Europa è ormai un’idea condivisa da molti, a cominciare dall’Europa stessa. Il timore è che questa sensibilità non là si trova nei grandi quotidiani, nei “maitre a penser“ che imperversano nei talk show, per i quali Eboli è il confine dopo il quale ci sono le colonne di Ercole. Queste le richieste. Tutto il resto come la transizione digitale, la svolta green, il potenziamento delle strutture comunali, l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, le riforme, sono tutti strumenti imprescindibili perché gli obiettivi veri si raggiungano. Perché se anche il Paese dovesse raggiungere questi ultimi e diventasse più ricco senza che la riunificazione del Paese economica e sociale, e l’eliminazione, o per lo meno la diminuzione delle disuguaglianze tanto attesa, avvenisse allora anche il Governo della ripartenza avrebbe fallito il suo vero obiettivo ed i tempi che ci attendono saranno anni difficili.

Paolo Griseri per "la Stampa" il 18 gennaio 2021. Sentivamo la mancanza del vaccino per censo. L'idea di Letizia Moratti, neo assessora della Lombardia, di consegnare più dosi alle regioni che hanno un Pil più alto è di quelle che ci proiettano immediatamente nell'Italia di fine Ottocento. Quando il voto era appannaggio dei più abbienti secondo la teoria per cui chi più ha più decide. Dopo il vecchio slogan «Prima i Lombardi» e la sua versione salviniana «Prima gli italiani», la parabola del centrodestra approda dunque ad un più universale «Prima i ricchi». Così, piatto, senza mediazioni. Tutti gli animali sono uguali, avrebbe detto Orwell, ma di fronte alla siringa, i Paperoni sono più uguali degli altri. A meno che, con astuzia, Moratti non abbia voluto utilizzare il vaccino per spingere gli evasori a dichiarare il loro reddito. Il bastone e la puntura. Quanti accetterebbero?

Da repubblica.it il 19 gennaio 2021. Contributo che le Regioni danno al Pil, mobilità, densità abitativa e zone più colpite dal virus: sono questi i quattro parametri che la vicepresidente e neo assessora al Welfare della Regione Lombardia Letizia Moratti ha chiesto di tenere in considerazione per la ripartizione dei vaccini anti-Covid, con una lettera al commissario Arcuri. Il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, attacca: "Leggo con sconcerto le affermazioni della signora Moratti a sostegno di una distribuzione di vaccini legata al Pil delle diverse regioni. Si fa fatica a credere che si possa subordinare l'uguale diritto alla vita di tutti a dati economici. Si direbbe che siamo a un passo dalla barbarie. La signora Moratti è persona intelligente e civile. Mi auguro che voglia chiarire che si è trattato di un'affermazione non meditata, che non risponde alle sue convinzioni". Sulla questione interviene con una nota anche il movimento "Dema" del sindaco di Napoli Luigi de Magistris: "Dopo la secessione dei ricchi arriva la vaccinazione dei ricchi! Parole inaccettabili quelle pronunciate dalla Moratti che, in un momento storico difficile e complesso come quello che stiamo vivendo, tuonano come un progetto eversivo che mina l’unità e la coesione nazionale. Ancora una volta la Lombardia tenta di mettere a norma il divario tra Nord e Sud, chiedendo risorse vaccinali in funzione della ricchezza dei suoi territori, escludendo i fabbisogni dei cittadini e criteri di equità sociale. Un’idea malsana che viola la Costituzione e si appresta a riservare al Sud ancora atti iniqui e diseguaglianze inaccettabili".

Chiara Baldi per lastampa.it il 20 gennaio 2021. «Io ho già parlato con il commissario Arcuri e gli ho proposto quattro criteri: le zone più colpite, la densità abitativa, il tema della mobilità e il contributo che le regioni danno al Pil. Secondo me questi criteri dovrebbero essere tenuti in considerazione non tanto per modificare la distribuzione dei vaccini perché questo non sarà possibile, ma se non altro per accelerare nei confronti di quelle regioni che corrispondono a questi criteri». A parlare è la neo vicepresidente e assessora al Welfare Letizia Moratti nella riunione coi capigruppo del Consiglio Regionale a cui ha spiegato i nuovi criteri che vorrebbe proporre al commissario per l’emergenza Domenico Arcuri il quale, ha spiegato Moratti, «si è dichiarato d’accordo con alcuni di questi criteri, gli sto preparando una lettera ma ovviamente questo sarà confronto nella conferenza Stato-Regioni». Un audio che smentirebbe Moratti su quanto dichiarato oggi in Consiglio Regionale: «Non ho mai pensato di declinare vaccini e reddito». All’attacco il gruppo del Movimento Cinque Stelle: «Prendiamo atto del fatto che l’assessore Moratti abbia avvertito il bisogno di rettificare l’infelice uscita di ieri pomeriggio. Non comprendiamo invece la necessità di mentire. Nell’audio diffuso da alcune testate giornalistiche, relativo alla riunione dei capigruppo di ieri pomeriggio, l’assessore ha inequivocabilmente legato il criterio del PIL al piano vaccinale. Come peraltro confermato dalle successive parole dello stesso presidente Fontana. Le scuse e il conseguente implicito e immediato ritiro della proposta stessa, che registriamo con ovvia soddisfazione, sarebbero state sufficienti. Vergognarsene al punto di arrivare a mentire, invece non è certo sinonimo di un buon avvio per chi vorrebbe riformare la Sanità in Lombardia», commenta il capogruppo del Movimento Cinque Stelle, Massimo De Rosa, riguardo alla rettifica dell’assessore Letizia Moratti riguardo le dichiarazioni di ieri.

Ettore Livini per repubblica.it il 20 gennaio 2021. Il Pil, alla fine, conta davvero e il vaccino contro il Covid – almeno per ora – è un affare riservato solo ai ricchi. I numeri parlano da soli: al 18 gennaio le dosi somministrate in tutto il pianeta erano 41,39 milioni. Quasi 13 milioni sono state usate negli Usa, 4,5 in Gran Bretagna, 2,6 in Israele, 1,8 negli Emirati arabi. L’unica nazione in via di sviluppo entrata per ora in classifica è la Guinea, dove la campagna di immunizzazione è arrivata a quota 25 iniezioni grazie a una campagna sperimentale con un prodotto russo uscito dai laboratori del Gameleya Institute. E il rischio è che il sovranismo farmaceutico “diventi una catastrofe morale per tutti – ha detto il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus – visto che i giovani e gli adulti sani nella parte più ricca della terra saranno vaccinati prima degli infermieri e degli anziani di quella meno abbiente”. La corsa al vaccino in effetti, con buona pace delle tante parole spese quando la cura contro la pandemia non era ancora disponibile, è diventata una gara dove chi offre di più vince. L’Oms assieme a Gavi Alliance ha provato a mettere assieme Covax, una sorta di centrale di acquisti comune per comprare le dosi e distribuirle in modo equo in tutto il mondo. L’idea era di riuscire a smistare da questa stanza dei bottoni 2 miliardi di vaccini entro il 2021, ma il traguardo è molto lontano. Le donazioni e gli stanziamenti nazionali (l’Europa ci ha messo 400 milioni, l’Italia 103, la Gran Bretagna 750) sono stati di molto inferiori alle attese con gli Usa per ora alla finestra. Quelle private – con la Fondazione Gates in testa – sono arrivate con il contagocce. “E le grandi case farmaceutiche hanno fatto la gara per farsi approvare i farmaci dalle nazioni più ricche senza chiedere l’ok all’Oms” accusa Ghebreyesus e soddisfano subito le richieste di chi è in grado di pagare in contanti. La speranza dell’organizzazione è di riuscire a inviare le prime dosi nei paesi più fragili a fine marzo grazie a un accordo con Pfizer. E anche l’Europa, dopo la tirata d’orecchi, sembra pronta a muoversi per garantire una copertura universale più ampia. Bruxelles ha già ordinato 2,3 miliardi di dosi dalle società che stanno studiando i vaccini. L’idea è di girare quelle in surplus ai Balcani e all’Africa “studiando un meccanismo con i paesi membri”, ha detto il commissario alla salute Stella Kyriakides. Dosi che potrebbero arrivare in anticipo rispetto a quelle promesse da Covax. Il grande assente in questo sforzo di vaccinazione planetaria sono gli Stati Uniti che sotto la presidenza di Donald Trump hanno boicottato tutte le iniziative dell’Oms. Un approccio che molti sperano ora possa cambiare con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden.

Letizia Moratti, la sua proposta sui vaccini in base al Pil è già realtà nel mondo. Le Iene News il 19 gennaio 2021. Una proposta della neo vicepresidente della Lombardia ha acceso le polemiche: “Distribuire i vaccini tra le regioni anche in base al contributo che danno al Pil”. Un’idea che ha causato più di una polemica, ma che purtroppo nel mondo sta già avvenendo: se continueremo su questa strada però non ci libereremo mai della pandemia. “Distribuire i vaccini per il coronavirus tra le regioni anche in base al contributo che danno al Pil”: la proposta della neo vicepresidente della Lombardia Letizia Moratti ha sollevato un’enorme polemica politica. In molti hanno reagito in maniera sdegnata, a partire dal ministro della Salute Roberto Speranza: “Tutti hanno diritto al vaccino indipendentemente dalla ricchezza del territorio in cui vivono”, ha scritto su Twitter. Ma è davvero così? Oppure quello che ha proposto Letizia Moratti per le regioni italiane in realtà sta già avvenendo in tutto il pianeta? Nella lunga corsa alla vaccinazione contro il coronavirus infatti ci sono paesi che vanno più veloci, altri più lenti, altri ancora che zoppicano. Ve ne abbiamo parlato solo ieri qui, analizzando le cause di questi diversi ritmi. Però ci sono paesi che a questa corsa non sono nemmeno stati invitati, e sono proprio i più poveri del mondo. L’allarme lo ha lanciato ieri - in una strana coincidenza temporale con le dichiarazioni di Letizia Moratti - l’Organizzazione mondiale della sanità: “Nei paesi poveri del mondo sono state somministrate solamente 25 dosi di vaccino”. Venticinque, tra l’altro tutti distribuiti in Guinea, tutti provenienti dalla Russia. Una delle persone vaccinate è il presidente del paese. Per dare meglio l’idea del contrasto, nei paesi del mondo ad alto reddito sono state somministrate più di 40 milioni di dosi. Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom, ha usato parole durissime per condannare questo scempio: “Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con le vite dei cittadini più poveri del mondo. Non è giusto che i giovani in salute nei paesi poveri siano vaccinati prima dei medici e degli anziani dei paesi poveri”, ha aggiunto Adhanom. La ragione di questo scempio purtroppo è semplice: i paesi ricchi hanno stretto accordi economici importanti con le case farmaceutiche attualmente autorizzate a commercializzare i loro vaccini, e la penuria di dosi in tutto il mondo ne ha causato l’indirizzamento solamente verso chi può fare la migliore offerta. L’allarme per la distribuzione dei vaccini è stato lanciato già a dicembre da Oxfam e da Amnesty International: secondo un report delle due associazioni, il 90% degli abitanti di 67 paesi a reddito medio o basso non avranno accesso al vaccino contro il coronavirus. I motivi sono due: i vaccini costano troppo e i paesi ricchi del mondo ne hanno comprato quasi interamente la disponibilità per tutto il 2021. I paesi ricchi del mondo, ricorda Amnesty, rappresentano il 14% della popolazione e hanno già comprato il 53% delle dosi di vaccino che dovrebbero essere disponibili nel 2021. Guardando solo i prodotti di Pfizer e Moderna, gli unici due già approvati dalla maggior parte dei paesi ricchi, il dato sale al 95%. E così mentre i ricchi potranno vaccinarsi varie volte (il Canada ha già opzionato dosi sufficienti a vaccinare cinque volte la popolazione), ci sono miliardi di persone che per adesso sono rimaste fuori e potrebbero morire a decine di migliaia. Tra i paesi esclusi ce ne sono cinque dove si sono registrati oltre due milioni di casi: Kenya, Nigeria, Ucraina, Pakistan, Myanmar. E con loro altri 64 paesi che nel 2021 potrebbero non vedere nemmeno una singola dose di vaccino. Cosa rischiamo però se il sistema continuasse così, e i vaccini fossero davvero distribuiti in base al Pil dei singoli paesi? Semplice: non ci libereremmo mai della pandemia di coronavirus. Se il virus continuasse a circolare liberamente in questi paesi, che sono abitati da miliardi di persone, continuerebbe a trovare un modo per entrare anche nei paesi ricchi: gli stretti rapporti commerciali e i movimenti di persone sarebbero veicoli perfetti per il Covid-19 per girare indisturbato per tutto il pianeta. Esattamente come accaduto all’inizio della pandemia. Inoltre è plausibile pensare, date le conoscenze attuali sui virus, che il contatto tra persone non vaccinate e vaccinate spingerebbe il Covid-19 a mutare per poter contagiare di nuovo chi è protetto. E nel mondo globalizzato contemporaneo è impossibile immaginare di chiudersi completamente al contatto con i paesi dove la campagna vaccinale rischia di non partire mai. Nel caso italiano, il dato è ancora più chiaro guardando ai numeri degli immigrati regolarmente residenti sul nostro territorio: soltanto da Ucraina, Pakistan e Nigeria - tre dei cinque paesi citati sopra - sono 485mila. Negli ultimi dieci anni, sono arrivate 197mila persone da questi tre paesi. Un calcolo che prende in considerazione solo tre paesi e solo gli immigrati regolari: allargando lo sguardo agli altri stati e anche ai migranti irregolari, il numero cresce di molto. Insomma, i rischi nell’escludere i paesi poveri del mondo dalla vaccinazione contro il coronavirus sono enormi per tutti, non solo per loro. Non c’è un minuto da perdere nel distribuire equamente le dosi in tutto il pianeta, non solo perché la salute è un diritto umano che non dovrebbe essere messo a rischio a causa del reddito, ma anche perché è nell’interesse di tutti noi.

Vaccini in base al Pil, la Moratti ha sdoganato l’assurda idea di molti. Giulio Cavalli su Notizie.it il 19/01/2021. Non di sola Moratti muore la dignità in tempi di pandemia: si chiama capitalismo ed è l’olio che lubrifica il mondo e che schiaccia gli oppressi. Eccola qua la sciura Letizia Moratti, la milanesissima borghesissima ex sindachissima che ha sempre amministrato le cose pubbliche come se fossero il suo salotto, quella che divide il mondo in ricchi e poveri, in privilegiati che la politica deve continuare a preservare e in fastidiosi bisognosi di cui disfarsi per non rovinare il mobilio. La vice presidente e assessora che non avrebbe dovuto far rimpiangere Gallera (e non era difficile, viste le sciagurate gesta del predecessore) ha partorito la fulminante idea di assegnare il vaccino prima alle regioni che producono più Pil e senza nemmeno rendersi conto della castroneria che le frullava per la testa ha preso carta e penna ed è riuscita a scriverla nero su bianco in una lettera inviata al commissario Arcuri. Avrà pensato, la gerarca Moratti, che il soldo sia sempre un motivo valido per stabilire le priorità, del resto quella è la sua forma mentis, e che non ci fosse nulla di male nell’avere il coraggio di dire quello che, soprattutto in Lombardia, in molti hanno messo in pratica in questi mesi di pandemia in cui la chiusura delle fabbrichette della Val Seriana terrorizzavano la classe dirigente molto di più della fila di camion militari che svuotavano la bergamasca dalle vittime del virus. In sostanza la differenza tra Letizia Moratti e gli imprenditori e i politici d’assalto sta solo nell’aver scritto quelli che molti altri pensano e non dicono, una leggerezza che si può perdonare all’ex sindaca che ingolfò il comune di Milano di super consulenze ai suoi amici degli amici, che cambiò le regole per permettere al figlio di costruirsi una Bat-caverna in città e che accusò il suo sfidante Giuliano Pisapia di un reato che non aveva mai commesso in diretta televisiva. Letizia Moratti è così, con quella sicumera che accompagna sempre i prepotenti che si considerano impunibili, coloro che si ritengono sovversivi e riformisti perché hanno il coraggio di scoperchiare le schifezze che gli altri non hanno nemmeno il coraggio di pensare. E chissà se vale davvero la pena ricordare ai tanti Moratti che ci sono in giro l’articolo 32 della Costituzione, quello che dice chiaramente che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” e che soprattutto in Lombardia viene calpestato giorno dopo giorno, da decenni, perfino sventolato, qui dove sono fieri di avere regalato un pezzo del SSN ai privati più ingordi per trasformare i pazienti in clienti, la salute in profitto e gli ospedali in un covo di lupi che inseguono il fatturato con la bava alla bocca. Però non di sola Moratti muore la dignità in tempi di pandemia e sarebbe riduttivo e miope prendersela solo con lei. Il pensiero della Moratti lo abbiamo annusato in questi mesi nelle richieste più o meno velate di chi proponeva di curare con meno foga gli anziani perché improduttivi, chi proponeva magari di chiuderli in casa, chi se la prende con i virologi colpevoli di “terrorizzare gli italiani” e di fare scendere i consumi: è la stessa architettura di idee di chi dice che “se muore qualcuno, pazienza” ma l’importante è che non scenda il fatturato. Nasci, cresci, fattura, spendi e crepa; e se non fatturi e se non spendi allora crepa prima perché non sei funzionale al sistema: la Costituzione non scritta che indirizza certa destra è da anni questa cosa qui, che poi ha un nome e un cognome, si chiama capitalismo ed è l’olio che lubrifica il mondo e che schiaccia gli oppressi. C’è anche un altro piccolo particolare che varrebbe la pena sottolineare: mentre noi siamo qui a discutere delle beghe morattiane nostrane nei Paesi più poveri del mondo (lo dice l’OMS) sono state vaccinate 25 persone, 25 persone in tutto. Forse il problema è un po’ più vasto della semplice Lombardia.

Il Paese che non ama. Mauro Munafò su L'Espresso il 19 gennaio 2021. È questa qui la destra italiana. Ed è sempre stata così. Grazie Letizia Moratti, te lo dico davvero. Grazie. Grazie perché la tua ultima uscita permette ancora una volta, e senza ipocrisie e mezze misure, di ricordare a tutti gli smemorati che cosa è la destra in Italia. La neo assessora in Lombardia ha infatti messo per iscritto un'assoluta ovvietà, un pensiero in perfetta continuità e coerenza con quanto questa parte politica predica e realizza da anni nel nostro Paese.  Secondo Moratti infatti, i vaccini devono essere distribuiti tenendo in considerazione anche quanto una regione contribuisce al Pil. Tradotto: la Lombardia che è una regione più ricca, deve averne di più e prima degli altri. È questa, e lo è da sempre, l'unica dottrina politica che anima le destre: il dio denaro. I ricchi hanno ragione, i poveri hanno torto. Non è una gaffe, tanto che qualche mese fa le stesse identiche cose le aveva dette anche un leghista, l'europarlamentare Angelo Ciocca, che aveva chiesto proprio di far arrivare i vaccini prima in Lombardia perché i lombardi "producono" di più. Le persone annullate e appiattite su un solo parametro: quanto possono produrre, quanta ricchezza possono generare, quanti soldi possono far girare. E quindi, come rovescio della medaglia, la povertà come colpa, la disoccupazione come incapacità, la vita ridotta alla sola dimensione del Pil. E allora di cosa ci stupiamo oggi, di cosa ci stiamo indignando esattamente? Lo scempio della sanità privata nelle ricche regioni del Nord, i soldi che girano sempre nelle tasche delle stesse persone (leggere la precisa inchiesta di Gianfrancesco Turano sul tema) non erano abbastanza? A quanto pare no. E allora grazie ancora assessora Moratti per avercelo ricordato.

La sanità in Lombardia resta un affare di Silvio Berlusconi e dei suoi amici. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 18 gennaio 2021. San Donato, Humanitas, Maugeri: sono i tre colossi delle cliniche private fanno decine di milioni di profitti all'anno grazie agli accrediti regionali. Alla guida ci sono uomini vicini al leader di Forza Italia e fra gli azionisti abbondano finanziarie estere e fondi. Per questo, dopo l'addio di Gallera, la poltrona è andata a un'altra berlusconiana di ferro: Letizia Moratti. La Lombardia si divide in tre parti. Milano, in mano a un moderatissimo centrosinistra. Il resto della regione, in mano alla Lega. E la sanità, gestita negli ultimi quarant’anni da un uomo più noto per le tv private, per i successi calcistici e per le sue discese in campo: Silvio Berlusconi. Naturalmente è una gestione indiretta, non è che può fare sempre tutto lui. Ma assessori e imprenditori della sanità privata portano il suo marchio. Il ritorno di Letizia Brichetto, vedova del petroliere Gianmarco Moratti nominata da Attilio Fontana dopo gli altrettanto forzisti Giulio Gallera e Mario Mantovani, conferma e garantisce il modello che sostiene gli accordi interni al centrodestra. I circa 20 miliardi annui di fondi della sanità, il piatto più ricco fra le regioni italiane, devono essere gestiti dagli uomini di Silvio a prescindere dai risultati elettorali di Forza Italia, in costante declino rispetto ai consensi salvinisti.

Il Nord non solo riceve più soldi per gli ospedali, adesso vuole pure più vaccini degli altri. Lo squilibrio, da quasi 20 anni, a favore delle Regioni del Nord. Nel 2020 per ogni calabrese lo Stato ha speso 1.800 per il settore sanità, contro i 1.935 del Piemonte. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 20 gennaio 2021. Nel 2020, per ogni calabrese, mediamente, lo Stato ha speso 1.800 per il settore sanità, contro i 1.935 destinati ad un piemontese, i 1.916 che ha “ricevuto” un friulano o i 1.880 destinati ad un lombardo. Le Regioni del Nord, da ormai quasi 20 anni, ricevono maggiori attenzioni nel campo sanitario e non solo, riuscendo ad ottenere, grazie ad iniqui criteri di suddivisione del fondo sanitario nazionale, quote di trasferimento maggiore. Adesso, la neo assessora alla Sanità della Lombardia, Letizia Moratti, vorrebbe che venisse data precedenza nella distribuzione dei vaccini anti Covid alle regioni con un Pil più alto. Inutile dire che ad essere “premiato” sarebbe ancora una volta il Nord: secondo i dati Istat, la Provincia autonoma di Bolzano con un Pil per abitante di 48,1 mila euro è la più ricca, seguono proprio Lombardia (39,7mila euro) e Valle d’Aosta (38,8mila euro). Con 36,8mila euro nel 2019 il Nord-ovest resta l’area geografica con il Pil per abitante più elevato, seguono il Nord-est con 35,5mila euro e il Centro, con 32,1mila euro. Il Mezzogiorno, con 19,2mila euro, sarebbe quindi l’area più penalizzata seguendo i criteri suggeriti da Moratti. Anzi, il Sud sarebbe due volte penalizzato, visto che storicamente le Regioni del Mezzogiorno devono fare “le nozze con i fichi secchi”, come denunciato dal governatore pugliese, Michele Emiliano, sabato scorso durante l’inaugurazione del nuovo ospedale Covid in Fiera a Bari. È un dato di fatto certificato da Bilanci e Corte dei Conti che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. Prendete la spesa per investimenti in sanità, da 18 anni è del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali dal 2000 al 2017, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. In termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro. Capitolo riparto fondo sanitario nazionale, anche nel 2020 ha seguito logiche inique: meno risorse al Sud a parità di popolazione. Qualche esempio? Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Più soldi, eppure la Lombardia, con il suo sistema sanitario ospedalocentrico e basato principalmente sull’attività dei privati, non ha brillato durante la gestione della pandemia Covid: la carenza strutturale dei dipartimenti di Salute ha portato quasi al collasso il sistema sanitario lombardo. Anche nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia il Nord: negli ultimi 10 anni proprio la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Si dirà, le Regioni del Nord ricevono più soldi perché le spendono meglio. Falso mito. Tra il 2018 e il 2019, in Italia si è registrato un peggioramento del disavanzo nei conti del settore sanitario del 10 per cento: dai 990 milioni del 2018 si è passati a poco meno di 1,1 miliardi nell’esercizio appena concluso. Un peggioramento – certifica la Corte dei Conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica – da ricondurre “in prevalenza alle regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019”. I giudici contabili stanno parlando proprio delle Regioni del Nord, l’esame dei dati è tratto dai conti economici consolidati.

Emiliano: «Puglia grande come il Veneto ma con la metà degli ospedali». Il governatore contesta la spartizione delle risorse della sanità: «L’Italia non rispetta da anni l’articolo 3 della Costituzione». Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 17 gennaio 2021. «L’Italia nega l’articolo 3 della Costituzione, perché non dà parità di diritto alla salute dei cittadini del Sud rispetto a quelli del Nord Italia. È un dato di fatto che tutti conoscono e tutti fingono di ignorare, un dramma su cui non riusciamo ad attirare l’attenzione. Siamo costretti sempre a fare le nozze con i fichi secchi». Firmato Michele Emiliano. Il presidente della Regione Puglia ieri ha sbottato pubblicamente e volutamente davanti a telecamere e taccuini dei cronisti presenti all’inaugurazione del nuovo ospedale Covid realizzato in appena 45 giorni nella Fiera del Levante di Bari: una mega struttura da 154 posti letti di terapia intensiva, sub intensiva, malattie infettive e pneumologia, attrezzata con due sale operatorie e sala Tac. La soddisfazione per aver portato a termine un’opera importante in tempi stretti ha, però, fatto posto alla rabbia per una situazione che in Italia non cambia e che il nostro giornale denuncia da quasi due anni: le maggiori risorse in campo sanitario, e non solo, che lo Stato continua a riservare alle regioni del Nord rispetto a quelle del Sud per un iniquo metodo di ripartizione del fondo nazionale. Emiliano lo dice pubblicamente e senza peli sulla lingua: «Vi prego aiutateci a denunciare questa cosa – dice rivolgendosi ai giornalisti in sala – la Puglia ha la metà degli ospedali di Regioni con popolazione identica alla nostra. Il Veneto ha il doppio degli ospedali della Puglia con poche centinaia di residenti in più; l’Emilia Romagna ha il doppio del personale sanitario. La Regione Puglia ha un buon equilibrio sanitario ma non è una corazzata come altre Regioni dal punto di vista finanziario, di posti letto e del personale. Questo perché l’Italia nega alle regioni del Sud l’articolo 3 della Costituzione. È un dato di fatto», ribadisce. E i numeri sicuramente sorreggono la tesi di Emiliano: dal 2017 al 2018, ad esempio, la Lombardia ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0.75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise. Lo stesso Veneto nel 2018, rispetto al 2017, ha ricevuto da Roma lo 0,87% in più. Insomma, il Nord continua ad ottenere più soldi rispetto al Sud, è un dato oggettivo e certificato. E’ successo anche durante il 2020: lo Stato italiano per un pugliese ha speso mediamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano. È questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale: alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) ha ricevuto 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Per un campano lo Stato spende 1.827 euro, per un calabrese, appena 1.800 euro, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana. Assumere, costruire nuovi ospedali, investire nei macchinari è molto più facile se si dispone quasi di un miliardo in più all’anno. Un più equo meccanismo di attribuzione delle risorse permetterebbe, ad esempio, alla Puglia di ricevere, mediamente, 250 milioni in più all’anno: è la cifra che l’Emilia Romagna, a quasi parità di popolazione, ha incassato in più dal 2005 ad oggi. Negli ultimi 13 anni ha ricevuto 3 miliardi in più rispetto alla Puglia.

Sanità, il divario Nord-Sud è aumentato. Ma dov'era il ministero della Salute? Mentre in Lombardia, Veneto e Toscana venivano installate le migliori apparecchiature, al Sud medici e infermieri curavano i pazienti con Tac, risonanze obsolete. Curarsi negli ospedali è un affare riservato solo ai più “ricchi”. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 21 gennaio 2021. Lo Stato italiano avrebbe dovuto e potuto, grazie ad un monitoraggio, garantire che le migliori tecnologie e attrezzature in campo sanitario fossero distribuite equamente sul territorio, ed invece ci sono ancora “marcate differenze tra regioni del Sud e quelle del Centro-Nord, con prevalente concentrazione di tali dotazioni strumentali in queste ultime”. E’ ancora una volta la Corte dei Conti, nella relazione sugli “Interventi di riorganizzazione e riqualificazione dell’assistenza sanitaria nei grandi centri urbani” approvata dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato e pubblicata ieri, a bacchettare Roma e i governi centrali che si sono dati il cambio dal 1999 in poi e ad evidenziare che nel campo sanitario ci sono due Italie.

IL DIVARIO SULLA STRUMENTAZIONE OSPEDALIERA. Basta dare uno sguardo alla tabella che riporta i dati riguardanti le installazioni di chirurgia robotica negli ospedali pubblici e privati: in tutta Italia i famosi Robot “Da Vinci” sono 116 ma “il maggior numero è concentrato nelle regioni del centro-nord”, sentenziano i magistrati contabili. Le regioni che presentano il maggior numero d’installazioni sono la Lombardia (25), il Veneto (17), la Toscana (16), il Lazio (10)e il Piemonte (8). Al Sud, invece, sono appena 22, meno di un quarto di quelle nel Centro-Nord, “a conferma, ancora un’altra volta, della marcata differenza di distribuzione sul territorio del Paese di tecnologie così importanti per il settore sanitario/curativo”, sottolinea la Corte dei Conti. Eppure, scrivono sempre i magistrati il “ministero della Salute avrebbe la possibilità di ricavare utili informazioni circa l’età dell’apparecchiatura e la data di collaudo che consentono di effettuare valutazioni dello stato di obsolescenza del parco macchine e quindi di indirizzare le risorse economiche dedicate all’ammodernamento tecnologico verso la sostituzione degli strumenti più vetusti”. Insomma, il ministero avrebbe dovuto vigilare e intervenire indirizzando soldi e investimenti ma non lo ha fatto. Così il divario Nord-Sud è aumentato ancora: mentre in Lombardia, Veneto e Toscana venivano installate le migliori tecnologie e apparecchiature disponibili sul mercato, al Sud medici e infermieri continuavano a curare i pazienti con Tac, risonanze obsolete e malfunzionanti.

I VENTILATORI POLMONARI. Dai Robot Da Vinci ai ventilatori polmonari, macchine salvavita in questa emergenza Covid, il quadro non cambia. “I ventilatori polmonari – ragionano i magistrati contabili – si stanno rivelando preziosi supporti tecnologici nel contrasto alle gravi complicanze indotte dall’infezione da Covid 19. In considerazione dell’importanza del ruolo da essi assunto nei reparti di terapia intensiva, è stato pertanto predisposto dal ministero della Salute uno specifico monitoraggio con lo scopo di verificarne il loro numero nelle strutture sanitarie del Paese”. Ebbene, dalle verifiche il ministero si è accorto che il Centro-Nord disponeva, al 2018, nelle strutture di ricovero di oltre 13mila ventilatori polmonari, il Sud esattamente un terzo, circa 5mila. Nelle strutture sanitarie, invece, il Nord disponeva al 2019 di quasi 500 ventilatori, il Sud di poco più di 100. “Come si può apprezzare – si legge nella relazione della Corte dei Conti – circa il 72 per cento (strutture di ricovero) ed il 75 per cento (strutture sanitarie) di tali attrezzature sono ubicate nelle regioni del Centro-Nord. In rapporto alla popolazione residente (dati Istat 2019) vi è un ventilatore polmonare ogni tremila persone (circa) nel Centro-Nord ed uno ogni quattromila soggetti (circa) nel meridione d’Italia”. Insomma, curarsi è un affare per “ricchi”.

I RITARDI DEL NORD. Eppure, il Nord non è che brilli per rapidità nell’attuazione del “Piano straordinario per la ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario” su proposta del ministero della Salute. Già nel 1999 furono stanziati dallo Stato oltre 774 milioni di euro, somma salita a 1,1 miliardi di euro nel 2006 per ammodernare gli ospedali o costruirne di nuovi. Complessivamente, la somma avrebbe dovuto finanziare originariamente 302 interventi nazionali, diventati poi nel corso del tempo 258, ad oggi quelli conclusi risultano essere 206. “Dal punto di vista operativo – scrivono i giudici – gli stati di avanzamento delle iniziative mostrano alcune regioni, come, in particolare le Marche e il Piemonte, ancora attestate su valori particolarmente bassi; in Calabria non è stato ancora avviato alcun progetto nonostante siano stati già stanziati alla regione tutti i fondi previsti”. Anche la Liguria “presenta difficoltà”. In Piemonte, ad esempio, su 44 interventi finanziati, quelli conclusi sono 19, nelle Marche 11 su 45. «Secondo il ministero – si legge nella relazione – la causa dei riscontrati ritardi per la realizzazione del programma sarebbe da correlare alle varie modifiche progettuali intervenute prevalentemente in conseguenza dell’avvicendarsi del colore politico dei vari governi regionali». «Oggi – prosegue la Corte dei Conti – si osserva come le regioni che presentano maggiori difficoltà al riguardo sono: la Regione Piemonte che presenta la percentuale di realizzazione più bassa tra gli enti territoriali interessati, in quanto impegnata a ricalibrare le proprie scelte e ad indirizzare i fondi disponibili per la risoluzione di problematiche ritenute attualmente più urgenti rispetto a quelle considerate in passato; la Regione Liguria che, contrariamente agli altri enti territoriali che hanno preferito destinare le risorse finanziarie disponibili verso interventi frammentati su più strutture e in più ambiti, ha deciso di concentrare tutte le sue disponibilità finanziarie per un unico intervento riguardante il nuovo ospedale “Galliera” di Genova(circa 41 milioni di euro); la Regione Marche che ha preferito operare una rimodulazione delle relative risorse destinandole solo alla realizzazione del nuovo ospedale “Salesi”. La Corte dei Conti, infine, bacchetta il ministero raccomandandogli “di non limitarsi a svolgere un ruolo di mero finanziatore delle Regioni, ma a sviluppare, nell’espletamento dei suoi compiti, azioni di coordinamento, vigilanza e controllo, al fine di stimolare gli Enti ritardatari a portare a termine il programma».

La vergogna dei viaggi della speranza per curarsi negli ospedali del Nord. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 23 gennaio 2021. Solamente nel 2019, 148.452 residenti in Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Molise si sono spostati verso le regioni del Nord per curarsi. Un esodo. E’ il dato choc che emerge dal “Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero” del ministero della Salute sulla base del numero dei pazienti dimessi dagli ospedali. I “viaggi della speranza” proseguono e hanno un doppio risvolto negativo: causano disagi e problemi a chi deve allontanarsi di casa anche di 800-900 chilometri per tutelare la propria salute; arricchiscono le casse delle Regioni settentrionali e impoveriscono quelle del Meridione, finendo così per allargare la forbice della qualità assistenziale. Basti pensare che solamente alla Puglia, ogni anno, la mobilità passiva costa poco meno di 300 milioni: tanti sono i soldi che la Regione deve tirare fuori per ripagare le cure ricevute dai propri cittadini. E’ la conseguenza diretta di una iniqua ripartizione del fondo sanitario nazionale, che privilegia il Nord da ormai quasi 20 anni, e di un potenziamento infrastrutturale e di macchinari che ha riguardato quasi esclusivamente gli ospedali lombardi, veneti, emiliani, toscani. Come, d’altronde, evidenziato dalla Corte dei Conti mercoledì scorso nella relazione sugli “Interventi di riorganizzazione e riqualificazione dell’assistenza sanitaria nei grandi centri urbani” approvata dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni. Lo Stato italiano avrebbe dovuto e potuto, grazie ad un monitoraggio, garantire che le migliori tecnologie e attrezzature in campo sanitario fossero distribuite equamente sul territorio, ed invece ci sono ancora “marcate differenze”. Ad esempio, in tutta Italia i famosi Robot chirurgici “Da Vinci” sono 116, ma “il maggior numero è concentrato nelle regioni del centro-nord”, sentenziano i magistrati contabili. Le regioni che presentano il maggior numero d’installazioni sono la Lombardia (25), il Veneto (17), la Toscana (16), il Lazio (10)e il Piemonte (8). Al Sud, invece, sono appena 22, meno di un quarto di quelle nel Centro-Nord, “a conferma, ancora un’altra volta, della marcata differenza di distribuzione sul territorio del Paese di tecnologie così importanti per il settore sanitario/curativo”, sottolinea la Corte dei Conti. Se le migliori strumentazioni si trovano negli ospedali del Nord, l’esodo dal Sud è una naturale conseguenza. Così, accade che in Basilicata, nel 2019, il tasso di mobilità passiva – cioè la percentuale di ammalati che sono stati assistiti fuori regione rispetto al totale dei pazienti – si attesta al 24,7%, in Molise addirittura al 28,6% e in Calabria al 19,6%. Si “salvano”, si fa per dire, Puglia (9%) e Campania (9,7%). Basti pensare che il tasso di mobilità passiva in Lombardia è appena del 4,5%, quello fisiologico in sostanza, in Emilia Romagna del 5,7%, in Veneto del 6,1%, in Toscana del 6,3%, in Piemonte del 6,6%. Unica eccezione al Nord è rappresentata dalla Liguria, che presenta un tasso di mobilità passiva elevato, pari al 13,5%. I pugliesi che si sono recati fuori regione per risolvere un problema di salute sono stati 38.095, i campani 52.178, i calabresi 35.538, i lucani 13.698 e i molisani 8.943. A fare da polo di attrazione sono cinque regioni: la Lombardia in primis che ha assistito 113.396 pazienti arrivati da altre aree d’Italia; seguono l’Emilia Romagna (80.449), il Lazio (43.116), Veneto (43.026) e Toscana (36.670). Le Regioni del Sud, invece, sono quasi tutte in coda della classifica della mobilità attiva: la Campania nel 2019 ha curato solo 14.670 ammalati provenienti da altre zone, il 2,9%; la Puglia 19.427 (4,8%), la Calabria 3.846 (2,6%). La Basilicata ha una discreta mobilità attiva, sono stati 8.272 gli ammalati provenienti da altre regioni assistiti, però oltre 7.400 sono pugliesi, campani e calabresi. Eppure, sottolinea la Corte dei Conti, sarebbe bastato maggiore controllo per evitare di creare due Italie: il “ministero della Salute – dicono i giudici – avrebbe la possibilità di ricavare utili informazioni circa l’età dell’apparecchiatura e la data di collaudo che consentono di effettuare valutazioni dello stato di obsolescenza del parco macchine e quindi di indirizzare le risorse economiche dedicate all’ammodernamento tecnologico verso la sostituzione degli strumenti più vetusti”. Insomma, il ministero avrebbe dovuto vigilare e intervenire indirizzando soldi e investimenti ma non lo ha fatto. Così il divario Nord-Sud è aumentato ancora: mentre in Lombardia, Veneto e Toscana venivano installate le migliori tecnologie e apparecchiature disponibili sul mercato, al Sud medici e infermieri continuavano a curare i pazienti con Tac, risonanze obsolete e malfunzionanti.

La beffa del governo: gli sgravi per il Sud sono un affare per le aziende del Nord. Stefano Iannaccone su Notizie.it il 27/01/2021

La beffa del governo: gli sgravi per il Sud sono un affare per le aziende del Nord. “Una beffa - osserva a Notizie.it il deputato di Forza Italia, Sestino Giacomoni - Le aziende del Sud non ne avranno diritto se l’Apl ha la sede centrale al Nord". Le buone intenzioni non mancano di certo. Il problema è che nell’atto dell’applicazione c’è il sapore della beffa. A danno del Mezzogiorno e a favore delle realtà produttive del Centro-Nord. La decontribuzione Sud, misura fortemente voluta dal ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, rischia di diventare già monca per la circolare dell’Inps che nei fatti depotenzia il provvedimento. Lasciando migliaia di aziende appese. Ma cos’è, nello specifico, questo intervento? Si tratta di uno sgravio sui contributi del 30% per garantire la stabilità dell’occupazione al Sud, stimolando la crescita di posti di lavoro grazie al beneficio fiscale. Il beneficio, tuttavia, può essere cumulato ad altri esoneri o alla riduzione delle aliquote di altri provvedimenti. Su tutti ad esempio, l’incentivo all’assunzione degli over 50 disoccupati da almeno 12 mesi o gli stimoli per assumere i giovani. Come è evidente fin dal nome del testo, c’è una precisa delimitazione geografica: le regioni interessate sono Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia. Tutto apprezzabile, dunque. Ma un cavillo fa cadere il castello di carte, costruito sotto l’etichetta della fiscalità di vantaggio. La questione riguarda il lavoro in somministrazione, quello che prevede il coinvolgimento delle agenzie per il lavoro in sede di assunzione. E in ballo c’è qualsiasi tipologia di contratto, sia a tempo determinato che indeterminato. Si parla, insomma, di migliaia di casi, non proprio una roba per pochi intimi. Il nodo è stato creato a inizio gennaio, con un documento di chiarimento pubblicato dall’Inps sul tema del lavoro in somministrazione. “L’esonero spetta ai datori privati la cui sede di lavoro (anche sede secondaria o unità operativa) sia ubicata in una delle regioni cosiddette svantaggiate”, si legge nella nota dell’Istituto di previdenza. Quindi, aggiunge l’Inps, “il beneficio non è riconoscibile quando il lavoratore in somministrazione, pur svolgendo la propria attività in unità operative dell’azienda ubicate in quelle aree, sia formalmente incardinato presso un’agenzia di somministrazione situata in una regione diversa da quelle dove si può usufruire dello sgravio”. Cosa si nasconde dietro il linguaggio burocratico? “Una beffa”, osserva il deputato di Forza Italia, Sestino Giacomoni, che ha depositato un’interrogazione a Montecitorio per chiedere una correzione. “Sul piano territoriale sarà il Centro-Nord a beneficiare maggiormente degli sgravi”, spiega il parlamentare a Notizie.it. “Questo perché – sottolinea – per le aziende che assumono attraverso le Agenzie per il lavoro (Apl, ndr) la possibilità di accedere alla decontribuzione non dipende dalla sede del lavoro, ma da quella dell’Agenzia stessa”. Un cortocircuito. In sintesi, conclude Giacomoni: “Le aziende del Sud non ne avranno diritto se l’Apl ha la sede centrale al Nord. E questo avviene nel 75% dei casi. Viceversa un’impresa del Nord potrà accedere agli sgravi fiscali se si avvale di un’Apl che abbia sede al Sud, ed è stata la stessa Inps a svelarlo con la circolare di chiarimento sul provvedimento previsto dal decreto agosto”. E dire che il provvedimento è stato progettato con tutta la buona volontà. Dopo la fase sperimentale tra l’ottobre e il dicembre dello scorso anno, la Legge di Bilancio ha introdotto un corposo sostegno al progetto. La fiscalità di vantaggio, infatti, è stata annunciata, nel corso di un intervento alla Camera dei deputati, dal ministro Provenzano come “una misura che si applica a circa 500 mila imprese nel Mezzogiorno e a 3 milioni di lavoratori dipendenti, che è stata definita di portata storica, ma quei dati sul mercato del lavoro che lei citava vanno affrontati, questo vorrei dirlo ed è la priorità del Governo, con un’azione di rilancio degli investimenti pubblici e privati”. Per Provenzano la “fiscalità di vantaggio è una misura che in questa fase straordinaria servirà ad accompagnare quest’azione di rilancio degli investimenti per potenziarne l’impatto sull’occupazione. E, soprattutto, per evitare nella fase di crisi la voragine occupazionale che si può determinare anche in termini di mancati rinnovi dei contratti a tempo determinato e, soprattutto, evitare il rischio di una ripresa senza occupazione nella ripartenza”. Nel dettaglio la decontribuzione prevede l’esonero dal versamento dei contributi pari al 30% della contribuzione previdenziale che spetta ai datori di lavoro privati. Per questa maxi operazione serviranno 40 miliardi di euro, perché il beneficio sarà in vigore per l’intero decennio. In particolare è previsto l’esonero del 30% fino al 2025, dopodiché si andrà a scalare al 20% per il biennio 2026-2027 e al 10% del 2028-2029. “Gli oneri finanziari progressivamente si ridurranno: per i primi tre anni verranno coperti da fondi del bilancio pubblico e da una parte consistente di React-EU in seguito a un accordo con la Commissione, è uno strumento all’interno di Next Generation”, ha sottolineato il ministro Provenzano. Un ragionamento pregevole, di ampio respiro, che non ha fatto i conti con l’applicazione. Tra le tante cose, rileva l’interrogazione di Giacomoni, “si sta configurando il paradosso per il quale presso la medesima azienda utilizzatrice potranno coesistere lavoratori somministrati da diverse Agenzie per il lavoro, alcune delle quali ammesse a beneficiare dello sgravio ed altre no”. Un’operazione che, sommata alle altre problematiche, “sta svuotando il significato della legge”.

Stefano Iannaccone, irpino classe 1981, è giornalista. Scrive per Lettera43, occupandosi di politica e inchieste, per Impakter Italia, sui temi di sviluppo sostenibile, ed è addetto stampa politico. Ha scritto anche per il quotidiano La Notizia e per Ilfattoquotidiano.it .Ha pubblicato tre romanzi Andrà tutto bene, Fuori tempo massimo e Storia di un amore all'anatra, e il saggio sulla diffusione delle armi Sotto Tiro. Collabora con Notizie.it

Spesa storica, la grande truffa svergognata dalla Corte dei conti. Vincenzo Damiani il 15 gennaio 2021 su Il Quotidiano del Sud. Che non si sia fatto molto per «ricucire» il Paese, mettere fine allo scippo nei confronti del Sud e superare finalmente il criterio della spesa storica, il jolly per le Regioni del Nord, lo mette nero su bianco la Corte dei conti: «La riflessione sul finanziamento dei livelli di governo sub-centrali non dovrebbe prescindere da ciò che le risorse debbono finanziare. Su questo tema, il processo di decentramento italiano ha subìto diverse interruzioni. Dal lato delle funzioni fondamentali delle Regioni, non si è ancora pervenuti ad una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni diverse da quella sanitaria, e di conseguenza non è ancora definito il percorso di superamento del criterio della spesa storica, né l’assetto complessivo del sistema di finanziamento».

GIOCO DELLE TRE CARTE. Insomma, il gioco delle tre carte prosegue e la situazione potrebbe persino peggiorare se non si interviene: «Le recenti istanze di regionalismo differenziato – evidenziano i giudici contabili – rendono potenzialmente ancora più problematica la definizione di un quadro stabile di federalismo simmetrico». L’allarme è riportato a pagina 151 del “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”, nel paragrafo dedicato alla “Finanza degli enti territoriali: criticità e prospettive”. Il sottofinanziamento non riguarda solo le Regioni del Sud ma anche i Comuni: «Anche dal lato comunale – scrivono ancora i magistrati – appare fermo il processo di definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, e molta incertezza, negli anni, si è manifestata sul ruolo di specifiche fonti di finanziamento, con particolare riferimento ai prelievi di tipo immobiliare. Appaiono, inoltre, piuttosto incerti i meccanismi perequativi finora predisposti, sia per ciò che riguarda le modalità di distribuzione, sia per ciò che concerne l’estensione della perequazione dei livelli essenziali e delle capacità fiscali”. La controprova di quanto scrive la Corte dei conti è data dai numeri: se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il Comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite). Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a testa), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite). Catanzaro (15 milioni, 168 euro pro capite), Bari (53 milioni, 166 euro pro capite). Ma il Comune che perde di più in termini assoluti è Napoli (159 milioni, 164 euro pro capite).

LO SCIPPO DI RISORSE. Quasi 12 anni dopo la legge Calderoli sul federalismo fiscale, gli effetti sono quindi devastanti per il Sud: da un lato la mancata applicazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni introdotti dalla riforma del titolo V della Costituzione ma del tutto ignorati; e dall’altro il calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni, che altro non fa che ricalcare la vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio le Regioni e i Comuni del Mezzogiorno. Uno scippo continuo di risorse, in tutti i settori, che ha finito per acuire il divario tra Nord e Sud. Il calcolo dei fabbisogni standard è il vero problema. La Regione Puglia, nel 2016, per garantire agli oltre 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più. E’ quanto emerge consultando il database di OpenCivitas, il portale di accesso alle informazioni degli enti locali, un’iniziativa di trasparenza promossa dal ministero dell’Economia e delle finanze. Le Regioni del Sud, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi. Hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma.

LO SCARTO NEGATIVO. Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Insomma, da una parte c’è un’area dell’Italia (il Nord) che riesce a incassare maggiori trasferimenti statali e, di conseguenza, può spendere e spandere, offrendo ai propri cittadini servizi efficienti e superiori alla media; dall’altra parte c’è un’altra zona del Paese (il Sud) che riceve meno soldi da Roma e deve fare le nozze con i fichi secchi. Anche la spesa per investimenti in sanità è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. In termini pro-capite significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4, la Toscana 77, il Veneto 61,3; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2, il Molise 24,2, il Lazio 22,3, l’Abruzzo 33.

·        Il Paese delle Sceneggiate.

L’Italia sovrana di Bettino Craxi. Andrea Muratore su Inside Over il 16 ottobre 2021. Nell’Europa degli Anni Ottanta e nell’Italia della Prima Repubblica la figura di Bettino Craxi è tra quelle che hanno attratto giudizi più complessi, in larga misura divisivi e mai definitivi per quanto riguarda l’effettivo giudizio storico sull’uomo e del politico. Vi è però un campo su cui tutte le analisi sullo statista milanese concordano: la natura originale e approfondita della politica estera dell’era in cui Craxi era a capo del governo italiano è giudicata essere alla base di una delle fasi di maggiore dinamismo della diplomazia della Prima Repubblica.

Un'Italia autonoma e responsabile

Craxi raccolse in eredità nel suo quadriennio di governo un posizionamento internazionale che vedeva l’Italia attiva protagonista nel Mediterraneo e in Medio Oriente ma in ogni caso attenta a riaffermare il suo posizionamento nel campo occidentale che il leader del Partito Socialista Italiano riteneva un presupposto irrinunciabile. Nel 1981 Craxi fu decisivo per dare impeto politico in seno al governo del Pentapartito alla scelta del primo Presidente del Consiglio non democristiano del dopoguerra, il repubblicano Giovanni Spadolini, di indicare Comiso, in Sicilia, come base per il dispiegamento di 112 missili BGM-109 “Tomahawk” nel quadro del rilancio della contrapposizione strategica tra Usa e Unione Sovietica dopo l’ascesa alla Casa Bianca di Ronald Reagan. L’assenso di Craxi e del PSI era tuttavia subordinato a una più ampia visione della politica internazionale, in quanto ad essa veniva anteposta la volontà dichiarata di impegnarsi al raggiungimento della cosiddetta “opzione zero”, poi formalizzata nel 1987 dagli Accordi di Ginevra. Secondo quanto affermato dall’ex segretario di Stato di Carter, senza il posizionamento dei missili in Europa “la Guerra Fredda non sarebbe stata vinta”, avendo il Vecchio Continente evitato la finlandizzazione e la sostanziale neutralizzazione cui l’Urss puntava schierando i missili a medio raggio; “senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il PSI di Craxi la decisione dell’Italia non sarebbe stata presa. Il Partito Socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo”. Questa fu l’Italia in cui Craxi seppe agire da presidente del Consiglio negli anni successivi: un’Italia dotata di visione di ampio respiro, attenta a fungere da ponte negoziale tra Occidente e Oriente senza perdere contezza dei limiti operativi e dei margini di manovra a disposizione.

Il Mediterraneo come epicentro della politica di Craxi

Il presidente del Consiglio non mancava di promuovere un’attenta difesa degli interessi nazionali. Craxi, formato nel mito garibaldino del Risorgimento, sentiva con grande enfasi l’idea dell’identità e della sovranità nazionale, da lui coniugati con un’impostazione socialista di profondo afflato riformista. Alla Fiera del Levante, poco dopo l’ascesa al governo nel 1983, Craxi indicò il Mediterraneo come principale spazio d’azione per la politica di Roma. Sottolineando di ritenere chiaro il fatto che “l’Italia, immersa nel Mediterraneo, sente profondamente l’impulso naturale che la spinge a collegarsi con i popoli e i Paesi della regione mediterranea” Craxi promosse quella che sarebbe stata la sua agenda negli anni a venire: integrazione economica, commercio, diplomazia, contrasto al terrorismo, mediazione con il mondo arabo. “Siamo vitalmente interessati alla pace nel Mediterraneo”, aggiunse, e “nessuno potrà considerarci interlocutori estranei, o giudicarci animati da propositi invadenti se ci toccherà di far valere sempre la nostra parola su tutte le questioni rilevanti aperte nella regione”. Questa era la concezione che il governo avrebbe avuto, negli anni a venire, del Mediterraneo: uno spazio aperto, un terreno di incontro diplomatico, un’area geopolitica in cui raffreddare i confliggenti interessi della Guerra Fredda e delle diverse agende internazionali in nome di un interesse comune di matrice economica, politica, culturale, quasi che il saggio dedicato alla storia mediterranea da Fernand Braudel avesse funto da ispirazione “morale” per l’azione di Roma. Tale spinta risoluta prendeva slancio sia dalla spinta del precedente interesse per la regione avviato da figure come Enrico Mattei e Aldo Moro sia dal ruolo “ecumenico” giocato in seno al governo dal ministro degli Esteri, Giulio Andreotti.

L'asse Craxi-Andreotti

Andreotti, nei sei anni da ministro degli Esteri avviati con i due governi Craxi (1983-1989) fu al centro dell’agenda politica globale. Si interfacciò con gli Usa e l’Unione Sovietica promuovendo una Ostpolitik che aprì ad importanti appalti nel blocco orientale per l’Italia, alla distensione, alla cooperazione industriale e commerciale; fece sponda con Giovanni Paolo II e il cardinale Agostino Casaroli per rafforzare l’effetto-moltiplicatore dei legami italo-vaticani; avviò, in sponda con Palazzo Chigi, un crescente interessamento per l’Africa. L’asse Craxi-Andreotti produsse, in quest’ottica, importanti risultati che seppero valorizzare il posizionamento di Roma nell’agenda internazionale. Il rinnovo del Concordato con la Santa Sede (1984) realizzato dal governo Craxi fu anche l’attestazione di un importante risultato di politica estera; la pacificazione del Mozambico colpito dalla guerra civile e l’espansione della diplomazia italiana verso Libia, Egitto, Etiopia, Tunisia segnalarono l’espansione della strategia africana; in campo mediorientale Craxi legittimò pienamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come interlocutore per ridurre il potere negoziale delle organizzazioni più radicali e ostili a ogni dialogo; il rapporto con gli Usa, nonostante screzi come il famoso episodio di Sigonella, fu di dialogo e mutua fiducia. Ma mai piena subordinazione: ancor più emblematico del caso di Sigonella fu, in un certo senso, il suo discorso di fronte al Congresso Usa del 1985, nel corso del quale dichiarò senza mezzi termini la sua avversione al regime cileno di Augusto Pinochet sostenuto dagli Usa: “Sopra ogni altra sovrasta la richiesta di libertà del popolo cileno e questa richiesta ha bisogno dell’incondizionato appoggio di tutti noi”.

Craxi e il sostegno alla resistenza dei popoli oppressi

Craxi aveva visitato il Cile poco dopo il golpe dell’11 settembre 1973 che portò alla deposizione di Salvator Allende e aveva da allora in avanti preso decisamente a cuore la vicenda del Paese oppresso dalla dittatura militare di Pinochet. Il sostegno alla resistenza cilena non fu mai messo in discussione dal Psi di Craxi, che politicamente seppe dare voce a diverse richieste d’aiuto contro regimi oppressivi o dittatoriali. In nome di un concetto di libertà chiaro e trasversale, Craxi e il suo Psi furono schierati a favore di diversi movimenti di resistenza che si opponevano sia a regimi comunisti che a giunte militari o di estrema destra, e analoga posizione ebbero i suoi governi. Nel corso degli anni ebbero aiuti consistenti Solidarnosc, il sindacato polacco cattolico e anticomunista, cruciale nell’Ostpolitik andreottiana, gli esuli cecoslovacchi, il radicale argentino Alfonsin, incontrato da Craxi dopo la sua ascesa alla presidenza nel 1983 il brasiliano Lula, il peruviano Garcia, l’uruguaiano Sanguinetti, Perez in Venezuela e i movimenti di resistenza di Eritrea, Somalia, Palestina. Craxi intuì in anticipo le problematiche legate al mantenimento di sacche di miseria e oppressione in Paesi abitati da popolazioni giovani o desiderose di un’ascesa sociale, politica, collettiva. E seppe intuire, nelle fasi finali della Guerra Fredda e negli anni che precedettero la sua uscita dalla vita pubblica italiana con Mani Pulite, le altrettanto problematiche conseguenze delle pulsioni disgregatrici della globalizzazione e dell’ascesa delle disuguaglianze su scala mondiale. Nei suoi impegni dopo l’uscita da Palazzo Chigi, da leader del Psi e da inviato Onu, Craxi mise al centro dell’agenda la cooperazione allo sviluppo e l’alleanza tra i popoli più sviluppati e l’ex “Terzo Mondo”. A suo avviso i Paesi europei avrebbero avuto tutto l’interesse nel farsi promotori di un grande piano Marshall per la costruzione di una vasta regione euro-mediterranea e, al tempo stesso, a difendere l’ipotesi di un condono del debito dei Paesi meno sviluppati. Nel settembre 1990, parlando di fronte alla Conferenza di Parigi sul debito del Terzo Mondo, Craxi indicò nella diffusione globale della povertà, nell’accensione di focolai di conflitto e nel degrado ambientale ed ecologico altrettanti fattori di disuguaglianza e anticipiò il tema del “giubileo del debito” che sarebbe entrato nell’agenda delle grandi organizzazioni internazionali, dalla Banca Mondiale al G7, nel decennio successivo, e avrebbe avuto un sostenitore strenuo nel Vaticano globale di Papa Giovanni Paolo II. Tale processo portò all’annullamento di miliardi di dollari di debiti dei Paesi africani e del resto del Terzo Mondo spesso gravanti sulle spalle di nazioni a causa delle politiche cleptocratiche o piratesche di regimi dittatoriali e classi dirigenti corrotte. Craxi individuò nella cooperazione e nell’inclusione l’antidoto migliore contro l’ascesa di sentimenti antioccidentali, la diffusione di estremismi politici e religiosi, l’esplosione di problemi come quello delle migrazioni. Dimostrando una volta di più una chiara e lucida comprensione delle dinamiche strategiche dopo gli anni di Palazzo Chigi.

La diplomazia globale della Prima Repubblica. Andrea Muratore su Inside Over il 16 ottobre 2021. Solo negli ultimi decenni il concetto di globalizzazione è stato pienamente sdoganato nel contesto dell’analisi politologica e strategica, ma di fatto lungo l’intero arco del periodo post Seconda guerra mondiale l’interconnessione tra scenari di diverse aree geografiche è andata rafforzandosi. Fino all’ascesa della globalizzazione commerciale prima e delle nuove tecnologie digitali poi questa percezione è stata però ridotta. L’Italia della Prima Repubblica è stata, in tal senso, un esempio in controtendenza: dopo che Alcide De Gasperi e i suoi governi ebbero plasmato le linee guida del collocamento di Roma nel campo euroatlantico i governi a guida democristiana alternatisi nel primo trentennio dell’era repubblicana hanno promosso, complice il ruolo di apparati lungimiranti, una diplomazia originale in grado di capire anzitempo il valore strategico di scenari lontani dai confini nazionali e di teatri destinati ad essere via via sempre più rilevanti.

Mediterraneo, Medio Oriente, Africa

Amintore Fanfani, segretario della Dc e presidente del Consiglio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, strutturò con la definizione di “neoatlantismo” la dottrina strategica che vedeva l’Italia prendere l’iniziativa in direzione del Mediterraneo e del mondo arabo ed africano pur restando ben incardinata nelle alleanze sorte dal conflitto. L’Italia volle essere il Paese della distensione, del dialogo e del confronto tra mondi politici diversi, un attore del campo occidentale capace di fare della diplomazia economica e dell’azione geopolitica in campo energetico inaugurata dall’Eni di Enrico Mattei una punta di lancia per il rafforzamento dell’interesse nazionale. Sulle rotte del Mediterraneo Roma seppe costruire le basi d’appoggio per guardare oltre. Aldo Moro, fine conoscitore degli scenari mediorientali, seppe costruire un sagace equilibrio tra israeliani e palestinesi ponendo Roma come centro d’intermediazione e relativamente al sicuro dall’escalation dello scontro che dilaniava il Medio Oriente. Mattei costruì basi d’appoggio per la politica nazionale in Iraq, Egitto, Iran che da presidente del Consiglio e ministro degli Esteri un politico come Giulio Andreotti rafforzò. Meno nota, ma inesorabile fu la penetrazione italiana in Africa, ove col soft power economico e una spesso genuina adesione ai principi di autonomia dei popoli postcoloniali Roma seppe sovrapporsi, o spesso sostituirsi, alle storiche potenze coloniali. Il ruolo di Mediobanca come acceleratore del credito allo sviluppo del continente nero e del commercio italiano andò di pari passo con un ruolo da protagonista del Paese nella costruzione delle grandi infrastrutture che i governi locali cercavano per rafforzare la connessione interna (ponti, autostrade, ferrovie, dighe) e che videro spesso impegnate aziende del Belpaese.

La visione ecumenica di Giorgio La Pira

La figura emblematica della vocazione mondiale della diplomazia della Prima Repubblica, in ogni caso, non fu né un presidente del Consiglio né un ministro, ma bensì Giorgio La Pira, il lungimirante sindaco di Firenze, esponente della sinistra democristiana, tra gli autori del Codice di Camaldoli alla base del compromesso sociale, keynesiano e inclusivo che permise la scrittura della Costituzione repubblicana. Cattolico devoto, La Pira immaginava una diplomazia di città e nazioni volta a creare un dialogo comune tra popoli e governi oltre le logiche della Guerra Fredda. Uomo al tempo stesso capace di visioni profondamente ideali e di grandi slanci pragmatici, La Pira unì un obiettivo culturale ad uno politico. Organizzando a Firenze i “Dialoghi mediterranei” con gli esponenti del mondo arabo ed ebraico e delle grandi religioni monoteistiche seppe rafforzare il ruolo dell’Italia come ponte negoziale tra le varie aree del “Grande Mare”; recandosi in Unione Sovietica aprì la strada alla costruzione di un modus vivendi tra Roma e Mosca che grandi aziende come Eni e Fiat avrebbero sostanziato in lucrosi accordi economici; nel 1955, la Firenze amministrata dal democristiano La Pira fu la prima città italiana a invitare il sindaco di Pechino a intervenire in un dibattito pubblico. Prima del riconoscimento da parte di Roma della Repubblica Popolare Cinese come legittima rappresentante della nazione cinese nel 1970, La Pira contribuì assieme al leader socialista Pietro Nenni a tenere aperto con Pechino un dialogo secondo per intensità solo a quello condotto dalla Francia del Generale de Gaulle. La visione cristianamente ispirata della sua azione politica ecumenica permette di capire, al tempo stesso, quanto fondamentale sia stato l’impatto sul Paese di una Santa Sede divenuto attore protagonista sul proscenio mondiale.

Le due Rome

Roma nell’era della Prima Repubblica fu una e duale al contempo. Italia e Vaticano seppero sfruttare i reciproci contatti aprendo a un’azione corale in diversi contesti. Da Giovanni XXIII in avanti, il Vaticano seppe essere un attore globale sempre più attivo e sfruttando le nunziature e i punti d’appoggio della Chiesa cattolica nel mondo aprì un dialogo oltre i blocchi, diretto sia ai Paesi sviluppati che a quelli del “Terzo Mondo”. Per fare alcuni esempi di questo interscambio, il governo italiano seppe essere un braccio operativo importante per la Chiesa per monitorare la situazione dei cristiani nel blocco socialista, il Vaticano aiutò l’Italia nella mediazione per la pacificazione del Mozambico dilaniato dalla guerra civile a partire dagli Anni Settanta. Nel già citato teatro africano la presenza di organismi cattolici italiani impegnati nella cooperazione allo sviluppo (Cuamm, Comunità di Sant’Egidio e via dicendo) ha rappresentato un pivot fondamentale per Roma; al contempo, il Vaticano seppe costruire nella politica romana un rapporto preferenziale con Giulio Andreotti, tanto eminente esponente democristiano quanto vero e proprio cardinale “laico” di Roma, come dimostrato dall’impegno per supportare la Ostpolitik del cardinale Agostino Casaroli, il riavvicinamento tra Usa e Santa Sede mediato da monsignor Pio Laghi e una divulgazione di una visione complessiva del contesto internazionale letta alla luce di un paradigma cattolico con l’attività della rivista Trenta Giorni. La vivace politica estera italiana nell’era della Prima Repubblica è la più importante dimostrazione dell’originalità della visione di una classe dirigente che seppe dare una rotta al Paese. Anticipando i grandi trend che avrebbero guidato il mondo globalizzato, mostrando l’importanza del pensiero complesso nelle relazioni internazionale, sfruttando al massimo i margini di autonomia di cui una media potenza sconfitta nella guerra come Roma poteva beneficiare: una lezione di lungimiranza e praticità per tutti i successori alla guida di un Paese che, nei decenni più recenti, ha preferito la marginalità.

LA GRANDE STORIA. 150 ANNI FA LA PROCLAMAZIONE: ITALIA, ROMA LA CAPITALE, IL BANCHETTO. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 7 febbraio 2021. Napoli e Venezia sono capitali, e così anche Genova che si affaccia su tutte le rotte. Tre città d’Italia bagnate dal Mediterraneo che sono sorelle a Istanbul – la Seconda Roma – affine a sua volta alla Terza, Mosca, il cui mare è la neve. La Quarta, fornace di eccentrici esperimenti urbanistici, è Brasilia, nelle remote Americhe. Manca all’appello la prima del triduo, giustappunto l’Urbe generata dal seme di Enea ma Roma cui le strade di tutto il mondo arrivano, non riesce a essere vera capitale. Al compimento dei 150 anni dal 3 febbraio 1871 quando – sulle note della fanfara dei bersaglieri – è annessa al Regno di Casa Savoia, Roma che è bellezza fatta civitas patisce un fraintendimento incrostato, ahinoi, assai assai di equivoci. La vera Roma – la Prima – non è quella del pittoresco andirivieni papalino. Tantomeno è quella del parastato a tutti noto, piuttosto è la Prima Decade di Tito Livio commentata da Niccolò Machiavelli. È il film “Il Primo Re” di Matteo Rovere con Alessio Lapice, e davvero l’unica Roma è quella aurorale del sacro solco segnato dai due Gemelli. Quella stessa che i cinesi – oggi – indifferenti a tutto, credono sia ancora tale se negli scavi archeologici, rinvenendo la Lupa all’ombra della Grande Muraglia festeggiano il gemellaggio tra i due poli dell’Eterno: il Celesto e il sole che sorge libero e giocondo sui sette colli. È Roma Orma Amor, il segnacolo del segreto tra i segreti. Invece no, nel Centenario – e dunque cinquanta anni fa – Pier Paolo Pasolini che s’è trasfigurato nella città fino a morirne, conia per la “Capitale” una cocente definizione: “Coloniale”. La Grande Proletaria che s’erge s’invera nella Grande Meretrice. Nel 1972 Federico Fellini scrive con Bernardino Zapponi il film sulla città: “ROMA”. La colonna sonora è di Nino Rota e Fellini è nel ruolo di se stesso. “In un pomeriggio di ottobre del 1938”, annota il regista, “arrivai alla stazione, salii su una carrozzella e andai in Via Albalonga, rione San Giovanni. La prima cosa che mi capitò, scendendo dalla carrozzella davanti al numero 13 in cerca dell’affittacamere, fu di prendere uno sputo in testa da tre ragazzini che non si sono neppure ritirati dalla finestra. Fu la scoperta del romano, l’antico suddito papalino che vive in una città improbabile cresciutagli attorno a tradimento, uno che non si fida di dire la verità perché ‘non si sa mai’, pauroso per timori atavici, un uomo dalle prospettive molto ravvicinate, attorniato da storia e monumenti ma rapportato soltanto alle consuetudini quotidiane e alla tribù familiare: mamma, sorelle, nonni, nipoti, zia”. La Capitale è la meta ambita di ogni provinciale, ogni campagnolo – e D’Artagnan lo sa bene – paga pegno quando mette piede in città. Ne ricava solo sfottò e duelli. E ogni capitale – e così è in tutto il mondo – è lo stigma di charme e finezza. Qualunque rusticone del più sperduto villaggio dell’immensa Russia fa proprio il grido delle Tre Sorelle di Cechov: “A Mosca, a Mosca!”, ogni tedesco – perfino il più bavarese – ha certamente il mito di Berlino ma non esiste tedesco, anche a bordo di un panzer, anche calzando gli stivali della Wehrmacht, che riesca a cedere al fascino inesorabile di Parigi. Ne è irrimediabilmente sedotto. La storia dell’occupazione militare germanica in Francia si compendia nell’amore totale del comandante tedesco con Coco Chanel che va ad attenderlo fuori dal carcere dopo la condanna al Processo di Norimberga. Lo stile è quella cosa lì che si chiama charme, tutte le donne del mondo vogliono vedersi come La Parigina. È anche il titolo di un libro di grande successo, un classico ormai, un manuale di stile scritto dalla donna più bella di sempre – Inès de la Fressange – da qualche anno esiste una versione italiana di quel canone, è La Milanese, e con tutta la buona volontà è impossibile immaginare una variante credibile di quel titolo tipo La Romana. E va bene che dentro ogni gattamorta c’è sempre una zoccola viva ma non c’è italiano/a, da Lampedusa al valico del Brennero, che abbia a ideale uno stile “romano”, che ne subisca il fascino o che voglia modellarsi ai precetti di costume in uso alla Roma di oggi. Lo skyline è debitore dell’edilizia palazzinara dal desolato design neorealista. Ogni automobile in transito, ogni radiolina e qualunque oggetto colto dalle inquadrature diventa segno di vecchie paure, di servilismi inaciditi in sbotti d’ira, di avvilenti sociopatie svaporate nel tedium fati e la stessa maschera di città, Alberto Sordi, corrisponde al marchio urticante a suo tempo impresso da uno spietato patriota qual è Giovannino Guareschi: “È la diffamazione vivente dell’italiano in guerra e in pace”. Capitale è ciò che la legge dice di essere tale. Il Conte di Cavour, nel suo discorso del 27 marzo 1861, già gravato dalla fatica di fare – con l’Italia – anche gli italiani, indica in Roma “la capitale necessaria d’Italia”. Vedeva lungo Cavour e quella che solitamente distrae i più pigri tra gli storici, ovvero la “questione meridionale”, urge di precisazione. Trattasi semplicemente di “questione centrale” nel senso geografico proprio di area centrale, ovvero tutto un mancato questionare su quella zona del Centro Italia di fatto inospitale – fosse pure in virtù di mito, cultura e arte – verso l’operosa virtù d’apparato e di qualunque altro pragmatismo creativo borghese. I terroni, ossia i meridionali, si trovano meglio accolti al Nord che nella capitale e Cavour vede lungo proprio perché la storia è ormai datata. Nel libro edito dalla fondazione italiadecide, “Roma capitale” – un prezioso volume che raccoglie discorsi e documenti parlamentari, con una bella prefazione di Alessandro Palanza – è interessante leggere le dichiarazioni di Francesco Crispi in merito al processo di “inserzione della città nell’ordinamento italiano”. La discussione sui provvedimenti per Roma capitale del 1881 si fa accesa quando l’analisi sul dato urbanistico e infrastrutturale rivela inadeguatezze al ruolo proprio di una capitale. Ecco le parole di Crispi: “Proclamatasi Roma capitale del Regno il 27 marzo 1861, l’avemmo di fatto nel 20 settembre 1870. Venuti a Roma vi abbiamo trovato la sede del cattolicesimo; e questo, se può avere i suoi vantaggi, ha pure i suoi danni. Qui il Governo non trovò tutte quelle condizioni di vita e di esistenza materiale che sono necessarie al regolare andamento delle sue funzioni. Noi in Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città (Benissimo! grida di approvazione dei parlamentari); e guardando quest’Aula dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere che, dopo dieci anni, siamo ancora in una casa di legno coperta di tela e carta (Si ride), quasi che stessimo qui provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato”. Da 150 anni a oggi, il banchetto (senza rotelle) affastellato di microfoni su cui Giuseppe Conte fa la sua conferenza stampa di congedo da Palazzo Chigi conferma quella suggestione colta da Crispi: provvisoriamente, e non nella definitiva sede dello Stato. Un altro fraintendimento incrostato, assai assai – ahinoi – di troppi equivoci.

«L'Italia è il paese dei conti alla rovescia. Alla fine dei quali non succede mai nulla». La nascita di un nuovo governo, l'entrata a regime del piano vaccinale, la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), le elezioni in alcune grandi città, l'arrivo dei fondi europei. Ci concentriamo troppo sull'attesa e troppo poco su quanto succede dopo. Enrico Giovannini su L'Espresso il 13 gennaio 2021. Credo di aver imparato cosa sia un conto alla rovescia guardando, tanti anni fa, il lancio dei razzi Saturno V da Cape Canaveral. Ricordo la tensione che saliva via via che ci si avvicinava allo zero perché sapevo che a quel punto sarebbe successo qualcosa di importante. E immaginavo una mano che spingeva un bottone. E sapevo che a quel punto avrei visto il fuoco uscire dagli enormi ugelli e il razzo salire, accelerare e infine sparire alla vista. Che emozione! Il 2021 del nostro Paese appare già costellato di conti alla rovescia al termine dei quali rischia però di succedere ben poco, almeno nel breve termine, per la vita dei cittadini. Provo a fare alcuni esempi: la nascita di un nuovo governo, l’entrata a regime del piano vaccinale, la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), le elezioni in alcune grandi città, l’arrivo dei fondi europei a valere sul PNRR, il G20 a presidenza italiana, la COP26 sul clima a co-presidenza italiana. A scanso di equivoci, confermo che si tratta di eventi importantissimi per la vita economica e sociale del Paese. Ma se porremo tutta l’attenzione mediatica – e psicologica – sul conto alla rovescia e non su cosa deve accadere dopo lo “zero” rischiamo un anno di continue disillusioni, e quindi di frustrazione.

IL PAESE DELLE SCENEGGIATE. Dalla politica ai talk chi fa Arlecchino, chi Pulcinella, chi Pantalone, chi Colombina. Roberto Napoletano il 9 gennaio 2021 su Il Quotidiano del Sud. Tutti chiedono soldi. Tutti pretendono soldi. Nessuno ha una proposta per il Paese che non coincida con la sua cassa. Siamo al silenzio assordante della società civile. I grandi motori della coscienza del Paese dissolti come neve al sole. Hanno lasciato questo compito a quattro talk show che non sono mai elaborazione di idee ma sceneggiate serali dove ogni maschera fa la sua parte. Chi fa Arlecchino. Chi fa Pulcinella. Chi fa Pantalone. Chi fa Colombina. C’è un grumo di interessi corporativi che tiene bloccato il Paese da almeno vent’anni, ma nessuno se ne occupa. Perché le imprese, il sindacato, la Chiesa, le onnipresenti corporazioni regionali e i loro maître a penser non elaborano un progetto di rinascita del Paese? Perché non lo fanno e lo mettono al servizio di una politica che non ci riesce? Che sopravvive in un mondo tutto suo dove finge di occuparsi di cose vere ma litiga per seggiole e poltrone? Perché non si prendono tutti alla luce del sole le loro responsabilità? Perché le Regioni pretendono sempre qualcosa ognuna per sé e a volte in coalizione? Perché al posto di dire “mi devi/ci dovete dare questa quota di fondi”, non cominciano a dire “io voglio/noi vogliamo fare questo e sono/siamo in grado di farlo”, ti dimostro che ho gli uomini e le forze per attuare questo progetto? Perché non c’è una presa di posizione della Conferenza episcopale italiana che delinea un progetto di insieme non per la Chiesa ma per l’economia e la società del Paese? Non lo fanno i vescovi perché temono di essere considerati corporativi? Perché hanno paura che qualcuno li rimproveri, dica loro “come vi permettete”? Se sì allora sbagliano, perché la Chiesa, le associazioni cattoliche, il volontariato, hanno il diritto e, oserei dire, il dovere di fare questa cosa. Al di là del pensiero forte di Francesco che indirizza il mondo. Dove è il sindacato? Qual è la sua proposta per il Paese? Difendere l’impiego pubblico e firmare i contratti con gli aumenti per chi ha il posto sicuro durante una pandemia che rischia di lasciare a casa cinque milioni di lavoratori privati? In quali atti, in quali gesti, con quali proposte, si appalesa il disegno ambizioso dei nostri tempi che regge il confronto con la Conferenza del lavoro di Genova e il coraggio eretico di un Di Vittorio pronto a rinunciare a un pezzo di salario per aumentare il numero dei salari e che riceve il plauso plebiscitario dei lavoratori che si spellano le mani per applaudirlo? Dove è il mondo delle imprese che per una volta non parla di incentivi, sacrosanti ovviamente quelli per la transizione digitale, ma consegna un documento dove sono indicate le priorità per il Paese, non per le imprese? Dove dicono quello che possono fare loro, diventare più grandi, mettersi insieme, riprendere a tenere a mente l’Italia intera dalle Alpi a Pantelleria, e quello che lo Stato deve fare perché loro facciano bene la propria parte? Dove sono i Costa, i Valerio, gli Olivetti che ragionavano con la testa delle grandi imprese per le quali il loro Paese veniva prima di tutto? Oggi le grandi imprese private non ci sono più e quelle medie e piccole sopravvissute pensano a chiudere dove possono i loro affari internazionali e lasciano che il Paese muoia provando magari tutte le volte che è possibile a saccheggiarlo restituendo sempre poco o niente. Perché siamo ridotti così in quasi tutti gli ambiti della società lo approfondiremo domani. La realtà è che oggi è il giorno dei pontieri per ricucire tra Conte e Renzi e domani sarà quello del voto e dopodomani di nuovo quello dei pontieri e del Conte ter o quello del governo di unità nazionale. Noi come giornale abbiamo cercato di fare la nostra parte. Abbiamo documentato perché il Paese è bloccato da venti anni. Abbiamo, numeri alla mano, certificato come il federalismo della irresponsabilità ha sistematicamente tolto ai poveri per dare ai ricchi allargando di anno in anno il solco tra le due Italie nella spesa sociale e in quella infrastrutturale. Siamo arrivati al punto di dare investimenti pubblici nella sanità per venti anni consecutivi a un cittadino emiliano-romagnolo in misura quattro volte superiore a quelli che sono stati dati a un cittadino campano nel silenzio complice di tutti. Abbiamo fino alla noia ripetuto che il patto scellerato tra la Sinistra Padronale tosco-emiliana e la Destra lombardo-veneta a trazione leghista – che si consuma di anno in anno in un luogo nascosto della democrazia italiana che è la Conferenza Stato-Regioni – tiene in ostaggio la crescita dell’Italia e ha condannato il Nord e il Sud del Paese a essere gli unici due territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2008. Tutto tace, purtroppo. Certo, con la nostra pressione sul collo, si stanno impegnando a fare qualcosina di più negli investimenti pubblici per il Mezzogiorno mischiando risorse e progetti e sudando freddo. Manca totalmente la visione. Manca alla politica come nella società civile, si è liquefatta da tempo nel racconto dei fatti e nel modo di fare informazione soprattutto in tv. Dove si parla di tutto meno che di ciò che conta. Non vorremmo apparire eretici ma oggi Di Vittorio urlerebbe che l’Italia deve recuperare il Mezzogiorno per recuperare se stessa. Noi ci permettiamo di aggiungere che lo deve fare in fretta.

MA DOV’È FINITA LA SOCIETÀ CIVILE? L’IDEA PAESE CHE NON C’È PIÙ. Il Recovery è l’ultima occasione che questa classe politica ha per riscattarsi. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 10 gennaio 2021. Perché l’Italia è priva di una società civile che si fa sentire? Che ragiona da sistema Paese? Perché ci troviamo immersi nel mare procelloso del nuovo ’29 mondiale senza che l’impresa privata, il sindacato, la Chiesa abbiano alzato la voce non per chiedere questo o quello per loro, a volte a ragione a volte a torto, ma per pretendere che si apra un confronto pubblico sul progetto di rinascita del Paese? Perché non lo hanno elaborato loro? Il problema di fondo è che una volta la società civile si esprimeva attraverso i partiti, oggi è frazionata in un circuito di micro-interessi tra loro conflittuali dove prevalgono gli egoismi miopi di pochi potentati regionali. Si è smarrita nei fatti l’idea di Paese. Una volta il Mulino di Bologna dialogava con “Nord e Sud” di Chinchino Compagna che parlava da Napoli all’Italia. Oggi la rivista meridionalista non c’è più e la casa editrice bolognese dialoga più con il mondo che non con il Mezzogiorno. Anche se molti dei loro autori sono tra i nostri editorialisti e questo qualcosa significa. Perché non c’è mai stata un’edizione moderna dei convegni di San Pellegrino della Dc degli anni sessanta che diedero il via al primo centrosinistra riformatore con le relazioni dei Saraceno e degli Ardigò? Chi sono gli eredi di quest’ultimi? Dove si percepisce la stessa visione, la stessa idea cocciuta di Paese unito che vuole superare le sue diseguaglianze? Per piacere non mi citate le assise virtuali dei grillini e nemmeno quelle dei reggicoda del Pd di qualche anno fa a Bologna. Evitiamo di farci ridere addosso. Vogliamo essere brutali. Quando il trentino De Gasperi, Campilli, Menichella e qualche altro illuminato vollero la Cassa per il Mezzogiorno, la preoccupazione ossessiva dei dossettiani fu che non dovesse finire nelle mani dei democristiani del Sud che erano di certo molto meglio dei loro successori ma un po’ a ragione un po’ per pregiudizio già facevano paura. Anche Moro si schierò contro il controllo della Cassa da parte della Dc meridionale perché a suo avviso sarebbe stata la morte consegnare quella cassa nelle loro mani. Va a tutti loro il merito di avere preservato l’autonomia di uno strumento di sviluppo che permise di raddoppiare il prestito Marshall e contribuì come nessun altro al miracolo economico italiano. Ad attuarlo, però, almeno ricordiamocelo, fu un magistrato irpino, Gabriele Pescatore, e una classe dirigente di tecnici, ingegneri e uomini del fare quasi tutta composta da meridionali. Mentre la Dc discuteva se dovessero avere più spazio il partito o il governo dentro quella Cassa, l’irpino Pescatore e il siculo-valtellinese Saraceno fecero muro contro l’uno e contro l’altro. La politica, avendola, si fermò suo malgrado o per intelligenza alla visione. Non uscì mai dal suo seminato di elaborare e di dare una missione. Non si occupò mai della gestione. Che fu invece molto rispettosa di quella missione politica e fu capace di attuarla in anticipo rispetto ai tempi prestabiliti. Purtroppo, oggi viviamo i tempi della gestione del conflitto di interessi che non c’entra con la politica ma la occupa svilendola. Questa stagione decadente è la figlia naturale del declino di tutte le filiere di formazione delle classi dirigenti italiane. Il ‘68 le ha sbaraccate quasi tutte. La seconda ondata del 76/77 ha finito di “fare pulizia” privando il Paese anche dei pochi luoghi sopravvissuti di questi centri di elaborazione delle idee e di formazione delle classi dirigenti del futuro. È sparito tutto: il confronto, la formazione, lo scontro delle idee, la selezione e il reclutamento dei migliori dentro la fedeltà politica o fuori di essa. Così si sono spente quasi naturalmente la capacità creativa italiana, l’ambizione di pensare per il medio e il lungo termine non per il breve, l’intelligenza diffusa di anticipare il futuro. In una parola si sono perse la visione d’insieme e la capacità di progettarla. Oggi avere la visione significa recuperare il Mezzogiorno per consentire all’Italia di recuperare se stessa. Non ci sono più alibi. Non si può continuare a dire che la crisi di questa classe dirigente viene da lontano e deflagra perché sono scomparsi tutti gli spazi aperti in cui si ragionava pensando al domani prima dell’oggi. Che sono venuti meno i cenacoli intellettuali capaci di parlare alla testa e alla pancia del Paese. Il risultato è che nulla viene più dibattuto, magari aspramente combattuto, nell’arena delle idee, ma piuttosto si preferisce fare tutto sott’acqua, al coperto, possibilmente di nascosto. Il Recovery è l’ultima occasione che questa classe politica ha per riscattarsi e fare bene ciò che serve. Per dire con chiarezza e condividere l’operazione verità lanciata da questo giornale che impone di uscire in fretta dal federalismo della irresponsabilità per perseguire con le parole e con le azioni la riunificazione infrastrutturale immateriale e materiale delle due Italie. Su questi punti saremo come i giocatori di poker che vanno a vedere sempre. Non si può fare finta di cambiare le cose, ma bisogna cambiarle per davvero. Quello che è sotto gli occhi di tutti non lo dimenticheremo mai più. Le ambiguità di comportamento di una maggioranza politica che sul disegno di recupero del Mezzogiorno è prodiga a parole, ma incerta e a tratti inconcludente nei fatti. Fa più di quanto si è fatto prima, giusto darne atto, ma basta? No. Che cosa dire di chi non molla per nessuna ragione al mondo la cassa rubata come i potentati regionali del Nord di sinistra e di destra riuniti in un patto di ferro? E il silenzio assordante di tutti quelli che avrebbero voce in capitolo per farsi sentire e non lo fanno? Che cosa dire di un’opposizione sovranista che mette becco su tutto ma non mette mai a fuoco la priorità competitiva della rinascita italiana che è il riequilibrio territoriale? Perché tutti, troppi, fanno orecchie da mercante anche quando l’Europa stessa vincola gli aiuti a fondo perduto proprio alle regioni svantaggiate? Siccome è in gioco il futuro dell’Italia a partire dalle nuove generazioni, questo giornale non farà sconti a nessuno. Maggioranza e opposizione la smettano di muoversi come funamboli sulla corda spezzata del Paese e impegnino ogni energia per scegliere pochi progetti buoni e studiare le modalità esecutive che servono per fare le cose. Avendo bene in mente la priorità. Che è una. Recuperare il Mezzogiorno per consentire all’Italia di recuperare se stessa.

Destinati ai meridionali solo il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Vincenzo Damiani su il 9 gennaio 2021 su Il Quotidiano del Sud. Operazione Verità. Le due Italie: Le infrastrutture, Operazione Verità: Le due Italie: Sanità, Operazione Verità Le Due Italia: La Scuola. I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2% degli italiani, portano a casa appena il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Il Centro- Nord, invece, riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe: il 65,7% della popolazione accede al 72,1% delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno; per uno del Sud appena 13.144. Sanità, infrastrutture, istruzione, ricerca: sono i settori nei quali le disparità sono accentuate e palesi. Nell’ultimo ventennio, lo Stato ha investito più al Nord che al Sud, lasciando che l’Italia si spaccasse in due. I numeri sono sotto gli occhi di chi vuol vedere, il primo è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che solo nel 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale a quella del Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo. Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti pubblici territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico. Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4%, in crescita dello 0,4% rispetto al triennio precedente, fra quanto le regioni meridionali avrebbero dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto hanno avuto in realtà.

LE DUE SANITÀ. Scendendo più nel dettaglio, ad esempio la spesa per investimenti in sanità è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. È questa l’analisi che emerge sempre dal sistema dei Conti Pubblici Territoriali: in termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro. Altri indicatori confermano che, ogni anno, al Nord arrivano maggiori trasferimenti da Roma destinati alla sanità: dal 2017 al 2018, ad esempio, la Lombardia ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0.75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise. Lo stesso Veneto nel 2018, rispetto al 2017, ha ricevuto da Roma lo 0,87% in più. Insomma, il Nord continua ad ottenere più soldi rispetto al Sud, è un dato oggettivo e certificato.

ASILI E SERVIZI PER L’INFANZIA. Per ogni bambino da 0 a 5 anni un sindaco calabrese può investire, mediamente, circa 126,8 euro per garantire i servizi per l’infanzia. In Liguria, la spesa pro capite dei Comuni per ogni bimbo della stessa età è, invece, di 1.377,9 euro, ben undici volte superiore. Se nasci al Nord, asili, assistenza, welfare, cure non ti mancheranno. Se vieni alla luce nel Mezzogiorno, beh, la strada potrebbe essere in salita se non hai la fortuna di nascere in una famiglia abbiente che non ti faccia mancare nulla. Si perché lo Stato non ti garantirà lo stesso livello di servizi, né qualitativamente né dal punto di vista della quantità. E’ la Corte dei Conti, nella “Memoria sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale” a ricordare che viviamo in un Paese che viaggia a velocità diverse.

INFRASTRUTTURE. Dagli asili alle strade: è sufficiente osservare la curva degli investimenti pubblici destinati allo sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno per individuare la causa principale di una Italia spaccata in due. Fra il 1950 e il 1960 la dote era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Nel Mezzogiorno si contano meno autostrade, a discapito di cittadini e del tessuto produttivo nazionale: nel Meridione ogni impresa può contare su poco meno di 20 chilometri di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest. A fronte di una media nazionale di 23 km ogni 1.000 kmq, nel Sud si scende a 20 km/1000 kmq, con la Basilicata ferma a 3 km/1000 kmq e il Molise a 8 km/1000 kmq. Per quel che riguarda la dotazione di linee ferroviarie, molto carente nel Mezzogiorno è lo sviluppo dell’Alta Velocità, con soli 181 chilometri di linee, pari all’11,4% dei 1.583 chilometri della rete nazionale; nel Centro-Nord la rete è di 1.402 chilometri, pari all’88,6% del totale.

MENO SOLDI ALLA RICERCA NELLE UNIVERSITÀ DEL SUD. Sulla ricerca la storia non cambia: nel 2016, le università pubbliche e private italiane hanno investito circa 5,6 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Di questa somma, 1,3 miliardi sono stati spesi dagli Atenei delle Regioni del Sud, mentre ben 3,1 miliardi dalle ricche università del Nord. Una differenza che ha come causa principale l’enorme scarto che c’è nella ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario: nonostante l’introduzione di un fondo perequativo che dovrebbe ridurre le storture e le diseguaglianze nella suddivisione delle risorse statali, il 42,3% dei trasferimenti finisce ancora nelle casse degli Atenei del Nord, al Sud il 21,4% (sommando anche Sicilia e Sardegna si tocca il 32,4%), il restante 25,3% al Centro.

ISTRUZIONE. Capitolo istruzione: consultando OpenCivitas, il portale di accesso alle informazioni degli enti locali, emerge che, nel 2016, per l’istruzione le Regioni del Sud hanno registrato uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Se le Regioni del Mezzogiorno per l’istruzione possono spendere per ogni loro ragazzo 42 euro, quelle del Nord hanno a disposizione più del doppio: circa 92 euro pro capite.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Tutto va male? Diamo panem (reddito di cittadinanza) e circenses (calcio).

Gianluca Veneziani per "Libero quotidiano" il 31 luglio 2021. Dio ci scampi dalle vacanze, soprattutto dalle vacanze all' italiana. Ne abbiamo un disperato bisogno dopo questi tempi duri, si dice. Ma siamo sicuri che non causino più stress di quello che assicurano di toglierci? Non che è al ritorno servirà poi un'altra vacanza per riprendersi dalla vacanza? Da queste domande parte il gustosissimo libro di Giuseppe Culicchia, A Venezia con un piccione in testa. Storia tragicomica degli italiani inferie (Solferino, pp. 192, euro 16), una fenomenologia ironica e dissacrante dei nostri connazionali alle prese col rito della villeggiatura. Un rito che risale a oltre un secolo fa, è diventato di massa nel Dopoguerra al tempo del Boom, e ora riprende in altre forme, più tecnologicamente avanzate ma molto più pacchiane. Le vacanze italiane degli Anni Venti-Venti non possono fare a meno di essere corredate di selfie: spararsi un autoscatto diventa spesso l'unica buona ragione per vedere un posto. O meglio, una location, perché solo qua puoi scattare foto con uno «sfondo, quinta, scenario» tali da fare invidia agli amici social. In villeggiatura l'italiano continua a essere affetto da un'impresentabilità estetica, quasi fantozziana, che smentisce il mito del Belpaese che sa vestire bene. In riva al mare esibisce un mix in grado di far inorridire il tedesco più fedele all' abbinata mocassino -calzettone di spugna: e cioè, pinocchietto, infradito, maglia di due tre taglie più larga con marsupio a mettere in risalto l'adipe in eccesso e cappello simil-Borsalino. In montagna è capace di calzare, anche su strade impervie piene di crepacci, comodissime scarpe da tennis in tela con la suola liscia. Il dramma è che, insieme a questa disastrosa mise, l' italiano di oggi in vacanza fa vanto di una cafoneria arricchita e ultra -chic, tra «donne palesemente facoltose, riviste e corrette dal chirurgo plastico» che «paiono bambole gonfiabili» e «cinquantenni in Lacoste e dall' aria benestante, magari con ventiduenne russa un filo appariscente a rimorchio», che «si rivelano facili allo "scazzo"», se qualcuno osa attraversare sulle strisce mentre «loro stanno arrivando a bomba sulla fiammante fuoriserie cabrio». Attorno a loro, torme di uomini palestrati, depilati, abbronzati, tatuati e con sopracciglia ad ali di gabbiano (gli unici gabbiani rimasti in riva al mare: gli altri sono tutti emigrati a Roma). E poi ragazzette dai costumi risicatissimi, quasi inesistenti, a conferma che le vacanze hanno letteralmente cambiato i costumi degli italiani. Tutti costoro non possono dire di aver vissuto una vacanza a pieno se non hanno fatto qualcosa per sentirsi un po' vip, tipo stappare bottiglie da migliaia di euro a un tavolo in disco, salvo poi essere costretti ad aprire un mutuo balneare per permettersi la prossima vacanza. Oppure dare la caccia al vip, sperando di trovarlo nella spiaggia "in" e nel locale "cool", e naturalmente spararsi un selfie con lui. L'italiano poi va all'estero per screditare il posto in cui è arrivato e rimpiangere casa sua (la Svizzera è noiosa, Parigi è carissima, a Londra non si lavano, a Berlino si mangia male), anche se per il maschio medio l'obiettivo non cambia mai: cercare la «figa», che sia a Ibiza, in Brasile o in Ungheria, dove siamo noti per aver messo su un'industria del porno grazie a Rocco Siffredi. Come diceva Houellebecq, i nostri connazionali «vanno ovunque ci siano bei culi». L' italiano d' estate è in fuga, anche se spesso non si tratta di cervelli. Nel mezzo, però, il vacanziero tricolore fatica come un dannato per raggiungere l'agognata meta. Viaggia in treni più o meno scassati con escursioni termiche degne del deserto, in cui si può passare da temperature raggelanti da -20° a climi leggermente afosi a +35°; se in aereo, deve stare attento a non restare zoppo a causa dei trolley usati come armi contundenti contro i piedi altrui. Quando è in macchina, rimane puntualmente imbottigliato per via della sua presunta furbizia che lo porta a scegliere "partenze intelligenti" in piena notte, convinto di non trovare traffico, ignorando che tutti gli altri italiani hanno scelto di fare partenze intelligenti alla stessa ora. E così, tra ansia da prenotazione, ansia da prestazione, ansia da fine -ferie e costante ansia da meteo, l'italiano medio si trova a soffrire di stress pre e post -vacanza, ridotta a una parentesi infernale tra l'esodo e il controesodo. E finisce quasi per rimpiangere i tempi in cui poteva starsene comodamente a casa, impossibilitato a uscire a causa del lockdown. Anche se poi lo stesso italiano medio ci pensa su e capisce che proprio lo stress da villeggiatura è il miglior sintomo dell'avvenuto ritorno alla normalità. 

"Gli italiani? Non sono che pecore indisciplinate". Roberto Gervaso il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. In un'intervista di 40 anni fa il giornalista descrive un Paese identico a oggi: fatto di furbi, bugiardi, faziosi. Moderno Voltaire in cravatta e vigogna, Indro Montanelli ha il dono, così raro fra noi giornalisti, di rendere facile il difficile, limpido il torbido, digeribile l'indigesto. Sotto la sua penna anche i logaritmi diventano commestibili. Alla sua scomodissima scuola abbiamo imparato - o, almeno, ce ne siamo illusi - che la chiarezza è un dovere, l'obiettività non esiste, il lettore ha sempre ragione.

Siamo ancora uno Stato di diritto?

«Non direi».

Chi ha messo in crisi il principio d'autorità?

«Il fascismo, facendone un uso sbagliato».

Chi comanda in Italia?

«Tutti e nessuno. Forse, i vertici di partito. Ma fino a un certo punto».

E chi obbedisce?

«Nessuno».

Da noi, mangia solo chi lavora?

«Chi lavora è l'unico che non mangia. Solo i traffici rendono».

Le colonne della nostra morale pubblica?

«Non ne vedo più alcuna».

E privata?

«Nemmeno. Anche se ci sono ancora dei galantuomini».

Quale virtù più ci difetta?

«Un po' tutte».

Ma più di tutte?

«Il coraggio, la sincerità - ch'è un aspetto del coraggio -, il civismo».

E l'individualismo?

«Non ne parliamo».

Come?

«Gl'italiani credono d'esser individualisti, mentre non sono che pecore indisciplinate e asociali».

Abbiamo più intelligenza o carattere?

«Intelligenza, o meglio sveltezza, prontezza di riflessi».

Perché gl'italiani parlano tutti assieme?

«Per incapacità di vivere insieme. Ognuno fa il proprio monologo, infischiandosi di quel che dicono gli altri».

In Italia, è meglio aver torto in molti o ragione da soli?

«Guai ad aver ragione da soli. È la cosa più pericolosa».

Il più italiano dei verbi?

«Arrangiarsi».

C'è tolleranza, oggi, in Italia?

«Ma l'Italia è tutta una casa di tolleranza».

Perché crediamo tanto ai miracoli?

«Perché non abbiamo più alcun motivo di credere alla logica, alla ragione».

L'italiano è più cattolico a letto o in chiesa?

«Ovunque: a letto, in chiesa, in politica. È sempre cattolico».

È più fedele alla moglie o al matrimonio?

«Al matrimonio».

Come mai?

«Il peccato gli fa compagnia».

Pensi anche tu che, nel nostro Paese, di progressivo ci sia solo la paralisi?

«Certo».

La nostra classe politica è più inabile nel fare, abile nel non fare, abilissima nel disfare?

«È abile nel non fare. Non che voglia disfare: disfa per inabilità a fare».

Le colpe degl'imprenditori?

«Non alzare mai lo sguardo su quel che avviene fuori delle loro aziende».

Dei sindacati?

«Ma i nostri non sono sindacati».

E cosa sono?

«Corporazioni medievali, le quali non vedono che l'interesse di categoria».

Perché tanti somari in tanti giornali?

«Non c'è più il filtro. Ma, ormai, avviene ovunque. La lotta alla meritocrazia significa l'appiattimento sul più sprovveduto».

Con che criterio scegli i collaboratori?

«O so che sono bravi, o piglio dei giovani e li metto alla prova».

Devono tutti pensarla come te?

«Ci mancherebbe altro! Al Giornale c'è un po' di tutto».

Anche missini?

«No».

E comunisti?

«Ch'io sappia, solo il corrispondente sardo».

Perché è così difficile scrivere come si parla?

«Perché l'abitudine alla menzogna, in Italia, è istintiva, secolare. Bisogna coprire e, quando si copre, non si può scrivere come si parla».

Esiste l'obiettività?

«Come ideale, quindi irraggiungibile. Cerchiamo, comunque, d'avvicinarlesi, o, almeno, fingerla».

È buon giornalismo l'arte di mentire, avendo l'aria di dire la verità?

«È giornalismo abile».

Come mai i giornali di partito sono così indigesti?

«Perché strumenti di propaganda, che è sempre, per natura, cattivo giornalismo».

Cosa vogliono i giornali dal potere politico?

«Protezioni, coperture, finanziamenti, facilitazioni».

E il potere politico dai giornali?

«La stessa cosa».

La stampa è sempre il quarto potere?

«Ma come si fa a parlare di quarto potere in un Paese dove i poteri non esistono più, anzi esistono solo poteri usurpati, come quello esercitato dalla magistratura, che piglia iniziative anche legislative?».

Cos'è l'impegno? Solo incitamento - come diceva Prezzolini - alla bugia di gruppo?

«Nella pratica, in Italia, questo è stato».

Paga ancora buttarsi a sinistra?

«Sì».

Perché?

«L'errore commesso a sinistra non è errore».

E cos'è?

«Un generoso fraintendimento, riscattato dalle buone intenzioni. Pensa a quel ch'è stato scritto all'inizio del terrorismo. Ma nessuno ne chiede scusa a nessuno».

Perché tanti ex fascisti nei partiti antifascisti?

«Perché tutta l'Italia fu fascista».

Anche per te, come per Longanesi, l'intellettuale è un signore che fa rilegare libri che non ha letto?

«Sì».

A proposito di Longanesi: quanto gli devi?

«Moltissimo».

Ossia?

«Il gusto d'esser in disaccordo col gregge, l'anticonformismo, la lucidità». Roberto Gervaso

"I tormentoni estivi? Sono da 60 anni specchio dell'Italia". Mimmo Di Marzio il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Lo scrittore milanese Enzo Gentile e i cult del pop da spiaggia, da Vianello a Rovazzi. Di questi tempi, alla voce «tormentoni estivi» il pensiero dell'italiano medio vola immediatamente a Notti Magiche, la canzone portafortuna degli azzurri firmata Bennato-Nannini che fa il pari con il Poo-po-po tratta da Seven Nation Army dei White Stripe che fu colonna sonora ai nostri Mondiali del 2006. Ma da che Italia è Italia, ogni estate che si rispetti non può fare a meno del suo tormentone pop, le cui note rimbalzano dagli altoparlanti delle spiagge a quelli delle discoteche (finchè erano aperte). Un'epopea immutabile nei decenni e su cui è appena uscito un libro che ne ripercorre le tappe salienti, recuperando autori e aneddoti, ma soprattutto valorizzando un fenomeno troppe volte frettolosamente snobbato dalla critica «colta». L'autore, il giornalista milanese Enzo Gentile, lo ha intitolato Onda su Onda (Zolfo Editore), degna citazione del brano cult di Bruno Lauzi. Ma di titoli azzeccatissimi ce ne sarebbe stata una sporta - da Sei diventata nera a Una rotonda sul mare a Sapore di sale - tali e tanti sono stati i successoni delle canzoni che hanno accompagnato le estati italiane dal Dopoguerra a oggi. Ed è proprio dal boom economico degli anni Sessanta che prende avvio la bella storia corredata di nostalgiche foto di repertorio dei big della «leggera», consacrati da rassegne come il Cantagiro e il Festivalbar. «In molti casi hanno lasciato un segno più indelebile delle edizioni di Sanremo - dice Gentile - perchè l'Ariston ha avuto anche i suoi lunghi momenti bui, mentre ogni anno è sempre stata l'estate a consacrare la canzone regina». Un fenomeno, questo, tipicamente italiano ma che ci ha visto spesso primeggiare anche nelle classifiche internazionali. «C'è qualcosa di magico nel tormentone estivo, che trascende il clima di competizione che ha sempre caratterizzato Sanremo; il Festivalbar è una gara gioiosamente simbolica e il Cantagiro una parata in versione decappottabile di popstar in vacanza». Gentile però, nel suo atlante, ci tiene anche a sfatare un falso mito: quello che, per dirla alla Bennato, siano sempre state solo canzonette. Nella sua analisi revisionistica, l'autore contestualizza i successi discografici nei periodi socio-economici del Belpaese, quasi come se fossero la colonna sonora di un'Italia che nei decenni ha attraversato entusiasmi, depressioni, nazionalismi e esterofilie. «Se negli ultimi 60 anni dovessimo eleggere un re del tormentone estivo, l'Oscar andrebbe a Edoardo Vianello, autore di pietre miliari come Abbronzatissima, I Watussi, oppure Prendiamo in affitto una barca. Erano, quelle, canzoni spiritose ma nient'affatto stupide e comunque perfettamente in sintonia con un'Italia che inaugurava le prime grandi infrastrutture come l'Autostrada del Sole e che finalmente benediceva le vacanze nei nuovissimi alberghi delle nostre riviere». Facevano il pari, per fare un parallelo cinematografico, con pellicole cult come «Il Sorpasso» di Marco Risi. Quegli anni ruggenti, raccontati nel libro anche attraverso documenti e interviste, erano scanditi da voci simbolo dell'estate come Fred Bongusto e Peppino Di Capri. «Di Capri importò il twist nelle sale da ballo e fu un successo straordinario, perché gli italiani avevano una pazza voglia di ballare per scacciare i fantasmi del passato». Tra i napoletani anche un certo Renato Carosone. Poi i tempi cambiarono ma i tormentoni estivi continuarono come controcanto a sogni, vacanze e, perché no, a nuovi o fedigrafi amori. I '70 furono gli anni del cantautorato impegnato, «eppure, quasi come un contrappasso, la musica leggera lanciò memorabili lenti che parlavano di sentimenti e nostalgie», un intimismo che rivendicava sentimenti schiacciati dalle ideologie. I nuovi big erano Patty Pravo, Lucio Battisti, Claudio Baglioni, Riccardo Cocciante, Mia Martini, Umberto Tozzi e molti altri; così arrivarono le struggenti estati di E tu, Mi ritorni in mente, Pazza idea, Piccolo uomo. «Gli Ottanta, con il loro dirompente edonismo, aprirono le porte al fascino dell'esotico e dei viaggi di massa. Ecco allora tormentoni come Vamos a la playa, Maracaibo e Tropicana». I Novanta battezzarono il rap e un certo disimpegno, contrassegnato dai successi estivi di band come Articolo 31 e 883, ma anche di parodie come Rapput di Claudio Bisio, che non a caso firma la prefazione di questo libro. All'appuntamento con il tormentone non volevano però mancare anche big come Ligabue, Gianna Nannini, Vasco Rossi e Luca Carboni che, con il suo Mare mare, finì per mesi in testa alle classifiche. E oggi, nell'era digitale e della crisi del disco, c'è ancora spazio per il tormentone? «Eccome; soltanto che, per non sbagliare, le produzioni chiedono aiuto all'...usato sicuro, e allora ecco i duetti Morandi-Jovanotti, Rovazzi-Ramazzotti, Orietta Berti-Achille Lauro. Sennò che estate sarebbe?». Mimmo Di Marzio 

Estratto di un articolo di Claudio Tito per “la Repubblica” il 13 luglio 2021. Per capire quanto la vittoria della Nazionale italiana agli Europei di calcio contro l'Inghilterra abbia assunto un significato che va ben oltre il valore sportivo della Coppa, bisogna descrivere la scena che ieri si è materializzata a Bruxelles. Palazzo Justus Lipsius. Riunione dell'Eurogruppo. Con tutti i ministri finanziari dell'Unione, ospite la segretaria americana al Tesoro, Janet Yellen. Dopo una serie di interventi, la parola passa al titolare italiano dell'Economia, Daniele Franco. Ma quella parola non riesce a prenderla. Il discorso nemmeno parte. I partecipanti all'incontro, solitamente molto ordinato e per certi versi burocratico, si alzano in piedi come in una curva da stadio. Scatta un applauso lungo più di un minuto. E, ovviamente, non è rivolto a Franco, ma all'Italia campione d'Europa. Congratulazioni, braccia alzate. Un episodio che raramente capita nelle sedi ovattate dell'Ue. Dove ogni gesto segue un protocollo preciso. Tanto che lo stesso ministro italiano per qualche momento non sa cosa fare. Sorpreso da quell'applauso e in una certa misura impreparato a gestire una situazione più emotiva che "tecnica". Del resto, per tutto il giorno e in tutti gli uffici delle tre principali istituzioni comunitarie non si è parlato d'altro. Dai commessi ai commissari, dai ministri agli autisti dei ministri. Come se, appunto, non si trattasse semplicemente di una partita. O almeno non solo di una partita di "football", come direbbero gli inglesi. E in effetti non era solo un confronto calcistico. Perché dietro la vittoria tricolore a Wembley sono emersi almeno due fattori, entrambi extracalcistici ed entrambi appartenenti alla geopolitica degli ultimi anni. Il primo riguarda la Brexit. I governi dell'Unione hanno sofferto l'uscita britannica. La trattativa condotta da Boris Johnson è stata lunga ed estenuante. Ha lasciato un segno. E tutti - dalla Francia alla Germania, dalla Spagna al Belgio - davanti ad una finale con l'Inghilterra non aspettavano altro che assestare una bella sberla all'arroganza del Regno Unito. Arroganza politica e nell'ultima settimana arroganza sportiva. Bastava legge il titolo dell'Irish Times per comprendere quanto la rivalsa nei confronti dei "Brexiteer" avesse avvolto il podio londinese sul quale sono stati premiati i calciatori di Mancini. È stata dunque vissuta come una rivincita. Esplosa, appunto, al vertice dell'Eurogruppo. Con l'americana Yellen, l'unica che forse non coglieva fino in fondo il senso di quel che stesse davvero accadendo. Il secondo fattore. Riguarda direttamente il nostro Paese. La sensazione vissuta ai vertici dell'Ue è che il campionato europeo abbia di fatto intercettato e suggellato una sorta di «rinascita nazionale». Il New York Times l'ha definita proprio così. Si tratta di quella miscela spesso inspiegabile che forma un'aura. L'autorevole giornale statunitense fa il paragone con la crisi pandemica vissuta negli ultimi diciotto mesi e la riconquista di un ruolo con l'insediamento del governo Draghi, «il cui elevato status internazionale ha contribuito a trasformare l'Italia da piccolo attore sulla scena europea a forza trainante». Il punto è che il trionfo azzurro a Londra sembra quasi aver allungato i suoi effetti sulla politica. Ha trasferito carisma. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e quello del Consiglio, Mario Draghi, diventano così i volti istituzionali di una vittoria sportiva. Non è la prima volta. Spesso è anche capitato il contrario. Come accadde nel 2010 in Sudafrica e in una certa misura Silvio Berlusconi ne subì il peso. Soprattutto per il confronto con la vittoria di quattro anni prima quando a palazzo Chigi sedeva Romano Prodi.

Luca Cirillo per areanapoli.it il 16 luglio 2021. La vittoria dell’Italia a Euro 2020 ha tra i protagonisti principali il CT Roberto Mancini, autore di una vera e propria impresa. In questi giorni di festa, però, all'occhio attento del web non è sfuggito un post del giornalista Paolo Bargiggia, del lontano 2018. Dopo la mancata qualificazione ai Mondiali in Russia (all'epoca il CT era Ventura), quello compiuto dal tecnico della Nazionale Italiana è un autentico miracolo. Bargiggia, quando fu scelto Mancini, commentò così: "Dunque per rilanciare l’Italia, la Figc ha preso Roberto Mancini, un tecnico che brucia giocatori in un nanosecondo se gli stanno anticipatici, che sta sulle palle a quasi tutti i colleghi, ricambiando. E che non parla ai giornalisti che lo criticano. Io non tifo Italia”, scrisse il giornalista. Immediate le critiche: “Sempre sul pezzo. Scrivilo anche quest’anno un post del genere, così magari vinciamo anche i Mondiali”. Oppure: “Grande Bargiggia, dalla parte sbagliata. Sempre”. La replica di Bargiggia è arrivata: “Qualcuno, stamane, ha ripescato un mio tweet di tre anni fa, quando criticavo la scelta di prendere il Mancio. All’epoca era un altro Mancini, molto frettoloso nel bruciare calciatori e poco simpatico nei confronti della stampa. Non mi sono tirato indietro, durante il suo percorso, nell’elogiare il commissario tecnico e la sua evoluzione” – le parole di Paolo Bargiggia nel corso della trasmissione “Il Sogno Nel Cuore”, su 1 Station Radio -. "Mancini in finale è stato geniale, quando si è accorto che non riuscivamo a sfondare con l’attaccante, ha tolto Immobile e ha messo il falso nove. Bisogna riconoscergli i meriti di questa vittoria con le scelte che ha fatto nel corso della competizione. Roberto è completamente cambiato, maturato, lavorare in Nazionale gli ha portato tranquillità, soprattutto nelle scelte, che in un club non può avere. Le nostre società partono dei gradini sotto rispetto a quelle degli altri campionati, causa risorse economiche inferiori, ma con la Nazionale siamo riusciti ad essere alla pari. Il loro successo è dovuto ad un cambio di mentalità, di strategia, di progetto che c’è in Federcalcio. Non dimentichiamo la caciara che c’era con Tavecchio, Gravina ha restituito credibilità”.

La stagione dei rampanti: sta nascendo un nuovo modello tricolore? Vncenti, arrembanti, perfino simpatici: a sorpresa gli italiani si portano, come un abito alla moda. Uno scrittore racconta la strana estate della rivalsa. Diego De Silva su L'Espresso il 16 luglio 2021. In fila al supermercato, il giorno dopo la vittoria degli Azzurri a Wembley, intercetto un memorabile scambio di battute fra un cassiere di quelli proprio loquaci e una cliente pure votatissima alla chiacchiera (è in questi rituali che si conserva l’identità di un quartiere). Fin dalla prima battuta sento odore di perla di saggezza, così tendo l’orecchio e memorizzo (una delle mie occupazioni preferite è rubacchiare siparietti spontanei quando mi capita d’incrociarli andando in giro: un rubacchio che pratico sempre in modalità colposa, mai intenzionale, perché le storie non ti vengono incontro se esci di casa per cercarle).

Ecco di seguito il dialogo, che riporto nel modo più fedele possibile. 

CASSIERE «Aòh, ce lo sai che m’ha detto stamattina un cliente?».

SIGNORA «E no che nu lo so. Mica m’hai mannato un messaggetto».

Il cassiere bypassa la battuta (non si capisce se per darle ragione o per non darle soddisfazione: amo questi mancati riscontri, queste omissioni ambigue che lasciano l’interlocutore nell’ignoto, inibendo l’interpretazione), e va a recitare il Verbo del saggio cliente che chissà poi se esiste.

CASSIERE «Da quanno c’avemo l’euri è ’a prima vorta che so’ contento de paga’ co’ l’euri».

Qui va in stallo (addirittura depone la pistola sospendendo la sparatoria sui codici a barre delle merci posate dalla signora sul tappetino rotante) e la guarda negli occhi annuendo ripetutamente per richiamarla a un momentaneo silenzio di meditazione.

Per un attimo, la fila va in pausa. Noialtri che veniamo dopo la signora ci freeziamo, e per un pelo non parte un coro di: “Oooh!”, europeissimi come ci sentiamo dalla sera precedente. E sì che, nell’arco di qualche ora, la vittoria dell’Italia ora ha scatenato una pandemia d’orgoglio nazionale a cui è impossibile restare immuni, tranne rare eccezioni, tra cui appunto la signora, che chiaramente non ha visto la partita e dunque non ha idea di cosa stia parlando il cassiere (o meglio, il cliente per bocca del cassiere). Allora che fa? Chiude a ciuffetto le dita della mano e gli offre un carciofo immaginario, agitandolo nello spazio aereo che li separa. «Ma che stai a di’?», è la battuta che lampeggia in sovraimpressione virtuale. Al che, come un cambio drastico di temperatura, si percepisce un moto collettivo che sa di blando rimprovero, dato che tutti vorremmo intervenire per aggiornare la signora sulla vittoria della Nazionale (anzi: sulla sconfitta dell’Inghilterra) e sollecitare in lei il rigurgito patriottico che ci ha avviluppati quasi come ai tempi indimenticati dei mondiali del 1982 (l’associazione fra Mattarella - presente nello stadio di Wembley - e Pertini al Santiago Bernabéu la sera della vittoria sulla Germania, è scattata di default all’ultima, spettacolare parata di Donnarumma). Da un punto imprecisato della fila, infatti, parte un: «A signò, se ’nformi: semo campioni d’Europaa!».

Ci voltiamo tutti alla ricerca del suggeritore (ma è impossibile: le voci delle file rimangono sempre senza faccia ed è inutile cercare di identificarle), mentre il cassiere solleva le braccia esibendosi in un altro gesto favolosamente ambiguo (non è chiaro se stia ringraziando il volontario per l’intervento chiarificatore o inneggi alla vittoria dell’Italia), quindi abbassa il capo, inchinandosi simbolicamente alla coppa (questa si capisce).

«Aah, ecco», fa la signora voltandosi anche lei verso la voce senza volto; quindi torna a rivolgersi al cassiere, interdetta (altro che «Ah, ecco»). 

SIGNORA - «E che c’entra cor fatto de paga’ co’ l’euri?».

Il cassiere scuote paternalisticamente la testa, disarmato dall’ingenuità della domanda.

CASSIERE «Che se sentimo più europei, no? Anzi, semo i più europei de tutti, visto che ormai l’Europa aavemo vinta».

SIGNORA (perplessa) – «Ah». 

A quel punto, così com’era iniziato, il dialogo termina bruscamente. La signora accetta la spiegazione anche se, con tutta evidenza, non la capisce (nel senso che non la coglie sul piano emotivo), ma la recepisce nella sua accezione dogmatica (perché i dogmi sono fatti anzitutto per chi non capisce), quindi paga la merce e si avvia verso l’uscita, con una lentezza nel passo che pare andare a tempo con i suoi tentativi di comprensione della frase appena ascoltata. La seguo con gli occhi e penso che probabilmente si sta interrogando sul concetto dell’aver vinto l’Europa, che ovviamente non ne ha nessuno ma accidenti se fa ridere.

Il fatto è che da un po’ l’Italia sta vivendo una stagione rampante. Si porta, come si dice comunemente. E siamo tutti un po’ vanitosi dei successi che riscuote, specie sul piano internazionale. Soprattutto sulla scena di quell’Europa così chiacchierata e spettegolata dalla politica degli ultimi anni (forse è questo che intendeva il cassiere parlando di vincere l’Europa, che detto così ricorda il Monopoli ma interpretando estensivamente il concetto demenziale potrebbe alludere alla conquista metaforica di una regione del mondo).

Capitano, i periodi di grazia. Un po’ a tutti. Anche alle persone comuni (per quelle però durano pochissimo, in pratica sono la versione psicologica del quarto d’ora warholiano, infatti c’è chi va ancora in analisi e chi a Lourdes, dalla fine improvvisa di quell’intervallo fatato). Quando capitano su vasta scala, generano un accredito d’interessi a cascata, come se un fondo d’investimento che non ha mai superato la sufficienza (con qualche buona, occasionale performance), quasi da un giorno all’altro iniziasse a produrre ricavi elevatissimi, e quella che sembrava una prestazione casuale si rivela il meritato raccolto di una semina ostinata, fiduciosa e paziente (il successo - quello meritato - è sempre un aver ragione in seguito), che grazie a una perfetta geometria delle circostanze riproduce i suoi successi in più campi.

L’Italia, da un po’, sta vivendo questa stagione. Va bene un po’ ovunque (okay, non è vero, ma per capirci). Di più: vince. E il mondo si riaccorge di lei, riscattando un popolo troppo a lungo gravato da una quota di sfiga autoimmune che ne ha sempre compromesso le potenzialità, unita a una tendenza masochistica alla svalutazione. Ed ecco che quando i Maneskin trionfano all’Eurovision Rock Contest (dopo aver vinto il festival di Sanremo con un pezzo per nulla sanremese), la Nazionale straccia l’Inghilterra agli Europei scrivendo un’implicita, involontaria recensione alla Brexit, e Matteo Berrettini arriva alla finale del torneo di Wimbledon (unico tennista italiano nella storia ad aver finora raggiunto un simile obiettivo), il risveglio identitario di un popolo orgoglioso e finalmente consapevole dei propri meriti, diventa il portato logico di un’affermazione sul campo (mai metafora fu più azzeccata). E se a questo aggiungiamo (ma così, en passant) che il presidente del Consiglio italiano è annoverato fra le personalità più stimate e influenti della scena politica attuale, già presidente (anche) della Bce e - soprattutto - fra i pochissimi politici al mondo che disertano i social (che bello), il quadretto dell’Italia leader d’Europa (quella che l’avrebbe vinta, per riprendere la perla comica del cassiere) diventa il curriculum da sbattere dispettosamente in faccia a chiunque abbia fatto l’errore di sottovalutarci. Rosicate, gente, rosicate. Tiè. 

«Tiè», non inteso in accezione scaramantica ma nel suo senso infantilistico di rivalsa, di compiacimento maligno per qualcosa di spiacevole capitato ad altri, è l’interiezione che ben riassume lo stato d’animo procurato da una vittoria piena, soddisfacente e meritata, cioè oggettivamente riconosciuta (perché il merito vuole la maggioranza assoluta, è tale quando reprime sul nascere qualsiasi critica).

Non sono un fan dei Maneskin (anche se ho trovato bellissimo il loro live act al Song Contest: un’esplosione di giovinezza, talento, ambizione, armonia e arroganza dei corpi in scena), ma quando hanno vinto sono stato felice come una Pasqua. Non vedevo una partita di calcio (di cui nulla so e nulla capisco) non so neanche più da quanti anni, ma l’altra sera, che chissà perché m’è venuta voglia di vedere la finale degli europei, quando Donnarumma ha parato l’ultimo rigore sono saltato sulla poltrona e ho urlato un Vaffanculo a 200 watt (è quella la parola che accompagna un’esplosione di felicità). Ero entusiasta, avevo voglia di uscire e andare alla ricerca di estranei da abbracciare. Ho scaricato adrenalina per un buon quarto d’ora, tanto ero stato in apprensione durante i rigori. Il bello di questo tipo di gioia (che, da non tifoso, ho provato pochissime volte: l’ultima forse proprio alla vittoria dei Mondiali dell’82) è il sollievo, che, paradossalmente, ha una carica esplosiva fortissima. È bello, saltare dal sollievo. Forse è quella, l’emozione a cui aspira il tifoso. 

Non so quanto durerà questa stagione vincente dell’Italia. Non sono affatto contento di pagare in euro, come diceva il saggio cliente del supermercato, perché penso ancora in lire, e patisco la sensazione del raddoppio dei prezzi. Non sono un tifoso. Non sono un amante della musica di questo tempo. Però sono contento. Per l’Italia, per Berrettini, per i Maneskin. Ho sofferto, come tanti, per la morte della Carrà, che nel lutto collettivo ha confermato l’importanza di una biografia artistica, anche quella italianissima (una Madonna ante litteram come lei, il mondo se la sogna, Madonna compresa). E nel riconoscere in me i sintomi di questa italianità compiaciuta e un po’ stupida (perché chiunque si compiaccia di sé è inevitabilmente stupido), penso a quanto avesse ragione (come al solito) Gaber, quando cantava: «Io non mi sento italiano / ma per fortuna o purtroppo lo sono». 

Giovane stil novo, la carica dei nuovi italiani. Dai Maneskin ai ragazzi di Mancini, dall’arte alla lirica al cinema. Cittadini del mondo, rappresentano una generazione che non ha politici né narratori. Sabina Minardi su L'Espresso il 16 luglio 2021. Con sfrontatezza: come una band di rockettari, impavidi e coi lividi sui gomiti, che dalle vie di Roma dà l’assalto all’Eurovision Song, lo vince, e svetta al primo posto al mondo di Spotify. Senza paura: come un ragazzo di venticinque anni che, primo italiano a Wimbledon, combatte sino all’ultimo per il trofeo, con uno stile e una potenza che conquistano il mondo del tennis. Con la contagiosa simpatia di un film di animazione che, tra un giro in Vespa e un gelato, guida la riscossa del turismo in Italia, a partire dai borghi colorati delle Cinque terre. 

Con la grinta, il furore, la magia della nazionale di calcio: it’s coming Rome, la coppa non è rimasta a casa (loro), ma è tornata nella Capitale. Ed è tornata anche quell’Italia che il mondo ama, ispira e fa tendenza. Anzi, era già sotto gli occhi di molti: gli azzurri, espugnando Wembley e addensando in una notte la nazione intorno al tricolore, l’hanno certificata e rilanciata nel mondo intero. Ribaltando uno stato d’animo collettivo. E rinnovando l’immagine di un made in Italy inconfondibile e nuovo al tempo stesso.

Visionario, non a caso, è l’aggettivo più usato per descrivere la fiducia del ct Roberto Mancini verso i suoi ragazzi. Stile profetico e persino mistico, tradizione agiografica reinterpretata nei campi più diversi da emblemi di contemporaneità assoluta: Alessandro Michele di Gucci, astro dello stile delle celebrità di ogni latitudine; Cecilia Alemani, mente dell’High Line Art di New York, tra le curatrici più influenti al mondo; Beatrice Rana, la ventottenne pianista salentina che ha conquistato le più prestigiose sale da concerto. 

Stile spigliatissimo, come quello di Matilda De Angelis, la giovane attrice che in “The Undoing” tiene testa a Nicole Kidman. Con la faccia cattiva e talentuosa di Marco D’Amore e Salvatore Esposito, gli antieroi di “Gomorra” che calamitano il mercato americano della serialità tv. E pure con la grinta romagnola di una veterana dei palchi, Laura Pausini, che però, vincendo il Golden Globe e dedicandolo alla sua Italia, ha scosso via per prima la polvere dalla rinascita nazionale. E la passione per l’Italia, ora, corre, accumula segnali concreti, non solo retaggi di vecchie glorie.

E sono i più giovani, smarcandosi da mesi di restrizioni, ad andare dritti al sogno per prenderselo: senza indugiare su quanto questi “cinque anni in uno”, come sostiene Alessandro Baricco, ci abbiano sottratto. L’Italia dei ragazzi fragili ma protesi oltre il buio, ritratti da “Futura”, l’inchiesta di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, portata alla Quinzaine des Réalisateurs. Quella rappresentata dalla regista Maura Delpero, che sempre a Cannes vince, prima autrice italiana, lo Young Talent Award di Women in Motion dopo aver conquistato, con “Maternal”, la critica di mezzo mondo.

L’Italia dei giovani che finalmente padroneggiano l’inglese come mai nessuna generazione prima. E degli adolescenti pazzi per Harry Styles, ex membro della band One Direction: che prima li inorgoglisce annunciando di aver cominciato a studiare l’italiano, la lingua più bella del mondo; poi ambienta “Golden” in Costiera amalfitana, ed elogia di continuo l’Italia. E, come lui, una sfilza di influencer europei e americani che sognano, seguono, diffondono sui social, a colpi di hashtag, l’italian style. Involontaria, spontanea rimonta di un’identità che, fuori dalla politica, senza uno storytelling programmato, a dispetto persino di egoismi da boomer e miopie partitiche, si fa strada e si impone.

Ce lo riconoscono le testate straniere. The New York Times: la vittoria calcistica fa da eco a un più diffuso rinascimento italiano (“Italy’s Victory at Euro 2020 Echoes a Broader Resurgence”). “Torna la Dolce Vita”, titola in prima pagina il Frankfurter Allgemeine Zeitung, celebrando la ritrovata libertà e il gusto di stare insieme, all’aperto, per l’aperitivo. E il quotidiano El País nota come lo stile calcistico così alegre y ofensivo sia la dimostrazione del neostato d’animo del Paese. Dove all’improvviso si legge persino di più, come annunciano per la prima volta dopo molti anni i dati Aie: con un incremento delle vendite, nei primi sei mesi del 2021, che aggiunge 15 milioni di copie di libri a stampa in più rispetto al 2020 (+44 per cento), per un incremento che vale 207 milioni di euro. E non c’è soltanto Elena Ferrante a trainare il turismo letterario verso l’Italia: Stefania Auci, 700 mila copie vendute in Italia, sta conquistando l’estero con “I Leoni di Sicilia”. Dopo l’editore De Bezige Bij che per primo l’ha pubblicato in Olanda, dopo gli spagnoli di Grijalbo e gli americani di HarperCollins, il volume è sbarcato in Israele, in Germania, in Portogallo, in Francia: con splendide recensioni all’unica italiana in classifica.

Racconto di un’Italia fatta di passioni e valori forti. E del piacere di cose semplici, di un’infanzia che ci accomuna. Proprio come quelle vacanze in Liguria trascorse da bambino dal regista Enrico Casarosa, che ritornano nel film “Luca”, da lui diretto per Disney e Pixar: una favola in un’immaginaria Portorosso, e in un’Italia anni Cinquanta-Sessanta, dove due ragazzini, Luca e Alberto, scorrazzano a bordo di una Vespa - proprio mentre lo scooter celebra 75 anni - tenendo ben stretto il segreto della loro amicizia: un’identità da mostri marini. Allegoria di una diversità e di una relazione sentimentale, forse, che di certo fa tornare in mente il libro di André Aciman e il film di un altro Luca, il regista Guadagnino di “Chiamami col tuo nome”, ambientato nel Nord Italia. Un dubbio lecito, in un Paese sì dai colori caldi e saturi, borghi incantati che affiorano direttamente dal mare, biciclettate tra i carrugi, e quel gusto un po’ vintage che tanto piace all’estero, ma che di strada ne ha fatta, coi suoi ragazzi in piazza a sostegno dell’inclusione, contro le discriminazioni, per i diritti di tutti. 

Potenzialmente formidabile l’effetto marketing di “Luca”. Colta al volo a Monterosso, dove due statue subacquee con le sembianze dei protagonisti sono state collocate nei fondali, ad attrarre patiti di snorkeling e di Disney. «Grazie ragazzi, sul tetto d’Europa, insieme!», esulta non a caso la produzione di “Luca”, all’indomani della vittoria azzurra. Perché questa Italia vincente, «ribelle, grintosa e talentuosa» come la addita The Guardian, significa soldi, non solo pioggia di coriandoli nella notte di Euro2020, lacrime liberatorie e fiumi di retorica. Quanto pesa l’ottimismo? Dodici miliardi euro di Pil in più, ha previsto subito Coldiretti. E il presidente della Figc, Gabriele Gravina, l’ha ripetuto a Mario Draghi: «Tutte le maggiori ricerche stimano l’impatto della vittoria calcistica nello 0,7 per cento del Pil».

S’è desta, l’Italia, assieme al suo inno sul campo di calcio. L’Italia degli italiani che si riconoscono lontano un miglio, strapaese che però oggi rivendica persino gli stereotipi, capace come mai prima di anestetizzarne le velenosità, con ironia: italiani mammoni? «Ciao, mamma», salutano uno dopo l’altro gli azzurri. E giù le mani dall’ananas sulla pizza, guai a chi tocca gli spaghetti per sfottò: conviene più all’influencer belga incollarli, che cuocerli spezzati e rosolare sui social.

Perché è l’Italia che sa ridere, che si diverte, con l’aria scanzonata di quel Khaby Lame, che con video senza voce si ritrova ad essere il secondo account più seguito al mondo di Tik Tok. «Divertitevi», ammoniscono a inizio partita i commentatori tv, come se davvero contasse solo quello; «Avete fatto divertire tutta l’Italia», ripete il presidente Mattarella che per gli azzurri fa ciò che non concede a nessuno: lasciarsi andare, all’esultanza, ai sorrisi, al romanesco. L’Italia degli infiniti meme, dello sberleffo che diventa arte: come quel coro da stadio, “Poo-po-popopopooò”, geniale appropriazione e adattamento del riff di “Seven Nation Army” dei White Stripes, che tutti vogliono ora fare proprio, come inno globale di vittoria.

L’Italia del talento dei singoli: Vittorio Grigolo, per il Metropolitan di New York il nuovo Pavarotti; Jorit, street-artist campano tra i più apprezzati al mondo; Daniel Blanga Gubbay, che dopo gli studi a Venezia ha viaggiato per Palermo, Valencia, Berlino, ed è codirettore del Kustenfestival des Arts di Bruxelles; il drammaturgo Davide Carnevali, le cui opere sono messe in scena a Nancy, Barcellona, Berlino; la violinista Francesca Dego; gli sportivi vincenti di oggi ma anche quelli che ci hanno fatto sognare poche settimane fa: il diciannovenne Jannik Sinner, tra i migliori tennisti under 20 del mondo, il torinese Lorenzo Sonego-Guerriero Sonny, Lorenzo Musetti, la nazionale di basket, la nuotatrice Benedetta Pialto, le atlete Gaia Sabbatini, Dalia Kaddari, Nadia Battocletti e tutti gli altri sul podio più alto agli Europei di atletica under 23 di Tallinn. 

Perché è la forza del gruppo, dell’amicizia esibita, e convintamente riconosciuta, che torna a circolare: quella che interpretano sul palco e nella vita Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan dei Maneskin. Che si parlano con gli occhi e col loro seducente impasto di malinconia e combattività emozionano, trascinano in Italia, dopo 31 anni, grazie alla loro vittoria, il prossimo Eurovision, collezionano 7 milioni e mezzo di stream in sole 24 ore (“Beggin”). Ed esplodono sui palchi per gridare che l’amore non è mai sbagliato, come ha fatto Damiano in Polonia. O danno lezione di sportività, come Matteo Berrettini, che trattiene le reazioni in campo, e ringrazia e sorride dopo la sconfitta, entrando nel cuore di tutti. Civiltà di questa Italia che sul campo di calcio smaschera l’ormai morto e sepolto british style. E ribadisce la convinzione dello sport, ben prima che la pandemia lo ricordasse a tutti, dell’importanza del gioco di squadra: persino Nanni Moretti l’ha dovuto accettare, facendo un passo indietro – nelle battute, nelle apparizioni, nell’egocentrismo - a vantaggio del cast di “Tre piani”, il film che ha conquistato Cannes con lunghissimi minuti di applausi.

Si spezza il maleficio, ultrà del tricolore escono allo scoperto da tutto il mondo. Questa Italia, sempre in bilico tra futuro e nostalgia, tra enfasi e disfattismo, riconquista il suo carisma. “Zitti e buoni” ai suoi ragazzi non deve dirlo più. 

Italiani sospesi. Marco Damilano su L'Espresso il 16 luglio 2021. Passata la festa di una notte d’estate il Paese resta appeso alla capacità di costruire la democrazia come tessuto collettivo. Ma è un filo fragile. L’Italia è una donna sospesa sul filo, la disegna così poeticamente Mauro Biani in copertina. La sospensione è lo stato d’animo del Paese da molti anni. Il Paese sospeso fu l’immagine scelta da Ilvo Diamanti per raccontare la vigilia pre-elettorale del 2018. Seguì il voto a sorpresa, l’impossibilità di fare un governo con due mesi di crisi e le consultazioni al Quirinale che non finivano mai. E poi la pazza legislatura, i gialloverdi per isolare il Pd, i giallorossi per contenere la Lega, il governo di tutti i partiti per mettere in mora se stessi. E la pandemia, la più grave emergenza sanitaria, economica e sociale del dopoguerra. In una notte d’estate, per qualche ora, la sospensione si colora di azzurro. E il Paese si divide, di nuovo, tra apocalittici e integrati. Tra chi accetta tutto, ma proprio tutto, con entusiasmo infantile e chi nega tutto, ma proprio tutto, con immutabile rancore. «E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile, / lo vidi errare da una piazza all’altra / dall’uno all’altro caffè di Milano / inseguito dalla radio. / “Porca - vociferando - porca.” Lo guardava / stupefatta la gente. / Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna / che ignara o no a morte ci ha ferito». Così Vittorio Sereni raccontò la reazione di Umberto Saba alla vittoria della Democrazia cristiana sul Fronte popolare socialcomunista alle prime elezioni repubblicane il 18 aprile 1948. I versi mi sono tornati in mente la notte dell’11 luglio, tra il suono dei clacson e i caroselli delle macchine e i tricolori tornati a sventolare, solo per una notte che a una settimana di distanza appare già lontana. Tutto è diventato veloce, effimero, nella dimensione collettiva, anche il dolore lo è, così come la gioia. Al posto del corteo dei camion con le bare di Bergamo nel marzo 2020 della grande paura del Covid-19 si è sostituita la folla che accompagnava il bus scoperto della Nazionale azzurra, dove ogni regola di distanziamento è colpevolmente saltata: i simpatici neo-campioni d’Europa hanno imparato subito la lezione dell’arroganza del potere che scavalca le regole fuori dal campo. E via con i fiumi di retorica nazionale, l’Italia trasformata in un unico grande terrazzo da cui cantare l’inno, come durante il primo lockdown di sedici mesi fa, quando lo fecero soprattutto nei quartieri in cui non c’erano problemi di spazio. A Roma, ad esempio, nei quartieri più ricchi le case presentano una superficie media di 108 mq, 50 mq per abitante, nelle periferie del disagio, come l’hanno definite Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi in “Le sette Rome” (Donzelli), le abitazioni hanno la minore superficie media (84 mq) e per residente (34 mq) di tutta la città, con conseguenze drammatiche. In queste zone il virus ha colpito più duro: maggiore contagio, più mortalità. La pandemia, scrivono i tre ricercatori, è in realtà una sindemia, che aggrava le difficoltà e le disuguaglianze già esistenti. Anche cantare l’inno nazionale dai balconi non era la stessa cosa, e neppure vedere insieme la partita. Forza Italia, che divenne il nome di un partito, e Porca Italia a volte convivono nella stessa formazione, nella stessa persona, nello stesso leader. Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Beppe Grillo e anche Matteo Salvini, divisi da mille cose, sono uniti da questo spirito che è insieme anti-italiano (ma non nel senso di Giorgio Bocca, Roberto Saviano e oggi Michela Murgia!) e arci-italiano, due dimensioni che nella storia nazionale e nel segmento più recente, la storia repubblicana, spesso si tengono insieme. A ciascuno di questi leader è toccata la volontà di incarnare un nuovo tipo di italiano, diverso da quello precedente. Berlusconi vinceva proponendosi come modello di un nuovo italiano, «se fate come me vi arricchirete», il Renzi del quaranta per cento del Pd voleva restituire un’identità all’Italia del centro e addirittura ri-fare gli italiani. «Dante ha fatto l’Italia. O perlomeno l’italiano», scriveva da sindaco di Firenze. Sognava un italiano nuovo, anzi, alla fiorentina, novo. Un Dolce Italiano Novo da costruire dall’alto della sua leadership. Il Grillo delle origini invitava il pubblico a spedire un sonoro Vaffa contro se stesso. «Il fanculamento dei politici è un mero pretesto per fanculare la gente. Perché è colpa nostra se siamo ancora comandati da questa gente. E i partiti nuovi fanno ancora più schifo di quelli vecchi», spiegava quando di mestiere faceva ancora il comico. Poi, da leader politico, se n’è dimenticato. E si è prodigato per carezzare la gente dal verso del pelo: voi siete i buoni, nonostante i condoni edilizi e l’evasione fiscale, i politici, loro, sono i cattivi, il bersaglio da abbattere, un obiettivo sempre più debole e screditato. Salvo poi trasformarsi nel primo dei capi partito, impegnato in una lotta intestina con Giuseppe Conte per mantenere la sua egemonia. E lasciare la bandiera dell’anti-politica ai nuovi profeti del i-politici-che-fanno-schifo, gli influencer, i Ferragnez. Con lo sbalorditivo plauso dei politici del Pd. I populisti e i sovranisti alla Orban sono ossessionati dall’idea del tradimento della patria, vedono nemici dappertutto: una volta sono i comunisti, poi gli islamici, gli immigrati. Gli omosessuali che attentano ai valori della tradizione. Le burocrazie di Bruxelles che annullano le nazioni. E poi le autorità e le agenzie indipendenti, la magistratura e il giornalismo. Sono le istituzioni che fanno la qualità di una democrazia, lo ha ripetuto domenica scorsa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ecco una politica di professione, una democristiana moderata che sa emozionarsi e conosce i luoghi dove si trova, visitando il campo di concentramento di Fossoli da cui viaggiavano i treni verso l’Est, anche quello che portò Primo Levi ad Auschwitz partì da lì. Non si può ammettere alcuna discriminazione in Europa, contro le università, l’informazione, le persone di colore, gli ebrei, le persone Lgbtq. Nello stesso luogo il presidente del Parlamento europeo David Sassoli e Pierluigi Castagnetti, eredi della cultura cattolico- democratica da cui proviene Sergio Mattarella, hanno ricordato che le radici della costruzione europea affondano lì, nell’orrore dei lager, nella guerra tra nazionalismi nel cuore dell’Europa. Tutto quello che i sovranisti dimenticano: il Mediterraneo tomba dei migranti, la Libia che cancella i diritti. Il segretario del Pd Enrico Letta, finalmente, rilancia la sfida: i delitti contro l’umanità sono una questione europea, non italiana. Anche la visita di Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia nel carcere della vergogna di Santa Maria Capua Vetere è il tratto di un cammino di civiltà, lento e frammentato. Sono appunti ancora imperfetti per una nuova identità italiana e europea, alternativa a quella di Salvini e Meloni che appaiono appena più moderati dei loro alleati di Ungheria e Polonia. Ma è una costruzione fragile, se non diventa senso comune, se non diventa una canzone popolare. Un tecnico come Mario Monti da presidente del Consiglio dichiarò a Time nel 2012 di «voler cambiare le abitudini degli italiani»: «La politica ha diseducato per anni gli italiani. Senza un cambiamento le riforme strutturali sarebbero effimere». Il premier Draghi, per fortuna, non ha mai dichiarato di voler costruire un nuovo modello di italiano. Si accontenta di spendere bene i fondi europei per la ripresa. Ma c’è da chiedersi se le riforme del Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza serviranno a fare un passo anche nella direzione di una identità nazionale contemporanea, quella che ad esempio incarnano i ragazzi expat, i nuovi italiani nel mondo: un’identità molteplice, pluralista, aperta sul mondo. E se la partecipazione esibita senza freni alla gioia collettiva calcistica del premier Draghi sia il sintomo della necessità di un nuovo consenso nel Paese, non soltanto di tipo razionale o emergenziale. Le emozioni sono un fatto sociale, non privato, ha scritto lo psicologo americano Adam Grant (New York Times, 13 luglio), a proposito di «un’effervescenza collettiva» perduta durante il lockdown e che ora va recuperata. In questo anno e mezzo l’Italia ha perso 750mila posti di lavoro e la fine del blocco dei licenziamenti ha portato a situazioni vergognose e incivili come quella della Gkn di Campi Bisenzio, nelle stesse ore in cui si scendeva in piazza per esultare. Hanno retto all’onda d’urto drammatica del Covid-19 le strutture portanti del Paese come le famiglie, il bene-rifugio nazionale in tempi di smartworking e di didattica a distanza, e le imprese manifatturiere non travolte dalla crisi. Ma altre strutture sono entrare in allarme. Per quasi la metà degli studenti la didattica a distanza è stata quasi impossibile, con gravi conseguenze psicologiche. Ancora, le mappe sulle sette Rome ci dicono che in un quartiere come Tor Bella Monaca 30mila abitanti su 73mila vivono di un qualche sussidio (reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, Naspi, bonus covid). Il volontariato e l’associazionismo che sono il capitale sociale del Paese sono entrati in difficoltà. Dietro i discorsi sull’identità nazionale da ricostruire ci sono i dati materiali. L’immagine di una ripresa e di un rilancio impossibili da attuare senza una partecipazione collettiva della comunità nazionale. Tutto quello che manca, senza un’impresa politica. Il Draghismo, se esiste, è una pratica di governo, pragmatismo al servizio della ricostruzione post-covid, si identifica con il presidente del Consiglio e con la sua squadra di tecnici. La politica, al confronto, sembra incapace di decidere, che si tratti di disegno di legge Zan, con il dibattito arcaico e inconcludente nell’aula del Senato, o di nomine Rai. È una situazione che può rallegrare quel pezzo di Paese che cresce e progredisce senza politica, o addirittura contro la politica, ma che deve allarmare chi vede in questo deserto di rappresentanza un pericolo per la coesione sociale e un potenziale moltiplicatore di disuguaglianze. Quel filo su cui si regge l’Italia sospesa non è il prestigio internazionale e l’autorevolezza morale di un pezzo di classe dirigente, il presidente Mattarella, il premier Draghi, ma è la capacità di costruire la democrazia come tessuto collettivo del Paese. Per questo il filo è fragile e la scommessa va oltre la gioia di una notte d’estate che è una bella parentesi nella crisi in cui ci troviamo.

Dagli Eurovision agli Europei, l’Italia è meglio di quello che lei stessa pensa di essere. Giampiero Casoni il 12/07/2021 su Notizie.it. Siamo figli del melodramma e di mille contraddizioni, ma se decidiamo di corteggiare l’eccellenza siamo i più bravi del mondo a portarla a nozze. Chi dice di non averci pensato è birbaccione e mente, anche a considerare che Damiano dei Maneskin in autoreggenti che ulula sul palco e Chiellini con la corona in capoccia che bramisce a Wembley non sono proprio immagini omologhe, non in estetica almeno. Eppure sono uguali a voler contare una cosa basica e bellissima: che gli italiani sono molto più di quello che essi sanno di essere. Perché noi siamo fatti così e non è proprio colpa nostra: figli del melodramma e delle mille contraddizioni che partoriamo nella nostra quotidianità di popolo arrangione tendiamo a dimenticarci che se decidiamo di corteggiare l’eccellenza siamo i più bravi del mondo a portarla a nozze. E allora, in una sorta di domino della sfiga compiaciuta cadiamo nel trappolone dei piagnistei e permettiamo agli altri di farci a brandelli. Il che non sarebbe neanche male, se solo avessimo consapevolezza di quanto effimere siano le critiche di chi sta peggio di noi (vero Maestà?). Solo che alla lunga l’Italia si è fidanzata con il luogocomunismo che la vuole Paese da sei politico e quando poi svetta in pagella pare che sia accaduto un miracolo. E invece non è così e ce lo dice la cronaca prima ancora che sedimenti in storia: dagli Eurovision agli Europei e facendo pure una tappa solenne a Wimbledon e in decine di altri ambiti meno mainstream l’essere Italia è arrivato a coincidere con l’essere il Fattore Dominante, quella che se non la batti o se non ci fai i conti non sei nessuno, quella che se blatera e si sbraccia e urla nelle strade lo fa dopo averne acquisito diritto e merito sul campo, qualunque campo dove un italiano singolo o in gruppo decida di mettersi la tigna fra i denti e che è ora di fare sul serio. Ora, a contare che siamo andati a meta proprio su cose dove qualcun altro si sentiva leader, la faccenda dovrebbe farci riflettere ancora di più. Il rock è per antonomasia e genetica da pentagramma faccenda British e i Maneskin stanno polverizzando ogni record. Il calcio, ma qui entriamo nel vespaio delle opinioni, è invenzione British e proprio in un contenitore britannico e contro i britannici abbiamo menato la Scoppola Definitiva e datemi un amen grosso come la torre di Londra dove pure i corvi oggi sono più neri. Insomma, l’antico mantra che faceva noi mediterranei dionisiaci inconcludenti e i nipotini della Riforma concreti attuatori di cose pare diventato una favoletta. Una cosina blanda da raccontare ai bambini in pre sonno quando mettono il broncio e li vuoi far ridere sennò addio serata marpiona con la moglie. Perché se l’Italia è diventata meglio di ciò che gli italiani pensavano che fosse forse il merito è proprio di quegli italiani che ci hanno cominciato a credere. Perciò prendiamo esempio e, che siano parastinchi o chitarre, che sia cantando “Zitti e buoni” o ululando “Ne dovete mangiare di pastasciutta”, andiamo a prenderci il mondo.

Ignazio Stagno per ilgiornale.it il 13 luglio 2021. Meritiamo rispetto. Lo meritiamo come Paese, come Nazione e anche nel calcio. Diciamoci la verità: lo spettacolo vergognoso che ha preceduto Italia-Inghilterra ha ferito e non poco l'orgoglio Azzurro. L'odio, le prese in giro e quel "It's coming home" dei britannici ha di fatto caricato la squadra per arrivare fino in fondo a quei maledetti 120 minuti sfociati poi nella dolce lotteria dei rigori. Il clima velenoso attorno all'Italia non è certo merito dei cronisti di casa nostra. Anche in questo abbiamo dato una lezione di stile. Mai una riga fuori posto sull'Inghilterra ne un commento capace di aggiungere superbia a quella abbondantemente presente nei barili di Londra. La stessa cosa non si può dire da parte dei commentatori d'Oltralpe e d'Oltremanica. Ed è per questo motivo che oggi, con la Coppa in bacheca, è giusto ricordare le parole di chi ha cercato di avvelenare il Sogno Azzurro. Cominciamo da una vecchia conoscenza: Fabien Barthez. Lo ricordiamo per i baci ricevuti sulla testa da Blanc a Francia '98 e per quei rigori amari nei quarti di finale. Lui sull'Italia a Euro 2020 aveva le idee fin troppo chiare. Leggere per credere: "Non mi piace. Ha giocato contro squadre non all’altezza in un girone semplice. Non ha nulla. Non farà molta strada...". Mentre si lecca le ferite, noi continuiamo a suonare il clacson. E che dire poi del suo sodale amico, Patrick Viera? Anche lui rischierebbe il posto se lavorasse nel mondo dei bookmakers: "Credo che le prime due partite che hanno giocato siano state semplici – ha affermato l’ex centrocampista -. Ovviamente devi battere chi ti ritrovi davanti, ma continuo ad avere dubbi sul fatto che l’Italia possa arrivare fino alla fine". Non disturbiamolo, lo vediamo ancora lì a cercare una spiegazione all'eliminazione dei galletti. Ma è sul fronte inglese che si sono scatenati i veleni più fastidiosi per i giocatori azzurri. A guidare la pattuglia dei gufi d'Albione c'è Gary Linker che dovrà di certo rivisitare la sua frase più celebre: "Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince". Ora dirà "...alla fine vince l'Italia". Ma lasciando stare le citazioni, è bene ricordare cosa ha detto dopo il match degli Azzurri con l'Austria: "Italy have turned into Italy" (L'Italia è diventata/si è trasformata nell'Italia). Un riferimento preciso al nostro gioco all'italiana, il catenaccio. Ieri sera la sua Inghilterra non ha certo mostrato un calcio-spettacolo, chiusa a riccio fino al pareggio di Bonucci. A chiudere questa carrellata di gufi c'è Rio Ferdinand, roccioso ex difensore del Manchester United. A lui non interessava conoscere gli avversari dell'Inghilterra seguendo ad esempio Italia-Spagna. Ha spiegato il perché con poche parole: "All’Inghilterra non interessava chi potesse uscire vincitore perché è superiore". Non gli resta che correggere una consonante al motto inglese che ha frantumato la testa dei tifosi italiani e degli Azzurri: It's coming Rome...

Roberto D’Agostino per VanityFair.it l'11 luglio 2021. Fatta l’Italia, bisognava curare gli italiani: nel corso del tempo, la medicina che ha attecchito più facilmente si chiama calcio. Lo vediamo in questi giorni: dopo un anno e mezzo di vita sospesa, grazie a undici ragazzi in mutande e scarpini alle prese con le partite dell’Europeo, che vengono chiamati "Italia", sebbene non abbiano la caratteristica forma della penisola, e costituiscano un paesaggio irrilevante, abbiamo l’impressione di vivere una cosa bella. Un paese nel pallone al punto che si riscopre persino la patria. Lo osservava già nell'Ottocento lo studioso svizzero Jakob Burckhardt: il centro della civiltà greca non è il teatro, non è il tribunale, non è la piazza; al centro della civiltà greca c'è la pulsione agonistica. Secondo, e fondamentalissimo motivo: ci piace il gioco, ma molto di più ci piace la "vittoria". Si ha nostalgia di una situazione trionfale, di una situazione di successo; l'unica capace di ridar sapore ai sentimenti del cazzo della nostra vita. Ci sentiamo frustrati, intimiditi, impotenti. La fatica del vivere è incomprensibile, i giochi della politica sono tabù, l'economia un giorno dice “crescita” e il giorno dopo riceviamo la lettera di licenziamento. Il sesso, poi, ha preso la brutta piega di rimare con violenza. Viviamo "l'età dell'ansia", ci dicono gli esperti. Così abbiamo bisogno di emozioni forti, per farci tornare la voglia di vivere. E poiché nessuno di noi vince, poiché ci mancano gli strumenti di una qualsiasi vittoria privata, deleghiamo ad altri il compito di conseguire quella cosa strepitosa e liberatoria che è la "vittoria". Se noi siamo l'Italia e quelli sono l'Italia, quando quelli vincono noi vinciamo. Lo sportivo è un mistico che ha capito che "il football è la maniera migliore di essere eroi stando seduti" (Gianni Brera); quindi non dice "hanno vinto", ma dice "abbiamo vinto". Perché lo sport è un “fatto sociale totale”, una sorta di lente attraverso cui guardare per capire come si esprimono i caratteri nazionali. Il capocannoniere, diceva Pasolini, è sempre "il miglior poeta dell'anno". Antropologicamente, poi, è il nostro richiamo della foresta. Quindi, non è vero che si diventa aggressivi guardando la partita. E' vero che i tifosi hanno bisogno di fantasticare, anche in termini aggressivi. Si sentono frustrati, intimiditi, impotenti. Hanno bisogno di rifare i conti, a loro modo, con il mondo “malato” che li circonda. Il calcio è l’ultimo orgasmo garantito e deve la sua funzionalità, anche culturale, anche sociale, al fatto di essere un mondo a parte. Diverso, ma anche migliore del nostro. Un mondo nel quale (sovente) vince il migliore, senza trucchi e senza imbrogli, senza raccomandazioni e senza lottizzazioni. Un contromodello di vita. Per tutti: è l’unica cosa intelligente che possono fare anche gli imbecilli. Siamo tutti ostaggi del calcio, gentil sesso compreso. Una volta, degli uomini tifosi le donne ne avevano le scatole piene: “Se un uomo guarda tre partite di calcio di fila dovrebbe essere legalmente morto”. Acqua passata. Oggi dentro gli schermi sono dilaganti le giornaliste, davanti gli schermi le tifose sono in prima fila: circa il 50 per cento del pubblico della nazionale. Un vero attacco al fortilizio della Mascolinità. Le ragazze nutrite a pane e ‘’Corriere dello sport’’ con contorno di Diletta Leotta e Paola Ferrari, non si accontentano più del tifo accademico e svagato che caratterizzava le loro mamme, ma discutono di schemi e di formazione, di fuori gioco e Var. Anche per la femmina moderna, la partita diventa partecipazione comunitaria festevole, come prima era la processione del quartiere, la festa patronale, la fiera del paese, i quattro salti in casa. E' una liturgia che ha preso il posto della messa in chiesa e dell’aperitivo con le amiche del cuore.  

·        Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati.

Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica” il 19 dicembre 2021. «Cornuto, e come voleva vincere?». Turbatissimo, il venditore ambulante scappato fortunosamente dalla costa di Licata raccontava ai compaesani dell'entroterra l'apparizione delle navi alleate, così tante che il mare «non si vedeva più». E, quasi in trance, ripeteva: «Cornuto, e come voleva vincere?» anche quando si avvicinò il segretario del Fascio e gli fecero segno di tacere. Così, in La guerra spiegata al popolo, Leonardo Sciascia raccontava lo sbarco alleato in Sicilia del 10 luglio 1943 visto, appunto, da un popolano che dopo un ventennio poteva pubblicamente dare del cornuto a Mussolini. Con questa citazione Mario Avagliano e Marco Palmieri aprono Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (il Mulino, pp. 504, euro 26) corposissimo saggio che attinge dalle fonti ufficiali, ma anche dalle memorie più intime della corrispondenza privata e dei diari. Secondo la descrizione non proprio lusinghiera della Soldier' s Guide to Sicily, voluta dal generale Eisenhower per i militari americani - molti dei quali figli e nipoti di emigranti meridionali, quindi paisà, nel senso di compaesani - la Sicilia è «un buco infernale [...] abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori». Tanta finezza antropologica spegne rapidamente gli iniziali entusiasmi della popolazione invasa/liberata, stigmatizzati nel suo diario del 15 luglio da Roberto Suster, direttore dell'Agenzia di stampa Stefani: «Le cose in Sicilia vanno di male in peggio. I nostri non si battono, ma si arrendono. Il Paese è disgustato. I fascisti furibondi. Il mito del Duce è crollato. La molla patriottica sembra spezzata. Ognuno incomincia a vergognarsi di essere italiano, e di essere stato fascista». Ma già l'8 agosto 1943 il generale britannico Rennell denuncia un «sostanziale cambiamento nello spirito pubblico» dei siciliani, ormai consapevoli che lo sbarco degli Alleati non ha «significato il regno dell'abbondanza». Quindi, dismesso l'iniziale «atteggiamento di cani bastonati e di cuccioli scodinzolanti» sono subito passati a chiedere e pretendere. Gli inglesi, che hanno combattuto più a lungo gli italiani e non hanno con loro il legame dell'immigrazione, sono meno piacioni e ben visti degli americani ma, nonostante il tono sprezzante, qualche settimana dopo Rennell riconosce che malumore e lagnanze sono del tutto «giustificabili in quanto noi non abbiamo tenuto fede alla nostra propaganda». Nonostante il titolo del libro, su tredici capitoli solo il decimo si occupa di sciuscià, segnorine, stupri e spose di guerra. Nelle centinaia di pagine che lo precedono, i bombardamenti, gli espropri, i saccheggi, la miseria, la fame, le umiliazioni, e la fuga del re a Brindisi, le insipienze del governo Badoglio, la dipendenza materiale e psicologica dagli occupanti, la borsa nera, la complicità criminale fra paisà - locali e in uniforme americana - contribuiscono massicciamente alla disfatta morale e civile della popolazione, allestendo l'apoteosi dei piccoli lustrascarpe, della prostituzione di massa, delle marocchinate, dei matrimoni d'interesse, ma a volte anche d'amore, fra American boys e segnorine che vogliono scappare dalla miseria. E se i tedeschi in rotta si sono macchiati di eccidi e rappresaglie, anche gli alleati che distribuivano Camel e caramelle non sono sempre stati gioviali come sosteneva la propaganda. Una delle prime stragi si registra a Vittoria il 10 luglio, il giorno dello sbarco: una dozzina di civili, tra cui il podestà di Acate in fuga con la famiglia, allineati e falciati dai mitra. D'altra parte, il generale Patton aveva ammaestrato così le sue truppe: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero!». I soli cento giorni di occupazione tedesca della Campania hanno prodotto 1.406 morti in 499 episodi di violenza. Eroica nelle sue Quattro giornate, con l'arrivo degli Alleati Napoli diventa l'epicentro della scostumatezza. Se già nel giugno del 1943 il mercato nero in città assorbiva il 66,95 per cento della spesa alimentare, nel marzo del 1944 la quota aumenta all'86,25. Un soldato semplice americano guadagna l'equivalente di 6.000 am-lire al mese, mentre un prefetto come quello di Taranto solo 2.500. L'occupazione, arenata per mesi sulla linea Gustav, tra le foci del Garigliano e del Sangro, gonfia i prezzi, la piccola borghesia fa la fame, i lazzari si organizzano come hanno sempre fatto. Fruttuosissime le joint venture criminali fra militari e civili: quasi un terzo dei viveri che vengono scaricati a Napoli, sparisce già durante il tragitto dal porto ai depositi. E qui si innesta anche la questione dei «negri». Dopo anni di propaganda razzista del regime, ai benpensanti risulta intollerabile vederli a spasso con le italiche fanciulle. Ma i soldati di colore sono adibiti soprattutto ai servizi logistici, a contatto con generi alimentari e ogni altro bene, dai farmaci agli pneumatici, quindi a una famiglia affamata fa comodo fidanzare una figlia a uno di questi ragazzi, senza dar peso al colore della sua pelle. «Durante la guerra, la gente diceva: "Poi ci faremo pulire le scarpe dagli inglesi". Adesso siamo ridotti a chiedere l'elemosina ai negri», scrive la borghesissima Elena Canino nel suo diario. In altre famiglie si va più per le spicce: una dodicenne finisce in ospedale per le bastonate che gli ha dato il padre perché, prostituendosi, «non riesce a "guadagnare" più di 2000 lire al giorno, mentre la sorella quattordicenne ne guadagna da 4 a 5 mila. Ma essa, la dodicenne, non sa vincere la ripulsione di lasciarsi avvicinare dai negri». La paura e la morte si combattono con il sesso, i soldati lo sanno e si sfrenano senza ritegno. Molestano, stuprano, e uccidono anche. Soprattutto i marocchini dei reparti coloniali francesi, che considerano bottino di guerra le ragazze, ma violentano e massacrano anche uomini, preti, vecchi, nonne, bambini. I superiori fanno finta di non vedere, ma a Cancello, nel Casertano, cinque di loro vanno incontro a una terribile giustizia di popolo. Riporta il giovane ufficiale inglese Norman Lewis nel suo splendido Napoli '44: «Li hanno attirati offrendo loro delle donne, poi del cibo e del vino che conteneva un veleno paralizzante. Quando erano ancora pienamente in sé li hanno prima evirati, poi decapitati». A Roma i castigatori dei costumi ricorrono alle forbici. Da parrucchiere. Il 29 luglio 1944 appaiono sui muri della città dei manifestini dell'Unione Tosatori Romani. C'è scritto: «Abbiamo un programma unico: desideriamo con tutte le nostre forze tosare. Chi?... Non bianche pecorelle, ma le numerosissime gagafelle di nostra e vostra conoscenza, che gettano il discredito sulle donne italiane. Non siamo mossi da benché minima ostilità verso gli Alleati; il mal costume è di quelle venerelle idolatre solo di cioccolato e di sigarette esotiche». La colpa della decadenza morale è quindi delle donne che, se possono permettersela, ricorrono alla parrucca per evitare la tosatura. L'autorità costituita non sa bene come porsi rispetto a questi exploit moralizzatori dell'orgoglio virile. Da una parte auspica il ritorno all'ordine, anche sessuale, dall'altra teme di compromettere le relazioni con il comando alleato. E la moda dei tosatori si estende. Il 7 aprile 1945, con incerta proprietà di linguaggio, il capo della polizia di Napoli allerta il ministero degli Interni: «I militari della marina italiana persistono nell'arrecare disturbo ai militari alleati che si accompagnano con donne italiane nei cui confronti essi si abbandonano a deprecabili atti tra cui quello di tagliare la capigliatura delle donne». La guerra sta finendo, comincia il battibecco.

Partigiani tedeschi  della brigata Garibaldi (a sinistra Heinz Brauwers, a destra il suo amico Hans Juergens).  Dalla parte giusta. C’erano anche tedeschi brava gente. Furono diecimila i soldati della Wermacht in Italia a gettare la divisa e spesso a unirsi ai partigiani. Ora gli storici li studiano. Simonetta Fiori su La Repubblica il 20 Novembre 2021. Dopo ottant’anni escono fuori dal silenzio in cui erano stati seppelliti. Si chiamano Rudolf, Gerhard, Jakob, ma nei borghi dove è ancora viva la memoria partigiana sono evocati con i nomi più famigliari di Rodolfo, Gerardo, Giacomo. Nelle fotografie di gruppo colpiscono per i lineamenti affilati e il colore chiaro della pelle. Dimenticati dalla storia, furono capaci di un gesto inimmaginabile, in un punto cieco dell’esistenza stretto tra due alternative spietate: se continuare a vestire i panni dei carnefici o mettere a rischio la propria vita e soprattutto quella dei loro famigliari rimasti in Germania, esposti alle ritorsioni più orrende.

Paolo Mieli, il nuovo libro. Il passato sul banco degli imputati. Andrea Purgatori su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021. Esce martedì 5 ottobre «Il tribunale della storia» (edito da Rizzoli). Il saggio riesamina fatti e personaggi mistificati e ribalta l’esito di alcuni eventi, emettendo nuove sentenze (provvisorie). Ci sono nomi che, chissà perché, hanno sempre evocato significati a senso unico. Prendete Waterloo, ormai da più di due secoli sinonimo di sconfitta senza appello. Quella di Napoleone Bonaparte, beninteso. Giacché dal punto di vista di Sir Arthur Wellesley, primo duca di Wellington, la battaglia feroce che la settima coalizione anglo-russo-austriaca da lui guidata combattè il 18 giugno 1815 contro l’esercito dell’imperatore francese si era conclusa con una insperata e spettacolare vittoria (grazie all’intervento decisivo dei prussiani, sia chiaro). Eppure a chi verrebbe in mente ancora oggi di citare il nome di quel piccolo villaggio nelle campagne a sud di Bruxelles per sottolineare un qualche successo? Waterloo rimane lo sprofondo di Napoleone. Dunque Waterloo sta per disfatta, totale e definitiva. Punto.

Esce il 5 ottobre da Rizzoli il saggio «Il tribunale della storia. Processo alle falsificazioni» di Paolo Mieli (pp. 304, euro 18). E invece, no. Perché la Storia prende e restituisce. L’esito di quella battaglia che in una dozzina d’ore provocò cinquantamila morti avrebbe dovuto cancellare per sempre la memoria dell’imperatore francese. Questo credevano gli inglesi, alla cui benevolenza Napoleone si era affidato. Tanto che per raggiungere lo scopo, lo relegarono in un’isola sperduta nell’Oceano a metà strada tra le coste africane e quelle del Sudamerica: Sant’Elena. Napoleone lì sopravvisse sei anni e morì, il 5 maggio del 1821. Forse per l’aggravarsi di un’epatite o secondo alcuni avvelenato. Ma quando nel 1840 le sue ceneri tornarono a Parigi, gli fu tributato un trionfo da eroe. Invece che consegnarlo all’oblio, come a Londra avevano sperato, dall’esilio Napoleone aveva costruito giorno dopo giorno la sua leggenda celebrata da poeti e scrittori. Quella fu la sua «vera, ultima, definitiva vittoria». Altro che Waterloo. Il tribunale della storia, ultimo saggio (Rizzoli) di Paolo Mieli, storico e giornalista, indaga e ribalta l’esito di questa e altre vicende che attraverso i secoli hanno consegnato i protagonisti ad un giudizio spesso frettoloso, comunque privo di tutte le prove di cui appunto un tribunale dovrebbe in onestà tenere conto: «Un riesame, con tanto di imputati, accusa, difesa per mettere in discussione le “verità” tramandate ed emettere sentenze (provvisorie) che ci inducano a rivedere i fatti sotto una luce diversa». Ed è esattamente il percorso seguito da Mieli, con due modalità. Primo, isolando e mettendo sotto la lente uno o più dettagli sfuggiti per superficialità o per faziosità ad una precedente istruttoria su accadimenti e comportamenti che hanno generato giudizi incompleti o distorti. Secondo, concentrando anche intorno ad un unico dettaglio la possibilità di una nuova analisi che «guardando da altri angoli visuali» può portare persino a «riconsiderazioni clamorose». Dunque, ecco che così l’imputato Bonaparte Napoleone potrà lasciare l’aula del tribunale ideale della storia non più da sconfitto per l’eternità. Che l’imputato Castro Fidel, da estremo guardiano del socialismo reale caraibico potrà vedere riscritta la sua vicenda personale e politica alla luce dell’influenza gesuita che lo configura come un monarca d’ispirazione cattolica più che come un comunista ortodosso (pur sempre anticapitalista). Che l’imputata Roosevelt Eleanor, moglie del presidente Franklin Delano Roosevelt, potrà tornare a indossare con orgoglio il suo abito da liberal alla faccia del capo dell’Fbi Edgar Hoover, che oltre a tenerla sotto controllo indebitamente la considerava quasi alla stregua di una pericolosa sovversiva comunista. Che l’imputata Anhalt-Zerbst Sofia Federica Augusta, più conosciuta come Caterina di Russia, da imputata persino di schiavismo potrà al contrario vantare senza timore una fede (magari temporanea) illuminista. E che invece l’imputato Enea, combattente celebrato della guerra di Troia poi in fuga col figlio Ascanio e il padre Anchise sulle spalle, non passerà più come difensore della sua città poiché l’avrebbe venduta agli Achei, vendendo se stesso, per odio nei confronti di Priamo. Insomma, non eroe ma traditore. Virgilio permettendo. Il potere del Tribunale della storia («nell’era dell’informazione diffusa, sempre riunito in seduta permanente», avverte giustamente Mieli), è capace di assolvere anche a distanza di secoli (e per fortuna) presunti colpevoli riconsiderando gli elementi sfuggiti consapevolmente o inconsapevolmente all’accusa, e viceversa è in grado di condannare per gli stessi motivi presunti innocenti. Ma non ha bisogno di centinaia di pagine di motivazioni. Talvolta ne sono sufficienti appena quattro o cinque. Perché basta appunto un solo dettaglio inedito ad offrire quel punto di vista diverso, magari opposto, a scardinare una precedente sentenza. Prendete adesso Vittorio Emanuele III, accusato di avere oscillato al momento della destituzione del Duce. Beh, di complotti per far fuori (politicamente) Benito Mussolini il re sabaudo ne aveva intercettati tanti fin dagli Trenta, fuori e dentro al suo palazzo. Come quello tutto nella testa (nella fantasia) della principessa Maria Josè, che ben cinque anni prima della seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 aveva proposto al maresciallo Badoglio di arrestare il Duce, costringere il re ad abdicare, convincere suo marito Umberto a rinunciare al trono, mettere il regno nelle mani del figlio con la sua reggenza e affidare il governo del Paese all’avvocato Carlo Aphel, legale di fiducia della famiglia Agnelli. Badoglio ringraziò per averlo messo a parte dell’idea ma non se ne fece nulla. E fu così che Vittorio Emanuele III, in quel ginepraio di piani per spodestare Mussolini, al momento buono si perdette anche lui. Tentennando. Assolto? No, accusa confermata. Tuttavia è bene sapere che le sentenze della storia, dunque anche quelle di questo Tribunale, sono solo parte di un processo. «La lunga marcia di avvicinamento alla verità è infinita — scrive Mieli — Conosce soste, anche lunghe, ma si tratta appunto solo di soste. Poi il cammino riprende. E non si giungerà mai a una stazione finale, a un capolinea. Conta il viaggio, non la meta». Ne è il paradigma il caso dell’ebreo Yeoshua ben Yosef che visse nel primo secolo sotto Augusto e Tiberio, meglio conosciuto come Gesù. Quanto c’è di vero nella tradizione dei Vangeli che ne raccontano gesti e parole, quante le contraddizioni e le interpretazioni errate? Talvolta, in casi estremi dove la fede diventa schermo impenetrabile rendendo difficile un approccio scientifico, anche il Tribunale della storia fatica, come si dice, ad arrivare a sentenza. Ma non è detto che non ci si possa almeno provare.

Per capire la Guerra civile è molto meglio "l'usato". Alessandro Gnocchi l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. I libri meno conformisti sulla nostra Storia non si pubblicano più. Tocca fare modernariato. Per un bibliofilo, ma anche per un lettore qualsiasi, la bancarella di libri usati è croce e delizia. Croce perché c'è bancarella e bancarella: quelle specializzate in rarità impilano tesori che talvolta l'appassionato non si può permettere e lasciano il rimpianto, una struggente nostalgia per il volume così vicino eppure inarrivabile. Delizia, quasi per lo stesso motivo: c'è sempre la speranza che, guardando bene, salti fuori l'inaspettato, il capolavoro misconosciuto in vendita a pochi euro. Inoltre, davanti a una bancarella rifornita, ci si può levare curiosità a lungo coltivate oppure nate lì per lì, davanti a una copertina o a un nome attraente. E si torna a casa con una pila di libri acquistati a poco prezzo. Ah, che bello comprare tutti gli Achille Campanile e Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano e Antonio Delfini e Giuseppe Berto e Giovanni Comisso che capitano sottomano. Che bello comprare le vecchie edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi, con il commento di Giuseppe e Domenico De Robertis. E poi Papini, Prezzolini, Longanesi... Che bello dare la caccia alle varie edizioni di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, una diversa dall'altra, anche nel contenuto. Che miniera di intelligenza può essere una bancarella. C'è un altro aspetto interessante. Sempre più spesso, capita al bibliofilo di imbattersi in libri che oggi nessuno pubblicherebbe, per i motivi più disparati. Chi stamperebbe oggi una edizione anastatica del manoscritto del Canzoniere di Umberto Saba? Chi fonderebbe una casa editrice (Aria d'Italia) per portare sugli scaffali le opere di un solo autore (Curzio Malaparte)? Chi farebbe una plaquette con un pugno di poesie di Pier Paolo Pasolini (Dal diario, Edizioni Salvatore Sciascia, a cura di Leonado Sciascia)? Per non dire dei fuori catalogo: Bagatelle per un massacro, il pamphlet antisemita di Luis-Ferdinand Céline, tanto spregevole nel contenuto quanto prezioso nello stile, si trova unicamente sulle bancarelle. Ci sono casi che lasciano perplessi, perfino sbalorditi. A cinque-dieci euro ti porti a casa un libretto di poche pagine ma sufficienti per fare una riflessione su come è cambiato il nostro Paese. Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allegò al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende dalle due parti della barricata»; testi che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche un esempio nei valori della Resistenza» . Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. Il volume era targato Mondadori, ed era in una collana di «testimonianze di prima mano». Era una raccolta «editorialmente corretta», che non metteva in discussione i capisaldi ideologici della Resistenza. Però dava la parola anche ai vinti, in particolare dava il giusto rilievo a un romanzo come Tiro al piccione di Giose Rimanelli, che raccontava con efficacia il punto di vista di un repubblichino anzi repubblicano: «È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d'Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l'Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione». Il romanzo, autobiografico, ebbe una vita editoriale travagliata. Fu preso da Einaudi ma l'editore torinese, quando il libro era già in bozze, fermò tutto nonostante questo parere di Cesare Pavese: un «giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un'idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci». Alla fine fu pubblicato da un editore ancora più grande: Mondadori, nel 1953. Ma rientrò nel catalogo di Einaudi nel 1991, l'anno in cui lo storico Claudio Pavone, da sinistra, recuperava il concetto di «guerra civile». Nello stesso anno Einaudi ripubblicò anche Un banco di nebbia di Giorgio Soavi, un'altra testimonianza dall'altra parte della barricata, anche in questo caso scartata (con qualche dubbio di Italo Calvino) da Einaudi e approdata a Mondadori nel 1955. Altri libri si sono poi aggiunti, in particolare quelli di Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte è in edicola allegato con il Giornale). La antologia curata da Carlo Castellaneta ci interroga fin dal titolo: quella «guerra civile» potrebbe incappare in qualche accusa di revisionismo. Il contenuto... Beh, come immaginate verrebbe presa una selezione che mette assieme, sullo stesso piano, Uomini e no di Elio Vittorini (manicheo fin dal titolo, proprio lui, Vittorini, che aveva tessuto l'elogio dello squadrismo nella prima edizione del Garofano rosso) e appunto Tiro al piccione di Rimanelli, che non ha certezze da esibire? La domanda è retorica: una antologia così finirebbe massacrata da qualche antifascista in assenza di fascismo, una specie intellettuale tornata in grande spolvero nell'Italia di oggi. Non è che, per caso, mentre eravamo distratti dalle guerricciole politiche, la cultura italiana ha fatto uno o due passi indietro al punto da apparire meno libera perfino rispetto ad anni di forti divisioni ideologiche dalle conseguenze tragiche? Non sarà, alla fine, un problema di analfabetismo di ritorno, forse anche di andata? Una o due generazioni di chierici sono convinte che i «fasci» (categoria che comprende chiunque abbia idee diverse da loro) devono tacere, e così negano, innanzi tutto a se stessi, la più umile e meno giudicante delle virtù: la conoscenza, che precede le nostre, personali idee per illustrarci la complessità del mondo. Ecco, proprio «complessità» è la parola ipocritamente sventolata dalle menti semplici, e irresponsabili, che vogliono rifarci combattere una guerra civile per fortuna terminata da un pezzo. Alessandro Gnocchi

8 settembre: i morti dimenticati di Arbe, il campo di concentramento fascista in Croazia.  Simone Modugno e Linda Caglioni su La Repubblica il 7 settembre 2021. Sull'isola croata di Arbe, in Dalmazia, c'è ancora traccia di una storia poco nota dell'occupazione della Jugoslavia, che sconfessa il mito del cosiddetto “buon italiano”. A partire dal 1942 i fascisti vi costruirono un campo di concentramento dove furono internate tra le 10 e le 15 mila persone tra croati, sloveni ed ebrei. Molti di loro vi morirono per malattie, infezioni e denutrizione. Dopo la firma dell'armistizio dell'8 settembre del '43, il sito venne smantellato in fretta e furia. La vicenda non ottenne mai particolare visibilità, benché quello di Arbe fu uno dei peggiori tra i campi organizzati dal regime fascista. Foto tratte dalla mostra "A ferro e fuoco. L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943"

Gianni Oliva per “La Stampa” l'8 settembre 2021. La memoria antifascista ha rielaborato l'8 settembre nella combinazione di sfascio e di rinascita: c'è un'Italia piegata, che si arrende agli angloamericani e naufraga di fronte al dilagare dell'occupazione tedesca, ma nella deriva della storia nazionale fiorisce l'Italia della scelta, quella che muove i primi passi verso il domani e stimola il Paese con l'esempio dei suoi uomini migliori. Le pagine di Roberto Battaglia (autore nel 1953 di una Storia della resistenza italiana che è stata per decenni manuale di riferimento) sono paradigmatiche: «quando andiamo a rintracciare l'inizio del movimento resistenziale, noi troviamo ripetersi dovunque lo stesso fatto: l'emergere dalle masse popolari di antifascisti, di militari, di giovani già decisi fin dal primo momento a impugnare le armi, a iniziare subito dopo l'armistizio e non domani la guerriglia, ad agire per una decisione spontanea che viene da un profondo istinto di ribellione». Confusione, indifferenza Prima di lui, Piero Calamandrei aveva parlato con intonazione poetica di un 8 settembre segnato dalla scelta corale dei tanti pronti a combattere per una stagione nuova: «era la chiamata di una voce diffusa come l'aria, era come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno». Sulla stessa lunghezza d'onda si sono espressi Guido Quazza («l'8 settembre è la data di nascita dell'antifascismo come forza decisiva») o Raimondo Luraghi («nel momento dell'armistizio, in tutte le fabbriche l'entusiasmo e lo spirito di lotta sono altissimi»). Queste ricostruzioni attingono a un elemento di verità, perché ci sono uomini che sin dai primi momenti intuiscono (come Giaime Pintor) che «un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere riscattato solo da una rivoluzione vera», ma si tratta di scelte individuali, numericamente marginali. Il tratto distintivo che avvolge l'Italia dell'armistizio è un altro: il silenzio, il silenzio della morale, della ragione, della volontà. Anche là dove brulica la confusione di soldati che si muovono senz' ordini o di cittadini che arraffano nei depositi abbandonati, la scena è dominata dalla paralisi delle energie e dall'esaurimento psicologico. La letteratura ha compreso e interpretato questo silenzio ben prima della storiografia. Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza, descrive il disorientamento di un reparto in servizio nella campagna romana: quando, dopo molte ore, giunge notizia dell'armistizio e dello sbandamento, c'è chi reagisce con rabbia («il comando non ci ha avvisati! Lascia che abbia un figlio e che la patria venga a chiedermelo soldato!»), chi si aggrappa all'ottimismo della volontà («io non ci credo, un esercito non si sbriciola così, andiamo»), sino a che si sentono gli echi di esplosioni e ognuno decide individualmente la fuga. Chi esita, come il protagonista Johnny, si ritrova solo in una camerata deserta: «Johnny risalì in camerata, nessuno dei suoi era rientrato. Ognuno si era già arrangiato da solo». Mario Tobino ne Il clandestino, descrive un 8 settembre antieroico, dove «l'esercito italiano avvilito non si diresse in alcuna direzione, tradì e non tradì, lasciò passare le ore rimanendo smarrito, non aggredì i tedeschi né si schierò con loro». Cesare Pavese in Prima che il gallo canti descrive una Torino quasi indifferente nella sua rassegnazione: «i giornali portavano in grossi titoli la resa, ma la gente aveva l'aria di pensare ai fatti suoi. Sbirciavo negli occhi i passanti: tutti andavano chiusi, scansandosi. Nessuno parlava di pace». Curzio Malaparte, corrosivo e iconoclasta, offre ne La pelle una descrizione di lucido cinismo: «tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a gara a chi buttava più "eroicamente" le armi e le bandiere nel fango. Finita la festa, ci ordinammo in colonna e così, senz' armi e senza bandiere, ci avviamo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati quella stessa guerra che avevamo già persa con i tedeschi». In questo disincanto amaro, la letteratura propone gli avvenimenti armistiziali con un realismo che è stato a lungo sconosciuto alla storiografia. Lo scrittore si avvicina ai fatti attraverso la propria sensibilità, li racconta come li ha visti, li ha ascoltati, li ha avvertiti sulla propria pelle: sono racconti che si sviluppano tra contraddizioni, sfumature, dubbi, perché il loro destinatario è l'emozione di chi legge e l'emozione non ha bisogno di grandi quadri esplicativi, né di un percorso di lettura predeterminato. Lo storico, invece, ha un approccio razionale, interroga il passato attraverso le domande poste dalle urgenze del presente, si muove in uno spazio stretto, dove le insidie dell'agiografia e della rimozione vanno al di là dell'onestà intellettuale del ricercatore. Semplificazioni e rimozioni Questo è ancor più vero quando il periodo che si affronta è un passato prossimo segnato da fatti traumatici: «storia», in questo caso, significa fondare la memoria e la legittimità di una stagione nuova, operazione che implica semplificazioni e rimozioni. Da qui nasce una «vulgata» dell'8 settembre così lontana dall'amarezza sofferta di Fenoglio o Malaparte e, indirettamente, un'indicazione: la letteratura spesso rappresenta gli avvenimenti meglio (e prima) della ricerca storica.

Quei martiri che hanno scelto di morire per l'Italia. Andrea Muratore il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Il martirio della divisione "Acqui" a Cefalonia fu una pagina tragica dei giorni della disfatta italiana. In cui furono però gettati i semi della rinascita del Paese. Cefalonia è un nome associato a una grande tragedia italiana, a una storia di tenacia e eroismo culminata in una delle pagine più buie del secondo conflitto mondiale: la resistenza dei militari della divisione "Acqui" all'offensiva tedesca avviata dopo la resa dell'Italia agli Alleati, avvenuta l'8 settembre 1943, e il suo successivo martirio. Sì, perché solo di un vero e proprio martirio in nome dell'onore e della dignità dell'Italia si può parlare leggendo, a oltre settant'anni di distanza, la pagina di resistenza dei militari della divisione guidata da Antonio Gandin, catapultati nel turbine della storia dall'incertezza dei comandi italiani, dalla pusallinamità della monarchia dei Savoia, dalla doppia resa dell'Italia in quelle complesse giornate. Un'Italia che capitolò dapprima davanti agli Alleati, con la firma dell'armistizio di Cassibile, e in seguito di fronte ai tedeschi trasformatisi da alleati ad invasori, la cui dignità e il cui buon nome furono difesi da militari rimasti in larga parte senza ordini e senza direttive. Dalla resistenza dei militari a Roma a Porta San Paolo al triste episodio della corazzata Roma, passando per la toccante esperienza delle unità della Regia Aeronautica mandate a combattere a tempo scaduto contro gli ex nemici a Salerno, le forze armate italiane scrissero una serie complessa di pagine di storia. Aventi il suo culmine nelle tre settimane di Cefalonia. Che cosa spinse i militari di una divisione tutt'altro che temprata da battaglie feroci e reduce da due anni e mezzo di occupazione delle isole greche a rifiutare gli ultimatum tedeschi di resa? Che cosa mosse i ragazzi della "Acqui" a scontrarsi contro gli Alpini della 1. Gebirs Division e gli agguerriti "cacciatori" della 104. Jager Division trasformatisi improvvisamente da alleati in aggressori? Che speranza avevano coloro che, dopo la resa di Cefalonia, furono trucidati o inviati nei campi di prigionia nelle autorità in via di disfacimento? Cefalonia ci insegna l'assurdità dell'eroismo, la grandezza dello spirito di corpo, il valore degli ideali patriottici e nazionali. Padre Luigi Ghilardini, che ha raccolto le testimonianze dei militari da lui assistiti durante la battaglia e l'eccidio condotto a sangue freddo dai militari tedeschi, ricorda nelle sue memorie che i soldati della Acqui cadevano invocando la propria madre e l'Italia. Cefalonia insegna la forza dello spirito di corpo dato che, come ricorda Alfio Caruso in Italiani dovete morire, inizialmente "la Acqui non fu per niente compatta nell'urlare il proprio 'no!' al tedesco" e "Gandin e i suoi collaboratori volevano giungere a un accordo" mentre solo gli elementi del 33°artiglieria e del comando di Marina "erano decisissimi a usare le armi contro l'odiato ex alleato". Furono i raid dei bombardieri Stuka a compattare Cefalonia sulla resistenza, a portare 11.700 militari a trasformarsi in guerrieri per tenere fede al giuramento alla patria sacrificando la vita. Splendeva un sole inclemente su Cefalonia il 13 e il 14 settembre, giorni in cui col "referendum" interno i militari della Acqui scelsero di non arrendersi ai tedeschi. E splendeva anche il 24 settembre, giorno in cui gli alpini sudtirolesi della 1° divisione Edelweiss fucilarono alla periferia di Argostoli 129 dei 164 ufficiali arresi dopo i combattimenti. Lungi dall'essere commessa da efferati reparti delle Ss, la strage di Cefalonia, che causò cinquemila delle 9.406 vittime accertate tra i militari della "Acqui", fu compiuta da militari della Wehrmatcht: chiamati a eseguire le leggi di guerra. Al processo di Norimberga il generale Telford Taylor definì il caso di Cefalonia come "una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato" perpetrata contro uomini che "indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra". Ciò ha influito notevolmente sul ricordo postumo della strage, sulla calata di un imbarazzante velo di silenzio rimasto steso per decenni sulla vicenda per non turbare la narrazione dei nuovi rapporti italo-tedeschi e sul mito che vedeva la Wehrmacht in larga parte esente dai più duri crimini compiuti dai nazisti. Ma a suo modo Cefalonia è stata una pagina scomoda anche per la narrazione resistenziale che ha pervaso la storia repubblicana, perché retrodata inevitabilmente l'inizio dell'opposizione italiana al nazismo e alla Germania e ci ricorda quanti semi del futuro d'Italia furono gettati nei giorni della resa. Giorni in cui mentre a Cefalonia si combatteva 600mila militari italiani, disarmati dalla Wehrmacht, scelsero la prigionia per prestare fede al giuramento verso l'Italia, preferendola alla continuazione della guerra a fianco dei tedeschi. I martiri di Cefalonia e gli internati militari italiani (Imi) salvarono, a prezzo di atroci sofferenze, il nome della nazione, mostrarono come anche nell'ora più buia della storia dell'Italia unita ci fossero uomini pronti a sacrificare la vita in suo nome, lanciarono un messaggio che a decenni di distanza scuote le coscienze. Dobbiamo a Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica che più si è impegnato sulla ricomposizione della memoria storica dei fatti più tragici del Novecento, la pubblica attestazione del fatto che Cefalonia fu l'inizio della rinascita dell'Italia. E non il punto più profondo della disfatta. Ciampi, il 1 marzo 2001, visitando Cefalonia commemorò quei soldati ricordando che "la loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza". "Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia", nazione debitrice di coloro che nel settembre 1943 si immolarono in suo nome. 

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di

L’antipatia dei comunisti che li screditarono. Chi erano gli azionisti, i veri “giusti” della generazione antifascista. Filippo La Porta su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Ma chi erano mai questi azionisti? Potremmo così parafrasare il Gianni Morandi di “Dimmi chi erano i Beatles”. Componente decisiva della Resistenza, formano ai nostri occhi una galassia indefinita, un po’ nebulosa, che comprende – per usare categorie lievemente abusive – moderati ed estremisti, o meglio liberaldemocratici e liberalsocialisti (tutti accomunati però da una visione radicale della democrazia), erede agli inizi della Seconda Guerra Mondiale degli ideali di Giustizia e Libertà. Nell’immaginario politico oscillano tra una mitologia eroica e una immagine al tempo stesso nobile e alquanto screditata (alimentata dai comunisti). Se il fascismo era la “autobiografia della nazione” (Gobetti) loro apparivano – credo impropriamente, come tenterò di dire più avanti – come degli stranieri in patria, un corpo alieno. La tradizione che incarnano ci appare oggi quella giusta (Roberto Calasso nel suo autobiografico Memè Scianca – uscito il giorno della sua morte – li definisce appunto i «giusti, senza ulteriori specificazioni»): antifascisti democratici, intransigenti ma antitotalitari (anticomunisti), e dunque perciò sempre un po’ incompresi e diffamati nel nostro paese. Ora, un’occasione per averne invece una percezione assai concreta è questo libretto di Aldo Garosci, uscito nel gennaio del 1944 e pubblicato per la prima volta nell’Italia repubblicana: Profilo dell’azione di Carlo Rosselli e di Giustizia e Libertà (Edizioni di storia e letteratura, introduzione di Samuele Bertinelli). Garosci, militante e cospiratore giellino, era stato costretto ad espatriare nel 1932, poi rientrò in Italia 12 anni dopo, alla fine del 1943- sbarca in Sicilia provenendo da Tunisi – insieme a Leo Valiani e altri per combattere nelle file della Resistenza (e in Sicilia trova subito «un insospettabile fervore antifascista» tra i giovani, un clima incoraggiante nel quale scrive queste pagine). Ricordo come in quel momento si era appunto costituito il Partito d’Azione, dalle ceneri del precedente Giustizia e Libertà (il cui nome e simbolo riproduce nella sua bandiera rossa), e di quel movimento conserva l’impronta politica più di quella ideale (la quale resta un poco sullo sfondo a causa della urgenza della lotta armata). Usiamo allora queste pagine per ripercorrere la vicenda di Giustizia e Libertà. L’inizio è rocambolesco, già un romanzo d’avventura alla Victor Hugo: nell’autunno del ‘29 nasce GeL dopo che in estate Rosselli, Nitti e Lussu erano evasi da Lipari su un motoscafo che veniva dalla Corsica. Ma la gestazione del movimento risale almeno all’Aventino (1925), e avviene attraverso riviste, circoli, iniziative pratiche, etc.: si tratta di un’area politica ispirata dai due mentori, Gobetti e Salvemini, e subito perseguitata dalla violenza fascista. A Lipari il socialista già turatiano Carlo Rosselli aveva scritto il fondamentale Socialismo liberale, uscito nel 1930, e Bibbia del nascente movimento (particolarmente acuminate le pagine di critica al determinismo di Marx). Come sappiamo, quel titolo stesso stava a indicare per Croce (e non soltanto) un “ircocervo”, una creatura mitica, fantastica. Eppure si tratta, a ben vedere, dell’unica soluzione realistica del dilemma politico che attraversa tragicamente il secolo breve. Capi dell’organizzazione all’estero furono Rosselli e Lussu, in Italia Rossi e Bauer. GeL si diffonde velocemente, raccogliendo una concentrazione socialista-repubblicana-democratica: «non era una lega o un cartello di partiti ma un’accolita di uomini». Nella lotta al fascismo, condotta attraverso attentati, attività cospirativa e una opera di “controinformazione”, ci furono parole d’ordine poco felici, come il “non pagare le tasse” (nel momento in cui lo stato fascista si stava rafforzando, anche nell’opinione pubblica) ma anche metodi di propaganda innovativi e fantasiosi, come il lancio di volantini su Milano o l’idea di mettere gli slogan del movimento per gli ufficiali dentro le buste di “Nastro azzurro”. Nel 1932 viene messo a punto un programma del movimento, con una parte politica e una economica: richiamo alle autonomie, socializzazione della grande industria, terra a chi lavora mediante una moderata indennità… Certo, alcune parti del programma restano poco definite, forse anche confuse (ad esempio il tipo di equilibrio, in economia, tra i due settori, il privato e il socializzato), ma al suo centro troviamo la richiesta di una repubblica democratica che possa estirpare dalle radici fascismo e monarchia. Nel 1932 esce il primo dei dodici importanti “Quaderni”, mentre nel 1934 GeL si afferma come movimento politico indipendente, con a capo Rosselli , il quale dopo aver combattuto in Spagna, verrà assassinato in Normandia, insieme al fratello, nel 1937. Conseguente sfaldamento del movimento e sua parziale rinascita con l’azionismo all’inizio della guerra. Accennavo a un sistematico screditamento di GeL, specie ad opera dei comunisti, che ribattezzavano settariamente “socialfascismo” tutte le forme di antifascismo diverse dalla propria (i giudizi di Togliatti sugli azionisti furono sprezzanti e riduttivi: Rosselli era un “piccolo borghese presuntuoso”). Ripasso velocemente le accuse per tentare di ribaltarle. Erano, colpevolmente, predicatori, moralisti, astratti, professorali, elitari… Allora: non tanto “predicano” quanto agiscono, e da subito, con perdite e sacrifici individuali immensi. Lungi dall’essere astratti propongono invece riforme concrete, industriali e agrarie, e riconoscono, realisticamente, che solo una “rivoluzione” può impedire la imminente guerra europea. Non fanno mai la “morale” agli altri, e anzi sanno bene, come scrisse Carlo Levi (uno dei giellisti più prestigiosi) che occorre combattere il fascismo anzitutto “dentro di sé”. Non si pensano mai come élite, come avanguardia esterna che leninisticamente porta la coscienza alle masse, ma ci appaiono oggi quasi mistici della democrazia, con la fiducia nell’autogoverno, nelle forme di contropotere e autorganizzazione (“autonomia” è il mantra che ricorre in tutti i documenti: più Naomi Klein che un circolo snob di illuministi). Aggiungo solo che l’atteggiamento dei comunisti era ambivalente: ad esempio Rodano, eminenza grigia del “compromesso storico”, vedeva come bestia nera gli azionisti di sinistra mentre si sentiva vicino alla “rivoluzione democratica” dei La Malfa, Omodeo, Salvatorelli, etc. Il finale dello scritto di Garosci è insieme problematico e commovente. Sottolineando le affinità tra GeL e il Partito d’Azione si mostra preoccupato, in un momento di “dissoluzione sociale e morale”, dall’affievolirsi della identità azionista, tra il sostegno contraddittoriamente concesso a Badoglio e un approccio tutto verticistico e istituzionale alle questioni sul tappeto. Tanto da allontanarsi polemicamente dai partiti stessi, auspicando una “rivoluzione umanista”, libertaria, che si contrapponesse al fascismo non come forza politica ma come forza morale. Credo che gli azionisti, lungi dall’essere degli alieni, disegnino anch’essi una autobiografia della nazione. Solo che raccontano una nazione diversa da quella dell’eterno fascismo, una nazione più appartata, una umile Italia in parte inesplosa, eppure altrettanto reale. L’individuo prima degli apparati, le persone prima dei partiti, l’etica prima della tattica, il vero prima dell’utile, una idea di civiltà prima ancora dei programmi politici. Sì, erano i “giusti”. Filippo La Porta 

Catarsini, la guerra civile "dipinta" da chi la visse. Giordano Bruno Guerri il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Gli anni dal 1943 al '45 in Lucchesia, teatro di paure, atrocità, incertezze. E scelte politiche dettate dal caso. Nel 1943-45 l'Italia venne scaraventata indietro nel tempo e di colpo assunse di nuovo l'aspetto di Paese diviso in fazioni avverse, impegnate in battaglie ed eccessi barbarici, come in un ritorno al Medioevo. Non è stata ancora scritta un'analisi psicologica attendibile dei due anni in cui il popolo italiano si spaccò tra nord e sud, tra fascisti e partigiani, tra alleati e tedeschi. È certo però che la scelta non si basò sempre su motivazioni ideologiche ragionate, ma più spesso su fobie, vertigini, perdita di identità e, ancora più spesso, circostanze o coincidenze: «Per molti dei miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti ad un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall'altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile» (Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno). Anche Alfredo Catarsini (1899-1993) spiega bene che i più, in realtà, non scelsero. Fu la geografia a decidere per loro: chi stava nel Sud già liberato fu felice di rimanervi, chi stava al nord si sottomise alla neonata Repubblica Sociale Italiana in attesa della «immancabile vittoria» fascista o della ben più probabile avanzata degli eserciti alleati. Chi viveva nella fascia di mezzo al fronte, come nel romanzo di Alfredo Catarsini Giorni neri (uscito nel 1969, ora ripubblicato da La nave di Teseo) - dipendeva spesso dal caso e dalle circostanze. Solo una minoranza decise di schierarsi attivamente da una parte o dall'altra. Quelli che stettero con Mussolini erano sovente spinti, più che dalla fede nel fascismo, dal senso dell'onore, dal rispetto dei patti, della «patria tradita», dall'anticomunismo e dal disprezzo per le democrazie inculcato loro per vent'anni, a testimonianza che l'educazione del regime non era stata vana. Basti leggere il più bel romanzo sulla guerra civile vista da un giovane che aderì alla RSI, A cercar la bella morte, di Carlo Mazzantini, pubblicato nel 1986. Nella Resistenza l'idea di patria era più debole, specie se confrontata con quella di altri Paesi: era inevitabile, visto che per i partigiani cresciuti nel fascismo la patria era identificata con il regime fascista. Quelli che in seguito saranno genericamente indicati come antifascisti spesso erano tali in quanto odiavano i tedeschi, oppure amavano la monarchia, o sognavano una «dittatura del proletariato» sul modello sovietico: solo una minoranza si batteva per la libertà e basta. Il contributo militare che questi uomini portarono alla vittoria fu marginale: la Resistenza ebbe soprattutto valore morale e simbolico, perché significò che parte degli italiani si schierava, armi in pugno, contro un'ideologia che mirava a sottomettere l'intero pianeta ordinandolo sulla base di una gerarchia razziale. Le loro motivazioni erano fortissime perché, non educati né alla libertà né alla democrazia, le avevano scoperte e valorizzate da soli. E, conoscendole in autonomia, spesso credettero con ingenuità che il comunismo già dittatoriale ovunque si era affermato potesse rappresentarle. La maggioranza del popolo voleva semplicemente «Pane, pace e libertà», come qualcuno scrisse su un muro di Milano. Scritto nel 1968-69, molto prima che la storiografia delineasse più correttamente gli eventi della guerra civile, il libro di Alfredo Catarsini centra l'obiettivo di raccontare la tragedia di una lotta crudelissima fra uomini che, fino a poco prima, erano vissuti in pace e in vicinanza. È una storia di partigiani, fascisti, tedeschi, e soprattutto di sfollati, povera gente che la guerra ha privato di ogni cosa, sicurezze, cibo, case, padri e figli. Giorni neri è la versione narrativa, e quindi tanto più suggestiva, di un magnifico saggio di Miriam Mafai, Pane nero, uscito nel 1987. Catarsini era un pittore, un eccellente pittore, che oggi viene riscoperto e valorizzato, e adesso scopriamo che era anche uno scrittore capace di raccontare i giorni orribili della guerra civile con maestria. Nella nota introduttiva si chiede se è riuscito «a dare un carattere proprio ad ogni personaggio»: ci è riuscito benissimo, delineando il carattere comune, cioè l'ostinata volontà di sopravvivere fra passioni, ricatti, tradimenti, paure, fame con cui fare i conti ogni giorno. Ci riesce con l'arte del pittore, con la passione per il dettaglio schizzato rapidamente confrontate il testo con i disegni che lo accompagnano, qua e là, e vedrete che si somigliano: pennellate di scrittura rapide e sicure, ricche di parole che a molti sembreranno dialettali, e che invece vengono da un antico italiano che si è conservato solo in Toscana, e sempre meno: per esempio nella pagina che apre il racconto, «bianca come una saponata». E troviamo anche, fondamentale, il problema sociale di sempre: «Il ricco non vuol capire la lingua del povero», dice Nando, il protagonista che vi rimarrà nella memoria, «Lo so, lo so che corpo pasciuto non crede l'affamato». Giordano Bruno Guerri 

Chi liberò veramente l’Italia. Marcello Veneziani, La Verità/marcelloveneziani.com 25 aprile 2021. Si può celebrare in tanti modi la Liberazione dell’Italia nel 1945 ma ci sono dati, numeri e vite che non si possono smentire e che sono la base necessaria e oggettiva per dare una giusta dimensione storica all’evento. Dunque, per la Liberazione dell’Italia morirono nel nostro Paese circa 90mila soldati americani, sepolti in 42 cimiteri su suolo italiano, da Udine a Siracusa. Secondo i dati dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, furono 6882 i partigiani morti in combattimento. Ricavo questi dati da una monumentale ricerca storica, in undici volumi raccolti in cofanetto, dedicata a La liberazione alleata d’Italia 1943-45 (Pensa ed.), basata sui Report of Operations di diversi reggimenti statunitensi, gli articoli del settimanale Yank dell’esercito americano e i reportage dell’Associated press. E naturalmente la ricerca storica vera e propria. Più un’ampia documentazione fotografica. L’autore è lo storico salentino Gianni Donno, già ordinario di Storia contemporanea, che ha analizzato i Reports of Operations in originale, mandatigli (a pagamento) da Golden Arrow Military Research, scannerizzati dall’originale custodito negli Archivi nel Pentagono. L’opera ha una doppia, autorevole prefazione di Piero Craveri e di Giampiero Berti e prende le mosse dallo sbarco di Salerno. Secondo Donno, non certo di simpatie fasciste, il censimento dell’Anpi è “molto discutibile” ma già quei numeri ufficiali rendono le esatte proporzioni dei contributi. Facciamo la comparazione numerica: per ogni partigiano caduto in armi ci furono almeno 13 soldati americani caduti per liberare l’Italia. Senza considerare i dispersi americani che, insieme ai feriti, furono circa 200mila. E il conto risuona in modo ancora più stridente se si comparano i 120mila militari tedeschi caduti in Italia, soprattutto nelle grandi battaglie (Cassino, Anzio e Nettuno) contro gli Alleati e sepolti in gran parte in quattro cimiteri italiani. Naturalmente, diverso è parlare di vittime italiane della guerra civile, fascisti e no, di cui esiste un’ampia documentazione, da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa, per citare le ricerche più scomode e famose. Ma non sto parlando di fascismo e guerra civile, bensì di Liberazione d’Italia, ovvero di chi ha effettivamente liberato l’Italia dai tedeschi o se preferite dai “nazifascisti”. Pur avendo un giudizio storico molto diverso dalla vulgata ufficiale e istituzionale, confesso una cosa: avrei voluto dire il contrario, che l’Italia fu liberata dalla Resistenza, dalla lotta di liberazione, dall’insurrezione popolare degli italiani contro l’invasore. Avrei preferito, da italiano, dire che furono loro a battere i tedeschi, fino a sgominarli, come suggerisce la narrazione ufficiale e permanente del nostro Paese. Ma non è così; e se non bastassero i giudizi storici, la conoscenza di eventi e battaglie, le sottaciute testimonianze della gente, bastano quei numeri, quella sproporzione così evidente di morti, di caduti sul campo per confermarlo. Furono gli alleati angloamericani, sul campo, a battere i tedeschi; senza considerare il ruolo decisivo che ebbero i bombardamenti aerei degli alleati sulle nostre città stremate e sulle popolazioni civili per piegare l’Italia e separarla dal nefasto alleato tedesco. Si può aggiungere che la liberazione d’Italia sarebbe avvenuta con ogni probabilità anche senza l’apporto dei partigiani; mentre l’inverso, dati alla mano, è impensabile. Dunque la Resistenza può conservare un forte significato sul piano simbolico e si possono narrare singoli episodi, imprese e protagonisti meritevoli di essere ricordati; ma sul piano storico non si può davvero sostenere, alla luce dei fatti e dei numeri, che fu la Resistenza a liberare l’Italia. Nella migliore delle ipotesi è mito di fondazione, pedagogia di massa, retorica di Stato. Il mito della resistenza di cui scrisse uno storico operaista di sinistra radicale come Romolo Gobbi. Per essere precisi, la Liberazione non si concluse il 25 aprile a Milano come narra l’apologetica resistenziale, ma l’ultima, aspra battaglia tra alleati e tedeschi, sostiene Donno, si combatté nel comune di San Pietro in Cerro, nel piacentino, tra il 27 e 28 aprile. A San Pietro c’era anche il regista americano John Huston, inviato col grado di Capitano, a girare docufilm. Ma i filmati erano così duri che gli Alti comandi americani decisero di non diffonderli fra le truppe se non in versione edulcorata. Sulle lapidi dei cimiteri di guerra disseminati tra Siracusa e Udine, censiti da Massimo Coltronari, ci sono nomi di soldati e ufficiali hawaiani, australiani, neozelandesi, perfino maori, indiani e nepalesi, francesi e marocchini, polacchi, greci, anche qualche italiano del Corpo italiano di liberazione, e poi brasiliani, belgi, militi della brigata ebraica; ma la stragrande maggioranza sono americani, caduti sul suolo italiano. Molti erano di origine italiana: si chiamavano Ferrante, Lovascio, Gualtieri, Rivera, Valvo, Pizzo, Mancuso, Capano, Quercio, Colantuonio, Barrolato, Barone…“È stata e continua ad essere – dice Donno – una grande opera di mascheramento della “verità” quando non di falsificazione… i miei volumi hanno l’ambizione di rompere questa cortina di latta (che, ammaccata dappertutto, tuttora sopravvive nella discarica del tempo) facendo emergere dati e fatti oscurati ed ignorati”. Naturalmente possono divergere i giudizi tra chi considera gli alleati come benefattori e liberatori, chi come occupanti e nuovi invasori; chi avrebbe preferito che fossero stati i sovietici a liberarci; e chi si limita a considerarli combattenti, soldati in guerra e non eroi, soccorritori o invasori. La memorialistica sulla liberazione d’Italia minimizza e trascura l’apporto americano; invece, sottolinea Craveri, è evidente che furono loro i protagonisti della liberazione d’Italia. La verità, vi prego, sull’onore. MV, La Verità 25 aprile 2021

Marcello Veneziani. Giornalista, scrittore, filosofo. Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai. Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani. È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.

"Una vergogna e uno schiaffo. Pietro Senaldi e il 2 giugno da cancellare: "Non riusciamo nemmeno a festeggiare una truffa, la nostra Costituzione è lettera morta". Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi commenta la Festa della Repubblica: "Anche questo 2 giugno ce lo stiamo togliendo dalle scatole. La festa della Repubblica è la data del referendum che abolì la monarchia e va beh che siamo italiani ma nemmeno noi riusciamo a festeggiare una truffa. Questa festa non è sentita perché la nostra Repubblica è un'eterna incompiuta: tutte le cose scritte nella Costituzione sono lettere morte, dalla magistratura al lavoro, che non c'è, fino alle aziende, cui vengono sempre messi i bastoni fra le ruote. Tanti auguri Repubblica, ci rivediamo l'anno prossimo e non sarà cambiato niente". 

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 7 giugno 2021. «Bella Ciao» come l'inno di Mameli, almeno il 25 aprile. Nelle cerimonie ufficiali della Festa della Liberazione, subito dopo l'inno nazionale, va intonata la canzone simbolo della Resistenza. Anche se in realtà, nella proposta di legge in cui viene motivata l'iniziativa, si sottolinea il «carattere istituzionale» di "Bella Ciao", il fatto che sia «un'espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica». Nel testo, a prima firma del deputato Pd Gian Mario Fragomeli, ma sottoscritto anche da nomi noti come Fiano, Fassino o Boldrini, si ripercorre la storia della canzone, cercando di dimostrarne la neutralità politica: «Possiamo affermare con certezza - scrivono i proponenti - che "Bella Ciao" non è espressione di una singola parte politica, ma che, al contrario, tutte le forze democratiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone». Una tesi che non fa breccia a destra, come spiega chiaramente Ignazio La Russa: «"Bella Ciao", non per colpa del testo, ma per colpa della sinistra, non copre il gusto di tutti gli italiani - spiega il senatore di Fratelli d' Italia - non è la canzone dei partigiani, ma solo dei partigiani comunisti. Se proprio si vuole tornare indietro nella storia, c' è la canzone del Piave per ricordare i caduti della guerra». Netto il giudizio negativo di Rachele Mussolini, nipote del Duce, che la definisce una «proposta divisiva, che non toglie o aggiunge nulla a quello che è lo stato attuale delle cose: l'hanno sempre cantata il 25 aprile e ora vogliono avere l'ufficialità di questo inno. Ce ne faremo una ragione». La legge, presentata alla Camera lo scorso 21 aprile, è sostenuta da Pd, Italia Viva e Leu, ma tra i firmatari c' è anche un deputato del Movimento 5 stelle. Da vedere se troverà il consenso necessario in Parlamento, il testo è stato assegnato alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio lo scorso venerdì, ma l'esame non è ancora stato avviato.

“Bella Ciao” obbligatorio? La Rai ci propina il documentario sul “mito” dei partigiani buoni…Monica Pucci lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Mentre impazza il dibattito sulla proposta di legge che vorrebbe ‘Bella ciao’ inno del 25 aprile, al canto popolare sarà dedicato per la prima volta un documentario, che dovrebbe andare in onda il prossimo 15 dicembre su Rai1. Benzina sul fuoco nel dibattito sull’inno “partigiano”, del quale la sinistra chiede un riconoscimento istituzionale rendendolo obbligatorio subito dopo l’Inno di Mameli, in occasione di eventi celebrativi, come il 25 aprile. La Rai, intanto, si è portata avanti col lavoro… Lo scorso 31 maggio è stato annunciato che ‘Bella Ciao’ diventerà un documentario coprodotto da Palomar Doc e Rai Documentari e diretto da Giulia Giapponesi con il titolo ‘Bella Ciao – La storia oltre il mito’. Con oltre un miliardo di visualizzazioni online, Bella Ciao è il canto popolare italiano più ascoltato nel mondo negli ultimi anni. Come canzone di lotta e resistenza è stata recuperata nell’ultimo quarto di secolo da decine di realtà di protesta, dalla primavera araba alle proteste #occupy Usa e #occupy Mumbai, dalla lotta alla globalizzazione alla lotta ai cambiamenti climatici, dai funerali dei vignettisti di Charles Hebdo alle rivolte in Sudan e ai movimenti di piazza in Libano, in Cile, in Turchia. Tutto fa brodo, quando c’è da cantare “oh partigiano portami via”, anche nelle fiction di successo, come “La casa di carta” di Netflix. Ma in Italia quel canto resta di parte e divisivo, non certo rappresentativo di tutti, visto che ha segnato le fasi più cruente della guerra civile e accompagnato le azioni vendicative dei partigiani italiani senza scrupoli. 

La tragica storia di Luisa Ferida: innocente, fu fucilata dai partigiani con il bimbo in grembo. Viola Longo venerdì 30 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Qualcuno l’ha ricordata in occasione del 25 aprile, per rammentare che anche ombre si affastellano su quella data. In molti sui social la stanno ricordando in queste ore, in cui ricorre l’anniversario del suo assassinio. Luisa Ferida, al secolo Luigia Manfrini Farné, era un’attrice di successo, aveva 31 anni ed era incinta a uno stadio avanzato quando il 30 aprile 1945 venne fucilata a Milano dai partigiani. La sua unica colpa era quella di essere la compagna dell’altrettanto noto attore Osvaldo Valenti, a sua volta giustiziato quel giorno: aveva aderito alla Rsi e si era arruolato nella X Mas «in quanto simbolo di dignità e onore». Tanto bastava.

Una sentenza già scritta. Per Valenti e Ferida, come per molti che fecero la stessa fine, i partigiani, che in questo caso erano quelli della divisione “Pasubio”, al comando di Giuseppe Morozin, che rispondeva al nome di battaglia di “Vero”, celebrarono un processo sommario, con una sentenza di fatto già scritta: morte. Secondo quanto riferito dallo stesso Morozin anni dopo, fu Sandro Pertini in persona a spingere per l’esecuzione. Anche per quella della Ferida.

L’ordine di Pertini: uccideteli. Fra i molti che hanno raccontato la storia tragica di Ferida e Valenti, c’è stato anche Raffaello Uboldi, giornalista di razza e autore, tra l’altro, della prima biografia di Pertini, Il cittadino Sandro Pertini, cui seguì poi il volume Pertini soldato. Ebbene, anche Uboldi, scomparso nel novembre 2018 e che di Pertini fu collaboratore e amico, scrive nel suo 25 aprile. I giorni dell’odio e della libertà, che Pertini «non muoverà un dito per salvare dalla fucilazione Valenti e la Ferida, nemmeno lei, che era colpevole di nulla; anzi, si sarebbe speso a favore dell’esecuzione». “Vero” Morozin nel suo Odissea Partigiana, del 1965, fu molto più netto, raccontando che Pertini lo chiamò tre volte, intimando di uccidere i due attori.

Luisa Ferida, fucilata dai partigiani «senza prove». Il racconto che Uboldi fa della loro condanna a morte è drammatico e, specie per la Ferida, carico di pietà. «La loro sorte è comunque segnata, li vogliono morti, sono considerati un simbolo, al di là delle colpe che vengono loro contestate senza uno straccio di prova. Vogliono morta anche lei, che un qualsiasi altro tribunale manderebbe assolta, per di più è incinta, attende un bambino, non c’è luogo al mondo dove la condanna non verrebbe sospesa. Non nella Milano di questo aprile 1945. E così Luisa muore con lui, uccisa senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia».

Poi lo Stato ammise: «Uccisa perché amante di Valenti». Undici anni dopo, nell’ottobre del 1956, la madre di Luisa Ferida, Lucia Pasini, ottenne che le autorità italiane scrivessero nero su bianco che la figlia era stata giustiziata senza colpa. La donna chiese e ottenne, infatti, una pensione di guerra, poiché Luisa era la sua unica fonte di sostentamento. Ne scaturì un’istruttoria da parte dei Carabinieri, che si concluse con questo rapporto: «La signora Manfrini Luisa, in arte Luisa Ferida, non consta abbia fatto parte di formazioni militari ausiliarie della Repubblica sociale italiana. Le cause del decesso della Manfrini devono ricercarsi nel fatto che la predetta era amante del noto attore Osvaldo Valenti». Una esecuzione partigiana, come scritto da Uboldi, «senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia». 

I ragazzi di Salò? Veri rivoluzionari. Un libro ribalta i vecchi tabù storiografici. Redazione martedì 7 Marzo 2017 su Il Secolo d'Italia. Di titoli sulla Rsi se ne contano a bizzeffe. Alcuni sono davvero illuminanti, altri si muovono nella dimensione – sia pure importante – della testimonianza, altri obbediscono a logiche di parte. C’è ora un libro in uscita per la casa editrice Il Mulino anticipato sul Corriere da un’analisi di Paolo Mieli, L’Italia di Salò 1943-45, che tenta di fare i conti oltre ogni pregiudizio con una pagina di storia fino ad oggi rimossa o deformata. Gli autori, Mario Avagliano e Marco Palmieri, ben sottolineano – scrive Paolo Mieli – “i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla "parte sbagliata"“.  Quella scelta fu per molti giovani e giovanissimi non una macchia, non una colpa ma – affermano i due autori del libro – “una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime”. Il tabù storiografico che considera i combattenti della Rsi “avventurieri” o “idealisti in buona fede” non è utile chiave di lettura per spiegare dopo decenni un fenomeno che attirò tanti giovani, molti dei quali destinati dopo la guerra ad una brillante carriera nel mondo dello spettacolo. Tra questi, oltre alla famosa coppia di attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, Giorgio Albertazzi e Dario Fo, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Mario Carotenuto, Mario Castellacci, Fede Arnaud Pocek e Raimondo Vianello, che meglio di altri seppe spiegare cosa lo spinse ad andare volontario nella Rsi, e cioè “un impulso di ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: ‘Vianello, si salvi chi può!’ “. Un esempio classico dello stile italiano del pavido voltagabbana, una cifra esistenziale che appunto i giovani della Rsi vollero respingere col loro esempio, pur se consapevoli di andare a combattere per una causa destinata a perdere. Mieli sottolinea inoltre che il libro dedica pagine particolarmente interessanti al fascismo clandestino nell’Italia liberata, ai “non cooperanti” – in particolare quelli del campo di Hereford – e ai gruppi spontanei che si organizzano nell’Italia meridionale e in particolare in Sicilia dopo lo sbarco alleato raccogliendo i fedelissimi del fascismo. Un capitolo dove spiccano i nomi di Dino Grammatico, Maria D’Alì, Salvatore Bramante, Angelo Nicosia. La storia della rete di non cooperanti e fascisti in Sicilia è ricca di episodi poco conosciuti e per nulla approfonditi. Nella fase finale della guerra, ad esempio, in Sicilia si sviluppa – annota Paolo Mieli -una protesta “contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatsiti e comunisti. Ci si batteva, con lo slogan ‘Non si parte’, per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi negli ultimi decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sgarestano Giovanni Criscione”. Il movimento “Non si parte” creò episodi insurrezionali in vari centri della Sicilia (Modica, Vittoria, Comiso, Giarratana) mentre la Occhipinti dopo la guerra sarà eletta deputata con il Pci. 

Il compagno Fratoianni: il 2 giugno è festa antifascista, capito Salvini e Meloni? Ma ignora la storia. Adele Sirocchi lunedì 1 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia.  Il compagno Nicola Fratoianni, portavoce di Sinistra Italiana, non gradisce la manifestazione di domani del centrodestra. E così si rivolge a Giorgia Meloni e a Matteo Salvini per dire che anche il 2 giugno, festa della Repubblica, è una festa antifascista.

Cosa ha detto Fratoianni. “Il 2 giugno è la Festa della Repubblica Italiana. Mi piacerebbe che coloro che in questo giorno scendono in piazza, anche Salvini e Meloni, si ricordassero che questa Repubblica nasce dalla Resistenza al nazismo e ai loro servi fascisti”, afferma. “Che è una Repubblica – prosegue l’esponente di Leu- che nasce dalle macerie provocate da una monarchia inetta, da una terribile dittatura che provocò un’orribile guerra.” “Farebbero un servizio a se stessi e al loro Paese, se fra uno slogan e un comizietto, si ricordassero – conclude Fratoianni – di tutto questo”.

Il 2 giugno e il referendum. E va bene che la sinistra si racconta la storia come meglio preferisce ma Fratoianni stavolta è andato oltre, spinto dal livore verso Lega e Fratelli d’Italia. Il 2 giugno infatti è una festa che nasce da un referendum istituzionale, indetto a un anno dalla fine della guerra che vide sopraffatto il fascismo. Ignora, tra l’altro, che i reduci di Salò, che fondarono il Msxsi, furono determinanti col loro schierarsi per la Repubblica in occasione di quel referendum. In molti libri si storia, tra cui I ragazzi della Fiamma di Antonio Carioti, si sottolinea che Pino Romualdi, vicesegretario del Partito fascista repubblicano e tra i fondatori del Msi, ebbe un ruolo determinante nelle trattative per il referendum istituzionale. Romualdi fece valere il peso di centinaia di migliaia di giovani e combattenti che andavano “lasciati in pace a curare le loro spaventose ferite”. E infatti il 22 giugno del 1946 giunse l’amnistia ai fascisti. In un contesto storico che necessitava di una pacificazione nazionale dopo il dramma della guerra civile. Proprio il contrario, dunque, di ciò che Fratoianni vorrebbe riesumare con le sue provocatorie dichiarazioni.

“Quanto è difficile oggi dirsi repubblicani (eppure resta indispensabile)”. Massimo Cacciari su L'Espresso l'1 giugno 2021. La Res Publica può vivere solo su valori condivisi come uguaglianza, libertà e senso di comunità. Ideali oggi in crisi rispetto alle “privatae res”. Ma non possiamo smettere di combattere. Non si disperda il senso di repubblica nel vago cielo dei sentimenti e degli ideali. Radichiamolo a terra, e solo così ricorderemo adeguatamente il suo anniversario italiano. Il significato primo del termine res è quello concretissimo di bene, possesso, proprietà, da questo deriva quello di cosa: una cosa è davvero tale quando la tengo saldamente in mano, quando posso dirla mia. Ecco allora il paradosso: dire cosa mia una cosa publica, una cosa, cioè, che non posso dire mia proprietà! Il repubblicano è colui che sente come ciò che massimamente gli interessa, che è cosa sua più profondamente, la res publica. Ed era costato assai giungere ad affermarlo! Il governo repubblicano sorge a Roma con la cacciata dei Re. Repubblica assume, già in Cicerone, che ne “inventa” la parola, un senso storico preciso, che manca al greco polis, politeia. La Repubblica è un regime politico che può nascere soltanto dalla lotta contro un regime monarchico, e contro la costante minaccia di quest’ultimo si rafforza e rinnova. Sembra semplice, e invece è tutto estremamente complesso e difficile. Che cosa possiamo possedere tutti, ciascuno di noi, e a un tempo nessuno? Che cosa siano le privatae res, le proprietà private, credo di intenderlo subito. Ma quelle comuni in che cosa consistono? Dovremmo saperlo indicare, perché, altrimenti, il termine perde la sua pregnanza originaria, e res publica diviene un modo generico di dire una forma di governo in cui, in una maniera o nell’altra, la moltitudine ha la parola e partecipa al processo decisionale. Un equivalente, cioè, di democrazia. Quali sono le cose proprietà pubblica? Questa è la domanda che si pone il repubblicano. Il governo non è la res publica, ma deve garantirla! Garantire che esistano ricchezze che sono in funzione del benessere comune, ricchezze di cui non può appropriarsi il privato, e il cui uso non rappresenti una benevola concessione da parte del sovrano. Ricchezze materiali e immateriali: grandi infrastrutture di servizio, sanità, scuola, salvaguardia dell’ambiente. Ricchezze comuni, a cui tutti accedano e di cui nessuno sia il padrone. La Repubblica sprona i cittadini a perseguire tale fine; la Repubblica vive se i cittadini lo richiedono come loro inalienabile diritto. Ma qui la faccenda si complica ulteriormente. I cittadini non sono astratti fantasmi ideali, ma uomini in carne e ossa, e la tendenza di ciascuno a ridurre la res publica a privatae res, a perseguire il proprio personale profitto anche in ciò che è “comune”, sarà sempre insopprimibile. Poco conta, come fa il repubblicanesimo retorico, astrologare sulla intrinseca politicità del nostro essere. L’uomo sarà anche un “animale politico”, ma soltanto perché (forse, a volte) giunge a capire che il proprio privato interesse è più facilmente perseguibile in pace con gli altri che non in guerra. Da qui a volere la res publica nel senso che abbiamo detto, ci passano dieci oceani. Ecco, allora, la necessità della legge. Essa crea la condizione sine qua non perché esista una res publica: l’uguaglianza dei cittadini di fronte a sé. Questa idea di uguaglianza è il presupposto perché sussista qualsiasi proprietà comune. Solo la legge è il sovrano. Ma, per il repubblicano, solo quella legge che mira a creare le condizioni perché tutti, in base alle loro capacità, e superando quelle disuguaglianze che natura e fortuna creano di continuo, godano delle comuni ricchezze. Se la legge non è la prima “proprietà comune”, nulla lo sarà. Non illudiamoci di essere usciti con questo dalle difficoltà. Nessuna legge scende dal cielo, come nessun cittadino. L’autorità fa le leggi, non la verità. Diventa decisivo allora, per il repubblicano, comprendere come si forma e come si compone questa autorità, cioè il corpo legislatore. Se le finalità di quest’ultimo non saranno repubblicane, se non serberanno memoria della cacciata dei Re, potranno esservi mille repubbliche senza alcuna res publica. La repubblica per vivere deve educare al suo interno una cultura e un ceto politico che riconoscano come proprio fine creare condizioni sempre più alte di uguaglianza, e dunque, anzitutto, sappiano esprimersi attraverso leggi tali da eliminare per quanto umanamente possibile discriminazioni e arbitrii. La legge repubblicana è tale se impedisce alla parte di volersi far tutto, al punto di vista “privato” di ergersi a Valore. Perciò essa tenderà a dividere il potere, a combattere ogni ottuso centralismo. La repubblica è federale nella sua stessa essenza. Alla nascita della nostra Repubblica, qualcuna di queste idee circolava. La loro traccia si va smarrendo nella selva oscura delle seconde e terze repubbliche. Il mercato delle corporazioni inattaccabili, lo sfascio dei partiti, la dilagante disponibilità di fronte al perenne stato di emergenza di scambiare ordine e sicurezza con libertà, il rafforzamento pressoché incontrollato di pulsioni vetero-centralistiche di fronte alla crisi, e perfino alcuni revival della favoletta liberale dell’egoismo privato fonte di collettiva prosperità, insomma questo indigeribile pasticcio di miopi egoismi e cattive ideologie sta rendendo di giorno in giorno più ardua la via democratica alla res publica. Ma arduo è essere repubblicani: fa appello alle nostre passioni migliori, al con-patire con l’altro, al soffrire per la sua sofferenza, a lottare perché possa cessare, a combattere in noi invidia e avarizia. Quando giungeremo a dire: ma tutto questo è impossibile, la repubblica sarà finita.

La storia delle celebrazioni. Festa della Repubblica, perché si festeggia il 2 giugno: dal referendum al ruolo di Ciampi. Fabio Calcagni su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Nella giornata di oggi, mercoledì 2 giugno, l’Italia celebre la Festa della Repubblica. Nello stesso giorno del 1946, 75 anni fa, più di 28 milioni di italiani furono chiamati a votare per scegliere la forma di governo del paese dopo la fine del fascismo: in quell’occasione venne scelta la forma politica della Repubblica con circa 2 milioni di voti in più rispetto alla Monarchia. Nella stessa occasione gli italiani scelsero anche i membri dell’Assemblea costituente: ad ottenere la maggioranza relativa con 207 deputati sui 556 totali fu la Democrazia Cristiana, seguita da socialisti e comunisti. La Festa della Repubblica venne istituita formalmente due anni dopo, nel 1948, ma nel corso degli anni la cerimonia è cambiata. Dal 1977 infatti divenne una “festa mobile”, perché fu deciso di festeggiarla ogni prima domenica di giugno per non perdere un giorno lavorativo. Si deve all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la decisione, nel 2000, di celebrare la nascita della Repubblica il 2 giugno. Il cerimoniale di rito prevede che il presidente della Repubblica deponga una corona d’alloro all’Altare della Patria in piazza Venezia a Roma, in omaggio al Milite ignoto. Successivamente si svolge la consueta sfilata delle forze armate lungo i Fori Imperiali di Roma. L’anno scorso la celebrazione venne modificata a causa dell’emergenza Covid. Il presidente Sergio Mattarella dopo la deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria, tra rigide misure di sicurezza e distanziamento, andò in visita a Codogno, città della provincia di Lodi dove fu individuato il primo caso di coronavirus in Italia, per poi fare ritorno a Roma per seguire un concerto nel cortile dell’Istituto Spallanzani. Anche quest’anno la cerimonia sarà, causa Covid, in toni minori. Per il secondo anno consecutivo infatti non vi sarà alcuna sfilata militare, né l’apertura al pubblico dei giardini del Quirinale. Sul cielo di Roma voleranno però le Frecce tricolori. 

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

2 giugno 1946. Il primo giorno della Repubblica. Ezio Mauro su La Repubblica l'1 giugno 2021. Cosa accadde nella storica data del referendum quando gli italiani si svegliarono per l’ultima volta in un Regno: cronaca di una rivoluzione democratica. All'alba della Repubblica, il 2 giugno 1946, il sole si era alzato su Roma alle 5,37, con la temperatura di 13 gradi che nel corso della giornata sarebbero diventati 28, e l'umidità del 60 per cento. A quell'ora il vecchio re Vittorio Emanuele III si svegliava ogni mattina per alzarsi alle 6, con un'abitudine militare che sorprese lo Zar di tutte le Russie durante il soggiorno a Racconigi nella visita di Stato, tanto da comunicare il suo stupore in una lettera alla zarina madre: "Qui vanno tutti a dormire alle 23, perché il re si alza prestissimo". All'alba della Repubblica, il 2 giugno 1946, il sole si era alzato su Roma alle 5,37, con la temperatura di 13 gradi che nel corso della giornata sarebbero diventati 28, e l'umidità del 60 per cento. A quell'ora il vecchio re Vittorio Emanuele III si svegliava ogni mattina per alzarsi alle 6, con un'abitudine militare che sorprese lo Zar di tutte le Russie durante il soggiorno a Racconigi nella visita di Stato, tanto da comunicare il suo stupore in una lettera alla zarina madre: "Qui vanno tutti a dormire alle 23, perché il re si alza prestissimo". Ma ormai il Re era diventato il conte di Pollenzo, in esilio in Egitto dopo l'abdicazione, e l'ultima fotografia lo riprendeva in canoa con l'ex regina Elena, un casco coloniale in testa e un binocolo al collo, come un turista sfaccendato e lontano. Il nuovo sovrano Umberto II, devoto alla Chiesa a differenza del padre, cominciò la sua giornata con la Santa Messa, inginocchiato non nella cappella Paolina, dove erano state celebrate le sue nozze con Maria José, ma davanti all'altare dell'Annunziata nel palazzo del Quirinale, vicino al suo appartamento privato. Quando il celebrante invocò la benedizione di rito su Casa Savoia tutti chinarono il capo facendo il segno della croce: ma nessuno affidò pubblicamente all'Altissimo la cura di quel giorno speciale, in cui l'Italia era chiamata a scegliere il suo destino tra la repubblica e la monarchia. La vigilia del referendum è attraversata da voci incontrollabili che parlano di intrighi monarchici, di manovre delle sinistre. La psicosi dura da giorni, annunciata dal macabro mistero della salma di Mussolini trafugata la notte del 22 aprile al cimitero monumentale di Milano. Una settimana prima del voto un rapporto "strettamente confidenziale" dell'Oss, il servizio segreto americano, "fonte Jk1", parla in modo esplicito di "colpo di Stato" comunista agli ordini di Longo, Moscatelli, Barontini e Grieco per prendere il potere arrestando "membri della famiglia reale, gli ex gerarchi fascisti, i principali proprietari terrieri e i capi delle industrie". I leader dei partiti di sinistra, invece, guardano al Quirinale, temendo un colpo di mano dell'entourage reale, dopo le sorprese delle ultime settimane. Violando la tregua istituzionale che secondo le intese doveva garantire il più corretto svolgimento del referendum, infatti, il 9 maggio Vittorio Emanuele III era uscito dal silenzio di Villa Maria Pia a Posillipo per abdicare in favore del figlio, che per gelosia e per diffidenza non aveva mai voluto preparare al mestiere di re. Una scelta che Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nel governo De Gasperi, giudicò "l'ultima fellonia di una casa regnante di fedifraghi", decisa per risollevare le sorti della monarchia in declino dopo la connivenza del sovrano con il fascismo, le leggi razziali, la tragedia della guerra, la vergognosa fuga a Brindisi: tentando in extremis di salvare la dinastia minacciata dal voto popolare. Il nuovo re, privato della formula rituale che assegnava la corona "per grazia di Dio e volontà della nazione", giura "di osservare lealmente le leggi fondamentali dello Stato e le libere determinazioni dell'imminente suffragio". Ma intanto parte subito per mostrarsi alla folla in Piemonte, in Veneto, in Sardegna, a Napoli, a Milano, in Sicilia, in Calabria, in un vero e proprio circuito propagandistico tra santuari, tombe, palazzi, ricevimenti e saluti militari che rivela il sostegno del Sud alla monarchia e la freddezza del Nord, ma soprattutto mette in conflitto il doppio ruolo di Umberto II come Capo dello Stato e parte in causa nella battaglia referendaria. Più defilata la regina Maria Josè, che cerca di apparire in manifestazioni di beneficienza in scuole e ospedali, per poi infilare la scheda bianca nell'urna del referendum e votare socialista per la Costituente, secondo la confidenza compiaciuta di Giuseppe Saragat, convinto che la preferenza della sovrana fosse andata proprio a lui. Nei pettegolezzi del Quirinale si racconta che abbia votato scheda bianca anche il re, fotografato mentre consegna scheda e matita al presidente del seggio di via Lovanio, vicino a Villa Savoia, che gli aveva fatto saltare la coda. Come se avesse passato una notte agitata, il vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni si presenta al voto alle otto del mattino alla sezione 350 di Tor di Quinto, poi si chiude in casa per tutto il giorno, leggendo Le zéro et l'infini di Koestler. Il giorno prima, aveva chiesto a De Gasperi quale sarebbe stata la sua scelta nell'urna, senza avere risposta ("Il voto è segreto"), anche se più tardi la figlia Maria Romana rivelerà che il Capo del governo aveva votato per la Repubblica. L'ingegner Giuseppe Romita, ministro socialista dell'Interno, si barrica invece al Viminale per tre settimane, teme che vogliano rapirlo, isola il suo ufficio sbarrando corridoi e chiudendo saloni, si fa portare le camicie dalla moglie, pranza e cena in ufficio col comandante dei carabinieri Brunetti e con Capo della polizia Ferrari, che a tavola gli confessano la loro fede monarchica. In un Paese fortemente cristiano, con sei milioni di iscritti all'Azione cattolica, la Chiesa ufficialmente sceglie l'astensione, anche se nei paesi del Sud il clero sostiene la monarchia, agitando gli spettri del caos per paura dei comunisti. Le sacre indiscrezioni che filtrano dal Vaticano parlano di un Papa vicino ad Umberto, con un pro-segretario di Stato come Montini più aperto verso la Repubblica. In questi spifferi si infilano naturalmente i servizi, che in un rapporto classificato come "segreto" certificano che "Pio XII ha espresso la sua aperta simpatia per i Savoia, dichiarando che appoggerà il mantenimento della monarchia in Italia". Ma nei corridoi del governo Mario Scelba, ministro delle Poste, racconta a tutti i democristiani (e anche a Togliatti) che il fondatore del partito Popolare don Luigi Sturzo gli ha confidato in una lettera "Io sono per la repubblica". C'è anche un sondaggio, organizzato per la prima volta dalla "Doxa". Ma nei palazzi del potere gira ancora la profezia di Vittorio Emanuele III, come una maledizione: "Una forma di governo repubblicana non è adatta al popolo italiano, né per temperamento né storicamente. In una Repubblica ogni italiano insisterebbe per diventare presidente e il risultato sarebbe il caos. Gli unici che ne trarrebbero vantaggio sarebbero i comunisti". Anche se da un rapporto del Foreign Office arriva un giudizio controcorrente: "Un po' di Repubblica e un po' di comunismo farebbero molto bene agli italiani". Si arriva così al giorno del referendum, con una decisiva innovazione democratica, appena sperimentata nelle elezioni amministrative di marzo: il voto delle donne, che conquistano il suffragio compiendo una battaglia cominciata a metà dell'Ottocento. La risposta popolare nelle urne conferma la piena coscienza di questo diritto, con le donne che votano all'89 per cento, in un'affluenza complessiva altissima, 89,1. Il primo scrutinio è per l'urna della Costituente, dove la Dc è primo partito con il 35 per cento dei voti mentre i due partiti di sinistra col Patto d'unità d'azione arrivano al 39,6, con i socialisti che superano il Pci, il Partito d'Azione che crolla all'1,45, e l'Uomo Qualunque sale al 5,3 per cento. Poi comincia lo spoglio del voto referendario, sotto il presagio malinconico ma esatto di Umberto II, confidato nelle ultime ore al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero: "La Repubblica si può reggere col 51 per cento dei voti, la monarchia no". In realtà dai primi dati balza in testa la scelta monarchica, perché le zone scrutinate sono quelle del Sud, e nell'ansia si gonfia la leggenda che Romita abbia nel suo cassetto un milione di voti prefabbricati e pronti. È una sciocchezza tecnicamente impossibile, ma basta a infiammare l'attesa fino al 5 giugno, quando alle tre del mattino una telefonata dal Viminale avverte Nenni che il Nord ha ribaltato gli esiti, la corona è sconfitta, l'Italia ha scelto la Repubblica. È ancora notte quando Lucifero informa il re, in un incontro a due, commossi davanti alla sconfitta. A metà mattina De Gasperi al Quirinale concorda le procedure per la partenza del sovrano verso l'esilio, e gli comunica che lo accompagnerà a Ciampino. Il re risponde che ha deciso di far partire la regina e i figli per Napoli, dove l'incrociatore "Duca degli Abruzzi" li attende per portarli in Portogallo.Tutto è definito: nel pomeriggio Romita legge i risultati, con 12.182.000 voti per la Repubblica, 10.362.000 per la monarchia. La sera Umberto riunisce la "Corte Nobile" a tavola, per l'ultima cena al Quirinale. Ma venerdì 7, mentre Umberto in visita ormai privata si congeda da Pio XII che saluta i suoi "giorni amarissimi", i monarchici sollevano un'eccezione sui risultati, sostenendo che la legge prevede la maggioranza dei votanti e non solo dei voti validi. Tutto torna in alto mare, la Cassazione non proclama l'esito del referendum, in attesa di esaminare "contestazioni, proteste e reclami", e i fedelissimi convincono Umberto a non partire fino alla pronuncia definitiva. Sono sei giorni di passione, con il Consiglio dei ministri che siede in permanenza, anche fino alle 3 di notte, e De Gasperi che va e viene dal palazzo del governo al Quirinale, dove ha uno scontro con Falcone Lucifero, alzando la voce: "A questo punto, domattina verrà lei a trovare me a Regina Coeli, o verrò io a trovare lei". La crisi sembra precipitare quando i bassi di Napoli insorgono contro la Repubblica inneggiando a Masaniello, con morti, tram rovesciati, barricate, e un vero e proprio assalto alla sede del partito comunista. Nel vuoto istituzionale il governo fa la mossa finale decidendo che nel regime transitorio "le funzioni di Capo dello Stato spettano al Presidente del Consiglio in carica". Il re ha dormito fuori palazzo, in via Verona, a casa dell'ingegner Lignana. Qui con Lucifero esamina la possibilità di un'ultima prova di forza, poi nel timore della guerra civile desiste. Partirà, per evitare scontri e conflitti, ma contestando la legittimità del passaggio di poteri. Saluta i collaboratori, passa in rassegna i corazzieri, cammina per l'ultima volta nei giardini, poi un corteo di cinque auto lo accompagna a Ciampino dove rifiuta di incontrare i due ministri che lo attendono sulla pista. Dietro le spalle si è lasciato l'ultimo proclama che denuncia "il gesto rivoluzionario, unilaterale e arbitrario del governo" e annuncia il "sacrificio" compiuto "nel supremo interesse della patria". "Un periodo che non fu senza dignità - replica De Gasperi - si conclude con una pagina indegna". In cima alla scaletta, prima di entrare nel Savoia Marchetti 95 l'ex re, ormai conte di Sarre, si volta sorridendo nel commiato, col cappello floscio nella mano destra. In quel momento dalla torre del Quirinale scende il tricolore con lo stemma dei Savoia. Calma assoluta in tutto il Paese, scrive nel suo diario Nenni. "Ci sarebbe da arguirne che si può perfettamente fare a meno del re e del Capo dello Stato. Però l'Italia è un ben curioso Paese". Pubblicato su La Repubblica

2 giugno 1946: 75 anni dopo facciamo i conti con una Repubblica nata male e cresciuta peggio…Mario Bozzi Sentieri lunedì 31 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. La Storia – è risaputo – non si fa con i se e con i ma. Nel gioco affascinante delle possibilità immaginarie, un’Italia monarchica, alla luce, il 2 giugno 1946, di un diverso risultato del referendum, appare però un’ipotesi tutt’altro che impraticabile.

Casa Savoia aveva avuto la funzione di centro ordinatore. In fondo Casa Savoia aveva retto l’Italia per ben ottantacinque anni, passando indenne attraverso la complicata fase postunitaria, il brigantaggio, la Questione Romana, la stagione del trasformismo, la prima rivoluzione industriale, la Grande Guerra, la nascita dei partiti di massa, il Ventennio fascista e la sua fine, la guerra civile e la guerra perduta. In questo lungo dispiegarsi di avvenimenti la monarchia resse dignitosamente le sorti del Paese (almeno fino al 1943), sulla base dello Statuto Albertino, una sorta di Costituzione “flessibile”, risalente al marzo 1848, e forte del continuismo dinastico. Fu tutt’altro che un’anomalia, in un’Europa a stragrande maggioranza monarchica, confermandosi, nel mutare dei tempi, come “centro ordinatore”.

Non poche ombre sul passaggio alla Repubblica. Il passaggio alla Repubblica avvenne con non poche ombre. A cominciare dall’esclusione dal voto di larghe porzioni del territorio nazionale (da Bolzano a Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara, soggette ai governi militari alleato o jugoslavo) e di quanti si trovavano fuori dal territorio nazionale, in quanto internati nei campi di prigionia all’estero.

Dal referendum uscì un Paese spaccato a metà. Gli stessi risultati elettorali, proclamati a più di una settimana dal voto, furono segnati dall’ombra dei brogli e da significativi ritardi (i dati definitivi vennero comunicati dalla Cassazione ben tredici giorni dopo la comunicazione dei primi risultati provvisori da parte del ministro dell’Interno). Ad urne aperte e a scrutinio avvenuto quello che uscì fuori dal referendum fu un Paese spaccato a metà, con un Mezzogiorno saldamente monarchico (in Campania la Repubblica ottenne appena il 23,7% dei voti) e con non pochi dubbi sulla correttezza del risultato.

Le schede bianche e nulle scomparvero. L’Italia “divisa” (tra Settentrione e Meridione, tra aree sviluppate e cronici ritardi, ceti privilegiati e disuguaglianze sociali) non trova pace con il referendum del giugno 1946. E non solo per i numeri del referendum, oggettivamente risicati e perfino “parziali”, posto che molte sezioni mancarono all’appello, le schede bianche e nulle scomparvero e non ci fu possibilità di verifiche seguenti. Furono gli assetti istituzionali, posti a fondamento del neonato sistema costituzionale, che condizionarono le sorti nazionali, manifestando limiti congeniti ed evidenti debolezze strutturali.

L’Italia fu da subito subalterna in Europa. Mancò, alla base della neonata Repubblica, un centro ordinatore ed equilibratore, in precedenza rappresentato dalla Monarchia, malamente surrogato dalla partitocrazia, con i suoi particolarismi, con i suoi piccoli e grandi giochi di potere, con la sua subalternità alle potenze internazionali (ad Ovest gli Stati Uniti ad Est l’Unione Sovietica), con la corruzione diffusa.

Il provocatorio pamphlet di Prezzolini. L’Italia era “finita”, ancor prima di nascere, per richiamare un provocatorio pamphlet di Giuseppe Prezzolini (L’Italia finisce, ecco quel che resta) edito, nel 1948, negli Stati Uniti. A fallire – per dirla con Prezzolini – il tentativo di formare uno Stato nazionale, con un’Italia destinata a diventare una provincia dell’Europa, mentre venivano meno le aspettative risorgimentali di quel “primato” a cui speravano “Mazzini e Cavour, De Sanctis e Garibaldi, Crispi e Oriani; per non parlare del padre del Risorgimento, Gioberti”.

Fallì l’idea risorgimentale di una grande rigenerazione nazionale. L’antifascismo ed il “mito resistenziale” non riuscirono a surrogare queste aspettative, l’idea di una grande rigenerazione nazionale, confermandosi esperienze di minoranza. Con un’Italia che, oggi come settantacinque anni fa, appare segnata da  una profonda crisi d’identità, “ondeggiando – come ebbe a scrivere Giano Accame (Una storia della Repubblica) – tra un modello capitalista fortemente contestato e un modello socialista che non è mai stato seriamente delineato giacché le esperienze dell’Europa orientale non costituirono nemmeno per il Pci un preciso punto di riferimento; tra una vocazione europea, che fu particolarmente profilata negli anni ’50, e lo spettro di una ricaduta verso il basso Mediterraneo e il Terzo Mondo, che è stato l’incubo degli anni ‘70”.

La politica alta è mancata alla Repubblica nata 75 anni fa. Certo, dal 1946, di strada, in termini economici e sociali ne è stata fatta. Ma non solo per l’Italia e certamente non grazie alla lungimiranza delle classi dirigenti repubblicane, succedutesi negli anni, le quali, al di là delle diverse appartenenze partitiche, sono parse accomunate da un’identica debolezza di strategie, di visioni lunghe, di culture fondanti. Di una Politica alta, in definitiva, che sembra essere mancata alla Repubblica nata settantacinque anni fa e che continua a mancare oggi. Sempre la stessa, pur nel trascorrere degli anni, sempre uguale a se stessa. Nata male e cresciuta peggio, ma per la quale vale ancora la pena trovare le ragioni di un impegno autenticamente riformatore, se non rivoluzionario. In fondo “Right or wrong, my country”, senza retorica però, consapevoli delle sue congenite gracilità.

2/6/1946: repubblica a ogni costo, tra inganni e minacce. La storia non detta. Redazione giovedì 2 Giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. In questi giorni assistiamo a solenni celebrazioni della Repubblica, convegni, mostre fotografiche, e lo stesso capo dello Stato ha parlato della festa della Repubblica invitando gli italiani a riaffermarne i valori. Ma quali sono questi valori? E soprattutto, come nacque questa repubblica, quell’ormai lontano 2 giugno di 70 anni fa? Non è corretto, verso i nostri giovani, nascondere loro la metà della storia. I nostri governanti, ormai tutti repubblicani da tempo, sanno benissimo come nacque la repubblica e in quale clima di guerra civile si svolse il referendum, e con quali garanzie di trasparenza. Anzi, non era un clima di guerra civile, era ancora guerra civile. Nel nord Italia le bande partigiane comuniste continuavano ad assassinare chi non la pensava come loro: preti, fascisti, possidenti, cattolici, e anche semplici nemici personali. La guerra non era finita da un anno, e ancora si regolavano i conti con coloro che si pensava avessero potuto essere di ostacolo alla dittatura comunista che si pensava di installare in Italia quanto prima, con la complicità, l’appoggio, le armi e i soldi dell’Unione Sovietica.

2 giugno 1946: la vittoria repubblicana non era certa. Sconfitto il fascismo, ora bisognava cacciare la monarchia, e non sembrava facile farlo, in quanto la maggioranza degli italiani era attaccata alla vecchia istituzione. Si pensò, per far apparire le cose in regola, di indire un referendum in cui il popolo italiano potesse esprimersi. Ma la vittoria non era certa, tutt’altro. Per cui, con la regia degli occupanti americani, e d’intesa con il Cln (Comitato di Liberazione nazionale), si stabilirono le regole: si privavano del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia, dell’Alto Adige, della Libia; inoltre non poterono votare tutti i prigionieri, gli sfollati, gli epurati, e tutti i loro familiari. In tutto il nord le bande armate non permisero un solo comizio elettorale dei monarchici, e allora esporsi e fare propaganda equivaleva a morte certa. Le settimane precedenti alle consultazioni si svolsero tra tensioni e incidenti gravissimi: il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, trovandosi a corto di uomini per le forze dell’ordine, pensò di inquadrare nella polizia ausiliari provenienti dalle bande partigiane comuniste del nord, i quali trattavano la popolazione, soprattutto quella del Sud, come un nemico. Furono soprannominate dal popolo “le guardie rosse di Romita”.

2 giugno 1946: Nenni disse “o repubblica o il caos”. I nuovi vincitori insomma, con l’ombrello americano, avevano deciso di istituire la repubblica a qualsiasi costo. Lo disse chiaramente il leader socialista Pietro Nenni con la sua frase “O la repubblica o il caos”. Lo disse il ministro comunista delle Finanze Scoccimarro in un comizio, che in caso di vittoria della monarchia a referendum i comunisti avrebbero scatenato la lotta armata; e tutto mentre Pertini chiedeva la fucilazione di re Umberto di Savoia. Per evitare un’altra guerra civile molti italiani pensarono di votare la repubblica. Ma ancora poteva non bastare: non si disse quanti erano gli aventi diritto al voto, le schede uscite dalle urne sembra fossero un po’ troppe, molti ricevettero più di un certificato elettorale, defunti compresi. Ovviamente, in uno Stato uscito da una guerra devastante e flagellato da una guerra civile strisciante, non si poteva pretendere uno svolgimento corretto, anche se vi fosse stata buonafede. Nessuno sapeva bene cosa fare, le schede furono inviate a Roma con mezzi di fortuna, chiunque poteva toccarle, chiunque poteva immetterne di nuove, non c’era controllo, anche perché non ci poteva essere. Dopo il referendum, le cose andarono ancora peggio: man mano che le istituzioni dichiaravano la vittoria della repubblica, molte città insorsero, conscie della scarsa regolarità delle consultazioni, come Palermo, Taranto, Bai, Messina, ma soprattutto Napoli, dove per giorni centinaia di migliaia di persone dimostrarono in favore della monarchia. Tutte queste proteste furono soffocate nel sangue, e in particolar modo a Napoli, dove gli ausiliari mitragliarono la folla assassinando una dozzina di persone, perlopiù giovanissimi. L’episodio è noto come la strage di via Medina, ma non la si insegna a scuola né ci fu un processo né c’è una lapide che ricordi le vittime. Era l’11 giugno 1946, e i feriti furono oltre cento. Pochi giorni prima uno sconosciuto aveva tirato una bomba a mano contro un corteo di monarchici, causando un morto e numerosi feriti. Perché la popolazione era insorta? Perché si erano sparse notizie, e forse qualcuno le aveva anche verificate, relative ai brogli di cui si parlerà per gli anni a venire, prima che la cortina del silenzio calasse anche su questa vicenda, come era calata per le foibe, per i crimini dei partigiani, per l’esodo degli istriani. Su 35mila sezioni elettorali furono presentati 22mila ricorsi, tutti respinti in pochi giorni. Lo spoglio delle schede pervenute avventurosamente nella capitale si svolse nella sala della Lupa a Montecitorio alla presenza della corte di Cassazione e degli ufficiali angloamericani occupanti. L’Italia risultò ancora una volta divisa in due: il centronord per la repubblica, il sud per la monarchia, tanto che dopo il referendum ci fu chi propose di separare il sud dal Paese per creare un regno con a capo re Umberto.

2 giugno 1946: il senso di responsabilità di re Umberto. E mentre la proclamazione ufficiale era attesa per il 18 giugno, e mentre la corte di Cassazione stava ancora esaminando i ricorsi, il governo la notte del 12 giugno, a scrutinio non ultimato, trasferì i poteri del capo dello Stato – che fino allora era il re – al presidente del consiglio in carica. Il giorno dopo, il 13, re Umberto lasciò per sempre l’Italia per andare in esilio in Portogallo. Lo fece per non far precipitare in una nuova guerra civile la sua Patria, dimostrando un altissimo senso di responsabilità e amore verso gli italiani. La Stampa di Torino titolò: “Il governo sanziona la vittoria repubblicana”, mettendo in dubbio la proclamazione stessa della repubblica. Perché neanche allora lo si era capito. Poche ora prima di partire per il Portogallo, re Umberto in un proclama denunciò l’illegalità commessa dal governo e partì dopo aver affidato la patria agli italiani (e non ai suoi rappresentanti eletti). “Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto”.

2 giugno 1946: a scuola si insegni tutta la storia. Come finì la storia? Che il 18 giugno la corte di Cassazione respinse tutti ricorsi e stabilì che per “maggioranza degli elettori votanti” si dovesse invece intendere “la maggioranza dei voti validi” e che quindi aveva vinto la repubblica. La vicenda ha una coda, perché nel 1960 in un’intervista il presidente della suprema corte quel 18 giugno, Giuseppe Pagano, disse che in quelle ore «l’angoscia del governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi». Secondo l’alto magistrato, tuttavia, non vi furono brogli. Tra gli altri “gialli” di questa storia vi sono anche il fatto che Tito aveva pronte le sue truppe per invadere l’Italia dalla Jugoslavia in caso della vittoria della monarchia; si disse che l’allora segretario del Pci Togliatti intervenne presso Mosca per ritardare il rientro delle decine di migliaia di prigionieri italiani in Urss; i primi rapporti dei carabinieri, presenti nei seggi, sia al Vaticano sia al governo, indicavano una netta vittoria della monarchia, posizione poi invertitasi in poche ore; il numero degli elettori è sembrato poi superiore a quello degli aventi diritto al voto, comprensibile nel disordine dovuto al periodo bellico. Possibile anche che molti abbiano votato più volte con documenti di identità falsi o appartenenti a defunti o dispersi. Lo stesso Togliatti, infine, ministro della Giustizia, di fronte alle migliaia di ricorsi, disse che probabilmente le schede non sarebbero potute essere controllate perché alcune erano andate distrutte…Meglio la monarchia della repubblica? Certo non la monarchia italiana, meglio forse quella inglese. Però almeno, che ai nostri figli sia raccontata anche l’altra metà della storia.

Le donne del 2 giugno 1946? Erano in larga misura “figlie” del fascismo. Redazione venerdì 3 Giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. Si è molto parlato, in occasione dell’ultimo 2 giugno, del ruolo delle donne, a cui, settant’anni fa, fu concesso, per la prima volta in Italia, il diritto di voto. Da lì in poi – è stato detto e scritto – una nuova fase si apriva per il mondo femminile, finalmente investito di responsabilità politiche , seppure ancora minoritario all’interno delle istituzioni (in sede di Costituente le donne elette furono appena 21 su 556 costituenti). Fu certamente un “passaggio” importante, ma non bastò evidentemente il voto per abbattere storiche barriere e ataviche esclusioni. Basti dire che solo nel 1953 le donne poterono essere chiamate a fare parte di una giuria popolare e che fu necessario attendere il 1963 per vederle entrare in magistratura. Solo negli Anni Settanta furono poi riformati gli articoli del codice civile che confliggevano con la parità dei coniugi, costituzionalmente sancita.

Chi erano le donne del 2 giugno 1946? Parlando delle donne e del loro ruolo nella società italiana, bisogna allora correttamente evitare ogni facile retorica, guardando storicamente alle diverse fasi che hanno segnato i processi di assunzione di responsabilità del mondo femminile. A cominciare proprio da quelle giovani donne del 2 giugno 1946. Chi erano quelle donne? Da dove venivano? Quali esperienze avevano fatto fino ad allora? In occasione del settantesimo anniversario della prima partecipazione delle italiane al voto si è fatta molta retorica e cattiva informazione, con particolare riferimento al periodo precedente il 1946. In realtà le donne del giugno di settant’anni fa erano in larga misura “figlie” del fascismo, in quanto nel Ventennio erano cresciute, si erano formate, avevano iniziato a lavorare. C’è indubbiamente un’apparente contraddizione tra l’idea della donna “angelo del focolare”, propagandata durante il fascismo, e gli inviti alla “mobilitazione generale della Nazione”, che rappresenta uno degli elementi fondanti del fascismo stesso. In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia. E così come c’è l’idea dell’ “uomo nuovo”, c’è anche quella della “donna nuova”, a rimarcare una presenza ed una volontà di protagonismo inusuali. La materia è evidentemente ampia e complessa. Ma basta appena citare qualche nome e qualche numero per uscire fuori dalle vecchie logiche interpretative. Pensiamo a figure di intellettuali e giornaliste, quali Margherita Sarfatti, animatrice culturale e vicedirettrice di “Gerarchia” o Ada Negri (la prima donna a entrare nell’Accademia d’Italia); al ruolo formativo della stampa femminile; ai processi di alfabetizzazione che interessarono le donne (tra il 1929 e il 1939 vanno registrate 18mila laureate e 25mila diplomate in licei e istituti tecnici); al ruolo dello sport femminile, osteggiato dal Vaticano ed invece sostenuto dal Regime, con risultati – per l’epoca – clamorosi come la medaglia d’oro vinta da Ondina Valla ai Giochi olimpici di Berlino del 1936, prima donna italiana a raggiungere questo obiettivo; alla mobilitazione politica (nel 1940 le iscritte ai fasci di combattimento erano 3.118.000); alle norme per la tutela della maternità, con particolare riguardo alle donne lavoratrici; allo spazio che le donne ebbero in sostituzione degli uomini richiamati; alle giovani volontarie della Rsi, inquadrate militarmente, sotto il comando di una donna generale, Piera Gatteschi. Le donne del giugno 1946 portarono evidentemente alle urne anche quei percorsi, personali e collettivi. Con tutte le contraddizioni e le “revisioni” del caso, provocate dalla drammaticità degli eventi e dalle diverse esperienze personali, tra attendismo, lotta partigiana, continuità fascista. Ma certamente serbando in cuor loro l’esperienza inusuale della mobilitazione di massa. Poi, quelle stesse donne proseguirono i loro diversi cammini cercando di dare concretezza alle aspettative che il diritto al voto aveva creato, ma che certamente non fu facile raggiungere.

La vera storia del Referendum del 2 giugno '46. Matteo Sacchi l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. Arriva in edicola domani, con il Giornale, il secondo volume del saggio di Aldo Alessandro Mola Monarchia o Repubblica? Quel 2 giugno '46 (euro 8,50 più il prezzo del quotidiano). In questo testo (anche il primo volume, uscito la settimana scorsa, resterà reperibile in edicola sino al 30 giugno) Mola, storico molto attento alle vicende di casa Savoia, ricostruisce con dovizia di particolari, e dopo un lunghissimo lavoro di revisione di fonti e documenti, cosa è accaduto nel giugno di 75 anni fa, quando l'Italia è stata chiama a scegliere tra Monarchia e Repubblica. Senza partigianeria e senza cedere a posizioni preconcette, il libro porterà il lettore a poter valutare - prove alla mano - tutti i mal funzionamenti pratici, gli errori e i vulnera procedurali che hanno caratterizzato sia il referendum sia la proclamazione della Repubblica dopo la decisione del Re di lasciare il Paese. Come scrive Mola quando alle 16,10 del 13 giugno 1946, Umberto II di Savoia decollò dall'aeroporto romano di Ciampino per il Portogallo, lo fece senza abdicare al trono. Un capriccio? No: «La ragione fu semplice e fondata: il re non poté farlo prima di lasciare l'Italia perché il 13 giugno, quando il governo avocò l'esercizio dei poteri del Capo dello Stato, l'esito del voto non era ancora ufficiale; né dopo la partenza, perché non poteva e non doveva riconoscere un colpo di Stato, come in primo tempo venne scritto nel proclama agli italiani. Tanto più che la Repubblica lo condannò all'esilio perpetuo. Non fu lui a spezzare in due tronconi la storia d'Italia». E la situazione rimase confusa a lungo anche perché il controllo sulla regolarità delle schede e delle procedure di voto venne condotto in modo assai sommario. Nessuna frode con schede false, insomma, come ha provato ad argomentare qualche storico senza mai riuscire a trovare prove, piuttosto un sistema di voto viziato dal basso, 1,5 milioni di certificati elettorali non vennero recapitati, e delle procedure che esclusero dal voto la Venezia Giulia e la provincia di Bolzano. Nel secondo volume Mola è poi molto attento a far vedere come anche nel percorso che portò gli italiani al voto, e subito dopo, ci fu una estesa campagna di stampa per attribuire, in modo univoco, le responsabilità della disfatta dell'8 settembre alla Monarchia, tralasciandone tutti i meriti nell'organizzazione del così detto «Regno del Sud». Con l'incubo del punitivo Trattato di pace e per scagionarsi dagli errori i repubblicani misero sul banco degli imputati Casa Savoia, che però era tutt'uno con la storia d'Italia...

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini, in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Il classico di Giovanni De Luna. “Il partito della Resistenza”, storia e rivincita degli azionisti. Corrado Ocone su Il Riformista il 26 Maggio 2021. Certo, il titolo con cui rivede la luce, per i tipi della UTET, a quarant’anni dalla prima edizione, un classico della storiografia italiana come la Storia del Partito d’Azione di Giovanni De Luna è impegnativo, e forse anche provocatorio. In che senso quel partito, che ha avuto una vita breve (dal 1942 al 1947) e misera (alle elezioni per la Costituente del 1946 ottenne appena l’1,5% dei voti), può dirsi addirittura Il Partito della Resistenza? E se la Resistenza è l’atto fondativo con cui si è legittimata la Repubblica, come può un partito così piccolo identificarsi con essa, con quella che la retorica (e uso il termine in senso avalutativo) ha designato come una “guerra di popolo”? In verità, fra i partigiani le formazioni di “Giustizia e Libertà” erano buon seconde numericamente rispetto a quelle comuniste: altrettanto coese, forse, sul piano militare, ma senza dubbio percorse da forti divisioni interne sul piano ideologico. Fra di loro c’erano i socialisti di Emilio Lussu e Vittorio Foa, i repubblicani di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, i liberalsocialisti di Guido Calogero e Aldo Capitini, a un certo punto anche gli eredi di Carlo Rosselli e del suo socialismo liberale (che era ben altra cosa idealmente dal liberalsocialismo). Le formazioni azioniste si distinguevano nettamente da quelle comuniste per la loro composizione sociale, che vedeva la stragrande maggioranza di borghesi e intellettuali fra le loro fila. Non è forse sbagliato chiamare quello azionista anche “il partito degli intellettuali”. C’era in verità un fattore comune che contraddistingueva l’impegno in politica di questi uomini di buona famiglia e solida cultura, anzi due. Il primo concerneva la loro scelta di campo: a sinistra, nel fronte progressista, con un’idea di trasformazione radicale dell’Italia che non contemplava nessuna continuità con quella che era l’età liberale prefascista. Radicale, ma non marxista. Da questa impostazione derivava una differente valutazione dei due “totalitarismi” (per usare la chiave interpretativa di Hannah Arendt e altri studiosi che muovevano le loro riflessioni proprio negli stessi anni, i cosiddetti “liberali della guerra fredda”). Gli azionisti tutti erano non comunisti, ma non anticomunisti. Rispetto ai fascisti (in senso stretto ma spesso ahimé anche in senso lato: tutta la destra veniva a volte sommariamente liquidata come tale) c’era una pregiudiziale, la cosiddetta conventio ad excludendum, mentre verso i comunisti si cercava il dialogo e si sperava in una loro “maturazione” democratica. Bisognava gettare verso di loro un “ponte”, come sottolineava il nome di una rivista che si proponeva questo scopo e che faceva capo a Piero Calamandrei. Il loro antifascismo era perciò quello che aveva tenuto unite forze politiche diverse nella Resistenza e nel CLN, e perciò da questo punto di vista la definizione di De Luna è calzante. Il secondo collante che teneva insieme tutti gli azionisti era una certa concezione morale, o addirittura moralistica, della politica. Che, in qualche modo, rifiutava del marxismo forse l’aspetto più vitale: quel realismo politico che aveva fatto sì che Benedetto Croce definisse Marx “il Machiavelli del proletariato” e che era impersonato in quel frangente storico da una certa ambiguità e spregiudicatezza (anche verso gli ex fascisti) di Palmiro Togliatti, alias Roderigo di Castiglia, contro cui l’azionista Norberto Bobbio avrebbe presto polemizzato. Ora, però l’aspetto che a me è sempre più interessato concerne l’atteggiamento di Croce, che ritorna nelle pagine di De Luna, nei confronti del Partito d’Azione: quel Croce che era stato maestro di antifascismo per tutti gli italiani e maestro di studi diretto di molti protagonisti del nuovo movimento (da Adolfo Omodeo a Guido De Ruggiero, da Carlo Antoni a tanti altri). Egli fu da subito e sempre fortemente critico verso gli azionisti, e ciò muoveva di pari passo con la consapevolezza che egli acquisì, a partire all’incirca dal 1942, della necessità di combattere il comunismo una volta sconfitto il fascismo. L’alleanza degli Alleati con l’Unione sovietica era per lui, detto in altre parole, tattica e momentanea. «Ho lavorato a dare – scrive il 13 novembre 1943 nei Taccuini di lavoro- chiari e saldi concetti su quel che è il liberalismo… ed ecco che mi è stato contrapposto un intruglio di colorito liberale ma di realtà comunistica o, a ogni modo, dittatoriale, che, non osando chiamarsi apertamente socialismo e socialismo rivoluzionario, ha adottato il nome di Partito d’Azione». C’è in questa pagina tutto lo sconforto del padre che vede i figli prendere strade diverse rispetto alla sua. Croce resta un isolato in campo culturale in Italia, nel secondo dopoguerra. Anche dopo la fine del Partito d’Azione, quelli che ne erano stati protagonisti contribuirono a dare alla nostra cultura un’impronta marcata a sinistra che si aggiunse e anche mescolò in qualche modo con quella più direttamente comunista. Tanto che Dino Cofrancesco ha coniato l’espressione “gramciazionismo”, sollevando non poche polemiche. L’aspetto più interessante da notare è che a partire da un certo punto, diciamo dagli anni Settanta del secolo scorso, in Italia e non solo, il filone radicale o eticista ha preso il sopravvento a sinistra rispetto a quello realista e marxista. E in Italia si è persino confuso col montante “giustizialismo” che ha accompagnato la fine della cosiddetta Prima Repubblica. Una rivincita postuma del Partito d’Azione, nonché il motivo della sua forte “attualità” rivendicata da De Luna e da Chiara Colombini (autrice della prefazione del libro)? Ed è un bene o un male per la sinistra? Chi scrive propende per la seconda ipotesi, pur non essendo mai stato comunista, ma il dibattito è aperto. Corrado Ocone

Così la Repubblica (minoritaria) cacciò Casa Savoia. Aldo A. Mola il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. Aldo A. Mola racconta ai lettori del "Giornale" l'ingiusta fine di un regno il 2 giugno 1946. Nel giugno 1946 l'Italia visse la svolta più profonda dell'unificazione nazionale. Ne furono protagonisti la Corona, il governo e la Corte Suprema di Cassazione. Il 2-3 giugno gli italiani scelsero la forma dello Stato ed elessero l'Assemblea costituente. Dal 4 al 10 re Umberto II e il Consiglio dei ministri procedettero su binari paralleli: colloqui e messaggi. Poi tutto precipitò, per crisi interna, non internazionale. Il 5 marzo a Fulton, presente Truman, presidente degli USA, il premier inglese Churchill aveva denunciato la cortina di ferro calata dall'URSS di Stalin dal Baltico a Trieste. Con la resa del settembre 1943, grazie a Vittorio Emanuele III e ai suoi generali/diplomatici, l'Italia era saldamente in Occidente. Ma per gli americani la monarchia non era indispensabile. Secondo l'Istat il 31 dicembre 1945 gli italiani con diritto di voto erano circa 28 milioni. Ai seggi ne andarono quasi 25 milioni. I 3 milioni mancanti non furono astenuti ma esclusi: i quasi 700mila elettori di Bolzano e della XII Circoscrizione (Venezia Giulia), ancora in discussione; quasi 300mila prigionieri di guerra o dispersi; 500mila privati del diritto di voto per motivi politici; 1,5 milioni non ricevettero il certificato elettorale. Sino alla sera del 4 la monarchia parve in vantaggio. Sull'inizio del 5 la repubblica passò in testa. Le edizioni mattutine di alcuni giornali e il ministro dell'Interno, Giuseppe Romita, monarcofago, affermarono che essa era in vantaggio di 2 milioni di voti. I decreti legge istitutivi e attuativi delle votazioni imponevano che gli Uffici elettorali circoscrizionali comunicassero i risultati a quello Centrale e che la somma dei voti venisse annunciata alla presenza della Corte di Cassazione. Il suo presidente, Giuseppe Pagano, magistrato integerrimo, la convocò nella Sala della Lupa di Montecitorio alle 18 del 10 giugno. Dall'8 sacchi di verbali e atti vari affluirono a Roma con tutti i mezzi disponibili. Nel frattempo le posizioni si cristallizzarono. I voti assegnati per la Costituente non lasciarono dubbi. Vinsero DC, PSI e PCI. I partiti dichiaratamente o tiepidamente monarchici ottennero pochi seggi. La Corona rimase indifesa. La sera del 5 la Regina, le figlie e il principe Vittorio Emanuele, di 9 anni, lasciarono il Quirinale per Napoli e l'indomani salparono per il Portogallo. Il segnale era chiaro. Re dal 9 maggio, quando il padre aveva abdicato, Umberto II andò in visita da Pio XII e convitò i parenti alla Mensa Nobile del Quirinale: quando fosse partito dall'Italia dovevano fare altrettanto. Il 10, ascoltata la litania dei voti espressi, Pagano ne prese atto, ma poiché mancavano i dati di un centinaio di sezioni rinviò l'adunanza al 18 giugno e, a sorpresa, chiese il rendiconto delle schede bianche e nulle. Nella notte sull'11 il governo dichiarò che ormai l'Italia era Repubblica. Dopo un braccio di ferro di 24 ore, alle 0.15 di giovedì 13, col voto contrario del solo Leone Cattani, esso conferì le funzioni di Capo dello Stato al presidente del Consiglio. Umberto II lo apprese mentre cenava a casa del senatore Alberto Bergamini. Che cosa fare? Tra quattro ipotesi (disconoscere il governo e formarne un altro, arroccarsi al Quirinale, trasferirsi da Roma in attesa degli eventi, partire dall'Italia e protestare) scelse la quarta. L'Italia era blindata contro ogni attacco esterno e gli anglo-americani avrebbero soffocato insurrezioni contro i poteri dello Stato, ma la contrapposizione sanguinosa tra monarchici e repubblicani avrebbe aperto ferite in un corpo già provato. L'ammiraglio Ellery Stone pilatescamente non garantì l'incolumità personale del sovrano: questione interna. Partito il Re da Ciampino alle 16 del 13 giugno, iniziò il computo affannoso delle schede bianche, nulle, annullate e non assegnate. Documenti prima inediti provano che, mentre l'Ufficio elettorale centrale esaminava (per modo di dire) 20mila ricorsi su 35mila seggi, i dati conteggiati alla carlona furono «avviati» alle calcolatrici. Un brogliaccio conservato all'Archivio Centrale dello Stato prova che mancavano i risultati definitivi di centinaia di sezioni. Poco prima della seduta del 18 giugno, respinti tanti ricorsi di vario rilievo, contro il voto di sei giudici compreso il Presidente, la Corte stabilì che votante significa voto valido, non chi va al seggio e vota: un colpo contro il dizionario della lingua italiana per chiudere la partita con 2 milioni voti di vantaggio per la repubblica. La massa di schede bianche e nulle disparve. La Corte non aveva poteri investigativi e da giorni Togliatti aveva insinuato che «forse» le schede erano già state distrutte. D'altronde ormai il re aveva lasciato l'Italia sciogliendo dal giuramento di fedeltà alla Corona (ma non alla Patria) quanti l'aveva pronunciato. Il 19 giugno uscì il primo numero della Gazzetta Ufficiale con l'annuncio della Repubblica, nata dal consenso del 46% degli elettori: 12.700.000 elettori su 28.000.000. Minoritaria. Settantacinque anni dopo, quel mese cruciale merita di essere ripercorso documenti alla mano.

La seconda guerra mondiale. Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati. Da Salerno a Milano e Bergamo. Così la storia in presa diretta smentisce la vulgata comunista. Francesco Perfetti, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. L' idea dell'unità della Resistenza a guida comunista come mito fondante dell'Italia post-fascista fu il grande capolavoro di quella cultura azionista e comunista che si era proposta, in linea con il progetto gramsciano, la conquista della società civile e politica. Tale idea presupponeva che la Resistenza fosse stata un movimento popolare di massa all'interno del quale le componenti non comuniste erano state inessenziali o marginali. Scomparvero, così, o furono minimizzati, in tanta letteratura storiografica, sia i contributi forniti alla Liberazione da parte di uomini o formazioni partigiane - cattolici, liberali, monarchici - che non fossero comunisti sia, ancora, quelli dei militari e degli internati nei campi di prigionia tedeschi. Persino in una opera celebrata come innovativa, quale fu il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, le cose non cambiarono troppo: anche in quel caso il contributo di alcune componenti alla Liberazione (si pensi, per esempio, alla monarchica e liberale Franchi di Edgardo Sogno) è marginalizzato mentre il contrasto fra partigiani di colore diverso culminato nella strage di Porzûs è confinato in qualche nota a piè di pagina. Non basta. La mitizzazione della Resistenza - enfatizzata retoricamente anche dalle e nelle cerimonie celebrative - ha finito per diffondere una idea falsa della realtà storica veicolando l'idea che la Liberazione sia stata opera esclusiva, o quanto meno prevalente, della Resistenza e ridimensionando, in tal modo, il contributo militare degli Alleati a un evento che, senza il loro intervento, probabilmente avrebbe faticato a realizzarsi. A tale visione, frutto evidente di «uso politico della Resistenza», assesta un duro colpo l'ultimo importante studio dello storico contemporaneista Gianni Donno dal titolo La liberazione alleata d'Italia 1943-1945 (Pensa Multimedia, 11 volumi in cofanetto, euro 275) impreziosito da un imponente apparato iconografico e da una eccezionale documentazione archivistica proveniente dagli archivi americani e fino ad oggi inedita. Arricchito da due introduzioni, di Piero Craveri e di Giampietro Berti, il lavoro mostra come la Liberazione sia avvenuta, proprio e soprattutto, grazie all'avanzata delle Forze Alleate lungo il versante tirrenico dallo sbarco di Salerno (settembre 1943) sino a Milano e Bergamo (aprile 1945). Una lunga e faticosa marcia ostacolata dalla resistenza delle truppe tedesche asserragliate lungo la Linea Gotica, ma anche dalle caratteristiche del territorio e dalle condizioni atmosferiche. La «campagna d'Italia», insomma, non fu affatto una passeggiata. Costò agli alleati circa 90mila morti in combattimento o a causa della guerra sepolti in 42 cimiteri sparsi in tutta la penisola. Un grande sacrificio di sangue, dunque, che per molto, troppo tempo la «vulgata» resistenziale ha lasciato in ombra per motivi esclusivamente politici. Un sacrificio che - pur senza nulla togliere al contributo di sangue dei partigiani, che secondo i dati riportati da Donno fu di circa 7mila morti - fa ben comprendere, come osserva giustamente Craveri, chi fossero stati davvero i «protagonisti» della liberazione d'Italia dal fascismo e dal nazismo. Rispetto ad altre opere storiografiche sulla campagna d'Italia, il lavoro di Donno è originale perché la ricostruzione dell'avanzata alleata dopo lo sbarco di Salerno è fatta utilizzando i Reports of Operations delle unità combattenti americane, cioè i rapporti stilati dai comandanti di pattuglie, compagnie, battaglioni al termine delle singole operazioni. Si tratta di una documentazione che l'autore integra, naturalmente, con le altre fonti tradizionali, ma che, con il suo linguaggio scarno ed essenziale, offre un suggestivo racconto in «presa diretta» e dà conto dei sentimenti di entusiasmo o paura, di aspettative o delusioni degli uomini inquadrati nella V Armata e impegnati nelle operazioni belliche. Al tempo stesso, questa documentazione aiuta a comprendere meglio la logica di certe scelte strategiche o tattiche suggerite da fattori imponderabili. Per esempio, le piogge torrenziali sull'Italia centromeridionale nell'ultimo trimestre del 1943 provocarono smottamenti di terreno e allagamenti che resero difficile, in qualche caso addirittura problematica, l'avanzata dei mezzi corazzati. Di tutto ciò, ed anche dei riflessi sul morale dei militari, si trova una precisa registrazione nei Reports of Operations. Di particolare interesse, lo sottolineo per inciso, è la riproduzione fotografica di alcuni numeri del settimanale Yank, un rotocalco che aveva come sottotitolo The Army Weekly e che era destinato ai soldati impegnati al fronte sia per offrire loro un aggiornamento periodico anche fotografico dell'andamento delle operazioni militari, sia per tenerne alto il morale e galvanizzarne gli spiriti. Nel complesso, dunque, il lavoro di Gianni Donno sulla liberazione alleata dell'Italia non è, come la maggior parte delle più conosciute opere sull'argomento, una «storia politica» o una «storia militare» di taglio tradizionale costruita con un approccio di tipo «macrostorico», ma è piuttosto una narrazione di tipo «microstorico» che consente in qualche caso di rivedere taluni giudizi consolidati o di spiegare certe situazioni o decisioni. Basterà un solo esempio. Dai Reports of Operations si comprende il motivo dell'uso massiccio della artiglieria pesante e dei bombardamenti alleati. Si trattò, infatti, di una scelta, in certo senso, obbligata dalla accanita difesa delle truppe germaniche che, utilizzando piccole unità e cecchini ben celati, riusciva a ritardare l'avanzata delle truppe americane in un territorio aspro e difficile provocando uno stillicidio di caduti tra le loro file. Al di là della ricostruzione degli aspetti militari della Campagna d'Italia, tuttavia, il lavoro di Donno finisce per avere una importanza che trascende la dimensione della «storia militare» propriamente detta perché contribuisce a demitizzare la vulgata resistenziale sulla Liberazione e a far comprendere come il contributo degli Alleati sia stato, davvero, fondamentale per le sorti del Paese.

"1945 Germania anno zero": Atrocità e crimini di guerra Alleati nel “memorandum di Darmstadt”. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 04 giugno 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Nè revisionismo, né negazionismo: i crimini di una parte non giustificano, né elidono i crimini dell’altra parte: la conoscenza completa e onesta del passato, oltre a consapevolizzarci sull’oscurità che alberga nell’uomo, può impedire l’uso strumentale della storia e quindi il perpetuarsi di spirali di odio, violenza e vendetta per i decenni successivi. Con questa ispirazione è nato “Germania anno zero” (Italiastorica) l’ultimo libro dello studioso Massimo Lucioli, (già autore di notevoli studi sull’ultima guerra), dedicato al cosiddetto “Memorandum di Darmstadt”. Il volume comprende una sconvolgente raccolta di immagini, di cui molte inedite. Nel 1946, il campo di internamento americano 91 a Darmstadt, in Assia, contava 24.000 prigionieri tedeschi. Qui, in segreto, durante il processo di Norimberga, un gruppo di avvocati internati raccolse per quattro mesi le dichiarazioni giurate di 6.000 testimoni sulle violazioni delle leggi e delle regole di guerra da parte degli Alleati: dagli eccidi sulla popolazione tedesca etnica in Polonia nel 1939 (che fornirono il casus belli a Hitler), alle uccisioni dei prigionieri di guerra germanici da parte sovietica prima –con casi di torture e mutilazioni – e Alleata poi. Si documentano le violenze sessuali e le brutalità dei soldati Alleati contro i civili tedeschi; gli stupri e i massacri di massa sovietici nelle province orientali della Germania nel 1944-’45; i bombardamenti incendiari sui quartieri popolari e centri storici delle città tedesche. Particolare attenzione è dedicata alle draconiane misure punitive concepite dal sottosegretario al tesoro americano Henry Morgenthau applicate - di fatto - nella direttiva JCS 1067. Questa circolare disciplinava la vita dei civili e prigionieri militari nella Germania occupata dagli Usa, ma fu poi recepita anche nei settori governati da francesi, inglesi e russi dopo la conferenza di Postdam del luglio’ 45. La popolazione tedesca, già stremata dalla guerra, fu sottoposta a privazioni tali da portare alla morte per fame, freddo e malattie centinaia di migliaia di civili – specie anziani, bambini e donne - con tassi di mortalità infantile, in alcune città, del 100%. Nel libro si tratta anche dell’ordine segreto emesso da Eisenhower il 10 marzo ‘45 con cui i prigionieri tedeschi venivano classificati come DEF (Disarmed Enemy Forces), perdendo il loro status di POW, (Prisoners of war): in tal modo, non potevano più godere delle garanzie di assistenza minima previste della Convenzione di Ginevra. In ordini successivi, Eisenhower autorizzò a sparare su tutti i civili tedeschi che portassero da mangiare ai loro compatrioti militari prigionieri, dato che questi “dovevano essere alimentati dal Governo tedesco”. Dettaglio: il governo tedesco non esisteva, e questo condurrà alla morte circa un milione di prigionieri di guerra germanici per fame, stenti e malattie nel periodo 1945-‘47. Il memorandum di Darmstadt, compilato in sei copie, doveva essere presentato da Hermann Göring al tribunale di Norimberga nel suo discorso di chiusura il 5 luglio del 1946. Ciò però non avvenne: gli Alleati sequestrarono e bruciarono il memorandum, tuttavia, una copia fu trafugata, pubblicata in Argentina nel ‘53 e successivamente in Germania.  Una pila di menzogne per difendere l’indifendibile? Le testimonianze dei prigionieri tedeschi trovano effettivo riscontro su tempi, luoghi, vittime, procedure e responsabili nei saggi del funzionario ONU, esperto di diritto umanitario Alfred M. de Zayas e dello storico Franz W. Seidler dell’Università Bundeswehr di Monaco. Altre testimonianze sono state verificate da Lucioli nell’archivio online del dipartimento Personenbezogene Auskünft di Berlino-Reinickendorf (con schede su 2,5 mln di caduti tedeschi).  "Devo ancora leggere il libro – commenta lo storico Franco Cardini all’Adn Kronos -  ma non è una novità che anche gli Alleati abbiano commesso atti infami. Il memorandum di Darmstadt lo conosco e ci sono invecchiato insieme. Lo dicevo da anni e qualcuno insorgeva contro di me. Ormai certe verità uniche e menzogne sono diventate patrimonio dell'umanità. Ci vorrebbe più coraggio a dirlo, nessuno ha tutta la ragione in tasca. E questo non significa ridimensionare i crimini del nazismo, sia ben chiaro. I vincitori, quando hanno vinto, hanno fatto di tutto per imbiancare le loro coscienze e annerire quelle dei vinti. Abbiamo immagazzinato una quantità infinita di errori e inesattezze storiche incredibili, una tale potenza di accuse nei confronti dei vinti, alcune anche calunniose, da far paura. Solo adesso, dopo 80 anni, si comincia a fare i conti con la verità. Attenzione, dire che Churchill sia stato un mascalzone, non significa dire che Hitler aveva ragione". Chiosa Massimo Lucioli: “Bisogna ricordare che gran parte di tali crimini sconvolgenti furono compiuti a guerra finita contro la popolazione civile tedesca. Non si può parlare, quindi, di crimini di guerra, bensì di crimini contro l’umanità: una forma di vendetta. Lo stesso John F. Kennedy nel libro “Profiles in Courage” del 1956 ebbe parole molto critiche sul processo di Norimberga: «Un processo tenuto dai vincitori a cari­co dei vinti non può essere imparziale perché in esso prevale il biso­gno di vendetta. E dove c'è vendetta non c'è giustizia. A Norimberga, noi accettammo la mentalità sovietica che antepone la politica alla giustizia, mentalità che nulla ha in comune con la tradi­zione anglosassone. Gettammo discredito sull'idea di giustizia, mac­chiammo la nostra costituzione e ci allontanammo da una tradizione che aveva attirato sulla nostra nazione il rispetto di tutto il mondo»”.

Insomma, “1945. Germania anno zero” farà parlare di sé.

Gli irriducibili intellettuali del Texas. Tra i "non cooperatori" (non solo fascisti) ci furono moltissimi giornalisti, scrittori, artisti. Luigi Mascheroni, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Fra i campi di prigionia allestiti negli Stati Uniti durante il secondo conflitto mondiale per rinchiudere i militari degli eserciti dell'Asse (solo i nostri soldati erano 50mila) ce ne fu uno molto speciale, la cui fama oggi trascende le vicende della guerra. Era in Texas. A Hereford. E fu destinato esclusivamente ai prigionieri italiani, tremila in tutto, catturati fra il 1940 e il '43 e che dopo l'armistizio rifiutarono di collaborare con gli americani. Li chiamavano gli «irriducibili». E, per un fenomeno particolare di «sincronicità casuale», erano in gran parte intellettuali: giornalisti, scrittori, pittori, latinisti, illustratori, musicisti... «Che miniera, quell'Hereford, di genii!», lasciò detto nelle sue memorie Aurelio Manzoni, reduce di quel campo. Rimasto nella memoria come «campo fascista», soprattutto per via del titolo Fascists' Criminal Camp che Roberto Mieville, fra i fondatori del MSI, diede al suo libro pubblicato nel '48, il centro di detenzione di Hereford fu qualcosa di più e di diverso. Lo spiega bene lo storico Flavio Giovanni Conti nel nuovo saggio Hereford. Prigionieri italiani non cooperatori in Texas (il Mulino) che ricostruisce la storia di quel particolare campo, la vita quotidiana dei detenuti, la presenza inusuale di molti uomini di cultura e i differenti motivi per cui rifiutarono di passare al nemico. Fra quanti scelsero di non cooperare con gli americani, infatti, non c'erano solo fascisti e repubblichini, ma anche apolitici, liberali e persino comunisti e socialisti (chiamati i «collettivisti»). In quanto militari, i prigionieri non vollero collaborare per un sentimento di coerenza e lealtà alla parola data nel momento dell'entrata in guerra. Tanto più che il governo italiano dopo l'8 settembre non diramò mai un ordine preciso in tale senso. Senza contare le pericolose conseguenze che la cooperazione avrebbe comportato, come ad esempio lavorare nelle industrie di armi che sarebbero state utilizzate contro la popolazione in Italia o il rischio di rappresaglie nei confronti delle loro famiglie in patria. Non tutti fascisti, quindi. Ma moltissimi intellettuali, grazie all'alto numero di ufficiali con un livello di istruzione generalmente elevato. L'aspetto più incredibile è che riuscirono non solo a sopravvivere, ma a scrivere e dipingere, nonostante in alcuni momenti le privazioni, la fame, le violenze fossero particolarmente pesanti. I più noti tra i prigionieri del campo di Hereford, «texani» destinati a diventare nomi di riferimento del '900 letterario e artistico, sono Giuseppe Berto e Alberto Burri. Il primo proprio qui orientò la propria scelta letteraria. Iniziò a collaborare con alcune riviste che venivano pubblicate nel campo - a volte in copia unica! - poi scrisse racconti e soprattutto il romanzo cui Leo Longanesi, che lo pubblicò nel '46, diede il titolo Il cielo è rosso. E il secondo nel campo, come riconobbe lui stesso anni dopo, capì che doveva fare il pittore. Già volontario nella guerra d'Etiopia (Burri non rinnegò mai a differenza di altri l'adesione al fascismo), nel 1940, ufficiale medico, fu inviato prima sul fronte jugoslavo e poi in Africa. Catturato in Tunisia nel maggio del '43, durante la prigionia a Hereford rinunciò a svolgere la professione medica per protesta contro le restrizioni imposte dagli americani, e decise che da lì in avanti si sarebbe dedicato solo alla pittura, diventando nel dopoguerra un nome di livello internazionale. Iniziò con opere figurative. Il primo quadro che dipinse, dal titolo Texas, un olio su tela, rappresenta ciò che vedeva dell'esterno del campo (molti dei dipinti riuscì a farseli spedire in Italia, ma li distrusse quasi tutti), poi quasi subito cominciò a utilizzare nuove tecniche e materiali, come i sacchi di juta recuperati nelle cucine. Da materiale povero e occasionale i sacchi divennero il suo segno artistico distintivo: l'espressione di una poetica e di una visione dell'esistenza. «Resistevamo alla fame e al freddo, e si lavorava accanitamente nonostante la debolezza: Medici scriveva musica, Berto il suo romanzo, Tumiati, Fioravanti, Buonassisi e il sottoscritto racconti, teatro, poesia: Selva, Ravaglioli, Dello Jacovo saggi politici, Burri dipingeva...», ricorderà più avanti Dante Troisi, scrittore (con L'odore dei cattolici nel '63 fu tra i finalisti del Premio Strega) e magistrato autore di quel Diario di un giudice, uscito nel 1955 prima su Il Mondo di Pannunzio e poi nei «Gettoni» Einaudi, che suscitò scandalo e gli valse una censura disciplinare per offesa alla magistratura....E gli altri? A Hereford c'era Giosuè Ravaglioli, «il dittatore intellettuale del campo», già giornalista del Piccolo di Trieste, uno degli uomini più colti della «squadra» texana, lettore severo di tutti gli scritti dei suoi compagni (diede anche consigli a Berto), antifascista, che dopo la guerra entrò nel PCI. C'era il giornalista sportivo Armando Boscolo, autore del libro più famoso uscito dal quel campo, Fame in America (1954). L'architetto e disegnatore Giovanni Rizzoni. Il giornalista e illustratore Ervardo Fioravanti. Il musicista Mario Medici, fondatore e direttore negli anni '60 dell'Istituto di studi verdiani di Parma. Il latinista Augusto Marinoni, fra i massimi esperti di Leonardo da Vinci. Il matematico Mario Baldasarri. Il gastronomo e conduttore televisivo Vincenzo Buonassisi. Diversi futuri politici, fra i quali Beppe Niccolai, deputato del MSI tra gli anni '60 e '70. E ancora. Vezio Melegari, disegnatore e caricaturista. Il repubblichino Gaetano Tumiati, giornalista, scrittore e critico letterario, direttore dell'Illustrazione italiana, poi vice di Lamberto Sechi a Panorama e vincitore del Premio Campiello nel '76 col romanzo Il busto di gesso. E il pittore, Dino Gambetti, uno dei nove prigionieri italiani, «italici milites», cui fu chiesto di affrescare la chiesa di St. Mary's a Umbarger, trenta chilometri da Hereford. Lo fecero - per spirito cristiano e in cambio di lauti pasti - fra l'ottobre e il dicembre del '45, decorando, dipingendo e intagliando legno. Ancora oggi i loro nomi sono incisi su una targa, nel portone della chiesetta. Circa la qualità degli affreschi, Mario Tavella ricorda nelle sue memorie: «L'opera conclusa è più che dignitosa e, tenendo conto dei loro parametri di giudizio, è considerata dagli indigeni alla stregua della Cappella Sistina».

Resistenza, un’altra voce fuori dal coro. Mieli: «Ecco al verità sui partigiani comunisti». Redazione martedì 26 Novembre 2021su Il Secolo D'Italia. Dall’agiografia alla storiografia. Meglio, dall’esaltazione faziosa della Resistenza alla sua rivisitazione “senza tabù”. L’invito a guardare senza lenti deformanti uno dei periodi più controversi e  cruenti della nostra pur tormentata vicenda nazionale arriva  dall’ex-direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli. Indubbiamente un atto di coraggio intellettuale. A distanza di oltre settant’anni la Resistenza resta infatti ancora una sorta di zona franca, off limits per l’approfondimento e l’indagine storiografica. Lo ha imparato a sue spese Giampaolo Pansa, ripetutamente insultato dal cosiddetto “popolo della sinistra”. La sua colpa? Aver sollevato il velo di reticenza sulle violenze partigiane negli anni 1944-46. Prima di lui, in verità, e in tempi ben più bastardi, lo aveva fatto Giorgio Pisanò, giornalista e senatore missino. Speriamo vada meglio a Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, autori della Storia della Resistenza.

Mieli elogia la Storia della Resistenza di Flores e Franzinelli. È il libro che Mieli invita a leggere senza pregiudizi. Di più: l’ex-direttore del Corsera ripercorre l’ultima fase della guerra civile seguita all’armistizio dell’8 settembre del ’43. Prima dell’aprile 1945, spiega Mieli, la Resistenza era stata caratterizzata da «conflitti interni generati da tentativi scissionisti per ribaltare gli assetti direttivi di un gruppo partigiano». Ma anche da «passaggi contrastati dall’una all’altra formazione, oltreché rivalità tra bande operanti nella stessa zona». Sarebbero proprio questi, sottolinea ancora Mieli, gli  aspetti «ignorati o sottovalutati» dalla storiografia ufficiale, spesso trasformatasi in agiografia. Storie di regolamenti di conti e brutale realpolitik rimaste nell’ombra. La ragione per Mieli è semplice: «Il timore di prestare il fianco ai denigratori della Resistenza». Ma, aggiunge, «è stato un grande errori. Gli italiani sarebbero stati in grado di capire».

I precedenti di Pisanò e Pansa. Da qui la necessità si svelare i passaggi cruciali del «biennio della guerra civile», un periodo reso «monco e poco credibile agli occhi dei posteri» dalla retorica degli storiografi di parte che ne hanno cantato solo le gesta eroiche. E così spazio a tradimenti, processi sommari, accuse di spionaggio, fango puro nei confronti di questo o quel partigiano “scomodo”, come nel caso di Dante Facio Castellucci. Pagine truci, come scontri a fuoco scatenati dai comunisti «che intendevano mantenere una supremazia numerica e politica su ogni altra forza», secondo la testimonianza di un militare di rango britannico. Non per caso, l’epicentro di tante violenze è l’Emilia-Romagna, cuore dei partigiani rossi, che non esitarono a venire a patti strategici con i nazisti per eliminare i partigiani «rivali».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2021. Così Ben e la Clara a Milano/ per i calcagni a Milano./ Che i vermi mangiassero il torello morto. Nulla meglio dei versi di Ezra Pound è riuscito a rendere l' atrocità dello scempio consumatosi in Piazzale Loreto. Nonché la sua oscenità, perché osceno fu il gesto di esibire come trofei e costringere al pubblico ludibrio i cadaveri di Mussolini, della Petacci e di alcuni gerarchi fascisti, infierendo su di loro. Ma tanto fu visibile e macabra quella esposizione, quanto furono misteriosi gli eventi che precedettero il tragico epilogo. Eventi sui quali ci è stata fornita da sempre una verità ufficiale, ma in merito ai quali non è ozioso indagare, anche per restituire umanità alle vittime e provare a non ucciderle una seconda volta. In questo sforzo si è cimentata la scrittrice Maria Pia Paravia che, con un paziente lavoro di raccolta di documenti e fonti vive durato due anni e mezzo, è approdata a un' altra versione dei fatti relativi alla fine della Petacci e di Mussolini, e ne ha tratto un libro, Il giallo di una vita spezzata, pubblicato dal geniale editore ebreo Graus (pp.64, euro 12) e presentato negli scorsi giorni in Senato. L'opera, scritta con tocco di grazia a mo' di un racconto dei cantastorie (in origine doveva chiamarsi Omissea apoetica), attraverso un io narrante che coincide con la stessa Petacci, tocca i momenti salienti del suo rapporto col Duce: dal loro incontro casuale, a bordo delle rispettive auto, lungo la strada per Ostia, all' esplodere di un amore da lei vissuto come un continuo esercizio di attesa e dedizione, fino a quel 25 luglio 1943, che comporterà l' arresto, oltre che di Mussolini, anche della Petacci e della sua famiglia: Claretta, con la sorella Miriam e la madre, vengono portate nel carcere di Novara, in una «cella fetida», tra le «sevizie» e le «offese indicibili» dei carcerieri, e qua costrette a sopportare le più drammatiche condizioni igieniche. Alla liberazione dal carcere, dopo l' 8 settembre, Claretta si trasferisce sul lago di Garda in una villa vicina a quella del Duce: «Vivemmo come clandestini la nostra ultima storia, io vivevo come reclusa in una villa isolata. I nostri incontri, sempre più radi, avevano il sapore salato delle lacrime», fa dire la Paravia a Claretta. Da ultimo, la tragedia degli ultimi giorni, dopo il 25 aprile 1945, quando alla famiglia Petacci viene ordinato di mettersi in salvo, riparando in Svizzera per poter poi giungere in Spagna. Ma, se la mamma e la sorella di Claretta riescono ad arrivare in Svizzera, per lei e suo fratello Marcello le cose non vanno come previsto. E qui comincia la contro-storia fornita dalla Paravia. Una versione consentita dalle testimonianze di un prozio della scrittrice, Alfredo Galdi, militare prigioniero degli inglesi e poi in contatto con ambienti del Msi, e di Roberta Cenciarelli, moglie di un gerarca fascista che, ci dice la Paravia, «sapeva tutto sulla fine di Claretta». Ma l' autrice si è servita anche di fondi documentari presenti in archivi privati in Inghilterra, Polonia e Bulgaria, nei quali sono affiorati «i racconti degli uccisori degli uccisori degli uccisori di Benito e Clara». Sì, perché «la morte del Duce e della sua compagna scatenò una catena di omicidi, verosimilmente ordinata dal Partito Comunista, in modo che la verità su quella storia venisse per sempre insabbiata». E allora ecco il racconto di quella vicenda, nella versione della Paravia. «Claretta e il fratello viaggiano in macchina insieme alla compagna di lui, Zita Ritossa, e ai loro due figli. Non è vero che sono nella stessa colonna di mezzi, tra i quali c' è la camionetta col Duce, come è stato sempre detto. Lungo il lago di Como l' auto dei Petacci viene fermata a un posto di blocco: Marcello si presenta come un diplomatico spagnolo, ma non viene creduto. I partigiani anzi riconoscono Claretta e la scaraventano fuori dall' auto. Si compie allora il massacro: la Petacci viene malmenata, violentata e seviziata, coi carnefici che le urinano e le defecano addosso, prima di fucilarla. Intanto suo fratello Marcello si tuffa nel lago per salvarsi, ma viene crivellato di colpi, mentre la sua compagna viene a sua volta stuprata, e i due figli assistono attoniti alla violenza. Nessuno da allora, né la Ritossa né i suoi figli, uno dei quali ancora vivo, hanno mai pronunciato alcunché su quella vicenda, forse perché costretti al silenzio». E Mussolini invece? «Il Duce», continua la Paravia, «il 27 aprile viene riconosciuto a Dongo e quindi, dopo essere stato derubato di preziosi documenti e di un ricco bottino, viene portato via su un automezzo da alcuni partigiani, che si atteggiano a carcerieri "amici". Lungo la strada tuttavia un' altra brigata partigiana ferma l' automezzo, trascina fuori il Duce, lo massacra con pugni e calci e lo fucila. A esplodere il colpo mortale è il Neri, nome di battaglia di Luigi Canali». Pertanto, secondo questa ricostruzione, Claretta e Benito non si sarebbero mai più rivisti dopo essere partiti da Milano né sarebbero stati portati, per la loro ultima notte insieme, nella casa di una coppia di coniugi di Bonzenigo di Mezzegra, i De Maria, come è sempre stato raccontato. Ma sarebbero morti in due momenti e luoghi diversi: la fucilazione del 28 aprile a Giulino di Mezzegra, passata alla storia come versione ufficiale dell' esecuzione dei due, sarebbe stata, secondo la Paravia, «solo una messinscena. Mussolini e Petacci erano già cadaveri: i loro corpi sarebbero stati crivellati di proiettili uguali solo per rendere più credibile quella versione. Nei giorni seguenti gli esecutori materiali delle uccisioni, tra cui il Neri, vengono giustiziati. E uccisi saranno anche gli uccisori degli uccisori, da parte di sicari arruolati dal Pci». Finora, è da notare, nessuno ha smentito questa versione sostenuta dalla Paravia.

I Dattiloscritti. Un' altra questione riguarda i diari dattiloscritti della Petacci. «Tutti», avverte l' autrice, «ritengono autentici i diari conservati presso l' Archivio centrale dello Stato, che hanno dato lo spunto per alcuni libri, in cui emerge il profilo di una Petacci fascista totale e mente politica, capace di fare da consigliere al Duce. Questa ricostruzione è servita a screditare l' immagine della Petacci post mortem, alimentando la leggenda nera sulla sua figura. Ma è lecito supporre che quei diari siano dei falsi, creati ad arte. Io ho potuto visionare alcune pagine dei diari autografi di Claretta, mai pubblicati e conservati dallo zio dell' oncologo novarese Francesco Brustia. In essi non c' è traccia di alcun interesse politico da parte della Petacci. Lei era una donna di pura emotività, amava Mussolini in quanto uomo e non in quanto simbolo di potere». Tra le tante presunte mistificazioni, ciò che più duole, secondo la scrittrice, è l' atteggiamento delle donne verso la Petacci. «Quando era in vita, la invidiavano o la denigravano. Da morta, l' hanno dimenticata: nessuna storica si è mai occupata della sua figura, contribuendo con questo silenzio ad avallare le falsità sul suo conto. Ecco perché Claretta è la donna più offesa d' Italia. Ed ecco perché ho cercato di riscattarne l' immagine, restituendo dignità e verità alla sua vita e alla sua morte».

·        Il Piano Marshall.

70 anni fa partiva il Piano Marshall: ci rese liberi… o schiavi dell’America? Il Secolo d'Italia lunedì 2 Aprile 2021. Il 2 aprile 1948 gli Stati Uniti vararono il celebre European Recovery Program, da noi meglio conosciuto come Piano Marshall, dal nome del suo ideatore, il segretario di Stato americano del presidente Henry Truman. Fu infatti George C. Marshall, già generale dell’esercito e poi segretario di Stato, che progettò e portò a termine il Piano di aiuti all’Europa, devastata da una lunghissima guerra. Alla fine della Seconda guerra mondiale, gran parte dell’Europa fu distrutta. I bombardamenti aerei alleati durante la guerra avevano gravemente danneggiato la maggior parte delle grandi città e le strutture industriali erano particolarmente colpite. I flussi commerciali della regione erano stati completamente distrutti; milioni di persone erano in campi profughi che vivevano di aiuti di varie organizzazioni internazionali. La scarsità di cibo era grave, specialmente durante l’inverno rigido del 1946-47. Dal luglio 1945 al giugno 1946, gli Stati Uniti spedirono 16,5 milioni di tonnellate di cibo, principalmente grano, in Europa e anche in Giappone. Ammontava a un sesto del cibo americano totale. Particolarmente danneggiate erano le infrastrutture di trasporto, poiché ferrovie, ponti e banchine erano stati specificamente presi di mira da attacchi aerei anglo-americani, mentre molte navi mercantili erano affondate. Anche se la maggior parte delle piccole città e villaggi non aveva subito molti danni, la distruzione dei trasporti li lasciò economicamente isolati. Nessuno di questi problemi poteva essere facilmente risolto, poiché la maggior parte delle nazioni impegnate nella guerra aveva esaurito le loro risorse. Le uniche grandi potenze la cui infrastruttura non era stata danneggiata nella seconda guerra mondiale furono gli Stati Uniti e il Canada. Erano molto più ricchi di prima della guerra, ma le esportazioni erano un piccolo dato nella loro economia. Gran parte degli aiuti del Piano Marshall sarebbero stati utilizzati dagli europei per acquistare beni manufatti e materie prime dagli Stati Uniti e dal Canada.

Gli Usa misero 110 miliardi di dollari odierni. Il Piano Marshall (ufficialmente Programma europeo di recupero, ERP) fu quindi un’iniziativa unilaterale americana per aiutare l’Europa occidentale, nella quale gli Usa misero oltre 13 miliardi di dollari di allora (quasi 110 miliardi di dollari del 2016). Si trattava di un programma di assistenza per aiutare ricostruire le economie dell’Europa occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli obiettivi degli Stati Uniti erano di ricostruire materialmente le zone distrutte dalla guerra, ma anche quello di rimuovere le barriere commerciali, modernizzare l’industria, migliorare la prosperità europea e anche prevenire la diffusione del comunismo. Il Piano Marshall infatti per essere attuato richiedeva una riduzione delle barriere doganali tra gli Stati, una diminuzione di molte normative, incoraggiando un aumento della produttività, l’appartenenza ai sindacati e l’adozione di procedure commerciali più moderne e veloci. Insomma, gli Usa volevano sì aiutarci e risuscitare dalle macerie della guerra, ma anche creare un sistema capitalista e consumista che avrebbe fatto dell’Europa un affidabile partner commerciale a cui vendere i prodotti made in usa. Ma anche l’inverso. Il Piano ebbe il sostegno bipartisan di democratici e repubblicani. Gli aiuti erano diretti in massima parte alle nazioni alleate, quindi Regno Unito e Francia, ma anche alle nazioni dell’Asse, come l’Italia, e a quelle che erano rimaste neutrali ma erano state coinvolte nel conflitto. Il maggior beneficiario del denaro del Piano Marshall fu il Regno Unito (che ricevette circa il 26% del totale), seguito da Francia (18%) e Germania Ovest (11%). In tutto 18 Paesi europei ebbero benefici dal piano. L’Unione Sovietica tuttavia, pur essendo stata invitata, rifiutò i benefici del Piano e bloccò anche i l’adesione dei Paesi satelliti del blocco orientale, come l’Ungheria e la Polonia, che pure erano state colpite duramente dalla guerra.

Pareri contrastanti sull’efficacia del Piano. Tuttavia, il ruolo del Piano Marshall nella ripresa rapida dell’Europa è stato discusso. La maggior parte degli storici rifiuta l’idea che la ripresa europea si dovette al Piano, poiché una ripresa generale era già in corso. La stessa, successiva, contabilità del piano Marshall mostra che gli aiuti rappresentarono meno del 3% del reddito nazionale combinato dei Paesi beneficiari tra il 1948 e il 1951, il che significa un aumento della crescita del Pil di appena lo 0,3%. Per gli economisti americani Bradford DeLong e Barry Eichengreen il piano Marshall ha però svolto un ruolo importante nel preparare il terreno per la rapida crescita dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Le condizioni allegate all’aiuto del Piano Marshall hanno spinto l’economia politica europea in una direzione che ha lasciato le economie miste post Seconda Guerra Mondiale con più mercato e meno controlli. Certamente fu di impulso almeno psicologico per le fragili democrazie occidentali sapere di poter contare su un aiuto concreto, anche se poi non fu così massiccio come si crede. In realtà ciò che contò furono gli effetti economici indiretti, in particolare nell’attuazione delle politiche liberali capitalistiche, e gli effetti politici, in particolare l’ideale dell’integrazione europea e delle partnership governative-commerciali, queste furono le principali ragioni della crescita insuperata dell’Europa. Come si accennava, per combattere gli effetti del Piano Marshall, anche l’Urss sviluppò il suo piano economico, noto come Piano Molotov, che pompò grandi quantità di risorse ai Paesi del blocco orientale dall’Urss. Lo stesso segretario Marshall si convinse a un certo punto che Stalin non aveva alcun interesse a contribuire al ripristino della salute economica nell’Europa occidentale.

Nel 1945 c’erano 5 milioni di case distrutte e 12 milioni di profughi. In ogni caso, nel 1952, alla fine del finanziamento, l’economia di ogni Stato partecipante aveva superato i livelli prebellici; per tutti i beneficiari del piano Marshall, la produzione nel 1951 era superiore almeno del 35% rispetto al 1938. Nei successivi due decenni, l’Europa occidentale ha goduto di una crescita e prosperità senza precedenti, ma gli economisti non sono sicuri di quale proporzione fosse dovuta direttamente al Piano Marshall, quale percentuale indirettamente e quanto sarebbe accaduta senza di essa. Quello che è certo è che il Piano contribuì a dare un nuovo impulso alla ricostruzione nell’Europa occidentale e un contributo decisivo al rinnovo del sistema dei trasporti, alla modernizzazione delle attrezzature industriali e agricole, alla ripresa della normale produzione, all’aumento della produttività e alla facilitazione degli scambi intraeuropei. In Germania, nel 1945-46, le condizioni abitative e alimentari erano pessime, poiché l’interruzione dei trasporti, dei mercati e delle finanze rallentava il ritorno alla normalità. In Occidente, i bombardamenti avevano distrutto cinque milioni di case e appartamenti e c’erano dodici milioni di rifugiati provenienti da est. Il Piano Marshall era stato programmato per terminare alla fine del 1953. Ogni sforzo per estenderlo fu fermato dal costo crescente della Guerra di Corea frattanto scoppiata e del riarmo. Repubblicani americani ostili al Piano avevano anche ottenuto parecchi seggi nelle elezioni del Congresso del 1950, e l’opposizione conservatrice al Piano fu quindi ripresa. Così il Piano si concluse nel 1951, sebbene varie altre forme di aiuti americani all’Europa continuarono anche negli anni successivi.

Il Piano certamente ridusse l’influenza comunista. Gli effetti politici del Piano Marshall potrebbero essere stati altrettanto importanti di quelli economici. Gli aiuti del Piano Marshall permisero alle nazioni dell’Europa occidentale di allentare le misure di austerità e il razionamento, riducendo il malcontento e portando stabilità politica. L’influenza comunista sull’Europa occidentale fu notevolmente ridotta, e in tutta Europa i partiti comunisti calarono in popolarità negli anni successivi al Piano Marshall. Le relazioni commerciali promosse dal Piano Marshall contribuirono a forgiare l’alleanza del Nord Atlantico che persisterà durante la Guerra Fredda nella forma della Nato. Il Piano Marshall ha svolto anche un ruolo importante nell’integrazione europea. Sia gli americani che molti dei leader europei hanno ritenuto che l’integrazione europea fosse necessaria per assicurare la pace e la prosperità dell’Europa, e quindi hanno usato le linee guida del Piano Marshall per favorire l’integrazione. Il Piano, collegato al sistema di Bretton Woods, ha anche imposto il libero commercio in tutto il continente. La domanda rimane: fu disinteressato altruismo o strategia per legare definitivamente l’Europa agli Stati Uniti?

Dal Piano Marshall Al Recovery Fund: La Storia Si Ripete. Tutto Al Nord? Pasquale Cataneo e Paolo Mandoliti, *Commissione Nazionale GdST “Economia e Sviluppo” M24A-ET, su Movimento24agosto.it l'08/08/2020. L’assalto alla diligenza di soldi internazionali a costo bassissimo (praticamente nullo) è ripartito. Il partito unico del nord, quello che governa l’Italia da 160 anni (dall’Unità ad oggi) formato non solo da politici, ma anche, e soprattutto, dai potentati economici e non che tengono i politic(ant)i dagli attributi, stavolta hanno puntato i 209 miliardi delle risorse del Recovery Fund (RF) che l’Europa ha destinato tramite accodo all’Italia in base all’applicazione di tre diversi criteri (popolazione, inverso del PIL pro-capite e media della disoccupazione degli ultimi 5 anni).
Simulando l’applicazione solo del criterio della popolazione al nostro Paese sarebbe stato destinato poco più del 13%, invece, per le finalità precipue del RF applicando anche gli altri due criteri previsti all’Italia è destinato circa il 27,8% di quel montante. Ciò dovuto in modo chiaro e indiscusso per due ragioni:

1) l’Italia è il Paese nei 27UE che registra il maggior differenziale interno tra abitanti delle sue regioni in termini di reddito pro-capite (es. PIL per abitante 2018 Provincia Autonoma Bolzano 47.000 € ed in Calabria 17.000 €). In modo speculare le disuguaglianze si riflettono anche nella spesa per consumi finali delle famiglie per abitante (figura 2);

2) i tassi di disoccupazione (Istat, 2020h) altrettanto differenziati (Nord 6,1%) a discapito nuovamente del Mezzogiorno (17,6%) che risulta avere quindi un tasso di disoccupazione quasi triplo rispetto al Nord, dal 2014, con il divario più ampio e realmente costante (figura 1.3).

Emerge pertanto che le risorse così consistenti per l’Italia non sono scaturite dal dato popolazione ma dai due indicatori relativi all’inverso del reddito pro-capite ed alla media di disoccupazione. Lo affermiamo con fermezza: il dato è derivante, anche se non esclusivamente, in base alla grave situazione socio-economica del Mezzogiorno. In base alle finalità proprie dell’accordo sul RF, sottoscritto anche dall’Italia, quindi una fetta consistente di queste risorse devono servire per colmare il gap (infrastrutturale, economico, sociale) tra il Mezzogiorno e la restante parte del Paese nel contesto delle Politiche di Coesione UE. Noi come Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, abbiamo quantificato queste risorse in 145 miliardi di euro (seguendo i criteri di ripartizione che l’Europa ha utilizzato per dividere gli 800 e passa miliardi tra i vari Paesi). In un apposito documento abbiamo esplicitato tale nostra previsione, con resoconto, inviata ai competenti livelli istituzionali italiani. (qui il documento completo Recovery Fund) Purtroppo non abbiamo ricevuto alcun riscontro. Così come ci pare anche per i continui richiami che diversi organi sovranazionali hanno fatto all’Italia. Rammentiamo quello di Marc Lamaitre, Direttore delle Politiche regionali UE, che ha dichiarato con una nota al Governo italiano, lo scorso ottobre, di dover rivedere al ribasso, in sede di rendiconto della programmazione 2014-2020, le risorse assegnate all’Italia se la stessa non avesse provveduto a colmare il gap di investimenti al Mezzogiorno derivanti dall’assenza delle risorse italiane in spregio al principio comunitario di addizionalità. Oppure quello di Fabio Panetta, della Banca Centrale Europea, che ha sottolineato di non riuscire ad immaginare uno sviluppo equilibrato, in un’economia nazionale, all’interno della quale un terzo della popolazione ha un PIL pro-capite inferiore di quasi la metà rispetto alla restante parte del Paese. Infine il Consiglio Europeo, con il suo Presidente, ed il Fondo Monetario Internazionale tutti a chiedere la stessa cosa, ovvero: la crescita deve ripartire da SUD! E proprio mentre gli Organismi internazionali convergono con la stessa esplicita richiesta, che aiuterebbe la crescita complessiva dell’intero sistema Paese, da Sud al Nord e quindi anche per le imprese settentrionali, come dovrebbero sapere anche i rappresentanti del partito unico del nord, sono fortemente interdipendenti (diciamo pure dipendenti) dal Mezzogiorno per la fornitura di beni e servizi. Un mercato interno pari ad 88 miliardi all’anno (che crescerebbe ulteriormente se il Mezzogiorno iniziasse a innescare politiche di sviluppo reale anche con le risorse del RF), che il Nord potrebbe invece perdere, nel caso in cui il Mezzogiorno chiudesse la borsa e si rivolgesse altrove ad esempio per i propri consumi. E’ evidente, purtroppo per loro (i componenti del partito unico del nord), che nonostante i nostri reiterati avvisi, richiami, rilievi stiano continuando imperterriti a dimostrarsi sordi alle sollecitazioni che gli provengono da più parti. La verità, con sempre maggiore rilevanza e consapevolezza, viene a galla su come loro (i componenti del partito unico del nord), siano fagocitatori di risorse pubbliche (denigrando il Mezzogiorno di essere assistito) quando, invece, con verifiche puntuali effettuate da noi e da Eurispes con tanto di certificazione del dato da parte dei CPT, è emerso che circa 840 miliardi, in poco più di 17 anni, sono stati sottratti al Mezzogiorno per sostenere la spesa pubblica del Nord senza avere crescita!

Fagocitatori e predoni lo sono sempre stati. Lo sono da 160 anni! Da quando, con l’unità d’Italia organizzata per salvare una classe regnante dalla bancarotta (con gli inglesi, i francesi, i Rotschild che non sono stati a guardare in quanto avrebbero perso i loro investimenti nel debito pubblico piemontese. in quel tempo. pari a circa 2 miliardi di lire del 1861) i primi governi (liberisti e protezionisti) sono stati, a seconda della convenienza, gli esecutori del “prendetegli tutto, non lasciategli nulla” e così hanno fatto, non lasciando al Mezzogiorno nemmeno “le lacrime per piangere” come aveva facilmente predetto Francesco II lasciando Napoli. Loro (i componenti del partito unico del nord) lo sono stati anche durante il regime fascista, quando qualche bonifica venne fatta passare “per un passo enorme verso la vera unità del paese”, in cui si negava addirittura l’esistenza della “questione meridionale”. Sempre loro (con in testa l'allora capo del Governo) lo sono stati finanche quando gli Stati Uniti mandarono una vastità di denaro per riparare i danni della guerra e rilanciare il Paese inserito nel cd Patto Atlantico. Già, il Paese. I maggiori danni sia in termini di vite umane che materiali li aveva subiti nel Mezzogiorno, con le operazioni militari ed i bombardamenti della cd Campagna d’Italia, che distrusse infrastrutture belliche e logistiche ma anche molti edifici civili di molte città martoriate (Palermo, Messina, Salerno, Napoli, Foggia) sia dal punto vista urbanistico ma, e soprattutto, in termini di vite umane spezzate con migliaia e migliaia di civili massacrati. Anche su questo c’è stata mistificazione della realtà. Due esempi tristemente accomunati: Napoli, subì circa 200 incursioni aeree e Foggia, una decina. Entrambe le due città ebbero gravissimi danni ed oltre 40.000 civili deceduti nell’estate del 1943. Per Foggia, in particolare, alla devastazione totale si associò la perdita di circa un terzo dell’intera popolazione di allora. Ebbene, anche in questo caso, vi fu una “sottrazione”. Infatti secondo l’Istituto Centrale di statistica, nel rapporto “Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-45”, pubblicato nel 1957, i civili deceduti in Italia sarebbero 18919, un numero inferiore alle 20289 vittime della sola città di Foggia che si raddoppiano con quelle di Napoli. A queste oltre 40.000 vittime si aggiungono tutti gli altri civili deceduti nelle altre città meridionali già citate e Roma! Direte e cosa c'entra? Purtroppo c’è chi ha nel passato “manipolato” e vuole, da prenditore rapace di risorse, “manipolare” anche oggi la realtà, anche quando è così tragica ed ha prodotto vittime innocenti. Lo ha già fatto già nel secondo dopoguerra producendo la “sottrazione” di vittime civili e di danni di guerra nel Mezzogiorno, sostenendo una iniqua e ingiusta distribuzione di risorse economiche per proteggere la ripresa del sistema socio economico del Nord, salvaguardato dai danni dei bombardamenti e con un numero di vittime civili, ugualmente da rispettare, ma di molto inferiore rispetto a città sterminate come Foggia.

Come si concretizzò questa “manipolazione” allora? Presto chiarito: l’87% delle risorse dell’ERP (acronimo del European Recovery Plan, conosciuto ai più come Piano Marshall) finì alle industrie e nelle regioni del nord (Fiat, Ansaldo, Edison, ILVA, Piaggio, Alfa Romeo, Riva, Innocenti, Salmoiraghi, RAI, ecc.), sotto forma di prestiti che poi gli Stati Uniti rinunciarono a riscuotere. Cosa giunse alle regioni ed agli abitanti del Mezzogiorno? In totale il residuo 13%! All’intera Puglia che aveva avuto, oltre a Foggia città più martoriata, anche altre che ebbero danni materiali e vittime rilevanti giunse lo 0,13% (e NON CI SIAMO SBAGLIATI!!!). Una carognata che, dopo la denuncia di don Luigi Sturzo, venne parzialmente ripagata dalla concessione di istituire la Cassa per il Mezzogiorno. Un palliativo temporaneo (gli effetti benefici si sono visti soltanto nei primi anni di vita della Cassa, ed una certa convergenza tra i redditi pro-capite delle due aree nord e sud, e gli effetti benefici li videro anche gli industriali del nord che, grazie appunto all’interdipendenza tra le due aree, ebbero una crescita che non videro più). Dopo aver versato il sangue di tantissimi soldati meridionali, sul confine nord-orientale, per difendere l’Italia nel primo conflitto mondiale, poco o nulla giunse al Mezzogiorno. Cosa successe? Continuò l’emigrazione verso altri Continenti. Dopo la seconda guerra mondiale con i danni e le vittime più rilevanti nel Mezzogiorno ancora una volta poco o nulla giunse nelle regioni meridionali. Un'altra emigrazione, questa volta Europea e Sud-Nord (nelle fabbriche accresciute con l’ERP). La terza è avvenuta dal 2005 ad oggi hanno lasciato il Mezzogiorno, oltre 2 milioni di giovani e meno giovani. Per lo stesso motivo di fondo: Prima e solo il resto del Paese. Ed oggi sono circa 5 milioni gli italiani che sono iscritti all’AIRE, fuori dal Paese. Il resto della storia è contemporaneo: i predatori nord-centrici hanno continuato a fagocitare risorse su risorse trovando gli escamotage più “creativi” per rubare risorse al Mezzogiorno e far aumentare l’emigrazione. Che dire delle variabili “dummy” attraverso cui sono stati sottratti parte dei 840 miliardi di euro in 17 anni unitamente al mancato rispetto del dettato della L. 42/2009? Hanno fatto riunioni e “secretato” gli atti per non dar corso alla corretta applicazione della legge visti i risultati delle derivanti proiezioni economiche. Le ultime riprove del modus operandi dei prenditori del partito unico del nord riguardano i criteri utilizzati, in questi giorni, per ripartire le risorse a favore delle attività dei centri storici delle città turistiche (premiata Verbania, sconosciuto paesino sulle sponde del lago Maggiore, penalizzata Matera, capitale della cultura 2020), o ancora quelli utilizzati per rifare il parco autobus delle città italiane (solo Avellino presente come rappresentante del Mezzogiorno). Oggi, c’è chi vuole “usare” le vittime da Covid 19. Il commissario all'emergenza dichiarava il 18 aprile 2020 “Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2000 civili (1/10 di Foggia e di Napoli!) in 5 anni (in 5 mesi!) in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più”. Purtroppo i numeri, da allora in Lombardia e nel resto del Paese sono cresciuti ancora e di molto e di questo noi di M24A-ET siamo addolorati e vicini alle famiglie e alla popolazione lombarda, così fortemente colpita, ed a tutte le altre. Non riteniamo però che i “civili deceduti” siano da utilizzare strumentalmente, dai prenditori (i componenti del partito unico del nord), per agguantare altre risorse economiche e far andare nel dimenticatoio le responsabilità di chi non ha avuto le capacità guidare e indirizzare il sistema sanitario regionale fortemente incentrato sulla sanità privata e con una non adeguata assistenza sanitaria territoriale avvenuto soprattutto in Lombardia. Quelli del partito unico del nord invece di porre rimedio alle probabili falle registrate nel sistema sanitario nazionale e regionale sullo stato di attuazione della Decisione n. 1082/2013/UE relativa alle gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, in vigore dal 6 novembre 2013, per le proprie relative reciproche competenze, come hanno fatto per l’ERP (Piano Marshall) vorrebbero fagocitare pure le risorse del Recovery Fund, destinate all’Italia perché il Mezzogiorno ha bassi livelli di reddito pro-capite e alto tasso di disoccupazione. Loro, però, stavolta, non hanno fatto i conti con chi davvero non ha più lacrime per piangere ma che ha tanta voglia di non emigrare e di vivere, qui, in un Paese migliore. Questa battaglia non la faremo solo nelle istituzioni italiane per non lasciare alcun alibi a chi è rappresentante del partito unico del nord, ma anche ai loro complici, gli ascari quando non sono organici. Andremo anche a pugnare nelle istituzioni che quelle risorse le hanno assegnate con determinate finalità (Parlamento Europeo, Consiglio Europeo, Direzione Generale Affari Regionali dell’UE, Corte di Giustizia). E chiederemo, estrema ratio, di non darcele, perché, forse è meglio non lasciare ai nostri figli e nipoti ulteriori debiti che vedere i fondi destinati dalle Politiche di Coesione UE al Mezzogiorno utilizzate impropriamente dai soliti predatori autoctoni a vantaggio loro e del resto del Paese come finora avvenuto. BASTA.

GLI ERPIVORI: NEL1948 DE GASPERI DIROTTO’ I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA’? Annamaria Pisapia su Altaterradilavoro.com il 9 Agosto 2020. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicpensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque ( ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto( la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall’ospedale di Padova e di Brescia come “primi” ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l’emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce come “ nord,motore propulsivo”. Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l’unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l’America annunciò l’avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell’Europa. Il piano prevedeva l’impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l’Italia, il Sud era quella maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall’evento bellico. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava,in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l’87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su “Il Popolo” del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli “erpivori” ( consumatori parassiti di fondi erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del “Comitato permanente per il Mezzogiorno”, si battè affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: ” a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande “magnanimità” nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l’esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita “La Cassa per il Mezzogiorno” (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto , mentre la “Cassa per il Mezzogiorno” un’elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente. Annamaria Pisapia

Sud mobilitato: lo «scippo» del Recovery non passerà. L’Europa ha detto che bisogna attivare la locomotiva del Sud, ma l’Italia punta sempre sulla locomotiva del Nord che non la fa crescere da vent’anni. Lino Patruno il 18 Dicembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non deve passare. Non può passare. Il Sud si sta mobilitando per non far passare la rapina del secolo ai suoi danni. L’Europa ha detto che il 70 per cento del Recovery fund deve andare al Sud, ma il governo lo dà al Nord. L’Europa ha detto che scopo principale dell’intervento è ridurre il divario territoriale, ma col 34 per cento che si vuole dare al Sud quel divario aumenta. L’Europa ha detto che bisogna attivare la locomotiva del Sud, ma l’Italia punta sempre sulla locomotiva del Nord che non la fa crescere da vent’anni. L’Europa ha detto che si può costruire al Sud un’economia moderna, verde e digitale, ma si insiste invece su un Nord che è tutto il contrario. Il presidente della Campania, De Luca, si è detto pronto a lanciare una sommossa istituzionale. Immediata l’adesione del presidente della Basilicata, Bardi. E vertice oggi con gli altri presidenti delle Regioni del Sud. Intanto l’Europa vigila. Ma altre voci si sono alzate. Per primo il Movimento per l’equità territoriale (società civile) ha scritto una lettera alla presidente europea Von der Leyen. Vi si chiede di non far arrivare in Italia un euro del Recovery se la sua distribuzione ampliasse il divario fra Nord e Sud. Il costituzionalista Cesare Mirabelli ha invitato le Regioni del Sud a rivolgersi alla Corte Costituzionale perché è la Costituzione a stabilire l’obbligo del Paese a rimuovere tutto ciò che crea ricchi e poveri. Un Manifesto in tal senso è stato diramato dall’Alleanza degli Istituti meridionali. Ma anche il Parlamento non è fermo. Anzitutto con una raccolta di firme fra tutti i partiti. Dopo che le stesse Commissioni competenti di Senato e Camera avevano raccomandato che si andasse oltre quel 34 per cento. Il Senato: «I fabbisogni per le infrastrutture fisiche e sociali del Sud sono ben superiori alla misura del 34 per cento». La Camera: è auspicabile che le risorse per il Sud siano maggiori del 34 per cento «considerato il più alto moltiplicatore della spesa di investimento al Sud», perché «ne beneficerebbe l’intero territorio nazionale». Lo ha spiegato il presidente della Svimez, Giannola. Ogni euro pubblico investito al Sud, porta un beneficio di un euro e 30 all’intero Paese. E di questo euro e 30, il 25 per cento (cioè 0,30 euro) va al Nord. Del resto la stessa Commissione europea ha più volte spiegato che mai all’Italia sarebbero stati assegnati 209 miliardi se non ci fosse stato il Sud. E 209 miliardi (oltre il 30 per cento del totale) sono la massima cifra conferita a un Paese membro (alla Germania 22, alla Francia 100, alla Spagna 140). Un Sud verso il quale l’allarmata attenzione europea si deve al fatto che sia ancòra mantenuto come la più grande (e inammissibile) area di ritardato sviluppo nell’Unione. E il 70 per cento dei 209 miliardi si devono non solo alla sua popolazione (il 34 per cento), ma anche al suo più alto tasso di disoccupazione e al suo Pil pro-capite che è la metà di quello del Centro Nord. Frutto di una sottrazione al Sud di una spesa pubblica di 61 miliardi all’anno che vanno al resto del Paese. Frutto di un livello di investimenti al Sud che è sceso allo 0,15 per cento. Frutto di una perequazione infrastrutturale mai avviata dopo la legge del 2009 che la imponeva. Il tutto per una sottrazione al Sud di 840 miliardi in 17 anni, come ha certificato l’Eurispes. Ma non è finita. Sarà il Sud a subire le peggiori conseguenze della pandemia. La previsione è che nel 2021 il Centro Nord recuperi quasi integralmente il reddito perso rispetto al 2019, mentre al Sud addirittura aumenti. Ma non è ancora finita. Giannola denuncia un altro trucco sui miseri e illegali 68 miliardi del Recovery che si vogliono attribuire al Sud (appunto il 34 per cento). Ben 23 non sono un’aggiunta, ma derivano dal Fondo nazionale sviluppo e coesione, cioè da soldi che comunque spettavano al Sud in riparazione per tutto ciò che è fatto a suo danno. Mentre i Conti pubblici territoriali da tempo rivelano che un cittadino meridionale non vale quanto uno centrosettentrionale, visto che lo Stato spende per il primo 4 mila euro in meno rispetto all’altro. Un abitante del Sud si è già condannato nascendo. Questo del Recovery è il più grande intervento pubblico in Europa dal Piano Marshall. Già quello per l’80 per cento andò al Nord pur essendo stato deciso viste le condizioni del Sud dopo la guerra. Se dovesse andare così anche ora, se dovesse ancora essere sacrificato per consentire lo sviluppo del Nord, il Sud non esisterebbe più. Desertificato, spopolato, immiserito. Dopo una serrata campagna da parte dei poteri forti del Nord per attribuirgli tutta la colpa dei suoi mali. E allora perché dargli quanto gli spetta? Diamolo a chi finora per egoismo ha fatto diventare l’Italia la poveretta d’Europa. E quella dalla quale tutti vogliono andare via.

Michele Eugenio Di Carlo: LO SAPEVATE? I fondi del piano Marshall, vennero utilizzati da De Gasperi per l'87% al nord mentre gli Stati Uniti li avevano previsti in particolare per il Mezzogiorno molto danneggiato dai danni da guerra. Ricordate i 22 mila uccisi dai bombardamenti alleati a Foggia? Nonostante Sturzo ed altri non ci fu verso: i fondi andarono come sempre al nord. Una situazione che potrebbe ripetersi con i 209 miliardi del Recovery fund che dovrebbero essere utilizzati per il 70% per ridurre il divario del Mezzogiorno.
Terroni di Pino Aprile: BERLUSCONI INVOCA UN NUOVO PIANO MARSHALL PER IL SUD? E' PER PORTARE ALTRI SOLDI AL NORD. Di Annamaria Pisapia. Su "Il Popolo" del 25 luglio 1948, Don Luigi Sturzo si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori", cioè consumatori parassiti di fondi ERP,(european recovery program). Gli ERP, meglio conosciuti come Piano Marshall, erano i fondi destinati dal governo americano per la ricostruzione e il rilancio delle aree maggiormente devastate dall'evento bellico della seconda guerra mondiale. Don Luigi Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si batteva affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno, che era l'area maggiormente colpita, rispetto al nord, pressando i ministri in tal senso. Purtroppo il governo, presieduto da De Gasperi, ritenne di dirottarli in misura dell'87% al nord e solo del 13% al Sud favorendo il rilancio delle industrie settentrionali. Il ministro dell'agricoltura Segni inviò una lettera a Don Sturzo il 22 luglio 1948 in cui diceva: " A POCO A POCO, INDUSTRIA E NORD STANNO TENTANDO DI ACCAPARRARSI TUTTO. IO NEGOZIO, SINO ALLE ESTREME CONSEGUENZE, MA LA LOTTA E' IMPARI, SOLO, COLL'OTTIMO RONCHI; CONTRO QUASI TUTTI GLI ALTRI". (ALS 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Era nell'idea del governo e degli industriali del nord di puntare sull'emigrazione a basso costo del Sud per il decollo dell'economia italiana(nord). Così, di 1 miliardo e trecentomilioni di dollari, al Sud arrivarono le briciole. Purtroppo anche quelle briciole Don Sturzo dovette difenderle con i denti contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. E come era ovvio il pil di zone come il Veneto, fino ad allora povero, schizzò a +22% e al Sud diminuì del 10%. Ma con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , per istituire "La Cassa per il Mezzogiorno". Così, mentre i soldi dei fondi ERP se ne andarono in silenzio al nord, la "Cassa per il Mezzogiorno" venne annunciata con tanto di grancassa. Insomma, la prepotenza del nord fece in modo che i fondi ERP risultassero un risarcimento che gli era dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Inutile dire che il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Sud.

La mitologia del Piano Marshall. Lo «European Recovery Program» ebbe precise finalità, a cominciare dal ritorno di quella dimensione atlantica crollata con la Grande Guerra. Mauro Campus il 15 aprile 2020 su ilsole24ore.com. A qualunque latitudine, quando si verificano situazioni di emergenza, è abituale ricorrere a questo luogo comune del lessico politico: «Qui ci vorrebbe un piano Marshall». Era dunque immaginabile il ricorso alla mitologia dello European Recovery Program (Erp) anche nell’attuale situazione. Tale previsione, in sé banale, ha però superato ogni aspettativa, poiché ovunque la formula del piano americano è invocata con un’insistenza svincolata dal significato storico che ebbe quell’operazione. Anche se il generale George Marshall non ne fu né l’ispiratore né l’estensore, il piano prese il nome di quel segretario di Stato dell’amministrazione Truman, che fu anche l’organizzatore della vittoria alleata senza però aver mai calcato il campo di battaglia. Con un breve discorso molto citato – anche se pochissimo letto – pronunciato all’Università di Harvard il 5 giugno 1947 Marshall ne fu piuttosto il latore. Quel testo che riannodava la tela dell’idealismo wilsoniano e compendiava in poche righe anni di trasformazione del sistema politico statunitense è divenuto sinonimo di «intervento risolutivo e benefico per i momenti di crisi drammatica». Come chiarì la legge che lo rese effettivo – l’Economic Cooperation Act del 1948 – non si trattava di un piano generosamente elargito dal vincitore ai Paesi in macerie dopo il conflitto della Seconda guerra mondiale. Esso si triangolava su tre assi connessi e destinati ad avere un significato costituente per il sistema internazionale. Il primo era la riorganizzazione dell’Occidente e il ritorno della dimensione “atlantica” dell’interdipendenza, naufragata con la Prima guerra mondiale, cioè con il collasso della prima globalizzazione. Il secondo era il far funzionare attraverso la ricostruzione delle correnti di scambio il motore del Grand Design rooseveltiano, ossia il ventaglio di organizzazioni pensate a guerra in corso da Roosevelt (dall’Onu all’Fmi, dal Gatt alla Banca Mondiale), le quali avrebbero dato corpo all’idea di “governo del mondo” che costituiva lo sfondo di un sistema internazionale multilaterale. Il terzo era la creazione geografica di un campo economico omogeneo in funzione antisovietica: un blocco politicamente stabile proteso a combattere quella che si andava definendo come la Guerra fredda e che segnò i successivi 40 anni di vita internazionale. Le ricadute dell’attuazione del Piano furono legate all’alba della cosiddetta Pax Americana, cioè la creazione di rapporti di forza che descrivevano anche attraverso il dollar standard il dominio egemonico degli Stati Uniti su un Occidente i cui confini dilatati avrebbero coinciso con l’affermazione delle strutture del capitalismo democratico. Per essere precisi, il Piano costituì la premessa di quella trasformazione. Con la regia di Washington i Paesi dell’Europa occidentale – senza distinzione fra vinti e vincitori – si sedettero al tavolo dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece, l’antenato dell’Ocse), nata allora per riprogrammare il sistema produttivo continentale e renderlo funzionale all’ottimizzazione dei beni e dei fondi messi a disposizione dagli Stati Uniti. Si formò lì il processo d’integrazione europea, che da allora prese una strada autonoma ma seguitò (e seguita) a riconoscersi attorno alle istanze economiche delle origini. Il Piano fu molte cose, ma il suo valore materiale derivava sostanzialmente da due fattori. Anzitutto il suo importo – circa 13,2 miliardi di dollari, pari all’1,1% del Pil americano e al 2,7 dei 16 Paesi riceventi – era finanziato con i soldi dei cittadini statunitensi, i quali furono spinti ad accettarlo sulla base di una campagna martellante nella quale si sottolineava il nesso tra la sicurezza economica della Repubblica americana e quello dell’Europa occidentale. Secondariamente esso non era composto solo da prestiti agevolati (alla cui riscossione gli Stati Uniti poi rinunciarono), ma da beni e materie prime che i 16 Paesi incamerarono gratuitamente e poterono trasfondere nel sistema produttivo attraverso aste o assegnazioni strategiche. Il ricavato delle vendite di quei beni costituì un fondo vincolato al lancio di politiche di produttività e quindi, di fatto, all’adozione di uno straordinario aggiornamento tecnologico rispetto alla grammatica industriale europea. Questo meccanismo inseriva una doppia condizionalità per i Paesi che attuarono il Piano. La prima era protesa allo sviluppo e alla modernizzazione del sistema produttivo, la seconda, squisitamente politica, prevedeva l’allineamento dei Paesi Erp all’American way of life in termini di consumo e accesso ai beni e di adesione a modelli liberal-democratici costituzionali. Fu l’implicita condizionalità politica a rappresentare l’oggetto principale del dissenso attorno al Piano. Esso fu, infatti, accolto in modo controverso non solo dalla sinistra ma da eterogenee parti della popolazione europea. Anzitutto perché esso si proponeva di vincolare e dividere. Sebbene formalmente offerto ai Paesi della costellazione sovietica, esiste un’ampia evidenza documentaria che tale offerta fosse poco meno che un ballon d’essai: neanche volendo, il socialismo reale si sarebbe potuto curvare ai precetti dell’americanizzazione sottintesi al Piano. È del pari eloquente che le critiche accese, dal 1947 in poi, contro un patto accusato di essere l’espressione più aggressiva del capitalismo statunitense siano state poi ribaltate in severe diagnosi rispetto al modo in cui gli aiuti furono utilizzati. Ciò, da un lato, spiega però perché il Piano sia il passaggio preliminare per comprendere la storia del conflitto bipolare, e dall’altro perché ogni paragone col presente sia impraticabile. A suo tempo, nemmeno i più accaniti cold warriors sostennero che il Piano fosse il frutto di una volontà filantropica degli Stati Uniti, ed esiste un generale consenso verso la tesi secondo cui esso servisse ai destinatari quanto ai promotori. Le ipotesi di un piano per fronteggiare la crisi da coronavirus che ricalchi le aspirazioni globali dell’Erp, per come negli ultimi giorni sono state richiamate prima dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e poi dalla presidentessa della Commissione Ursula von der Leyen, descrivono un’ambizione priva di legami con la realtà. Il bilancio dell’Unione (circa l’1% del reddito nazionale lordo) – perché sarebbe l’Unione a essere chiamata a organizzare il “nuovo Piano Marshall” – è insufficiente per affrontare un programma simile a quello del 1948-1952, e una contrazione dei bilanci nazionali a favore del bilancio dell’Unione pare in questa fase una prospettiva lunare. Sarebbero dunque necessarie misure (e visioni) straordinarie. Vi è inoltre un crinale ancora più invalicabile della limitatezza delle risorse e della relativa contabilità ordinaria che appassiona alcuni strabici politici del Nord Europa, e riguarda l’assunzione di responsabilità politica che un Piano simile comporterebbe. Per essere davvero onesti, nessuno oggi nell’Unione è intenzionato a guidare la drammatica transizione che si aprirà a breve e sarebbe questo ciò di cui si sente il bisogno. Non dell’evocazione imbambolata di feticci storici.

Milena Gabanelli e Danilo Taino per “Dataroom - Corriere della Sera” l'8 febbraio 2021. George Marshall fu il Chief of Staff dell’esercito degli Stati Uniti che inventò il Piano di ricostruzione dell’Europa, il quale prese il suo nome. Churchill lo definì «organizzatore della vittoria». Proprio per la sua visione gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 1953. Morì nel 1959, ma ancora 70 anni dopo, quando c’è una crisi si invoca un Piano Marshall. Il fatto è che non è replicabile, e non fu unicamente una questione di soldi, come non lo è oggi per l’Italia, di fronte ai miliardi del Recovery Fund europeo. Che le differenze tra l’immediato dopoguerra e i nostri giorni della pandemia siano enormi è evidente. Allora c’erano Paesi completamente da ricostruire, la manodopera costava niente, il mondo dei commerci era chiuso. C’era una leadership crescente, e in quei giorni governavano statisti veri, temprati in una delle tragedie maggiori della Storia. Dovremmo però studiarla bene quell’operazione che fu la base del Miracolo Economico, nel momento in cui ci avviamo a ricevere più di 200 miliardi di euro tra sussidi e prestiti europei.

Quanto vale oggi quel miliardo e mezzo di dollari. Nominalmente, l’European Recostruction Plan (Erp) - questo era il nome ufficiale – canalizzò 13,3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti a 16 Paesi europei tra l’aprile 1948 e il giugno 1952: la Spagna non faceva parte del Piano in quanto dittatura. Se ci si limita a calcolare l’inflazione, 13 miliardi del 1950 corrispondono a poco più di 140 miliardi di dollari oggi. Ma in 70 anni non sono aumentati solo i prezzi, anche i Pil si sono moltiplicati. Fare un confronto preciso tra le portate dei due interventi, dunque, è difficile. L’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, però, ha calcolato che il miliardo e mezzo di dollari che arrivò in Italia con il Piano Marshall corrispose al 9,2% del Pil italiano medio di quegli anni. Se si considera che il Prodotto interno lordo italiano del 2019 è di 1.787 miliardi, il 9,2% corrisponde a 164 miliardi di euro, non molto meno dei 206 del Recovery Fund.

Le condizioni del Piano Marshall. Originariamente, l’Erp avrebbe dovuto beneficiare soprattutto Gran Bretagna e Francia. Infatti, i due Paesi furono quelli che ricevettero la quota maggiore di aiuti, 3,2 miliardi di dollari Londra, 2,7 Parigi. L’Italia fu la terza beneficiata, con 1,5 miliardi: si trattava di sostenerla economicamente anche con l’obiettivo di non farla cadere nelle mani delle sinistre e in prospettiva del nascente blocco sovietico, tanto che un mese prima delle elezioni del 18 aprile 1948 lo stesso Marshall chiarì che il Piano per l’Italia si sarebbe arrestato se avesse vinto il Fronte Popolare. Il lato politico e geopolitico dell’Erp fu infatti non meno importante, per Washington, di quello economico: la Germania, il Paese chiave nel confronto con l’Unione Sovietica, pur entrando un anno dopo nel progetto, ricevette 1,4 miliardi. Anche il Recovery Fund e il New Generation Eu hanno un forte contenuto politico: il rafforzamento dell’Unione europea e il mercato unico da non frammentare con tassi di crescita troppo divergenti nel momento dell’uscita dalla crisi pandemica. Inoltre non c’è un «podestà esterno» a controllare che i denari siano ben impiegati: dovrà essere la Ue stessa a badare all’uso delle sue risorse.

Cosa arrivò dagli Usa. Le condizionalità del Piano Marshall furono sostanziali, anche perché gran parte degli aiuti furono a fondo perduto (solo 1,3 miliardi di dollari furono prestiti). Bisognava stabilizzare le valute, creare una rete commerciale europea, promuovere la produzione agricola e industriale, favorire gli scambi con gli Stati Uniti, i quali avevano bisogno di partner economici in salute. Considerando l’Italia, da Washington arrivavano beni al governo il quale versava il corrispettivo del loro valore a un Fondo di Contropartita intestato al Tesoro, destinati a ridurre il debito e agli investimenti. Il tutto con i rigidi controlli di un sistema concordato, ma la cui ultima parola spettava all’Eca, l’Economic Cooperation Administration di Washinton. Le prime navi con le merci dell’Erp – nota nel suo libro «Il Piano Marshall e l’Italia» Francesca Fauri (Il Mulino) - consegnarono carbone e grano a partire dal 18 aprile 1948 e al 30 settembre di quell’anno «erano già stati sbarcati tre milioni di tonnellate di prodotti giunti con 370 navi». Cotone, cereali, combustibili e macchinari furono le principali importazioni nel quadriennio. Ma arrivò di tutto, dal rame a prodotti siderurgici, dalle sementi e concimi alla gomma sintetica. Con il denaro ricavato dalla vendita a privati di queste merci, 300 miliardi, il ministro del Bilancio Luigi Einaudi ne utilizzò solo 62 per fare investimenti, così ripartiti: 14 miliardi andarono alle imprese private per lo sviluppo della siderurgia, 32 passarono all’Imi per sostenere importazioni dagli Usa, 8 servirono a sostenere il turismo, e altri 8 sovvenzionarono le costruzioni navali. Il resto venne messo nella stabilizzazione della moneta e valorizzazione del risparmio. Una politica che ridiede fiducia nell’Italia agli investitori e pose le basi per il boom degli anni successivi.

Come abbiamo usato quei dollari. Gli investimenti massicci per la ricostruzione e lo sviluppo economico iniziarono tra la fine del 49 e il ’50, sempre con un governo De Gasperi e seguendo la linea Einaudi, che nel frattempo era diventato presidente della Repubblica. La procedura era questa: i programmi dovevano essere avallati da Washington e poi discussi e approvati dal Parlamento a Roma. I criteri seguiti furono quattro: urgenza delle opere, creazione di occupazione, crescita del reddito dell’Italia, sostegno alle aree depresse. Al 30 giugno 1951, gli investimenti Erp furono per il 28% in agricoltura (bonifica e credito), per il 23,4% in attrezzature industriali, per il 16,9% in lavori pubblici, per il 12,3% in trasporti soprattutto ferrovie, per il 5,4% nell’Ina Casa e il 3,1% per l’incremento edilizio. Si costruirono le case popolari nei quartieri operai. Si lanciò un piano di sviluppo idroelettrico meridionale, si rafforzarono i porti, in primis Genova, e la marina mercantile. Si diede un tetto a tremila famiglie le cui case erano andate distrutte nel terremoto di Messina del 1908. Si ricostruirono ponti. Nel 1953, nelle campagne lavoravano 84 mila trattori. Nello stesso anno, tutti i comuni italiani furono raggiunti (almeno ufficialmente) dalle linee telefoniche. Si crearono 12 orfanotrofi, 204 strade, 70 ospedali, 33 acquedotti, 26 fognature, 188 scuole. Al settembre ’53, il cento per cento del programma Unrra Casas, che dava una dimora ai senzatetto, fu finanziato dall’Erp, il Piano di edilizia pubblica all’11%, il Fondo incremento edilizio al 67%, e così via nella ricostruzione del tessuto abitativo.

La vera differenza fra ieri e oggi. I prestiti del Piano Marshall invece andarono soprattutto alle grandi industrie, quindi in Piemonte, Lombardia e Liguria, allora Triangolo Industriale. Alla Fiat il 12,4% di tutti i prestiti, alle imprese dell’Iri il 23,9%, alla Edison l’8,6%. Per lo più si trattò di denaro non sprecato in salvataggi improbabili. Un’ indicazione utile per i tempi nostri, dove avviene troppo spesso l’esatto contrario. Dunque la stabilizzazione macroeconomica, la ripresa nella fiducia nel Paese dopo la sconfitta bellica, la ricostruzione iniziata e investimenti, portarono a risultati superiori a quelli previsti nel piano a lungo termine presentato all’Oece (il predecessore dell’Ocse) all’inizio degli aiuti americani. Nel 1952 il reddito nazionale centrò la previsione a livello 117; la produzione industriale toccò 149 contro il previsto 140; i passeggeri sulle ferrovie arrivarono a quota 233 contro un’aspettativa di 200; i trasporti via mare arrivarono a 173 rispetto al 125 pianificato. Crebbero più del previsto le esportazioni, le importazioni, i consumi alimentari pro capite. Solo la produzione agricola e della pesca e il trasporto merci per ferrovia crebbero meno delle previsioni. (Fonte, Zamagni, «Dalla periferia al centro»). Un successo, anche se alcuni economisti sostengono che la crescita dell’economia e l’arrivo in Italia di un sempre crescente benessere forse ci sarebbero stati anche senza il Piano Marshall. Impossibile saperlo. Non è però detto che senza l’Erp le sinistre non avrebbero vinto le elezioni del ’48. A quel punto l’Italia non sarebbe entrata nel mercato occidentale e men che meno nella comunità europea. E qui sta la differenza finale con l’oggi: la statura di chi fece e fa scelte politiche. Forse proprio pensando a Einaudi è stato chiamato Draghi.

·        Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.

Perchè il Mezzogiorno si condanna a restare sempre Mezzogiorno. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud su l'1 Dicembre 2021. CONFINDUSTRIA Veneto ragiona sulle infrastrutture insieme ai colleghi del Friuli Venezia Giulia e della Provincia autonoma di Trento. “Il tema travalica i confini dei tradizionali campanili. L’area è ricca di scali aerei, tra cui l’internazionale Marco Polo di Venezia, porti e interporti come Verona, primo impianto interportuale europeo, tutti nodi logistici che finora non hanno dialogato fra loro” lo ha dichiarato Alessandro Banzato advisor infrastrutture e mobilità sostenibile degli industriali della Regione Veneto.

Le parole chiave sono sinergia e trasversalità: lo sviluppo deve coinvolgere tutti gli attori del territorio. È nato così un nuovo approccio sulla logistica capace di mettere a sistema una settantina di soggetti: imprese, sistemi portuali, interporti di Verona, Padova e Rovigo oltre ai quattro atenei locali. Crollano i confini provinciali e regionali e la Confindustria diventa il catalizzatore di un processo che crea e distribuisce ricchezza.

In fondo il porto di Trieste ed il Quadrante Europa di Verona sono dei riferimenti logistici che non hanno più ormai una collocazione nazionale ma sono a tutti gli effetti siti che rivestono, nell’assetto europeo, una collocazione estranea a logiche e a riferimenti amministrativi di tipo “locale”.

Questa collaborazione, essenzialmente legata ad ottimizzare la conoscenza e la interazione dei sistemi logistici, non è fine a sé stessa ma, a tutti gli effetti, è l’inizio di un processo che, nel breve termine, porterà i vari attori coinvolti in questa interessante esperienza verso forme societarie davvero innovative. Penso che prima di un anno in questo vasto ambito territoriale del Nord Est nascerà una Società di Corridoio o una Società di Area Vasta. Due ipotesi progettuali che porteranno, automaticamente, alla creazione di margini derivanti proprio dalle attività logistiche che si attueranno in questo teatro economico. Un teatro che in parte già dispone di reti ferroviarie come l’asse AV/AV Verona – Vicenza – Padova – Venezia – Trieste e l’asse Verona – Brennero – Monaco, di assi autostradali come la A22 (Verona – Trento – Brennero) e la A4 (Brescia, Padova, Venezia, Trieste); di nodi come gli impianti aeroportuali di Treviso, Verona, Venezia e Trieste; di sistemi interportuali come quelli di Trento, Verona, Padova e Cervignano, di impianti portuali come quelli di Trieste e Venezia.

Ebbene questo teatro economico in cui si movimentano annualmente oltre 250 milioni di tonnellate di merci, genera, a mio avviso, automaticamente un asset societario in grado di produrre annualmente un margine derivante dalle sole attività logistiche di oltre 2,5 miliardi di euro. I vari attori, i vari azionisti di questa offerta infrastrutturale, di questa offerta logistica potrebbero, quindi, dare origine ad una società i cui proventi generati dalle attività logistiche potrebbero essere allocati una parte in un apposito Fondo Rotativo mirato sia alla implementazione degli impianti logistici, sia alla assistenza ed al rilancio manutentivo delle reti e dei nodi ed una parte generare appositi dividenti tra i vari azionisti.

Ma sicuramente di fronte ad una simile ipotesi emergeranno degli ostacoli come quelli sollevati dalle Ferrovie dello Stato in quanto a tutti gli effetti organo pubblico o dalla stessa ANAS, ma nel caso specifico la iniziativa partita dalla Confindustria Veneta, sono sicuro, supererà queste gratuite criticità e verranno meno quei pregiudizi che, come avrò modo di elencare dopo, sono tipici della cultura meridionale. Il motore di una simile iniziativa, o meglio, la occasione che ha portato o addirittura obbligato le parti a seguire con grande attenzione questo polmone di convenienze è senza dubbio la digitalizzazione di tutti i processi che, direttamente o indirettamente, caratterizzano, giornalmente, la complessa funzione logistica diffusa sull’intero Nord Est, diffusa trasversalmente su due Regioni e su una Provincia autonoma.

Per ora solo dichiarazioni, per ora solo impegni tra le parti a dare costrutto e significato ad una simile iniziativa, fra pochi mesi però quando il Ministro per la innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao darà attuazione e concretezza alle iniziative già contemplate nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, allora, automaticamente, queste volontà denunciate in modo dettagliato dalla Confindustria Veneta e dalle istituzioni locali come le due Regioni e la Provincia di Trento si trasformeranno o in articolati e funzionanti Partenariati Pubblici Privati (PPP) o in innovative Società per Azioni e, a mio avviso, anche le più volte forme di autonomia invocate dai due Presidenti Zaia e Fedriga si spegneranno perché l’autonomia nascerà automaticamente da strumenti che troveranno nella gestione delle convenienze la vera forza ed il vero significato strutturale.

Questo sta accadendo nel Nord Est del Paese, mentre effettuando una analisi nel Mezzogiorno scopriamo che, come ribadito in un mio documento di un mese fa, non troviamo nulla, ripeto nulla, nella gestione, ad esempio, dei processi logistici di due Regioni come la Campania e la Puglia; eppure queste due grandi realtà dispongono di nodi logistici come quelli portuali di Napoli, Salerno, Taranto, Bari e Brindisi ed interportuali come quelli di Nola – Marcianise e Bari Lamasinata, dispongono di assi come l’asse autostradale Napoli – Bari e come il realizzando asse ferroviario ad alta velocità Napoli – Bari, dispongono di nodi come gli aeroporti di Napoli, Salerno, Foggia, Bari, Brindisi, Taranto. Due Regioni in cui si movimentano annualmente oltre 150 milioni di tonnellate, due Regioni però che ritengono da sempre di essere ancora delle “marche” autonome non interessate a gestire questa enorme ricchezza legata proprio ai processi logistici.

È inutile insistere perché questo approccio, questo atavico convincimento lo troviamo anche nelle Regioni Basilicata, Calabria e Sicilia; lo troviamo nell’impianto territoriale adriatico formato dalle Regioni Puglia, Molise ed Abruzzo. Sembra strano ma mentre per le Regioni del Nord l’autonomia viene ricercata anche attraverso la identificazione degli interessi comuni, nel Mezzogiorno l’autonomia viene ricercata arroccandosi all’interno dei propri confini regionali.

Un comportamento che abbiamo avuto modo di verificare in tantissime occasioni quali:

La battaglia tra la Basilicata e la Puglia sulla gestione del corso delle acque interno alle singole Regioni

La battaglia tra la Puglia ed il Molise e l’Abruzzo sempre sulla gestione delle acque

L’approccio alla gestione del Progetto Penta Rossa. Un progetto di un oleodotto lungo 136 km (di cui 96 in Basilicata) che collega le installazioni petrolifere della Val d’Agri alla Raffineria di Taranto, suo terminale di esportazione.

L’assenza di schieramento da parte delle Regioni del Mezzogiorno in occasione della realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina

L’approccio miope nella identificazione e nella gestione delle Zone Economiche Speciali

Purtroppo questa pesante miopia delle Regioni del Mezzogiorno consente una rilevante crescita del PIL del Nord del Paese ed una stasi del PIL del Sud, tutto questo rende possibile un PIL pro capite al Nord di 35 – 40.000 euro ed al Sud di 20.000 euro.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

Il ritratto del Belpase di 100 anni fa. Muratov, il poeta viaggiatore che amava l’Italia: “Il napoletano vive soltanto quando prova piacere”. Eraldo Affinati su Il Riformista il 24 Agosto 2021. Nascere e crescere in Italia dovrebbe essere considerato un privilegio: così almeno pensava, in mezzo a tanti altri, prima e dopo di lui, Pavel Muratov, che vide la luce nel 1881 a Bobrov, in Russia, non distante da Voronez, in un paesaggio piatto dove scorre il Don. Quest’uomo a suo modo straordinario aveva una singolare e poliedrica personalità di scrittore, storico dell’arte, drammaturgo, curioso della vita. Fu quasi sempre in fuga dai totalitarismi del suo tempo: morì nel 1950 a Waterford, in Irlanda, dopo aver eluso il regime sovietico e il fascismo. Sin da giovane percorse in lungo e in largo la nostra penisola nei cui confronti nutriva una speciale predilezione. In tale prospettiva fra le sue opere più celebri e durature dobbiamo ricordare innanzitutto i tre volumi, stampati per la prima volta fra il 1911 e il 1912, dal titolo Immagini dell’Italia che Adelphi sta traducendo: il primo tomo, dedicato alle città toscane, è uscito nel 2019; il secondo, incentrato su Roma, il Lazio, Napoli e la Sicilia, è stato pubblicato quest’anno a cura di Rita Giuliani con la traduzione di Alessandro Romano. Si tratta di una vera dichiarazione d’amore per il Bel Paese. Tuttavia le pagine dedicate all’Urbe imperitura rappresentano anche qualcosa di più in quanto esplorano il sentimento di universale sconcerto e vanità che ogni individuo prova di fronte alle rovine del mondo classico. Dopo aver chiamato a raccolta gli autorevoli viaggiatori del passato, ammaliati da Roma – Montaigne, Poussin, Keats, Goethe, Stendhal, Gogol’, i quali variamente ne magnificarono le sorti -, Muratov offre il meglio di sé nelle descrizioni paesaggistiche che riflettono una lunga consuetudine con la nostra città e il suo contado. Leggendolo, si ha l’impressione di spiarlo mentre prende appunti e scopre l’essenza metafisica della metropoli. Dalle parti di Piazza Navona: «Dignità e nobiltà accomunano i cornicioni che delimitano una striscia di cielo azzurro e la penombra dorata di una bancarella di frutta». Sulle rive del Tevere: «Carrettieri infarinati dissetano i cavalli all’abbeveratoio di pietra, mendicanti dormono all’ombra del piccolo tempio». L’Aventino e il Celio gli sembrano «luoghi dove l’odore dei campi si mischia con l’umidore delle antiche mura». In cammino verso le catacombe scrive: «Su via delle Sette Chiese, sorta di antico sentiero che collega la via Ardeatina e l’Ostiense, attraverso cancelli spalancati si vedono vigne, campi, recinti per il bestiame, frutteti e viali di eucalipto». Il cuore gli batte forte al cospetto degli angeli di Melozzo da Forlì, nei quartieri a ridosso del Pantheon e nella zona della città che si estende fra il Tevere e corso Vittorio Emanuele, dove, come sottolinea con il gusto sopraffino del vecchio erudito, anche se aveva solo trent’anni, “il Barocco detta legge”. Ebbe il tempo di vedere certi scempi di marca piemontese: «La febbre edilizia sembra una malattia cronica della nuova Italia dei parlamenti e delle municipalità». Le notazioni più intense le rivolge alla campagna romana, ben consapevole che l’alone leggendario che circonda il centro storico ne preserva lo spirito più autentico: «Nessun attributo da capitale europea potrà renderla una città contemporanea, e nessuna ferrovia potrà integrarla nella cultura utilitaristica del nostro tempo». Eccolo uscire dalle mura per cogliere l’anima del Lazio: «Nelle giornate serene d’inverno, quando l’aria di Roma è limpida come cristallo, oltre la via Nomentana l’alta muraglia dei monti Sabini risplende ineffabile contro il cielo turchese, in un gioco di picchi e dirupi». Non è solo un pastello di colori, Muratov ama Piranesi, «la cui fantasia era sensibile non all’opera dell’uomo, ma all’azione del tempo su di essa». Eppure, da Ostia a Cori, da Ninfa a Subiaco, da Olevano a Palestrina, da Corneto – antico nome di Tarquinia – a Bracciano, fino a Viterbo, non si lascia fiaccare dal disincanto, né disarmare dalla tragica vanità dell’Ecclesiaste, bensì, con mossa scaltra di inaudita fierezza, si mostra capace di ricavare alimento dalla propria medesima stupefazione. A Napoli apprezza “lo spettacolo della vita popolare”. Via Toledo è un palcoscenico permanente: «Da mattina fino a sera inoltrata, i suoi marciapiedi stretti e fangosi sono invasi da persone capaci di godere della mera consapevolezza di trovarsi al mondo. Nessuno ha fretta di andare da qualche parte, ma insieme nessuno ammazza il tempo con esasperante indifferenza. Il napoletano vive soltanto quando prova piacere»: avevamo forse bisogno che fosse un russo a spiegarcelo? Certo che no, ma Muratov ha tutte le carte in regola per giocare una bella partita, anche perché ci racconta un mondo scomparso, quando negli alberghi di Riva di Chiaia il forestiero veniva svegliato all’alba da un concerto di campanacci: «Mucche e capre vengono munte per strada: capita addirittura che qualcuno, assalito dalla voglia di latte fresco, pagati due soldi s’inginocchi e plachi la sete così, senza nemmeno un bicchiere». Da Pompei, dove provò “il sentimento della pietra”, perlustrò Amalfi, Ravello, Paestum, quindi tornò a Napoli per imbarcarsi sul piroscafo diretto a Palermo: «La Sicilia ti riceve in modo arcigno e ritroso, proprio come la terra d’oltremare di un antico viaggio». Visita Selinunte, Agrigento, Siracusa. Arriva a Taormina due mesi dopo il terremoto che aveva distrutto Messina e Reggio, trovandola deserta: «Alcuni alberghi erano addirittura chiusi, altri completamente vuoti; i gong annunciavano l’ora del pasti solo per consuetudine; alle finestre si affacciava soltanto una cameriera che non sapeva come occupare il tempo in quelle inattese giornate di libertà». Anche Muratov è triste ma non si lascia sfuggire l’occasione per rendere a modo suo l’ultimo tributo: «Siamo attesi dallo spettacolo delle città distrutte dal sisma, dallo spettacolo dell’Italia in lutto. Un lutto che appartiene all’intera umanità, poiché l’Italia è quella gioia per la quale vale ancora la pena vivere». Eraldo Affinati

Quando i microfoni aperti di Radio Radicale rivelarono l’Italia che odia. Nell’estate 1986 l’emittente offre agli ascoltatori la possibilità di registrare messaggi senza filtro. Risultato: bestemmie, razzismo nord sud, slogan fascisti. Trent’anni prima dell’arrivo dei social. Giandomenico Crapis  su L'Espresso il 24 agosto 2021. Negli Ottanta, quando tutto cambiò, c’è un anno che potrebbe simbolicamente rappresentare il passaggio da un’Italia ad un’altra: il 1986. Ed anche se, come ci spiegherebbero gli storici, il mutamento andrebbe diacronicamente cercato sul tempo lungo, è proprio nel 1986 che alcuni indizi annunciano il tramonto di un’epoca. Siamo ormai lontani dal miracolo economico, da tempo è in crisi la repubblica dei partiti, sfumata è l’onda delle passioni politiche e trionfa l’individualismo narcisista e consumista alimentato dalla pubblicità che dalle tv commerciali si riversa sul Paese. Pure le ultime icone nazionalpopolari sono svanite: a Pertini, il loquace e seduttivo presidente partigiano, è succeduto il silente Cossiga, i campioni dell’82 sono stati eliminati dalla Francia ai mondiali messicani. Ma all’inizio dell’anno Alessandro Natta, segretario del partito meno incline alla spettacolarizzazione politica, era comparso tra lo stupore dei militanti sul divano di “Buonasera Raffaella”, mentre Pippo Baudo, proclamato dal settimanale Sorrisi e Canzoni il personaggio più amato dagli italiani, proprio alla fine del 1986 veniva travolto da una polemica con il presidente della Rai Enrico Manca. Ormai l’Italia è già diventata la televisione, nel senso che vi si specchia e ne è specchiata, un cortocircuito sempre più intenso che taglia fuori le vecchie parrocchie come le vecchie sezioni. Ma se la politica si fa spettacolo tv, la società non sembra assecondare queste trasformazioni: lustrini e paillettes poco si conciliano nella pancia dello stivale con un sentire che si carica di malumori, rabbia, malanimo. Un sommovimento che durerà molti anni prima di provocare il terremoto del biennio ‘92-’94, ma che nell’estate del 1986, appunto, si appalesa con una prima scossa tellurica che solo il sismografo dei media rileva. Perché tra Natta sul divano della Carrà e il baudismo che tramonta è la radio che s’incarica di fornirci un ulteriore indizio della trasformazione in atto. Lo fa con un’emittente, Radio Radicale, che in crisi per l’aumento dei costi denuncia il rischio di chiusura e per spingere il governo ad intervenire vara una singolare forma di protesta: sospende i programmi e al loro posto una trentina di segreterie telefoniche dal 10 luglio accolgono i messaggi di solidarietà degli ascoltatori. Aperti i microfoni, i messaggi, al massimo di un minuto, cominciano ad arrivare. Sono messaggi che esprimono perlopiù vicinanza alla causa, anche se non manca il dileggio. Questo per alcuni giorni, fino a quando i redattori non decidono di rendere pubbliche le telefonate mandandole in onda h24. L’effetto della scelta è dirompente: la questione della sopravvivenza della radio passa in secondo piano, derubricata da una valanga di registrazioni che cresce in maniera esponenziale e in cui gli italiani danno voce agli istinti più indicibili. Sono messaggi che di radicale possiedono solo le incredibili modalità espressive, messaggi d’amore, di tifo sportivo, invettive e insulti di vario genere, inni al fascismo o perfino al nazismo, ingiurie contro negri, ebrei, froci, meridionali terroni, nordisti polentoni. Poi c’è chi canta, chi registra una filastrocca, chi bestemmia, chi finge un orgasmo, chi manda affanculo, chi parla a capocchia, chi invoca i forni crematori, chi protesta per quelle stesse telefonate, chi si fa pubblicità, chi soffre per un amore perduto e chi s’offre per un amore mercenario. Anche se i temi più frequentati alla fine sono quasi sempre quelli: Nord contro Sud, metallari contro paninari, comunisti contro fascisti, tifosi contro tifosi. La bestemmia, in particolare, sembra esercitare sugli anonimi italiani un’irresistibile fascino: urlata al telefono, accompagnata con proclami a Benito o ad Adolfo, scagliata contro i milanesi o i meridionali. In questa sarabanda pecoreccia dove la pernacchia è il gesto più civile ci sono punte di sublime creatività, come quando una signora napoletana, alludendo agli scioperi della fame di Pannella, conia un distico memorabile: "nuie a fame a facimme senza o sciopero, la nostra è na fame radicale". Dunque nelle ultime settimane di luglio e nella prima metà di agosto su Radio Radicale andava in onda una, fino ad allora inedita, apoteosi della parolaccia e delle offese: ma più che di una rivoluzione (la presa di parola degli esclusi: c’era chi la teorizzava) si trattava piuttosto della rivelazione che accanto all’Italia oleografica dei santi, poeti, navigatori c’era un Paese anonimo di razzisti e bestemmiatori del tutto ignoto ai retori della nazione. Pure il mito del latin lover veniva travolto dal fiume delle sodomizzazioni promesse via telefono: «Quelli del Nord vogliono metterlo in culo ai meridionali, i quali minacciano la stessa sorte ai nordisti. Ma non eravamo un popolo di amanti latini?» c’era chi coerentemente si chiedeva in una delle chiamate. Ad un certo punto, dunque, l’esperimento politico sfuggiva completamente di mano ai suoi promotori per diventare microfono aperto sulle viscere di un Paese che si dimostrava più brutto e cattivo di come lo si pensasse. Certo, a giocare a favore c’era un clamoroso effetto diretta, la goliardia risorta dopo il tramonto delle ideologie, l’esibizionismo del selfie ante litteram con i media allora disponibili, c’era il piacere della trasgressione oscena, tanto più libera quanto anonima, il gioco demenziale del ragazzino che registra per la prima volta la sua voce. Il tutto legato dal narcisismo di masse di individui in fuga dalla società, come andava raccontando Cristopher Lasch, e dal filo rosso di un’intolleranza indistinta che andava da chi faceva il verso al Duce: «La parola d’ordine è una, e una soltanto, annate affanculo!», a chi enfaticamente invocava «tutti in galera!». Visto ex post negli anni successivi si parlò di magma ribollente e nascosto emerso all’improvviso tra la sorpresa dei più, espressione della peristalsi di un Paese dove già s’annunciavano le leghe padane e la mutazione individualista assecondata dalle tv berlusconiane, si disse di uno straordinario esperimento socioantropologico e via analizzando; visto con gli occhi dell’oggi, più di trent’anni dopo, fa molta impressione piuttosto l’assonanza con i linguaggi social, l’hate speech, l’odio in rete, la gratuita violenza verbale del web. Colpisce come affiorino proprio in quel frangente i nuclei di quegli universi frammentati che nei decenni successivi avrebbero dato vita alle tribù del calcio, al sessismo machista, alle leghe padane, all’antipolitica dei vaffa, ai fascismi ritornanti, ai gruppi emarginati delle periferie. Ma lo si sarebbe capito dopo. Paolo Vigevano, direttore dell’emittente, affermava che quanto accaduto era un evento unico e senza precedenti, annunciando di avere inviato al sociologo Ferrarotti uno scatolone pieno di materiale registrato per farci sopra una ricerca sociologica. Che in realtà non arrivò mai. In ogni caso tra luglio e agosto del 1986 era andato in onda via radio il più grande esperimento di accesso libero ai media mai verificatosi prima, privo di qualsiasi filtro o censura, capace di calamitare un esercito di cittadini di fronte allo spettacolo del microfono dato alla gente, format degenerato di quello nato nella stagione delle radio libere. La gente, ecco il punto: a fare il suo ingresso sulla scena pubblica, in quella circostanza forse per la prima volta, era proprio un soggetto privo di identità economica, sociale o di classe che presto sarebbe assurto a protagonista della grande trasformazione politico mediatica italiana. Prima che sul video con Santoro, “la gente” si materializzava in modulazione di frequenza, dando vita al primo embrione di quel soggetto trasversale che prendeva il posto di concetti come popolo o classe operaia. La kermesse proseguiva fino a quando, alla metà di agosto, l’intervento dei magistrati, che sequestravano le segreterie telefoniche per vilipendio alle istituzioni, apologia del fascismo e istigazione al genocidio, non vi metteva fine. Un provvedimento che, come scrisse Miriam Mafai, rassicurava solo la nostra coscienza: «Quando scoppia un tombino anche il passante più distratto scopre che sotto la strada scorre una fogna. E puzza. Ma una volta rimesso a posto il tombino perché pensare a cosa c’è sotto?». Così rimesso a posto il tombino avrebbe coperto ancora per moltissimo tempo i cattivi odori che provenivano dal sottosuolo della Penisola. «Ma che Paese è mai questo?» si chiedeva qualche giorno prima della chiusura, avvenuta il 14 agosto, uno dei pionieri italiani della sociologia dei mass media Giovanni Bechelloni: «Questa Italia al microfono esiste davvero? Quanto è consistente? Da che cosa è prodotta? Chi la rappresenta?». Si augurava che qualcuno la esplorasse, questa Italia, «prima che sia troppo tardi: prima che questa faccia nascosta della luna si trasformi in un mostro». Non accadde. Ma dopo un paio di mesi il Parlamento votava una legge che concedeva all’emittente la possibilità di accedere alle stesse provvidenze pubbliche previste per i giornali di partito. Radio Radicale era salva.

Assistenzialismo, corruzione, costo della vita: anche l’Istat smaschera i luoghi comuni sul Sud. Una ricerca dell’Istituto ci consegna un’Italia più unita di quanto pensassimo: purtroppo più sui vizi che sulle virtù. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 24 agosto 2021. Finalmente i mantra sul Sud cominciano a cadere uno dopo l’altro. L’occhiello del mio ultimo saggio, “Il lupo e l’agnello”, era: “Dal mantra del Sud assistito all’operazione verità”. Pare che anche l’Istat certifichi quelli che sembravano solo pii desideri di meridionalisti generosi con il Sud.

Prima il tema era che il Sud era stato inondato di soldi. Oggi si scopre che la spesa pro capite è più bassa al Sud che al Nord. E l’obiettivo che si vuole raggiungere è quello dei Lep, cioè di avere perlomeno dei livelli essenziali di prestazione. Nessuno parla di avere una spesa pro capite uguale, perché significherebbe togliere tanti soldi alle realtà territoriali del Nord.

L’altro era che il costo della vita fosse più basso; poi si scopre che in realtà una serie di utilities, che al Nord sono gratuiti o a prezzi politici, vengono pagati a prezzi di mercato. E si pensi all’acqua che molte attività turistiche, oltre che private, devono comprare; oppure all’esigenza di avere dei centri elettrogeni per sopperire alle continue cadute di energia elettrica, o ancora all’esigenza di svuotare le fosse di raccolta delle acque nere, di nuovo pagando le autobotti a prezzi impossibili, perché moltissime abitazioni non sono servite da fognatura pubblica. E si pensi, infine, all’esigenza assoluta di avere un’automobile privata, poiché i servizi pubblici di mobilità sono talmente dispersi e inefficienti da richiedere il possesso di un mezzo privato. E non parliamo del cosiddetto digital divide che non permette in alcune realtà di avere un contatto in fonia, altro che la possibilità di lavorare con la fibra ottica sui dati.

Altro mantra che è stato sconfessato è quello di una maggiore corruzione. Il Mose di Venezia ci ha fatto capire che la corruzione e la criminalità si annidano in tutti gli appalti pubblici. In realtà già il cinema aveva messo alla berlina tale modo di vedere le cose in molti film. In “Benvenuti al Sud” Alessandro Siani e Claudio Bisio ci facevano ridere su un Paese che ancora non ha completato l’unità socio-economica.

Come sempre l’arte anticipa la ricerca, il film prendeva in giro il nordico, intriso di pregiudizi e di idee da bar dello sport. Per cui il napoletano diventava pizza e mandolino oltre che poltroniere, e il siciliano era rappresentato con coppola e lupara. Sembra che quell’Italia – così caratterizzata da essere in realtà due Paesi diversi per reddito, produzione industriale, occasioni di lavoro, opportunità di riuscita sociale, per esportazioni pro capite, per dotazione infrastrutturale, per presenze turistiche, per tasso di occupazione e di disoccupazione, per presenza di asili nido, per servizi sanitari, e potremmo continuare all’infinito – sia più unita sul piano dei comportamenti civici.

I VALORI CONDIVISI

Se a livello di reddito pro-capite la differenza tra Nord e Sud, per esempio, è di più di 40 punti percentuali, senza contare che al Nord in una famiglia vi sono due redditi e al Sud solo uno, sul piano invece dei «valori condivisi di cittadinanza a livello territoriale non si osservano grandi divari nella valutazione dei comportamenti virtuosi» dice il rapporto Istat. Sarei sempre molto cauto nel valutare le evidenze di simili rapporti. Infatti, spesso le risposte possono essere in qualche modo influenzate da quello che sembra, nella mente dell’intervistato, il modo di pensare corretto. Per esempio, se chiedi se sei d’accordo sul voto di scambio magari la risposta è no. Ma poi i risultati della classe politica che viene eletta sono in totale contraddizione con tale risposta, poiché il ricorso al voto di scambio è uno dei mali atavici di un Mezzogiorno che non sceglie una buona classe dirigente, ma che si lascia gestire da una classe dominante estrattiva, che evidentemente nel voto di scambio pone la sua possibilità di successo. Il fatto che, dal punto di vista territoriale, la pratica clientelare nella ricerca del lavoro sia leggermente più accettata al Nord che al Sud e nelle Isole mi pare un dato da approfondire. Mentre mi convince di più il dato sulla poca condanna dell’evasione che il Nord, malgrado si parli sempre di Sud, in genere tollera e alimenta. Così come quelli sugli scontrini e sulla ricevuta fiscale, che nessuno richiede, tollerando comportamenti evasivi tipici del genere italico. Che sia stigmatizzato quasi nella stessa percentuale in tutt’Italia il viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici mi pare una boutade, considerato il numero di viaggiatori che nei mezzi pubblici meridionali viaggia da portoghese.

ITALIA UNITA NEI VIZI

La ricerca dell’Istat relativa al 2018 bisognerebbe ripeterla periodicamente con metodi scientifici, dati dalla teoria dei campioni e campioni adeguati. Quella che è stata riesumata, considerati i dati vecchi, relativi al 2018, rivela molte cose interessanti, perfino che l’84% degli italiani condanna chi butta le cartacce per strada. E ce li distribuisce per maschi e femmine, per Sud e Nord, per giovani e vecchi. Insomma, l’Istat ci consegna un’Italia più unita di quanto pensassimo, purtroppo più sui vizi che sulle virtù, ma forse qualche approfondimento in più non sarebbe male, con commenti magari non in periodo ferragostano.

La ricerca sulle differenze territoriali. In Italia ci sono tre Sud: uno fertile, uno in ritardo e uno depresso che comprende Napoli e Palermo. Vittorio Ferla su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Altro che nord, centro e sud. Con quattro “Italie” e tre “Mezzogiorni”, il nostro paese è molto più diverso e complicato di quanto noi stessi lo disegniamo. Le differenze economiche e sociali sono elevate, anche all’interno di regioni che raccontiamo di solito come blocchi compatti. Le domande di sviluppo sono, dunque, molto diverse. E le politiche standardizzate di spesa pubblica possono risultare del tutto inutili o addirittura dannose a seconda del contesto in cui vengono promosse. La ricerca sulle differenze territoriali italiane presentata ieri dalla Friedrich Ebert Stiftung (Fes), la Fondazione di ispirazione socialdemocratica legata alla Spd tedesca, in collaborazione con la Feps, la Foundation for European Progressive Studies, offre una fotografia non banale del nostro paese. Cinque gli indicatori scelti da Francesco Prota, autore del rapporto e docente di Economia Politica all’Università di Bari, per raccontare le diversità della nostra economia. Primo: il tasso di disoccupazione, l’indice di dipendenza demografica, la quota di occupati nel settore ad alta tecnologia. Secondo: la percentuale di neet, giovani tra i 15 e i 29 anni fuori da istruzione, occupazione o formazione, di persone altamente qualificate e di assistenza dei bambini. Il terzo è un indicatore di prosperità e salute comprensivo di reddito medio lordo, presenza dei medici di famiglia, gap di retribuzione legati al genere, prezzi delle case. Il quarto indicatore comprende l’affluenza alle urne alle elezioni nazionali, gli investimenti in assistenza sociale, le connessioni a banda larga. Infine, è stata calcolata l’incidenza del bilancio migratorio interno, che mostra lo iato tra le aspettative autorealizzative delle persone e le carenze territoriali. Da questo mix di fattori emergono quattro Italie molto diverse tra loro. In testa le aree con standard di vita più elevati, ma che presentano rischi di esclusione sociale. Un totale di 10 province – pari a circa 12 milioni di abitanti – tra cui Milano, Genova, Trento e Trieste, Roma, le aree urbanizzate della Toscana e della Valle d’Aosta. Qui, la maggior parte delle persone ha istruzione elevata, redditi alti e buon accesso alle infrastrutture. Tuttavia, l’immigrazione preme sul mercato immobiliare e i prezzi delle case sono molto alti. In più, il divario retributivo di genere e il rapporto di dipendenza demografica sono piuttosto elevati. Con conseguenti rischi di esclusione sociale. Vi sono poi le regioni urbane più dinamiche: 35 province, tutte al nord (pari a 20 milioni di abitanti). Qui occupazione, reddito, rendimento scolastico e partecipazione sono superiori alla media e le condizioni di vita più attraenti. Tuttavia, l’immigrazione continua comporta pressioni sui sistemi infrastrutturali e una diversificazione delle opportunità sul mercato del lavoro. I rischi di esclusione sociale sono provocati dall’impatto dell’immigrazione, dall’aumento continuo del costo della vita, dal gap retributivo tra uomini e donne. La terza Italia è quella centrale, 31 province in tutto con circa 10 milioni di abitanti. È il centro del paese non solo per un motivo geografico ma anche economico. Dotato di un’economia solida, presenta una fisionomia particolare perché si incunea verso sud fino a comprendere la Basilicata e le aree metropolitane di Bari, Cagliari e Messina. I redditi e i prezzi delle case sono leggermente più bassi, minori le connessioni di banda larga. Ci sono più medici di famiglia per persona, il tasso di migrazione è leggermente positivo. Fanalino di coda sono 31 province con sfide strutturali significative: molte regioni del Sud, tra cui Sicilia e Sardegna, ma anche l’area di Imperia al nord. L’emigrazione nel corso dei decenni ha reso queste aree più arretrate: forza lavoro in calo, opportunità educative scadenti, mancanza di investimenti nello sviluppo economico. Il tasso di disoccupazione è relativamente alto, una quota maggiore di giovani non fa parte della forza lavoro, i redditi sono più bassi, tanti continuano ad abbandonare il territorio in cerca di migliori opportunità. All’interno di questo quadro nazionale, anche il Sud mostra importanti diversità territoriali. «Il Mezzogiorno non è un monolite. Esiste un Mezzogiorno capace di offrire maggiori opportunità occupazionali. Questo grazie a un territorio fertile e vibrante caratterizzato da un tessuto di imprese che non si limita al turismo e all’agricoltura ma comprende anche il settore tecnologico», spiega Francesco Prota. La situazione peggiora negli altri due Sud, fotografati dalla ricerca. Il Sud in ritardo, ma con un potenziale di sviluppo emergente: tutta la Sardegna (tranne Cagliari), la provincia di Messina in Sicilia e le province di Salerno e Lecce sulla terraferma (7 province per un totale di 3,5 milioni di abitanti). Un terzo della forza lavoro dipende ancora da posti di lavoro nel turismo e nell’agricoltura, pochissime persone lavorano nel settore dell’alta tecnologia. La produttività economica è relativamente bassa e il saldo migratorio è negativo. L’area del Sud più depressa coincide invece con la Sicilia, la Calabria e alcune porzioni di Puglia (Foggia e Barletta/Andria/Trani) e Campania (Caserta) e comprende grandi città come Palermo e Napoli. In tutto 20 province – pari a 12,6 milioni di abitanti – in cui sono alti i numeri dei disoccupati e dei giovani dipendenti dalle famiglie. Altissimi sono i tassi di emigrazione e scarse le infrastrutture sociali come gli asili nido. Un aspetto positivo è la disponibilità di Internet a banda larga spiegato dalla presenza di aree metropolitane ad alta attrattività turistica. Come influiscono queste informazioni sulle politiche pubbliche? «Vista l’alta varietà di situazioni territoriali non si può dare una risposta uguale per tutti. Serve una iniziativa composita che tenga conto delle differenze», spiega Prota. Secondo lo studio, gli elementi centrali di questa iniziativa sono tre: il lavoro, gli investimenti pubblici in istruzione e nel sistema sanitario, una strategia nazionale del governo contro le diseguaglianze. Vittorio Ferla

LA COERENZA MERIDIONALISTA DEL MINISTRO FRANCO E LA GUERRA DEI MANIFESTI. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 9 marzo 2021. Siamo al solito frazionismo deteriore. Manca l’intelligenza strategica e manca un’idea condivisa. Passano tutti il tempo a scrivere documenti inutili perché ognuno si deve distinguere dall’altro e si deve attaccare la sua medaglietta. Ognuno vuole essere interlocutore di qualcuno per avere qualcosa. Questa è l’autoreferenzialità che fa più male al Mezzogiorno perché fa male al Paese. Si tiri dritto con la coerenza meridionalista del piano nazionale di ripresa e di resilienza rifacendo una struttura tecnica centrale con la stessa missione che fu della Cassa di Pescatore negli anni del prestito Marshall e del miracolo economico italiano e si assuma dal centro l’esercito di “soldati” del diritto, dell’informatica e dell’ingegneria che dovranno cambiare la faccia delle amministrazioni meridionali unendosi a quel che di buono già c’è. Ho davanti agli occhi il testo più meridionalista che mi sia capitato di leggere negli ultimi due anni. Lo ha firmato il ministro dell’Economia e delle Finanze in carica, il bellunese Daniele Franco. Coincide con la Proposta di piano nazionale di ripresa e resilienza illustrata in Parlamento lunedì otto marzo. C’è tutta la coerenza meridionalista del trentino De Gasperi nei governi centristi della Ricostruzione italiana del Dopoguerra. Di principi, di metodo, di dettaglio. C’è lo spirito che ha ispirato tutte le battaglie di questo giornale, l’operazione verità sulla spesa pubblica e il ritardo della macchina amministrativa meridionale, la consapevolezza che il “nostro Paese soffre di forti eterogeneità lungo diverse direzioni: quella territoriale, generazionale e di genere”. Che sono in prima battuta Sud, giovani, parità di genere e, quindi, in seconda battuta quasi in toto Mezzogiorno. La prima disparità indicata ha la sua sintesi algebrica in un tasso di occupazione di oltre 20 punti inferiore a quello delle regioni del Centro Nord. La seconda disparità si racconta con la quota più elevata dell’Unione di giovani che non studiano e non lavorano e con la quota predominante di questa quota del disonore interamente collocata nelle regioni meridionali. La terza disparità è un tasso di occupazione femminile in Italia nella fascia 15-64 anni pari al 50% e, quindi, di 18 punti inferiore a quello degli uomini e di 8 punti inferiore alla media dell’Unione Europea. Domandina: dove ritenete che questa terza disparità sia smaccatamente più forte? Ve lo dico io: nel Mezzogiorno. Poche righe più sotto si legge “i piani finanziati con il PNRR possono contribuire ad accrescere il potenziale di sviluppo del Paese e devono farlo muovendo lungo le direttrici strategiche indicate dalla Commissione che sono la digitalizzazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale”. Siamo sempre realisticamente alla coerenza meridionalista e lo siamo, soprattutto, quando si pone l’esigenza di “un deciso rafforzamento delle strutture tecniche ed operative deputate all’attuazione degli interventi”, quando si parla di “logica di competenza orizzontale per assicurare la coerenza complessiva del Piano con l’obiettivo di riduzione dei divari territoriali” e quando, infine, si scrive che “solo con il coinvolgimento dei territori è possibile selezionare progetti in grado di soddisfare i bisogni di cittadini e di imprese”. Precisando che ciò è particolarmente vero “per i progetti nel campo dell’istruzione, della sanità, del ciclo di rifiuti, di trasporti e di mobilità in genere”. Siamo, ancora di più, alla coerenza meridionalista con le riforme della pubblica amministrazione, della giustizia civile, della semplificazione normativa trasversale e con il “rafforzamento delle strutture tecniche”. Basta, mi fermo qui. Di fronte a un’apertura di credito così lucida vi immaginate che le forze migliori del Mezzogiorno, il mondo intellettuale e dell’impresa, e i Capi delle Regioni si riuniscano tutti insieme? E che, per una volta, presentino un progetto Paese organico – questo vuol dire occuparsi del Mezzogiorno – e siano tutti insieme pronti a cogliere l’occasione irripetibile di fare progetti seri finalmente finanziabili e di potere assumere personale qualificato che inneschi il circolo virtuoso dell’efficienza per le pubbliche amministrazioni meridionali? No, tutti si sono messi a scrivere manifesti da separati in casa, ex ministri, presidenti e direttori di associazione, chi a titolo personale e chi no. Prolificano le nuove associazioni e i nuovi movimenti per non parlare delle chat. Siamo al solito frazionismo deteriore. Manca l’intelligenza strategica e manca un’idea condivisa. Passano tutti il tempo a scrivere documenti inutili perché ognuno si deve distinguere dall’altro e si deve attaccare la sua medaglietta. Ognuno vuole essere interlocutore di qualcuno per avere qualcosa. Questa è l’autoreferenzialità che fa più male al Mezzogiorno perché fa male al Paese. Si tiri dritto con la coerenza meridionalista del Piano nazionale di ripresa e di resilienza rifacendo una struttura tecnica centrale con la stessa missione che fu della Cassa di Pescatore negli anni del prestito Marshall e del miracolo economico italiano e si assuma dal centro l’esercito di “soldati” del diritto, dell’informatica e dell’ingegneria che dovranno cambiare la faccia delle amministrazioni meridionali unendosi a quel che di buono già c’è e uscendo per sempre dal labirinto delle divisioni e dei manifesti personali. Questa è la rivoluzione che serve al Paese intero. Al Nord come al Sud. Perché i diritti di cittadinanza negati delle popolazioni meridionali sono insieme la questione civile e la questione economica del Paese. Riunire le due Italie con la banda larga, i porti, i treni veloci e il Ponte sullo Stretto significa realizzare il più strategico dei progetti di transizione ecologica e digitale dell’Italia, non del Mezzogiorno. Significa uscire da venti anni di crescita zero perché si attua finalmente l’inclusione sociale. Significa fare ciò che ci chiede l’Europa che è anche ciò che serve all’Italia. Non c’è bisogno di questo o quel Manifesto per capirlo.

·        Gli errori sull’Euro.

Il testo di Alessandro Somma. “Quando l’Europa tradì se stessa”, le critiche al liberismo e i miti da sfatare. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il testo di Alessandro Somma Quando l’Europa tradì se stessa, che è uno dei libri più stimolanti sulla materia usciti in questo periodo, si compone, dal mio punto di vista, di tre tipi di osservazioni: condivisibili, non condivisibili, da chiarire in termini di sviluppo. Le riepilogo sinteticamente qui, mentre integralmente le potrete trovare sul sito della rivista Nomos. Anzitutto quelle condivisibili, a partire da una solida tensione federalista europea, su cui non mi soffermo puntualmente dandole positivamente per acquisite, se non tornandoci in conclusione. Il fine quindi è comune, anche se l’autore e io abbiamo vari dissensi sui mezzi. Ora passerei a quelle non condivisibili, che vado a commentare per ordine. Per prima cosa non mi ha mai convinto per intero la teoria, riproposta nel volume a pag. VII, che l’Urss e le cosiddette democrazie popolari avrebbero avuto comunque un effetto positivo sulle democrazie liberali. Qui è opportuno distinguere bene tra forze politiche e Stati. Per le prime la sensibilità è endogena, nasce da una crisi dello Stato liberale oligarchico. Questo accade ben prima del consolidarsi dei regimi politici delle cosiddette democrazie popolari. Le forze politiche di matrice socialdemocratica e popolare hanno tale sensibilità nel proprio Dna. Ovviamente, però, se ci spostiamo in termini di realismo politico sul livello degli Stati retti da democrazie liberali la tesi può essere considerata giusta, quella concorrenza ha aiutato a valorizzare il patrimonio genetico di quelle forze. In secondo luogo non mi sembra neanche convincente la tesi che dagli anni 80 dalla crisi delle ricette economiche precedenti sia scaturito un indirizzo univoco cosiddetto liberista (ibidem): vi sono state diverse linee politiche tra i vari Governi sia in relazione alle forze sociali ed economiche (con in alcuni casi accordi di sistema) sia di merito. Per dirla con una battuta non si può confondere Hayek con Giddens. Va presa sul serio, come sostengono tra gli altri Dilmore e Salvati, la profonda differenza, prima e dopo gli anni 80, che separa i filoni di liberalismo inclusivo (embedded) che intendono addomesticare il mercato da quelli di liberalismo fondamentalista (unfettered) che intendono ridurre al minimo i condizionamenti delle istituzioni e delle forze sociali. In terzo luogo sulla ricostruzione del federalismo di ispirazione cristiana mi sembra che esso dia il giusto spazio a quello di matrice tedesca (fermo restando che a me pare un forzatura ritenerlo in sostanza una variante del liberismo, come dimostra anche la citazione riassuntiva del modello di p. 109), ma manca l’analisi di quello, decisamente prevalente anche per gli influssi su De Gasperi e Schuman, che risale a Maritain (che peraltro influiva anche su Adenauer non meno degli autori tedeschi) e, in parte minore, anche a Mounier e al gruppo di Esprit. Il taglio del federalismo di matrice maritainiana è più spostato in chiave politica che non prettamente economica, sul principio di sussidiarietà orizzontale e verticale, sull’idea di una fedeltà plurima della persona a più livelli di appartenenza e non è affatto confessionalista. Non è definibile come liberista, anche se apprezzava il gradualismo dell’integrazione funzionale, il mercato unico come elemento di un processo federale politico e, soprattutto, non opponeva europeismo e atlantismo. In particolare suggerirei di tenere presente L’Uomo e lo Stato del 1951, di cui ricorre proprio quest’anno il settantesimo anniversario, in cui Maritain presenta in modo più sistematico la riconciliazione con la democrazia attraverso gli Stati Uniti, che poi ritroviamo in modo narrativo nelle Riflessioni sull’America, opera successiva del 1958: il primo capitolo demolisce il mito della sovranità una e indivisibile che la Rivoluzione aveva “conservato, ma trasferito dal re alla nazione” e l’identificazione tra diritto e Stato. Anche per questo è un errore ricostruire il pensiero di Delors, debitore di Mounier ancor più che non di Maritain, come liberista (p. 80). Delors è sempre stato sostenitore dell’integrazione politica, del coordinamento stretto tra politica fiscale e monetaria (come peraltro si riconosce a p. 85), ed era uno dei teorici della seconda sinistra che criticava lo statalismo ma in nome di finalità sociali da interpretare in chiave di sussidiarietà orizzontale e verticale. Da qui discende anche una diversa valutazione politica del piano Marshall: se per federalisti di orientamento diverso da quello liberale si intendono quelli maritainiani e anche socialisti, essi non avevano affatto l’obiettivo di «impedire la saldatura tra europeismo ed atlantismo» perché erano al tempo stesso sia europeisti sia atlantisti (p. 35). La critica risente del fatto che la sinistra comunista e socialista italiana, a differenza dei socialisti di quasi tutti i paesi Ue e dei socialdemocratici italiani, recuperò il dissenso prima sull’Europa e solo dopo sull’atlantismo (come si vede a p. 59 a proposito della Cgil), ma anch’essa alla fine dovette convenire già negli anni Settanta sull’indissolubilità di quei due aspetti. Peraltro, come sottolineato in sede politica da Giorgio Napolitano al momento della svolta del Pci, la conventio ad excludendum sul governo per le forze antiatlantiche non è ricostruibile come “esclusione” (come ancora si propone a pag. 36), ma come un’obiettiva autoesclusione. Il caso italiano è anomalo perché coinvolse anche i socialisti (come ricorda l’autore richiamando le riserve di Basso a p. 46), ma il Psi non solo si autoescluse dal governo in quella fase ma fu anche espulso dall’Internazionale Socialista. In quarto luogo anche la ricostruzione del federalismo liberale sembra un po’ unilaterale. Non è un blocco come sembra si voglia sostenere a p. 17, perché dentro di esso si sono mossi filoni diversi, più o meno aperti alle istanze sociali. In quinto luogo sembra obiettivamente semplicistico criticare la politica di allargamento a Est perché essa si basava anche sulla richiesta di privatizzazione, vista la precedente economia quasi per intero statalizzata, e perché non postulava una immediata facile convergenza sui diritti sociali che sarebbe stata incompatibile con l’adesione desiderata da tutti (p. 95). In sesto luogo mi sembra che la costruzione di strutture come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, dovuta alla riforma costituzionale del 2012 sulla scia del two pack, vada letta in modo del tutto diverso da come si fa a p. 130: è stata tutt’altro che una spoliticizzazione, è stata la premessa per una maggiore autonomia di decisione politica del Parlamento rispetto al Governo, che in precedenza deteneva il monopolio informativo. In settimo luogo non riproduco qui le osservazioni critiche della ricostruzione relativa al Mes, che secondo Somma resterebbero soggette a una condizionalità forte e su cui ho più volte argomentato in senso contrario, anche perché nel frattempo mi sembra che su questo si sia ampiamente argomentato in entrambe le direzioni, e soprattutto nelle istituzioni statali e comunitarie sia prevalsa la tesi opposta a quella dell’autore. Rispetto al terzo tipo di osservazioni, quelle da chiarire in termini di sviluppo perché, come tali, suscettibili di letture diverse, troviamo anzitutto l’osservazione che si è ridotta la sovranità sulle politiche fiscali e monetarie (p. VIII), ma tale considerazione a quale esito conduce? Aduna nostalgia verso il passato o a invocare che esse si sviluppino sulla nuova dimensione di scala europea? Parrebbe, proseguendo nella lettura, giustamente la seconda, dato che si rileva positivamente l’inizio di forme di indebitamento comune (p. IX). Fa bene, in conclusione, Somma a riproporre le ragioni di un compromesso rinnovato tra capitalismo e democrazia (p. 184), ma mentre lui descrive come dominanti quelle cosiddette liberiste, sottovaluta invece al tempo stesso quelle ben più forti di carattere nazionalistico, a cominciare dal fallimento della Ced fino ad arrivare alle resistenze sul ruolo della Bce sull’assunzione dell’obiettivo della piena occupazione. Il federalismo di Somma deve assumere come avversari non i liberisti, che sono molti di meno, ma i nazionalisti ben più potenti nei vari Paesi. In altri termini Somma sembra essere prigioniero di una contraddizione: per un verso parla ancora di un “pensiero dominante” (p. 172), liberista e nazionalista, però poi lui stesso ci fa vedere che esso non lo è più, rimarcando la prospettazione ormai evidente di un vera politica di bilancio federale con entrate e uscite ( p. 171). Scherzosamente potrei concludere che non è vigente la legge di Murphy: poste queste novità non andrà tutto nel peggiore dei modi come invece sarebbe accaduto se quel pensiero, criticato dall’autore, fosse ancora davvero dominante. Stefano Ceccanti

Gli “errori” di Prodi che hanno favorito la Germania nell’euro. Andrea Muratore su Inside Over il 26 febbraio 2021. L’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha avuto un interessante confronto con il senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa a L’Aria che tira. Il tema era l’euro e ci ha riportati, per qualche istante, a diversi anni fa, ai confronti serrati sul ruolo della moneta unica nei divari di competitività interni all’Unione Europea e sul suo futuro. La Russa ha rinfacciato a Prodi di aver negoziato un cambio troppo sfavorevole all’Italia con la valuta di riferimento dell’Europa, il marco, nel momento in cui da presidente del Consiglio contribuì a definire la fase intermedia dell’European currency union precedente l’entrata in vigore dell’euro. Mentre il Professore ha segnalato che a suo parere il principale impatto dell’euro sulla competitività dell’economia è stato legato al fronte interno, al mancato controllo sull’evoluzione dei prezzi dopo l’entrata in vigore della moneta unica l’1 gennaio 2002. Nel dibattito Prodi ha avuto sicuramente una ragione, sul fronte del cambio. Ma ha aggiunto al discorso diverse inesattezze e, soprattutto, come ricordato da La Verità, numerose omissioni che hanno posto il dibattito da un punto di vista estremamente parziale. Partiamo dal primo punto: il governo Prodi, nel 1996, negoziò con la Germania di Helmut Kohl un cambio di 990 lire per un marco che, al momento dell’ingresso dei primi dodici Paesi nell’area euro, comportò lo scambio di 1936,27 lire con un’unità della moneta unica. Carlo Azeglio Ciampi (ministro del Tesoro), Mario Draghi (direttore generale del Tesoro), Antonio Fazio e Pier Luigi Ciocca (Banca d’Italia) proposero questo compromesso poi formalizzato da Prodi e Kohl mediando tra la volontà tedesca di vedere un cambio 900-950 a uno e quella italiana di sfondare quota mille. Il Financial Times riconobbe, ai tempi, a Ciampi una mediazione attenta e capace; ma quando Prodi afferma di aver fatto “salti di gioia” dopo l’accettazione del cambio di 990 a uno da parte di Kohl dimentica di essersi presentato alla trattativa con i tedeschi dopo aver compiuto una drastica manovra correttiva da 16mila miliardi di lire nel giugno precedente per correggere un cambio che era volato a 1250 a uno. Oro colato per l’export italiano, meno per i tedeschi che chiedevano un’Italia più equilibrata nei loro confronti per non crearsi un pericoloso concorrente. L’Italia mise i suoi conti pubblici sul piatto per avere il via libera all’entrata nell’euro. E se da un lato si può dare conto alla tesi secondo cui, ai tempi, per il Paese c’erano ben poche alternative oltre alla scelta di percorrere il sentiero tracciato a Maastricht nel 1992, dall’altro si può anche rilevare che ben pochi furono i politici e gli uomini delle istituzioni che si accorsero della necessità di compiere quel viaggio con criterio e razionalità politica. Tra questi, sicuramente spiccano Draghi e il compianto Guido Carli; Prodi e buona parte della sua compagine di governo, da Pierluigi Bersani (fautore delle liberalizzazioni “alla inglese” di diversi settori) a Tiziano Treu (autore dell’omonimo pacchetto di leggi sul lavoro) furono invece più propensi a concedere riforme gradite all’Europa che a chiedere contropartite politiche. Dove Prodi sbaglia completamente è sul fronte dei prezzi. Nel dibattito a La7 ha di fatto scaricato su commercianti ed esercenti una grossa fetta di responsabilità, avallando la tesi secondo cui implicitamente il cambio di prezzo nel commercio sarebbe stato di mille lire per un euro, portando a un aumento generalizzato. Nulla di più sbagliato, guardando i dati dell’aumento dei prezzi dal 2002 in avanti rilevati dal tasso di inflazione. “Dal gennaio 2002 (dopo tre anni di euro come moneta bancaria) l’inflazione italiana effettivamente aumentò, da livelli di poco superiori al 2% fino a oscillare tra il 2,5% e il 3%”, commenta La Verità. “Restò su quei livelli dalla seconda metà del 2002 fino a tutto il 2003. Un tasso di crescita dei prezzi non scandaloso. Basti pensare che la soglia-obiettivo tuttora utilizzata dalla Bce è il 2%”, che le politiche monetarie dell’era Draghi hanno ormai definitivamente sdoganato come target. E veniamo alla maggiore omissione di Prodi, trasversale a questi due elementi. Se il cambio non fu”sfavorevole” per l’Italia, fu sicuramente relativamente vantaggioso a livello continentale per la Germania. Che col nuovo millennio inaugurò, imitata dai partner nordici, la strategia mercantilistica fondata sulla deflazione interna, sul contenimento della pressione dei salari e della domanda compiuta attraverso la radicale riforma del mercato del lavoro (riforme Hartz) e il pareggio di bilancio per alimentare la competitività dell’industria nazionale e conquistare quote di mercato grazie all’export. Già nel 2002 l’inflazione tedesca precipitò in pochi mesi dal 2% circa fino al 0,5%. Nel 2019 il Cep (Centrum für Europäische Politik) di Friburgo ha pubblicato un report molto dettagliato su vincitori e vinti a vent’anni dalla sua istituzione della moneta, sottolineando che mediamente tra il 1999 e il 2017, la Germania ha guadagnato circa 1900 miliardi di euro, ovvero circa 23mila euro per abitante, dalle politiche legate all’introduzione dell’euro. Guadagni connessi al decollo dell’export nazionale e concentrati principalmente nelle mani della grande industria manifatturiera. Non a caso, se nel 2000 l’export tedesco sopravanzava le importazioni di soli 3 miliardi di dollari, già cinque anni dopo avevano raggiunto quota 148 miliardi di euro. Per la posizione geo-economica della Germania in Europa le politiche deflazioniste e il contenimento della domanda interna, che sul medio periodo è stato pagato sotto forma di un aumento della povertà e dell’esclusione sociale, furono un vero e proprio trionfo, mentre il Cep ha ricordato che l’Italia per la competizione tedesca (e di Paesi come l’Olanda), tesa sostanzialmente a comprimere l’inflazione interna e a sorpassare i partner europei sui differenziali di competitività interni ha perso circa 530 miliardi di euro di Pil potenziale in un ventennio. Impossibilitata a svalutare la moneta ora comune al resto d’Europa e sfidata sul fronte industriale sul campo del costo del lavoro e dei salari, l’Italia vide quote di mercato sottratte da Berlino. Chi avrebbe dovuto vigilare su questo meccanismo e evitare che nella moneta unica si verificassero fenomeni di “pirateria” commerciale se non la Commissione Europea? Quali azioni ha intrapreso la Commissione europea per impedire questo meccanismo rovinoso per gli equilibri della nascente unione monetaria? Non ce ne ricordiamo nessuna. E chi era a capo della Commissione dal 1999 al 2004, ovvero nella fase più critica per il passaggio all’operatività effettiva dell’euro? Romano Prodi. Osservatore distratto della strategia mercantilistica di Berlino che, forte di una moneta formalmente svalutata, sfruttò a suo vantaggio la rendita di posizione garantitale in campo commerciale e finanziario dal relativo avanzamento della sua condizione rispetto a quella di Paesi come l’Italia. Che furono vittima più delle conseguenze strutturali ex post legate all’entrata in vigore dell’euro che delle condizioni di partenza. Solo che Prodi, a quasi vent’anni di distanza, si dimentica di aver omesso la vigilanza sulle prime, e più gravose, determinanti degli squilibri dell’area euro. Che l’economia italiana ha pagato con una stagnazione proseguita per due decenni.

·        L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve.

L’Italia perde 7 miliardi all’anno di tasse per colpa dei paradisi fiscali europei. Andrea Greco su La Repubblica il 9 marzo 2021. Lo studio biennale di Tax Justice Network censisce oltre 200 miliardi di gettito che imprese e privati dirottano e chiede a Bruxelles e a Draghi più trasparenza e un’aliquota comune sulle imprese. L’Italia perde quasi 10,4 miliardi di euro l’anno di gettito che dovrebbe andare all’Erario (il 2% del totale) per colpa dei paradisi fiscali: tre dei quali in piena Europa, e due fanno parte dell’Unione. I primi sei paradisi fiscali al mondo, messi in fila dal “Corporate tax haven index” 2021 pubblicato da Tax Justice Network, sono in ordine di rilevanza le Isole Vergini Britanniche, le Isole Cayman e Bermuda, Olanda, Svizzera, Lussemburgo. Qui si volatilizzano 200 miliardi di euro di tasse l’anno che dovrebbero finire nelle casse nazionali, e sarebbero risorse quanto mai preziose in un tempo come l’attuale. Si tratta di una quota rilevante dei 360 miliardi di euro a cui ammonta l’evasione mondiale, pure stimata da Tax Justice Network in uno studio dello scorso novembre.

Sono i paradisi europei a penalizzare l’Italia.

Il conto per l’Italia, anche decurtato dall’importo dei 3,5 miliardi di benefici ottenuti ai danni del fisco di altri Paesi – dato che pone l’Italia al 27° posto nella classifica compilata biennalmente dall’organizzazione di attivisti e ricercatori britannici, con l’1% degli abusi fiscali totali – è comunque salato: 6,77 miliardi di mancato gettito annuo, per circa due terzi a carico delle imprese, il resto dei privati. Affligge di più il fatto che il 90% di questo saldo s’involi verso uno dei sei paradisi fiscali comunitari: Olanda, Belgio, Cipro, Irlanda, Lussemburgo e Malta, come ha calcolato il ricercatore Gabriel Zucman in missingprofits.world. Una delle evidenze rilevate dall’analisi appena diffusa è che i Paesi che fanno parte dell’Ocse (quindi “sviluppati”) o loro succursali sono ai primi sei posti nella lista dei maggiori facilitatori di abusi fiscali. In ordine decrescente, si allude Isole Vergini Britanniche, Cayman e Bermuda – territory britannici oltremare – e poi Olanda, Svizzera e Lussemburgo. Seguono Hong Kong, Jersey (ancora Britannica), Singapore e al decimo posto gli Emirati arabi.

L’appello alla Commissione Ue e le proposte a Mario Draghi. Per questo la ricerca parla di “un’elusione in larga parte legalizzata e in qualche modo protetta da Bruxelles, almeno finora”, e si appella alla giunta comunitaria per dare segnali di cambiamento. “A fine febbraio la presidenza portoghese del Consiglio europeo ha annunciato l’approvazione del public country by country reporting, l’obbligo per le multinazionali di pubblicare fatturato, profitti e imposte pagate in ognuno dei paesi membri in cui operano. Una misura di cui si discuteva da anni in Europa, volta a far emergere le pratiche di ottimizzazione fiscale. Tax Justice Italia crede che la lotta all’elusione fiscale debba ritornare al centro dell’azione del governo: gli ultimi dati sulla crescita della povertà assoluta, che riguarda 5,6 milioni di italiani, oltre 1 milione di persone in più dopo la pandemia, rendono ineluttabile dare una risposta a questa piaga che erode la capacità dello Stato di raccogliere risorse e di finanziare lo Stato sociale”. Un’altra proposta dell’organizzazione è introdurre un’imposta minima globale sul reddito delle imprese, Paese per paese, sul modello Usa, applicando un’aliquota di almeno il 21% “per assicurarsi che tutte le multinazionali italiane siano tassate in tutti i paesi in cui operano”, oltre a rimuovere l’incentivo del Patent Box, considerato “un indice di fiscalità aggressiva” all’italiana.

L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve: è arrivato il momento di batter cassa. Carmine Gazzanni su Notizie.it il 05/02/2021. L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve: è arrivato il momento di batter cassa. Secondo gli ultimi dati aggiornati pubblicati dalla Corte dei conti e visionati da Notizie.it, nel 2019 il saldo resta negativo di 5,6 miliardi. L’Italia continua a versare all’Unione europea più di quanto riceve. Mentre a Roma imperversa la crisi di governo, in attesa di capire in che modo verranno utilizzati i 209 miliardi che spettano al nostro Paese per il Recovery Plan, a Bruxelles possono intanto festeggiare. Secondo gli ultimi dati aggiornati pubblicati dalla Corte dei conti e visionati da Notizie.it, nel 2019 (ultimo anno a disposizione) l’Italia ha versato al bilancio comunitario ben 16,8 miliardi di euro. «Ancorché in diminuzione rispetto al dato del 2018 (-1,4 miliardi, ndr) – scrivono i magistrati contabili – il livello totale dei flussi verso l’Ue nel 2019 è uno dei più alti degli ultimi sette anni». E sicuramente è molto più alto di tanti altri Paesi membri, se si pensa che risulta essere il quarto contributore netto (dopo Germania, Regno Unito e Francia) su 28 Paesi membri (27 senza il Regno Unito). Resta, tuttavia, la domanda: a fronte dei miliardi versati al bilancio di Bruxelles, quanto ha ricevuto il nostro Stato? «Le risorse assegnate all’Italia dal bilancio UE nel 2019 – si legge nella corposa relazione – sono state pari a 11,2 miliardi di euro». Esattamente come avvenuto negli anni passati, il saldo resta negativo, con 5,6 miliardi in più nella tratta che da Roma porta a Bruxelles. Ma c’è di più. Se ci poniamo in un’ottica più a largo raggio, il dato che emerge è ancora più dirompente. Prendiamo il settennio 2013-2019: il saldo netto cumulato è negativo per un ammontare di 36,38 miliardi. In altre parole: l’Italia ha versato in sette anni 36 miliardi e rotti in più di quanto abbia ricevuto. Per intenderci, parliamo di un ammontare superiore a una manovra finanziaria. Se volessimo spalmare queste cifre per tutti e sette gli anni, ecco che in media il nostro Paese ha versato ogni anno oltre 5 miliardi in più del ricevuto. È evidente che qualcosa non abbia funzionato finora. È, tuttavia, altrettanto vero che proprio a causa della terribile emergenza che stiamo vivendo, qualcosa è destinato a cambiare: «Non è possibile ignorare – spiegano ancora i magistrati – gli effetti dirompenti dell’emergenza da Covid-19 sul quadro economico europeo e l’ingente sostegno finanziario promesso dall’Unione per favorire la ripresa e mitigare l’impatto sociale della pandemia. I nuovi strumenti adottati dall’Unione sotto l’impulso della crisi sanitaria ed economica, nonché il nuovo bilancio pluriennale 2021-2027, di recentissima approvazione, invertiranno con ogni probabilità, anche sul piano finanziario, la tradizionale posizione di contributore netto dell’Italia, che sarà destinataria dal 2021 al 2026 della maggior parte dei fondi del Recovery plan e riceverà una quota importante delle risorse dei Fondi di investimento e strutturali europei (SIE)». In altre parole, la valanga di soldi che a breve – e crisi permettendo – arriverà in Italia, verosimilmente porterà il nostro Paese, una volta tanto, a ricevere più di quanto verserà. La relazione, però, si sofferma anche su quanto fatto (e non fatto) con i fondi arrivati in Italia. E, a quanto pare, ancora c’è molto da fare. Basti pensare che, nonostante dovesse essere già chiusa da un bel po’, numerosi progetti che hanno goduto dei fondi comunitari del settennio 2007-2013 ancora sono in alto mare: secondo l’ultimo aggiornamento risultano ancora da perfezionare le procedure di chiusura con contestuale pagamento del saldo finale per 12 Programmi operativi. Nel complesso, il livello di spesa dei fondi Ue indica che gli impegni si attestano al 31 ottobre 2020 al 68,32% (34,6 miliardi), mentre i pagamenti raggiungono solo il 38,36% (19,4 miliardi). Non va meglio sull’ambito delle frodi connesse all’utilizzo dei fondi comunitari: le segnalazioni Olaf (il comitato di controllo Ue) al 2019 sono state ben 588. Un dato che, se contestualizzato in termini economici, rende conto della gravità del fenomeno: «Per il primo semestre di comunicazione 2020 – scrivono i magistrati – gli importi ancora da recuperare (perché utilizzati irregolarmente, ndr) risultano rispettivamente di 24.579.386 euro per i Fondi strutturali e 30.789.080 euro per la Politica agricola». A chiudere il cerchio ci sono le pesantissime condanne che l’Unione europea ci ha inflitto per inadempienze o mancato recepimento delle direttive europee. Nel corso degli anni il nostro Paese è stato toccato da ben sei sentenze di condanna. Si va dalle discariche abusive alle ecoballe in Campania, passando per leggi che secondo l’Ue nascondevano aiuti di Stato. I conti fatti dai magistrati sono incredibili: dal 2012 al 2020 l’Italia ha versato oltre 700 milioni di euro a causa di tali sanzioni. Ecco: speriamo che da quest’anno non solo il nostro Paese possa ricevere più di quanto versa, ma che poi sappia anche utilizzare le risorse, senza multe e truffe. Incrociamo le dita.

Carmine Gazzanni. Laureato in filosofia e giornalista, scrive per La Notizia, Left, Donna Moderna e Lettera43. In passato ha collaborato con Presa Diretta (Rai3), L'Espresso, Narcomafie, Linkiesta. È tra i vincitori del Premio Di Donato 2018 e del Premio Rampino 2019. Con il libro-inchiesta "Nella setta" (Fandango Libri) ha vinto con la collega Flavia Piccinni il Premio Mattarella, il Premio Letterario Città di Como - sezione inchieste, il Premio europeo giornalismo investigativo e giudiziario. Cura una rubrica all'interno del programma "Linea Verde Life" (Rai1).

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Italia che siamo.

UNESCO. Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura

(EN) United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization

(IT) Organizzazione delle nazioni unite per la scienza, cultura e turismo

Abbreviazione: UNESCO

Tipo: agenzia specializzata dell'Organizzazione delle Nazioni Unite

Fondazione: 16 novembre 1945

Scopo: tutela del patrimonio culturale esistente, promozione dell'educazione, delle scienze e della cultura

Sede centrale: Parigi

Area di azione: 195 Paesi

Lingue ufficiali: Italiano, cinese, francese, inglese, russo, spagnolo

Motto: “Building peace in the minds of men and women”

Sito web, Sito web, Sito web, Sito web, Sito web e Sito web 

«Poiché le guerre hanno origine nella mente degli uomini, è nello spirito degli uomini che si debbono innalzare le difese della pace.» (Preambolo dell'Atto Costitutivo dell'UNESCO)

L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (in inglese United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, da cui l'acronimo UNESCO, pronuncia /u'nεsko/ o /u'nesko/) è un'agenzia specializzata delle Nazioni Unite creata con lo scopo di promuovere la pace e la comprensione tra le nazioni con l'istruzione, la scienza, la cultura, la comunicazione e l'informazione per promuovere "il rispetto universale per la giustizia, per lo stato di diritto e per i diritti umani e le libertà fondamentali" quali sono definite e affermate dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Fondata durante la Conferenza dei Ministri Alleati dell'Educazione (CAME), la sua Costituzione è stata firmata il 16 novembre 1945 ed entrata in vigore il 24 novembre 1946, dopo la ratifica da parte di venti Stati.

Storia

L'UNESCO venne messo a punto durante i lavori preparatori che si ebbero tra il 16 novembre 1945 e il 24 novembre 1946, nell'ambito della Conferenza dei Ministri Alleati dell'Educazione (CAME). Questo gruppo di Ministri dell'Educazione dei Paesi Alleati contro il Nazismo si riunì la prima volta a Londra nel 1942, in piena seconda guerra mondiale. Già a partire dal 1942 si manifestò tra i ministri europei, e per iniziativa della Gran Bretagna, l'esigenza della creazione di un organismo sovranazionale in grado di diffondere la cultura della pace, della democrazia e dell'uguaglianza degli uomini che si sarebbe dovuto occupare delle questioni intellettuali nel dopoguerra. Quasi immediatamente si sviluppò l'idea di costituire una organizzazione internazionale che avesse un impatto globale. Durante la Conferenza del 1943 venne redatto il testo dell'Atto Costitutivo dell'UNESCO, la Costituzione dell'UNESCO, che è stato firmato il 16 novembre 1945 ed è entrato in vigore il 4 novembre del 1946, dopo la ratifica da parte di venti Stati: Arabia Saudita, Australia, Brasile, Canada, Cecoslovacchia, Cina, Danimarca, Egitto, Francia, Grecia, India, Libano, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Repubblica Dominicana, Stati Uniti d'America, Sudafrica e Turchia. L'Italia è stata ammessa l'8 novembre 1947 all'unanimità durante la seconda sessione della Conferenza Generale che si svolse a Città del Messico. "Ammissione che fu perfezionata subito dopo, il 27 gennaio 1948, con il deposito a Londra dello strumento di ratifica dell'Atto costitutivo dell'Organizzazione da parte del nostro Governo. Questo riconoscimento ebbe il valore morale di un primo passo verso l'ammissione dell'Italia all'ONU, che stava purtroppo incontrando proprio in quel periodo notevoli difficoltà. In Italia, a ogni modo, una volta resa esecutiva con il Decreto presidenziale del 12 luglio 1949 la Convenzione di Londra sull'UNESCO, fu istituita la Commissione Nazionale per l'Educazione, la Scienza e la Cultura con il Decreto Interministeriale dell'11 febbraio 1950". Dopo la fine della seconda guerra mondiale molti Stati hanno deciso, per questioni collegate alla storia politica interna e alle vicende internazionali, di non partecipare più all'UNESCO ma sono poi tornate sui loro passi e attualmente l'Agenzia Specializzata delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e lo Sviluppo conta 195 Stati Membri e 11 Membri Associati.

Descrizione

Sono membri dell'UNESCO, dall'aprile 2016, 195 Paesi più 10 Membri Associati. Il quartier generale dell'UNESCO è a Parigi e opera programmi di scambio educativo, scientifico e culturale da Uffici Regionali che svolgono la propria attività su quasi la totalità del pianeta. I progetti sponsorizzati dall'UNESCO comprendono programmi scientifici internazionali; programmi di alfabetizzazione, tecnici e di formazione degli insegnanti; progetti regionali e di storia culturale; e cooperazioni internazionali per conservare il patrimonio culturale e naturale del pianeta e per preservare i diritti umani. Una delle missioni dell'UNESCO è quella di mantenere una lista di patrimoni dell'umanità: questi sono siti importanti culturalmente o dal punto di vista naturalistico, la cui conservazione e sicurezza è ritenuta importante per la comunità mondiale. Responsabile della fondazione dell'OANA, fornisce fondi al Consiglio Internazionale per la Scienza, è rappresentata da propri ambasciatori e promuove il Forum Universale delle Culture. Dal 2004 promuove anche il Network delle Città creative.

Sede centrale

La sede mondiale dell'UNESCO si trova a Parigi. All'interno di questo quartier generale trovano spazio per essere ospitati 186 Stati. La struttura venne realizzata dai tre designer Pier Luigi Nervi, Bernard Zehrfuss e Marcel Breuer, sotto la supervisione di un gruppo di cinque architetti di fama internazionale, chiamato Les Cinq, formato da Lucio Costa, Walter Gropius, Le Corbusier, Sven Markelius e Ernesto Nathan Rogers. Il complesso è formato da tre edifici principali, l'edificio a Y che ospita la segreteria generale dell'UNESCO, l'edificio a cura di Pier Luigi Nervi che contiene la sala conferenze, infine la sala del consiglio è nell'edificio ideato da Bernard Zehrfuss.

Controversie 

Bandiera dell'UNESCO

L'UNESCO è stata a volte al centro di controversie. Durante gli anni settanta e ottanta le nazioni occidentali, specialmente gli Stati Uniti e il Regno Unito, ritenevano che venisse usato dai Paesi comunisti e dal terzo mondo, come forum per attaccare l'occidente. L'UNESCO sviluppò un piano chiamato Nuovo Ordine Internazionale dell'Informazione, per fermare le presunte bugie e la disinformazione che veniva diffusa nelle nazioni in via di sviluppo. L'occidente lo respinse come un tentativo del terzo mondo e di alcuni regimi comunisti di distruggere la libertà di stampa; gli Stati Uniti si ritirarono dall'organizzazione in segno di protesta nel 1984 e il Regno Unito nel 1985 (il Regno Unito ha nuovamente aderito nel 1997 e gli USA nel 2003). Il 31 ottobre 2011 l'Assemblea generale dell'UNESCO ha accettato l'adesione della Palestina, con una votazione che ha visto 107 voti a favore, tra i quali quelli di Francia, Cina e India, e l'astensione di 52 altri Paesi, tra cui il Regno Unito. L'ammissione della Palestina ha creato un attrito politico con gli Stati Uniti e altri stati contrari, con un arresto dei finanziamenti a favore dell'organizzazione da parte di Stati Uniti e Israele. Il 12 ottobre 2017 gli Stati Uniti dichiarano la loro uscita dall'UNESCO. Il Dipartimento di Stato motiva la decisione sostenendo che negli ultimi anni la posizione dell'UNESCO ha assunto "persistenti pregiudizi anti-Israele". Il 31 dicembre 2018, gli Stati Uniti e Israele si sono ufficialmente ritirati dall’UNESCO. Nel febbraio 2012 l'UNESCO ha organizzato una conferenza su WikiLeaks non ammettendo ai lavori l'organizzazione di Julian Assange.

Tg2 Dossier: Italia, un patrimonio per l'Unesco. Il nostro paese quello che al mondo detiene il maggior numero di siti riconosciuti. rai.it/ufficiostampa il 4 dicembre 2021. Scoprire quanti luoghi in Italia siano considerati un tesoro da preservare per l’intera umanità. Si parlerà di questo a Tg2 Dossier nella puntata del 4 dicembre alle 23.20 su Rai2: “Italia, un patrimonio per l’Unesco” di Laura Gialli. 75 anni fa nasceva l’Unesco con l’obiettivo di favorire la pace fra gli Stati attraverso la cooperazione nel campo scientifico e culturale. Da qui successivamente la sfida di salvaguardare i siti ritenuti eccezionali per valore o bellezza culturale o naturale. Nel 1972 con la Convenzione di Venezia l’istituzione del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, con una lista di siti che da allora viene continuamente aggiornata. Attualmente l’Unesco riconosce 1154 siti. E l’Italia è in cima a questa classifica delle meraviglie, il paese al mondo che ne detiene il maggior numero. Una lunga lista che va dalla Valle Camonica e la sua arte rupestre, primo riconoscimento nel 1979, fino ai portici di Bologna pochi mesi fa. X. La puntata sarà riproposta domenica 5 dicembre alle 10.05 circa sempre su Rai2. Da Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli a Villa di Oplontis a Torre Annunziata; dalle ville e giardini Medicei alle residenze sabaude. Rai Cultura propone un viaggio tra le residenze extraurbane del potere, dall’età romana fino al XIX secolo, patrimonio dell’umanità, nel documentario in onda lunedì 27 settembre alle 22.10 su Rai Storia per la serie "I Siti Italiani del patrimonio mondiale Unesco". Tra i siti Unesco italiani è rappresentata una straordinaria serie di resti archeologici, complessi monumentali ed edifici storici fatti costruire in ogni epoca dalle élites al potere: imperatori romani, prìncipi rinascimentali, sovrani settecenteschi. Sono le abitazioni costruite fuori dai centri urbani e dedicate ai cosiddetti “ozii”, alle arti, alla letteratura, al relax. Edifici che, proprio perché ispirati da una maggiore libertà creatrice dei committenti, hanno spesso raggiunto forme architettoniche e artistiche più alte e innovative, vere e proprie espressioni di un’epoca.

Antonio Giangrande: Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 40 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

Da lastampa.it il 22 novembre 2021. I dati della Ricerca sui comportamenti di guida degli automobilisti in Italia «sono purtroppo molto lontani dalla media registrata negli altri Paesi europei dove il 90% degli automobilisti indossa le cinture anteriori e ben il 71% dei passeggeri quelle posteriori». Lo evidenzia l'Anas, in merito alla Ricerca Osservatorio Stili di Guida Utenti, commissionata da Anas e condotta dallo Studio Righetti e Monte Ingegneri e Architetti Associati con il contributo dell'Unità di Ricerca in Psicologia del Traffico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore è stata presentata oggi nell'ambito del convegno "Sicurezza stradale: obiettivo zero vittime" organizzato in occasione della giornata mondiale in ricordo delle vittime della strada. E sono allarmanti i dati relativi alla sicurezza stradale diffusi oggi dall'Anas, secondo cui un automobilista su 3 non utilizza la cintura di sicurezza, la metà dei bambini viaggia senza seggiolino e due giovani su 10 usano il cellulare alla guida. Lo afferma il Codacons, che attacca la mancanza di controlli sulle strade italiane. «Le trasgressioni al Codice della strada sono incentivate dall'assenza di controlli da parte delle forze dell'ordine - spiega il presidente Carlo Rienzi - Gli automobilisti continuano ad usare il telefonino alla guida o a non allacciare la cintura di sicurezza perché sanno di poterla fare franca e di non essere sanzionati per le violazioni commesse. E a nulla serve inasprire le sanzioni e introdurre misure più restrittive nel Codice della strada se poi non si è in grado di far rispettare le disposizioni e di sanzionare i trasgressori». «Ricordiamo - conclude Rienzi - che gli incidenti stradali hanno un costo sociale che ha raggiunto in Italia i 35 miliardi di euro all'anno, costo che potrebbe essere abbattuto incrementando i controlli lungo le strade e sanzionando con maggiore severità le violazioni del Codice della strada». 

Lo studio di Anas

Lo studio ha analizzato alcuni tra i fattori psicologici che influiscono sulla mancata percezione del rischio alla base dei comportamenti all'origine degli incidenti stradali, distinguendo tra le violazioni deliberate al codice della strada e gli errori del conducente (es. sviste, manovre o valutazioni errate). Il comportamento in violazione non dipende infatti da un problema nel raccogliere o elaborare le informazioni necessarie per attuare il comportamento corretto, ma da una scelta influenzata da fattori psicologici, psicosociali e motivazionali. In particolare l'analisi ha richiamato questi fattori associandoli ai dati delle violazioni riscontrate.  «Anas – scrive l’ente in una nota – in vista dello sfidante obiettivo di ridurre del 50% le vittime di incidenti stradali entro il 2030 è fortemente impegnata nell'implementare la sicurezza dei propri utenti agendo su più fronti contemporaneamente con un piano strategico». Primo tra tutti, l'aumento delle risorse da destinare alla manutenzione programmata: 15,9 miliardi (+44% rispetto alle precedenti annualità), per l'adeguamento e messa in sicurezza della rete anche attraverso pavimentazioni sempre più performanti. «Poi, il potenziamento dei settori Ricerca e sviluppo con il progetto Smart road, il progetto green lights per una illuminazione più efficiente e la realizzazione di barriere di sicurezza di ultima generazione. Infine la promozione e diffusione di una cultura della sicurezza stradale, muovendo dal dato che oltre il 93% degli incidenti deriva dal comportamento del guidatore». 

La psicologia del traffico

«L'interesse di Anas per questa tematica ci ha consentito di realizzare una ricerca che, integrando metodologie quantitative e qualitative, ha preso in esame sia il livello dei comportamenti dei guidatori sia quello sottostante, dei processi psicologici alla luce dei quali è possibile spiegare tali comportamenti. I risultati della ricerca rispecchiano in modo interessante la letteratura sulla percezione del rischio stradale e sui comportamenti di guida rischiosi. Tanto le violazioni registrate, che i comportamenti che portano alla distrazione, causa frequente di incidenti, appaiono riconducibili ai medesimi bias cognitivi: il ruolo dell'abitudine e dei vantaggi percepiti ci permettono così di spiegare i comportamenti rischiosi emersi dalle osservazioni su strada. La conoscenza del collegamento tra tali fattori alla base del funzionamento mentale dei guidatori ed i comportamenti di rischio potrà essere di aiuto ad Anas nella progettazione di interventi sia infrastrutturali sia di formazione». Lo sottolinea Federica Biassoni, docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Unità di ricerca di psicologia del traffico, che ha svolto l'analisi per Anas dei fattori alla base dei comportamenti alla guida, al convegno ''Sicurezza stradale: obiettivo zero vittime'' organizzato in occasione della giornata mondiale in ricordo delle vittime della strada. '«L'analisi della percezione del rischio è stata accompagnata anche da 17 interviste semi-strutturate a utenti delle tre differenti tipologie di strade e autostrade oggetto dell'indagine. L'obiettivo è stato quello di indagare le motivazioni percepite come sottostanti i propri comportamenti rischiosi e quelli posti in essere dagli altri utenti della strada. I primi riconducibili per lo più a stress, abitudine, mancanza di senso civico mentre i secondi ascrivibili a mancato uso degli indicatori di direzione, manovre di sorpasso a destra, sorpassi pericolosi, velocità rischiosa», continua Biassoni. «Invece in relazione alla percezione di sicurezza della strada, le dichiarazioni degli intervistati variano a seconda della tipologia di strada. L'82% del campione ritiene le strade sicure o non evidenzia una rilevante percezione del pericolo rispetto a tutte le tipologie di strade analizzate», conclude Biassoni.

Ma quali sono gli errori più frequenti e che, purtroppo, spesso possono costare la vita alle persone?

I seggiolini per i bambini e l’uso delle frecce

Secondo lo studio commissionato, infatti, il 49,47% degli automobilisti non utilizza i seggiolini per i bambini. Dallo studio è emerso anche che, per quanto riguarda gli indicatori luminosi - le frecce - il 55,63% non li accende per la manovra di sorpasso o rientro (76,46%), o per l'entrata (59,20%) o uscita (43,71%) da rampa. 

Guida con il cellulare all’orecchio

Due giovani su dieci, poi, guidano utilizzando impropriamente il cellulare. A stabilirlo è sempre lo studio commissionato da Anas. Del resto non è infrequente imbattersi in chi, mentre è alla guida, o usa il cellulare per telefonare o per inviare messaggi.  

L’uso della cintura

Altro aspetto che allontana gli italiani dalla media europea, è l’utilizzo delle cinture di sicurezza. Secondo lo studio, che ha analizzato i comportamenti di guida lungo tre differenti tipologie di strade e autostrade in gestione ad Anas (autostrada A90 Grande Raccordo Anulare di Roma, come strada extra - urbana principale la Ss 336 della Malpensa, e come strada extra-urbana secondaria la Ss 700 della Reggia di Caserta) di un campione di 6000 utenti, emerge come il 28,38% dei conducenti non allaccia le cinture, dato che si alza se riferito al passeggero anteriore (31,87%) e passeggero posteriore (80,12%). Insomma uno su tre non le utilizza. E si sa quanto l’uso della cintura possa proteggere da conseguenze gravi o mortali.  

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 28 ottobre 2021. 28 ottobre, data della Marcia su Roma di Mussolini, 99 anni fa. Per nostra fortuna siamo nel 2021 e non nel 1922. I fascisti non randellano né uccidono nelle strade né somministrano micidiali sorsate di olio di ricino. Oggi, violano il santuario della Cgil, fanno il saluto romano, ma, come insegna Trieste, basta un idrante e si squagliano. Il problema, come sempre è nel manico, ma il manico oggi è in mano a gente nell’insieme perbene. Non devono difendere trono o dinastia. La lezione del 28 ottobre, che forse nemmeno più i fascisti della Meloni celebrano, è che se lo Stato è debole, l’Italia è in ginocchio. Lo Stato non fu in grado di fermare le follie socialiste, affidò ai fascisti il lavoro sporco, alla fine fu travolto. Lo Stato non può essere buonista e nemmeno buono. L’indulgenza si paga. 28 ottobre, gli eredi dei socialisti di allora non assaltano i reduci. Si preoccupano di far fare carriera alle donne con le quote rosa e dei trans. I sindacati non occupano le fabbriche e non fanno scioperi generali. Li minacciano, come quello al bar che dice: tenetemi se no lo pesto. E guardano con gli occhi sgranati esterrefatti, il primo ministro Mario Draghi che si alza e se ne va, mollandoli lì al tavolo. Ne sono passati di anni, quasi 50, da quando l’annuncio di uno sciopero generale bastò per indurre un predecessore di Draghi, Mariano Rumor, a dimettersi. Oggi mi inferocisco quando cammino tranquillo su un marciapiede di Roma e mi sento sfrecciare da un lato un monopattino con due ragazzi a bordo. E incrocio, sullo stesso marciapiede, una bici con mamma e bambino che pedala in senso opposto. 

Sei assolutamente povero se spendi meno di 942 euro al mese

E L’Istat sentenzia che una coppia di over 60 a Milano è assolutamente povera se spende in consumi in un mese meno di 942 euro. Non sono riuscito a capire cosa ci sia nella lista della spesa dell’Istat. Dice solo che un italiano su 10 è in quelle condizioni. Ma un secolo fa, e anche mezzo secolo fa se è per questo, eravamo 7 su dieci in povertà assoluta, la fame era fame, i servizi igienici erano in comune sul pianerottolo, i cappotti si rivoltavano tre volte. Oggi, con buona pace dell’Istat, non risulta che si muoia di fame, tutti hanno almeno un telefonino, anche i barboni per strada. E il cappotto lo butti e ne compri uno in saldo da H&M o a Porta Portese. 

Anche solo 50 anni fa la vita era ben diversa

Erano gli anni di piombo. Se uscivi di casa, dovevi badare agli agguati delle Br. L’aria era satura di elettricità politica e dell’odore mefitico degli scarichi delle auto. Anche la voce della addetta al radio taxi di Milano trasmetteva odio. Merito delle generazioni che ci hanno preceduto e dei loro sacrifici. Certo, se in Italia c’è chi vota Beppe Grillo e la Meloni, vuol dire che abbiamo imparato poco. Ma per fortuna siamo nel mercato comune europeo, siamo in un continente senza dazi. (Quando ero bambino il dazio si pagava anche sulle uova e il burro che entravano in città, retaggio medievale a metà del ventesimo secolo. Se ne accorgeranno gli inglesi con la loro Brexit).

Un Paese di Serie B che è anche un miracolo, lontano da quel 28 ottobre

Da un lato siamo sempre un Paese di serie B, così ci considerano i grandi del mondo. Dall’altro siamo un miracolo, se pensiamo che quando Giuseppe Verdi esordì alla Scala, Milano era colonia dell’Austria, Venezia e Trieste erano lo sbocco al mare di Francesco Giuseppe e di Sissi. Siamo uno Stato da 150 anni, il Kenya da 60, Francia e Inghilterra da 700. Ai tempi di Mussolini e della sua fasulla Marcia su Roma, l’Europa aveva appena lasciato sui campi di battaglia dal Mare del Nord ai Dardanelli, 16 milioni di morti e 20 milioni tra feriti e mutilati. Con l’aggiunta di qualche milione perso per l’influenza spagnola.

I morti per covid in Europa si aggirano sul mezzo milione: progresso, educazione, medicine.

Nella storia, una imposizione fiscale sopra il 10% provocava sanguinose rivolte. Oggi superiamo il 50% e continuiamo a divertirci, viaggiare, mangiare: nemmeno il coronavirus ci ha fermato, ora siamo in pieno boom di turismo e di consumi. Speriamo che duri, è la nostra sola speranza.

PIETRO SENALDI per Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. «L'uomo non è cattivo; è egoista, ma può essere indotto albe ne se questo lo fa sentire migliore». Per questo Il posto degli uomini, seconda fatica letteraria di Aldo Cazzullo dedicata alla Commedia dantesca, è il Purgatorio, dove le anime dei morti scontano i loro peccati ma le sofferenze sono lenite dalla speranza e dall'attesa del Paradiso, luogo del bene assoluto. 

Uscito da meno di un mese, il libro arriva l'anno dopo A riveder le stelle, 250mila copie vendute, il romanzo nel quale l'inviato del Corriere della Sera racconta l'Inferno e, come prevedibile, è già un successo. «Perché Dante è il padre dell'Italia» spiega Cazzullo, «è l'unico nostro letterato conosciuto in ogni parte del mondo, il creatore della nostra lingua, il primo a definirci il "Bel Paese" e l'inventore di espressioni come "siamo a buon punto", "avere un piede nella fossa", "visione estatica" e di parole meravigliose come "antelucano" o di penitenza come "dieta"». «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello». Nel Purgatorio, VI canto, c'è una condanna inappellabile. Cosa penserebbe oggi Dante dell'Italia?

«Senza dubbio che in oltre settecento anni non è cambiato nulla. L'invettiva di Dante si scagliava contro un Paese diviso, feroce con gli sconfitti, dove solo i mediocri fanno politica, i capi cambiano di continuo senza che nulla cambi e una legge fatta a ottobre viene ritoccata a novembre. E non aveva ancora visto l'uno vale uno, i parlamentari nominati, la parabola di Renzi, i dpcm di Conte». 

Si arrabbierebbe?

«Certo perché era un passionale e un fervido innamorato dell'Italia; anche se era alquanto ironico e aveva una dote che oggi a molti uomini pubblici manca, quella del perdono».

Alla faccia del perdono, infliggeva pene piuttosto pesanti...

«In effetti Dante era molto severo nelle condanne. Quando incontra Filippo Argenti, che lo schiaffeggiò in piazza a Firenze, lo umilia senza pietà: "Con piangere e con tutto, spirito maledetto, ti rimani; ch' i ti conosco ancor sie lordo tutto...". 

Però riconosceva il valore del perdono edel pentimento: il destino di un uomo si gioca nel suo cuore. Dopo la battaglia di Montaperti, una sorta di Caporetto per Firenze, il senese Provenzano Salvani ordina di risparmiare i prigionieri tranne i nati nella città di Dante. E ciononostante lui non lo mette all'Inferno ma in Purgatorio, perché ebbe la forza di chiedere l'elemosina in piazza per riscattare un suo compagno d'armi, salvando così la sua anima».

L'Italia di Dante era spietata...

«Italiani brava gente è uno slogan che non ha riscontro nella realtà. Noi pensiamo di essere uomini di cuore, un po' melodrammatici, come nella sceneggiata napoletana, ma invece siamo un popolo tragico e feroce: non abbiamo un rapporto maturo con il potere, perché non crediamo nella politica e nello Stato. Il Palazzo di Giustizia diventa il Palazzaccio, il poliziotto lo sbirro...».

 Perché, il nostro Stato è credibile?

«Pare che si industri a confermare i pregiudizi che gli italiani nutrono nei suoi confronti. Pensa a Craxi: quando Scalfari lo paragonò a Ghino di Tacco, il bandito che chiedeva il pizzo a chiunque passasse da Radicofani, sulla Cassia, la via diretta per la Capitale prima che Fanfani facesse deviare l'autostrada del Sole costringendola a passare per Arezzo, il leader socialista anziché indignarsi iniziò a firmare i propri editoriali sull'Avanti con il nome del fuorilegge toscano». 

Ghino di Tacco è in Purgatorio, Craxi gli italiani l'hanno spedito all'inferno...

«È il destino di molti nostri leader: Mussolini appeso a testa in giù, Moro nel bagagliaio della Renault, Andreotti a processo per mafia, Mattei fatto esplodere in volo. Noi i leader li sappiamo blandire o abbattere, mai sostenere o criticare».

È quel che cercano, i signorsì...

«È il loro punto debole, ma noi li abbiamo abituati male: gli italiani al comando non vogliono una guida, un Virgilio, ma un padrone; da qui la girandola di innamoramenti e disillusioni». 

Che cosa cerca Dante invece?

«Lo dice: "Libertà va cercando ch' è sì cara. Per lui la libertà è il più grande dono che Dio ha fatto agli uomini. Però aveva una concezione diversa della libertà rispetto alla nostra: per lui libertà è far quel che si deve non quel che si vuole». 

Ma così non vale...

«In questo risiede la profonda, la più grande se non l'unica, differenza tra la società di Dante e la nostra: a quei tempi avevamo la certezza dell'aldilà, la paura della pena eterna, la speranza della salvezza. Questo possiamo invidiare al poeta e anche agli antenati: i miei nonni erano certi dell'esistenza di Inferno, Purgatorio e Paradiso come del fatto che il sole sorge e tramonta». 

Qual è il peccato che Dante non sopporta?

«Sprecare la propria vita. Dante non tollera gli ignavi, relegati all'Inferno, e gli accidiosi, in Purgatorio, quelli che stanno nella zona grigia senza schierarsi: sono condannati a correre a perdifiato urlandosi l'uno con l'altro di non perdere tempo». 

Quanto accaduto a Morisi, lo spin doctor di Salvini nei guai per un festino omo di droga e sesso è un contrappasso dantesco?

«Il male che hai fatto ricade su di te; questo è il contrappasso. Ma la punizione è diritto di Dio e non degli uomini per Dante, capace di pietà grande verso le anime punite: davanti a Paolo e Francesca sviene». 

"La gloria di colui che tutto move...". Dante amerebbe Draghi?

«Ma quel versetto apre il Paradiso, il libro tratta del Purgatorio». 

Solo i santi non passano per il Purgatorio: Dante metterebbe Draghi subito in Paradiso?

«Draghi ha già troppi laudatori e anche soltanto per questo Dante non s' accoderebbe agli elogi. Nel momento in cui accetti di far politica, metti in conto qualche secolo di Purgatorio. Dante manda in Purgatorio tutti i principi e i re d'Europa». 

 Anche Draghi, che ora ha il massimo consenso, è destinato a stancare in fretta?

«Ma lui non sta cercando di affermare la propria personalità». Dante ce l'aveva coi tedeschi... «"Oh Alberto tedesco ch' abbandoni costei... giusto giudicio da le stelle caggia sovra 'l tuo sangue...". L'invettiva contro l'imperatore che lasciava al suo destino l'Italia in preda a lotte intestine anziché "Inforcar li suoi arcioni" e occuparsene. Non ce l'aveva con i tedeschi, era per l'impero, una sorta di unità europea, ma era pure un geloso difensore delle libertà comunali e aveva una chiara idea dei valori italiani». 

Una sorta di leghista ante-litteram o di patriota meloniano?

«Le categorie politiche di allora sono troppo diverse da quelle di oggi. Se dovessi avvicinare la visione dantesca a quella di un politico moderno, evocherei Ciampi, che diceva di sentirsi livornese, toscano, italiano ed europeo».

Ma è un'utopia: perché non anche appartenente all'universo?

«Fino a un certo punto: Dante ha saputo rendere universali Firenze e l'Italia, per questo è ancora attuale e alcuni suoi personaggi sono ancora tremendamente vivi: pensa a Pia de' Tolomei, che resta in scena sei versi ma ha costretto perfino Marguerite Yourcenar a scrivere di lei». 

Dante era consapevole della propria grandezza letteraria?

«Si colloca tra i superbi, costretti a procedere sotto il peso di enormi macigni che li schiacciano. 

Aveva il desiderio di onori e gloria, che sentiva di meritare, e al contempo la consapevolezza della loro vacuità». In cosa lo abbiamo tradito?

«Non abbiamo fatto tesoro del suo insegnamento e siamo rimasti opportunisti, cattivi e divisi, scostanti ma costanti nella voglia di non cambiare. Sono difetti della natura umana, ma in Italia il bello è più bello e il brutto è più brutto». 

Se siamo rimasti così dopo settecento anni significa che è una questione di dna non di storia...

«Forse perché siamo un Paese misterioso e lungo». 

Come sono gli italiani oggi?

«Come Dante sulla montagna del Purgatorio: puri e disposti a salire alle stelle. La pandemia, con i suoi gravi errori, è stata la prova della vita e l'abbiamo superata». Cosa può fermarci? «Il narcisismo e un po' di sfiducia. I nostri padri, che hanno ricostruito l'Italia, credevano di più nel lavoro. Per Dante il narcisismo è l'amore inutile. Noi guardiamo solo il nostro ombelico: postiamo sui social quel che mangiamo e, quando constatiamo che agli altri non interessa nulla, ci sentiamo umiliati e insultiamo tutti, trasformando il nostro malessere in odio da social».

Modello no vax?

«Non vanno sopravvalutati, sono una minoranza. Dei no vax non mi piace l'aspetto individualista, non concepiscono che si possa fare qualcosa anche nell'interesse degli altri, non solo proprio e dei famigliari».

Reddito di cittadinanza e falsi invalidi: così i «furbetti» hanno sottratto allo Stato 15 miliardi in due anni. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 18 ottobre 2021. Ci sono i falsi invalidi, i cittadini che pur non avendo titolo percepiscono il reddito di cittadinanza, quelli che incassano la pensione dei parenti morti. Ci sono i medici che lavorano nel settore privato pur risultando in servizio in una struttura pubblica e i funzionari pubblici infedeli che prendono tangenti per agevolare le imprese nell’aggiudicazione degli appalti. Ci sono i “finti poveri” che riescono ad ottenere tutti i bonus previsti pur avendo un reddito largamente superiore a quello minimo. Nel periodo di pandemia da Covid 19, anche quando il Paese era praticamente fermo, c’è chi è riuscito a frodare lo Stato. Le cifre contenute nell’ultimo rapporto della Guardia di Finanza su sprechi e truffe nella spesa pubblica sono da record: in totale sono stati sottratti 15 miliardi di euro, il danno erariale causato dai dipendenti della pubblica amministrazione ammonta a 8 miliardi di euro. Da gennaio 2020 al 30 settembre 2021 ci sono stati 65.600 controlli e 12 mila fascicoli aperti per delega dei magistrati penali, circa 1.700 per la Corte dei conti. «Un impegno straordinario» perché, come conferma il generale Giuseppe Arbore, capo del Reparto che dispone e coordina le verifiche, «la platea già rilevante dei soggetti destinatari di risorse pubbliche è aumentata enormemente con il Reddito di cittadinanza e si è ulteriormente accresciuta con le misure previste dai decreti “Sostegni” e “Ristori”. Non sono furberie, ma un gravissimo danno economico e sociale». Sono 7.300 i controlli svolti, 269 i milioni di euro frodati. Un’indagine avviata dalla procura di Velletri per controllare pensioni di anzianità, di vecchiaia, erogazione dell’assegno sociale e contributo per l’invalidità ha incrociato i dati dell’Inps con quelli della Finanza. Risultato: 21 cittadini percepivano somme dovute a soggetti deceduti anche più di dieci anni fa con un danno per l’Istituto di previdenza di un milione e 400 mila euro. A Messina 260 cittadini hanno chiesto e ottenuto «“buono spesa”, “sostegno alle locazioni” e “buono baby sitting”» senza avere i requisiti. Tra loro «40 sono stati denunciati per indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato e falso in atto pubblico, gli altri 220 segnalati per l’irrogazione delle previste sanzioni amministrative». A Bologna, grazie all’autocertificazione, 154 famiglie prendevano “buoni spesa” per 600 euro al mese «dichiarando di essere indigenti mentre avevano regolare impiego, oppure il reddito di cittadinanza, l’indennità di disoccupazione, prestazioni sociali agevolate». Sistema identico a Napoli dove i beneficiari erano oltre 700. È uno dei settori dove altissimo è il numero degli illeciti tanto che la Guardia di Finanza «ha realizzato uno specifico dispositivo operativo volto al contrasto dei fenomeni di illecita apprensione concentrando l’attenzione su quelle posizioni connotate da concreti elementi di rischio». Sono oltre 217 i milioni di euro richiesti da chi non aveva titolo, più di 127 i milioni di euro già riscossi. «Tra i percettori abusivi — evidenzia il dossier — ci sono soggetti intestatari di ville e autovetture di lusso, evasori totali, persone dedite a traffici illeciti, appartenenti ad associazioni criminali di stampo mafioso, già condannate in via definitiva nonché stranieri non in possesso dei requisiti di residenza». Gli affiliati ai clan sono evidentemente specializzati nel riuscire a ottenere il reddito. A Reggio Calabria molte delle 300 persone denunciate per aver percepito le somme sono «‘ndranghetisti organici alle maggiori cosche della locride, già gravati da pesanti condanne passate in giudicato per associazione per delinquere di stampo mafioso». Uno di loro girava in Ferrari, altri due sono «detenuti per associazione di stampo mafioso». A Palermo su 1.400 percettori abusivi che hanno sottratto un milione e 200 mila euro allo Stato «145 hanno precedenti condanne per mafia». Situazione simile a Napoli: 120 denunciati per un milione e 200 mila euro percepiti illecitamente. Ed era proprio la criminalità ad aver gestito le «1.532 domande presentate nel 2020 da stranieri abitanti a Genova, ma privi dei requisiti necessari» che sono riusciti a guadagnare tre milioni e 500 mila euro. I 16 medici che a Civita Castellana, in provincia di Viterbo, risultavano in servizio in ospedale mentre svolgevano attività privata nel Poliambulatorio privato hanno frodato alle Asl 3 milioni di euro. In un ospedale romano sono stati invece denunciati 141 medici e paramedici «per aver permesso ad amici e parenti di eseguire accertamenti diagnostici completamente gratuiti e senza seguire le ordinarie liste di attesa». Il meccanismo era semplice: «Il medico accedeva al sistema, presentava la richiesta e dopo l’esame o le analisi consegnava il referto evitando il pagamento del ticket alla Regione Lazio. A usufruire della “corsia preferenziale” 523 tra parenti e amici di medici e infermieri che hanno frodato oltre 323 milioni di euro». 

Mattia Feltri per "La Stampa" il 12 ottobre 2021. «Dovreste baciarci per le strade, è grazie a questi ragazzi disadattati se non è arrivato il fascismo». Roba del genere Beppe Grillo l'ha ripetuta spesso - questa è del 2016 - e per una volta ci aveva visto giusto. Il pessimo dei cinque stelle è di aver eccitato il malcontento e di averlo innalzato con campagne surreali a quote virulente; il buono è di averlo sottratto alla furia delle piazze per inscatolarlo dentro un unico coso, il Movimento, capace di contenere e disarmare ogni rabbia, ogni frustrazione, ogni psicosi. Poi però i ragazzi disadattati, cioè gli eletti, sono andati a sbattere contro la realtà. Carlo Sibilia, per esempio, il sottosegretario all'Interno, quello convinto che l'uomo non è mai sbarcato sulla Luna: quattro anni fa diede della matta a Beatrice Lorenzin poiché imponeva le vaccinazioni ai bambini, oggi dà del matto a chi ammicca ai no vax. Bravo Sibilia: un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l'umanità. Ma ora che i ragazzi disadattati hanno messo un po' di sale in zucca, e qui e là cominciano a parlare come altri esseri senzienti. Adesso si avvera la profezia di Grillo, gli arrabbiati lo mollano e in mancanza di meglio un tantino di fascismo a cui mettersi alla coda lo hanno trovato. Dunque a sinistra si può esultare per le vittorie nelle città, e trascurare che sono arrivate per l'astensione delle periferie, e si può pure sciogliere Forza Nuova, a questo punto cosa buona e giusta. Ma sarà soltanto illusione: il rapporto fra le classi dirigenti e un pezzo di popolo sì è guastato da molto tempo, e non lo si aggiusterà riducendo tutto a fascismo. 

Altro che minaccia fascista: ecco cosa interessa davvero agli italiani. Francesca Galici il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ultima rilevazione social ha evidenziato il solco tra i Palazzi e il popolo, preoccupato per il suo futuro in vista dell'introduzione del Green pass per i lavoratori. Il weekend di scontri nelle principali città italiana ha inevitabilmente influenzato il dibattito settimanale. La politica e i cittadini si sono confrontati su diversi temi legati a quanto è accaduto a Roma e a Milano e Socialcom ha restituito una fotografia fedele del sentimento del Paese attraverso il flusso delle discussioni social che, ormai, può essere considerato uno specchio affidabile del cosiddetto Paese reale. Le rilevazioni Socialcom hanno messo in evidenza come ci sia ormai una grande distanza tra i temi affrontati dal Paese reale e quelli che, invece, vengono spinti da una certa politica, che continua a muoversi sull'onda della propaganda ideologica, cieca davanti ai veri problemi degli italiani che riguardano soprattutto il lavoro. Al centro del dibattito nazionalpopolare c'è soprattutto il Green pass e ogni altro argomento, anche gli scontri, sono a questo correlato. Tra il 1 e l'11 ottobre, in Italia, "sono state oltre 1,53 milioni le conversazioni in rete sul tema, che hanno prodotto 7,26 milioni di interazioni". Numeri importanti che hanno raggiunto il picco il 10 ottobre, giorno successivo all'assalto alla Cgil e agli scontri, con 872mila pubblicazioni. È vero che le immagini di Roma in stato di guerriglia urbana hanno colpito l'opinione pubblica ma sono state le preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro e la conseguente sospensione del salario a catalizzare maggiormente l'attenzione. Il Paese reale è più interessato a capire come farà a mantenere le proprie famiglie piuttosto che a una ipotetica minaccia fascista, argomento che da sinistra viene sostenuto fin dai momenti immediatamente successivi allo scontro. Ma la percezione dei cittadini in questo momento è un'altra ed è alienata dalla preoccupazione per il proprio futuro lavorativo. Non c'è connessione tra le due posizioni e lo certifica anche il report Socialcom: "I termini legati al mondo del lavoro sono utilizzati con più frequenza rispetto al termine 'fascista'. Segno che gli italiani percepiscono con maggior preoccupazione il pericolo della perdita dell’impiego, o del salario, piuttosto che una minaccia estremista". Nella classifica dei termini correlati al macro argomento "Green pass", nei primi tre posti per numero di interazioni si trovano, in quest'ordine: "vaccinare", "15 ottobre", "vaccino". Seguiti da "entrare", "Italia", "vivere", "lavorare". Il termine "fascista" è scivolato al 14esimo posto.

E proprio questa distanza è alla base di un'altra importante rilevazione effettuata da Socialcom. Tutti i politici hanno subìto un contraccolpo nel sentiment ma, come si legge nel report, "a sorprendere più di tutti è il crollo del sentimento positivo nei confronti di Maurizio Landini, leader della Cgil". In particolare, in sole 48 ore il sentimento negativo verso Landini è passato dal 50% dell’8 ottobre al 91,21% del 10 ottobre. E questo nonostante l'assalto alla sede romana del sindacato di cui Landini è segretario. Socialcom fornisce un'ipotesi per giustificare questo calo, correlato a quello di Enrico Letta: "È presumibile ipotizzare che gli utenti abbiano giudicato affrettate le conclusioni dei due relative alla matrice degli atti di violenza".

Francesca Galici

Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

No pass, disoccupati, complottisti, centri sociali: le (molte) anime della protesta. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Non solo estremisti di destra o sinistra: c’è anche chi è in povertà, chi teme il futuro, precari, rider e pensionati. Il sociologo Domenico De Masi: ci sono cinque milioni di poveri assoluti e sette di poveri relativi, una insicurezza che tracima. Come i sanfedisti d’un tempo lontano, anche i ribelli del green pass possono pensare che lassù qualcuno li ami. Carlo Maria Viganò, dopo aver tuonato in videomessaggio contro «la tirannide globale» ed essersi spinto, crocefisso al collo, a sostenere che «i camion di Bergamo contenevano poche bare» e che ai medici d’ospedale era stato «vietato di somministrare cure» anti Covid, ha benedetto i diecimila di piazza del Popolo invitandoli a recitare il Padre Nostro prima della pugna. La predica complottista del controverso monsignore ostile a Bergoglio è stata poi oscurata dall’assalto di Castellino, Fiore e dei camerati di Forza nuova contro la sede della Cgil. E tuttavia sarebbe miope derubricare a folclore antilluminista da un lato o a rigurgito neofascista dall’altro il magma ribollente che da sabato scorso a sabato prossimo ha unito e unirà, in decine di sit-in e marce, sindacati di base e antagonisti, disoccupati e camalli, camionisti, mamme spaventate e pensionati indigenti, rider e insegnanti, contro il lavoro povero, l’esclusione dalla ripresa, la precarietà, le scorie di un anno e mezzo di reclusione collettiva: un mix di rivendicazioni per un nuovo autunno caldo al quale l’obbligo di passaporto sanitario sembra fare da collante e casus belli. Siano centomila come i manifestanti delle quaranta piazze di sabato scorso o il milione in sciopero lunedì secondo le sigle di base o, ancora, siano quelli che già domani si sono dati nuovi appuntamenti di battaglia, i disagiati di questa stagione ribollente si muovono veloci e si autoconvocano sui social (quarantuno le chat e i canali Telegram censiti a settembre dagli analisti di «Baia.Tech», con circa duecentomila partecipanti). Fatte salve le buone ragioni per sciogliere un’organizzazione che pare ricadere in pieno nelle previsioni della legge Scelba, le manifestazioni successive, da Milano a Trieste, da Torino a Napoli e in mezza Italia, dicono molto altro. «Al netto della violenza, la tensione sociale e le preoccupazioni per lavoro e condizioni di vita sono oggettive», ammette Valeria Fedeli, senatrice pd dalla lunga militanza sindacale: «È un passaggio anche drammatico, con scadenze come lo stop al blocco dei licenziamenti a fine mese e la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali. La responsabilità delle organizzazioni confederali è aumentata, le associazioni minoritarie cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio». Le ricorda il clima del ’77? «Con una differenza, però: stavolta abbiamo risorse di sostegno che dobbiamo fare arrivare, effettivamente, alla gente. Politica e sindacato devono controllare che avvenga».

Un carico di rancore

La sfilata di Milano sotto la Camera del Lavoro, con Cobas, Usb, neocomunisti e centri sociali che hanno strillato «i fascisti siete voi!» ai militanti della Cgil, in cordone a difesa della loro sede, ha impressionato per il carico di rancore in giornate (dopo il sabato egemonizzato da Forza nuova a Roma) che avrebbero dovuto portare solidarietà nella sinistra: pia illusione. Ai microfoni di Radio Radio (l’emittente romana cara al candidato del centrodestra capitolino Enrico Michetti), il segretario comunista Marco Rizzo (stalinista mai davvero pentito), dopo aver bastonato il Pd come «geneticamente mutato» e il green pass quale «misura discriminatoria», s’è avventurato a intravedere una «nuova strategia della tensione» (teoria peraltro rilanciata ieri alla Camera da Giorgia Meloni) che avrebbe «permesso» l’aggressione alla Cgil di Roma: «La polizia aveva tutti gli strumenti per fermare quel gruppo di persone. O hanno lasciato fare o qualcosa di peggio. Dopo quell’episodio si rafforza il governo e vengono criminalizzati i movimenti di opposizione. Si stringe sulle manifestazioni e i cortei d’autunno. Questo governo vuole la divisione del popolo perché così non si vedono 60 milioni di cartelle esattoriali che arriveranno, non si vedono le nuove norme sulla Green economy con un aumento delle bollette dell’energia». Se radicalismi di destra e sinistra s’incrociano nel complottismo, teorie di sapore antico si mescolano e si moltiplicano, oggi, tramite i moderni strumenti del mondo globale. Su Telegram i legali del Movimento Libera Scelta indottrinano chi, fra i tre milioni e passa di lavoratori sprovvisti di green pass, voglia tenere duro e chiamano allo sciopero generale per domani: «Non presentatevi al lavoro e impugnate la sanzione, il governo non ha dimostrato la persistenza dell’epidemia, si viola l’articolo 13 della Costituzione». L’avvocata Linda Corrias, citando Gandhi, invita anche «alla preghiera e al digiuno, che necessitano di dedizione e pertanto di astensione dal lavoro per essere in pienezza di grazia: questo l’informazione di regime non ve lo dirà mai».

Veri dolori e assurde paranoie

E mentre rimbalzano di post in post locandine sulle manifestazioni di domani (a Messina in piazza Antonello ore 10, a Roma in Santi Apostoli con la pasionaria Sara Cunial), Hard Lock si chiede se «qualcosa di concreto si organizzerà anche a Napoli» (dove sbucano gli immancabili neoborbonici), Michele impreca perché «le ore passano e tra poco resterò senza lavoro, Paese gestito da parassiti velenosi», si minacciano blocchi a porti, trasporti e rifornimenti, Gianluca è convinto che «ricattano i giovani con la discoteca e li spingono a vaccinarsi», e Angelo scolpisce il suo aforisma: «Non ci sono più i giovani d’una volta!». È questo insondabile minestrone di pubblico e privato, veri dolori e assurde paranoie a complicare le analisi. Perché se è ovvio che vadano presi molto sul serio gli 800 (su 950) portuali triestini i quali (cantilenando «Draghi in miniera/Bonomi in fonderia/questa la cura per l’economia») minacciano di fermare lo scalo, o i loro compagni di Genova che già hanno fermato Voltri non tanto per il green pass quanto per il contratto integrativo, una vertigine coglie chi si imbatta nella teoria del «transumanesimo» di cui Draghi sarebbe apostolo («fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti, siano questi umani, intelligenze artificiali, animali o eventuali extraterrestri...») o nelle «rivelazioni» sulla soluzione fisiologica inoculata a Speranza in luogo del vaccino e sulla letalità dei vaccini medesimi (un caso su due su un campione di... dieci) propugnata da una dottoressa altoatesina assai contrita. Per una testa balenga di «Io Apro» finito in copertina per essersi filmato durante l’incursione nella Cgil, «si sfonda! si sfonda!», ci sono tanti gestori di bistrot, bar e ristoranti piegati da diciotto mesi di provvedimenti ballerini. Per un violento, cento violentati.

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

 Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Doppie file e spintarelle, l’Istat rovescia l’Italia: meglio il Sud e le donne. Isaia Sales su La Repubblica il 22 agosto 2021. I dati sul senso civico nella percezione degli italiani rovesciano alcuni luoghi comuni. Dal Nord al Sud, dalle femmine ai maschi, dai giovani ai vecchi. Ma rivelano anche una nazione unita nel rispetto delle regole. E' passato quasi sotto silenzio un report dell’Istat sul “senso civico” dei cittadini italiani, cioè su quell’insieme di comportamenti e atteggiamenti che attengono al rispetto degli altri e delle regole di vita di una comunità. Da segnalare, tra i pochi scritti sull’argomento, lo speciale curato da Nando Dalla Chiesa sulla rivista Etica Pubblica (Rubbettino, 1/2021). Cosa viene fuori dalle risposte a questa rilevazione effettuata dal nostro istituto di statistica nel biennio 2016-2018? Che per quanto riguarda i comportamenti relativi al codice della strada, al divieto di buttare carta a terra, imbrattare i muri, viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici, parcheggiare in seconda fila o abusivamente, il livello di tolleranza degli italiani è molto bassa (e di...

Da “la Repubblica” il 27 settembre 2021. Caro Merlo, banalizzo con un esempio: su un mezzo pubblico, bus, tram e metro, il biglietto, pezzo di carta o videata su smartphone, dimostra che ho pagato. Come diavolo si controlla l'avvenuta vaccinazione se non con il Green Pass? Perché quelli che dicono di essere favorevoli alla vaccinazione non considerano il Green Pass come l'attestazione della vaccinazione? Per distinguersi, fanno ammuina su privacy, anticostituzionalità…Roberto Ferraro - Roma 

Risposta di Francesco Merlo:

Il paragone tra Green Pass e biglietti del bus è appropriato e aiuta a capire i No Pass. È stato calcolato che in Italia ogni anno 5 miliardi di passeggeri viaggiano su bus, tram e metro, e che un miliardo non ha biglietto: uno su tre. Certo, tra loro ci sono i poveri e la povertà è una brutta bestia, ma i poveri ci sono anche a Londra e a Parigi dove la proporzione è ben diversa e "viaggiare senza biglietto" non è la metafora di un'idea disordinata e pasticciata di libertà. L'Italia No Pass, che viaggia senza biglietto, è la stessa che salta le code, parcheggia in seconda fila ed eleva a pedagogia il fregare il prossimo. È l'Italia della prepotenza e non della solidarietà, l'Italia dei professori del "pensiero sregolato" che al decalogo liberale di Bertrand Russell aggiungono: "viaggiare senza biglietto".  È l'Italia del tié.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2021. Fare i conti in tasca alla gente non è operazione simpatica, ma quando ci sono di mezzo le tasse versate è legittima. Cosicché noi abbiamo dato un’occhiata veloce ai dati forniti dall’Istat, dalla agenzia delle Entrate e dal ministero dell’Economia, e abbiamo scoperto una realtà sconcertante. Non è una novità che l’Italia è al primo posto per possesso di abitazioni, autoveicoli e cellulari. Al secondo posto per quantità di animali domestici, quelli da compagnia. Ma questo è ancora niente. Sono 17 milioni i nostri connazionali che in un anno giocano d'azzardo, e 2,5 milioni coloro che abitualmente frequentano le 140mila sale scommesse sparpagliate lungo la penisola. Abbiamo il primato continentale quanto a macchinette mangiasoldi ubicate in 85mila esercizi commerciali: una slot machine ogni 143 abitanti. Già queste statistiche disegnano un quadro inquietante che contrasta con la conclamata povertà del Paese. Veniamo all'Irpef, l'imposta più diffusa. Il totale degli introiti ammonta a 171 miliardi annui. A fronte di oltre 120 miliardi investiti nel gioco d'azzardo. In pratica i biscazzieri fanno concorrenza allo Stato nelle riscossioni. Allegria. I fondi pensione riscuotono molto meno. Doppia allegria. Da notare che il 45 per cento della popolazione dichiara redditi annuali più bassi di 35 mila euro e versa solo il 2,62 per cento del totale dei tributi. I contribuenti che versano 100 mila euro ogni 12 mesi sono l'1 per cento dei cittadini. Quelli che dichiarano redditi superiori sono lo zero virgola. Con questa carenza di introiti bisogna mantenere 8 milioni di pensionati, oltre a 3 milioni di scrocconi del reddito di cittadinanza, senza contare i fruitori degli ammortizzatori sociali. In poche parole 20 milioni di compatrioti campano sulla gobba dello Stato. Non è finita: il57 per cento degli italiani mantiene il restante 43 per cento. Non siamo quindi un Paese povero, ma di profittatori. Se aggiungiamo gli effetti di due fenomeni accertati: l'evasione fiscale e l'economia sommersa, il quadro desolante si completa. In sintesi si constata attraverso le cifre ufficiali che i poveri in Italia sono quasi tutti figli della retorica, indubbiamente i miserabili esistono ma in quantità esigua. Mentre abbondano coloro che li finanziano. E se diamo un'occhiata al sistema fiscale, ci rendiamo conto in due minuti del motivo per il quale il debito pubblico è enorme. Vale sempre il detto immortale: il convento è in bolletta, ma i frati sono ricchi. Consigliamo la lettura di questo articolo documentato ai politici di ogni colore che parlano ogni giorno della necessità di creare il lavoro. Non capiscono che il lavoro c'è, mancano la capacità e la voglia di lavorare.

Edmondo De Amicis con Cuore ha inventato gli italiani. Infantili, egoisti, indifferenti. Ma anche generosi, sentimentali, coraggiosi. Lo scrittore ha forgiato un modello di cittadini e progettato il carattere di una nazione popolata da “brava gente”.  Marcello Fois su L'Espresso il 31 agosto 2021. De Amicis ha inventato gli italiani. Ne ha espresso le possibili coordinate di popolo, ne ha tracciato l’unico profilo unitario che soprassedesse alle immense differenziazioni che da sempre lo contraddistinguono. E tutto ciò perché aveva a «cuore» un modello di società utopistico fino al punto di pensare che si è felici solo a patto di essere felici di quello che si è. Una tautologia soltanto apparente. Un intento assai meno semplice di quello che sembrerebbe a prima vista. Perché lavorare su un materiale incandescente come una nazione da farsi, nonostante sulla carta avesse circa vent’anni, e cimentarsi a fornire punti di riferimento, e intenti comuni, a gruppi di cittadini che, fino a pochissimo tempo prima, erano vissuti in uno stato di separazione amministrativa e geografica, era un’impresa da sognatore, o da pazzo (…). Eppure quel sistema, arrivato intatto persino ai giorni nostri, quel dispositivo, da lui messo a punto, ha funzionato alla perfezione. Sul fatto che sia un bene che abbia funzionato si potrebbe discutere, ma il dato sostanziale è che, quando nel 1886 nelle vetrine delle librerie, nelle case, nei banchi di scuola apparirà Cuore, questi italiani endemicamente difformi, geneticamente polemici, caratterialmente lagnosi, difettosi nel senso di patria, politicamente pusillanimi, saranno diventati, definitivamente, «brava gente». Questo abito di alta sartoria che veste e nasconde qualunque bruttura, che individua nella bontà utopistica un punto di unione, un collante nella separatezza, e fornisce una exit strategy sociale, è il vero, geniale, contributo intellettuale, antropologico, politico di Edmondo De Amicis. Cuore è l’unico classico della letteratura italiana che non sia scaturito da esigenze prettamente letterarie. Ma da un impegno etico preciso. Qualcosa che ha a che fare con gli esperimenti giovanili del De Amicis prima che lasciasse l’esercito e che, nel 1869 aveva stilato per Le Monnier “Racconti militari”: libro di lettura ad uso delle scuole dell’esercito. Una propensione didattica che arriva da lontano dunque. E che, lo sapeva benissimo, poteva rischiare di inficiare il valore stilistico dell’opera. Cosa che di fatto avvenne, proprio per la perfezione con cui quel contenuto si adatta al contenitore. Quando la scrittura calza a pennello sparisce. Sicché a De Amicis vengono additati molti luoghi comuni che non erano tali prima che lui stesso li inventasse. E tuttavia di letteratura si tratta, considerando che, come detto, Cuore inizia esattamente dove finiscono I promessi sposi. E cioè da quella «birberia», detta anche pubblica istruzione, o istituzione scolastica, attraverso la quale si poteva ottenere una nazione «ben inclinata». Uno spazio dove si potesse riprodurre in vitro quella stessa difformità, quella stessa incapacità di coesione, quella stessa, infantile, tendenza a non assumersi responsabilità sociali, che caratterizzava, e caratterizza, il rappezzato popolo italiano. Per inventarsi gli «italiani brava gente» è stato necessario coltivarli in una serra dove tutti i loro difetti endemici potessero, almeno sulla carta, diventare pregi. E dove si potessero attivare quelle qualità intrinseche che avviassero un processo virtuoso di contributo e assistenza reciproci, anziché uno di rivendicazione e sopraffazione continui. Chi pensasse all’opera di De Amicis solo in termini prettamente letterari avrebbe però una visione assai limitata della portata che la letteratura può avere se professionalmente indirizzata. De Amicis è stato un professionista formidabile. Il suo modello di Italia ha come fine ultimo quello di salvare gli italiani da sé stessi. Ed è il risultato di un apprendistato che dura fin dalla prima adolescenza, quando il dubbio era tra fare lo scrittore o il soldato. È l’esito di un pensiero politico e letterario che formalizzando sardi sacrificali, lombardi guardinghi, romagnoli sanguigni, fiorentini artisti, liguri viaggiatori con poca spesa, siculi figli della Provvidenza, veneti semplici e introversi, campani col cuore in mano, e cosí via, ci ha convinto che il segreto di una nazione coesa era nella retorica di sé stessi. Cuore è quell’abito della bontà, o della bonomia, che costantemente rinneghiamo, ma che non abbiamo mai cessato di portare. È il mantello con cui copriamo la natura ferina che ci contraddistingue confezionato da un sarto, De Amicis, che combatte contro l’opinione corrente del suo e del nostro tempo. Che intravede cioè la possibilità di inventarsi un senso di popolo dove quel senso languiva e languisce (...). Perché in fondo l’Italia era ed è ancora la nazione che Benedetto Croce inquadra come ricoverata nel nosocomio dove devono stare rinchiusi gli affetti da una inguaribile malattia morale. La stessa precisa patologia nazionale che Piero Gobetti qualifica come analfabetismo democratico. Quella di un paese che Pier Paolo Pasolini condanna senza appello come «brutalmente egoista» e che Carlo Emilio Gadda, che pure era stato fascista, in Eros e Priapo, descrive come abitato da un popolo strepitosamente paradossale: «quei liceali trombati a mezzo, quegli universitari malinconici e titubanti con diciotto esami da smaltire fuori corso: o indocili perdigiorno che vivacchiavano di espedienti» (...). A caratterizzarci da sempre è quella condizione immobile che Umberto Eco, non certo tifoso di De Amicis, chiama Ur-Fascismo dalle caratteristiche spaventosamente immortali. De Amicis è dunque, innanzitutto, un’eccezione passata e presente. Un’eccezione tutt’ora. Un ingenuo progressista che crede di poter indicare una strada alternativa alla realtà di cui, come è capitato alla maggior parte degli intellettuali di questo paese, conosce perfettamente le storture: è stato soldato, è stato viaggiatore, è stato, e in fondo è rimasto sempre, socialista. Ha scritto il primo e unico romanzo italiano del suo tempo che tratti il tema dell’emancipazione femminile, goffamente certo; tuttavia Amore e Ginnastica resta comunque un tentativo straordinario di suggerire un tema caldo a una nazione possentemente maschilista. È un brav’uomo Edmondo, ha capito che la potenza delle proposte consiste nel coraggio con cui si fanno. Ha in mente il valore socialista con quel tanto di ingenuità utopica e capacità di scandalo che contraddistingueva i retti padri della patria. E s’ingegna di mettere a punto una nazione vera, coesa, certo schematica, ma possibile: empatica, solidale, filantropica. Indubbiamente un po’ melò, ma non lo sono anche Verdi e Puccini? Valore socialista dunque, non populista. A differenza di quanto si possa pensare i due sentimenti sono inversamente proporzionali piú che opposti in senso stretto. La parola buonista è l’ultimo parto di questo rapporto tra chi si sforza di essere brava gente e chi è convinto di esserlo. Ci sono i buoni che non si mettono mai in discussione e quelli che costantemente lo fanno: i buonisti appunto. Il valore populista è draconiano, quello socialista è dubitativo. De Amicis, dunque, per chi avesse la furbizia di leggerlo come va fatto, risulterebbe buonista, nell’accezione solidale che si vuol dare al termine, ma tutt’altro che buono. Se fosse buono non non metterebbe queste parole in bocca al maestro Perboni: «Voi... avete schernito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere. Avete commesso una delle azioni piú basse, piú vergognose di cui si possa macchiare una creatura umana. Vigliacchi!». Quel «vigliacchi» conduce il pensiero ai nostri giorni, all’inutile complessità di cui rivestiamo i nostri tentennamenti e la nostra incapacità generalizzata di nutrire un sentimento solidale nei confronti dei migranti che respingiamo o rinchiudiamo nei centri di accoglienza. È retorico quel «vigliacchi», è solo edificante, o semplicemente, pericolosamente, calzante? E poco piú avanti: «Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai piú gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore». Una specie di memento semplificato per tutti quegli «amanti del tricolore» che pensano sia possibile pronunciare nella stessa frase «prima gli italiani» e «terroni».

“L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore” di Marcello Fois (Einaudi, pp. 104, € 12) da cui è tratto il testo qui anticipato, arriva in libreria il 7 settembre. L’autore presenterà il saggio il 12 settembre al Festivaletteratura di Mantova (Tenda Sordello, ore 16) e a Pordenonelegge il 17, in un Elogio di De Amicis (ore 21, Spazio Gabelli)

Isaia Sales per repubblica.it il 23 agosto 2021. E' passato quasi sotto silenzio un report dell’Istat sul “senso civico” dei cittadini italiani, cioè su quell’insieme di comportamenti e atteggiamenti che attengono al rispetto degli altri e delle regole di vita di una comunità. Da segnalare, tra i pochi scritti sull’argomento, lo speciale curato da Nando Dalla Chiesa sulla rivista Etica Pubblica (Rubbettino, 1/2021). Cosa viene fuori dalle risposte a questa rilevazione effettuata dal nostro istituto di statistica nel biennio 2016-2018? Che per quanto riguarda i comportamenti relativi al codice della strada, al divieto di buttare carta a terra, imbrattare i muri, viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici, parcheggiare in seconda fila o abusivamente, il livello di tolleranza degli italiani è molto bassa (e di conseguenza la consapevolezza civile molto alta), mentre per le trasgressioni alle norme relative alla sfera economica e lavorativa (il non pagamento delle tasse, l’utilità di ricorrere a una raccomandazione, l’accettazione della corruzione) la tolleranza è molto alta e di conseguenza la virtuosità civica molto bassa. Se per 87,2% degli intervistati è grave mettersi alla guida di un’auto dopo aver bevuto alcolici e per l’84% buttare una carta per terra, invece ben il 28,3% accetterebbe di farsi raccomandare nel cercare lavoro e quasi un terzo considera lecito non pagare le tasse. Se per il 79% è incivile passare con il rosso e per il 78,2% guidare senza casco (e per il 74% parcheggiare in doppia fila), un quarto degli intervistati giudica la corruzione un fatto naturale e inevitabile.

La fotografia degli italiani. (…) L’Italia si allinea sempre più alle altre nazioni europee per quanto riguarda i comportamenti civili, se ne allontana per quanto riguarda il giudizio morale su alcuni fenomeni tradizionali dell’agire pubblico. (…) Il secondo elemento che caratterizza questa rilevazione Istat è la maggiore propensione al rispetto delle regole da parte delle donne di ogni età. (…) Il terzo elemento è constatazione di una tendenza alla trasgressione più alta tra i giovani e giovanissimi che tra gli anziani. E, quarto elemento, il titolo di studio non incide allo stesso modo nella considerazione dei comportamenti più consoni alle regole: per esempio, nell’evadere le tasse i laureati hanno atteggiamenti meno “virtuosi” di coloro che sono in possesso di titoli di studio inferiori.

Lo stivale capovolto. Ma la cosa più interessante della ricerca è che viene riscontrata una sostanziale uniformità nel rispetto delle regole tra Nord, Centro e Sud d’Italia. Certo, permane un leggero scarto tra le tre ripartizioni territoriali nel rapporto con i beni pubblici e nei comportamenti individuali nei confronti delle norme, ma in linea di massima le differenze tra gli italiani nel sentire civico sono meno accentuate delle differenze economiche. (…) La condanna verso chi getta le carte a terra è largamente condivisa sul territorio, pur se leggermente più diffusa al Nord, mentre si è più tolleranti al Sud per il parcheggio in doppia fila, mentre è stigmatizzato quasi nella stessa percentuale in tutt’Italia il viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici; invece, la condanna per comportamenti pericolosi alla guida è più alta tra gli intervistati del Sud rispetto a quelli del Nord e del Centro, mentre quasi si equivalgono i giudizi negativi su chi passa con il semaforo rosso, non indossa il casco o non allaccia la cintura di sicurezza.

Il Meridione che non ti aspetti. Anche lasciare dove capita i rifiuti è un comportamento bollato come grave dal 67% dei meridionali intervistati, certo con alcuni punti in meno rispetto a quelli del Nord, ma comunque una percentuale alta rispetto ai luoghi comuni diffusi in questo campo; mentre sull’affissione di avvisi e pubblicità sui muri, pali e cassonetti, la tolleranza è leggermente maggiore nel Centro-Nord. Ma, si scrive nel report: “Dal punto di vista territoriale, la pratica clientelare nella ricerca del lavoro è leggermente più accettata al Nord che al Sud e nelle Isole”. Interessante anche il dato sulla condanna del voto di scambio, della corruzione e dell’evasione delle tasse: pur essendoci una distanza di qualche punto percentuale tra Nord e Sud, essa non è così alta come si potrebbe immaginare. Impressiona poi il dato sulla richiesta della ricevuta fiscale o dello scontrino: quasi la metà degli intervistati non li richiede, e le percentuali sono quasi simili tra le diverse aree geografiche. E per quanto riguarda la corruzione il dato è ancora più “spiazzante”: considerano inutile la denuncia più i cittadini settentrionali intervistati, e addirittura più pericoloso rivolgersi alla polizia, rispetto ai meridionali. E via, che diamine! Neanche questi primati si vogliono più lasciare al Sud! 

Se lo Stato condanna il Sud: la questione meridionale ridotta a questione criminale. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno imprescrivibili. I pm non perderanno l’occasione di contestare l’aggravante mafiosa. Ecco perché. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 3 agosto 2021. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno praticamente imprescrivibili. Ed è proprio su questo punto che i pm di assalto avevano cercato e trovato un varco. La Riforma resta comunque un fatto di civiltà. “Comprendo” perfettamente che nella situazione attuale nessun “politico” se la sia sentita di “resistere” nella difesa del testo originario, approvato a unanimità nel Consiglio dei ministri.

I mafiosi e i delinquenti comuni. Se qualcuno avesse aperto bocca per dire che i tempi di prescrizione nei processi per mafia sono irrazionali e, probabilmente, indegni di un Paese civile si sarebbe trovato indifeso dinanzi ad un plotone di esecuzione che lo avrebbe fucilato facendolo passare per mafioso o amico dei mafiosi. Provo a formulare una domanda: cosa hanno di diverso i mafiosi rispetto ai delinquenti comuni? “Normalmente” sia gli uni che gli altri uccidono, minacciano, rubano, trafficano droga. Dal momento che i cittadini dovrebbero essere uguali dinanzi alla legge non si comprenderebbe perché ’ndranghetisti e mafiosi dovrebbero riceve un trattamento diverso. Ciò detto, riteniamo che il legislatore giustifichi il diverso trattamento per il fatto che, essendo la mafia una organizzazione ( a delinquere) presente da tempo e radicata in un determinato posto, i crimini commessi degli affiliati, oltre che essere odiosi come tutti gli altri, hanno come fine il controllo del territorio sottraendolo di fatto allo Stato. Quindi lo Stato è “naturalmente” in guerra con la mafia. A questo punto una domanda è d’obbligo: il processo può essere un momento di tale guerra? No! Per il semplice fatto che prima della sentenza tutti gli imputati dovrebbero essere considerati innocenti, e come la storia recente dimostra, in buona parte lo sono. Lo Stato ha tutto il diritto di giudicare ma non di muovere guerra a un solo innocente.

Il processo “Gotha”. Faccio un esempio. Ieri l’altro a Reggio Calabria s’è concluso il processo “Gotha” che contrariamente alla maggioranza dei processi allestiti in Calabria con operazioni spettacolari – ma miseramente falliti – ha retto al 50% (ripeto 50%) al primo grado di giudizio. Cioè su trenta imputati quindici sono stati assolti e quindici condannati. Molti degli assolti, prima della vicenda che li ha visti coinvolti, non erano mai stati in un’aula di giustizia. Per esempio, tra di loro è “capitato” uno stimato primario di cardiochirurgia, un ex presidente della Provincia; un senatore della Repubblica. Qualcuno tra questi ha trascorso qualche anno in carcere (complici) dei parlamentari pavidi. Tutti sono stati sotto processo da anni in quanto sospettati di essere mafiosi.

Sotto processo per 18 anni? A questo punto poniamoci una domanda: qualora la procura dovesse fare appello (cosa che probabilmente farà) verranno tenuti sotto processo per 18 anni e poi per altri 18 ancora? Non ci sono persone al disopra di ogni sospetto, né con diritto di essere tutelati più di altri ma in base a quale principio lo Stato potrebbe trattare queste persone molto peggio degli assassini seriali, degli stupratori, dai pedofili, tenendoli prima in carcere e poi sotto processo a vita? Non si tratta d’un “danno collaterale” accettabile pur di combattere la mafia ma di un abuso che ha come logica conseguenza la legittimazione e il rafforzamento delle mafie su un determinato territorio. Agli occhi di queste “vittime “lo Stato sarà una presenza tirannica di gran lunga peggiore della mafia. La verità è che le mafie devono e possono essere combattute prima e dopo del “processo” e con gli strumenti messi a disposizione dalla Costituzione. Viceversa, il processo dovrebbe assicurare un giudizio sereno ed in tempi umani attraverso regole e leggi uguali per tutti.

Se lo Stato condanna il Sud. Infine, la riforma Cartabia assicurerà nelle regioni del Centro- Nord una giustizia più efficiente ed umana mentre al Sud avremo in assoluta prevalenza il “processo infinito”. Infatti, nessun pm delle regioni meridionali perderà l’occasione, dinanzi ad una estorsione o ad un omicidio, di contestare l’aggravante mafiosa perché ciò gli consentirà tempi infiniti. E non sarà difficile in zone come la Calabria o in paesi come Africo o San Luca trovare rapporti di parentela, di frequentazione, di vicinato con qualche famiglia in odore di mafia. Il cerchio è chiuso. La questione meridionale diventa così, ed ancora di più, questione criminale da affrontare praticando la “giustizia dei sette capestri” aldilà del Pecos. Le mafie diventeranno l’alibi per spiegare il mancato sviluppo del Sud o per non ascoltare il grido del professor Gianfranco Viesti che ha dimostrato che dei fondi del Recovery solo 13 miliardi arriveranno nelle Regioni meridionali.

Ed in tutto ciò, la cosa che più fa salire il sangue alla testa è che non ci sia stata una sola voce in Parlamento, e neanche fuori, a difendere il Sud da questa follia giustizialista che avrà come unico risultato la mortificazione della Legge e della Costituzione da un lato e la legittimazione e l’invincibilità delle mafie dall’altro.

Estratto del libro di Fran Lebowitz "La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire" (Bompiani Ed.) il 30 maggio 2021. Milano è una cittadina piuttosto affascinante. Un bel duomo, L'ultima cena, una prestigiosa stazione ferroviaria voluta da Mussolini, la Scala e un sacco di altre splendide cose da vedere. Ci sono due categorie di persone, qui. Quelli che lavorano per i vari Vogue e gli altri. Quelli che lavorano per i vari Vogue sono molto socievoli e amano uscire. Quelli che non lavorano per i vari Vogue potrebbero anche essere altrettanto socievoli, ma con tutta probabilità non parlano un granché di inglese. Le persone che incontro sono quasi tutte comuniste, in particolare i ricchi. Milano è un posto parecchio politicizzato: la città è piena di graffiti che inneggiano al comunismo e di militari. Vestono tutti molto bene. In Italia c'è una grave carenza di spiccioli. Quando fai un acquisto e il negoziante dovrebbe darti qualche monetina di resto, al loro posto ti dà delle caramelle o dei francobolli. Dovesse capitare anche a voi, non sottovalutate per nessun motivo l'importanza dei francobolli. Pare infatti che in Italia non esistano uffici postali, quindi se avete bisogno di francobolli questa è la vostra occasione migliore. A Milano lavorano tutti, e se piove danno la colpa a Roma. A Roma non lavora nessuno, e se piove - sempre che se ne accorgano - danno la colpa a Milano. La gente passa la maggior parte del tempo a pranzare. Sono piuttosto bravi: Roma è senza ombra di dubbio la capitale mondiale del pranzo. Dal punto di vista architettonico la città è ricchissima e ci sono parecchie opere d'arte. I romani sono molto gentili e sempre interessati alle opinioni altrui. Uscendo dai Musei Vaticani, si può notare alla propria destra una cassetta delle lettere per i suggerimenti. Io ho proposto di montare dei pannelli fonoassorbenti sul soffitto della Cappella Sistina, per tentare di smorzare il frastuono che fanno i turisti tedeschi. Potrebbero anche riprodurre i dipinti di Michelangelo in vernice acrilica, così da preservarne la forma e aggiungere un tocco funzionale. Sono rimasta a Roma circa due settimane, e nel frattempo ci sono stati cinque grandi scioperi. Non so cosa chiedessero i manifestanti, né se lo abbiano ottenuto, ma con tutta probabilità non era quello l'importante. Scioperare, a Roma, è una questione di stile più che di dinamiche economiche. È una città folle, sotto tutti i punti di vista. Basta passarci un'ora o due per rendersi conto che Fellini gira documentari.