Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

I PARTITI

 

QUINTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sono Comunisti…

Incapaci ed incompetenti. Dietro il vaffanculo…Niente.

Se non anche il Vaffanculo a se stessi.       

Fratelli coltelli.

Andare…”ControVento”.

“Italia Più 2050”.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Contismo.

Giuseppe Conte.

Beppe Grillo.

Marco Morosini.

Luigi Di Maio.

Alfonso Bonafede.

Danilo Toninelli.

Lucia Azzolina.

Vito Crimi.

Roberto Fico.

Nicola Morra.

Vincenzo Spadafora.

Rocco Casalino.

Alessandro Di Battista.

Virginia Raggi.

Barbara Lezzi.

Roberta Lombardi.

Paola Taverna.

La Questione Morale.

La Variante Cinese.

I Raccomandati.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Lega. Il comunismo in sala padana.

Il Capitano.

Il Senatur.

Giancarlo Giorgetti.

Irene Pivetti.

La Questione Razziale.

La Questione Morale.

La Lega Omosessuale.

La Bestia e le Bestie.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Comunismo = Fascismo.

Razzisti!!

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

Le donne di sinistra che odiano le donne.

Gli omofobi Rossi.

La nascita (e la morte) del Partito Comunista Italiano.

Professione: Sfascio…

Riformismo e Riformisti.

Che fine ha fatto il sindacato?

L’Utopismo.

Il Populismo.

Le Sardine.

La Questione Morale.

Tassopoli.

I Raccomandati.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Domenico Marco Minniti.

Andrea Orlando.

Andrea Romano.

Arturo Parisi.

Dario Franceschini.

Debora Serracchiani.

Emanuele Macaluso.

Enrico Letta.

Goffredo Bettini.

Luca Lotti.

Luciano Lama.

Lucio Magri.

Marco Rizzo.

Gianni Vattimo.

Giuseppe Provenzano.

Massimo D'Alema.

Nicola Fratoianni.

Nicola Zingaretti.

Pierluigi Bersani.

Roberto Speranza.

Romano Prodi.

Rosy Bindi.

Il Renzismo.

Furono Radicali.

Che Guevara tra storia e mito.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli amici Terroristi.

Sante Notarnicola.

Cesare Battisti.

Dimitris Koufodinas.

Mara Cagol.

Sara Casiccia.

Walter Alasia.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia del 1968, quando il mondo impazzì e cambiò tutto in poche settimane.

 

 

 

 

 

 

I PARTITI

 

QUINTA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Domenico Marco Minniti.

Minniti, il funzionario del Pci che ha sdoganato la guerra alle Ong. L'ex ministro dell'Interno ha a lungo combattuto le attività di salvataggio delle Ong nel Mediterraneo. Il Dubbio il 7 aprile 2021. «La parola “Spezziamo-le-braccia-ai-migranti” non possiamo lasciarla alla destra. Se noi non picchiamo i neri, vince la destra che vuole picchiare i neri». Così nel 2017 Maurizio Crozza presentava in Tv la parodia di Domenico (Marco) Minniti, ministro dell’Interno tutto rigore e sicurezza. Nulla di strano, se non fosse che l’allora inquilino del Viminale è un esponente di spicco del Partito democratico. Ma Minniti è convinto che per battere le destre si debba giocare sul loro campo, importando nel vocabolario della sinistra le parole d’ordine con cui Matteo Salvini fa il pieno di consensi in piazza e nelle urne. Così il controllo dell’immigrazione diventa una questione di vita o di morte per il dirigente dem. L’intero mandato di Minniti al Viminale è incentrato sull’argomento. Fin dal primo giorno, quando comincia a lavorare sul “Memorandum di intesa tra Italia e Libia” mentre Angelino Alfano non ha ancora portato le sue cose alla Farnesina, dove è stato spostato dal nuovo premier Paolo Gentiloni. L’esponente del Pd ha già tutto in mente e a due mesi dal suo insediamento è già pronto l’accordo con i libici per bloccare i migranti alla fonte. Poco importa come. L’importante è la firma di Fayez al Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, sul documento controfirmato dal presidente del Consiglio italiano. Obiettivo prioritario del Memorandum: «Arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti». In cambio l’Italia avrebbe fornito «supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina». In altre parole: addestramento, mezzi e attrezzature alla forza di sicurezza comunemente definita Guardia costiera libica, formata da un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti. Senza parlare dei campi dove i migranti vengono trattenuti, considerati da tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani come dei veri e propri centri di tortura, dove i “prigionieri” subiscono violenze di ogni tipo. Ma bisogna battere Salvini e non si può andare troppo a spaccare il capello. Del resto, Minniti è persona abituata a ragionare secondo la neutra logica dei costi/benefici. Perché per perseguire un obiettivo ci vuole disciplina e un certo pelo sullo stomaco. Una lezione che avrà imparato fin da bambino, a Reggio Calabria, in una famiglia piena di militari. Il padre e lo zio sono ufficiali dell’Aeronautica e il giovane Domenico detto Marco cresce in un contesto in cui difficilmente è possibile sgarrare. Gli studi in filosofia e la militanza nel Pci sono forse il massimo della “devianza” consentita. Ma sulla disciplina non si scappa. Ed è con questa ferrea forza di volontà che Minniti, poco dopo il Memorandum, interviene per bloccare chi ancora si ostina a salvare vite in mare e portare in Europa migranti vivi: le Ong. Ad agosto del 2017, il ministro dell’Interno prepara infatti un decalogo da sottoporre alle organizzazioni non governative per continuare a svolgere la loro attività in mare senza conseguenze. Il “codice” prevede tra le altre cose: disponibilità a ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani; divieto a trasbordare i naufraghi su altre navi; divieto di ingresso nelle acque libiche; impegno a dichiarare alle autorità tutte le fonti di finanziamento per la loro attività di soccorso in mare. Ovviamente le Ong insorgono, soprattutto per la richiesta di trasformare le imbarcazioni da navi da soccorso in navi da pattugliamento con gli agenti a bordo. È da questo decalogo che parte l’inchiesta con cui la Procura di Trapani si prende la libertà di intercettare persino giornalisti e fonti. Ma Minniti – sottosegretario alla Difesa del governo Amato nel 2000, viceministro dell’Interno del governo Prodi nel 2006, sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri con delega ai Servizi segreti nei governi Letta e Renzi, prima di insediarsi al Viminale nel 2016 con Gentiloni – non ha tempo per fermarsi a discutere. Per raggiungere uno scopo non bisogna fermarsi, come gli avrà probabilmente insegnato Francesco Cossiga, l’amico con cui nel 2009 dà vita ad Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) una fondazione dedicata all’analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale. E Minniti non si ferma mai. Neanche adesso che da un paio di mesi ha lasciato il seggio alla Camera per guidare Med-Or, la nuova fondazione di Leonardo, la società partecipata dallo Stato, che opera nei settori di difesa, aerospazio, sicurezza. Praticamente tutte le passioni di una vita.

Pietro Senaldi per “Libero Quotidiano” il 28 febbraio 2021. Di buono ormai gliene era rimasto uno solo. Ma siccome si è stufato di rimanere in panchina a guardare mezze calzette che si litigano la palla, se ne è andato anche lui. Addio Parlamento e ciao Pd. Domenico Marco Minniti, deputato dem da vent' anni, portato ancora prima al governo da Massimo D'Alema come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ed iscritto al Pci dal 1974, lascia la Camera, o almeno ci sta provando, perché le sue dimissioni non sono ancora state accettate. L'interessato si sta impegnando, provando a convincere gli ex colleghi che andrà a fare qualcosa in conflitto d'interessi con l'attività da onorevole, ma ha a che fare con teste dure e resilienti. Nell'era in cui i tecnici scendono in politica, il politico per elevarsi sale. Ed è raggiante, pare essersi tolto un peso dal cuore. Il suo telefonino è tempestato di messaggini di felicitazioni dai compagni di partito che da due anni lo snobbano. Forse sono sollevati per essersi liberati di uno più bravo di loro; di certo lo rimpiangeranno, come probabilmente hanno passato gli ultimi mesi a rammaricarsi del ritiro dell'ex ministro dell'Interno dalla corsa alla segreteria, due anni fa, in favore dell'attuale leader Nicola Zingaretti. Ci fosse Minniti alla guida, oggi il Pd non sarebbe in balia delle correnti come un barcone di profughi, non avrebbe smarrito l'identità e si sarebbe dato da un pezzo un obiettivo politico. L'ex deputato reggino è un cervello in fuga dalla sinistra, alla quale non ne restano molti. Per i dem è una perdita enorme. Zingaretti e affini però non possono che battersi il petto e fare mea culpa per non aver utilizzato l'asso che avevano nella manica. Sono arrivati perfino a sbarrargli la strada quando l'Europa lo propose come commissario straordinario per la Libia. L'ex ministro fu bloccato dalle invidie interne e da quanti ritenevano che aver contenuto l'immigrazione clandestina ed essersi accordato con Tripoli gli aveva sporcato il curriculum. per la sicurezza Minniti andrà a presiedere una Fondazione, Med-Or, che Leonardo, ex Finmeccanica, la grande azienda a partecipazione pubblica che opera nei settori della difesa, della sicurezza e dell'aerospazio ha costituito apposta per lui. Missione: implementare la sicurezza sanitaria, formare le classi dirigenti, promuovere le relazioni internazionali e lo sviluppo economico e culturale. Teatro d'azione: tutto il Mediterraneo e il Primo Oriente, che significa fino all'India. Autonomia consentita: massima. A voler essere pungenti si potrebbe dire che va all'estero per aiutare gli immigrati a restare a casa loro. Di fatto l'ex Lothar di D'Alema sarà il vero ministro degli Esteri italiano e ricoprirà un ruolo molto più politico di quello che ha avuto negli ultimi due anni. La sua fondazione sarà una sorta di piattaforma grazie alla quale il nostro Paese farà politica estera al di fuori dei tradizionali canali diplomatici, come fanno i grandi gruppi industriali americani, francesi o tedeschi nel mondo. Quello dell'ex ministro dell'Interno al Parlamento è un addio senza possibilità di ritorno. Il nuovo ruolo istituzionale gli impone di non essere polemico, ma chi lo conosce sa della sua perplessità per la direzione che sta prendendo il Pd. D'accordo che la politica è un pendolo, ed è nelle cose che a una leadership forte ne segua una debole. A Veltroni successe Bersani. A Renzi quindi non poteva subentrare Minniti, ma Zingaretti è davvero troppo poco. Il segretario che non voleva il Conte due, ha schiantato poi il partito su Conte, arrivando a subire Draghi anziché intestarselo. Risultato, con SuperMario oggi come con Giuseppe ieri, i dem entrano al governo mesti anziché festanti, senza un programma che vada oltre la gestione del potere da parte dei tre capi corrente ministri. Draghi è destinato a durare e, dopo di lui, nessun partito sarà più lo stesso. Il Pd però è quello messo peggio nel riprogrammarsi, non ha una leadership e ormai neppure un'identità; per questo per uno come l'ex titolare del Viminale, che ama la politica e vuole farla, l'unica possibilità era andarsene. L'uomo ama i colpi di teatro, ha il gusto di stupire e ha lasciato tutti di sasso. I compagni di partito sono così distanti dalla realtà che non hanno intuito nulla, non hanno visto la mucca nel loro corridoio, direbbe Bersani, e la cosa è emblematica della distonia dei dem rispetto alla realtà e della loro incapacità di trovare un punto di collegamento con la realtà italiana, perfino con il loro mondo d'appartenenza. Via anche Minniti, al Pd resta una classe dirigente ipnotizzata dalla brama di governo, con capetti che sacrificano l'interesse del partito a quello personale e in balia di correnti che gli impediscono di gestire operazioni politiche, per le quali bisogna muoversi compatti e rapidi. Tra i progressisti è la stagione della spartizione di poltrone senza visione di Paese, degli inchini alla d'Urso per una passarella in tv e della rincorsa ai grillini per vincere qualche città e avere un seggio in più alle prossime elezioni. Meglio allora dirigersi altrove, specie se non si va a cercare fortuna ma a mettere a disposizione del Paese le proprie competenze che chi insegue Toninelli, Giarrusso o la Taverna non è più in grado di apprezzare. riproduzione riservata.

·        Andrea Orlando.

Tommaso Labate per 7- Corriere della Sera il 21 luglio 2021. «Credo che dipenda da una forte attrazione verso il kitsch», dice a un certo punto Andrea Orlando parlando dei suoi gusti musicali, che sembrano eterni figli di una vecchia musicassetta impolverata dalla custodia rigata, di quelle musicassette che giacciono dimenticate nell’angolo di una soffitta. L’albero politico-genealogico del ministro del Lavoro, che a vent’ anni ha fatto in tempo a essere eletto al consiglio comunale di La Spezia sotto le insegne del Partito comunista italiano, lo inchioderebbe all’ascolto perenne di un cantautorato rigorosamente impegnato. E invece no, nelle sue orecchie è tutto un Massimo Ranieri e Claudio Villa, Orietta Berti (quella d’epoca, senza Fedez) e Iva Zanicchi. «E senza dubbio, su tutto, la musica melodica napoletana. Sergio Bruni, Mario Abbate, Roberto Murolo, scendendo fino alle rivisitazioni più contemporanee, ai cosiddetti neomelodici o le rancheras messicane», sottolinea. E aggiunge: «Sono i suoni che mi arrivavano da bambino dagli altri appartamenti delle case popolari in cui sono cresciuto». Da almeno dieci anni, Orlando è un personaggio di primo piano della politica italiana, prima fila del Partito democratico, ministro dell’Ambiente, della Giustizia, del Lavoro. Questa è la sua prima intervista, diciamo così, sentimentale. 

È nato in una casa popolare, dicevamo.

«Non solo nato. Tuttora vivo a La Spezia in quelle che una volta si chiamavano le “case Fanfani”, dal nome del ministro del Lavoro che portò alla realizzazione dell’edilizia popolare. Sì, certo, avrei avuto la possibilità di comprare un’altra casa. Ma non l’ho fatto».

Il ministro del Lavoro del 2021 che vive in una delle case costruite a seguito di una legge promossa dal ministro del Lavoro della fine degli anni Quaranta. La chiusura di un cerchio.

«Era la casa in cui mio nonno viveva e che poi ha riscattato. Sono rimasto lì, non per vezzo o per chissà cosa. Se sei nato in periferia, sai benissimo che la periferia non è un’esperienza esotica, come la raccontano alcuni. È una cosa normale, che va trattata come una cosa normale. E che è cambiata moltissimo in questi anni». 

«Ripartiamo dalle periferie» si sente dire di continuo, nel centrosinistra.

«Una frase che a volte mi sembra contenere delle venature di classismo. Alcuni dicono “ascoltiamo le periferie” con lo stesso approccio con cui gli aristocratici del Settecento partivano per il Grand Tour». 

La sua biografia politica è sovrapponibile a quella di tantissimi comunisti italiani del Novecento. Con una differenza: lei è arrivato a fare il ministro; loro, dal 1948 al 1996, no.

«Vengo da quella scuola. Una scuola in cui ti insegnavano la disciplina, le forme, il rispetto per gli altri, anche per gli avversari. Una tradizione fatta anche di guerre personali, sia chiaro. Ma in cui il narcisismo dei singoli veniva tenuto sotto controllo».

Lei non è narcisista?

«Ho un narcisismo temperato».

Il suo esordio?

«Eletto nel consiglio comunale di La Spezia a vent’anni. Appena arrivato, il capogruppo mi dice: “Adesso te ne stai zitto e buono per almeno sei mesi. Guarda e impara”». 

Ha imparato subito?

«La prima volta che ho preso la parola, tanti mesi dopo l’elezione, è stata su una variazione di bilancio. Ci ho messo tre giorni interi a preparare un intervento di nemmeno cinque minuti».

Da quando ha compiuto 43 anni, tolto il governo gialloverde, lei è stato sempre ministro.

«La prima volta, nel 2013, presidente del Consiglio Enrico Letta, fu la più inaspettata». 

Giurò al Quirinale con una cravatta rossa.

«Quella cravatta ha una storia che dice molto di come la forma, in politica, è anche sostanza. Nel 2006, il giorno in cui avremmo eletto Giorgio Napolitano presidente della Repubblica, ero un deputato ai primissimi giorni di legislatura. Mi si sbrindella la vecchia cravatta che indossavo ed entro in Aula con giacca e camicia, alla Camera si può fare. 

Ugo Sposetti, all’ora tesoriere dei Ds, mi vede e mi dice: “Stai per votare per il presidente della Repubblica, esci da qua e vai subito a comprarti una cravatta”. L’ho fatto. Con quella stessa cravatta, sette anni dopo, avrei giurato per la prima volta da ministro dell’Ambiente. Davanti a me, guarda caso, il presidente Napolitano». 

La politica che dimentica le forme spesso sembra lontana dalla gente comune. 

«Dell’esperienza da ministro dell’Ambiente, tra mille cose, mi tornano in mente un’assemblea pubblica nella chiesa di Caivano, nella terra dei fuochi; oppure la prima volta che sono andato a Taranto dopo l’apertura della prima inchiesta sull’Ilva, cosa che un ministro della Repubblica non faceva da tempo. Da esperienze come queste ho capito una cosa fondamentale. Quando le persone hanno un problema grandissimo, non è vero che ne pretendono immediatamente la soluzione. Ma guardano a fondo quanto tu te ne interessi, quanto ti prendi carico di quel problema là. Ci sono state situazioni in cui la politica e le istituzioni hanno dato l’impressione di fregarsene. Magari sbagliata, ma l’hanno data».

Quanto trema la mano a un ministro del Lavoro in questo momento delicato?

«Lo sa perché mi sono battuto tanto per il blocco dei licenziamenti e, poi, per un superamento di quel blocco che fosse graduale e non immediato per tutti? Perché ci sono cose che i dati, le tabelle degli economisti e le statistiche non fanno vedere. Prenda il primo tragitto di uno che ha perso il lavoro». 

Quale tragitto?

«Il primo tragitto della lavoratrice o del lavoratore licenziato dall’azienda a casa. Pensi a una donna o a un uomo che hanno appena saputo di aver perso il lavoro e che adesso devono andare a casa a comunicarlo alla famiglia. All’angoscia di una situazione drammatica si aggiunge l’ansia di come dirlo. Sono cose che non stanno in nessuna tabella, in nessuna statistica, non stanno scritte da nessuna parte. Eppure ci sono». 

Le fa paura l’autunno prossimo?

«In una situazione di profondi cambiamenti e di radicali trasformazioni, come quella a cui ci ha portati la pandemia, un ministro del Lavoro ha il dovere di essere accompagnato dalle paure dei lavoratori e ha l’obbligo di agire di conseguenza. La crisi apre tantissime opportunità, come ogni crisi. Ma nel breve periodo, di fronte all’enormità dei cambiamenti che abbiamo di fronte, nessuno dev’essere lasciato da solo nell’affrontarli». 

Senza la cerniera dei partiti tradizionali, il vuoto tra le istituzioni e il singolo cittadino a volte sembra grande quando un oceano in tempesta.

«Io credo ancora nella funzione dei partiti, ovviamente aggiornata alle tecnologie e ai tempi che corrono. Organizzare la partecipazione non può essere un lavoretto improvvisato dal primo che passa. Richiede studio e dedizione». 

Avrebbe fatto meglio senza quel capogruppo in consiglio comunale che l’ha tenuta zitto per mesi?

«No, avrei fatto peggio. Mi è capitato di tornare in un consiglio comunale. I nuovi saranno anche più veloci di com’eravamo noi. Ma quelle forme ormai sparite, mi creda, erano sostanza».

Andrea Orlando, l'ultimo comunista: "Vivo nella casa popolare di mio nonno". Dago lo smonta: "Sta in centro a Roma e ha un alloggio in Messico..." Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Andrea Orlando, intervistato da Tomaso Labate su Sette, l'inserto del Corriere della Sera, sostiene di vivere ancora nella casa popolare di suo nonno. Insomma, il ministro viene incoronato l'ultimo comunista. Ma in realtà, rivela Dagospia, Orlando "vive cinque giorni su sette in un bell'appartamento in pieno centro di Roma. A La Spezia (dove c'è la casa popolare del nonno, ndr) ci va una volta al mese. E in Messico ha una casa dove 'svacanza'...". Quindi le cose starebbero diversamente da come le racconta il ministro del Lavoro a Sette, che, ricorda, "a vent’ anni ha fatto in tempo a essere eletto al consiglio comunale di La Spezia sotto le insegne del Partito comunista italiano". Orlando sostiene di amare "la musica melodica napoletana. Sergio Bruni, Mario Abbate, Roberto Murolo, scendendo fino alle rivisitazioni più contemporanee, ai cosiddetti neomelodici o le rancheras messicane" e tiene a sottolineare che "sono i suoni che mi arrivavano da bambino dagli altri appartamenti delle case popolari in cui sono cresciuto". Ecco, appunto, la casa popolare. Dice Orlando: "Non solo nato. Tuttora vivo a La Spezia in quelle che una volta si chiamavano le 'case Fanfani', dal nome del ministro del Lavoro che portò alla realizzazione dell’edilizia popolare". E aggiunge: "Sì, certo, avrei avuto la possibilità di comprare un’altra casa. Ma non l’ho fatto".

Quindi spiega meglio: "Era la casa in cui mio nonno viveva e che poi ha riscattato. Sono rimasto lì, non per vezzo o per chissà cosa. Se sei nato in periferia, sai benissimo che la periferia non è un’esperienza esotica, come la raccontano alcuni. È una cosa normale, che va trattata come una cosa normale. E che è cambiata moltissimo in questi anni". E l'appartamento in centro a Roma? Perché il ministro non ne parla? Ha forse paura di non essere l'ultimo comunista? 

Franco Bechis per “il Tempo” il 21 luglio 2021. Davanti a Tommaso Labate che lo intervistava per Sette il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha voluto fare il piagnina, descrivendosi come l'ultimo dei comunisti, quasi proletario. “Non solo sono nato in una casa popolare. Tuttora vivo a La Spezia in quelle che una volta si chiamavano le “case Fanfani”, dal nome del ministro del Lavoro che portò alla realizzazione dell’edilizia popolare. Sì, certo, avrei avuto la possibilità di comprare un’altra casa. Ma non l’ho fatto. Era la casa in cui mio nonno viveva e che poi ha riscattato. Sono rimasto lì, non per vezzo o per chissà cosa. Se sei nato in periferia, sai benissimo che la periferia non è un’esperienza esotica, come la raccontano alcuni. È una cosa normale, che va trattata come una cosa normale. E che è cambiata moltissimo in questi anni”. Verrebbe voglia di assegnargli il reddito di cittadinanza, non avesse lo stipendio da ministro. Ma secondo il terribile Dagospia Orlando non la racconterebbe giusta: “Lui vive cinque giorni su sette in un bell'appartamento in pieno centro di Roma. A La Spezia ci va una volta al mese. E in Messico ha una casa dove svacanza...”. Sul Messico poco da dire, perché non può risultare alle banche dati italiane. Ma Orlando di sicuro non è un inquilino qualsiasi di una casa popolare. Perché al catasto italiano risulta proprietario di ben 5 fabbricati e un terreno. Quattro fabbricati sono a La Spezia, due appartamenti da 5,5 vani ciascuno, accatastati come “Abitazione di tipo economico”, e quindi non case popolari e due magazzini C/2 – uno di 33 mq e l'altro di 21, agli stessi indirizzi delle case. C'è anche una casa a Roma di proprietà di Orlando, questa sì classificata “di tipo popolare”, di 3,5 vani in una stradina però ora diventata chic dietro le Terme di Caracalla. Dunque una certa passione per il mattone il ministro Orlando deve averla. E ne ha fatto perfino una piccola attività imprenditoriale: con la sorella Silvia Orlando e un ristoratore spezzino, Duccio Mele a lei legato, ha messo su una società (di cui Andrea è principale azionista): la Das srl, che ha come oggetto sociale “affittacamere per brevi soggiorni, case ed appartamenti per vacanze, bed and breakfast, residence”. L'attività è iniziata con il nome di Shelley proprio in uno dei due immobili posseduti dal ministro a La Spezia, vicino alla stazione. Ed è un successo, viste le recensioni su Tripadvisor: “Il proprietario il Sig. Duccio è di una gentilezza e disponibilità davvero rara. Saprà indirizzarvi con onestà e preparazione alla scoperta di questa bellissima terra. Consigliatissimo”, scrive un cliente nel maggio 2021. E prima di lui un altro cliente: “Se Duccio ha una stanza libera non fatevela scappare. A due passi dalla stazione la struttura presenta camere moderne, pulite e ben attrezzate. Lasciatevi guidare da Duccio per il resto della vacanza”. E soprattutto, svacanzando lì a La Spezia si eviterà per sempre il reddito di cittadinanza al ministro Orlando, il comunista-immobiliarista...

Il "proletario" Orlando e la bufala sulla casa popolare. Federico Garau il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Il ministro possiede immobili a La Spezia ed un'abitazione a Roma, oltre ad un fabbricato in Messico per "svacanzare", ma in un'intervista racconta la storiella della casa popolare. È un Andrea Orlando che si cala nei panni di un morigerato proletario quello che viene intervistato da Tommaso Labate per Sette, il settimanale de Il Corriere, anche se in realtà si tratta di un'immagine iperbolicamente idealizzata. "Non solo sono nato in una casa popolare", esordisce il ministro del Lavoro. "Tuttora vivo a La Spezia in quelle che una volta si chiamavano le “case Fanfani”, dal nome del ministro del Lavoro che portò alla realizzazione dell’edilizia popolare". Le possibilità economiche per acquistare una nuova abitazione non gli mancavano, eppure, rivela Orlando, "non l'ho fatto. Era la casa in cui mio nonno viveva e che poi ha riscattato. Sono rimasto lì, non per vezzo o per chissà cosa. Se sei nato in periferia, sai benissimo che la periferia non è un’esperienza esotica, come la raccontano alcuni. È una cosa normale, che va trattata come una cosa normale. E che è cambiata moltissimo in questi anni". Le rivelazioni strappalacrime del titolare del dicastero del Lavoro cozzerebbero tuttavia con la realtà dei fatti, rivelata direttamente da Dagospia: "Lui vive cinque giorni su sette in un bell'appartamento in pieno centro di Roma. A La Spezia ci va una volta al mese. E in Messico ha una casa dove svacanza...". Quindi niente storie alla Libro Cuore? Il kompagno Orlando evidentemente non la conta giusta, secondo quanto riferito dal portale web di Roberto D'Agostino e rilanciato da Il Tempo. Lasciando stare i possedimenti messicani del ministro, sui quali è pressoché impossibile indagare, non risultando alcun elemento utile nelle banche dati italiane, ci si può concentrare invece su quella che pare essere una sua spiccata passione per l'edilizia sul territorio nazionale. Oltre a un terreno, infatti, Orlando risulta proprietario al catasto di cinque fabbricati. Quattro di essi sono a La Spezia: si tratta di due appartamenti che riantrano nella categoria "Abitazione di tipo economico" (non certo case popolari) da 5,5 vani cadauno più due magazzini C/2 (rispettivamente di 33 e 21 metri quadri) associati a ciascuna di suddette case. Il quinto immobile è un'abitazione a Roma di 3,5 vani che rientra stavolta nella categoria "popolare", ma che si affaccia su una strada nei pressi delle Terme di Caracalla divenuta di recente decisamente alla moda. Le professate umili origini ed il mantenimento di uno stile di vita morigerato paiono cozzare con gli interessi imprenditoriali del ministro, principale azionista della Das Srl (società che si occupa di "affittacamere per brevi soggiorni, case ed appartamenti per vacanze, bed and breakfast, residence"), messa in piedi con la sorella Silvia ed il di lei compagno Duccio Mele. L'attività del ministro, che affitta una delle due abitazioni di La Spezia, pare riscuotere un discreto successo anche sul web, con numerose recensioni positive su Tripadvisor. Il "proletario" Orlando pare dunque avere un futuro roseo anche fuori dal mondo della politica.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi o

Pietro Senaldi contro Andrea Orlando: "Ecco perché è l'unico ministro da licenziare". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Breve ritratto dell'Orlando dannoso, che ha reso furioso Draghi. L'ultima rodomontata del ministro del Lavoro è stata il fallito blitz sul decreto Sostegni. Il mezzo leader piddino, zitto zitto, ha prolungato di due mesi il blocco dei licenziamenti, fino al 28 agosto. Come sperasse che la cosa passasse sotto traccia, è materia da psichiatri; sta di fatto che, non appena si è saputa la notizia, il premier ha fatto carta straccia del provvedimento e dato ordine di riscrivere la legge. Orlando è andato così a posizionarsi dietro la lavagna, con il suo leader Letta, che il presidente del consiglio ha messo in castigo per aver detto di voler introdurre la tassa di successione. Povero Andrea, questo è il nome di battesimo del dannoso, ha gettato la manina oltre l'ostacolo. Si è fatto infinocchiare da Letta, che straparla ma si guarda bene dal fare, ed è passato all'azione, rimediando una sconfessione che, con governi e partiti di altra statura, sarebbe stata il preludio alle dimissioni. Orlando invece no, resterà. È vaccinato agli schiaffi della storia, basti pensare che si iscrisse diciottenne al Partito Comunista poche settimane prima del crollo del Muro di Berlino. Quale acume politico, quale lungimiranza, direbbero i critici. Invece no, quella cosa lì l'aveva fatta giusta. L'attuale ministro del Lavoro sarebbe stato un perfetto funzionario della Ddr, e lo aveva capito bene. Il guaio è che, subito dopo essersi trovato, Andrea si è perso, travolto dalla storia e dal crollo del mondo nel quale avrebbe nuotato come un pesce nell'acquario. Perché in mare aperto no; per quello, a dispetto del cognome epico, gli manca proprio il physique du rôle. Ce lo ricordiamo tutti, nel marzo scorso quando scoppiò la pandemia, tappato per mesi in casa, terrorizzato davanti a una telecamera con l'espressione di io speriamo che me la cavo, assolutamente non in controllo della situazione, sollevato solo dal fatto che del Paese si occupassero Conte e Speranza. IN POLITICA DA 35 ANNI -  Il nostro fa politica da 35 anni e la sua carriera è la prova della decadenza della casta in generale e dei dem in particolare. Non vincerebbe un congresso neppure se fosse l'unico candidato. Ha il carisma di un lemure e l'eloquio di una tomba. Non porta neppure bene, visto che la sola frase che di lui si ricorda è un appello alla sinistra a favore del governo giallorosso: «Non facciamo il Papeete di Natale». Neanche due mesi, e patatrac. Un'altra curiosità inspiegabile è che, in una nazione di giuristi e legulei di ogni risma e fede, l'Orlando, in questo caso dormiente, abbia ricoperto la carica di Guardasigilli, senza neppure lo straccio di una laurea, non dico in Giurisprudenza, ma neppure in Scienze Politiche o Lettere. Nemmeno i grillini, inventori dell'uno vale l'altro, sono arrivati a tanto. Il sospetto è che l'insipienza giuridica del vicepresidente dem, lo è stato e forse lo è ancora, è impossibile accorgersene, gli sia valsa come perla del curriculum: perché infatti il Pd avrebbe dovuto insediare in via Arenula uno che ci capisce qualcosa e rischia di disturbare gli amici giudici quando invece aveva bello, pronto e scalpitante l'Orlando inoperoso?

IMPALPABILE - L'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara, nel libro Il sistema, di Alessandro Sallusti, dove denuncia tutte le malefatte delle toghe, tradisce un ricordo nostalgico del Guardasigilli. Era una presenza impalpabile, non un sodale ma certo un lasciapassare ineguagliabile, un non controllore dei giochi di potere che si consumavano sotto il suo mancato controllo ed esercizio. Non c'era neppure bisogno di invitarlo all'Hotel Champagne per quelle notti da bravi in cui toghe e politica decidevano i capi di tribunali e procure in base a interessi di parte. Tutti erano certi che il Guardasigilli avrebbe alzato il calice e brindato a qualsivoglia decisione. Sempre meglio però mantenerlo a braccia conserte, a non occuparsi di diritto, piuttosto che averlo oggi al ministero del Lavoro, dove l'indomito piddino si picca di capire della materia e si industria nell'arte della deindustrializzazione. E qui l'Orlando torna dannoso. Distante anni luce dalle teorie economiche del premier e incompatibile con qualsiasi programma di ripresa, il vicepresidente dem si comporta nel governo dei tecnici come un delegato sindacale della Cgil al tavolo della Fiat. Non capisce, disturba, sabota, mette in conto agli altri i propri pasti. Con quell'aria indolente e l'occhio che pare dormiente anche quando è spalancato, l'Andrea è una iattura per l'economia. Basta ricordare che ci ha portato in dote il codice degli appalti, quel groviglio di burocrazia che, per impedire che un topo entri nel barattolo della marmellata, lo sigilla con la fiamma ossidrica, incurante del fatto di affamare tutta la fattoria, contadini e buoi inclusi. E qualcosa di positivo? Ligure di porto, Orlando ha capacità non comune di stare a galla. Quando c'è la tempesta, si rintana in cuccetta aspettando che passi. Altrimenti naviga secondo corrente. Talvolta sbatte contro qualche scoglio, e scopre che sono i suoi piedi; ma per sua fortuna dalle sue parti c'è sempre qualcuno che la fa più grossa di lui, che rapido torna sottovento.

·        Andrea Romano.

Da ilfattoquotidiano.it – 8 settembre 2016. ANDREA ROMANO. Da intellettuale raffinato, quando alla radio gli chiesero se nella vita avesse mai tradito – lui che da amante di Bordiga è finito pretoriano di Renzi – ebbe l’eleganza di tirare fuori una storia di 35 anni prima: “Lei mi tradì con un altro, con uno stronzo, io avrei voluto picchiarlo, metterlo sotto con la macchina”. Fece anche il nome di lei e visto che voleva togliere ogni dubbio su chi fosse la presunta fedifraga passò anche all’identikit: “Ora è impegnata in politica, è presidente del consiglio comunale di Livorno“. Per la cronaca: lei ha sempre negato tutto, ha sempre detto che quella storia semplicemente finì. Dai, scherzava, si disse perché “Ma scherzavo” è sempre la giustificazione dei politici dopo aver detto qualche bestialità al Giorno da Pecora o alla Zanzara. Ma lui scherzava a tal punto che raccontò di aver rivisto la ex di quella storia archeologica un paio di giorni prima e che “c’era ancora qualcosa di sospeso: avrei voluto menarla“. In ogni caso, dopo quella storia, Andrea Romano, 49 anni, nuovo condirettore de l’Unità, partì per l’America Latina. Da quel momento Romano – figlio di un comandante di navi – ha girato molto, in Italia e nel mondo. Per esempio si è laureato a Pisa (che per un livornese è già l’estero), ma poi ha anche studiato russo a Mosca, da tempo la sua città è diventata Roma, anche se l’accento dell’origine non l’ha perso del tutto. Ha girato l’Italia e il mondo, ma soprattutto i partiti e i leader da seguire. “Essendo in continua metamorfosi – scrisse una volta Giancarlo Perna, su Libero – il solo modo di raccontarne la storia è rispettare l’ordine cronologico”. L’ordine cronologico delle sue convinzioni è il seguente: marxista in gioventù, esperto sovietologo di formazione e poi convinto blairiano, liberal diessino, dalemiano, filorutelliano, montezemoliano, montiano, infine per ora renziano. Romano – a titolo gratuito – affiancherà Sergio Staino, che sarà il nuovo direttore de l’Unità dal 15 settembre. “Il mio impegno – scrive l’editore Guido Stefanelli senza smentire l’entrata alla presidenza di Chicco Testa – adesso, dopo averlo salvato, è quello di rilanciare e far festeggiare a questo giornale l’anniversario dei suoi 100 anni”. E’ stata “una vera scommessa con i soci del Pd, con il rifiuto di accedere agli aiuti di Stato all’editoria di partito che garantiva la copertura dei deficit, come scelta seria e coerente con il rigore indicato da segretario Matteo Renzi“. Docente di Storia contemporanea a Tor Vergata, prima di fare il direttore del giornale fondato da Antonio Gramsci, Andrea Romano sui quotidiani (Stampa, Sole 24 Ore e Riformista) ha solo scritto interventi di commento. Nelle redazioni non ha passato la maggior parte del proprio tempo. Ha fatto altro. Al massimo ha lavorato a un certo punto come editor per la Einaudi (settore storia e attualità) e poi alla Marsilio. Si potrebbe dire che è stato renziano prima di Renzi. Scrisse, per esempio, Compagni di scuola – Ascesa e declino dei postcomunisti, che fece arrabbiare molti dei compagni dei Ds con i quali smise di rinnovare la tessera una quindicina d’anni fa, nel pieno del periodo dell’antiberlusconismo, quindi in controtendenza con il fiume del girotondo viola che si stava ingrossando proprio in quegli anni. La sinistra cambierà davvero e finalmente, scrisse in quel libro, solo quando la classe dei postcomunisti “sarà costretta a farsi da parte, dalla forza della politica piuttosto che dalla propria generosità d’animo”. Raccontano che ai tempi del liceo classico fosse in area Fgci, ma lui ha detto di non aver mai preso la tessera. A Pisa si laureò con tesi sull’Armata Rossa e a Mosca studiò lo stalinismo degli anni Trenta, ma una volta ha risposto che a lui piaceva Amadeo Bordiga. Tornò in Italia dalla Russia per fare l’archivista all’istituto Gramsci. Crebbe sotto l’ala di Giuseppe Vacca – filosofo marxista ora presidente della Fondazione Gramsci -, con il quale condivide alcune amicizie strette come il linguista Giancarlo Schirru. Un altro suo amico è Gianfranco Scarfò, il pm che indagò sul caso Boffo (Feltri e la falsa velina, quella storia lì). Visto che è stato eletto con Scelta Civica e in televisione c’è finito soprattutto nell’ultimo anno (perché come tutti i convertiti è un renziano più energico dei renziani), in apparenza sembra un homo novus. E invece no. E’ stato iscritto al Pds alla metà degli anni Novanta, ha lavorato nel gabinetto del ministro della Difesa Massimo Brutti (governi dell’Ulivo), ma soprattutto fu tra i collaboratori dell’allora sottosegretario agli Esteri Umberto Ranieri, destra diessina, spesso vicino alle posizioni di Giorgio Napolitano. Poi fondò con Massimo D’Alema e Giuliano Amato la fondazione Italianieuropei, che ancora esiste. “D’Alema negli anni Novanta mi piaceva perché diceva di voler fare la rivoluzione liberale – disse tempo fa in un’intervista all’Espresso – All’epoca, Cuperlo era uno dei suoi più stretti collaboratori. Dunque oggi a lui, che è un caro amico, direi: ma Gianni, dovresti essere contento”. “Il D’Alema blairiano e liberale mi piaceva molto. Ma è durato poco” ribadì in un’altra intervista a Vittorio Zincone, su Sette. A un certo punto fu tutta una delusione. Sulla politica estera, poco fedele alle alleanze atlantiche (c’è chi giurerebbe il contrario) e sulla politica del lavoro “ha preferito tornare indietro sulla via identitaria: i contratti sventolati fuori dalle fabbriche e via dicendo”. E’ ossessivo, confessa, tanto da tenersi segnata la data del suo primo incontro con Luca Cordero di Montezemolo che – dopo molti anni – lo ha scagliato di nuovo dentro i Palazzi romani. L’allora presidente della Ferrari aveva letto dei suoi interventi su Gordon Brown e ne rimase folgorato. Così Romano passò a dirigere Italia Futura, una specie di Italianieuropei dell’Italia dei carini, come la chiamerebbe Crozza. L’embrione di quel partito messo insieme in tre mesi per provare a incatenare Mario Monti a Palazzo Chigi e in tre anni si è frantumato fino alle risse tra il viceministro Zanetti contro un’altra dozzina di parlamentari conosciuti solo ai propri familiari. Ma Romano si è risparmiato i lividi, è riuscito a tirarsi via da quegli accapigliamenti un po’ prima. Un anno dopo l’insediamento da deputato, dopo aver fatto anche il capogruppo di Scelta Civica, se ne andò: “E’ cambiato il contesto storico, l’era, la fase, tutto. Gli elettori sono già andati via, io mi limito a seguirli”. Così Romano è diventato uno dei portabandiera del nuovo corso renziano, bastonatore delle malefatte di Nogarin nella sua Livorno (dove, chissà, tra un po’ potrebbe riportare il Pd in Comune) e soprattutto invitatissimo nei talk-show anche perché – volente o no, da storico ex marxista – provoca spesso grandi scazzi che fanno bene allo share. Da ora a dicembre avrà la responsabilità di convincere gli elettori del Pd a votare sì al referendum costituzionale. Non lo sorprenderà trovare dall’altra parte del campo di battaglia proprio D’Alema, la sua ex stella polare. “Persino nel momento più cupo della sua carriera politica – scrisse una volta Romano – D’Alema rimane il capofamiglia. Ancorché in disgrazia”.

·        Arturo Parisi.

«Ho perso, ma non mi sono perduto»: Arturo Parisi, l’inventore della politica. Marco Damilano su L'Espresso il 15 settembre 2021. L’Ulivo, il bipolarismo, la partecipazione dal basso. A ottant’anni il professore ripercorre le battaglie e le sconfitte. E rivendica tutto. Meglio perdere che perdersi. Il centrosinistra italiano ha preferito non ascoltarlo, e si è perduto, senza evitare di perdere. Il professor Arturo Parisi compie 80 anni il 13 settembre, ha studiato la politica per decenni, l’organizzazione dei partiti, le leggi elettorali, poi, come racconta, ci è cascato dentro. All’inizio degli anni Novanta, quando il sistema politico arrivò a dilaniarsi tra «l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di auto-distruzione», come scrisse il suo amico Edmondo Berselli, il professore aiutò Mario Segni a raccogliere le firme per i primi referendum sulla legge elettorale maggioritaria. Poi le sue invenzioni: l’Ulivo di Romano Prodi, le primarie. Le uniche vittorie del centrosinistra, nel 1996 e nel 2006. E i due governi di Prodi, nati dal il voto degli elettori e caduti in Parlamento, non è più successo. Il ministero della Difesa, da cui, parlando con Gigi Riva sull’Espresso, avvertì che in Afghanistan non si poteva vincere. Al testardo professore sardo è capitato spesso di perdere. Ma non si è mai perso. 

Che cosa ha significato studiare la politica e poi vederla dall’interno?

«Più o meno quello che capita a uno che da uno scoglio osserva il mare agitato, e a causa di un cavallone imprevisto finisce tutto d’un tratto in acqua, bello e vestito. Ricordo che Beniamino Andreatta ai tempi del Mulino negli anni delle infinite chiacchierate notturne - era più o meno mezzo secolo fa - muovendo dalla sua prima esperienza diretta della azione politica, mi metteva in guardia. “A furia di frequentare i malati per studiare la malattia si finisce per prenderla”. E infatti la presi. E dire che l’attrazione del mare in tempesta e allo stesso tempo la paura di finirci dentro avevano accompagnato la mia formazione in quel fin troppo celebrato “distretto produttivo” della politica della mia Sassari, che in un quadrato di trecento metri quadri mi aveva consentito di osservare da vicino esponenti di tutti i tipi e di tutti i colori. È così che, facendosi largo tra la osservazione non partecipante e la partecipazione non osservante, si impara a cercare la strada. A cercare e a cercarsi. O, almeno, a non perderla e a non perdersi. Imparando che senza partecipare non si riesce a vedere, e che, se non si riesce a difendere la capacità di vedere, partecipare è rischioso». 

La politica è una scienza con le sue regole?

«Scienza è un parolone. Soprattutto in un campo dove gli umani sono al contempo soggetti della azione e oggetti della conoscenza. Ma di certo, se non proprio regole, ci sono delle ricorrenze delle quali sarebbe utile tener conto». 

Quindi dipende dalle persone. La politica è soprattutto antropologia, psicologia.

«Una delle lezioni che mi è toccato approfondire di più è che la politica è per eccellenza il regno del “chi”, non del “che cosa”. È a partire dalle convenienze dei “chi” che le cose si impongono o sono dimenticate. È a partire dal “chi” che le “cose” sono dette giuste o sbagliate. Poco male se il “chi” è espressione o corrisponde ad aggregati sociali. Siano essi figli di conflitti di classe, religiosi, culturali, territoriali o riconducibili alla demografia. Ma purtroppo siamo finiti in un passaggio nel quale è politica solo quello che fanno i politici, e i politici sono sempre di più quelli che della politica hanno fatto o si sono trovati a fare la loro professione. Quelli che di politica vivono e che di politica intendono continuare a vivere. A tempo indeterminato. Non riesco ad accettare che nel lessico dominante quando diciamo politica intendiamo quello che fanno, hanno fatto o non fatto i politici. E quindi che tutto quello che gli altri “animali politici” fanno non sia in alcun modo degno di nota, mentre la politica è ridotta ad una eterna schermaglia priva di progetti ulteriori, è prodotta dalla banale necessità di durare. Una schermaglia che o è spettacolo o è noia. Quanti con Rino Formica ritengono che questa politica sia sangue e merda, non possono che concludere “viva la merda”. Anche a me il sangue non piace, ma, me lo faccia dire, sento il dovere di chiamare merda la merda». 

La sua più grande vittoria sono considerate le primarie. Ma le hanno anche attribuito la sconfitta sui numeri in Parlamento, quando nel 1998 il governo Prodi cadde per un solo voto.

«Dice bene: considerate. È la guerra che conta. Lasci stare le singole battaglie. Sia con le primarie, che con Prodi ho ingaggiato, ma al momento tutt’altro che vinto. Sia la caduta del governo dell’Ulivo che fu persa da noi ma soprattutto dagli altri. I conti si fanno dopo e sono quelli che sono. Sono i disegni che si fanno prima. Fu soprattutto il totale del disegno a non tornare. Nonostante la caduta fosse stata prevista in un altro tempo e in un altro modo, e a dispetto dei suoi tentativi di salvare il governo in un momento imprevisto, il povero D’Alema si trovò a difendersi dall’accusa di avere intessuto una trama banale e non invece di aver alimentato una profonda contraddizione politica. La verità è che l’incidente era stata la nascita dell’Ulivo, e non come lui provò a dare ad intendere la sua caduta». 

Qual è stata la sconfitta, allora?

«Nel 1998 non potevamo che accettare la sfida di Bertinotti, accadesse quel che doveva accadere. Esattamente come poi per la sfiducia del 2008. Come accade ai governi nati dal voto degli elettori: in Parlamento e avanti agli occhi dei cittadini. Prodi lo ha spiegato più volte. Ma invano. È comprensibile che i capi partito legati alla democrazia che affida i governi alle trattative tra i partiti, si rifiutino di comprendere la logica che guida la democrazia fondata sulla scelta dei cittadini. E che i professionisti del calcio considerassero un errore da dilettanti giocare con le mani come capita a quel gioco sconosciuto che è il basket!». 

Lei è considerato l’inventore dell’Ulivo. Cosa resta di quell’esperienza? Il Pd di Letta ne rivendica la radice.

«Prima bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa sia stato l’Ulivo. Se fosse per il rametto disegnato da Andrea Rauch e per il nome ci metteremmo presto d’accordo, e ancor di più per la leadership di Prodi al quale l’impresa è intestata. Su cosa l’Ulivo sia stato nella realtà è invece una cosa diversa. Molto diversa. Nonostante l’elenco di titoli, ai quali lei ha dato un contributo importante, i più preferiscono onorare il suo mito tanto più quanto più hanno qualcosa da farsi perdonare nella realtà. Ecco perché ritornando al passato non riesco ad associarlo che al desiderio, e, alla domanda su cosa ne resti, non riesco a ritrovare altro che la nostalgia. Lo può capire solo chi ha fatto in tempo a sentire in quei giorni “alzarsi il canto della canzone popolare” di Ivano Fossati. Per gli altri rimarrà poco più che il nome di una coalizione di partiti che ha partecipato alle elezioni sotto la guida di Prodi riconoscendosi nel programma affidato al governo da lui successivamente formato. Se il suo ricordo non è ancor oggi comparabile con quello delle coalizioni successive non è tuttavia per il diverso successo che arrise all’Ulivo ma perché dietro il governo del 1996 stava un programma, dietro al programma un progetto di una Italia nuova, e dietro al progetto un soggetto che per un momento incarnò la domanda di novità e di unità che attraversò in quel momento il Paese. Nel campo di centrosinistra come mai né prima né dopo. Se nell’infinito 1995 da desiderio l’Ulivo divenne realtà, fu la caduta del 1998 che lo proiettò nel mito. Il perché è per il modo in cui avvenne. Se le primarie debbono ancora vincere, quella sconfitta è la più grande vittoria». 

Cosa vuol dire vincere? E cosa perdere?

«Ognuno vince o perde la sua guerra. Quella che la vita gli ha fatto incontrare lungo il cammino. Per uno che è finito in mare strappato dagli scogli dall’enorme cavallone prodotto dalla caduta del muro di Berlino e dalla sconfitta del comunismo reale, la battaglia non poteva essere che quella di recuperare la riva per costruire quella Italia nuova che la contrapposizione tra i blocchi aveva impedito. Il 9 giugno scorso chi ancora lo ricorda ha celebrato dentro di sé i trent’anni dal primo referendum delle riforme istituzionali. Quello che con Mario Segni chiedemmo a pochi mesi dalla caduta del Muro. E, dieci anni esatti sono passati da quando, preso dalla disperazione, con Andrea Morrone, raccolsi in pieno agosto con pochi patrioti, un milione e mezzo di firme - in prima fila di nuovo Segni e Di Pietro, col sostegno di Prodi, ma la contrarietà del Pd di Bersani - per il ripristino del Mattarellum. Proprio la legge che nel 1999 avevamo cercato di superare. Sì! La verità è che siamo ancora in alto mare. E tra quelli che pur esausti continuano a nuotare sono ormai troppi quelli che hanno perfino dimenticato quale fosse fosse l’Italia che una volta a riva volevamo costruire». 

Negli anni Novanta e Duemila la dialettica nel centro sinistra era tutta tra ulivisti e partitisti. Il trionfo del Movimento 5 stelle ha spazzato via questa polarizzazione, ma quanto è il prodotto di quella stagione?

«Quello del passato ventennio fu uno scontro tra lo ieri e il domani. Nella stagione presente il confronto è tra l’oggi e l’altrieri. Ad essersi perso per strada è proprio il futuro: il progetto non il programma. Un programma sono capaci tutti di metterlo in piedi. Ai tempi della prima Repubblica era diventato un genere letterario. Alla vigilia delle elezioni, e ogni undici mesi in occasione dell’insediamento del governo di turno era possibile leggerne di bellissimi. Come i propositi del lunedì. Mentre attendiamo i miracoli del copia e incolla per i programmi futuri, come in un Rosario laico possiamo limitarci a contemplare i misteri dolorosi della legislatura presente: il passaggio dalla gestazione del governo giallo-verde durata - addirittura! - intere settimane ai pochi giorni impiegati per il varo del governo giallo-rosso, quasi una illuminazione improvvisa. Mentre nella stessa impresa i tardoni germanici e perfino gli spagnoli impiegavano mesi. Per non tornare ancora una volta all’anno di gestazione delle 88 Tesi dell’Ulivo. Sì, lei ha ragione, l’irruzione nella politica del nazional-populismo di ogni colore al grido dell’ora-tocca-a-me non è piovuto dal cielo. È il figlio delle troppe promesse non mantenute della stagione passata. Della contraddizione tra la pratica della democrazia diretta della stagione referendaria e il ritorno alla mediazione dei capi partito, tra l’appello alla partecipazione attraverso e oltre i partiti e la chiusura del ceto politico nei parlamenti dei nominati, tra il moralismo giustizialista e la concreta realtà della amministrazione della giustizia. Tra la denuncia contro “La Casta” di Rizzo e Stella e la descrizione del “Sistema” di Palamara e Sallusti. Solo una democrazia dei cittadini fondata sulla scelta maggioritaria tra progetti di lunga durata e sul collegio uninominale può liberarci dalla politica dei capi partito fatta di posizionamenti e riposizionamenti continui. Non ho cambiato opinione. E tuttavia questo non mi impedisce di vedere che siamo tornati in una stagione diversa che ci costringe a “ricominciare da tre”». 

Siamo vicini alla scelta per il Quirinale. Chi vuole che Draghi continui con una conferma di Mattarella desidera che la formula dell’unità nazionale vada avanti “almeno” fino al 2023, come ha detto Letta. Ma che significato di sistema avrebbe invece il passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale?

«A leggere i commenti vedo rafforzarsi l’idea che l’elezione del nuovo inquilino del Colle, farà del Quirinale il centro del sistema, più che mai in passato, fino all’instaurazione nei fatti di un semipresidenzialismo. Chiunque sia l’eletto. A maggior ragione se è riconosciuto e autorevole in Europa e nel mondo più ancora che in Italia. Questo per il combinato disposto da una parte della accresciuta e crescente necessità dei nostri partner esterni di un referente che rappresenti stabilmente il Paese. Un tempo si diceva di un numero di telefono al quale chiamare per le cose che contano. Dall’altra parte a causa della estrema debolezza e instabilità della nostra infrastruttura partitica finita nelle mani di leader costretti ogni giorno a interrogare lo specchio dei sondaggi come la povera - altro che perfida - matrigna di Biancaneve. Questo per dire della mia condivisione di un orientamento che cresce. Di mio so una cosa sola. La sera stessa che sarà eletto il nuovo inquilino del Colle inizierà la campagna per l’elezione del nuovo Parlamento. Altro che unità nazionale “almeno” fino al 2023. Con i capipartito tanto più nervosi quanto più gli eventi intervenuti nei mesi per noi ora imminenti, monteranno a qualcuno la testa o quella dei loro concorrenti e avversari. A cominciare dalle elezioni di ottobre e dalle vicende legate al governo della pandemia».

·        Dario Franceschini.

Giorgio Meletti per editorialedomani.it il 6 dicembre 2021. Un traditore leale. Un moralista spregiudicato. Un sincero bugiardo. Un perdente di successo. Un infallibile conquistatore di secondi posti. Insomma, un ossimoro in carne e ossa. Per chi segue la politica italiana con l'occhio dell'entomologo o dell'antropologo, cioè per quasi tutti ormai, costretti a questo esercizio accademico dalla deriva di una comunità di professionisti improvvisati incapaci di affrontare le questioni vere con conflitti veri, e ridotti a seguire, eventualmente tifando, il quotidiano talent show delle ambizioni personali, Dario Franceschini è uno dei soggetti più misteriosi e quindi intriganti. Nella prima repubblica fu zaccagniniano, moroteo, demitiano e martinazzoliano, nella seconda mattarelliano, prodiano, veltroniano, bersaniano, renziano e zingarettiano. Adesso, in vista della corsa al Quirinale, è per la prima volta, a 63 anni, schiettamente franceschiniano. E non si capisce se è il segno di una raggiunta maturità politica o solo la mesta conseguenza del declino. Tra tutti i cripto-candidati al Quirinale appare però l'unico in grado di mettere al servizio di esigue possibilità di successo una strategia lineare: si propone come l'unico vero anti-Draghi per il popolo dei peones che il mese prossimo, quando i grandi elettori si riuniranno a Montecitorio per scegliere il successore di Sergio Mattarella, saranno presi dalla fregola di impallinare nel segreto dell'urna il presidente del Consiglio, troppo marchese del Grillo per i gusti di una plebe che il privilegio se lo suda ogni giorno. I silenziosi calcoli dell'eterno ministro della Cultura, in carica dal febbraio 2014 con la sola breve parentesi del governo gialloverde (giugno 2018-settembre 2019), traducono in prassi immobile ciò che il nostro eroe ha imparato in 40 anni di pazienti avanzate e sconfitte brucianti. Si copre a destra flirtando con Giorgia Meloni e nominando alla direzione dell'Archivio centrale dello stato Andrea De Pasquale, l'uomo che poco tempo prima, da direttore della Biblioteca nazionale, aveva accolto la donazione dell'archivio del neofascista Pino Rauti con gioia solenne, come se fosse un padre della patria. Il ministro dei Beni culturali incassa in silenzio la blanda censura di Mario Draghi, che toglie a De Pasquale la competenza sui documenti desecretati sulle stragi neofasciste, e conferma la nomina fatta mentre annuncia trionfale, guardando a sinistra, di aver tolto ai sovranisti di Steve Bannon la storica certosa di Trisulti che pure gli aveva consegnato lui quattro anni prima, guardando a destra. Si guarda intorno e calcola. A settembre 2019, mentre si propone come principale sponsor politico del nuovo governo giallorosso di Giuseppe Conte, nomina segretario generale Salvatore Nastasi, di fatto consegnandogli un ministero che lo annoia, avendolo individuato come prezioso anello di collegamento con il mondo renziano e con quello berlusconiano, via Gianni Letta. È amico di tutti ma gli unici dissapori che non smentisce mai sono quelli con Draghi che non si sa bene che cosa gli abbia fatto, e anzi cerca ogni tanto di porgere al suo ministro ramoscelli d'ulivo, ma lui non raccoglie: sappiano i peones che hanno in uggia Supermario che, se alla roulette di gennaio riescono a impallinarlo, il loro uomo è Dario da Ferrara. Franceschini ricama i suoi arabeschi psico-politici intrecciando i 45 anni di esperienza politica con le tecniche della democristianità e innegabili doti personali. Le prime le ha apprese fin da piccolo dal padre Giorgio, avvocato di Ferrara di cui il figlio seguirà anche le orme professionali, partigiano democristiano e poi deputato scelbiano (cioè la destra più a destra della Dc). Ma Ferrara era una storica roccaforte rossa. Negli anni Settanta dello strapotere democristiano sull’Italia, esordire in politica da adolescente democristiano nelle battaglie studentesche al liceo scientifico Antonio Roiti è stato il primo ossimoro del giovane Dario, democristiano in minoranza e all'opposizione. Questa particolare scuola di sopravvivenza affina le sue doti: velocità nel vedere prima degli altri il cambiamento dei venti, tempismo micidiale nello scegliere l'attimo giusto per il cambio di rotta e spregiudicatezza estrema, moralmente giustificata dalla necessità di difendere i valori cristiani in terra nemica, “in partibus infidelium”. L'omaggio più solenne a queste abilità lo pronunciò un giorno Matteo Renzi, proveniente dalla stessa corrente dc: «Dove c’è Franceschini c’è maggioranza». Eppure mai è stato leader fino in fondo, e quando ci ha provato è stato sempre sconfitto, per una ragione profonda che solo lui conosce, forse. In questo il ragazzo del '58 attratto alla Dc non tanto dal vagamente reazionario esempio paterno quanto dal fascino inedito di Benigno Zaccagnini, “l’onesto Zac”, il segretario per bene che fece sognare ai giovani democristiani del post '68 una militanza eticamente ed esteticamente legittimata come quella dei giovani comunisti un po’ di simpatia la fa. Qualche spontanea intemperanza interferisce con il cinismo delle sue trame. Nel baratro della politica italiana, oggi impegnata a discutere con serietà apparente l’ipotesi di avere come presidente della Repubblica l'evasore fiscale profeta del Bunga bunga, è quindi doveroso chiedersi se sia una prospettiva orribile o confortante quella di avere un giorno al Quirinale l'autore del romanzo Daccapo (Bompiani 2011). E sì, perché a partire dal 2008, anno del terzo e ultimo trionfo elettorale di Silvio Berlusconi, la vita di Franceschini ha corso su due binari paralleli. Sul primo, politico, è il vice di Walter Veltroni alla segreteria del neonato Pd; nel 2009 il fondatore si dimette e lui viene eletto come segretario di transizione grazie ai voti di Pier Luigi Bersani ottenuti, nonostante la larvata ostilità di Romano Prodi e Massimo D’Alema, in cambio della promessa di non candidarsi alle imminenti primarie; poi invece si candida proprio contro Bersani che non la prende bene; poi si fa promettere da Bersani, che è persona paziente, il posto di capogruppo alla Camera in caso di sconfitta; poi smentisce il Corriere della sera che rivela il patto («Una menzogna e per me un insulto, vecchie tecniche da palazzi romani», sibila a schiena dritta); poi, appena Bersani viene eletto segretario incassa la nomina a capogruppo; poi conduce per due anni la ferma opposizione al governo Berlusconi che sta conducendo l’Italia verso il baratro da cui viene asseritamente salvata dal presidente Giorgio Napolitano che chiama Mario Monti come salvatore della patria (novembre 2011). Mentre avviene tutto questo, Franceschini segue il binario parallelo della sua mente vergando i capitoli di Daccapo, che merita un posto nella storia della narrativa per la trama. Dunque, c'è un vecchio notaio di Mantova che sul letto di morte confida al figlio, notaio anche lui, che nel corso della sua vita morigerata ha ingravidato ben 52 (cinquantadue) prostitute che hanno sfornato altrettanti bambini e bambine dei quali il prolifico giureconsulto fornisce al collega figlio accurato catalogo. Fatta la sconvolgente rivelazione, il notaio padre perde definitivamente conoscenza, come l'impiegato della Zecca nella scena iniziale di La banda degli onesti, film di culto per la generazione di Franceschini interpretato in modo immortale da Totò e Peppino De Filippo. Il notaio figlio si mette alla ricerca del piccolo esercito di fratelli non germani. Nel frattempo il notaio padre muore e il notaio figlio trova due testamenti, uno che lascia tutto al figlio legittimo, un altro che ordina di dividere il patrimonio in parti uguali tra tutti i 53 figli. Il notaio figlio, formato all’insegnamento dell’onesto Zac, strappa il testamento che lascia tutto a lui e si predispone a dividere fraternamente con i fratelli figli di madri (ig)note. In questa trama fantasiosa si rintraccia in filigrana il tema autobiografico dell'eredità negata. Nel 1984 Ciriaco De Mita (capo della Dc dal 1982 al 1989) aveva designato il giovane consigliere comunale di Ferrara come capo del movimento giovanile, ma all’immediata vigilia del tumultuoso congresso di Maiori (nella penisola sorrentina) cambiò idea e benedisse Renzo Lusetti di Reggio Emilia, coetaneo del trombando di Ferrara. Tre anni dopo, a 28 anni, Lusetti era già deputato. Franceschini è rimasto a fare il consigliere comunale per altri 17 anni, durante i quali, da buon democristiano, è però riuscito a portarsi a casa una nomina nel collegio sindacale dell'Eni, un buon sostegno al reddito e alle relazioni. Nel 1994, approfittando del rimescolamento di carte dopo Mani pulite, porta il Ppi (Partito popolare italiano, effimero successore della Dc) nella maggioranza del comune di Ferrara e diventa assessore alla Cultura del mitico ed eterno sindaco comunista Roberto Soffritti. Un anno dopo si candida contro Soffritti che però non si spaventa: è sindaco da 12 anni e vince a mani basse, Franceschini prende il 19 per cento e non va neppure al ballottaggio. Non fa di lui un profeta in patria neppure l’essere diventato, all'inizio di quell'anno, uno dei due giovani vicesegretari del Ppi messi al fianco dell'anziano leader Franco Marini: l'altro è Enrico Letta. Il capitolo Letta è uno dei più complessi del romanzo Franceschini. Il ragazzo di Ferrara si dichiara figlio di Zaccagnini, il cuore antico di una Dc tutta politica (onesta) e sacrestia; il ragazzo di Pisa è figlio di Nino Andreatta, il cuore moderno di una Dc tutta politica e tecnocrazia. Zaccagnini, un medico prestato alla politica, restituisce a ragazzi stanchi della degenerazione clientelare dei capicorrente il piacere dell’onestà e la nostalgia di una passata età dell'oro; Andreatta, un economista eretico e anticonformista, pensa globale e insegna a coniugare la politica italiana con le dinamiche del capitalismo mondiale. Zaccagnini ha più figli del notaio di Mantova, Andreatta ne ha solo due, Romano Prodi e Enrico Letta. Per cui non si può non notare nella biografia politica e umana di Franceschini un dettaglio gravido di conseguenze: nel 1993 il 35enne avvocato di Ferrara fa il consigliere comunale di opposizione (doloroso contrappasso per un democristiano) mentre il 27enne studioso di Pisa è non solo braccio destro del capo del Movimento giovanile Dc Simone Guerrini (oggi capo della segretaria politica di Mattarella) e capo dei giovani Dc europei, ma soprattutto capo della segreteria del ministro degli Esteri, appunto Andreatta. Franceschini e Letta corrono affiancati per tre anni con Marini, fino a che, nel 1998, cade il governo Prodi e Andreatta piazza nel governo D'Alema proprio il suo braccio destro. Letta diventa il più giovane ministro della storia. Franceschini cerca di mettersi in pari con le armi che ha. Chiede e ottiene da Marini la promessa che il successore alla segreteria del Ppi sarà lui. Ma anche stavolta qualcosa va storto. Sei mesi dopo, in vista delle elezioni Europee del 1999, si profila la candidatura di Pierluigi Castagnetti come capolista nel collegio Nord-Est (Emilia-Romagna, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia). Castagnetti è stato segretario della Dc dell'Emilia Romagna quando Franceschini esordiva in politica ed è un riferimento della sinistra Dc, la stessa correntona del ragazzo di Ferrara. A un certo punto il placido Castagnetti si imbizzarrisce e accusa Franceschini di tramare contro di lui: starebbe lavorando per candidare al suo posto il boss ferrarese Nino Cristofori, storico braccio destro di Giulio Andreotti anche a Palazzo Chigi. Castagnetti minaccia di ritirare la sua candidatura e Marini si fa in quattro per ricucire. Franceschini deve giurare a un Castagnetti inopinatamente incazzato che lui mai e poi mai avrebbe solo pensato una simile trama. Passano pochi mesi, Castagnetti si candida alla segreteria del Ppi e l’uscente Marini decide di appoggiarlo, chiedendo a Franceschini di farsi da parte. Il giovanotto si impunta e decide di andare avanti lo stesso, fedele a un pilastro della sapienza dc (che un giorno Renzi, proprio lui, gli rinfaccerà): anche quando non hai alcuna possibilità di successo, una candidatura ti posiziona. Va alla sfida contro Castagnetti, perde sonoramente, con il 16 per cento dei voti dei delegati contro il 70 per cento del vincitore, e va subito all'incasso: sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle riforme istituzionali. Si occuperà della famigerata riforma del titolo V della Costituzione, il federalismo disfunzionale in salsa di centrosinistra, disastro che naturalmente non rivendicherà mai, come Trisulti a Steve Bannon. Nel frattempo però l'arcirivale Letta ottiene la promozione a ministro dell'Industria e il nostro continua a soffrire. Nel 2001 entra finalmente in Parlamento e dopo la rielezione del 2006 diventa capogruppo alla Camera dell'Ulivo, la formazione che precede la fusione di Ds e Margherita e la nascita del Pd. Nel 2007 Veltroni lo sceglie come vicesegretario del nuovo partito, rendendo esplicitamente omaggio al tempismo con cui era stato tra i primi a salire sul carro del futuro vincitore, ma anche predisponendolo alla madre di tutte le sconfitte, quella contro Bersani nel 2009. Il giovane di Ferrara aiuta volenterosamente Veltroni a scavare la fossa al governo Prodi. In nome della "vocazione maggioritaria" del neonato partito i due cercano le elezioni anticipate per provare su strada il prototipo. Escono di strada alla prima curva e dalla disfatta elettorale del 2008 la sinistra italiana non si è ancora ripresa. Rosy Bindi li fulmina a caldo: «Veltroni e Franceschini hanno distrutto il centrosinistra». Renzi, più sintetico, ribattezza Franceschini “vicedisastro”. La partita contro Bersani nasce dunque storta. Franceschini gli aveva promesso di non sfidarlo alle primarie. Ma la parte più rancorosa di un partito dominato dai rancori lo convince a correre come se non fosse il segretario ma lo sfidante del potere costituito. Denuncia l’esilità del suo pensiero politico lasciandosi imbambolare da rottamatori nuovi (il sindaco di Firenze Renzi) o improbabili (l'ex segretario dei Ds Piero Fassino) che lo usano come testa d'ariete per la loro spedizione punitiva contro la "ditta" bersaniana (e dalemiana). Lui lascia che vecchi arnesi post comunisti usino la sua campagna congressuale per i loro regolamenti di conti. Così si manifesta definitivamente inadeguato ai ruoli da numero uno, come dimostra la gaffe con cui accusa Berlusconi di aver evitato il servizio militare. Gli parte la fesseria che un vero leader deve evitare, la balla autoelogiativa: «Io ho conosciuto dall’interno le Forze armate perché ho fatto il servizio militare, soldato semplice nell’artiglieria contraerea». Pensa di dimostrare così che la sinistra è più vicina della destra alle forze armate. Passano solo tre giorni e sul berlusconiano Giornale l'affilato cronista Gianni Pennacchi dimostra che “l'artigliere Franceschini”, da figlio di papà super privilegiato in quanto consigliere comunale, aveva ottenuto il cosiddetto “avvicinamento” e fatto il militare al centralino del Distretto militare di Ferrara, respingendo telefonate (non bombardieri nemici) a pochi metri dalla casa paterna dove andava a dormire tutte le sere, risolvendosi il suo servizio alla patria in otto ore di turno in ufficio. Ma è proprio dopo la disfatta contro Bersani che nasce il Franceschini 2.0, quello che non punta più a essere un numero uno (e del resto mai un numero uno della politica è riuscito a centrare l'obiettivo del Quirinale). Da capo del gruppo parlamentare alla Camera comincia a tessere la sua fitta tela di relazioni a 360 gradi che non dimentica nessun angolo d’Italia, nessun assessore, nessun piccolo sindaco. Nasce la sua corrente AreaDem, un gruppone a geometria variabile che oggi dispone di uno strano sito internet dove non c’è scritto che è una corrente del Pd né chi ne è capo e chi ne fa parte, forse perché le sue sorti sono in declino, con i parlamentari fedelissimi ridotti a una quindicina su un migliaio totale. Franceschini capisce di poter contare negli equilibri interni del partito con la sua pattuglia di parlamentari. anche senza ambire al vertice. Mette in campo il fiuto meteorologico e porta sempre al sicuro suoi, come il navigatore John Franklin che salvava le navi e gli equipaggi perché vedeva le secche prima degli altri. Nel 2012, quando Renzi sfida Bersani per la candidatura a premier, Franceschini è netto: «Con tutto il rispetto per Renzi, non so cosa accadrebbe se dovesse toccare a lui di subentrare a Monti». Nell’estate seguente, quando si avvicinano le primarie per la scelta del nuovo segretario Pd, è ancora abrasivo: «Matteo più che sognare un governo che faccia contenti gli italiani sogna più concretamente un governo guidato da lui». Ma poche settimane dopo, in seguito a una visita privata al sindaco di Firenze per “parlare d'arte”, si schiera con lui contro Gianni Cuperlo: «Mi sfugge dove sia il tradimento». In quel momento è ministro per i Rapporti con il parlamento del governo Letta. Renzi diventa segretario del Pd a dicembre 2013 e prepara il colpo di mano con cui in due mesi farà le scarpe a Letta (#enricostaisereno). Franceschini si unisce alla schiera, ampia, degli accoltellatori e diventa ministro dei Beni culturali. Forse era quella “l’arte” di cui parlava con Renzi sei mesi prima. Ma prima c’è la drammatica resa dei conti con l’amico-rivale di sempre. Letta, secondo il Corriere della sera, lo accusa: «Dario, io ti ho creduto quando giuravi che quelle riunioni con i dirigenti renziani e con i leader del partito le facevi per il mio governo. E invece no, scopro che trattavi per il governo Renzi». Letta, andreattianamente, smentisce la frase nella sua letteralità ma non il litigio. Che c'è stato, durissimo. Franceschini, zaccagninianamente, nega tutto e accusa i giornalisti di «gettare fango sulle persone e sui rapporti personali». La partita è ancora aperta e accompagnerà la corrida quirinalizia.

·        Debora Serracchiani.

Debora Serracchiani, ecco che tipo di femminista è: tutta la verità sulla piddina che vuole il potere ma non sa usarlo. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. Spiace contraddire le contorsioni femministe di Enrico Letta, ma rispetto a Debora Serracchiani il suo predecessore Graziano Delrio sembra Winston Churchill sotto adrenalina. E invece il nuovo segretario ha preferito piazzare lei alla presidenza dei deputati democratici, illudendosi di lavare così l'onta maschilista di Nicola Zingaretti che aveva dovuto ricollocare i tre capicorrente nella delegazione di governo del Pd. Spiace, dicevamo, anche perché la Serracchiani non è certo l'ultima arrivata: la conosciamo dal 2009, quando si è imposta all'attenzione del Partito democratico contestandone la classe dirigente che aveva appena rottamato Walter Veltroni, per diventare eurodeputata di lì a poco, quindi presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia; poi si è stabilmente piazzata nel ruolo di responsabile nazionale dei Trasporti e infrastrutture del Pd, transitando per le segreterie di Guglielmo Epifani e Matteo Renzi fino a diventare vicesegretario con il bullo di Rignano (2014) e vicepresidente di Paolo Gentiloni (2019).

Luogocomunismo. Da una donna con un tale cursus honorum ci si dovrebbe attendere competenza e presenza scenica di prim' ordine. E invece, fin dall'esordio dopo l'incoronazione da parte dei colleghi di Montecitorio a fine marzo, eccola subito spiaggiata sulle rive del luogocomunismo lettiano: dalla battaglia lunatica per lo ius soli alla «questione femminile» come passepartout indifferenziato, attivato però a corrente alternata: «La leadership al femminile deve essere un'occasione per il partito di cambiare le logiche che lo tengono intrappolato», ha scritto subito dopo l'elezione a capogruppo, senza però spiegarci perché qualche settimana prima aveva rinunciato a sfidare lo stesso Letta per la segreteria del Pd come le aveva chiesto la corrente rosa delle Donne democratiche in cerca di riscatto femminista. La verità è che Serracchiani, essendo donna di potere e quindi di apparato, ha preferito sottostare a un accordo tutto al maschile fra gli ex renziani di Base riformista e la nuova segreteria lettiana, ricevendone in premio la guida del gruppo parlamentare come contropartita di un testacoda inatteso dalle colleghe («noi donne dem dobbiamo prendere sul serio la sfida per la leadership, che dobbiamo mettere sul tappeto senza alcuna timidezza», aveva illuso tutte in un colloquio con il Riformista). Ma stiamo parlando di cose minute e un po' labirintiche. Dalla sempre compunta e inappuntabile Serracchiani - già compilatrice di un memorabile dress code da educand* per sindac* friulan* quando governava la Regione - nessuno ha finora ricevuto segnali di particolare vitalità politica che non fossero la quieta, ordinata e avvocatesca parafrasi d'un credo partitico del segretario di turno. Mai una parola fuori posto, un cenno d'insofferenza, un tratto distintivo e un contributo rimarchevole al dibattito pubblico. Acqua cheta, appunto, capace di scorrere indisturbata tra la vocazione maggioritaria e grancoalizionista di Renzi, la svolta ribaltonista giallorossa di Zingaretti e, adesso, le larghe intese con la Lega dell'arcinemico Matteo Salvini ereditate da Letta jr.

Acqua cheta. Non è colpa sua, e tuttavia ella rappresenta una maledizione per ogni ritrattista che voglia indagarne l'imperscrutabile ragion d'essere: si finisce in un precipizio di stordimento letargico a rimpiangere la corposa mitezza di Delrio, che non è un fulmine di guerra ma per lo meno alle sue spalle lascia avvertire la presenza di un mondo e di una storia tridimensionali. Ad ogni modo, dopo aver letto i suoi ultimi, piatti e sacrosanti tweet indignati per i noti oltraggi subiti in Turchia da Ursula von der Leyen o per i maltrattamenti di genere riservati da cattivi genitori a una figlia lesbica, restiamo in fiduciosa attesa che Serracchiani ci smentisca in maniera squillante, s' intesti una battaglia originale, una fronda improvvisa o anche solo un emendamento che non sia telecomandato dal Nazareno. In alternativa va bene anche un selfie spettinato e rockettaro, purché sia vita.

·        Emanuele Macaluso.

Dagospia il 29 aprile 2021. Estratto del libro di "L'ultimo compagno" di Concetto Vecchio.

«Quando, nel pomeriggio del 9 luglio 1943, gli alleati bombardarono Caltanissetta, io mi trovavo nel letto di Lina.» «Lina» annoto sul taccuino. «Era la madre dei miei figli»

precisa Macaluso. E mi scopro a fantasticare su due amanti avvinghiati in un amplesso, mentre dal cielo piovono bombe sulla Sicilia.

«L’avevo conosciuta nel 1941, dopo che ero stato dimesso dal sanatorio. Antonio Lo Bue, un coetaneo che abitava nel mio stesso palazzo, col proposito di farmi svagare, mi aveva invitato a un pomeriggio danzante a casa di questa donna, Michela Di Maria, detta Lina. Non c’erano balere a Caltanissetta. Si ballava negli appartamenti, godimenti rari nel nostro ambiente sociale poco incline ai divertimenti.  Iniziammo a conversare. Aveva vent’anni.»

«E tu diciotto» gli dico. «No» mi corregge, col solito puntiglio. «Ne avevo ancora diciassette. Era molto bella» aggiunge, come distraendosi. «Aveva marito e due figli, Enza e Franco. Si era sposata a quattordici anni con un uomo più anziano di lei di diciotto anni, una guardia municipale.»

«Quattordici anni?» lo interrompo stupito. «Quattordici anni» sillaba. «Sua madre era rimasta vedova giovane e Lina si era maritata che era ancora quasi bambina. Apparteneva a un ceto più elevato del mio, i suoi commerciavano in mandorle. Ballare con lei mi turbo moltissimo. Sentii nascermi dentro un sentimento violento. Ci tornai una seconda volta e cominciai a corteggiarla con discrezione, intuii subito che ero pudicamente corrisposto. E cosi ci innamorammo» dice Emanuele.

Mi piace come lo dice: «Ci innamorammo». Un vecchio leone del Novecento, rotto a tutte le esperienze della politica, ambizioso e duro, che esprime in due parole un sentimento semplice e umanissimo. Si alza senza preavviso e scompare in camera sua. Ciabatta al di là della porta, come il pensionato della canzone di Guccini «lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare». Torna tenendo in mano una scatola e vi estrae delle vecchie foto in bianco e nero. Lina ed Emanuele negli anni Sessanta durante una vacanza. Lina da sola, il corpo snello fasciato in un vestito a fiori, lo sguardo acuto e vivo. Loro due con i ragazzi, nell’Italia tutta di corsa del boom economico. Macaluso ha quarant’anni e sbandiera l’aria sorniona di una maturità soddisfatta. Lo osservo mentre rovista in quel giacimento di ricordi. Cosa gli sommuove quel cercare? Cosa vuol dirmi nel farmi conoscere Lina? Il suo respiro pesante riempie la stanza e c’è già, in quel cercare, la risposta a tutte le mie curiosità. Poi, tenendo in mano quelle istantanee, riprende il filo della narrazione. «Cominciammo a vederci, seguendo una trama complicata di incontri clandestini. Una mattina che suo marito era in servizio mi invito a casa sua. Avevo scoperto il sesso tempo prima, bussando alle porte di una prostituta che esercitava in “un basso”, pretendeva una lira per quel po’ di amore. Era una donna di quasi quarant’anni, ne bella, ne particolarmente desiderabile. Mi fece lavare e ci accoppiammo. Fu tutto così veloce e confuso, che ne provai un senso agro. Non ci tornai più. In citta erano attive tre o quattro case chiuse, una per ogni ambiente sociale. Forse perchè sentivo che quelle donne erano soggette a uno sfruttamento contro il quale mi battevo, o forse perchè semplicemente mi ripugnava pagarle, mi imposi di non frequentarle più, seppur sentissi montarmi dentro l’urgenza del sesso. Lina mi aveva preso la testa. Entravo e uscivo da casa sua sgattaiolando, attento a non farmi scoprire dai vicini. Erano incontri rari, resi impervi dai sotterfugi ai quali dovevamo sottostare. Certe mattine d’estate facevamo delle passeggiate in campagna, per parlare in pace e stare insieme.»

«Non vi scoprirono?» chiedo, lasciando trasparire la mia incredulità. «No» risponde deciso. E per una volta non so se credergli. «Caltanissetta e piccola» ribatto. «Non ci scoprirono» assicura.

Maurizio Caprara per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. Sono stati numerosi i comunisti arrestati in Italia negli anni Quaranta. Trascorsi meno di venti giorni dalla Liberazione di Roma, il partigiano gappista Rosario Bentivegna fu portato in carcere per aver ucciso un ufficiale della Guardia di Finanza in uno scontro a fuoco. Nella seconda metà del decennio, arrivarono ad acquistare un rilievo statistico le catture di militanti ai quali venivano addebitati adunata sediziosa o resistenza a pubblico ufficiale, blocco stradale, reati legati a manifestazioni non autorizzate. Emanuele Macaluso, che comunista lo era diventato dopo aver avuto più tempo per leggere libri a causa di una tubercolosi a 16 anni di età, organizzava in Sicilia proteste di disoccupati. Per questo motivo fu denunciato agli Alleati da notabili che lo descrissero come nemico degli angloamericani. Ma in prigione il giovane Emanuele, nato a Caltanissetta nel 1924, finì per altro: adulterio. Quando la dittatura fascista era al potere, Macaluso si era innamorato, ricambiato, di una donna sposata. Lei, Lina, in precedenza aveva preso marito a meno di quattordici anni e aveva avuto a quindici la prima figlia. «Caduto il fascismo, e avendo un lavoro, pensai che potesse finire anche la clandestinità del mio rapporto amoroso», ha raccontato Emanuele nel libro 50 anni nel Pci , Rubbettino editore. «Dovevo affrontare le ire dei miei genitori, ed erano notevoli, ma non sapevo che questo era il meno», ha aggiunto. Per poi osservare: «Si trattava, ecco il punto, di una unione illegale, scandalosa, intollerabile per lo Stato, per la mia famiglia, per il mio partito e soprattutto per i miei nemici politici». Furono questi ultimi, «i gestori delle miniere, le "autorità" alle quali con la mia attività sindacale cominciavo a rompere i coglioni», secondo Macaluso, a premere sul marito di Lina, guardia comunale, affinché denunciasse la relazione. I due amanti furono rinchiusi nel carcere Malaspina. Il ragazzo rimase in cella settimane, poi ricevette sia una condanna a sei mesi e quindici giorni dalla magistratura sia una sorta di processo nel Partito comunista. Sebbene concluso da un'assoluzione, il secondo non fu leggero. Macaluso fu ritenuto inadatto per un incarico di responsabile del Fronte della Gioventù che si era profilato. È anche per quello che la sua militanza in difesa degli sfruttati rimase allora nell'ambito del sindacato, la Cgil, rinviando a più tardi le cariche nel Pci. Risoluto nel difendere la linea del partito, ma originale nel coltivare convinzioni proprie. Rispettoso delle tradizioni. Almeno dagli anni Ottanta, tuttavia, di rado «in linea» rispetto ai segretari di Botteghe Oscure, dai quali lo distanziava l'idea, condivisa con Giorgio Napolitano, che per cambiare e governare l'Italia occorressero politiche del tutto riformiste e una collocazione occidentale. Aveva una personalità difficile da incasellare nelle principali categorie dell'antropologia comunista, Macaluso. Colto, allo stesso tempo privo di vezzi diffusi tra gli intellettuali. Duro, perfino aspro, nella polemica all'interno e all'esterno del Pci, però non privo di tatto inatteso. Quando abitava vicino alla sede del «Manifesto» in piazza del Grillo, a Roma, non rinunciò mai all'amicizia con dirigenti del gruppo, pur essendo tra quanti li avevano radiati dal partito. Prima che terminasse la sua esistenza terrena, Macaluso aveva fornito due delle chiavi più utili per analizzare uno dei fenomeni politici importanti nell'Italia del Novecento. Una si trova in alcune sue frasi pronunciate nel 2017 ai funerali di Valentino Parlato: «Penso che chi vuole capire meglio che cosa è stato il comunismo italiano - ripeto: italiano - lo può fare solo attraverso la biografia delle persone. Le persone che hanno popolato questo grande alveo che è stato il comunismo italiano. E sono biografie molto, ma molto diverse». Macaluso indicò come esempi le storie personali di Antonio Gramsci, del sindacalista di popolo Giuseppe Di Vittorio, del suo successore Bruno Trentin, figlio di un intellettuale del Partito d'Azione, di un'operaia come Teresa Noce e dell'universitaria cattolica Nilde Iotti. Anche se non lo specificò, la seconda chiave interpretativa si attagliava perfettamente alla propria, di persona: «Perché è avvenuto? La ribellione è stata la molla del comunismo italiano. Il fatto di non accettare l'esistente, di pensare che l'esistente poteva essere cambiato e che per cambiarlo bisognava organizzarsi, che per organizzarsi si doveva stare insieme e che per ribellarsi non bastava la ribellione dove vivevano, ma che bisognava ricollegarsi non solo nazionalmente. Nel mondo». Se non fosse stato uno dei dirigenti che presero le distanze con chiarezza, seppure tardivamente, dall'Unione Sovietica, potrebbero apparire affermazioni monche. Non lo sono. A parlare era uno che i sovietici, durante e dopo la segreteria di Enrico Berlinguer, tenevano d'occhio, come avveniva a Napolitano e a Carlo Galluzzi. «Macaluso aveva avuto una relazione duratura con una signora. Egli la incontrava in una villa e ha veleggiato con lei nel Mediterraneo», riferiva a ufficiali del Kgb con stile guardonesco uno dei rapporti Impedian trasmessi ai servizi segreti britannici dall'archivista sovietico Vasilij Mitrokhin. Un frammento quasi da rotocalco in mezzo a bassezze denigratorie. Verso un dirigente politico razionale, e molto, ma un ribelle per il quale sentimenti e ideali erano tutt' altro che accessori.

·        Enrico Letta.

Enrico Letta, soldi, misteri e amici francesi: quei documenti "spariti" sul sito della Camera. Libero Quotidiano il 16 dicembre 2021. La bordata di Franco Bechis su Enrico Letta: nel mirino del Tempo ci finisce la dichiarazione dei redditi del segretario Pd, con non pochi misteri. "Hanno sparso quintalate di moralismo - scrive il quotidiano romano riferendosi agli esponenti della sinistra -. Ma quando si tratta di loro stessi, lo zelo viene sempre riposto". Motivo dell'affondo? Da un paio di mesi Letta è diventato deputato, eletto nel collegio uninominale di Siera al posto di Piercarlo Padoan, eppure sul sito della Camera ancora non compare la sua documentazione patrimoniale. Certo, Letta ha tempo per farlo fino a gennaio, ma da chi di tutto fa una "questione morale" ci si sarebbe attesi un po' più di solerzia. Il Tempo ha indagato nel database del Cerved in cui risulta che il segretario dei demi non abbia beni patrimoniali in Italia. Nella sezione del profilo da deputato di Letta, alla voce "dichiarazioni di incarichi e professioni", però, il leader segnala, oltre ovviamente alla sua posizione di segretario di partito, quella di presidente dell'Istituto Jacques Delors, celebre think tank con sede a Parigi. Qualche mese fa il quotidiano Domani, diretto da Stefano Feltri, aveva però ricordato la fitta rete di incarichi e poltrone occupate da Letta negli ultimi anni: co-presidente di Tojoy Western Europe (definito "un acceleratore di start up per le imprese cinesi e per le imprese che vogliono entrare nel mercato cinese"), tra i fondatori della società parigina Equanim (la "prima piattaforma di mediazione internazionale"). Andando più indietro nel tempo, nel 2016, Letta fu nominato nell'advisory board di Amundi, "società specializzata nell'asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole". L'incarico, l'ultimo di un solidissimo sodalizio con il mondo finanziario, economico e politico francese, che Letta ha lasciato lo scorso marzo "per incompatibilità con il ritorno alla politica italiana". Anche solo rileggendo queste righe, non stupisce che Giorgia Meloni abbia ironizzato sul legame tra Letta e la Francia, parlando di un Pd asservito agli interessi dei transalpini e di un segretario demi "Casalino di Macron".

Enrico Letta, i beni del segretario Pd sono un mistero. Domenico Alcamo su Il Tempo il 16 dicembre 2021. Hanno sparso quintalate di moralismo, lorsignori. Ripristinato peraltro in questa concitata fase di corsa al Quirinale dove, seppur in forma più soft, sono tornati a sventolare il vessillo dell'anticoberlusconismo. Ma quando si tratta di loro stessi, lo zelo viene sempre riposto. Da un paio di mesi, il segretario del Pd Enrico Letta è stato eletto alla Camera, nel collegio uninominale di Siena dove è entrato al posto di Piercarlo Padoan, nel frattempo dimesso. Ebbene, sul sito della Camera non compare ancora la documentazione patrimoniale. Va detto, a onor del vero, che ha tempo fino a gennaio. Dunque non c'è alcun ritardo nei tempi formali, ma forse prendendo a criterio i «tempi morali» che da quella parte hanno sempre imposto agli altri, forse un po' oltre lo siamo. Sulla pagina del sito della Camera dedicata alla situazione patrimoniale del singolo deputato, ancora non è stato caricato il documento che lo riguarda.

Tuttavia, attraverso una ricerca al database del Cerved che Il Tempo ha avuto modo di eseguire, il segretario Pd non risulta avere beni patrimoniali in Italia. Poi c'è un'altra sezione del suo profilo sul sito di Montecitorio, ossia quella dedicata alle «dichiarazioni di incarichi e professioni».

In questo caso, il documento è stato consegnato, e presenta due voci. La prima è quella, ovviamente, di segretario nazionale del Partito democratico. La seconda è Presidente dell'Istituto Jacques Delors. Cioè un think tank che ha sede a Parigi e il quale ha come fulcro culturale «l'Europa Unita». Al di là dello scarno, attuale, novero di incarichi, un'inchiesta del Domani, qualche mese fa, aveva ricostruito un novero piuttosto cospicuo degli incarichi e ruoli di vario tipo ricoperti dall'attuale segretario Pd negli ultimi anni, nella fase di stop con la politica italiana. Ad esempio co presidente di «Tojoy Western Europe». Di che si tratta? «Un Acceleratore di start up per le imprese cinesi e per le imprese che vogliono entrare nel mercato cinese».

Una società che si avvale della collaborazione di un buon numero di ex Capi di stato e di governo occidentali. Ad esempio, Werner Faymann, ex cancelliere austriaco. Sempre lo stesso articolo, segnalava Letta tra i fondatori di Equanim, società parigina, che nel proprio sito si definisce «prima piattaforma di mediazione internazionale». Che ha portato a termine un dossier importante.

«Uno degli accordi più importanti per l'economia continentale degli anni a venire: i due giranti transalpini di acqua, rifiuti ed energia, Veolia e Suez, hanno trovato l'intesa per fondersi dando vita ad una società da 37 miliardi di fatturato (...). Suez si era opposta per via giudiziaria al tentativo di acquisizione di acquisizione di Veolia dando vita ad una battaglia durata tre stagioni» dunque «a permettere la pace è stata Equanim». O ancora: «Era il 2016 - spiegava Domani - quando Letta fu nominato nell'advisory board di Amundi, società specializzata nell'asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole». Un incarico che il segretario Pd «ha lasciato a marzo di quest' anno per incompatibilità con il ritorno alla politica italiana».

Giovanna Faggionato per "Domani" il 13 luglio 2021. Ai numeri 76-78 dell’avenue degli Champs Elysée, a Parigi, ha sede l’ultima avventura di Enrico Letta, anzi penultima, visto il suo ritorno improvviso in patria a fine marzo per riprendere le redini del Partito democratico. Molti sanno che l’ex primo ministro italiano nella capitale francese è stato il direttore dell’istituto per gli affari internazionali della prestigiosa università di Sciences Po e presidente del Jacques Delors Centre, l’istituto intitolato a uno dei padri fondatori dell’Unione europea, probabilmente il più nobile ex presidente della commmissione Ue. Pochi invece hanno seguito con costanza i suoi rapporti con il mondo del business che con l’allontanamento dalla politica si sono moltiplicati. Il suo nome è stato citato in aprile dal quotidiano Le Monde, quando è stato siglato uno degli accordi più importanti per l’economia continentale degli anni a venire: i due giganti transalpini di acqua, rifiuti ed energia, Veolia e Suez, hanno trovato l’intesa per fondersi dando vita a una società da 37 miliardi di fatturato, pari al giro di affari di un colosso dell’automotive come Stellantis. Suez si era opposta per via giudiziaria al tentativo di acquisizione di Veolia dando vita a una battaglia durata tre stagioni. La stampa italiana ha raccontato i tentativi di mediazione del ministro dell’economia francese Bruno Le Maire, ma non ha raccontato che a permettere la pace è stata la la mediazione della società parigina, Equanim, di cui Letta è presentato come fondatore. Equanim si definisce la «prima piattaforma di mediazione internazionale» e il suo modello di business, sulla carta, è piuttosto semplice: arruolare personalità di altissimo livello del mondo degli affari e della politica internazionale che possano avere un ruolo di mediatori in conflitti complessi come quello Veolia Suez. Sul suo sito appare un cameo di Letta, affiancato a una sua dichiarazione: «Nel contesto di contenziosi internazionali ad alta intensità, Equanim permette alle parti di coinvolgere individui della vita pubblica e economica internazionale come co-mediatori e operatori di mediazione per fornire una soluzione completa alle dispute più complesse». I giornalisti francesi che abbiamo contattato si sono attenuti a quanto dichiara la società, noi abbiamo chiesto chiarimenti sia a Equanim che a Letta. Secondo i documenti del registro delle imprese francese, le azioni della società sono detenute solo da tre dei fondatori: l’ex ministro dell’interno francese, Matthias Fekl, collaboratore del candidato alle presidenziali Benoit Hamon che sfidò Macron, dall’ex vicesindaco della capitale francese Patrick Klugman, partner dello studio legale Gka e associati, e dall’avvocato Ivan Terel esperto di diritto internazionale dello stesso studio. Ma al loro fianco sono elencati altri tre fondatori d’eccezione, Letta appunto, che è anche presidente onorario del consiglio strategico internazionale della società, Maurice Levy, celebre manager e milionario francese, già presidente e direttore generale del gigante pubblicitario Publicis e Gérard Mestrallet, altro grande capitano d’azienda d’oltralpe, già presidente di Suez e direttore generale di Engie, che attualmente guida anche l’agenzia francese per lo sviluppo della città saudita Alula e siede nella commissione reale del regime saudita per Alula, a fianco a Matteo Renzi. È a Mestrallet che Equanim ha affidato la mediazione vincente su Suez, azienda che ha guidato per anni, e per cui gli è stata pagata una parcella da dieci milioni di euro. Mastrellet come Letta non è socio della società ma partecipa alla sua attività. Il consiglio strategico internazionale che Letta presiede poi annovera molte altre personalità notevoli: l’ex ministro dell’interno francese, Bernard Cazeneuve, l’ex premier belga Yves Leterme, che nel 2016 ha abbandonato definitivamente la politica e ora tra i tanti incarichi è anche membro dell’organo di controllo finanziario dell’Uefa, Henrie De Castries che presiede l’institute Montaigne ed è il vicepresidente di Nestlé, l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, oggi presidente dello European council of foreign relations, e poi Gerard Kromme, presidente di ThyssenGroup, Anne Marie Idrac, ex segretario di stato per i trasporti in Francia e consigliere di Total, AirFrance, Klm, e Thomas Glocer, ex amministratore delegato del gruppo Reuters e presidente del Council of foreign relations, amministratore indipendente di Morgan Stanley, solo per citarne alcuni. Equanim è stata fondata a febbraio 2021, appena un mese prima che Letta fosse richiamato di improvviso a guidare il partito democratico fuori dalle secche in cui era finito con la fine del governo Conte due e le successive dimissioni di Nicola Zingaretti. Allora l’attuale segretario del Pd doveva sentirsi ben lontano dalla politica partitica e pronto ad arricchire il bouquet di incarichi che ha accumulato negli anni vissuti distanti da Roma, ma che gli sono stati affidati anche per lo status della sua esperienza politica di alto livello in Italia. Era il 2016 quando Letta fu nominato nell’advisory board di Amundi, società specializzata nell’asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole e nota in Italia soprattutto per aver acquisito Pioneer dalla Unicredit di Jean Pierre Mustier, con una trattativa avviata nel dicembre di quell’anno. Amundi non ha voluto rendere pubblica quale sia stata la retribuzione per quell’incarico, ma ci ha confermato che Letta lo ha lasciato a marzo di quest’anno per incompatibilità con il ritorno alla politica italiana. Nella galassia Crédit Agricole nel frattempo è entrata una lettiana doc come Alessia Mosca, anche lei docente a Sciences Po, nominata di recente presidente di Crédit Agricole Italia. In quel board Letta ha seduto per cinque anni a fianco di personalità provenienti dal mondo delle istituzioni come Jurgen Stark, l’ex capo economista e membro del direttivo della Banca centrale europea e grandi patron di impresa francesi come Levy, presidente e direttore generale del gruppo pubblicitario Publicis, che ritroviamo accanto a Letta anche nella ben più recente avventura di Equanim. Proprio a Publicis, l’ex premier italiano ha ottenuto un altro incarico di rilievo: nel maggio del 2019 è diventato membro del consiglio di sorveglianza del gruppo. Inoltre, sempre con Levy e Thomas Glocer, altro advisor di Equanim, sedeva nel comitato rischi e strategia. L’ultimo bilancio depositato da Publicis registra l’impegno e la remunerazione di Letta: per otto sedute, sempre presente, è stato pagato 100 mila euro. Per dare una idea del livello di clienti e di rischi che può affrontare il gigante della pubblicità francese, basti dire che una delle sue controllate ha curato per vent’anni e continua a curare l’immagine della monarchia saudita. Si tratta della società di pubbliche relazioni americana Qorvis ingaggiata dalla monarchia di Riad nel 2001 dopo l’attentato dell’undici settembre realizzato da dirottatori in maggioranza sauditi. Publicis ha acquisito la società nel 2014 e ha continuato il rapporto con il cliente anche in seguito alle rivelazioni sull’omicidio del giornalista Kashoggi, anzi ha moltiplicato i contratti. Nel febbraio 2018, Levy era uno dei sostenitori della narrazione riformista sul paese arabo. A fine ottobre dello stesso anno, quando per la prima volta la monarchia saudita ammise che l’omicidio di Kashoggi, il giornalista dissidente smembrato nel consolato saudita di Istanbul, era stato pianificato, gli venne chiesto se Publicis avrebbe smesso di curare l’immagine di Ryad come avevano già fatto altre grandi firme. «Per il momento stiamo esaminando tutti gli aspetti e monitorando la situazione con molta attenzione», si è limitato a dire l’allora presidente, «Come sapete, al momento c'è una situazione quantomeno confusa». I sauditi hanno ammesso la pianificazione dell’omicidio, ma argomentava Levy, «nessuno sa chi ha dato l'ordine per il momento. Possiamo immaginare, ma non abbiamo prove». Nel 2020, quando già Letta sedeva nel consiglio di sorveglianza e nel comitato rischi, secondo i portali specializzati del settore pubbliche relazioni Qorvis ha ottenuto un contratto annuale da 690mila dollari per gestire la pubbliche relazioni della commissione per i diritti umani del regno saudita, messa in piedi proprio per migliorare l’immagine del regno. Poco dopo l’ingresso in Publicis, Letta ottiene un nuovo incarico. L’8 agosto 2019, data fortunata per la simbologia cinese – l’8 è il numero che più si avvicina all’infinito - le agenzie battevano la seguente notizia: «Mentre la Cina celebra i quarant’anni della sua riforma e della sua politica di apertura e continua a guidare l’iniziativa globale della via della seta, la compagnia cinese Tojoy sta dimostrando un continuo impegno nel business globale accogliendo talenti internazionali di alto livello. Questo luglio l’ex primo ministro italiano Enrico Letta e l’ex cancelliere austriaco Werner Faymann hanno raggiunto ToJoy come co-presidenti di Tojoy Western Europe». Tojoy si definisce un acceleratore di start up per le imprese cinesi e per le imprese europee che vogliono entrare nel mercato cinese. Il nome del gruppo è Tojoy Sharing group, che richiama la sharing economy e la gioia della condivisione. Ultimamente i comunicati della società insistono molto sul sostegno alla Belt and road initiative di xi Jinping. I due co-presidenti Letta e Faymann hanno seguito l’esempio di un altro ex premier europeo, Leterme, che ritroviamo tra gli advisor di Equanim e che negli anni è stato aspramente criticato per la sua condotta abbastanza spregiudicata al confine tra politica, lobbying ed economia. Leterme è co-presidente della società cinese, assieme all’ex presidente serbo Boris Tadic e all’ex presidente della Costa Rica, Jose Maria Figueres. Un mese prima di diventare presidente di Tojoy per l’Europa occidentale, Letta aveva presenziato e tenuto un discorso alla cerimonia che la società aveva organizzato in occasione dell’apertura del suo primo ufficio in Europa, a Parigi. Con lui hanno celebrato il momento anche l’ex premier francese François Fillon, quello spagnolo Luis Zapatero, l’ex vicepremier olandese Brinkhorst e al portoghese Portas. Sul sito di Tojoy c’è una vetrina di foto con 36 ex capi di stato e di governo, che vanno dall’ex presidente francese François Hollande, all’ex vicepremier tedesco, Sigmar Gabriel, ma solo alcuni hanno ruoli che vanno oltre il partecipare al «network globale» della società e Letta è tra questi. Secondo alcuni i giornalisti che lavorano a Pechino ToJoy non è una azienda molto conosciuta, seppure sia un gruppo con una storia decennale. In ogni caso chi conosce bene il sistema cinese spiega che quella di offrire ruoli onorari a leader stranieri è una prassi piuttosto comune. ToJoy non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento. In compenso sappiamo che l’estate scorsa ha aderito alla rete internazionale per le piccole e medie imprese (Insme) che lavora sotto l’ombrello dell’Ocse e ne ha incontrato i vertici italiani. Il presidente di Insme Italia, Sergio Arzeni, dice che ToJoy mette insieme circa 750mila tra imprese e investitori cinesi con una diffusione capillare che non si limita alle grandi città. Il punto di contatto tra la rete italiana e ToJoy è l’ex premier belga Leterme, che è stato vicesegretario dell’Ocse quando Arzeni era il direttore del centro per l’imprenditorialità dell’organizzazione internazionale: «Siamo legati da stima e amicizia», dice Arzeni organizzatore del primo incontro ministeriale Ocse che ha dato vita a Insme, tenuto in Italia quando era premier Amato e Letta era ministro dell’industria. «La scorsa estate abbiamo discusso di progetti di piccoli produttori italiani di qualità da portare in Cina, vino, cibo, artigianato, coinvolgendo Unioncamere e Simest perchè li segnalassero, ma poi con il lockdown non se ne è fatto più nulla». Anche se recentemente la società diffonde comunicati che vengono ripresi da diversi portali di informazione italiani, dall’AdnKronos a LaSicilia, l’unico affare concreto sembra l’accordo di distribuzione dei prodotti della società Nokonden, produttore di macchinari di disinfezione e analisi medica, in una joint venture con un produttore di disinfettanti e termoscanner, l’affare migliore in tempi di Covid 19. L’ex premier Leterme somma molti più incarichi di Letta, da Volkswagen all’Uefa, che portano a continue sovrapposizioni di ruoli. Affianca Letta in Equanim e nel club di Madrid, una organizzazione internazionale di politici che organizza eventi e attività su temi di interesse internazionale. E da quando ha un rapporto consolidato con ToJoy ha moltiplicato gli interventi pubblici a favore dei dirigenti di Pechino. Il 26 giugno scorso la sua faccia appariva sulla copertina del tabloid popolare Southern Metropolis Daily dell’area di Guangzhou city, per un’intervista in cui sottolineava «la serenità, la gentilezza e la saggezza «dimostrate dai leader del partito comunista cinese nei loro scambi. Il professore di relazioni internazionali Jonathan Holslag, docente della Vrije Universiteit Brussel, l’ateneo fiammingo di Bruxelles, ha più volte criticato sulla stampa belga e olandese l’incarico di Leterme nel veicolo di investimento cinese. Per il professore gli ex uomini di stato stranieri aiutano gli imprenditori cinesi ad avvicinarsi al partito comunista. La stampa cinese, scrive Holslag, descrive il patron di ToJoy, Lu Junqing, come un faccendiere: «La sua spalla sinistra è la politica, la spalla destra è il business». E ancora: «Fonti cinesi descrivono il suo modello di business come l’economia delle foto di gruppo». Il suo sarebbe niente di meno che un ruolo di mediatore tra politica e affari, in quella zona grigia che Letta ha con gli anni frequentato progressivamente di più. Oltre ad Amundi, l’incarico che l’attuale segretario del Partito democratico ha mantenuto più a lungo, è quello di amministratore della Liberty Zeta, società di diritto britannico con sede in Regent’s Street a Londra. La Liberty Zeta è una holding che ha come azionisti diversi fondi di private equity riconducibili al fondo Glendower Capital e al fondo Bluegemm e che gestisce sostanzialmente i proventi del business del marchio di moda Liberty che ha il suo store allo stesso indirizzo nel centro della capitale britannica. Letta ne è stato tra gli amministratori da maggio 2016 a marzo 2021. Né la società, né lui hanno risposto alle nostre domande, ma tra tutti questo appare l’incarico decisamente meno problematico.

Letta e quella rete di affari da superconsulente. Paolo Bracalini il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Letta scioglie la riserva: è in corsa per diventare deputato. Gli incarichi collezionati in questi anni, da Amundi a Publicis. Alla fine, seppur pisano, Enrico Letta si candida a Siena, alle suppletive. Pisani e senesi, disse, sono uniti da una cosa profondissima, si presume l'odio campanilistico per i fiorentini (ogni riferimento a Renzi è casuale). Il segretario Pd però, inizialmente si era mostrato scettico, quasi disinteressato al seggio parlamentare e al relativo emolumento. Appena eletto capo del partito era tutto un «non lo so», «non è la priorità», «non ho ancora preso in considerazione l'ipotesi», «mi hanno cercato i senesi del Pd», quasi fosse un sacrificio da scansare quello di occupare la poltrona alla Camera lasciata vacante dall'ex ministro Pier Carlo Padoan, dimessosi per andare in Unicredit come presidente. «La nostra logica, comunque, è che decidono i territori. Sono contro le imposizioni dall'alto, vediamo cosa decidono i territori» spiegava solo qualche settimana fa. I «territori» senesi del Pd sono quindi riusciti a convincere Letta, che in certe questioni (dal ddl Zan al dialogo con la Lega alleata di governo) è impermeabile ad ogni mediazione, su altre evidentemente è più malleabile. D'altronde c'era anche un problema pratico da affrontare, non subito, per non dare l'idea di essere tornato a Roma per riprendere la carriera politica, proprio lui che nel 2015 si era dimesso da deputato e dalla politica «fatta da gente che non fa altro, non ha un mestiere». Però, lasciata la scuola di Affari Internazionali a Parigi e gli incarichi incassati negli ultimi anni, Letta si è ritrovato segretario del Partito democratico ma senza stipendio. «Rinuncio a tutti gli incarichi retribuiti che ho perché credo nella moralità della politica. Ma anche per questo in questi giorni devo rivedere tutto...» spiegò in tv, facendo capire che il segretario Pd non vive di sola moralità, serve anche una retribuzione. Anche perchè Letta è abituato a standard economici di prim'ordine. Da professore parigino, ha messo a frutto tutta la sua esperienza istituzionale, come altri ex premier, per incassare consulenze prestigiose e ben remunerate. Anche qui il volto severo del leader di sinistra, erede di Berlinguer (di cui condivide il nome sentendone tutto il peso) lascia spazio al grande mediatore, profumatamente pagato proprio per trovare compromessi tra colossi. È il giornale di De Benedetti, Domani, diretto da Stefano Feltri, a svelare la fiorente attività extrapolitica ed extrauniversitaria di Letta. Il quale risulta fondatore della società di mediazione Equanim, che ha risolto la controversia tra Veolia e Suez fino alla fusione in una società da 37 miliardi di fatturato. «Enrico Letta per due anni è stato in Publicis, colosso pubblicitario francese criticato per i rapporti con i sauditi - scrive Domani -, è stato anche vicepresidente per l'Europa occidentale del veicolo di investimento cinese ToJoy». Nel 2016 poi è stato nominato nell'advisory board di Amundi, il più grande asset manager in Europa e tra i primi dieci a livello globale. Il compenso ricevuto da Letta non è stato reso pubblico da Amundi, mentre lo è quello ricevuto da Publicis, «per otto sedute, sempre presente, è stato pagato 100 mila euro». Una delle controllate di Publicis, l'americana Qorvis, cura l'immagine della monarchia saudita. L'ufficio stampa del Pd ha confermato che Letta si è dimesso da tutti gli incarichi, compreso quello in Equanim. Ora lo aspetta un più modesto seggio alla Camera, sempre che a Siena vinca il Pd, non più scontato come un tempo. Paolo Bracalini

Enrico Letta, ecco tutti gli affari in Cina del lobbista che guida il Pd: svelato il suo vero gioco. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Lobbista stai sereno. Sul Domani di ieri è comparsa, a firma Giovanna Faggionato, un'inchiesta sugli affari internazionali di Enrico Letta che, se in Italia esistesse stampa libera, che è cosa diversa dalla libertà di stampa, sarebbe destinata a monopolizzare l'agenda di quotidiani e televisioni anche dopodomani, tra una settimana, dieci giorni e via fino ai prossimi due o tre mesi. Il quotidiano diretto da Stefano Feltri ed editato da Carlo De Benedetti ricostruisce la tela di relazioni e incarichi, è il caso di supporre lautamente retribuiti, che l'attuale leader del Pd ha ottenuto quando lavorava da emigrato di lusso in Francia e ha in parte mantenuto una volta rientrato a Roma per guidare la zattera democratica. Tutta roba legale si intende, almeno così pare, ma anche senza dubbio degna di rilievo giornalistico, almeno da parte di chi ha dedicato decine di ore di inchieste televisive e fiumi di inchiostro alla ricerca dei rubli di Salvini o dei rimborsi elettorali spesi dalla Lega in campagna elettorale. Invece qualcosa ci dice che le robuste attività di lobby di Letta non avranno neanche un decimo del rilievo mediatico ottenuto dalle velleità russe del compagno leghista Savoini. Eppure quanto squadernato dal Domani è parecchio interessante. Si scopre che l'attività accademica all'Istituto di Scienze Politiche della Sorbona per il capo del Pd era non certo una copertura, sicuramente più di un diversivo, ma soprattutto una chiave d'accesso per attività e relazioni affaristiche di prim' ordine. Tra le più interessanti, quella della fondazione di Equanim, che si autodefinisce "la prima piattaforma di mediazione internazionale", con lo scopo sociale di reclutare personalità politiche e affaristiche di primissimo livello al fine di svolgere un ruolo di mediatore per conflitti internazionali complessi. Si parla di società in grado di garantire compensi da 10 milioni di euro, tanti ne ha fatturati il manager francese Gerard Mestrellet, in rapporti strettissimi con la monarchia saudita, al punto da sedere in commissioni governative del regime, per aver favorito la fusione tra i giganti dell'energia Veolia e Suez. L'amico dell'Arabia Saudita Mestrellet è, con Letta, tra i soci di Equanim, e forse a questo, e non già a magnanimità di cuore, è dovuto il fatto che l'attuale leader del Pd non abbia contribuito al linciaggio mediatico di Matteo Renzi, quando la stampa lo ha massacrato per aver intervistato a pagamento il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. BOMBA ATOMICA - Ma l'esperienza transalpina ha consentito a Letta di mettere un piede anche dentro Credit Agricole, attraverso l'ingresso nel board di Amundi, società di consulenza controllata dalla banca. Sono incarichi ben remunerati e che portano altre relazioni, e inevitabilmente altri quattrini. Tant' è che, grazie ad Amundi, Letta ha ottenuto un lavoro dal gruppo pubblicitario Pubilcis, che gli ha versato centomila euro per otto sedute nel consiglio di sorveglianza del gruppo. Sono tutti ruoli da fare invidia ai poveri mortali, ma che si possono mollare nell'attimo esatto in cui si decide di tornare alla politica attiva, per non correre il rischio di essere accusati di conflitto d'interessi. O meglio, il rischio resta, ed è reale, e se Letta non fosse del Pd ma di Forza Italia o della Lega già si sarebbe concretizzato da tempo, però si tratterebbe di accuse da cui ci si può difendere, o comunque che si può tentare di dribblare. La bomba atomica, l'incarico che ti segna a vita anche se lo molli è quello che Letta ha ottenuto da Tojoy, società che aiuta le attività imprenditoriali cinesi che nascono e quelle europee che vogliono entrare nel mercato del Dragone. Poiché la Cina è un regime, avere relazioni economiche con società di questo tipo significa venire a patti con il demonio. Pechino infatti quando paga non si dimentica di chiedere qualcosa in cambio, ed è per questo che, guardando all'estero, è più interessata a pescare chi è in grado di influenzare le politiche degli Stati piuttosto che a selezionare manager. In quest' ottica, la dittatura ha assegnato a Letta e all'ex premier austriaco Faymann il ruolo di copresidenti per il mercato dell'Europa Occidentale.

COINCIDENZE - E qui c'è un'altra straordinaria coincidenza tra gli incarichi di Letta e il suo comportamento politico su casi specifici non coerente con la sua narrazione generale. Il segretario del Pd infatti, atlantista e tifoso di Biden fino all'estasi, ha sempre lasciato cadere gli attacchi del presidente Usa al regime cinese, quasi si trattassero di banalità e non dello scontro che condizionerà il Paese per i prossimi decenni, come un professore di Scienze Politiche dovrebbe sapere. Ma d'altronde, l'afflato verso Pechino dalle parti del Pd è regola di casa, come insegnano i padri nobili Prodi e D'Alema. E forse è anche per questo che l'attuale segretario è il solo della maggioranza di governo che non vorrebbe eleggere al Quirinale Draghi, atlantista e scettico nei confronti del regime. Tocca quindi fare i complimenti al Domani, che ha svelato il vero gioco di Letta, il quale in televisione parla di diritti umani, donne e gay ma nel privato non disdegna di mettere la propria abilità a disposizione di Xi Jinping. E forse anche grazie allo scoop dei colleghi riusciamo a spiegarci il perché Enrico si ostini pervicacemente a cercare l'intesa con i Cinquestelle, che con i Dem hanno in comune solo la sudditanza, non psicologica, nei confronti del regime di Pechino. 

Oggi è un altro giorno, l'ex prof sorprende Enrico Letta: "Tua madre si lamentava per i voti. E io...", ciò che non sapevamo sul leader Pd. Libero Quotidiano l'1 giugno 2021. Enrico Letta è stato ospite di Oggi è un altro giorno su Rai 1, dove Serena Bortone gli ha riservato una sorpresa molto particolare. A un certo punto, infatti, un’inviata è intervenuta in collegamento da Pisa e non era sola: con lei c’era la vecchia professoressa di scienze del segretario del Pd, il quale l’ha subito riconosciuta. “Era un bravo ragazzo - ha dichiarato l’insegnante in pensione - non è che si impegnasse molto… ma riusciva comunque ad avere 7”. Letta è apparso subito molto divertito e ha ammesso le sue défaillance scolastiche: “Non andavo benissimo in scienze. Capivo poco e studiavo poco, ma alcuni argomenti mi affascinavano”. Poi la professoressa ha svelato un piccolo aneddoto: “Tua mamma si lamentava per i voti, io le risposi che avrei voluto avere io un figlio così, che invece di andare in giro andava a fare politica”. Nel corso dell’intervista rilasciata a Serena Bortone, Letta ha parlato soprattutto della sua vita politica in rapporto ai figli e alla sua famiglia: “La riservatezza è una forma di rispetto nei confronti dei miei familiari, soprattutto di mia moglie e dei miei figli”. Dopo aver sottolineato che avere un ruolo pubblico porta “solo danno e nessun vantaggio”, il segretario del Pd ha dichiarato che “non mi sognerei mai di usare i figli o la famiglia per dare messaggi politici”. Infine ha svelato un retroscena: “Accompagnavo i figli a scuola anche quando ero premier, perché mi piaceva, e una volta che lo dissi a Emma Bonino, ministro nel mio governo, mi fece un cazziatone dicendomi che ero il tipico maschio italiano che, siccome fa una cosa, lo deve dire a tutti”.  

Massimo Gramellini per "7- Sette" - Corriere.it il 20 maggio 2021. Per mostrarci l’anima e il cacciavite, come da titolo del suo libro-manifesto, Enrico Letta ha scelto un luogo lontano dalla sede del Pd, notoriamente piena di spifferi: l’ufficio del suo mentore Nino Andreatta. «L’ho lasciato esattamente com’era: sono seduto sulla poltrona ortopedica che usava Andreatta per il suo mal di schiena. Ci ho aggiunto solo un quadretto di Pisa, la mia città. E queste».

Le campanelle? Non mi dica che fa la collezione.

«Me ne regalano di continuo, dal giorno in cui diedi quella di palazzo Chigi a Renzi».

Il passaggio di consegne più sincero del mondo: lei lo guardava in cagnesco.

«Tutti mi dissero che ero stato troppo rancoroso, ma stavo inaugurando una fase nuova della mia vita e volevo entrarci all’insegna della trasparenza».

Cioè senza fare finta che Renzi non le stesse sulle scatole.

«A distanza di sette anni sono sinceramente grato a Renzi per la brutalità di quel momento. Se mi avesse fatto fuori in modo soft, proponendo soluzioni compensative come succede in questi casi, non so se avrei trovato la forza per cambiare lavoro, città, nazione, vita. Invece ho lasciato la politica da un giorno all’altro, senza uno stipendio, per andare a cercare fortuna all’estero».

A Parigi, insegnante e poi direttore della Scuola di Affari Internazionali della prestigiosa università di Sciences Po.

«Forse anche all’Italia ogni tanto servirebbe una campanella per obbligarci a cambiare abitudini che facciamo fatica a lasciare».

«Enrico stai sereno» è ormai un modo di dire.

«Mai nella vita avrei immaginato che una frase rivolta a me sarebbe diventata un idioma della Treccani».

E di essere richiamato al capezzale del Pd lo avrebbe immaginato?

«È stato come per la nomina a premier: una sorpresa. Il lunedì facevo ancora esami all’università come se niente fosse. Poi i due telefoni sulla cattedra cominciano a illuminarsi. I miei collaboratori non li avevano mai visti accendersi con tanta frequenza. Nemmeno io».

Quanto ci ha messo a decidere?

«Quattro giorni. Quando ho prenotato l’aereo per Roma. Anzi no, quando sono arrivato sotto casa e ho trovato le telecamere ad aspettarmi... Lì ho ancora avuto la tentazione di dire al tassista di tornare indietro. Poi ho pagato la corsa e sono sceso».

Per voglia di rivalsa?

«No, di un’altra chance. In genere i nostri nonni ebbero una vita sola: stessa casa, stessa città, stesso lavoro. Noi ne abbiamo varie e questa per me è già la terza».

Di quante ne avrà bisogno per sopravvivere ai pugnali che si nascondono dietro ai sorrisi dei capicorrente pd? Nel libro scrive che nel corso della sua esistenza ha conosciuto tante maschere e pochi volti…

«Io mi fido, devo farlo. Senza fiducia non c’è politica. So perfettamente perché mi hanno chiamato: la Curia non si metteva d’accordo e aveva bisogno di un Papa straniero».

 Enrico Letta: «Sono grato a Renzi per la sua brutalità. Dalla tassa di successione una dote per i giovani».

Però di diventare Papa un po’ se l’aspettava: aveva il discorso di accettazione già pronto.

«È che avevo preso appunti per il libro già durante il lockdown. Poi, dopo l’elezione a segretario, l’adrenalina ha cominciato a farmi svegliare alle 4 e mezzo e mi sono messo a scrivere».

L’insonnia genera libri. Titolo: Anima e cacciavite.

«Significa coniugare la forza dei progetti con la necessità di sporcarsi d’olio le mani per realizzarli».

Nel libro elogia Jacques Delors, che cedette alla Thatcher su una questione a cui lei teneva particolarmente, pur di ottenere in cambio l’Erasmus. Lei su che cosa cederebbe a Salvini, e in cambio di che cosa?

«Per la dote ai diciottenni sarei disposto a venire a patti anche sulla legge elettorale. Il mio sogno è trattenere i ragazzi italiani in Italia, senza però farli restare in casa con mamma e papà fino a trent’anni. Il problema principale del nostro Paese è che non fa più figli. Ci vuole una dote per i giovani, finanziata con una parte dei proventi della tassa di successione, e un accesso ai mutui-abitazione anche per chi non ha genitori in grado di fornire garanzie».

Giovani e donne sono i suoi cavalli di battaglia. Perché la destra maschilista ha leader donne in tutta Europa, mentre la sinistra femminista è comandata ovunque da maschi?

«In Francia, in Italia e adesso anche a Madrid, la destra ha una donna al vertice, ma dietro soltanto uomini. Io invece nel Pd voglio creare le condizioni per una parità vera, che passa dalle aborrite quote rosa perché non c’è altro modo per mettere in condizione le donne di occupare posti che consentano loro di fare esperienza e acquisire capacità di guida».

Giorgia Meloni le piace?

«La rispetto. Sono alternativo a lei, ma ha indubbie capacità politiche».

Come farete a perpetuare lo schema dell’Uomo Nero che ha funzionato con Berlusconi e Salvini?

«Molto dipenderà anche dalla Meloni. Io non demonizzo nemmeno Salvini, però sento il dovere di rimarcare le differenze. Per lui la libertà, anche arbitraria, dell’individuo viene prima del bene collettivo, per me no. La destra dice: “Prima Io”. La sinistra: “Prima Noi”. Tornando alla parità, le voglio raccontare di quando andai a Lourdes».

Sembrerebbe il luogo ideale per un nuovo segretario del Pd…

«Già… (ride). Ci sono stato ben prima. Come presidente dell’istituto Jacques Delors, invitato dall’assemblea dei vescovi francesi. Ho passato due giorni con altri 120 uomini, per lo più anziani. Discorsi interessanti, per carità. Ma l’assenza di donne rendeva tutto così stridente. Lì ho capito che anche per la Chiesa è arrivato il momento di aprirsi e valorizzare le donne, fino a pensare al sacerdozio femminile».

Va bene che l’hanno appena fatto Papa, ma non si starà allargando?

«Era per dire. La politica è costruita con regole che avvantaggiano la prepotenza, attributo normalmente maschile. Però, almeno in questo, il lockdown ci è venuto in aiuto. Le assemblee in presenza erano il trionfo della sopraffazione: i leader parlavano all’ora di punta, mentre giovani e donne erano relegati a notte fonda. Invece nell’era Zoom tutti parlano per cinque minuti, senza discriminazioni di scaletta, e senza applausi retorici per sottolineare i passaggi dei capi. Nell’ultima assemblea “a distanza” del Pd ho ascoltato ben 57 interventi di coloro che di solito parlavano davanti alla platea deserta. Non sarebbe mai accaduto fino all’anno scorso».

Come ci siamo comportati durante la pandemia?

«Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno perso sui comportamenti, dove ha prevalso il loro individualismo, ma hanno vinto sui vaccini grazie alla capacità produttiva, dove invece a fallire è stata l’Europa».

Lei libererebbe i brevetti?

«Serve una moratoria per poter vaccinare anche i Paesi più poveri, altrimenti non se ne esce. Le aziende farmaceutiche hanno diritto a fare profitti, ma mi pare che quest’anno abbiano già guadagnato abbastanza».

La politica può davvero disciplinare l’avidità?

«Dobbiamo individuare un coefficiente che colleghi lo stipendio del capo-azienda a quello dei dipendenti. Oggi il divario è diventato assurdo e immorale».

Quando il mitico Valletta, capo della Fiat nel dopoguerra, innalzò il suo stipendio a dodici volte quello di un operaio, molti sindacalisti gridarono allo scandalo. Adesso che il rapporto è uno a duemila, uno a dodici sarebbe considerato quasi un esproprio proletario. Ma si può stabilire per legge?

«Di sicuro si può fare a livello reputazionale. Come già avviene per la sostenibilità ambientale, arriverà il giorno in cui un’azienda che non applica la clausola Valletta verrà penalizzata sul mercato. Ci vuole più democrazia economica: è il momento di far partecipare i lavoratori ai consigli di amministrazione e di dare azioni delle società ai dipendenti. Bisogna anche eliminare i paradisi fiscali all’interno dell’Area Euro, come è il caso dell’Olanda».

Ci sta dicendo che la sinistra tornerà a occuparsi dei lavoratori e non solo dei diritti civili?

«Per me esiste un solo diritto, il diritto al futuro, che riunifica i diritti sociali e quelli civili: sostenibilità, lavoro e identità. Sono contento di avere convinto Draghi a inserire nel piano di rilancio una clausola di premialità a favore delle aziende che assumono giovani e donne. Erano i giorni in cui Salvini smaniava per spostare il coprifuoco alle 23, questione che in ogni caso si risolverà nel giro di poche settimane. La battaglia di Salvini ha fatto il titolo dei tg e il pieno di “like” per un giorno. La nostra clausola trasformerà l’Italia nei prossimi dieci anni».

Come va con Draghi?

«Lo vedo molto determinato, stimolato intellettualmente e affascinato da questo nuovo impegno. Ci trova gusto. Negli incontri con lui ho sempre da imparare».

In quelli con i Cinquestelle si diverte meno, specie quando si parla di candidati alle elezioni amministrative.

«Cinque anni fa hanno vinto a Torino e a Roma contro di noi, schierando due donne giovani: a Parigi era questa l’unica notizia di politica italiana di cui si parlava. Oggi in quelle città è impossibile allearsi con chi hai combattuto, e ti ha combattuto, duramente per tanto tempo».

Che cosa ne pensa di Conte?

«Con lui si lavora bene. E poi, siamo realisti: noi per ora abbiamo il 18 per cento, non il 50, e poiché non intendo certo allearmi con Meloni e Salvini...».

Non restano che i grillini.

«Però sia chiaro che non lasceremo ai Cinquestelle la bandiera della sostenibilità giusta. Io non nasco ambientalista, ma a Parigi sono entrato in sintonia con la generazione di Greta che vuole evitare la fine del mondo. Però ho anche visto in azione i gilet gialli».

Il Pd di prima li considerava fascisti.

«Erano persone che vivevano in provincia e non arrivavano a fine mese, alle quali era stata chiesta una sovrattassa sul carburante per evitare la fine del mondo. Ma a Parigi si può vivere senza macchina, altrove no. Quindi, o crei un meccanismo di transizione che coniughi la fine del mese e la fine del mondo, oppure li perdi e li consegni alla destra».

Vorrebbe anche il voto dei gilet gialli?

«Sì. La partita si gioca anzitutto sulle donne e sui giovani che non votano più a sinistra. Nel 2018 il Pd ha perso perché c’erano un leader e 945 candidati, mentre per vincere servono un leader e centomila militanti che facciano campagna elettorale sui social, nelle case, negli spogliatoi del calcetto. Se a chiedere il voto è una persona che non è direttamente il candidato, il Pd diventa più credibile e meno antipatico».

Vi accusano di esservi trasformati in un partito radicale di massa che fa il pieno di consensi solo nei centri storici.

«Basta partito della Ztl, io voglio il partito di Monteverdi Marittimo, il comune della provincia di Pisa più lontano dal capoluogo, dove a vent’anni feci il mio primo comizio da candidato. Persuaso di parlare chissà quanto, fui accolto dal segretario locale così: “A te la parola, ma ricordati che noi alle otto si va a cena”. Ecco, l’Italia è fatta di posti come quello: piccoli comuni e comunità montane da rivitalizzare».

Mentre le Regioni, specie dopo la riforma Bassanini, hanno fatto più guai che altro.

«Finita la pandemia, dovremo rivedere il rapporto Stato-Regioni».

Si sente un secchione?

«Io sono un figlio degli Anni 80, ottimismo e leggerezza, e ne vado orgoglioso; purché sia leggerezza calviniana e non pressapochismo e superficialità».

Però ha gli occhiali. Ci ha fatto caso che in politica non li porta quasi più nessuno?

«Li metto da quando avevo cinque anni. Inforcarli è il primo gesto della giornata, per me vuol dire essere sveglio. Ci sono talmente affezionato che, quando ho fatto l’operazione per abbattere la miopia, ho chiesto che mi lasciassero una diottria in meno per poter continuare a usarli».

Lei è un grande appassionato di statistiche. Qual è quella che la preoccupa di più?

«Quando leggo che siamo all’ultimo posto in Europa nella comprensione di un testo scritto e nella percentuale di laureati. La formazione è la sfida decisiva: anche per gli adulti».

Nel libro scrive che non c’è mai stata ressa tra i politici per andare a occupare il ministero dell’Istruzione. Lei ci farebbe un pensierino?

«Certo, mi piacerebbe. Sono appena entrato nel terzo tempo della mia vita, ma per il quarto non escludo nulla…».

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 7 maggio 2021. C'è stato un tempo in cui Enrico Letta era considerato una testa d'uovo. Gli anni a Strasburgo, la laurea con lode a Pisa, il dottorato presso la Scuola superiore Sant' Anna, la frequentazione con Nino Andreatta, ossia di colui che ha inventato l'Ulivo e, ahinoi, anche Romano Prodi, di cui divenne il discepolo prediletto. Insomma, per il nipotissimo tutto sembrava concorrere a lasciar immaginare un futuro sfolgorante. Purtroppo, di quelle promesse da testa d' uovo oggi resta solo l'uovo, ovvero un guscio fragilissimo, che alla minima pressione può andare in frantumi, riducendosi a semplice carbonato di calcio. Preceduto da grande fama e da altrettanta stima (l'uomo è di una cortesia infinita), Letta aveva già dato prova di non essere quel che si pensava ai tempi in cui proprio Prodi lo volle al suo fianco, affidandogli il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel suo secondo governo. Probabilmente il professor Mortadella sperava di avere così il suo Letta, ovvero uno spiccia faccende in grado, con il garbo e la sottile diplomazia, di tenere a bada i rissosi alleati e di occuparsi dei dossier più scottanti. In realtà a Palazzo Chigi Enrichetto fu inghiottito, assorbito da non si sa quali impegni. Sta di fatto che di una delle questioni più spinose, ovvero la gestione di Telecom Italia, che per Prodi era già stata fonte di guai, finì per occuparsi Angelone Rovati, un buon uomo, senza nessun titolo particolare se non quello di essere amico di Romano. Così, mentre questi se ne stava in Cina, cominciò a circolare il piano di scorporo della rete telefonica messo a punto dal consigliere speciale del presidente del Consiglio. Bastarono poche indiscrezioni per far esplodere il caso: un uomo privo di ruoli istituzionali che per conto del capo del governo mette a punto un'operazione su una società quotata, con l'intenzione di privarla del suo asset più importante: la rete. Risultato, Angelone venne cacciato da Palazzo Chigi, Letta si inabissò ancora di più sui fondali della politica e Prodi provò a resistere, ma come è noto durò poco. Dalle acque profonde il pio Enrico riemerse qualche anno più tardi, quando, passato Prodi, passato Berlusconi, fu la volta di Pierluigi Bersani. L'allora segretario del Pd era certo di avere in tasca la vittoria alle elezioni e il suo vicesegretario, cioè Enrichetto, forse credeva di avere in tasca l'occasione di succedergli alla guida del partito. Andò meglio, o peggio, decidete voi. Bersani non vinse ma provò lo stesso a fare un governo, ma fu preso a pesci in faccia da Vito Crimi e Roberta Lombardi, nella famosa diretta streaming pretesa dai grillini. Per di più, il povero Pierluigi non riuscì neppure a far nominare il presidente della Repubblica che aveva in testa. Risultato, fu poco diplomaticamente tolto di mezzo e toccò a Letta provare a formare un esecutivo di larga maggioranza. Nella scelta probabilmente pesò l'aria da bravo ragazzo, che non impegna e non disturba. E in effetti Enrichetto non disturbò né impegnò i suoi danti causa. Il governo durò meno di un anno, perché nel frattempo alla guida del Pd arrivò Matteo Renzi, il quale non vedeva l'ora di soffiargli la poltrona, cosa che per l'appunto fece appena messo piede al Nazareno. Il passaggio della campanella, un rito che si ripete da anni a ogni morte di premier, rimane negli annali della politica italiana. Letta guarda da un'altra parte mentre porge il simbolo del potere a colui che lo ha giubilato: una scena che da sola dice tutto. L' orgoglio ferito, la delusione di una carriera stroncata, la presa in giro dell'hashtag enricostaisereno lanciato appena due settimane prima. Letta se ne andò come una vergine tradita, scegliendo la via dell'esilio a Parigi, dove è rimasto fino all' altro ieri, quando le dimissioni di Nicola Zingaretti hanno indotto il Pd ad acclamarne il ritorno. Lungo le rive della Senna, gli amici che lo andavano a trovare per anni lo hanno descritto come distaccato dalle cose italiane, quasi avesse chiuso un capitolo della sua storia. Ma appena dal Nazareno lo hanno chiamato, l'allievo prediletto di Andreatta si è scapicollato. E questa è la ragione per cui oggi ve ne parliamo. Tornato in Italia, forse considerandosi una specie di Cincinnato o forse perché l'esperienza precedente gli è servita da lezione, Letta ha cambiato registro. Messi da parte i discorsi al valium, si è intestato una serie di uscite, tutte rigorosamente anti Lega. Lo ius soli, la legge Zan, i migranti, le chiusure per Covid. Obiettivo entrare in rotta di collisione con Salvini e costringerlo a uscire dalla maggioranza, fare comunella con i grillini in vista di un'alleanza alle prossime elezioni (fossero pure quelle amministrative) e accreditarsi in casa ma anche all' estero come unico sostenitore affidabile del governo Draghi. Dopo due mesi, si può dire che quasi niente gli è andato per il verso giusto. Con il leader della Lega, a parte le scintille, non ha portato a casa nulla. Quanto al patto con Giuseppe Conte e compagni, diciamo che siamo in alto mare, anche perché ad esserlo sono soprattutto i grillini e dunque le candidature per le comunali sono al momento in un limbo. Infine, sul rigore, visto l'apertura del presidente del Consiglio sul turismo, anche le chiusure sono andate a pallino. Improvvisamente il nipotissimo è stato costretto a sposare la linea della modifica al coprifuoco e pure quella dell'allentamento dei divieti, cioè la linea Salvini. Insomma, un disastro. Tuttavia il pio Enrico non si perde d' animo: gli rimane Fedez, il poverello di City Life, un San Francesco con la Lamborghini.

DAGONOTA il 23 aprile 2021. Che cosa ha fatto Enrico Letta nei 7 anni e poco più che sono passati dal velenoso scambio della campanella con Renzi al suo ritorno a Roma come segretario del PD? Più che alla nobile arte dell’insegnamento a Science Po, a Parigi si è occupato di affari! Nel maggio del 2016 fu nominato membro dell’advisory board di “Amundi”, colosso francese del risparmio gestito che a dicembre dello stesso anno rilevò Pioneer da Unicredit. Sempre in quell’anno entrò nel consiglio di Abertis in cambio di un compenso da 115mila euro all’anno. Come scriveva Francesco Bonazzi in un articolo pubblicato da “La Verità” nel 2017, Letta ha avuto incarichi remunerati anche in “Spencer and Stuart Italia”, “Eurasia group” e “European house Ambrosetti”. Incarichi che il “Sotti-Letta” ha detto di aver lasciato il giorno della nomina a segretario del Pd: “tengo solo la presidenza, non retribuita, della fondazione Delors”. Ha fatto la scelta giusta, anche se la sua storia di questi anni è l'ennesima dimostrazione della prassi consolidata di commistione tra pubblico e privato tra i politici (ed ex premier in particolare). In tempi di pace e di quiete, niente di male. Ma cosa succede quando gli interessi dell’Italia entrano in conflitto con uno dei gruppi di potere che hanno pagato bei soldoni per quelle consulenze? Ah, saperlo...

Estratto del discorso di Enrico Letta all’assemblea del PD - 14 marzo 2021: Io scelgo il partito perchè ritengo che questa sia la sfida essenziale per l’Italia ma anche per l’Europa. Dobbiamo fare un partito con le porte aperte. Io arrivo da persona libera che ha imparato che la vita è molto bella ed è piena di sorprese. Lascio tutti gli incarichi che avevo con retribuzione ma tengo la presidenza, non retribuita della fondazione Delors. Non arriva qui un segretario sulle ali dell’esaltazione di quelli che lo osannano. Sono qui per fare le cose. E citando Nino Andreatta: "Non c’è nulla di più sovversivo della verità”.

Da citywire.it - 31 maggio 2016. Enrico Letta entra in casa Amundi. L’ex presidente del Consiglio è stato nominato membro del neocreato advisory board del gruppo francese dell’asset management. Il gruppo di esperti è guidato da Hubert Védrine, ex ministro francese degli Esteri, e conta tra i suoi componenti Helen Alexander, ex presidente della Confederation of British Industry, Maurice Levy, presidente e direttore generale del gruppo Publicis, Jürgen Stark, ex membro del direttivo Bce. Ma ci sono anche un ex vicepresidente di Morgan Stanley, un ex viceministro delle Finanze giapponese, un ex ministro dell’Ambiente spagnolo. Il gruppo si riunirà varie volte all’anno e affronterà temi strategici, legati a macroeconomia e geopolitica. Letta ricopre varie cariche di peso a livello internazionale: dal 2015 è alla guida della scuola di Affari Internazionali dell’istituto di studi politici Paris-Sciences Po.

Estratto dell’articolo di Francesco Bonazzi per “La Verità” - 15 aprile 2017. Letta però è un democristiano a 24 carati. Uno di quelli che arretra solo per avanzare, come i suoi mentori Romano Prodi e Giovanni Bazoli. E se acchiappa una poltrona non la sta a sventolare, specie se l' incarico è remunerato. E bisogna dire che la sua stagione «lontano da Roma» costerà una certa fatica al commercialista di fiducia. Non solo per i 115.000 euro di emolumento annuo previsto da Abertis per i consiglieri semplici. Nel bilancio del gruppo autostradale si legge che Letta siede anche nel consiglio di Liberty London, fondazione britannica, a titolo gratuito. Mentre i suoi incarichi remunerati sono, oltre che nel colosso autostradale spagnolo, in Amundi, Spencer and Stuart Italia, Eurasia group e European house Ambrosetti. Amundi è il maggior gruppo di risparmio gestito francese e uno dei colossi del settore a livello mondiale. Letta è entrato il 31 maggio 2016 e a dicembre Amundi ha rilevato Pioneer da Unicredit per 3,5 miliardi. Una campagna d' Italia davvero fortunata. Chissà che rischi avrà segnalato, sull' Italia e su Renzi, il buon Letta.

Il neo-lettismo alla Bim Bum Bam. Massimiliano Panarari su L'Espresso il 12 aprile 2021. Autoironia sui social, subbuteo, meme. Il segretario Pd sceglie la cultura pop per scardinare il passato. Una strategia comunicativa per distaccarsi dall’autoreferenzialità dei palazzi

Ma dove vai, se la corrente non ce l’hai? Specialmente in una formazione politica quale il Pd, dove le correnti, come noto, contano tantissimo; e il frazionismo è un rischio permanente, dopo avere già vissuto lo choc di una scissione. Ancor più se si ritorna dopo un lungo periodo all’estero, in tutt’altre (e gratificanti) faccende professionali affaccendato. La risposta al quesito da parte di Enrico Letta, intronizzato all’unanimità quale segretario di un partito uscito malconcio e frastornato dalla fine traumatica del Conte 2, è, in tutta evidenza, la centralità della comunicazione. Naturalmente non con i format del partito personale (antitetico alla sua tradizione culturale), anche se è stato fatto emergere in maniera comunicativamente sapiente un inedito connotato “decisionista” della sua personalità. Bensì, con il ricorso a una “comunicazione transpolitica” fitta di riferimenti alla cultura di massa e all’immaginario pop, che potrebbe apparire curiosa (se non davvero da “famolo strano”) per il profilo di chi è stato direttore della School of International Affairs di Sciences Po e presidente dell’Istituto Delors. Ma si tratta, appunto, di una strategia e opzione comunicativa precisa, effettuata da un politico da tempo insofferente rispetto agli eccessi di autoreferenzialità dei palazzi “romani”, e con un tratto di attenzione per le tendenze della cultura pop. E che, per ritornare a un punto chiave, all’indomani dello scioglimento della sua antica corrente, ha mantenuto rapporti e scambi soprattutto con esponenti della cosiddetta «generazione Bim Bum Bam» (così l’aveva chiamata in un libro Alessandro Aresu), che vengono adesso valorizzati (come Giacomo Possamai). E, nella «buona come nella cattiva sorte» degli anni successivi all’uscita da palazzo Chigi, a fargli da antenna è stato proprio un nucleo di comunicatori (capeggiato dalla portavoce Monica Nardi). Certo, poco dopo il suo insediamento alla guida del Pd, Letta ha dichiarato a Repubblica: «Io non credo che ormai la politica vada fatta con la comunicazione, si fa ancora nei territori, dalla base». E, infatti, i primi atti della sua segreteria hanno messo al centro - o hanno avuto come target e destinatari - gli iscritti, ai quali è stato inviato un questionario online - accolto da una risposta molto favorevole - e i circoli di base, a partire da quello di Testaccio (il quartiere di residenza nella capitale di Letta), evocativo sotto più di un punto di vista, per arrivare a quello degli expat di Bruxelles. Ma questo indirizzo non risulta affatto incompatibile con una scelta prioritaria di comunicazione, specie se in qualche modo anche “necessitata” per chi, dopo sette anni di “esilio (e autoesilio)” - e di “distanziamento” mentale - dalla politica nazionale si è ritrovato catapultato di nuovo nei Palazzi, vestendo parzialmente i panni del marziano a Roma (per dirla alla Flaiano). Il Pd ha continuato a manifestare in maniera evidente - a parte la stagione del renzismo - una grande fatica nel comunicare al passo coi tempi postmoderni. Un’irrisolta questione strutturale che rappresenta la coda di un fenomeno di lunga durata, quello di un disagio di fondo della sinistra italiana rispetto alla crescita del ruolo delle tecnologie comunicative dopo gli anni Ottanta. Il Letta ritornante è, pertanto, anche un po’ spiazzante in questo suo scommettere su uno strumento che, da quelle parti, fa rima con la massima «tutti la cercan, nessun la trova». Ovvero, giustappunto, la comunicazione, da presidiare in maniera serrata, ed evitando scivoloni maldestri e adozioni improprie, come l’annessione d’ufficio al pantheon del comunismo all’italiana della “compagna” Barbara D’Urso effettuata dal suo predecessore. Di qui, invece, una sfacciata (ed efficace) disinvoltura del neolettismo nel comporre i frammenti, che si susseguono via via nel corso di queste settimane, di una sorta di discorso amoroso di cultura pop. Ecco, quindi, la prima uscita pubblica in tv ospite di Zoro a Propaganda Live, programma molto amato da una sinistra diffusa, soprattutto giovanile, che si colloca oltre i confini del Pd. La moltiplicazione dei meme dissacranti relativi allo stato di turbolenza correntizia e alle battaglie interne: da quello che ritrae Letta in giubbotto antiproiettile, mentre scende da un elicottero in un ipotetico teatro di guerra, fino al pesce d’aprile (ma non troppo, e che ha suscitato varie reazioni, qualcuna divertita, qualcun’altra meno...) con la “designazione” del sempre muscoloso Arnold Schwarzenegger a suo «incaricato speciale per i rapporti con le correnti». Ulteriore, inequivocabile segno del fatto che la lingua (e l’atto comunicativo) batte dove il dente duole. La gender issue impugnata come vessillo non contestabile per cambiare i capigruppo in Parlamento. L’autodefinizione come «sovranista europeo», giocato in chiave antisalviniana - e l’individuazione del segretario della Lega quale antagonista per eccellenza su cui battere e ribattere in termini di marketing politico. E, ancora, il tweet con la maglia personalizzata regalatagli dalla squadra di calcio del Pisa, quello per celebrare il settantesimo compleanno di Francesco De Gregori, e quello per 125 anni della Gazzetta dello sport (con tanto di hashtag dedicato #Gazza). L’utilizzo frequente pure di Instagram, il social più gradito dai millennial, dove la sua foto di profilo è quella di un calciatore formato Subbuteo con i colori del Milan. Insomma, quella neolettiana pare una comunicazione transpolitica a tutti gli effetti, ossia in grado di usare i social media, l’autocomunicazione di massa, l’orizzontalizzazione, la cultura pop e i suoi simboli (specie attraverso la memetica) per creare un clima d’opinione e di simpatia favorevole at large, non direttamente in relazione alla competizione elettorale e al campaigning che, per il momento, sono di là da venire, e nondimeno costituiranno con le grandi città al voto in autunno un banco di prova decisivo per la sua nuova avventura. E siamo, altresì, di fronte a quello che si può considerare come un “prodismo 2.0” (giocato, naturalmente, in modo più massiccio sulle tecniche comunicative e di storytelling rispetto al modello originario), che nasce precisamente dall’esigenza di conquistare il partito non avendo un controllo diretto preventivo delle “truppe” (come era per Romano Prodi, il quale arrivava all’inizio sulla scena politica da “generale senza esercito”). E, sempre di qui, l’individuazione del correntismo precisamente come il bersaglio principale. Un revisionismo comunicativo forte, dunque, che sul piano politico avrebbe bisogno di alcune discontinuità rispetto alla fase precedente. E che, insieme alla piena adesione - e Letta ne è, difatti, un garante esemplare - all’agenda di Mario Draghi, necessiterebbe pure di un’opzione ancora più forte a favore di un riformismo (radicale) moderno, andando oltre quella «manutenzione del dolore» (rubiamo un’espressione al pedagogista Mario Caligiuri) molto autoriferita di cui sembra compiacersi una certa sinistra nostalgica.

Enrico Letta si sveglia Paperinik. Susanna Turco su L'Espresso il 30 marzo 2021. La cifra del decisionismo risoluto fa però i conti con il rebus sindaci. E con le eterne correnti: largo alle donne. Ma indicate dai leader. Si goda la vittoria, perché sarà l’ultima». La fosca previsione, incastonata tra uno psicodramma e l’altro nei giorni di avvitamento che hanno preceduto l’elezione delle nuove capegruppo, asseconda uno humour noir tipico del Pd che il nuovo corso ha risospinto indietro, ma certo non annullato. Si goda la vittoria, Enrico Letta, che da qui alle amministrative, sarà un precipizio. Se ne è già vista qualche avvisaglia, nel pur trionfale esordio del nuovo segretario. A Roma, dove non si sa come uscirne dacché la candidatura dell’ex ministro Roberto Gualtieri è stata congelata, ma quella di Nicola Zingaretti stenta assai a fiorire (l’interessato si dice indisponibile, nonostante le lusinghe dei sondaggi). A Napoli, dove al governatore campano Vincenzo De Luca - già definito «salvatore della Campania» dall’ex segretario - non è piaciuta affatto la mancata riconferma nella segreteria nazionale del deluchiano Nicola Oddati, ergo piace ancor meno la possibile candidatura di Roberto Fico (lui, sì, interessato). E persino a Bologna, dove dopo un attimo di apparente calma sul nome di Matteo Lepore si è tornati a parlare di primarie (non un buon segno). Insomma il panorama è già ingarbugliato, maturo per nuove Babeli: e questo senza considerare che, in prospettiva, i risultati delle amministrative d’autunno faranno da tappeto alla successiva battaglia per la leadership, sia di partito che di coalizione. Roba quasi quasi da mollare presto, prima che sia (di nuovo) tardi: «Ditejelo, a Erico, de nun perdersi», sussurra in effetti la voce testaccina che si leva dal quartiere dove vive il segretario dem. Lo stesso pensiero paradossale sembra, almeno per suggestione, attraversare anche Letta. Il quale - alle spalle la solita collezizione di Topolino - ha così esordito martedì sera, all’incontro via Zoom organizzato dal circolo Palombella di Bruxelles: «Mi sento un expat come tanti di voi. Sono un ri-pat adesso, da un certo punto di vista, però magari sarò un expat tra non molto», ha esordito, facendo strabuzzare gli occhi ai partecipanti. Preveggenza o semplice scaramanzia? Di certo, a otto anni dalla sua nomina a Palazzo Chigi - e otto è un numero speciale per i Letta, che fino all’attuale generazione erano soliti riprodursi giusto nel numero di otto - Enrico Letta ha compiuto in questi giorni un ciclo vitale: era uscito dalla politica come Paperino, vi è rientrato da Paperinik. Vale a dire come l’alter ego del papero, concepito come il suo diabolico vendicatore. Quello della riscossa. Quello tra i due che riesce a ottenere ciò che vuole. Una metamorfosi non da poco, visto il personaggio: per quanto sia, in larga parte, più apparente che reale. In parte perché la narrazione dell’Enrico-Paperino nasce dall’effetto Renzi, che spazzò via Letta da Palazzo Chigi nel febbraio 2014. In parte perché la narrazione dell’Enrico-Paperinik attuale è a sua volta figlia di questo tempo. Ovviamente ci sono in mezzo gli anni trascorsi all’estero, a dirigere la scuola di affari internazionali dell’Università Sciences Po. Ma la gara tra apparenza e realtà che un tempo gli giocò contro, adesso gioca a suo favore: ecco la prima differenza. Basta guardare i primi suoi passi. Asceso alla segreteria Pd al grido di basta con l’unanimismo, è stato eletto all’unanimità (meno 2, i contrari su 860 partecipanti alla votazione). Votato da tutte le correnti, avendo proclamato il suo «basta con lo strapotere delle correnti», ha nominato una segreteria che è un capolavoro di equilibrio tra correnti, almeno quanto lo è il dosaggio tra i partiti operato da Mario Draghi all’interno del suo governo. Due vice: una adatta a parlare con i moderati, ossia la ex montiana Irene Tinagli; l’altro adatto a parlare con la sinistra, l’ex ministro Peppe Provenzano. Nella segreteria quattro uomini e quattro donne; tre confermati dal precedente organismo zingarettiano, quattro provenienti dal governo Conte II. Le anime, tutte: c’è la prodiana Sandra Zampa, la franceschiniana Chiara Braga, l’orlandiano Antonio Misiani, l’orfiniana Chiara Gribaudo, la cuperliana Susanna Cenni, il gueriniano Enrico Borghi, e così fino all’antico lettiano Francesco Boccia – l’uomo che Letta impose per ben due volte come candidato in Puglia contro Vendola, nel 2005 e 2010. Niente male: risulta addirittura un capolavoro, se si pensa che a comporre l’opera è l’uomo che aveva appena finito di dire di «non aver capito la geografia interna al Pd». L’inizio di un famoso film di Mathieu Kassovitz, “L’odio”, era: «Il problema non è la caduta: è l’atterraggio». Ecco, nel caso di Enrico Letta, come nel caso di Mario Draghi, la risorsa non sta nell’atterraggio, ma nel punto di partenza. Partendo dall’arrancare del governo Conte 2 verso il mai nato Conte 3, anche una normale conferenza stampa in cui il premier risponde (o glissa) alle domande in un tempo inferiore ai venticinque minuti, sembra una rivoluzione della democrazia. Parimenti, partendo dall’indecisionismo zingarettiano, qualsiasi scelta di Letta sembra un capolavoro di fermezza. Il sindaco fino a un certo punto renziano Dario Nardella ha, per dire, parlato addirittura di «piglio determinato e per certi aspetti decisionista». Tale è apparsa la battaglia per cambiare i capigruppo, che Letta ha effettuato al grido di: non possiamo fare come Orban, e presentarci con una dirigenza tutta di uomini. Lasciando però poi al libero gioco delle varie anime la scelta di chi nominare al posto degli uscenti. Con il risultato che sono stati dunque i capicorrente, maschi, a indicare la donna da eleggere, costretti a loro volta dal segretario, maschio. Un lodevole inizio: non propriamente una rivoluzione, non ancora. La sostituzione di Graziano Delrio e , ancora di più, quella di Andrea Marcucci, erano operazioni all’ordine del giorno da tempo. Rimaste inevase per via dell’inerzia zingarettiana. Tanto che lo stesso Marcucci prima di capitolare a vantaggio di Simona Malpezzi lo aveva chiarito: con Zingaretti aveva messo a disposizione il mandato, non avendo partecipato all’elezione del segretario, ma in questo caso, essendo parte dell’unanimità lettiana, non ne sentiva il bisogno. Ugualmente dicasi per le amministrative: è tutto ancora molto indietro, siamo fermi ai «semilavorati» dell’epoca precedente, dove non una decisione era stata ancora presa. Nemmeno a Torino, che sarebbe sulla carta uno degli orizzonti più semplici, avendo da mesi detto la sindaca Appendino di essere determinata a non ricandidarsi. E lo stop alla candidatura di Roberto Gualtieri al Campidoglio, avanzata una prima volta nel giorno in cui poi si è dimesso Nicola Zingaretti, spinta con ancora maggiore decisione nelle 24 ore successive alla elezione di Letta al soglio Pd, è un mero congelamento, che è parso un supremo atto decisionista. Il punto di partenza pesa dunque non poco. Così rivoluzionario è parso trasformare il senso di colpa e addirittura la nostalgia rispetto all’Era Conte in orgoglio nei confronti del governo Draghi; la subalternità, in capacità di individuare il nemico (Salvini). Il saper evocare «un partito nuovo», tratteggiando tuttavia un Pd che pericolosamente somiglia assai ai propri esordi – non esattamente un bel viatico. E indicando, giusto a proposito di quanto il nuovo tenda a coincidere con il vecchio, obiettivi che ragionevolmente non possono essere raggiunti: primo fra tutti lo ius soli, evocato adesso come marchio identitario – da escludersi che il Pd sia intenzionato a farne una battaglia parlamentare - ma presente già in Impegno Italia, il documento di rilancio dell’attività di governo che Letta premier aveva presentato il 13 febbraio 2014, alla vigilia della decapitazione renziana. In questa nuova velocità c’è di certo la sapienza di un politico che è tutt’altro dall’uomo nuovo che a tratti vuol dipingersi. «La vita fuori di qui è molto bella», ha detto fra l’altro nel discorso di incoronazione. Abbellimenti estetici, per uno che ha cominciato a far politica alle medie e che oggi si porta a Roma da Parigi giovani come Michele Bellini con lo spirito con il quale, a 20, fu portato a Roma da Simone Guerrini, allora leader del movimento giovanile Dc (oggi capo della segreteria di Sergio Mattarella); che a 26 anni divenne presidente dei giovani democristiani europei; a 28 capo di gabinetto agli Esteri; a 31 vicesegretario dei Popolari per volere di Franco Marini. E tutto questo prima di essere ministro, sottosegretario, parlamentare e di nuovo vicesegretario, stavolta del Pd, a fianco di Pierluigi Bersani fino al giorno dello streaming coi Cinque stelle (c’era anche Letta), e alla mancata elezione di Marini al Quirinale (costruita giusto a casa Letta a Testaccio). In mezzo, c’è un politico che ha sempre avuto il problema di affermare il fatto di avere un carattere. «Le palle», come fu scritto una volta e come tante volte ha mimato lui. Quello che oggi parla di «adrenalina a mille» o ancora di «una nuova affascinante avventura», e tutta quella congerie di espressioni e gesti in cui indugia e che peraltro malissimo s’adattano al volto pacato, alla piana ironia. Già nel 2004, quando era responsabile economico della Margherita, diceva di ambire a tornare ministro, ma che tuttavia doveva tornarci «non da Tremonti», ovvero non da tecnico, ma da politico. Come uno cioè in possesso di una sua corrente, in grado di «prendere voti». Come se, nato bene, ben collocato, avesse sempre il complesso di volersi distinguere dai suoi maestri e dai suoi parenti. Dal modello di Beniamino Andreatta, il maestro: professore universitario, appassionato di politica, ma senza la pazienza di costruirsi una filiera vera e propria. E dal modello Gianni Letta, lo zio, uno cioè che per definizione non è, da sempre: non ha correnti, non ha tessere, non interviene alle assemblee, eppure c’è, comanda, guida. Così anche la nuova «velocità» dell’azione lettiana, in favore della quale si è scomodato pure Paolo Mieli («è riuscito a far cose che sembravano impossibili»), appare a suo modo un approdo, per un politico il cui padre, Giorgio, è tra i pionieri del calcolo delle probabilità, accademico dei Lincei, ricordato dagli allievi come un professore talmente impeccabile che «nemmeno i gessetti facevano polvere». Che la mutazione sia sufficiente, per il compito assunto, appare tuttavia ottimistico ipotizzare.

Il metapartito che ingloba tutti. Se Conte è il grillino dei poveri, Letta aspira ad essere il grillino dei ricchi. Michele Prospero su il Riformista il 26 Marzo 2021. Una “affascinante avventura”, ha dichiarato Letta presentando la foto con Conte. Affascinante, può darsi. Avventura di sicuro. Se l’inizio ha sempre un che di evocativo, quello di Letta annuncia cadute inevitabili nell’alleanza organica con Grillo come destino. È in atto un passaggio significativo, di sistema. Croce parlava di quello liberale come di una sorta di metapartito. Non un singolo soggetto ma molteplici attori confluivano nella grande galassia liberale così elastica da essere per l’appunto un vero metapartito aperto e senza confini organizzativi. Oggi il metapartito, che raduna spezzoni diversi di ceto politico, ha le sembianze della vecchia Dc. Il sistema attuale è abitato quasi in ogni spazio politico disponibile dal metapartito democristiano. Le prove surreali di realismo in salsa Bettini-Zingaretti, con la fuga precipitosa dopo la trasformistica toccata, hanno reso al momento irreversibile l’omologazione di ogni cosa sotto la accogliente balena democristiana. Tranne la post-fascista Meloni, coerente con una identità come nessun erede del Pci è stato capace di fare con la propria storia, tutti i protagonisti della piccola politica sono organici a vario titolo allo scudo crociato, da Renzi ai centristi, dai populisti alla “sinistra”. Berlusconi è da tempo membro autorevole del partito popolare europeo. Persino nella Lega c’è Giorgetti che spinge per un analogo approdo post-sovranista. Il non più ribelle non-partito grillino spera in un democristiano moderato come Conte per sopravvivere come soggetto di potere e spartizione. Il Pd è finito per diventare una pura e semplice ridotta democristiana. A Letta si oppongono Guerini (di ascendenza andreottiana), Lotti (ultramoderato dc) e a suo fianco opera, come regista di ogni investitura del sovrano di turno, l’eterno Franceschini. Parafrasando Gentile, tutto nella Dc e niente all’infuori della Dc. Che differenza di fondo c’è da rilevare tra il populista “sano” Conte e il populista omeopatico Letta? Proprio nessuna. Conte gioca al populismo che parte dal basso. Letta predilige il populismo dei ceti elevati. Se Conte è il grillino dei poveri, Letta aspira a essere il grillino dei ricchi. La convergenza della foto sta nelle cose. Il neosegretario avrebbe potuto fissare alcuni punti differenzianti: sul piano sociale, spendendo qualche parola sullo sciopero degli invisibili di Amazon, sul piano politico, sulla necessità di correggere la sconcezza della soppressione della prescrizione. Nulla di tutto questo. Comunicazione e spot allo stato puro: voto a 16 anni, decapitazione delle correnti interne con l’imposizione di stampo virile di una donna ai vertici dei gruppi parlamentare. Dopo aver cancellato da presidente del consiglio il residuo di finanziamento pubblico dei partiti, Letta prosegue nel suo viaggio antipolitico chiamando alla segreteria un non iscritto al partito. Insomma, per stare nel clima curiale dell’epoca, un cardinale reclutato tra i non battezzati. Che adesso il democristiano Letta si proponga come traghettatore del M5S nel partito del socialismo europeo (dove peraltro il Pd è entrato su iniziativa dell’altro tosco crociato) svela come si è nel tempo ridotta ad essere quella casa che un tempo sembrava un miraggio irraggiungibile, un attestato di riconosciuta maturità per le forze politiche rimaste nel limbo del post-comunismo. Che un non-partito passi con disinvoltura dai banchi di Farage a quelli dei socialisti appartiene al grottesco, ed è una pura e semplice blasfemia che quale Virgilio dei grillini si proponga il capo del Nazareno. Il guaio è che alla sinistra, ridotta all’irrilevanza per la sua manifesta incapacità, oggi è riservato solo il lamento sterile verso il galoppante andamento del metapartito democristiano. Le tocca fare come Machiavelli nel Proemio al Libro secondo dei Discorsi, costretto dal bruciante pensiero della sconfitta a indignarsi sulle cose e quindi dal piano del politico scendere al momento etico. Una sconfitta bruciante, una vera disperazione politica senza rimedio nell’immediato.

Il dibattito. Il Pd di Letta non è erede dei democristiani, la Dc odiava il populismo. Marco Follini su il Riformista il 27 Marzo 2021. Ma davvero sono diventati tutti democristiani? Letta, ma anche Conte e perfino un po’ Giorgetti. Democristiani loro, democristiano il loro retroterra e assai democristiana la trama dei loro rapporti. Un vero e proprio “metapartito”. Così almeno fa capire Michele Prospero sul Riformista di ieri. Il suo racconto è suggestivo, ma mi permetto di obiettare. Questa idea che ricorre tanto spesso del partito-spugna, capace di assorbire e mescolare gli umori più diversi, ma al fondo privo di una sua identità, duttile fino all’estremo, finisce infatti per saltare a piè pari molta della controversa storia del dopoguerra. La Dc aveva le sue furbizie, s’intende. E affrontava la battaglia politica concedendo il giusto – e a volte anche più del giusto – alle esigenze della mediazione, della manovra, dello scambio. Non aveva rigidità ideologiche, forse. Ma su alcuni, pochi, punti sapeva essere fin troppo rigorosa. Soprattutto, la Dc aveva piantato alcuni paletti pressoché insuperabili intorno a sé. Non si poteva trafficare con tutti. Agli eredi delle grandi ideologie del tempo si doveva opporre una barriera assai difficilmente valicabile. Ma soprattutto, verso il populismo c’era un’ostilità drammatica e profonda, che non conobbe mai neppure le eccezioni che forse la tattica avrebbe potuto consigliare. Tant’è che quando si affermò il movimento dell’Uomo Qualunque (il populismo dei tardi anni quaranta), De Gasperi si diede a contrastarlo con un’intransigenza assoluta. Togliatti civettò con Guglielmo Giannini, i democristiani no. Nessuno di loro. C’era in quella classe dirigente la consapevolezza che quando ci si divideva sull’idea di “popolo” non era più ammessa nessuna indulgenza. A quanti riducevano quel popolo alla massa, alla folla, a un insieme indistinto, privo di ogni articolazione, lasciato in balia degli imbonitori del momento, non si poteva far altro che opporre un’altra idea di popolo: quella fondata sui legami della rappresentanza. Verso il populismo la Dc tenne sempre un punto fermo. I nostri padri erano consapevoli che se si fosse imboccata quella strada si sarebbe messo in pericolo il carattere di una democrazia che per loro doveva fondarsi sulla mediazione. E dunque organizzarsi per corpi intermedi. Ma soprattutto esercitare tutte quelle virtù di ascolto, pazienza, tessitura che ora la nostra sgangherata “modernità” politica ha largamente disperso. Tutto questo per dire che no, di questi tempi non soffia più lo spirito democristiano. Forse tornerà a soffiare quando il vento del populismo dovrà ammainare le sue bandiere. Magari dopo aver dato una mano, anche noi, a farle ammainare.

"Osannato da chi lo tradì...". Cosa c'è dietro il Pd di Letta. Osannato dal gotha del Pd E da coloro che sette anni fa (sinistra dem e franceschiniani) affossarono il suo governo. Francesco Curridori - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Enrico Letta è tornato in Italia, osannato come un salvatore della patria dal gotha del Pd che lo ha voluto come successore di Nicola Zingaretti. Nella memoria collettiva l'hasthag #Enricostaisereno, pronunciato da Matteo Renzi ospite nel programma di Daria Bignardi, è la pietra tombale sull'esperienza di governo di Letta jr. Ma la defenestrazione dell'allievo di Beniamino Andreatta non fu opera esclusiva dei renziani. Nel corso della direzione nazionale del 13 febbraio 2014, la relazione finale dell'allora segretario Matteo Renzi fu approvata con 136 voti favorevoli, 16 contrari e 2 astenuti. Quella fu la sentenza finale che determinò le dimissioni di Enrico Letta, il quale il giorno prima aveva giocato la sua ultima carta per restare a Palazzo Chigi: la presentazione di un nuovo programma di governo, 'Impegno Italia'. Tutto inutile. Dopo il voto, la Direzione del Pd "ringrazia Enrico Letta e rileva la necessità e l'urgenza di aprire una fase nuova con un esecutivo nuovo che si ponga un obiettivo di legislatura". Tra i contrari, oltre a Pippo Civati, vi era l'allora presidente del partito, la prodiana Sandra Zampa che, intervistata dal Corriere di Bologna, il giorno successivo al voto dichiarò: “È stata una pagina triste non lo nego. C’erano esponenti del Pd che fino a pochi giorni fa ti richiamavano all’ordine quando esprimevi dubbi su un provvedimento del governo, che ieri non sapevano più chi fosse Enrico Letta. Franceschini non c’è mai. Trovo disgustoso e ipocrita che quelli che fino a pochi giorni fa ti minacciavano di espulsione se non ti attenevi alle decisioni ora dicano “Letta chi?”. Ho visto il volto cinico della politica che avevo già visto quando Prodi restò solo a Palazzo Chigi. Allora c’erano solo Santagata, Padoa Schioppa e Bersani”. A destare stupore fu, infatti, la decisione della minoranza dem guidata proprio da quel Gianni Cuperlo che aveva sfidato Renzi al Congresso. “Assumiamo la linea politica indicata dal segretario, avevamo auspicato che non ci fosse un voto per evitare ulteriori lacerazioni ma di fronte alla necessità di esprimersi sul documento, proposto dal segretario, voteremo a favore. Ritengo necessario evidentemente che il Pd poi, in direzione e nei gruppi, discuta di contenuti e dei programmi”, disse Cuperlo prima del voto. Il giorno seguente, intervistato da Repubblica, spiegò: “Per settimane ho suggerito a Enrico di assumere una iniziativa di rilancio nel programma e nelle personalità da coinvolgere. E questo a fronte di un governo che perdeva pezzi e nel cuore di una crisi sociale drammatica. Abbiamo sempre detto che se Letta fosse riuscito a a guidare la ripartenza, il Pd avrebbe dovuto appoggiarlo. Ma se quella condizione non ci fosse stata, allora toccava al leader democratico dire come uscire dalla crisi. Renzi lo ha fatto, parlando di un cambio radicale di governo e di guida". Sia come sia, Cuperlo nel 2014 affossò Letta, né più né meno di come fece Dario Franceschini che oggi, invece, è stato il principale kingmaker del ritorno dell'ex premier. “Nel Pd succede sempre così. All'inizio noi renziani eravamo una ventina e ci riunivamo in una stanza. Da un giorno all'altro, Franceschini, tra lo stupore dei suoi, decise di sostenerci e gli antirenziani sparirono improvvisamente”, spiega a ilGiornale.it il deputato renziano Michele Anzaldi che, poi, ricorda:“Letta, una volta dimessosi, non venne in Parlamento per dieci giorni e, quando tornò, era considerato quasi un appestato. Solo io mi avvicinai per salutarlo e la notizia sembrò così clamorosa che ci uscì persino un lancio di agenzia. E, oggi, eccoli lì tutti ad acclamarlo segretario all'unanimità...”. Letta torna dall'esilio. Equilibrista tra le tribù. "Pd in crisi profonda". In pratica, sebbene Letta sia stato richiamato all'ordine a furor di popolo, potrebbe, come è già successo in passato, finire presto nel tritacarne delle varie correnti. I primi ostacoli potrebbero arrivare già con in autunno quando si voterà per le Comunali a Torino, Bologna, Napoli e soprattutto Roma. Un appuntamento elettorale che, come ci spiega il politologo Massimiliano Panarari “nasconde i veri elementi di conflittualità e i nodi irrisolti della gestione Zingaretti” come ad esempio “l'individuazione dei candidati nelle grandi città e il modello di coalizione del centrosinistra”. “Il modello del partito-tenda' che Letta ha illustrato nel corso del suo discorso di accettazione è una sorta di neo-ulivismo che dovrà essere il più largo possibile”, sottolinea Panarari. “Il problema sarà proprio quello di costruire questo partito-tenda perché da un lato al centro abbiamo una situazione di forte ebollizione con la crisi di +Europa e con Calenda che ha dichiarato di voler rimanere in campo a Roma e dall'altro c'è il tipo di rapporto che il Pd costruirà col M5S”, chiarisce ancora il politologo. Se, dunque, da un lato è vero che “Letta, per non vuole subire l'egemonia dei Cinquestelle, non andrà nella direzione di un'alleanza organica col M5S come la immaginavano Bettini e Zingaretti”, dall'altro è altrettanto vero che “la componente zingarettiana non solo è ancora molto presente nel Pd, ma ha contribuito in maniera notevole per eleggere Letta segretario”. “Sarà un bel bricolage”, chiosa Panarari, riprendendo, indirettamente, la metafora “del cacciavite”, usata da Letta proprio durante il suo primo discorso da segretario in pectore.

L’insegnamento e la Chiamata Diretta. DAGONOTA il 15 marzo 2021. In numerosi articoli si parla del “professor Enrico Letta” che ha lasciato l’insegnamento universitario alla Scuola di affari internazionali dell’Istituto di studi politici di Parigi nel quale, dal settembre 2015, era direttore (rettore). Letta è diventato professore, e poi rettore, per chiamata, senza trafila concorsuale e cursus honorum come si fa oggi in Italia per accedere al ruolo di docente. A parte l’ex premier Giuseppe Conte - diventato da zero a docente in quattro anni e chissà perché -, in genere ne possono servire, se tutto va bene (se non si è figli di…), una quindicina-ventina passando da laureando a cultore della materia, dottorando, post-dottorando, docente a contratto, borsista, ricercatore di tipo B e/o A… infine superando il concorso per l’Abilitazione scientifica nazionale (secondo criteri assurdi stabiliti dall’Agenzia di valutazione italiana, che peggio di quella che sovrintende ai vaccini). A questo punto, se uno risulta abilitato, deve poi superare un concorso in sede locale (pilotato ad hoc dai baroni in stile esame Suarez, che scelgono prima il vincitore) diventando, finalmente, docente associato da confermare dopo un triennio. Quindi scelgono ancora i baroni. Ecco, se pensiamo che sia giusto che Enrico Letta, lasciato il Parlamento, abbia fatto il docente per meriti professionali e di studio, e noi lo crediamo, chiediamo a Letta che si mobiliti per fare in modo che anche in Italia si possa fare così. Visto che se lui cinque anni fa o ancora oggi partecipasse all’Abilitazione scientifica nazionale, poniamo in un raggruppamento disciplinare dell’area di Scienze Politiche, non avrebbe NESSUNA possibilità di superare il concorso in quanto non ha una monografia scientifica scritta negli ultimi cinque anni, non ha pubblicazioni su riviste di classe A italiane, non è stato direttore di un Prin ecc ecc ecc… e i soli titoli presentabili sono quelli che lui ha ottenuto dopo che è stato chiamato a insegnare e non prima! Quindi per lui, e per la moglie che di questi temi si occupa sul “Corriere della Sera”, un primo serio impegno ci sarebbe: farla finita in Italia con i cursus honorum costruiti fittiziamente dai baroni (finte pubblicazioni, finte peer-review, borse di studio farlocche e assegnate a chi si vuole, pseudo ricerche, pseudo parametri scientifici, nessuna importanza al lavoro, nessuna importanza allo studio individuale) per far superare ai protetti l’Abilitazione nazionale e poi costruire per loro un concorso ad hoc locale. Di contro, agevolare anche da noi la chiamata a insegnare per chi merita ed eccelle nello studio e nelle professioni. Non ci vogliono nuove leggi o nuovi soldi. Basta che per ogni nuovo docente che entra in una università attraverso l’Abilitazione scientifica e successivo concorso-farsa in sede locale quello stesso ateneo sia obbligato a inserire un altro docente per chiamata, sganciato dalle logiche dei concorsini, purché abbia qualità scientifiche e professionali dimostrabili, s’intende!

Come prima, più di prima: anche Letta scambia l’ombelico del Pd per il centro del mondo. Marzio Dalla Casta lunedì 15 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. È un peccato che nell’Italia per tre quarti “zona rossa” e per l’altro (o quasi) in tinta arancione sia di fatto impossibile raccogliere umori popolari nei classici luoghi di ritrovo. Peccato perché lo avremmo fatto volentieri. Magari alla maniera di Nanni Loy, con l’aiuto di una candid camera. Ma invece di inzuppare a tradimento il cornetto nel caffellatte dell’avventore, gli avremmo chiesto un commento sullo ius soli annunciato da Enrico Letta. E poi vedere di nascosto l’effetto che fa. In mancanza, ci accontentiamo di immaginarlo, scommettendo che sarebbe stato assai diverso dall’entusiastica accoglienza riservatogli dalla stampa. Di Letta, in questi giorni, abbiamo praticamente letto tutto: vita, pensieri, opere (poche) e parole. Pensavamo, tuttavia, che fosse immune da quel vizietto tipico della sinistra magistralmente evidenziato da Woody Allen nel Dittatore dello Stato libero di Bananas, gustosa parodia del comunismo caraibico. Ricordate il primo annuncio post-rivoluzione del capo dei Barbudos? Semplicemente da incorniciare: «Da oggi la lingua ufficiale è lo svedese». Letta ha fatto più o meno la stessa cosa. Ad un Paese terrorizzato dal virus e stremato dal crollo del Pil, ha spiegato che la sua priorità è rendere più facile il conseguimento della cittadinanza italiana. Sai che emozione se solo ci fossero stati, bar, ristoranti e barbieri aperti. Purtroppo sono serrati causa pandemia. Solo il neo-leader del Pd ha fatto finta di non accorgersene pur di rincorrere le paturnie ideologiche del Pd. Apposta ha tirato fuori lo ius soli. Ma fuori da quel recinto l’effetto è grottesco, come proporre un giro in barca a un moribondo. Un vero genio del tempismo. Altrove lo avrebbero rispedito in Francia. Da noi, invece, i sapientoni si strizzano l’occhietto dandosi di gomitano per sottolinearne gli inequivocabili propositi di riscossa politica. Sono gli stessi che non perdono occasione per lamentarsi della mancanza di una «destra normale». Ma a sentir Letta, chissà perché, verrebbe da pensare il contrario e cioè che qui di anormale c’è solo la sinistra. Certo, a volte la destra sbaglia toni e decibel, ma la gauche stecca su tutto. A partire da contenuti e priorità. Fatale, del resto, quando si scambia il proprio ombelico per il centro del mondo.

Le priorità di Letta: ius soli e voto ai sedicenni. Salvini: che cavolata. FdI: meglio i cervelli in fuga…Adele Sirocchi domenica 14 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Enrico Letta è il nuovo segretario del Pd. Lo hanno eletto con 860 voti a favore (2 i no e 4 gli astenuti). Letta si è dato alcune priorità: lavoro, donne, giovani. E ha affermato di voler rilanciare il voto ai sedicenni e lo Ius Soli. Uno dei passaggi più decisi dell’intervento in Assemblea è stato quello sul Pd che “deve essere un partito di prossimità. Siamo diventati il partito della Ztl. Il territorio sarà il nostro campo da gioco”. Anche nella parte più politica del suo discorso, il segretario non ha usato metafore. Del resto, ha premesso, “non sono qui per un patto segreto”. Così ha sottolineato il fatto che per lui “la coalizione è fondamentale, ad aprirsi ci si guadagna sempre”. Il leader dem ha citato le vittorie di Romano Prodi, l’Ulivo, per poi scandire: “Dobbiamo costruire un nuovo centrosinistra con la nostra iniziativa e leadership”. In questo quadro l’annuncio di voler parlare con tutte le forze di centrosinistra: “Speranza, Bonino, Calenda, Matteo Renzi, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni”. E il M5s? “Dobbiamo incontrare il M5s guidato da Conte con rispetto e attenzione”, ha spiegato. Ultimo "affondo", quello contro le correnti (“un partito con le correnti non funziona”) e sulle primarie: “Dietro questo dibattito vedo un non detto, teniamo in vita il più a lungo possibile il governo Draghi perché così siamo ancora al potere, perché tanto è scritto che alla prossime politiche con questa destra noi perdiamo. Ma non è così. Io non ho lasciato la mia vita precedente per guidarvi a una sconfitta, vinceremo”. Non ha glissato sulla sindrome da poltrona nel partito (“dopo le elezioni eravamo all’opposizione, che ci stava rigenerando, perché l’opposizione è democrazia”). Per poi sintetizzare: “Se diventiamo il partito del potere moriamo”. Letta ha quindi sintonizzato il partito sull’agenda Draghi: “E’ il nostro governo, è la Lega che deve spiegare, non noi”. Matteo Salvini ha subito commentato il passaggio sullo ius soli: “Letta e il Pd vogliono rilanciare lo Ius Soli, la cittadinanza facile per gli immigrati? Eh, buonanotte… Se torna da Parigi e parte così, parte male. Risolviamo i mille problemi che hanno gli Italiani e gli stranieri regolari in questo momento, non perdiamo tempo in cavolate”. Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia, batte sullo stesso tasto: “La prima proposta di Letta per aiutare gli italiani è lo ius soli per gli immigrati. Delle volte è meglio lasciare all’estero i cervelli in fuga!”. Critiche all’ipotesi di rilanciare lo ius soli anche da Forza Italia, che giudica un errore quel passaggio di Enrico Letta. Mentre la leader del partito Giorgia Meloni non interviene nella polemica ma augura “buon lavoro” al neo segretario dem: “Fratelli d’Italia è e rimarrà una forza politica alternativa alla sinistra ma il rispetto per l’avversario costituirà sempre uno dei capisaldi del nostro impegno”.

Ecco la priorità del Pd di Letta: "Adesso rilanciare lo ius soli". La stagione dem dell'ex premier si apre già con un appello pro-migranti: "Spero che questo governo faccia la riforma". Ignazio Riccio - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale. Appena eletto segretario del Pd, c'è già il primo botta e risposta tra Enrico Letta e il leader della Lega Matteo Salvini. Oggetto del contendere è lo ius soli, una priorità per i democratici. Il provvedimento è definito sul palco dal massimo esponente dei democrat "una norma di civiltà" , ma è bollato senza mezzi termini dal capo del Carroccio.

"Serve un nuovo Pd". "Letta e il Pd - afferma Salvini - vogliono rilanciare lo ius soli, la cittadinanza facile per gli immigrati? Se torna da Parigi e parte così, si comincia male. Risolviamo i mille problemi che hanno gli italiani in questo momento, non perdiamo tempo in cavolate". Polemico anche Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei Deputati. "Congratulazioni a Enrico Letta - commenta - neo segretario del Partito democratico. Lavorerà, anche in questo momento di unità nazionale, per fare gli interessi della sinistra. Così come Forza Italia agirà sempre per quelli del centrodestra. Chiariamo subito un aspetto. In un periodo drammatico come quello che stiamo vivendo, con una crisi sanitaria ed economica senza precedenti, lo ius soli sarà l'ultima delle priorità, per il governo, per gli italiani, per il Paese. Sul resto ci sarà come sempre un civile e sano confronto politico". Parla a briglia sciolta comunque Letta nel corso dell’assemblea nazionale che lo ha proclamato segretario del Partito democratico con 860 voti a favore (2 i no e 4 gli astenuti) e lo fa partendo dall’argomento del momento, quello della lotta alla pandemia da Covid-19. "È l’anno più buio della nostra storia repubblicana, ma sono nati tanti segnali di speranza. Siamo vicini alla liberazione, sappiamo che fino all'estate probabilmente ci aspetteranno nuovi lutti e sofferenze, ma la salute resta la cosa principale. Ce la faremo grazie alla scienza, grazie ai vaccini. L'immagine più bella è quella di Sergio Mattarella che si vaccina, a lui va il mio saluto più affettuoso”. Letta, dopo aver ringraziato il segretario uscente Nicola Zingaretti, entra subito nel merito. “Siamo simili – dice a proposito di quello che considera un amico di vecchia data – non abbiamo bisogno di molte parole per capirci”. Sul Coronavirus tutta la prima parte del suo discorso. “Centomila morti – continua – è scesa la speranza di vita, drammaticamente, e per la prima volta nella storia recente del Paese, poi la solitudine, lo smarrimento, le famiglie che hanno perduto i loro cari. Il mio pensiero va al personale sanitario, ai rappresentanti dello Stato, la loro dedizione è stata ed è fondamentale”. Un passaggio è dedicato anche alla crisi economica, citando Papa Francesco. “Penso ai cinquecentomila italiani che hanno perso il lavoro – afferma – a loro guardiamo cercando le migliori soluzioni per il loro futuro. Mi viene in mente la frase di Papa Francesco, il quale dice che vorrebbe un mondo che sia un abbraccio fra giovani e anziani”. E ancora: “Da solo nessuno si salva. Ce lo ha detto il Papa”. Poi si rivolge agli iscritti del Pd. “Io mi candido segretario – spiega – ma non vi serve un nuovo segretario, l'ennesimo, ma un nuovo partito, lontano dalle lotte di potere. Stavo facendo altre cose, ma ho scelto di ritornare perché ritengo che questa sfida sia essenziale, lo è per l'Italia ma anche per l’Europa”. Un occhio anche al futuro del centrosinistra: “Noi abbiamo vinto – sottolinea – quando abbiamo fatto coalizione. Quando siamo andati da soli abbiamo perso. Io parlerò con tutti, parlerò con il M5S di Conte. Dovremo avere tanto filo da tessere”. Letta annuncia che lascia tutti gli incarichi con retribuzione che aveva fino a questo momento per diventare segretario del Pd. “Sono contento – aggiunge – di poter tenere la presidenza dell'istituto Jacques Delors, l'unico senza retribuzione, che ritengo utile essendo un'istituzione culturale europea". Sul tavolo, già un programma operativo per le sezioni del partito dislocate in tutta Italia. “Domani – annuncia Letta – presenterò un vademecum di idee da consegnare al dibattito dei circoli per due settimane. Ne discutiamo insieme e poi facciamo sintesi in una nuova assemblea”. Al centro della discussione il tema delle donne. “Quello della rappresentanza di genere – dichiara – è un problema non solo nostro. Ieri sera mi è arrivata la notizia assurda che la candidatura di Cecilia Malmstrom a capo dell'Ocse è saltata”. Ritornando al partito usa un’espressione di Romano Prodi e Jacques Delors: “La nostra politica deve essere mettere insieme l'anima e il cacciavite” e sul nuovo governo Draghi, Letta lancia una stilettata alla Lega. “Il governo di Mario Draghi – chiosa - è il nostro governo, è la Lega che deve spiegare perché lo appoggia, non noi. Mi auguro che questo sia l’esecutivo che approverà anche il voto per i sedicenni”. Infine, non poteva mancare l’accento marcatamente europeista. “L'Europa è la nostra casa e l'Europa del 2020 è quella che ci piace, con al centro la solidarietà, il lavoro e il pilastro sociale”.

Borraccia "Bella Ciao": il dettaglio su Letta svela l'anima "rossa". Negli intenti, quello di Enrico Letta è un Pd rivolto al futuro ma il nuovo segretario si presenta all'Assemblea con la borraccia "Bella ciao". Francesca Galici - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale. Il Partito democratico ha un nuovo segretario dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti. Enrico Letta è tornato in fretta e furia da Parigi, dove viveva da anni, per mettersi alla guida del partito dal quale anni fa è stato scalzato per mano di Matteo Renzi. In passato ha ricoperto il ruolo di vicesegretario, quando a essere segretario era Pier Luigi Bersani. Si pensava che dopo Zingaretti potesse arrivare Stefano Bonaccini, il grande deluso di questa alternanza di poltrone, invece il Pd ha preferito far affidamento sull'usato sicuro per riformare e rilanciare il partito che, a detta di molti, ora è solo un cumulo di cocci da rimettere in sesto. Sarà Enrico Letta l'uomo che serve al Pd? Solo il tempo potrà dare risposte ma intanto, a fronte di un discorso moderno e rivolto al futuro, i fatti dicono altro. All'Assemblea che l'ha eletto segretario del Partito democratico, Enrico Letta si è presentato con un look molto casual. Sotto una giacca blu di taglio sportivo, infatti, il nuovo segretario indossava una camicia azzurra botton down senza cravatta, come a dire "i formalismi lasciamoli ad altri, pensiamo alla sostanza". Entrico Letta ha scelto di fare la sua prima uscita pubblica come segretario del Partito democratico con un look minimal, come si conviene a chi è chiamato a ricostruire qualcosa. Nessun accessorio per lui, nemmeno un orologio distrattamente in mostra al polso, eccezion fatta per una borraccia. Cavalcando la moda di Greta Thunberg e facendo seguito i proclami per la transizione ecologia, presente anche nel suo discorso, poteva mai Enrico Letta presentarsi come fanno tutti con un bicchiere di plastica? Certo che no. Quindi ecco che Enricostaisereno è arrivato con la sua rossa borraccia termica, che ha posiziona al suo fianco nel podio da cui ha fatto il discorso da neo eletto. Attenzione, però, perché non si tratta di una qualsiasi borraccia termica che si può acquistare in una rivendita di articoli sportivi. Quella che Enrico Letta ha esibito con tanto orgoglio è promossa da "Immagina", nuova radio del Partito democratico e reca una scritta inequivocabile: Bella ciao. Il nuovo segretario del Partito democratico si è premurato di posizionarla in modo tale che la scritta bianca su fondo rosso fosse ben visibile agli occhi delle telecamere e delle macchine fotografiche che hanno immortalato quel momento. Perché, se è vero che nel suo lungo discorso ha dichiarato con fermezza che "serve un altro Pd", è vero anche che il linguaggio non verbale dice molto di più e, in questo caso, ricorda ai suoi elettori qual è uno dei grandi problemi del Partito democratico: la nostalgia.

Maria Teresa Meli per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2021. È stata una delle prime condizioni che Enrico Letta ha posto quando i big del suo partito gli hanno chiesto di prendere le redini del Pd in mano per salvare i dem dal disastro: niente «tutele» e niente «imposizioni». Tradotto: se volete che io faccia il segretario devo avere un mandato pieno e carta bianca, perché i miei referenti non saranno i capi corrente ma gli iscritti e gli elettori. Ebbene, il futuro leader non ha ancora pronunciato il suo discorso di investitura (lo farà oggi alle 11.45, all'Assemblea nazionale), che l'armistizio tra le diverse componenti del Pd si è già rotto. Ieri, infatti, soprattutto per volontà degli «zingarettiani», la maggioranza che aveva eletto alla guida del partito il presidente della Regione Lazio ha cominciato a raccogliere le firme (più di 600) per sostenere la candidatura di Letta. Un modo per pesarsi e per far vedere da che parte pendono i rapporti di forza interni anche con il nuovo corso lettiano. I supporter di Andrea Orlando hanno poi tenuto a diffondere alle agenzie di stampa una nota per precisare che di quelle 600 firme 260 erano loro. A quel punto, Base riformista, il correntone di minoranza di Lorenzo Guerini e Luca Lotti, non l'ha presa bene ed è passata alla controffensiva per precisare che i suoi esponenti firmeranno solo la candidatura di Letta, «come prevede lo Statuto direttamente in Assemblea». Sempre fonti di Base riformista hanno poi aggiunto: «I documenti che vengono presentati rischiano di essere tentativi di condizionamento abbastanza inutili». Dunque, ancora le contrapposizioni tra le correnti, benché il futuro segretario abbia spiegato di volere «un partito aperto» e di avere tutte le intenzioni di imprimere «una svolta importante» al Pd. Ma che cosa dice il documento sottoscritto dalla maggioranza che aveva eletto Zingaretti, quello che ha riaperto la guerra interna, sebbene poi tutte le componenti voteranno Letta? In quel testo si chiede di respingere «le incursioni della Lega e di Salvini, con il loro carattere strumentale e destabilizzante». Ogni riferimento a quei dem come Stefano Bonaccini, che a suo tempo hanno appoggiato la richiesta di Salvini di riaprire, è puramente voluto. Nel documento una parte importante è poi dedicata alle alleanze: al leader che verrà eletto oggi in Assemblea nazionale si chiede di «mantenere un rapporto positivo con l'arco di alleanze consolidate a sinistra; con il M5S che sarà investito da una trasformazione molto grande, con la leadership di Giuseppe Conte, che ci chiamerà a una più stringente competizione, anche se virtuosa e non distruttiva; con le formazioni laiche, liberali, moderate e di centro disponibili ad arricchire il campo democratico». Ma, al di là delle beghe tra le correnti, quel che conta veramente è ciò che dirà oggi Letta. Quel Letta secondo cui il «partito è uno strumento del Paese». Quel Letta che farà di tutto, come ha spiegato lui stesso in un'intervista a Le Monde , per evitare che il Pd «diventi come il Psf, in cui l'ala destra se n'è andata con Macron e l'ala sinistra con Mélenchon». Già, il Pd che il nuovo segretario sogna dovrà essere «il baricentro del riformismo». L'ex premier ieri ha lavorato tutto il giorno al testo del suo discorso. E ha anche postato su Twitter una sua foto in cucina, al computer, mentre lima l'intervento. Però Letta ieri ha fatto un'interruzione. A metà mattinata è andato nel suo circolo, quello di Testaccio. I militanti lo hanno accolto con un grande striscione con su scritto: «Daje Enri'... Ripiamose sti cocci». Il riferimento è all'intervista di Letta a Propaganda Live su La7, in cui il futuro leader dem si era detto pronto a «raccogliere i cocci» del suo partito. Letta ha chiesto suggerimenti ai militanti del Testaccio: «Cosa vorreste sentirmi dire? Secondo voi da dove deve ripartire il Pd? Cos' è mancato in questi anni?». Non si è trattato di frasi di rito: «Sono davvero convinto che il Pd - spiega Letta - debba ricominciare ad ascoltare i suoi iscritti e non solo. C'è tanta gente fuori alla quale dobbiamo parlare».

Valeria Forgnone per repubblica.it il 14 marzo 2021. Un ringraziamento speciale a Nicola Zingaretti "con cui continuerò a lavorare, legati da un rapporto di lunga amicizia e sintonia", un pensiero "ai centomila morti e al mezzo milione di italiani che hanno perso il lavoro, a loro noi guardiamo cercando le migliori soluzioni per il loro futuro". Priorità quindi al lavoro, ma anche alle donne e ai giovani. Ammette che dentro il Pd c'è un problema sulla parità di genere. E assicura che la liberazione dal Covid è vicina, grazie al vaccino. Enrico Letta sale sull'inedito "palco" al Nazareno in diretta streaming per il suo discorso durante l'assemblea nazionale del Pd con la consapevolezza di candidarsi a nuovo segretario anche se quello che serve è "nuovo Pd". "Mi viene in mente la frase di Papa Francesco che dice che vorrebbe un mondo che sia un abbraccio fra giovani e anziani - ha detto Letta prendendo la parola - Da solo nessuno si salva. Ce lo ha detto il Papa". Non solo. È fondamentale per Enrico Letta "fare un partito che abbia le porte aperte. L'apertura sarà il mio motto: spalanchiamo le porte del partito". È il suo giorno. Che è iniziato con un tweet pubblicato all'alba: "Le ultime aggiunte, le ultime correzioni. Ci vediamo oggi alle 11.45 sulla pagina Facebook del Pd e di Radio immagina. Io ci sono". Una frase accompagnata da una foto della tastiera del computer con cui ha scritto la relazione da presentare all'assemblea che, questa mattina, è chiamata ad eleggerlo segretario Pd. Poi un altro post. "Lo ammetto. L'emozione non manca a salire di nuovo al Nazareno, più di sette anni dopo". Con 713 sottoscrizioni è il candidato unico alla segreteria, come ha riferito Cuppi.

Il discorso di Letta.Il discorso di Letta è il cuore di questa insolita assemblea senza dibattito, ma puramente 'elettiva', con voto elettronico. E poco prima di mezzogiorno, l'ex premier ha preso la parola dalla sede del partito: "Vorrei che oggi la discussione non si chiudesse ma iniziasse. Domani presenterò un vademecum di idee da consegnare al dibattito dei circoli per due settimane. Ne discutiamo insieme e poi facciamo sintesi in una nuova assemblea". Ha messo subito le cose in chiaro, riconoscendo i limiti del Pd: "Lo stesso fatto che sia qui io e non una segretaria donna dimostra che esiste un problema" sulla parità di genere. "Io metterò al centro" il tema delle donne: è "assurdo" che sia un problema. "Mi candido a nuovo segretario ma so che non vi serve un nuovo segretario: vi serve un nuovo Pd". E dopo le donne, i giovani che "saranno al centro della mia azione".

Le firme per la candidatura di Letta. L'assemblea è iniziata con l'intervento della presidente dem, Valentina Cuppi: "Serve un partito che sappia interpretare e combattere per le istanze democratiche" senza rimanere imbrigliato da "battaglie intestine fra aree culturali che rischiano di cristallizzarsi in lotta fra correnti". Dopo l'intervento della presidente Cuppi, la diretta streaming dell'assemblea è stata sospesa, impegnata negli "adempimenti formali" per la presentazione delle candidature e le relative sottoscrizioni. È ripresa poi con l'annuncio della raccolta delle firme a sostegno della candidatura di Enrico Letta: 731 per la precisione. Sono pervenute, ha spiegato Cuppi, 314 sottoscrizioni con firme autografe di membri dell'assemblea, più 97 mail di sottoscrizione e altri 302 nominativi: in tutto 713, appunto, sottoscrizioni. Entrando al Nazareno, Letta ha citato "il principe di Condé" che "dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi" come scriveva Alessandro Manzoni nel secondo capitolo dei Promessi sposi. Letta, nella sede del partito, questa mattina ha trovato anche il ministro Andrea Orlando, Peppe Provenzano, Walter Verini, Cecilia D'Elia, Brando Benifei, Chiara Braga, Nicola Oddati, Caterina Bini, Luigi Zanda, Stefano Vaccari. In un primo momento, era stato annunciato, oltre a lui, solo la presenza della presidente Cuppi. L'ex presidente del Consiglio, dopo aver sciolto la riserva, ora è quindi pronto a prendere le redini del Partito democratico lasciate in corsa da Nicola Zingaretti, ma ad alcune condizioni. Vuole fare la rivoluzione. E per farla deve ripartire dalle sezioni, come dimostra anche la sua visita a sorpresa ieri nel circolo dem del quartiere romano di Testaccio, il suo, con la foto davanti allo striscione "Ripiamose sti cocci". Letta è tornato perché richiamato dal partito e il ritorno è stato preceduto da contatti con tutti i capi delle tante aree che compongono il Pd, da telefonate con Mario Draghi e anche con Giuseppe Conte.

Vittorio Feltri contro Enrico Letta: un leaderino che non può avere successo. Libero Quotidiano il 14 marzo 2021. Bisogna dare atto a Zingaretti di aver compiuto una cosa buona e giusta: dimettersi da segretario del Partito Democratico. Lo ha fatto all'improvviso e ha resistito alle pressioni di coloro che volevano trattenerlo. Probabilmente ha capito che il partito è in disarmo e sarà difficile anche per il nuovo capo salvarlo. Basti pensare che i sondaggi, i quali non sono il verbo ma servono a misurare la febbre all'elettorato, attribuiscono più consensi a FdI che non al Pd. Questo per illustrare quale sia la situazione odierna. Ora, dopo sette anni di purgatorio, torna al Nazareno Enrico Letta, persona perbene, eppure con un temperamento che pare fragile, non idoneo a fare di lui un condottiero. Ne conosciamo la storia di leaderino e per questo dubitiamo che egli possa avere successo. Però è soltanto una nostra opinione e forse è sbagliata. Ciò che invece è un fatto dimostrato è che gli eredi del comunismo e della Dc di sinistra non hanno una struttura politica. Essi stessi ignorano chi siano e dove intendano andare. Vivono alla giornata come un gruppo di clochard, chiedono di avere per carità qualche poltrona governativa, non sanno se stare dalla parte del popolo o da quella della borghesia, non hanno un programma e se ne individuano per caso mezzo non riescono a realizzarlo. Non sono né carne né pesce e campano alla giornata in attesa di eventi. Poveracci, la loro specialità è sbandare e non si accorgono che prima o poi andranno a sbattere contro il muro. Un tempo lontano, quello di Botteghe Oscure, della religione marxista, disponevano di una organizzazione efficiente che nascondeva il vuoto di progetti. Adesso invece sembrano una bocciofila di periferia incapace perfino di allestire la festa delle salamelle. Farebbero tenerezza se non avessero conservato una dose massiccia di presunzione, direi di spocchia, tanto è vero che pretendono di insegnare agli italiani come debbano parlare. Hanno dichiarato guerra al dizionario della nostra lingua, non risparmiano intemerate a coloro che adoperano il termine "neg***" in luogo di nero, o tirano una battuta sui gay violando il codice del politicamente corretto. Non solo, praticano in modo becero il femminismo d'antan e si atteggiano a personcine culturalmente evolute quando - misere - si erano ridotte a farsi rappresentare da Zingaretti il quale con l'erudizione ha il medesimo rapporto che ho io con l'astrofisica. Onesto tuttavia è riconoscere che il problema dell'ignoranza non è tipico del Pd bensì di tutti i partiti. A piangere è la politica, la quale ha disperso quasi interamente il capitale intellettuale della Prima Repubblica, che aveva tanti difetti ma non considerava la sintassi un pregiudizio borghese. Occorre precisare che Letta non è uno sprovveduto, eppure se anche metti Toscanini a dirigere la banda degli zufoli la musica non migliora.

Enrico Letta, chi è il nuovo segretario del Partito Democratico. Ilaria Minucci su Notizie.it il 14/03/2021. Formazione e carriera politica di Enrico Letta: chi è il politico e accademico italiano eletto segretario del PD, in sostituzione di Nicola Zingaretti. Enrico Letta è stato scelto, tramite votazione su piattaforma online, come il nuovo segretario del Partito Democratico: l’ex-premier, che sostituirà Nicola Zingaretti, si è subito detto pronto a compiere cambiamenti radicali destinati a rafforzare il partito.

Enrico Letta, nascita e formazione scolastica

Il politico e accademico Enrico Letta, nato a Pisa il 20 agosto 1966, ha trascorso parte della propria infanzia a Strasburgo per poi tornare in Italia, una volta conclusa la scuola dell’obbligo, e frequentare l’Università di Pisa, dove si laurea in scienze politiche ad indirizzo politico-internazionale nel 1994.

Dopo la laurea, frequenta e consegue presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa il dottorato in Diritto della Comunità Europea.

Tra il 2021 e il 2003, è professore a contratto presso l’Università Carlo Cattaneo mentre, nel 2003, insegna presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e, nel 2004, presso l’École des hautes études commerciales di Parigi.

Enrico Letta è attualmente sposato, in seconde nozze, con Gianna Fregonara, giornalista del Corriere della Sera, con la quale ha avuto tre figli: Giacomo, Lorenzo e Francesco.

Gli esordi politici di Enrico Letta

La carriera politica di Enrico Letta inizia con la sua adesione alla Democrazia Cristiana: l’attuale segretario del PD, infatti, ha ricoperto il ruolo di presidente dei Giovani Democristiani Europei tra il 1991 e il 1995.

In occasione del governo Ciampi, nel periodo 1993-1994, Enrico Letta è stato impiegato presso la Farnesina in qualità di Capo di Gabinetto, sotto la direzione del ministro Beniamino Andreatta.

Nel 1997, è stato nominato insieme a Dario Franceschini vicesegretario del Partito Popolare Italiano: ruolo che abbandona nel 1998 per diventare, nel primo governo D’Alema, ministro per le Politiche Comunitarie, accaparrandosi il titolo di ministro più giovane della storia della Repubblica italiana.

Nel 1999, durante il secondo governo D’Alema, Enrico Letta viene scelto come ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato. Il medesimo ruolo sarà confermato anche dopo l’insediamento del secondo governo Amato e verrà affiancato anche dall’incarico di ministro del Commercio con l’Estero.

Tra il 2002 e il 2021, l’attuale segretario del PD diventa il responsabile nazionale per l’economia con La Margherita mentre, nel 2004, presenta la sua candidatura per il Parlamento europeo nella lista “Uniti nell’Ulivo”, ottiene l’incarico con 176.000 preferenze.

Nel 2006, con la nascita del Governo Prodi, Enrico Letta assume la carica di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, configurandosi come il successore dello zio, Gianni Letta, fedelissimo di Silvio Berlusconi.

L’adesione al Partito Democratico e la nomina a segretario

Nel 2007, Enrico Letta entra a far parte del Partito Democratico e annuncia la sua candidatura alle primarie della segreteria del partito, venendo però sconfitto da Walter Veltroni.

Tra il 2008 e il 2009, viene nominato ministro del Lavoro, Salute e Politiche Sociali del Governo Ombra del PD. Sempre nel 2009, invece, sostiene Pier Luigi Bersani, diventando il vicesegretario nazionale del Partito Democratico.

Il 24 aprile 2013, Enrico Letta viene scelto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano come Presidente del Consiglio dei ministri con il compito di formare un nuovo governo. L’esperienza di governo in qualità di Premier condotta da Letta, tuttavia, ha vita estremamente breve, concludendosi a febbraio del 2014, dopo le pressioni del nuovo segretario del PD Matteo Renzi che chiedeva le dimissioni del presidente in carica.

Dopo le dimissioni dalla carica di Presidente del Consiglio dei ministri, Letta si dimette anche da deputato della Cameranel corso del 2015, dopo essersi espresso voto contrario rispetto all’Italicum, la nuova legge elettorale ideata dal PD.

Il 14 marzo 2021, infine, Enrico Letta è stato eletto segretario del Partito Democratico, sostituendo Nicola Zingaretti.

Gli ideali politici

Enrico Letta ha idee politiche estremamente chiare e precise: è un convinto sostenitore della parità di genere e delle politiche giovanili. A questo proposito, è favorevole ad abbassare il limite di partecipazione alle elezioni politiche da 18 a 16 anni, in modo tale da «allargare il peso dei giovani nella società».

Allo stesso modo, è a favore di una riforma della giustizia radicale e della transizione ecologica e digitale.

Inoltre, si oppone fermamente all’esistenza di paradisi fiscali in Europa e reputa necessaria la creazione di una Tech taxesistente a livello europeo.

Infine, si è sempre espresso in modo critico e contrario rispetto alle ultime leggi elettorali adottate in Italia, tra le quali figurano il Porcellum e il Rosatellum.

Il politico e accademico italiano, quindi, può essere definito come un convinto europeista e ambientalista ma anche con un riformista liberale che, da sempre, esterna un «rispetto sacrale delle istituzioni».

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 14 marzo 2021. Mario Del Pero, che già insegnava storia internazionale (è specialista di Stati Uniti) alla Psia, la prestigiosa Scuola di Affari internazionali di Sciences Po, si ricorda bene quando all'inizio del settembre 2015 arrivò il nuovo preside, Enrico Letta. Con una buona dose di sincerità, ammette: «Ero scettico, come altri alla scuola. Io sono un accademico e, ogni volta che una figura pubblica sbarca a guidare un centro d'insegnamento e di ricerca, ne capisco la necessità per la promozione, ma penso che il personaggio cerchi un diversivo dopo che la sua carriera politica è finita». Sciences Po, a Parigi una delle «fucine delle élites», poteva essere un accogliente cimitero degli elefanti per Letta, costretto a lasciare Palazzo Chigi l'anno prima e poi il partito e anche il Parlamento. Ora che Letta se ne è ritornato via, Del Pero ammette che i quasi sei anni di esilio parigino «hanno smentito i miei dubbi. Ha svolto seriamente il suo incarico, con una presenza sorprendente alla scuola, anche fra gli studenti». Il master del Psia è uno dei più in vista di Sciences Po. Quando Letta arrivò, nella graduatoria mondiale (il Qs world) delle scuole di affari internazionali a livello universitario, il Psia si piazzava al tredicesimo posto. Nell'ultimo ranking, del 2021, è balzato al secondo, giusto dietro Harvard. L'effetto Letta ha spinto su le iscrizioni (oggi ci sono più di 1500 studenti di 110 nazionalità diverse, che seguono corsi impartiti al 70% in inglese). Insomma, negli austeri corridoi di Sciences Po, a due passi da Saint-Germain-des-Prés, è praticamente impossibile trovare qualcuno che parli male di Letta. La scuola ha avuto i suoi problemi (una delle personalità più influenti, Olivier Duhamel, è stato da poco accusato di incesto e il direttore, Frédéric Mion, che ne era al corrente e non aveva mosso un dito, si è dimesso in febbraio), senza considerare che Sciences Po negli ultimi anni ha moltiplicato i suoi cursus in ogni direzione, diventando a tratti una fabbrica di tuttologia. Lo Psia, invece, resta il suo fiore all'occhiello. Intanto Letta è stato eletto presidente dell'Apsia, l'organizzazione mondiale delle scuole universitarie di Affari internazionali (è il primo non americano). A Parigi è stato nominato pure presidente dell'Istituto Jacques Delors, che ha reso più dinamico «perché Letta è un marchio di qualità a livello europeo», sottolinea Nicolò Conti, già capo della comunicazione di questo think-thank. Ieri Letta ha parlato a Le Monde della sua decisione di rientrare. «Ho esitato perché mi piaceva la mia vita a Parigi, adoro Sciences Po e i miei studenti - ha detto -. Continuo a pensare che la scelta di andarci nel 2015 sia stata la più intelligente che abbia fatto nella mia vita». Ma «l'Italia è il mio Paese e la politica il mio Dna». «Dobbiamo evitare che il Pd diventi come il Ps francese, la cui ala destra è partita con Macron e quella di sinistra verso Jean-Luc Mélenchon», il leader della gauche radicale. Letta ha un rapporto di reciproca stima con il Presidente francese ma «si rifà alla tradizione del cristianesimo sociale - sottolinea Del Pero -. È un riformista, mentre Macron è piuttosto un neoliberale».

Enrico Letta, la telefonata con Mario Draghi prima di annunciare la candidatura come segretario del Pd. Libero Quotidiano il 13 marzo 2021. "Io ci sono. Lo faccio per amore della politica e passione per i valori democratici": così l'ex premier Enrico Letta ha annunciato la sua candidatura alla segreteria del Pd dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti. Prima dell'annuncio sui social, come riporta il Corriere della sera, Letta ha sentito al telefono l'attuale presidente del Consiglio Mario Draghi. Che probabilmente gli avrà dato una spinta in più per ufficializzare la candidatura. E non solo. Il dem ha chiamato anche Giuseppe Conte e Luigi Di Maio per anticipare loro le sue intenzioni. La sua prima apparizione televisiva dopo l'annuncio è stata a Propaganda Live su La7: "Io non voglio vivacchiare - ha spiegato - voglio imprimere una svolta al partito. Non mi interessa l’unanimità finta, quella per cui alla prima difficoltà ognuno se ne va per conto suo". Quella di Letta è comunque una decisione importante, visto che da circa sette anni l'ex premier era lontano dall'Italia. Nel 2015, dopo essersi dimesso da deputato, era andato a dirigere la Scuola di Affari internazionali dell'Università Sciences Po di Parigi. Nei colloqui degli ultimi giorni con i big del Partito democratico, Letta ha preannunciato che chiederà di "aprire il Pd", di "dargli ossigeno", perché "non sarò succube del gioco delle correnti e non mi farò frenare dai veti interni", ha spiegato. E ancora: "La linea del partito la deciderò io, insieme a tutti gli elettori e ai militanti, che è giusto che riprendano la parola". Sul rapporto con il Movimento, invece, ha detto: "Non siamo mai stati subalterni ai 5 Stelle e non lo saremo certo adesso, deve esserci massimo rispetto da entrambe le parti".

Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 15 marzo 2021. È stata una telefonata di Mario Draghi a fargli vincere ogni residua resistenza, quando in quel di Parigi ancora oscillava tra accettare o rifiutare il ritorno al futuro della politica italiana: la guida di un partito agonizzante, che sette anni prima lo aveva tradito. E adesso è proprio un faccia a faccia con il premier che il neo-segretario del Pd vuol mettere in agenda, compatibilmente con gli impegni istituzionali del presidente. Per ribadire ciò che in Assemblea ha scandito forte chiaro: «Il governo Draghi è il nostro governo, semmai è la Lega che deve spiegare perché lo appoggia». Come Nicola Zingaretti - fin troppo esposto sul sostegno al predecessore e sul fallimento del Conte ter - non aveva sin qui potuto dire. D' altra parte non è un segreto che i due si conoscano e si stimino da parecchio. Almeno dagli anni in cui Letta era a capo dell' esecutivo nato sull' onda delle elezioni «non vinte» da Bersani e l' attuale premier presiedeva invece la Bce. Alle prese, entrambi, con problemi non da poco: gli strascichi della crisi del debito sovrano europeo, che aveva fatto tremare l' Italia, e le regole ferree del patto di stabilità. Un gioco di sponda nell' interesse del Paese che, con la "complicità" di Paolo Gentiloni, fra i massimi artefici della chiamata di Letta alle armi democratiche, si è rinnovato allorché il presidente del Consiglio ha spiegato all' ormai ex professore di Sciences Po perché era così importante che fosse lui a caricarsi sulle spalle il Pd. Una forza politica indispensabile per la stabilità del Gabinetto di salvezza nazionale voluto fortissimamente da Sergio Mattarella. Pure lui osservatore non certo indifferente della vicenda che ha portato al rimpatrio lettiano. La debolezza e l'assenza di leadership dem avrebbe infatti rischiato di mettere a repentaglio il governo insieme alle partite più importanti portate faticosamente avanti: gestione dell' emergenza sanitaria, piano vaccinale e Recovery plan, che sarebbero altrimenti rimaste in balìa delle incursioni solitarie di Matteo Salvini. Solo il primo di una serie di incontri istituzionali, che Letta intende accompagnare a una profonda riforma del partito. Obiettivo: ridurre progressivamente il peso delle correnti, che da centri di potere organizzato dovranno evolvere in motore del pluralismo interno. A questo mirano le Agorà democratiche, progetto al quale i "suoi" ragazzi, gli allievi delle Scuole di politica promosse dal neo-segretario in giro per l' Europa, stanno già lavorando da un po'. E che a ridosso dell' estate, subito prima o subito dopo a seconda della pandemia, dovrebbero sfociare in una grande Assemblea degli Esterni, sul modello di quella che alla fine del 1981 una Dc allora allo sbando organizzò per dare un forte segnale di rinnovamento e di apertura alla società. Oggi come ieri l' idea è di coinvolgere le migliori menti non solo italiane - professori, economisti, politologi, esponenti del mondo della cultura, del lavoro e dell' impresa - che aiutino a ridefinire l' identità e il ruolo del Pd nel Paese travolto dal Covid. Esattamente l' intuizione che quarant' anni fa ebbe per la Balena Bianca Beniamino Andreatta, anche ieri definito da Letta il «mio maestro». Un lavoro che comincerà sin da stamattina, quando l' ex premier prenderà possesso dei suoi uffici al Nazareno. Dove iniziare a stilare il calendario degli appuntamenti: con i presidenti di Camera e Senato per affrontare il tema delle riforme che giacciono inevase in Parlamento, e poi con i gruppi del Pd, con i quali cominciare a ragionare su eventuali avvicendamenti (a palazzo Madama già si ipotizza uno scambio: Rossomando al posto del capogruppo Marcucci, che prenderebbe la vicepresidenza dell' Aula). Poi toccherà ai famosi corpi intermedi, che per il neo segretario sono fondamentali: sindacati, associazioni di categoria e imprese, Terzo settore. E siccome però solo un Pd in salute può essere anche un partito forte, Letta chiederà una radiografia sulla situazione finanziaria, che non è tracollata solo grazie ai contributi del 2 per mille, e l' organizzazione sul territorio. Due questioni da tempo in sofferenza, da affrontare subito. Perché lui ha rilevato un Pd «in crisi» per rilanciarlo, non certo per diventarne il curatore fallimentare.

Da la7.it il 13 marzo 2021. "La politica io ce l'ho nel cuore, penso che la richiesta di provare a dare una svolta al PD, di aprire la porta a tante persone che stanno fuori andasse accolta. Oggi sono una persona diversa da prima perché ho lavorato con i giovani". “Faccio fatica a rispecchiarmi nell’Italia di oggi o dirmi tifoso di questa o di quella proposta politica…”. L’ex premier Enrico Letta, oggi rettore della scuola di Affari internazionali dell'Università di Parigi Sciences Po, nelle pagine del suo libro  (“Ho imparato”, il Mulino) si descrive "spaesato" e mette in bella evidenza l’errore da matita blu del Partito democratico: “E’ diventato il partito dei centri urbani, dimenticandosi delle periferie. Il partito delle ZTL”. Oltre la retorica, c’è di più: ad esempio, la citazione della commedia cult “Come Un Gatto in Tangenziale, “film simbolo dei muri e delle divisioni geografiche e sociali di oggi”. Letta non rinuncia a tirare stoccate a Renzi sull’Italicum e sull’idea di farsi largo attraverso la “distruzione dell’avversario”. La rottamazione dell’ex sindaco di Firenze, come i vaffa di Beppe Grillo e la ruspa di Matteo Salvini: “Messaggio analogo, efficacia senza progetto”. Punture di spillo contro “il machiavellismo estremo” si intrecciano a suggestioni donchisciottesche (“Ai muri preferisco i mulini”) e a riflessioni non convenzionali sulla “semplificazione fuorviante” del populismo e sul mito Erasmus così caro a un certo riformismo happy hour: “Ha un limite profondo. Coinvolge troppe poche persone, in 30 anni sono state solo 3 milioni, una minoranza”. Le critiche al governo non si spingono fino al punto di appoggiare l’idea del Fronte repubblicano di Calenda, del tutti contro Lega/M5s: “E’ uno schema potenzialmente letale perché tutto interno alle classi dirigenti e perché richiama quella radicalizzazione dei nemici da distruggere…”

Agenda e valori del prossimo segretario del Pd. Guerra a populisti e giustizialisti, la politica secondo Enrico Letta: sei punti cruciali. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 13 Marzo 2021.

1. Ricordiamo tutti il passaggio di consegne tra il governo Letta e il governo Renzi: una delle più sbrigative e gelide cerimonie della campanella che Palazzo Chigi rammenti. Era il 22 febbraio 2014: un tempo distante come il pleistocene, per la politica italiana ma ancor più per la biografia di Enrico Letta, ormai lontanissimo da quel «tengo il broncio, ergo sum». Non sarà, il suo, un ritorno all’insegna del risentimento: in politica come nella vita, il destino di chi si ostina a guardare indietro è quello della moglie di Lot, trasformata in un’immobile statua di sale. Letta, invece, ha in mente un’idea di futuro: per capire quale, possiamo attingere ai suoi due ultimi libri, editi per il Mulino, ambedue dai titoli inequivoci: Contro venti e maree. Idee sull’Europa e sull’Italia (2017) e Ho imparato (2019). Chiuse le pagine di entrambi, il lettore non fatica a rintracciarne il denominatore comune nel rifiuto di ogni nuance di sovranismo.

2. «L’Europa è composta di due tipi di Stati: quelli piccoli, e quelli che non si sono ancora accorti di essere piccoli» (il copyright è di Emma Bonino). A questo sovranismo nazionalista, Letta contrappone la forza dei numeri: nel 2050, il pianeta dovrà sfamare 10 miliardi di persone. Nel frattempo, le classi medie dei paesi emergenti (in Asia, soprattutto), divorano quantitativi di energia sempre maggiori, aspirando legittimamente ai nostri livelli di consumo. Da qui i mutamenti climatici, il loro impatto ambientale, le crisi sanitarie. Ne siamo e ne saremo colpiti tutti, ma qualcuno in misura maggiore: gli innocenti (le generazioni future) e i meno responsabili (i paesi poveri, più estesi e meno protetti). Tutto ciò se ne frega dei confini nazionali e delle loro sentinelle sovraniste. Con utopico realismo, Letta invoca la necessità di una policy che orienti il pianeta verso un modello di sviluppo capace di coniugare sostenibilità ambientale, crescita demografica, giustizia sociale. Ecco perché – paradossalmente – la difesa della sovranità nazionale passa attraverso la sua parziale cessione in ambiti di interesse comune. Letta lo sa bene: condividere sovranità statale è una forma lungimirante di altruismo interessato, perché solo a livello transnazionale possiamo vincere sfide che travalicano il nostro periferico cortile di casa.

3. Per ciò Letta è un europeista inossidabile, ma non dogmatico. Riconosce l’errore di aver creduto in un modello di sviluppo mainstream che ha aggravato le diseguaglianze. Da europeista, critica i governi rigoristi rifiutando l’equazione «minori diritti in cambio di maggiori opportunità». Descrive l’Ue come «un’unione di minoranze» dove nessuno domina sull’altro perché «l’Europa è il contrario di un progetto imperiale»: ai suoi occhi, mettere insieme 27 Stati, 24 lingue, 19 Paesi con una stessa moneta, dandosi una Carta dei diritti fondamentali dalla stessa forza giuridica dei Trattati, è il progetto politico e nonviolento più ambizioso e meglio riuscito dei nostri tempi. Guardando avanti, per Letta non si può essere timidamente europei, altrimenti abbiamo già perso. Da qui la sua proposta di un’Ue a geometrie variabili, cerchi concentrici, velocità differenziate, dove concedere di più a chi vuole fare di più in termini di integrazione in ambiti decisivi: politica estera, politica di difesa e sicurezza, unione bancaria, un comune ministro delle Finanze e del bilancio. C’è dell’altro. Se la sfida più impegnativa per la politica di oggi è «proporre il meglio, non l’alternativa al peggio», l’Europa può farlo soprattutto nel campo dei diritti frutto di tradizioni comuni: rifiuto della pena di morte, giuste condizioni di detenzione, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, diritto al lavoro, laicità, pluralismo confessionale, libertà di coscienza. Letta è giustamente convinto che solo attraverso una pragmatica «strategia dei valori» europei potremo collocarci tra chi organizza le regole del gioco globale (rule makers) invece di trovarci relegati tra chi applica regole scritte da altri (rule takers).

4. Vale, ad esempio, per il fenomeno migratorio, da sempre campo d’elezione per il sovranismo xenofobo interessato a non risolvere il problema per lucrarvi elettoralmente. Cifre alla mano, Letta svela la differenza tra realtà e percezione della questione: mentre i picchi di sbarchi sulle nostre coste non sono più quelli del passato, ad aumentare è il tasso di mortalità dei migranti nel Mediterraneo; mentre si alimenta la narrazione, giuridicamente fasulla, dei porti chiusi, ininterrotto è il flusso di extracomunitari in entrata con visti turistici a scadenza. Per portare a soluzione il problema – scrive Letta – servirebbe «un Super Mario Draghi per la crisi migratoria»: aprire vie legali di accesso all’Europa, gestire i rifugiati a livello europeo (cambiando l’accordo di Dublino), creare corridoi umanitari con le zone di crisi (a evitare pericolose odissee in mare), controllare le frontiere esterne dell’Unione (senza appaltarne la gestione a paesi terzi) creando una polizia europea integrata, armonizzare le regole di accoglienza, promuovere una diplomazia culturale tra continenti (sfruttando il ruolo chiave degli Atenei).

5. Tra le cinquanta sfumature di sovranismo c’è anche quella populista. Senza reticenze, Letta ne rintraccia sintomi evidenti nelle leadership – in apparenza alternative – di Grillo, Salvini e Renzi. Comuni sono il linguaggio truce («vaffa, ruspa, rottamazione») e la postura politicamente aggressiva (asfaltare e delegittimare l’avversario). Comune è «l’idea che la propria discesa in campo segni l’anno zero della politica», ma anche la promessa non mantenuta che «mai, una volta raggiunto il potere, si sarebbero comportati come i predecessori». Comune è «la totale sovrapposizione tra la propria figura di leader e quella del proprio partito», come pure «l’esaltazione, a tratti perfino fanatica, della disintermediazione», e l’«appello diretto al popolo». Ai diversamente populisti – alfieri di «annunci mediatici e produzione di racconti, privi di risultati concreti» – Letta contrappone il coraggio di «dire la verità [che] in politica vuol dire spiegare che la scelta di oggi non sarà proficua da domani mattina». All’uomo solo al comando, Letta contrappone le ragioni di una leadership politica condivisa, perché «i nostri sono i tempi delle coalizioni, non dell’uomo singolo; del team, non del grande talento solitario; dell’intelligenza collettiva, non della tattica individuale». 6. «Io ci sono», ha detto ieri. Accettando la candidatura a segretario del Pd, Letta interrompe un “esilio” di sette anni fuori dall’«acquario della politica romana», definiti i più intensi e carichi di insegnamenti perché «la vita personale influenza il pensiero». C’è da aspettarsi, dunque, che quanto fin qui maturato sarà portato dentro la politica italiana. Se ciò accadrà, la sua segreteria non sarà soltanto «il baricentro di qualsiasi alternativa alle destre» (come ha detto, benedicendola, Zingaretti). Sarà parimenti in radicale opposizione a qualunque populismo sovranista, dovunque alberghi. Lo auspicava ieri il Direttore di questo giornale, invitando Letta a respingere «il ricatto dello schieramento obbligatorio» con un grillismo semmai da liquidare, nel nome di un nuovo e allargato riformismo di sinistra. Lo aspetta un compito titanico: rovesciare il tavolo delle liti correntizie nel partito. Riportare finalmente il Pd sul terreno delle idee e dell’agire, non solo ministeriale. Sfidare gli avversari esterni sulla capacità di rispondere a bisogni di generazioni aggredite da cambiamenti epocali. Difendere e contribuire a rigenerare la democrazia della rappresentanza politica e delle formazioni sociali intermedie. Lo attende una lotta politica a tutto campo da condurre insieme alla sua ritrovata comunità, perché – come recita il proverbio africano a Letta molto caro – «Se vuoi andare veloce, agisci da solo; se vuoi andare lontano, agisci insieme agli altri». Ben tornato e auguri vivissimi.

M.A. per "il Messaggero" l'11 marzo 2021. Gli amici di Letta assicurano: «Enrico non è un tipo vendicativo». Per fortuna. Sennò, dovrebbe prendersela non solo con gli ex renziani ma con quasi tutti quelli che adesso gli chiedono di fare il Cincinnato e il salvatore della patria dem e che sette anni fa però lo tradirono. Contribuendo a defenestrarlo da Palazzo Chigi. Letta non potrà mai dimenticare, e infatti anche in queste ore ci pensa e ci ripensa, la giornata del 13 febbraio 2014, quando la direzione del Pd vota la fine del governo da lui presieduto e designa Renzi al suo posto. Anche per #EnricoStaiSereno arrivò il giorno della rottamazione. Che portò la firma un po' di tutti, degli ex democristiani, degli ex comunisti, di tanti di coloro che adesso si aggrappano a lui come a un salvagente (pronti a sgonfiarlo di nuovo, dopo tanto unanimismo, quando e se converrà?). «I farisei mi hanno sfiduciato, ho capito che i mediatori tra me e Renzi mi avevano teso un tranello», così la prese l'#EnricoStaiSereno. Erano le 8 del 13 febbraio 2014 e al piano nobile di Palazzo Chigi il premier, ormai indebolito, fece entrare nel suo studio dalle pareti dorate una delegazione del partito. E la presenza di Speranza, capogruppo dem alla Camera, della sinistra bersaniana, fece capire al premier che il colpo di grazia lo avevano inferto proprio loro, gli ex comunisti, a parole ostili a Renzi ma nei fatti decisivi nel favorire la sua escalation. Alle varie correnti che gli chiedevano di lasciare il campo senza traumi, Letta rispose così: «Questa è un' operazione che farà male al Paese». Quell' incontro fu gelido, durò quattro minuti e dieci ore più tardi la Direzione del Pd ritirò la fiducia al beniamino di queste ore e aprì la strada al governo guidato dal segretario Renzi. Il quale già dal tempo delle primarie aveva intrecciato un rapporto personale con uno dei capofila degli ex comunisti, Orfini, con Franceschini e con tanti altri e non faceva che ripetere a tutti: «I sondaggi sono brutti, se continuiamo con il passo di Letta alle Europee prendiamo un legnata». E ancora: «Così non va, serve un governo di legislatura» (che è un bel richiamo per gli onorevoli che vogliono rinnovare il proprio mandato e allora sembrava esserci posto per tutti). Romano Prodi, mentre il partito tra big e peones di ogni tendenza accusa il governo di immobilismo e di «scarso coraggio», mette sul chi vive il suo amico Enrico: «Tenta una sortita, non aver paura di metterti in una controversia». Ma stava precipitando tutto e in prospettiva anche i lettiani, come la De Micheli o Boccia, avrebbero preso altre strade.

CANNIBALISMI. Si sentiva solo, Letta. Chi più chi meno, gli attuali maggiorenti che in queste ore invocano «Enrico, Enricoooo», lo spinsero fuori dalla leadership e dalla premiership. Bersani, convalescente, lasciò fare. Franceschini mediava per convincere l' amico Enrico a fare un passo indietro senza scontri cruenti. Il capogruppo Speranza: «E' un buon politico e un uomo di partito e dunque - così disse l' attuale ministro della Salute che intanto è andato a Leu - Enrico saprà valutare». Ossia andarsene senza troppi capricci. E Letta: «Ognuno si deve prendere le proprie responsabilità alla luce del sole, anche il Pd. Il mio mandato dura fino alla fine del 2014. Questo era l' accordo. Non accetto manovre di palazzo e non partecipo a trattative sul mio futuro». Ma ormai Letta era stato fatto fuori dal partito da cui adesso s' è dimesso Zingaretti e anche Nicola e i suoi in quel 2014 c' erano eccome. C' è' chi agì con entusiasmo (magari miope), chi con cinismo, chi per conservare la posizione. «Impazzano istinti cannibaleschi», s' indignò Filippo Andreatta, figlio di Beniamino (il grande mentore del giovane Letta) e ottimo amico dell' allora premier. Il problema è che quel tipo di istinti, nel Pd, sono tuttora forti come allora o addirittura si sono incrudeliti. E il primo a saperlo è proprio #EnricoStaiSereno.

DAGOREPORT il 12 marzo 2021. Un colloquio di Enrico Letta con Lorenzo Guerini, leader della corrente ex renziana Base Riformista, ha sbloccato il suo decollo verso la segreteria del PD. Un accordo fra due che si conoscono bene essendo stati due democristiani di sinistra, in modalità De Mita-Andreatta (Guerini aveva come nomignolo “Arnaldo”, come Forlani). Dunque, gli ex renziani voteranno il “Draghi del PD” che, intannto, scioglierà la riserva e si candiderà a Siena per il seggio lasciato vacante da Padoan al Senato; poi fra un anno, un anno e mezzo, si farà il congresso dove Letta si ripresenterà. Sulle future liste elettorali Enrichetto ha dato la sua parola che non sarà vendicativo nei confronti degli ex aficionados di Renzi, ma soprattutto sulla linea politica verso i 5Stelle ha precisato che ci sarà discontinuità. A differenza della linea Bettini-Zinga (che negli ultimi giorni hanno avuto qualcosa da ridire), con il futuro partito di Conte ci sarà un’alleanza tattica, non strategica. Quindi, va bene una convergenza su interessi comuni ai due partiti, a differenza di ciò che argomentava Bettini: una coalizione per battere il centrodestra. Non solo: se l’ectoplasma di Zinga aveva bisogno delle elucubrazioni politiche di Bettini, Enrichetto farà di testa sua. Di più: Letta si propone aperto alle altre forze politiche. E così dicendo, da ex democristo, nipotino fedele di Gianni Letta, strizza l’occhiolino a quello che resta di Forza Italia: una serie di potentati che si fronteggiano su chi prenderà lo scettro del Banana con al centro, deus ex machina, Marina Berlusconi che ha in Giorgio Mulè il suo uomo. L’odio di Letta verso Berlusconi, col tempo, si è attenuato per trasferirsi sul sovranismo di Salvini. Perché Enrichetto era e resta il più europeista dei nostri politici. Infatti ha ottimi rapporti telefonici con Sergio Mattarella, Giuliano Amato e Mario Draghi, gode di una ottima rete di collegamenti internazionali, Europa compresa (Merkel e Macron), grazie al fatto che è uno dei rarissimi politici italiani in grado di parlare benissimo inglese e francese. “Al Quirinale, aggiunge Il Foglio, c’è Simone Guerrini, direttore dell’ufficio segreteria. Sono pisani entrambi e cresciuti insieme: da giovani, Letta fu suo coinquilino a Roma”. Ottimi i rapporti, poi, con i due dioscuri di Draghi, Gabrielli e Garofoli. “Da studente di giurisprudenza a Pisa Franco Gabrielli era segretario dei giovani Dc della sua città (Massa) e divenne capo dello staff di Renzo Lusetti, allora segretario nazionale, area Zaccagnini-De Mita. Lusetti, reggiano come Prodi e il cardinal Ruini e futuro assessore a Roma con Rutelli, era affiancato da giovani promesse chiamate Enrico Letta, Dario Franceschini, Angelino Alfano e Simone Guerrini, oggi capo della segreteria di Sergio Mattarella al Quirinale” (Stefano Filippi su “Il Giornale”). Con il governo Prodi del 2006, fu il suo sottosegretario Enrico Letta a suggerire la nomina di Gabrielli a capo del Sisde, poi trasformato in Aisi, dove lo “sbirro” si distinse con la cosiddetta operazione Parentopoli che liquidò oltre un centinaio di amici e congiunti attovagliati nell’Intelligence de’ noantri. Due anni da epurator e con l’arrivo del governo Berlusconi, il nuovo ministro dell'Interno, Roberto Maroni, nel 2008 cacciò il tosto Gabrielli. Con Roberto Garofoli, poi, Letta è amico intimo. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio al governo Draghi fu promosso dall’allora premier Letta a segretario di palazzo Chigi, e secondo le malelingue è stato Letta a suggerire il nome di Garofoli a Supermario. Sulla rete di Enrichetto è illuminante l’articolo di Carmelo Caruso su “il Foglio” di oggi: “Tra gli industriali, il fratello maggiore, è Francesco Merloni che è presidente di Arel, il pensatoio di Beniamino Andreatta che è stato il “legno” di Letta. I dossier della scuola politica di Letta portano la firma di Alberto Biancardi, Giulio Napolitano, Alessandro Aresu, Serena Sileoni (nominati nello staff di Draghi). Un consigliere economico molto ascoltato è Andrea Garnero, trentenne, che lavora all’Ocse”. Continua Caruso: “Altri economisti seguiti con attenzione sono Antonio Nicita, Fabio Pammolli, Paolo Guerrieri. Uomini macchina, nei territori, non possono che tornare a essere Pier Paolo Tognocchi, che è stato suo segretario particolare, così come Andrea Pieroni che Letta ha sostenuto nell’ultima campagna elettorale. Tra gli opinionisti che ascolta c’è Ferruccio de Bortoli. In Rai, l’uomo a lui vicino è Alberto Matassino, direttore generale, che aveva preso parte ad altre associazioni create da Letta: Vedrò e Trecentosessanta. Eleonora Andreatta è a Netflix ma è un nome ricorrente per la guida della televisione di stato”. Il fatto, infine, che Letta nel PD di oggi non abbia più una corrente come una volta (i vari Boccia, De Micheli, Ascani, Madia) è un vantaggio: può partire da zero e, da perfetto Draghi del Pd, non guardare in faccia nessuno.

Francesco Damato per startmag.it il 12 marzo 2021. Ha prodotto un minestrone di apprezzamenti, rievocazioni, soprannomi e anche sfottò ad Enrico Letta il ritorno, oltre che a casa, sulle prime pagine dei giornali come possibile successore di Nicola Zingaretti alla guida di un Pd che un po’ da storico e un po’ da editorialista Paolo Mieli ha appena definito “un partito divoratore di leader e adoratore del potere”. Per cui sembra appropriata la vignetta di Stefano Rolli, sul Secolo XIX, che praticamente suggerisce all’ex presidente del Consiglio di assumere subito quanto meno “un assaggiatore”, non essendo stato ancora scoperto e tanto meno prodotto un vaccino anche per gli avvelenamenti, oltre che per il Covid. Il “Rieccolo” di memoria montanelliana gli è in qualche modo spettato per l’affinità pur adottiva, essendo nato a Pisa da famiglia abruzzese, con altri due “Rieccoli” toscani: quello originario inventato da Indro Montanelli, cioè Amintore Fanfani, e quello più recente che si chiama naturalmente Matteo Renzi, caduto e risorto più volte negli ultimi sei anni: dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale nel 2016 alla conferma a segretario del Pd l’anno dopo, dalla sconfitta elettorale nel 2018 anche come segretario del partito alla ricomparsa come regista, l’anno dopo. del secondo governo di Giuseppe Conte, salvo abbatterlo poi per spianare la strada di Palazzo Chigi a Mario Draghi. Proprio a proposito di Draghi, considerato il più politico dei tecnici, Enrico Letta è stato indicato come il più tecnico dei politici e perciò “il Draghi del Pd” o, per lo stato in cui quel partito è ridotto per la descrizione fattane dallo stesso segretario dimissionario, “il Draghi dei poveri”. Quel “forte” datogli da Zingaretti nella presunzione di aiutarlo a succedergli è stato tradotto in “maschio” nella vignetta di Sergio Staino sulla Stampa dalla figlia del mitico Bobo, sentendosi però rispondere dal padre che Enrico Letta “ha tanta femminilità dentro…tanta, credimi, tantissima”. Quelli del Foglio invece sono stati attratti dalle lenti dell’interessato per definire “il partito degli occhialini” quello che egli potrebbe costruire attorno a sé, fra “giuristi, economisti, giovani”, sempre che naturalmente i “divoratori” – per dirla con Paolo Mieli – gliene lasceranno il tempo. Non poteva naturalmente mancare in questo minestrone di giudizi, valutazioni e quant’altro i riferimenti familiari ad un altro Letta: lo zio Gianni, grande consigliere e ambasciatore di Silvio Berlusconi. Se n’è ricordato il solito Fatto Quotidiano dedicandogli “la cattiveria” di giornata sulla prima pagina: “Enrico Letta è rientrato in Italia dopo l’invito a diventare il nuovo segretario del Pd. Imbarazzo nel partito: intendevano Gianni Letta”. Già, perché in quel giornale sono convinti che, prima di dimettersi forse per pentimento, Zingaretti abbia lasciato fare a Mario Draghi un governo su misura per Berlusconi, oltre che per Matteo Salvini. L’ultima prova sarebbe la decisione appena presa dal presidente del Consiglio di nominare sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali, “berlusconiana e poi montiana”, perciò “perfetta per un governo di centrodestra”. E così è anche servito, a suo modo, Beppe Grillo per avere accettato pure lui Draghi a Palazzo Chigi trovando subito un posto politico al… deposto Giuseppe Conte: “Rifondatore” del MoVimento 5 Stelle, o come diavolo esso potrà chiamarsi alla fine.

Fabio Martini per “la Stampa” il 12 marzo 2021. Quella mattina anche Enrico Letta perse l' innocenza. Otto febbraio 2014, otto del mattino, palazzo Chigi ancora semideserto, nei corridoi si avverte soltanto il rumore di qualche fotocopiatrice che ricomincia a sussultare dopo una notte in sonno. Il presidente del Consiglio fa entrare nel suo studio i tre ospiti che hanno chiesto di incontrarlo: il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, il presidente dei senatori Luigi Zanda e quello dei deputati Roberto Speranza. I tre, a sorpresa, gli chiedono di lasciare il campo e Letta risponde così: «Questa è un' operazione che farà male al Paese». Dell' incontro non si seppe nulla e successivamente la Direzione del Pd tolse la fiducia a Letta, chiedendo a Matteo Renzi di ascendere a palazzo Chigi. Passato alla storia come un complotto solitario del "pugnalatore" fiorentino, l'avvicendamento Letta-Renzi in realtà fu opera collettiva di tutte le correnti del Pd, con il concorso della sinistra bersaniana (ma non di Bersani che era convalescente), e in quella occasione si manifestò per l' ennesima volta quella che si può definire come una malattia ereditaria della sinistra italiana: la vocazione a divorare i propri leader. A mangiarseli mentre sono vivi, in carica: spesso con operazioni personalistiche e non, come sarebbe fisiologico, dopo sconfitte elettorali o battaglie politiche. In queste ore attorno ad Enrico Letta si sdilinquiscono tutti in elogi entusiastici. Proprio come capitato, ai loro esordi, a tutti i leader poi vittime. Uno dopo l' altro sono caduti sul "campo" due presidenti del Consiglio (Romano Prodi nel 1998, Massimo D' Alema nel 2000), due segretari del Pd (Walter Veltroni nel 2009 e Pierluigi Bersani nel 2013) e un candidato al Quirinale: Prodi nel 2013. Proprio quella corsa, passata alla storia come la "congiura dei 101", resta il fantasma che incombe su ogni nuovo leader del Pd. Una storia diversa da come l' hanno raccontata le parti in gioco: storia priva di «uomo nero», ma ricca di «colpevoli» rimasti nell' ombra. Prima sequenza: nella mitica casa di Gianni Letta, Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi concordano: votiamo ad oltranza Franco Marini sino ad eleggerlo presidente. Un accordo battezzato fuori dai canali formali con un' idea dentro: un ex Dc al Quirinale che apra la strada ad un ex Pci come Bersani a Chigi. Ai grandi elettori Marini piace ma non troppo. Al primo scrutinio ottiene 521 voti, sono molti meno dei previsto ma dal quarto scrutinio sarebbero sufficienti per salire al Quirinale. Eppure, contro la volontà di Marini, al Pd decidono che si debba ritirare e si debba puntare su Prodi. Gli ex popolari, tutti con Marini, ci restano malissimo e da quel momento si mettono di traverso. Anni dopo ha raccontato Marini a La Stampa: «La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d'anticipo perché temeva una candidatura di D'Alema». E infatti nella notte D'Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto, scontro aperto ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nella notte vengono preparate le schede per la mattina successiva. E qui nuovo colpo di scena. Bersani propone ai grandi elettori la candidatura Prodi ma a quel punto accade l' imponderabile: all' annuncio del nome di Professore, dalle prime due file si alza un applauso entusiastico e si «cede» all' acclamazione senza voto. Racconterà più tardi Massimo D' Alema: «In sala c'è stato l'errore grave di chi doveva» proporre l'altra candidatura «e non lo ha fatto», Anna Finocchiaro. A quel punto, visto che dal Pd nessuno si preoccupa di coinvolgere Monti, Rodotà, Grillo, è lo stesso Prodi, in missione in Mali, a telefonare a Massimo D' Alema, che è sincero: «La situazione, dopo l'esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa». Prodi mentalmente annota: D'Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama Mario Monti, che gli dice: «Romano la tua candidatura è divisiva...». Chi può ancora fare ancora la differenza è Stefano Rodotà, votato fino a quel momento dai Cinque Stelle. Ma il professore non si ritira. Prima che la votazione inizi, Prodi telefona alla moglie Flavia: «Non passerò». Mancheranno 101 grandi elettori Pd, la profezia si avvera e proprio l' altalena di quelle ore racconta la malattia ereditaria del centrosinistra: una conflittualità che da politica diventa spesso personalistica. Enrico Letta lo sa e in queste ore chi lo conosce racconta che ha capito bene la lezione.

Chi è Enrico Letta, il re delle gaffe: il Pd ha scelto l’uomo che è “scivolato” più di Di Maio. Luca Maurelli giovedì 11 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Sono fascisti immaginari, oggi, quegli stessi grillini che qualche anno fa Enrico Letta e il Pd bollavano come violenti e aggressivi, scagliandosi contro i loro banchi. “Fascisti, fascisti!”. “Vergogna, Pd!”, era lo scambio di gentilezze oxfordiane poco prima di Natale del 2013. Un’eternità. Fascisti, ma immaginari, perché oggi è tutto cambiato, c’è un “pontiere” dell’alleanza tra il Pd e il M5S in campo, si chiama Enrico Letta ed è lo stesso che tuonava dai banchi del presidente del Consiglio, in Parlamento, contro i grillini che avevano appena portato a termine uno dei loro beceri attacchi ai giornalisti, all’insegna delle liste nere o di proscrizione. In quella occasione Enrico Letta, attuale candidato unico alla segreteria dei Democratici, insorse con toni non esattamente british, anche in difesa del giornale della moglie, Gianna Fragonara, colpito dalla fatwa di Grillo. E alla violenta reazione dai banchi del M5S per la reprimenda dell’allora premier, dai banchi del Pd partì quel coretto che è come il mocassino marrone, si abbina con tutto: “Fascisti, fascisti!”.  Una scena che appartiene alla storia della politica italiana, ma al passato remoto, perché nel futuro di Letta ci sono proprio quei “fascisti” con cui è chiamato a fare i conti, prima ancora che con le correnti del Pd, pensate un po’…

I grillini “fascisti” con i quali il Pd vuole governare oggi. Era l’11 dicembre del 2013, otto anni fa, quando si consumava quello scontro violento in aula: era un altro Letta e un altro Pd. Oggi all’ex premier, silurato da uno “stai sereno” di Renzi, viene chiesto di resuscitare un partito ammazzato dall’alleanza con quegli stessi grillini a cui il Pd dava dei fascisti, ma soprattutto gli viene chiesto di proseguire quella disastrosa alleanza, anche a livello locale, provando a creare un asse con il nuovo reggente, Giuseppe Conte, altra vittima di Renzi, per arginare la maggioranza di centrodestra che in caso di elezioni andrebbe a governare il Paese. In bocca al lupo, Enrico. Un compito sicuramente difficile, ma mai come quello di evitare i tanti scivoloni che hanno segnato la carriera del nipote di Gianni Letta, e non solo quello sulla “serenità” incassata da Renzi senza proferire verbo, ma con la caduta di stile del volto rancoroso e contrapposto a quello del neo premier al momento del rito della campanella che segnò il suo addio a Palazzo Chigi per mano di Renzi.

Chi è Enrico Letta: dalle gaffe sul calcio a quelle di storia. Enrico Letta, ex Presidente del Consiglio “bonsai” – per 300 giorni, nove mesi e passa, dal 28 aprile 2013 – con Silvio Berlusconi, oltre a condividere uno “di famiglia”, come lo zio Gianni, ha anche la comune passione per il Milan. Destò sorpresa la sua uscita contro il bomber Piatek, poco fortunato nella sua esperienza rossonera, contro il quale – al termine di un doloroso ko contro il Torino – riservò una frase “salviniana”, poco adatta a un gioco: “Torni da dove è venuto“. Una gaffe sportiva, alla faccia dell’accoglienza del Pd, seguita a quella politica, clamorosa, che fece registrare alla vigilia della nascita del governo Monti, stavolta all’insegna della sua accoglienza, quando inviò all’amico Mario un bigliettino in cui dichiarava di “essere a disposizione“. E Marione, con poco garbo, lo mostrò alle telecamere di mezzo inchiodando Letta a una figuraccia.

La polluzione dell’ex premier anglofilo. Ma come dimenticare lo scivolone linguistico di Letta, degno del miglior Di Maio, quando in un tweet si espresse testualmente così: “Le frontiere non hanno bloccato il virus. Così come la polluzione e altri fenomeni che cambiano le nostre vite”. Polluzione, disse proprio così, quella cosa che accade di notte, talvolta, ad uomini che sognano cose meravigliose… ma non certo ai migranti in fuga. Bocciato anche in storia, Letta: da direttore della Scuola di affari internazionali dell’Istituto di studi politici di Parigi, su Twitter esternò la sua felicità per aver visitato l’Ara Pacis a Roma commentando: «Ho visitato e molto apprezzato all’Ara Pacis la mostra su Claudio primo Imperatore straniero a Roma, primo di una lunga serie. Quanto erano più lungimiranti di noi i romani, bravi a integrare e prosperare…». Peccato che Claudio nacque a Lione, ma da una famiglie nobile romana, appartenente alla dinastia giulio-claudia, una delle più antiche della storia romana, come gli fece notare ironicame te Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.

Lo scivolone sulla razza ariana del futuro segretario del Pd. Altro giro, altra gaffe, quando Letta si gettò sulle nostalgie scolastiche: “Quando andavo a scuola io negli anni ’70 – ha spiegato Letta – eravamo tutti bianchi, direi quasi ariani“. Ariani? Razza ariana? O il riferimento era agli Arii, il popolo dell’età del bronzo? Mah…Lo zio Gianni, forse, tante volte gli avrà consigliato di fare attenzione alle parole: una figura ingombrante, la sua, al punto che un giorno, al G8, nella cartellina stampa di un giornale comparve la sua foto al posto di quella del nipote. All’estero lo confondono, ma come dimenticare la clamorosa gaffe che inanellò il 15 marzo del 2020, alla vigilia dell’Eurogruppo che a Bruxelles aveva ancora all’ordine del giorno la ratifica della riforma del Mes, nonostante il coronavirus, quando scrisse: «Ora è il momento di usare il Fondo salva Stati. Il Mes proprio per situazioni come queste è stato creato. Rinviare discussione sul suo futuro, eliminare clausole condizionalità e usare la sua dotazione finanziaria come pilastro della risposta europea a crisi che è peggio del 2008». Intanto, ma forse nessuno lo aveva avvisato, il Pd aveva virato sul M5S rinnegando il Mes e Conte si avviava a trattare sul Recovery. Infine, sempre su un palcoscenico internazionale, resta agli annali il video in cui Letta, con Putin al suo fianco, grida “Viva Trieste, Trieste libera!”, lasciando di sasso gli astanti. Roba alla Di Maio, anzi, forse anche meglio. Viva il Pd, Pd libero!

·        Goffredo Bettini.

DAGONOTA il 18 giugno 2021. Volete sapere come si fa a distruggere il Pd? Chiamate Goffredo Bettini. L'esponente unico della "corrente thailandese" del Pd, come becchino, è uno specialista del genere: ha già svolto, e male, al grido “O Conte-ter o voto”, il ruolo di Rasputin con Zingaretti, contribuendo alla disfatta della sua flaccida segreteria. Ora si è riciclato a "consigliori" di Enrico Letta a cui suggerisce scenari e disegna traiettorie che portano dritto-dritto al "centro rottamazione segretari Pd". Il grande progetto politico di Bettini, quello dell'alleanza strutturale tra Pd e M5s, ha portato al disfacimento dei dem, presi per il culo dalle giravolte dei pentastellati. Il suo amatissimo Conte è stato costretto, dalle mosse di Grillo e poi Di Maio, a dare l'endorsement a quella scappata di casa di Virginia Raggi al Comune di Roma. Da parte sua, Chiara Appendino ha sentenziato: "Non sosterremo il Pd al ballottaggio al Comune di Torino. I matrimoni combinati non funzionano". Con il povero Enrico Letta costretto alla resa: "A Roma e Torino nessuna convergenza possibile tra Pd e il M5s". Enrichetto, che da quando è diventato segretario le ha toppate tutte o quasi con iniziative scaccia-elettori (voto ai sedicenni, sostegno al Ddl Zan, Ius soli, tweet pro-Fedez), si è lasciato accompagnare da Bettini sulla strada, già percorsa con perdite da Zingaretti, dell'alleanza con i Cinquestelle. La solita fusione a freddo che, in nome dell'alta politica (ma quale poi?!), se ne sbatte della "base", che giustamente si è ribellata. Siamo ancora alle manovre di Politburo che gli elettori devono trangugiare senza fiatare? Peccato che il '900 sia finito da un pezzo e con esso la presunzione dei partiti di dare la linea ai cittadini. A scombinare le idee già confuse di Sotti-Letta, che ha il fiato sul collo degli ex renziani di "Base Riformista" che non vedono l'ora di rispedirlo a Parigi, ci si è messo anche l'ascoltato aruspice Romano Prodi. L'ex presidente della Commissione Ue, da sempre contrario a ogni ipotesi di legge elettorale proporzionale, ha contagiato con la sua "febbre maggioritaria" il redivivo Letta (che ha anche provato a rilanciare il Mattarellum). Una scelta di campo che porta, per direttissima, a un'unica inevitabile conseguenza: il Pd "deve" abbracciare il M5s. In un sistema maggioritario, bisogna stringere un'alleanza prima del voto e chi corre da solo, s'azzoppa. Un cortocircuito che va benissimo al centrodestra che, al suo interno, è ideologicamente più omogeneo: al netto delle divergenze personali e d'ambizione tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non è difficile tenere insieme Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia. Le rogne toccano a chi, come Pd e Cinquestelle, si unisce avendo come unico punto di contatto la necessità di allearsi. Non è un caso che, pur nella sua insipienza strategica, il povero Zingaretti preferisse una legge elettorale proporzionale che avrebbe slegato i dem dai grillini: ognuno per sé, Dio per tutti e buonanotte ai suonatori. Malgrado che non ne abbia azzeccata una, manco per sbaglio, Goffredone non demorde e continua a spiegare agli altri quello che non ha mai capito. Fino all’indecenza di dichiarare che “la sinistra italiana non esiste più”. Urge il ritorno, con un biglietto di sola andata, in Thailandia.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 18 giugno 2021.

Goffredo Bettini, l'alleanza con i Cinque stelle segna il passo.

«Ora il morboso interesse sulle alleanze serve a poco. È il momento della "riscossa" italiana: stroncare la pandemia e rilanciare la produzione e la crescita. Ci sono dati incoraggianti. Vanno consolidati. Con criteri di giustizia e umanità. Sono aumentati i poveri come ha rilevato l'Istat e tante persone rischiano con la fine del blocco dei licenziamenti. Per questo è fondamentale l'impronta sociale che ha dato Orlando alla sua azione di governo. La "riscossa" deve essere di tutti. Senza gli egoismi del passato. Le relazioni tra il Pd i 5 Stelle mi paiono positive. Tutto è cambiato rispetto al governo Conte. Adesso ognuno avverte l'esigenza di definire con più libertà il proprio profilo. Ma questo è un bene, non un problema. Dobbiamo prepararci a un ritorno pieno della dialettica democratica. Draghi è una vera garanzia di tenuta della Repubblica. La sua funzione è insostituibile, qualsiasi ruolo avrà in futuro. Tuttavia quello attuale è un governo d' emergenza. Spero che possa varare alcune riforme importanti: la giustizia, il fisco, la Pa. Ma alla fine è indispensabile che tornino a confrontarsi centrodestra e centrosinistra». 

Intanto a Roma e a Torino Pd e 5 Stelle si fanno la guerra.

«A Roma la presenza della Raggi, che non ha governato bene, ha impedito qualsiasi accordo. A Torino si poteva e forse si può ancora fare di più».

A proposito di Torino, lì le primarie hanno visto una bassa partecipazione.

«Certamente l'afflusso così scarso alle primarie impone di stabilire un livello minimo di partecipazione. Altrimenti da una festa di popolo si trasformano in una gara tra correnti interne». 

Tornando al M5s: Giuseppe Conte ha detto che al contrario del Pd il suo movimento cerca consensi anche al centro. Vi ha confinato a sinistra, con buona pace della vocazione maggioritaria del Partito democratico...

«Cos' è il centro? Se è le sigle di piccoli partiti, che costantemente attaccano il Pd, francamente non m' interessa. Se, al contrario, è quella parte di cittadini semplici, popolari, democratici e moderati, che cerca un'idea collettiva di futuro, allora il centro interessa moltissimo al Pd e alla sinistra. Vi sarà in quello spazio elettorale una civile competizione con Conte. La vocazione maggioritaria è in antitesi al profilo di una sinistra democratica? Mi consenta una battuta: uno dei rari momenti in cui il campo alternativo alla destra è diventato maggioritario in Italia è stato alla metà degli anni 70. C' erano l'Urss, i comunisti italiani, i socialisti generosamente uniti con i comunisti (fino all' autolesionismo) e le forze laiche rappresentate da Ugo La Malfa e non da Calenda. Senza contare i cattolici democratici. Alle elezioni politiche del '76 questa alleanza raggiunse circa il 50% dei consensi. Per parlare ai ceti produttivi e laboriosi, alla classe media o ai lavoratori della scuola e del commercio, è decisiva una sinistra moderna, aperta e libertaria. Semmai oggi il problema è inverso. Siamo in una "anomalia" uguale e contraria a quelle del passato: la sinistra italiana non esiste più. In Europa, pur con alti e bassi, c' è dappertutto. Da noi è sparita. Ecco perché nel Pd deve unirsi e pesare».

Voi sostenete di non avere un atteggiamento di sudditanza nei confronti dei 5 Stelle: ma a Roma hanno di fatto scelto il vostro candidato cassando la possibilità che fosse Nicola Zingaretti, mentre in Calabria hanno bocciato Nicola Irto...

«Zingaretti ha deciso in piena autonomia. Nessuno l'ha costretto. Non ha rischiato la crisi del governo del Lazio. Sta lavorando in modo esemplare sui vaccini, sulla ripresa economica e dell'occupazione, sulle politiche per i giovani. Gualtieri, poi, è stato il ministro dell'Economia che ha salvato l'Italia. Su Roma abbiamo messo in campo il meglio. Guai, tuttavia, a dare la sensazione che la vittoria sia scontata».

Sembra di capire che le Agorà del Pd nella mente di Letta corrispondano alla versione moderna dei comitati per l'Ulivo.

«Non credo, siamo in una fase diversa. Con l'Ulivo di Prodi abbiamo vinto la destra per due volte sul campo. Prodi è stato e rimane un gigante. Ma oggi tutto è troppo frammentato e, come ha detto Letta, non serve una sommatoria di sigle. Le Agorà sono un modo di allargare il campo del Pd con la decisiva presenza di esterni e con il ritorno della sovranità alla base della piramide sociale. Agli elettori e ai militanti».

Non sembra esserci troppo spazio per cambiare la legge elettorale, ma con l'attuale perché mai i grillini dovrebbero allearsi con il centrosinistra alle prossime Politiche? Lei che parla spesso con Giuseppe Conte pensa che lo faranno?

«Guardi, è proprio il maggioritario che renderà indispensabile l'alleanza con il Cinque Stelle. Preferisco il proporzionale, anche se vedo difficili le condizioni per realizzarlo. Perché è più efficace un'alleanza politica, libera e convinta, anche con i compromessi necessari, tra autonomi partiti, piuttosto che una camicia di forza imposta da regole elettorali».

Se le amministrative vanno male, secondo lei ricomincia il solito tormentone sul segretario?

«Non da parte mia. Non garantisco sugli altri. Ma le amministrative andranno bene». 

Il segretario di un circolo del Pd è stato sospeso perché l'aveva criticata, da voi vigono il centralismo democratico e la censura?

«Non mi aveva criticato, mi aveva insultato. Poi autonomamente ha cambiato il post, forse accorgendosi di aver esagerato. Ma io stesso ho detto subito di far cadere il provvedimento. È giovane, impegnato, vivace, impetuoso. Mi ha in antipatia. Ne ha tutto il diritto. Poteva solo, prima di esprimersi pubblicamente, venirmi a parlare, per conoscere meglio la mia storia al di là di tante caricature che vanno in giro. Mi piacerebbe incontrarlo. 

Quando negli anni 70 ero un dirigente della Fgci, sul nostro giornale "Città futura", diretto dal bravissimo Nando Adornato, uscì un trafiletto di presa in giro a Antonello Trombadori intitolato: «Tromba d' oro». Non ci furono provvedimenti ma molte proteste. Paolo Bufalini, amico fraterno di Trombadori, mi invitò a casa e mi raccontò tutto su di lui: la resistenza, l'instancabile lavoro culturale, il rapporto con Togliatti, la tenacia antifascista e repubblicana. Ho capito che avevamo commesso una leggerezza un po' cattiva. Tutto qui». 

I vostri alleati grillini sono filo-cinesi...

«Della Cina occorre respingere nettamente la violazione dei diritti umani, la prepotenza e una certa furbizia sulle politiche industriali e del commercio. Ma la risposta più catastrofica sarebbe la ripresa della guerra fredda».

Jacopo Iacoboni per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Ne succedono di cose alla Balduina. Il segretario della locale sezione Pd (Balduina-Montemario), Enrico Sabri, è stato sospeso per trenta giorni dal Partito. S' è mossa, più realista del re, la "Commissione di garanzia", reato presunto: lesa bettinità. Sabri aveva scritto un post Facebook (visibile solo ai suoi contatti) in cui criticava con frase volgare Goffredo Bettini, teorico dell' alleanza Pd-M5S: «Sherpa Romano, padre politico di Zingaretti, deputato, coordinatore della segreteria di Veltroni nonché suo ideologo, ideatore della candidatura a sindaco di Marino (...) te lo devo proprio dire da segretario municipale del PD di Roma (...), Goffredo Bettini hai rotto il c.». Bettini ovviamente non c' entra, ma qualche funzionario ha fatto lo screenshot del post incriminato e denunciato Sabri. Sono pronti in effetti all' alleanza coi grillini.

Fabio Rossi per "il Messaggero" il 17 giugno 2021. Sospeso per trenta giorni dal Pd per aver criticato Goffredo Bettini, con un post su Facebook. La disavventura è capitata a Enrico Sabri, giovane segretario dem nel Municipio XIV, che lo scorso 4 maggio aveva commentato una affermazione del fondatore del Partito democratico secondo il quale era «indispensabile» una alleanza con il M5S nelle grandi città. «Penso sia una delle pochissime volte che utilizzo il mio incarico qui, dove secondo me non è proprio - ha scritto sul social - Ma te lo devo proprio dire da segretario municipale del Pd di Roma, arrogandomi il diritto di parlare anche a nome dei poveri compagni delle altre città. Goffredo Bettini, mi hai un pochino scocciato». In realtà le ultime parole sono state modificate: nella prima versione il linguaggio era meno diplomatico. In base a questo post è stata attivata la commissione cittadina di garanzia del Pd che ha comminato la sanzione. Una decisione contro la quale Sabri ha già annunciato ricorso presso la commissione regionale, intravedendo nel provvedimento profili «procedurali» ma anche «di opportunità e di merito» a cui appellarsi per far prima sospendere e poi eventualmente revocare la decisione dell' organo di patito. Sabri, militante dem della Balduina, fa parte di Reds, la rete dei democratici e dei socialisti guidata da Dario Corallo, che si era candidato alla segreteria nazionale del partito nel 2019, al congresso vinto da Nicola Zingaretti. «Forse, invece che soffocare il dissenso e la critica, il partito dovrebbe imparare ad ascoltarlo altrimenti continueremo a perdere senza che quei geni dei nostri dirigenti abbiano capito il perché - commenta Corallo - Un partito di ciechi che fanno a sassate». Mentre impazza, «il dibattito sui candidati delle amministrative, a Roma accade una cosa curiosa - aggiunge Corallo - Accade che un segretario municipale (nonché caro amico), Enrico Sabri, scrive un post qui su Facebook dove dice che Goffredo Bettini ha scocciato, con le sue continue strategie e tattiche volte solo a nascondere il vuoto politico che rappresenta. Insomma, dice una cosa che molti pensano (o pensavano fino a che Zingaretti non è diventato segretario)». Nel partito sono in tanti a esprimere solidarietà al segretario del Municipio XIV. Compresa Claudia Daconto, responsabile comunicazione del Pd Roma: «Sono stata io a sollecitare pubblicamente Enrico Sabri a moderare i toni di un suo post di alcune settimane fa contro un dirigente nazionale del Partito democratico - commenta Daconto - La sua sospensione da parte della commissione di garanzia è una scelta che rispetto ma che considero sproporzionata. Mi auguro pertanto che si riunisca al più presto, anche entro le Primarie del 20 giugno, per deliberare il reintegro di Enrico nel pieno delle sue funzioni».

Pd, Bettini “Conte cadde per interessi internazionali”. Gelo del partito sul suo manifesto. Giovanna Vitale su La Repubblica il 14 aprile 2021. La replica del Nazareno: “Quello di Draghi è il governo del partito. Non ci sono dubbi". Borghi: "La stagione in cui faceva il guru del Pd è finita, ora l massimo può fare il guru della sua corrente". Non usa mai la parola "complotto", Goffredo Bettini. È troppo avvezzo al lessico della politica per ricorrere a un termine che rimanda a stagioni torbide e ben altri scenari. Però è chiaro che a quello allude quando, nel manifesto della sua nuova area politica (Le Agorà) chiamata oggi a battesimo, il dirigente dem ricostruisce il tracollo del governo giallorosso. "Conte non è caduto per i suoi errori o ritardi (che in parte ci sono stati) ma per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile", scrive l'ideologo dell'alleanza strutturale 5S-Pd. Dopodiché "nel vuoto e nell'incertezza" che si era "determinata, il presidente Mattarella ha saputo mettere a disposizione della Repubblica Mario Draghi. Una grande personalità. Una risposta di emergenza ad una situazione di emergenza". Chiosa necessaria per evitare che la nostalgia inestinguibile per il premier perduto suonasse come uno sgarbo a quello attuale. Una toppa. Che tuttavia non basta a frenare l'ondata di gelo proveniente dal Nazareno. "È una posizione personale di Bettini, che non riflette in alcun modo la nostra", taglia corto lo staff del segretario. "Nessuno può dubitare che il governo Draghi sia il governo del Pd di Letta", insistono. Convinti che l'uscita sia frutto di una "personalissima elaborazione" dell'ex eurodeputato, proposta "malgrado Conte, che non risulta abbia mai esposto teorie dello stesso tenore". Ché "se quel governo è finito è perché Renzi gli ha tolto il sostegno e si è verificato che non c'era una maggioranza alternativa". Più o meno ciò che ribadiscono molti parlamentari dem. "Conte è cascato, dopo una debolezza durata mesi, quando è venuta meno la sua maggioranza e sono falliti i tentativi di ricostruirla con i famosi responsabili", taglia corto Luigi Zanda. "Forse Bettini confonde l'Italia del 2020 con il Cile del '73", ironizza Enrico Borghi, che per Base riformista siede nella segreteria Letta: "La senilità, si sa, porta spesso a rimpiangere la gioventù, ma la stagione in cui faceva il guru del Pd è finita, ora tutt'al più può fare il guru della sua corrente". Non è da meno Matteo Orfini: "Conte ha pagato l'incapacità di fare quel cambio di passo che Zingaretti chiedeva da tempo. Il complottismo viene sempre utilizzato, nei momenti di difficoltà, per spiegare un fallimento". All'incirca le stesse parole utilizzate dall'artefice del presunto golpe: "Quindi non era colpa di un uomo solo, folle, di nome Renzi", graffia il leader di Iv. "Molti chiamano "complotto internazionale" semplicemente la propria incapacità di fare politica".

Estratto dell'articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 13 aprile 2021. Per Goffredo Bettini Giuseppe Conte è stato vittima di un complotto. In quanto ritenuto “inaffidabile” rispetto a “una convergenza di interessi nazionali e internazionali”. E dunque il governo Draghi sarebbe il frutto di un mezzo golpe ordito da poteri che l’ex premier “non avrebbe assecondato”. Lo scrive Bettini a pagina 10 del manifesto di Agorà, la nuova area culturale che lancerà domani. L’ideologo del Pd riformula la storia dell’uscita di Conte da Palazzo Chigi. In maniera inedita e clamorosa. Bettini, che con riga e compasso da  decenni disegna parabole politiche nel centrosinistra, rilancia Giuseppe Conte nell’agone più di quanto non facciano i grillini. Non solo: oltre a coccolarlo, a dirgli che per un pelo non è diventato il federatore dei progressisti (ma mai dire mai), si spinge in una rilettura ai limiti della macchinazione e del complotto internazionale per spiegare la fine dell’esperienza rossogialla al governo. Per Bettini, insomma, Conte non voleva piegarsi a interessi sovranazionali e per questo è stato punito. Altro che mossa del cavallo di Matteo Renzi. A  Giuseppi sarebbe toccata la stessa fine di Silvio Berlusconi nel 2011.   E’ tutto scritto. Basta leggere, come ha fatto Il Foglio, il manifesto della nuova area politico culturale bettiniana – “Le Agorà, socialismo e cristianesimo” - che domani sarà battezzata con una maratona in streaming di cinque ore con oltre trenta interventi in area dem e non solo (da Orlando a Tronti, passando per Fratoianni, Franceschini, Urbinati, Schlein e tanti, tanti altri)  .   E in questo manifesto  di una sinistra “che non si esaurisca nella distruzione del vecchio, piuttosto che sappia ricostruire” e che “superi i miti liberisti, grazie alla svolta europea” c’è uno spazio importante dedicato a Conte. Bettini ricostruisce così l’uscita di scena dell’Avvocato del popolo da Palazzo Chigi: non fu una crisi politica, ma praticamente, anche se non lo cita, un complotto. “Conte non è caduto per i suoi errori o ritardi (che in parte ci sono stati) ma per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile”.  E questa è una lettura, a posteriori, inedita sulle ragioni che avrebbero portato “una grande personalità come Mario Draghi” a capo del governo. I maligni dicono che Bettini nutra  un sentimento di vedovanza nei confronti di Conte, sentimento che però è pronto a scacciare subito. Perché, fa capire,  l’ex premier risorgerà. In quanto, scrive, “non è un ferro vecchio, come la grande stampa e tanti dirigenti politici hanno sentenziato. In questa logica –  scrive ancora Bettini nel suo manifesto – gli è stato negato un ruolo di federatore delle forze democratiche di sinistra. È stata fatta cadere ogni possibilità di una sua candidatura unitaria nel collegio di Siena. Lo si è spinto, dunque, a impegnarsi per risolvere la crisi del Movimento 5 Stelle e dargli una nuova  fisionomia”. E ciò, continua ancora il king maker del Pd e non solo, “ impone anche un nostro salto di qualità. Impone a noi l’obbiettivo di recuperare i consensi soprattutto dall’astensionismo, tra le classi popolari che ci hanno abbandonato, addirittura verso la Lega o la destra estrema”. L’arrivo di Enrico Letta al Nazareno e la spinta sul maggioritario rendono il matrimonio con i grillini un dato di fatto. E Bettini, che con Nicola Zingaretti tanto si è speso per questa unione, ora non può che ribadirla con un’analisi netta: “Il tema dell’alleanza con il M5s è ormai una stanca e superata discussione”. Bettini nel centrosinistra anche questa volta ci mette le idee, anche se mancano ancora, ma c’è tempo, due cose: la prima e la terza gamba di questo fronte democratico. La scorsa estate, in un’intervista, offri a Matteo Renzi questo ruolo: presidiare il centro liberal. Nel suo manifesto non fa accenni a questa nuova area, anche se in tante discussioni pubbliche e private non fa che elogiare Carlo Calenda. Nel compasso di Bettini, infine, manca anche un altro cerchio: ma chi sarà il leader di questa nuova coalizione? Toccherà a Letta o a Conte? O si siederà a capotavola chi avrà raggranellato un voto in più? A casa Bettini, il piccolo appartamento in zona Prati dove il “monaco dem” passa le giornate a scrivere da buon amanuense, non si lanciano in risposte definitive: “C’è tempo”. Intanto, gli ex premier Enrico e Giuseppe parteciperanno anche loro alle iniziative di Agorà, ma il 29 aprile, quando si svolgerà la seconda puntata. Intanto, per essere lieti, a casa Bettini si pensa a domani. Al debutto della nuova creatura. Guai a chiamarla corrente, perché la prende malissimo. Per ora al governo c’è Draghi. “Va affrontato con molta serietà e rigore: sostegno a Draghi, sapendo, tuttavia, che si apre una quotidiana lotta di egemonia tra i democratici e le forze di destra. Draghi esaurito il suo programma, lascerà il campo nuovamente allo scontro inevitabile e democraticamente salutare tra la sinistra e la destra”.  Ma Letta condivide questa lettura di Bettini su Conte vittima di un complotto internazionale dei poteri forti?

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 16 aprile 2021. Conte cadde per una convergenza di interessi nazionali e internazionali? “E’ un dibattito lunare”. Sergio Mattarella si ferma qui. E non intende commentare oltre la ridda di dichiarazioni e ricostruzioni scaturita dalla notizia scovata dal Foglio tre giorni fa. Per Goffredo Bettini, ideologo del Pd ai tempi dell’esecutivo rossogiallo, l’ex premier sarebbe saltato perché ritenuto “inaffidabile nell’assecondare” questo grumo di interessi nostrani ed esteri. E dunque ecco l’ombra della macchinazione e del complotto farsi largo. Chi ha parlato con il capo dello stato, alla luce del dibattito che si è innescato, ci riporta invece questo aggettivo: “Lunare”. E’ una discussione che non sta né in cielo né in terra. Il Colle, com’è ovvio, non è intenzionato a replicare a chi ha scritto nero su bianco nel manifesto della sua corrente questa teoria. Ma allo stesso tempo, nei corridoi del Quirinale c’è chi non può fare a meno di ricordare a se stesso come andò la vicenda. E quindi come si arrivò, il 2 febbraio, all’incarico conferito dal capo dello stato a Mario Draghi. “Fu una decisione scaturita solo quando Roberto Fico salì al Colle per annunciare che il suo tentativo esplorativo di arrivare a un Conte II bis o un Conte ter non era andato a buon fine”, dice chi frequenta le stanze della presidenza della Repubblica. E i famigerati interessi nazionali e internazionali che avrebbero disarcionato l’Avvocato del popolo in quanto considerato di pasta dura? “Non ne abbiamo mai avuto contezza”, taglia corto  chi parla con Mattarella. Se non fosse una cosa seria – perché  il teorema è  convinzione di una parte del Pd che ora appoggia il governo Draghi – la vicenda strapperebbe un sorriso dalle parti del Quirinale. Dove in molti hanno ancora in mente  le critiche di una parte dell’opinione pubblica per l’eccessiva costanza con cui Mattarella provò a tenere in vita l’esecutivo Conte. Anzi, proprio ieri dal Colle c’è chi ricordava “la sorpresa” di Draghi quando il capo dello stato lo chiamò. Appena Fico gettò la spugna.

Marco Antonellis per tpi.it il 16 aprile 2021. Fu vero complotto? La politica italiana tutta si sta interrogando per capire, o per meglio dire, per stabilire le cause che hanno portato alla caduta del governo guidato da Giuseppe Conte. Il primo a parlarne è stato il deus ex machina del Partito Democratico targato Zingaretti, Goffredo Bettini (mentre ora con Enrico Letta il ‘consigliere del Principe’ è Filippo Andreatta, amico fraterno del neo-segretario). Le sue parole hanno fatto molto rumore perché l’uomo è solitamente prudente e sa pesare bene quello che dice. A suo giudizio l’ex Presidente del Consiglio “non è caduto per i suoi errori o ritardi”, ma la spiegazione andrebbe trovata in una “convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile”. “Renzi ha fatto cadere il governo Conte, ma credo che al di là di Renzi ci sia stato qualcosa di più grande che si è mosso”, ha aggiunto Bettini. Dopodiché, in una situazione di vuoto e incertezza scaturita dalla crisi, il capo dello Stato Sergio Mattarella ha deciso di affidare il Paese a Mario Draghi. Ma torniamo alla domanda di partenza: fu vero complotto? Per rispondere a questa domanda non c’è niente di meglio che interpellare il Quirinale che a TPI non fa fatica a smentire l’ardita tesi: “Nessun piano prestabilito o preordinato. Draghi è stato messo in pista soltanto dopo il fallimento del tentativo per il Conte Ter“. Insomma, si è tentato fino all’ultimo, con tanto di consultazioni affidate al Presidente della Camera Roberto Fico, di far rimanere a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte. Ma poi evidentemente, anche a causa del fallimento dei “responsabili“, non c’è stato più nulla da fare.

Una risposta a Bettini e ai progetti dem. Il Pd dimentica i ragazzi di Berlinguer, l’alleanza con i grillini non è il futuro. Fabrizio Cicchitto, Biagio Marzo su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Goffredo Bettini è passato dall’intervista al Riformista a quella al Corriere della Sera, entrambe interessanti, ma a nostro avviso la prima è più esplicita della seconda. Sia noi che Bettini ci riferiamo allo stesso campo, quello del riformismo, ma al di là della comune espressione semantica le differenze sono profonde sia per la sua definizione, sia per quello che riguarda il suo sistema di alleanze, sia per quello che riguarda non solo la riflessione sul passato, ma anche quella sul presente e sul futuro. Ovviamente al centro dell’attenzione di Bettini c’è il Pd. Perché il Pd ha avuto e ha una vita così difficile e travagliata? Forse solo perché si tratta di “un amalgama male assortito” (cit. Massimo D’Alema). Già questa, se approfondita, è una risposta di notevole spessore. Siccome non crediamo alla leggenda secondo la quale le ideologie sono finite e le distinzioni destra-sinistra non hanno più ragion d’essere, allora non si può fare a meno di rilevare che storicamente i post-comunisti e la sinistra democristiana sono stati sempre portatori di valori, di ideologie, di culture, di strutture organizzative tutte di un certo spessore e anche di notevole diversità: questi retroterra consentivano e consentono un’alleanza politica, non certo un partito unico. Né è emerso, in quell’ambito, un leader la cui statura e la stessa elaborazione culturale sia in grado di andare oltre quei due perimetri originari. Per capirci, non è sorta fra quei due mondi una personalità della statura politica e culturale di Giuseppe Dossetti, l’unico in grado per carisma intrinseco, ma anche per l’elaborazione culturale di fondo (se ci andiamo a riflettere certe sue riflessioni sulla potenzialità rivoluzionaria di un nuovo Stato – vedi quello che scrisse in “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno” – e alcune pagine della rivista Cronache sociali) per esprimere una leadership complessiva che coinvolge i due mondi. Con tutto il rispetto tali non sono stati né Romano Prodi, né Walter Veltroni. Bettini rileva in questa come in altre occasioni l’assenza di un’autonoma forza propulsiva da parte del Pd in parte surrogata a ogni livello dalle organizzazioni di corrente che si risolvono però in faticose sommatorie fra materiali asimmetrici e disomogenei, la cui somma algebrica è sempre problematica e non necessariamente di segno positivo. A nostro avviso, tutto ciò deriva dal fatto che, venuto meno il comunismo nei suoi molteplici aspetti fra il 1989 e il 1991, che comunque almeno fino alla metà degli anni 70 aveva avuto la forza del mito, del radicamento sociale, dell’organizzazione sul territorio, esso non è stato sostituito da una idea-forza altrettanto capace di suggestione progettuale e di mobilitazione sociale. A suo tempo proprio su questo terreno i miglioristi avevano avanzato una proposta positiva, cioè quella di rilanciare la scelta socialdemocratica e riformista, con i valori, le proposte programmatiche e il rinnovamento discendenti dalla vicenda storica avvenuta nel corso di tutti questi anni. Quella scelta, a suo tempo esorcizzata da Berlinguer, è stata anche dopo il 1989 rifiutata in modo assai netto da quelli che Pietro Folena ha chiamato “i ragazzi di Berlinguer”. A quel punto il cambio del nome avvenuto nel 1989 non ha potuto fondarsi neanche sul messianismo neoingraoiano, sognato dal movimentista Achille Occhetto, perché rifiutato un po’ da tutti – dalla destra comunista, dal centro e dalla stessa sinistra compreso lo stesso Ingrao che alla fine è uscito dal “gorgo” per “rifondare il comunismo” anche con Cossutta. Di conseguenza il cambio del nome si è risolto in un’abile operazione di realpolitik (cit. Massimo D’Alema). Ora, la realpolitik, anche quella gestita da abilissimi “uomini macchina” consente di seguire con il battello la corrente, non di guidare la nave avendo contro l’onda, alla scoperta di terre sconosciute, ma sterminate. Allora, sempre in nome della realpolitik e per seguire l’onda messa in moto nel ’92-’94 da un pezzo di magistratura, da un nucleo di poteri forti con giornali e TV al seguito che volevano tutti liberarsi della preponderanza dei partiti, “i ragazzi di Berlinguer” scartando l’ipotesi socialdemocratico-riformista hanno dato vita a un partito giustizialista e neoliberista. Così, non avendo voluto celebrare una Bad Godesberg politico-culturale per uno sbocco social-democratico che avrebbe anche dovuto reinventare quella vecchia casa attraverso forti iniezioni di liberal-socialismo ecco che “i ragazzi di Berlinguer” la loro Bad Godesberg l’hanno realizzata mettendo insieme quel giustizialismo che assicurava il rapporto preferenziale (con relativa protezione) con Magistratura Democratica e il neoliberismo di Repubblica e di alcuni gruppi finanziari ed editoriali. Abbastanza per comporre un partito repubblicano di massa, troppo poco per ricomporre un nuovo partito così corposo e dotato di tale spessore da essere comunque davvero erede di quello che è stato il più forte partito comunista d’Occidente. Per di più avendo dovuto partecipare alla distruzione non solo di Craxi, ma anche del Psi in quanto tale, il nuovo partito si è trovato anche senza un alleato degno di questo nome. Su questa costruzione così gelatinosa e sull’atipico bipolarismo che ha caratterizzato la cosiddetta Seconda repubblica è poi piombata la doppia crisi finanziaria del 2007 e del 2010 provocata dalla deflagrazione delle connessioni fra globalizzazione, finanziarizzazione, deregolamentazione con la conseguenza di quella distruzione di pezzi di industria manifatturiera, di ceto medio, di classe operaia americana, inglese e di parti dell’Europa che per reazione ha provocato sovranismo, populismo, nuova destra. Tutto ciò in Italia dal 2013 al 2018 si è tradotto nell’esplosione prima del Movimento 5 stelle e poi della Lega di Salvini. Ora, di fronte a una situazione così difficile e imprevedibile è del tutto ragionevole che una forza strutturalmente esile e contradditoria, ma anche tatticamente abile quale è il Pd (è l’estrema eredità di ciò che rimane del “puer robustus et malitiosus” allevato con amorevole cura da Palmiro Togliatti e consegnato ai posteri) abbia anche spregiudicatamente utilizzato l’occasione offerta dall’errore di calcolo fatto da Salvini l’8 agosto 2019 per provocare un rovesciamento delle alleanze e passare dal governo giallo-verde a quello giallo-rosso. Anche in quell’occasione, però, Renzi ebbe i riflessi più pronti di tutto il gruppo dirigente del Pd. Di qui un’alleanza per reciproco stato di necessità fra il Pd e il Movimento 5 stelle, ma essa può diventare strategica come sostiene Bettini che sta diventando una sorta di versione moderna di quell’indimenticabile Franco Rodano che è stato il teorico del compromesso storico, cioè dell’incontro strategico fra la Dc e il Pci? E, a parte il Pd, visto che si parla di intesa strategica il Movimento 5 stelle è in grado oggi in una situazione drammatica in cui si mescolano insieme pandemia e recessione di approdare ad una nuova e organica strategia delle riforme (l’unica strada in grado di dare una risposta positiva ed evolutiva a questo dramma), a buttare alle ortiche l’antiparlamentarismo, l’antipolitica, l’antiproduttivismo sia rispetto alla grande industria, sia rispetto alle grandi infrastrutture, lo sfrenato giustizialismo? Questo “superamento” sarebbe vitale e indispensabile per realizzare, a pandemia spenta, quella gigantesca ricostruzione tramite Recovery Plan che è o di stampo incisivamente riformista (e questa volta il riformismo qualitativo sarebbe sostenuto anche da una dose rilevante di risorse) o il tutto si vanifica provocando un autentico collasso. E un’operazione di questa fatta dovrebbe essere realizzata dall’attuale Pd e dall’attuale M5s sommati insieme con alla guida Enrico Letta e Giuseppe Conte? Ci permettiamo di nutrire rispetto a tutto ciò profondi dubbi. Ci fermiamo qui, ma le nostre preoccupazioni aumentano quando leggiamo quello che Bettini afferma sulla fase andata dal giugno del 2020 fino al gennaio del 2021. Abbiamo l’impressione che noi e Bettini abbiamo vissuto in due paesi diversi. Per Bettini, che, chiediamo scusa, ci appare una sorta di moderno e sofisticato Pangloss, siamo vissuti con il migliore dei governi possibili. Secondo noi, invece, il governo Conte II dall’estate del 2020 in poi si è incagliato in una impasse e in un immobilismo imbarazzante, vitalizzato solo dalla droga mediatica distribuita a piene mani da Rocco Casalino, mentre Conte era perdutamente travolto dall’insana passione di conquistare i pieni poteri su una serie di snodi decisivi. Ora, di fronte a un’assoluta mancanza di iniziativa politica del Pd guidato da Zingaretti (che onore al merito è uno straordinario presidente della Regione Lazio), a nostro avviso è stata obiettivamente salvifica per tutti l’iniziativa politica di Renzi che ha fatto anche formalmente cadere un governo nella sostanza già morto e che ha dato vita ad un altro governo che costituisce una chance autentica per l’Italia sia per le qualità della persona che lo presiede, sia perché può darsi che spinga o costringa tutte le forze politiche che lo compongono a dare il meglio di sé stesse nella più difficile situazione affrontata dall’Italia dal 1945 ad oggi. Ciò detto, non c’è dubbio che di fronte ai limiti intrinseci all’asse strategico PD-M5s sostenuto da Bettini per evitare un pericoloso fallimento politico sarebbe indispensabile (a nostro avviso periodo ipotetico di secondo tipo) costruire ed aggregare un’altra versione del riformismo, quella storicamente espressa dai socialisti, dai miglioristi e dai laico-liberali. Goffredo Bettini annuncia un documento prodotto da un’area politica e culturale da lui coltivata, recentemente Marco Bentivogli ha dato vita ad una sorta di maratona dei riformisti, per parte nostra, con altri amici, stiamo lavorando a un documento fondato sulla ricostruzione della storia travagliata del riformismo e sugli artigli programmatici di cui esso dovrebbe essere fornito. Per parafrasare una frase famosa che era “socialisme ou barbarie” tenendo conto della tragedia costituita in Italia da circa 120.000 morti e dalla chiusura di tante aziende e negozi con tanti disoccupati, potremmo oggi parlare certamente con minore enfasi dell’alternativa “riformismo o barbarie”. Fabrizio Cicchitto, Biagio Marzo

DAGONEWS il 15 aprile 2021. Quanto può essere indispettito Mario Draghi per la teoria di Goffredo Bettini secondo cui Conte è stato fatto fuori da un complotto dei "poteri forti"? Molto, moltissimo. Anzi, di più. Gli fumano i cabasisi. Lo stesso Enrico Letta, che di un certo euro-potere è parte, si è indispettito. Il segretario del Pd ha incontrato Bettini prima che quest'ultimo licenziasse il documento di lancio della sua corrente "Agorà" e ha esplicitato le sue perplessità: "Goffredo, è una cazzata". Il fu guru di Zingaretti non ha incassato il colpo ma ha rintuzzato, con le sue argomentazioni: Draghi è amico della nuova amministrazione americana e vicino alla Merkel, Conte invece era mal sopportato, aveva contro i poteri forti e altre lucidissime spiegazioni. Il distillato delle sue affermazioni (anche vere) porta a una inevitabile conclusione: non si trattò di complotto ma di politica. Quella con cui si aggiustano e si scombinano carriere, governi, alleanze. Ovunque, da sempre. E poi Bettini omette sempre di citare le sconclusionate azioni politiche lasciate in dono all'Italia, dai banchi a rotelle alle mascherine farlocche, da Peppiniello Conte e i suoi "fardelli" (Arcuri, Azzolina e pippe assortite).

Da "il Giornale" il 15 aprile 2021. Il leader di Italia viva Matteo Renzi bastona ancora l' ex premier Giuseppe Conte e coloro i quali hanno cercato di salvarlo: «In casa Pd, autorevoli ex guru iniziano a sostenere che il governo Conte sia caduto per un (immancabile) complotto internazionale - scrive l' ex presidente del Consiglio - . Quindi non era colpa di un uomo solo, folle, di nome Matteo Renzi, come ci hanno raccontato per giorni a reti unificate. Dicono, dunque, ci sia stato un complotto internazionale. E sembrano persino crederci. Ho scoperto in questi anni che molti chiamano complotto internazionale semplicemente la propria incapacità di fare politica».

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. «Questa storia del complotto non esiste» ma «al di là di Renzi c' è qualcosa di più grande che si è mosso». Venti e ventitré, l' ora del pronto in tavola per la cena degli italiani, l' ora in cui Goffredo Bettini mette un punto alla polemica sulla convergenza di interessi «nazionali e internazionali» che, a leggere la piattaforma politica della sua nuova area battezzata ieri, sarebbe stata l' elemento decisivo per disarcionare il governo Conte II e lasciare campo libero all' arrivo di Mario Draghi. Il punto, però, si rivelerà un punto e virgola o al massimo due punti, come nella lettera di Totò e Peppino alla Malafemmena. Perché Bettini, tolta dai radar la parola «complotto», non presente a onor del vero nel documento programmatico della sua Agorà, rilancia: «C' è stato un bombardamento contro il governo Conte che andava ben al di là dei suoi demeriti, che comunque c' erano». E ancora: «Si muovevano degli interessi», a cui probabilmente la direzione di marcia impressa dall' Avvocato al suo esecutivo non piaceva affatto. «Troppa spesa sociale e pochi investimenti sul digitale? Troppo Mezzogiorno e poco Nord? Oppure Conte aveva un taglio di capelli che forse dava fastidio ai barbieri?», conclude l' ideologo di questa nuova zona franca tra Pd e M5S che lavora per saldare i bulloni dell' alleanza del futuro. E quindi il momento è arrivato, a due mesi di distanza dal cambio della guardia a Palazzo Chigi. Come in ogni caduta parlamentare che si rispetti, come ogni «ribaltone» che cambia il senso di marcia di un governo e in molti casi anche il conducente, anche il Conte II ha avuto la sua coda differita di veleni. Veleni nazionali - con il solito codazzo di «mani», «manine», «manone» e immancabili «poteri forti» - avevano scandito il ritmo del dibattito sulle cadute del Berlusconi I nel dicembre del 1994 e del Prodi II nel gennaio del 2008, col Cavaliere ora nella parte della vittima ora in quella del carnefice; e poi veleni internazionali, che iniziarono a invadere l' aria nostrana quando la coda lunga delle risatine congiunte di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy dell' ottobre 2011 fu il battito d' ali di un' aquila - la farfalla della teoria del caos era troppo piccola per reggere il paragone - che qualche giorno dopo provocò l' uragano in Italia. E fu governo Monti. Nessuno, e men che meno Bettini, si spinge fino a mettere nero su bianco uno sceneggiatura degna di un romanzo di John le Carré. Ma il tema divide, e tanto, le anime del Pd. Negata dal sancta santorum del Nazareno guidato da Enrico Letta così come dalla viva voce di Matteo Renzi - se complotto c' è stato, l' artefice sarebbe riuscito nel miracolo di mettere dalla stessa parte i due arci-nemici - la questione rimane. «Non credo ci sia stato un complotto, ma c' è stata sicuramente una ostilità diffusa delle élite di questo Paese, che vedono il populismo come un fatto accidentale e non come il frutto della de-responsabilizzazione progressiva delle classe dirigenti», mette a verbale il ministro del Lavoro Andrea Orlando. «Polemizzare sul complotto è miope. Ma non si può non registrare che c' è stata una evidente convergenza di interessi nel far cadere Conte», scandisce Enrico Gasbarra. Nelle retrovie del contismo ortodosso si osserva la vecchia regola di Berlusconi e anche di Prodi, cioè dei presidenti del Consiglio a cui una fiducia è stata tolta come la spina da una presa. Si tace, si lascia sedimentare e, semmai, si prende la parola a distanza di tempo, per riaprire la questione o chiuderla del tutto. Nelle vicinanze dell' Avvocato, che continua a lavorare sul progetto del M5S rifondato a sua guida, c' è chi ha conservato una specie diario di quei mesi di agonia istituzionale che poi sfociarono nella crisi politica. La ricostruzione parte da un faccia a faccia con Matteo Renzi, l' unico appuntamento a novembre in cui i due sembrarono poter diventare amici. Il premier evocò al leader di Italia Viva l' ipotesi di andare alla Nato e l' altro gli rispose: «Guarda, Giuseppe, non decidiamo né io né te chi andrà alla Nato. Tra qualche giorno, quella decisione la prenderà un signore che si chiama Joe Biden». Erano i giorni in cui la statua del «Giuseppi» iniziava a scricchiolare. Così come la leadership del suo indimenticato ideatore, Donald Trump.

Sempre aggrappati ai Cinque Stelle. Onore delle armi a Bettini, ma non ha fatto mea culpa su Conte. Michele Prospero su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Quando, dinanzi alla sconfitta, un politico ferito riprende la sua battaglia, per di più riproponendo la stessa agenda che pareva averlo destinato all’oblio, merita sicuramente l’onore delle armi. E Bettini che ritorna in trincea ancora incerottato rivela una tempra che nessuno degli ex Pci mostra di possedere. I leader più anziani, ormai fuori dal Pd, non dispongono di consistenti forze proprie e sono caduti «in tanta disgrazia popolare che, nonostante infinite buone opere passate, vissero più per umanità di coloro che ne avevano autorità che per alcuna altra cagione che nel popolo lo difendesse». Questa, descritta da Machiavelli, è in fondo la condizione di D’Alema, Veltroni o Bersani che non hanno più un popolo da dirigere e vivono ormai di ricordi di cose lontane. Scegliendo di nuovo “l’attione” dopo la fresca ritirata Bettini non ha fatto come il più giovane Orlando che, sull’esempio contagioso di Franceschini, quasi mai dà un affondo, media con il vincitore del momento per venire a patti attorno ai dettagli gestionali e preferisce per vocazione «procedere lentamente». Le sue «opinioni gagliarde» Bettini le rimette invece presto in campo e questo cocciuto accanimento va riconosciuto come una dote politica. Possono però le sue credenze rispolverate portare in luoghi diversi da quelli che già gli hanno lasciato assaporare il gusto della retromarcia forzata? Con una ripassata di melodie veltroniane («giustizia e libertà», citazione di Rosselli) e l’aggiunta di motivi più consoni al corrente tempo populista (scontro non sociale di classe ma zuffa secondo lo schema «sotto e sopra», non partito strutturato bensì «partecipazione deliberativa» oltre «il luogo del circolo»), le Agorà di Bettini intendono fornire una base ideale all’incontro con Conte (da indirizzare però verso un preliminare periodo di espiazione tra i verdi per scongiurare la sconcezza di un passaggio acrobatico da Farage alla socialdemocrazia europea) rimpianto come un antipolitico ancora forte di un sostegno della pubblica opinione. L’esaltazione nostalgica dell’avvocato del popolo come risorsa della coalizione, e l’ossessione per la alleanza strategica con i grillini come momento prioritario dell’agire, evitano una analisi rigorosa dell’effettiva natura del M5S. Si danno per acquisite mutazioni di cultura politica (dalla via della seta al west, dalle Ong taxi del mare al moderatismo liberale, dall’impeachment contro Mattarella alla responsabilità istituzionale) che richiedono una risorsa di tempo per essere considerate plausibili. Il giustizialismo (abolizione della prescrizione, accanimento contro l’eccezione Del Turco), la diffidenza verso le regole della democrazia rappresentativa (limitazione del numero dei mandati, rievocazione del vincolo imperativo quale argine del cambiamento di casacca), ostilità verso misure di carattere economico-finanziarie (nei consigli dei ministri la connessione sentimentale con la Lega si rivela più forte di quella con il Pd), l’estraneità alla cultura dei diritti (pregiudiziale rigetto di ogni ipotesi di ius soli) costituiscono degli scogli identitari che difficilmente saranno rimossi da un movimento che è pur sempre erede (ancor più illiberale, se possibile) del dipietrismo. La sola novità di rilievo che il M5S presenta oggi riguarda la possibile rimozione del legame ombelicale con la micro-impresa proprietaria (del blog, della mailing list, degli elenchi degli iscritti, del database). Se il conflitto con la Casaleggio (da cui l’avvocato del popolo si tiene assai lontano) per superare il controllo privatistico della piattaforma del voto on line (opaco divieto di conoscenza tra gli aderenti nella piazza reale) porterà alla soppressione del marchio aziendale che gestisce dati, formula quesiti, elabora algoritmi e fornisce i numeri del pronunciamento on line questa sarebbe una tappa prioritaria per la normalizzazione di un ribelle movimento proprietario antisistema. Che su questo tema cruciale (sul quale i verdi in Europa hanno assunto un opportuno atteggiamento di intransigenza) il Pd eviti ancora oggi di chiedere degli sviluppi risolutivi è un elemento di inquietudine circa la solidità della cultura politica dei democratici. Del resto il ritorno in scena delle Agorà è possibile solo perché con Letta non è affatto mutato l’impianto analitico disegnato da Zingaretti ma sono intervenuti soltanto degli accorgimenti tattici all’insegna della cautela, sobrietà, buon senso. Lo stile che rivela il volto del nuovo segretario del Pd recupera peraltro alcune suggestioni tipiche dell’antipolitica (repressione normativa dei mutamenti di casacca, soppressione dei costi della politica). Letta insiste ossessivamente circa la bellezza della «mia vita precedente», si rifugia su politiche dell’immagine e senza costi perché intende afferrare l’eterno, abusato e sbiadito storytelling. Il copione prevede ancora una volta il mito dell’estraneo che viene da Parigi, del galantuomo maltrattato a suon di campanello che proprio su invocazione dei malfattori di un tempo rientra in scena e combatte in solitudine contro i cattivi per condurre il suo esercito smarrito verso il trionfo di nuovo possibile. La stessa immagine del “cacciavite” appartiene al repertorio classico dell’antipolitica. Fu la metafora chiave del miliardario americano Ross Perot che inventò il cacciavite (“screwdriver”) come il ritrovato di un operare concreto dell’outsider capace con il semplice buon senso di riparare i guasti dell’amministrazione e quindi di renderlo quale efficace simbolo di un fare concreto contro il chiacchiericcio della casta politica. Se si vuole tracciare una politica incisiva in un tempo che vede la rabbiosa mobilitazione dei ceti medi (quante istruttive sono le pagine del Gramsci sul «popolo delle scimmie» ovvero sulla piccola borghesia impoverita che «scimmieggia la classe operaia, scende in piazza»; ma dello stesso tenore è pure il discorso di Gaetano Mosca alla Camera del marzo 1920) non è allo storytelling che occorre affidare le sorti della democrazia. Servirebbe (anche all’impresa, alle culture liberaldemocratiche così fragili) una robusta rappresentanza sociale, un partito del lavoro per ricalibrare il nesso mercato-società dopo il crollo del trentennio neoliberista. E invece prosegue la chiacchiera leggera dell’Agorà. Mentre crescono i serbatoi di rabbia e di rancore alimentati dalla destra sovranista convocare i riti della partecipazione deliberativa rischia di essere un puro ed edificante esercizio retorico.

Le parole del dirigente dem. Intervista a Goffedro Bettini: “Cari riformisti basta tattichette…” Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Nella serie di interviste de Il Riformista sul presente e il futuro del Partito democratico e della sinistra, è stato chiamato in causa più volte e da più parti, a sostegno e contro le sue affermazioni. Goffredo Bettini fa discutere come pochi altri. Ora con Il Riformista, risponde. E, ci scommettiamo, tornerà a far discutere.

Era un po’ di tempo che la sua voce mancava. Afonia politica?

Dal momento della formazione del governo Draghi, al quale sono seguite le drammatiche dimissioni di Nicola Zingaretti e l’elezione del nuovo segretario Enrico Letta, non ho quasi più parlato pubblicamente. Tanto impegnato nella fase precedente, ho trovato più misurato e utile far decantare la situazione. Su un esame più attento degli ultimi due anni e sulle prospettive future della sinistra il 14 di aprile sarà presentato il manifesto delle Agorà, l’associazione politica e culturale che ho contribuito con tanti altri e altre a organizzare e promuovere. Rimando, a quell’occasione un confronto di più ampio respiro. Eppure, per procedere nell’oggi, vale la pena rispondere alle polemiche che in questi mesi sono proseguite, circa alcune scelte di fondo alle quali ho creduto e per le quali ho combattuto.

Da più parti si sono levate critiche nei confronti del Pd. Siete sotto attacco?

Il fatto che mi colpisce è il carattere astratto e ideologico che sottende questa vera e propria offensiva, che ha un valore di posizionamento interno al Pd. Tutto il contrario della pacata ragionevolezza, dell’analisi “differenziata” che ci si aspetterebbero da un riformismo illuminato.

Una delle critiche più serrate riguardano l’alleanza con il Movimento 5 Stelle. Per molti un’alleanza politicamente contronatura. Certa narrativa giornalistica, e non solo, la indica come l’architetto di questo asse Pd-5Stelle.

Come nasce questa alleanza? Dopo la crisi del governo Conte I lo sbocco più naturale sembravano essere le elezioni politiche. Lo stesso Zingaretti era propenso a questo esito. Tuttavia in quel frangente Renzi, con abilità, mise in campo una svolta tanto repentina quanto, poi si vedrà, prevalentemente tattica. Invocò un governo anche con il movimento di Grillo, per evitare di consegnare l’Italia a Salvini e alla Meloni, per non aumentare l’iva, per eleggere un presidente della Repubblica democratico. Il giorno successivo, replicai che se si doveva baciare il “rospo”, sarebbe stato meglio tentare un’operazione politica e di governo in grado di concludere l’intera legislatura. Un tentativo, ambizioso, difficile ma, a certe condizioni, in grado di dare una prospettiva alla nazione, in quel momento disorientata e in difficoltà. Il fondamento del mio ragionamento era: impedire alla destra sovranista di stravincere, come sarebbe stato inevitabile senza una nostra iniziativa; ma anche azzardare un passo in avanti di tutta la politica italiana. Il Pd, dopo il disastroso risultato delle elezioni politiche del 2018 era, infatti, isolato, senza politica, conchiuso in una posizione boriosa e inconcludente. Circondato da una marea populista considerata erroneamente come un blocco unico, impenetrabile e inamovibile. Al contrario, un nuovo governo anche con i 5 Stelle, avrebbe potuto rompere la presunta omogeneità del populismo italiano. Dividerlo tra quello radicato nei valori tradizionali della destra vecchia e nuova, e quello più contraddittorio, anche se radicale. Di sinistra e di destra, in una amalgama confusa. Figlio per lo più dei nostri errori, delle nostre debolezze e dei nostri troppi silenzi. Un’operazione, per certi aspetti, di valore storico: perché la sola capace di ricomporre una prospettiva di alternativa al sovranismo, alla xenofobia, all’intolleranza, alle pulsioni più anti liberali. E tale operazione poteva riportare il Pd ad attraversare il popolo italiano così com’è. Con le sue rozzezze, rabbie, diffidenze. In un corpo a corpo, anche con i nostri alleati grillini, alla fine benefico per entrambi. Questa sfida convinse l’insieme del partito. Lo stesso Zingaretti l’ha successivamente affrontata in modo collegiale, convinto, efficace.

Eppure a un certo tempo qualcosa s’inceppa.

Nel corso del tempo è cresciuta in Renzi e in una parte del Pd una insofferenza rispetto alla nuova alleanza. Più dettata dall’esigenza di un posizionamento interno e da argomentazioni pregiudiziali, piuttosto che da una sincera valutazione dei fatti. Peraltro, queste posizioni critiche non sono state mai, sottolineo mai, accompagnate da una proposta diversa, praticabile e credibile. Il governo Conte II nel susseguirsi dei mesi ha mantenuto un alto gradimento degli italiani. Ha affrontato con dignità la tempesta pandemica e la drammatica crisi economica conseguente. Il Movimento 5 stelle ha cambiato moltissimo delle sue impostazioni iniziali. Sull’Europa. Sull’utilizzo della scienza nell’affrontare l’emergenza sanitaria. Sulla necessità di dare una curvatura sociale e di giustizia agli interventi di sostegno all’economia e alla popolazione. Quale subalternità avremmo praticato, se sulle questioni decisive della collocazione italiana è prevalsa la nostra visione? Per carità: errori e ritardi non sono mancati. Ma questa è la sostanza del governo Conte II? Oppure essi sono stati gli effetti collaterali di un’impresa che sapevamo fin dall’inizio difficile ma che, pur tra mille fatiche, stava in cammino nella direzione auspicata dal Partito democratico?

Insisto: dentro e fuori il Pd si è levata l’accusa di aver accettato compromessi al ribasso pur di salvare quest’alleanza.

Accettare compromessi mentre avanza la propria strategia, è il contrario della subalternità. La subalternità è l’enunciazione stanca e impotente della propria tavola di “principi” (quali “principi”?) mentre i processi reali, non diretti, vanno da un’altra parte. Anche la polemica circa il carattere “strategico”, “strutturale, “organico” del rapporto con il Movimento 5 stelle, per il quale mi sarei battuto è stata la distorsione di una posizione che mi è stata volutamente attribuita per amor di polemica. Non c’è una sola occasione nella quale abbia definito in questi due anni l’alleanza con il movimento di Grillo, nei termini appena ricordati. Ho parlato, piuttosto, della necessità di un’alleanza politica, che vedevo procedere a rilento e con troppa incertezza. Quando si decide di governare il paese insieme per un’intera legislatura, occorre schiettezza e responsabilità. Non si governa dicendo che il tuo alleato fa schifo. Da nemici. Questo ho detto. Perché un governo ha bisogno di una unità di visione, di sfumare le “visibilità” inutili, propagandistiche e messe in campo per ragioni di partito. Ha bisogno di generosità.

Queste ragioni archiviano il sistema elettorale maggioritario?

Nei mesi passati ho affermato apertamente di preferire un sistema elettorale proporzionale. Esso poteva e doveva garantire a tutti i contraenti di una possibile maggioranza di governo, l’esercizio pieno di una propria sovranità, di un proprio rapporto con l’elettorato, di un proprio profilo culturale e politico. Forze parallele, distinte, che dopo l’esito elettorale, possono stabilire un’intesa di governo, un compromesso alto, scegliendo la leadership sulla base dei rispettivi rapporti di forza. Oggi Enrico Letta, interpretando un vasto sentimento degli elettori democratici, ha rilanciato uno schema elettorale maggioritario. Ammiro il geometrico ragionamento che il segretario del Pd ha svolto per definire i contorni del rapporto, che ha ribadito fondamentale, con il Movimento 5 stelle e con l’insieme delle forze del centro sinistra. Sostengo, dunque, questa nuova scelta. Ma ai fautori “dell’orgoglio” del Pd, in chiave di rifiuto dell’alleanza che ha sostenuto il governo Conte II, ricordo che questo schema maggioritario va gestito con molta cura perché presenta insidie. Esso si, potrebbe determinare un’alleanza “costretta” e “strategica” con il Movimento 5 stelle, in virtù della medesima natura del meccanismo elettorale. Confido nell’intelligenza di Enrico Letta, che nei suoi primi passi mi è parso convincente, autorevole e molto corretto. Confido in lui, ed anche in Conte, che dovrà rifondare il movimento di Grillo. Confido che non emerga una sovrapposizione di elettorati, di riferimenti sociali, di parole d’ordine. Perché la somma tra noi e i nostri alleati dovrà ampliare i confini del centrosinistra e non raggrumare tutte le leadership attorno al medesimo e statico “francobollo” di consenso elettorale.

Come vede l’entrata del M5S nel gruppo dei Socialisti e democratici europei? Anche su questo le posizioni nel Pd e nell’area di sinistra sono divergenti.

Per il ragionamento che ho fin qui esposto, considero da valutare bene questa ipotesi. Piuttosto una collaborazione con il gruppo verde sembra a me più chiara, coerente ed elettoralmente produttiva.

In queste settimane c’è stato un altro motivo dominante di polemica. La sua presunta “enunciazione” nella crisi di governo: “o Conte o morte”. Come la mettiamo?

Mai usata tale formulazione. Rivendico, invece, di aver difeso fino all’ultimo la possibilità della formazione di un Conte III. Per la natura positiva che il governo Conte II ha avuto per l’Italia. Per la disponibilità dimostrata dallo stesso Conte di rilanciare e riorganizzare l’azione di governo, su spinta del Partito democratico e dell’insieme dell’alleanza. Per il fatto che Conte ha mantenuto costantemente un consenso nell’opinione pubblica. E ancora: perché tradirlo all’ultimo momento avrebbe compromesso la prospettiva politica e di alleanza costruita dal Pd. Perché, infine, se fosse caduto, come poi a causa di Renzi è stato, non ci sarebbe stata altra strada politica da perseguire, ma sarebbe stato inevitabile il voto. Tant’è che, aperta la crisi e una volta stabilito in modo ragionevole ma non obbligato che era impraticabile andare al voto, il trauma è stato superato decretando uno stato di “eccezione” e non una nuova maggioranza politica. Una limitazione della sovranità dei partiti, con il ricorso ad una personalità di grande prestigio e capacità che ha varato un nuovo governo del Presidente, con tutto quello che ne consegue. E aggiungo, che se non avessimo mantenuto lealmente fino allo stremo l’asse politico del Conte II, non sarebbe stato neppure possibile un sostegno dell’insieme della precedente maggioranza di governo, alla formazione del governo Draghi. Bene. Siamo qui a sostenere Draghi, sapendo che il suo esecutivo è transitorio, preparatorio a una futura inevitabile e salutare sfida tra destra e sinistra. Credo che di questo sia pienamente consapevole lo stesso Draghi, che non va logorato in una sorta di stanco governo di unità nazionale, piuttosto spinto e aiutato a portare a termine alcuni decisivi adempimenti economici e sanitari.

In queste settimane, una delle narrazioni politiche che va per la maggiore è l’affermazione che il riformismo di Draghi è il riformismo del Pd. Insomma, il Pd coincide con il governo Draghi.

A parte questo entusiasmo di sapore un po’ “sovietico” che fa coincidere il partito con il governo, mi pare che ci sia qualcosa di politicamente sbagliato in tale posizione. Sarebbe ora che finisse questa ricerca di una purezza del riformismo, che sembra coincidere sempre di più con il nostro allontanamento dallo scontro sociale, dai conflitti in campo, dalla fatica di “rimuovere” gli ostacoli per il raggiungimento di un’autentica giustizia e libertà. C’è riformismo e riformismo. Il nostro riformismo progressista radicato nella storia consiste nell’accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra. Tra tante parole alla moda, questo concetto così chiaro in Carlo Rosselli, secondo il quale non esiste vera libertà senza giustizia, pare disperso. Eppure è la questione palpitante della modernità: dove le ingiustizie stanno diventando abissali e l’incoscienza “vegetativa” e priva di calcolo delle sole logiche produttive può portare alla distruzione del pianeta, sul piano della praticabilità ambientale e della sopravvivenza della specie.

Oltre al tema dell’identità, Enrico Letta sin dalla sua investitura a segretario, ha posto tra le priorità della sua segreteria, il tema del partito. Un tema che è tornato con forza nel dibattito su questo giornale.

Ha ragione Letta. Basta: governo, governo e solo governo. Senza il governo ci sentiamo nudi e impotenti. Al contrario la nostra lotta va condotta dall’alto e dal basso. Servono buoni generali ma anche fanterie coraggiose, intelligenti, in condizione di decidere. Si dice che è insostenibile nel Pd l’invadenza delle correnti. Lo sostengo un po’ solitariamente da tanti anni. Ma esse sono il frutto di una soggettività perversa, o alla fine sono state la soluzione inevitabile per tenere in piedi in qualche modo un organismo che complessivamente veniva meno? La questione è aperta. Bisogna andare alla radice. Ricostruire un tessuto nel quale le correnti possano trasformarsi in aree politiche e di pensiero, slegate dagli organigrammi e da decisioni dirette sul potere. Questo, tuttavia, è possibile se lo scettro della sovranità della decisione politica si riporta anche ai nostri iscritti. Non rimane chiuso nelle mani di caminetti, formali o informali, che alla fine decidono tutto, spesso in compromessi confusi. Deve diventare normale e costante dentro il partito una pratica democratica di consultazione, di partecipazione e di decisione degli iscritti nell’esercizio della loro responsabilità personale. Occorre mischiare, scomporre e ricomporre in continuazione le aree politiche, nelle “agorà”. Da attivare con campagne nazionali su temi e dilemmi significativi, sollecitando una partecipazione deliberativa alla base del partito e, in alcuni casi, tra i cittadini nostri elettori. Questo deve avvenire non solo nel “luogo” del circolo; ma in un ospedale, una scuola, una università, una fabbrica, una piazza comunale, un grande centro commerciale. Il nostro popolo non lo riconquisteremo mai con la pedagogia, l’intervento esterno, i programmi giusti, le parole d’ordine accattivanti ma alla fine inerti. Lo potremo riconquistare attraversando il disagio e il disorientamento delle persone, anche quelle che aderiscono al Partito democratico. Facendole contare, dando loro responsabilità e potere. Forse, a questa condizione potrà invertirsi il progressivo arretramento antropologico, che ci sta investendo. E si potranno ristabilire i canali di rappresentanza e di dialogo tra l’alto e il basso, attualmente così spezzati.

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" l'1 aprile 2021. «Pronto, il senatore Bettini? Sono Giuseppe, Giuseppe Conte». «Caro presidente, lei per caso usa Messenger di Facebook oppure è pratico con le chiamate vocali su WhatsApp? Bene, allora le do un consiglio. Sentiamoci in uno di questi due modi, altrimenti questa telefonata ci viene a costare seimila euro». Se mai ci sarà il nuovo Ulivo, il nuovo centrosinistra, il nuovo cantiere dell'alleanza tra Pd e Cinque Stelle, ecco, la prima pietra andrà cercata là. Nel giorno in cui nasce la grande amicizia tra Goffredo Bettini e Giuseppe Conte, che oggi rappresenta il fondamento di tutto quello che si muove sull'arteria ideale che collega Movimento Cinque Stelle e Pd. «Quel gran genio del mio amico», direbbero con la strofa di Lucio Battisti l'uno dell'altro. Perché la stima che l'ex presidente del Consiglio nutre nei confronti dell'inventore del «modello Roma», oltre che di una sfilza di operazioni politiche in gran parte riuscite (il primo Rutelli e l'esordio di Veltroni al Campidoglio sono i fiori all'occhiello) l'ha reso di fatto il principale dei suoi interlocutori politici. Stima ovviamente ricambiata, se è vero che i due passano ore e ore a discutere di politica, di cinema, di vita reale, di musica. Il primo «consiglio» che Bettini ha dato a Conte - una specie di «numero uno» di Zio Paperone, la prima moneta del grande patrimonio del personaggio della Disney - si materializza nella loro discussione quando si conoscono telefonicamente da nemmeno cinque secondi. È il 13 agosto del 2019, il giorno in cui - in un'intervista sul Corriere della Sera - l'ex parlamentare europeo, che si era trasferito in Thailandia, lancia l'idea di «un patto di legislatura» tra Pd e M5S, aderendo alla proposta lanciata poco prima da Matteo Renzi per scongiurare il ritorno alle urne e la probabile vittoria di Matteo Salvini; e, soprattutto, evoca per la prima volta l'ipotesi che Conte rimanga a Palazzo Chigi, cosa che poi succederà. Il «consiglio» arriva quando l'Avvocato ha avuto giusto il tempo di presentarsi. «Sentiamoci via Messenger o WhatsApp». Sarà il primo di una serie infinita. Da lì le telefonate tra i due sono diventate settimanali, poi quotidiane. Ore e ore al telefono, e spesso anche dal vivo, in cui Bettini ha maturato la consapevolezza che la leadership di Conte non sarebbe stata passeggera. Quando gli dicevano che l'arrivo del governo Draghi avrebbe spazzato via la popolarità dell'ex premier nei sondaggi, Bettini rispondeva: «Non sarà così. Conte non ha fretta, è paziente. E poi ha una capacità di ascolto che altri non hanno: guarda le persone, le ascolta. Non tutti hanno questa predisposizione, in politica. Mi ricordo di Ingrao, che mi portava in via della Conciliazione e diceva "Goffredo, le vedi le persone?". Ma quanti altri lo facevano e lo fanno?». Oggi, a due mesi di distanza da quelle previsioni, di fronte ai Conte-scettici di fine gennaio, l'ex parlamentare europeo sventola le rilevazioni sul consenso dell'Avvocato. «Hai visto?». Il tema di come far imboccare al nuovo M5S di Conte e al nuovo Pd di Enrico Letta la stessa autostrada, senza deviazioni o incidenti di percorso, sarà il cruccio dei prossimi mesi. Bettini è convinto che i due ex inquilini di Palazzo Chigi abbiano dei «tratti comuni». Entrambi, ha detto a Conte, «sapete ascoltare, entrambi sapete aspettare». Sono complementari, insomma. Il suo modo di dare una mano, ha raccontato il «consigliere» agli amici, arriverà il 14 aprile prossimo con «manifesto», un contributo alla discussione che «non sarà in alcun modo una corrente». A riprova ha mostrato l'elenco degli intellettuali con cui sta lavorando. Tra questi, Mario Tronti, Nadia Urbinati e l'ex ministro dell'Università Gaetano Manfredi.

Nicola Mirenzi per “Il Venerdì di Repubblica” l'11 marzo 2021. Ho cominciato a lavorare a questo ritratto di Goffredo Bettini circa tre mesi fa, quando Bettini era uno degli uomini più influenti d’Italia. Consigliere principe del presidente del Consiglio Conte, riferimento indiscusso del Partito democratico, oracolo di giornali e televisioni. L’ho incontrato a casa sua, il giorno dopo che il governo giallorosso aveva ottenuto l’ultima fiducia, alla fine della caccia ai “responsabili”. Ha risposto a una telefonata del ministro Franceschini rassicurandolo: «È un buon punto di partenza, Dario, intorno a questi numeri ora dobbiamo costruire». Poi, la mossa di Matteo Renzi di ritirare le ministre ha cominciato a dispiegare i suoi effetti e il disegno su cui Bettini aveva investito ogni energia – un altro governo Conte – è andato in frantumi. Bettini ha perso. Niente di quel che aveva cercato gli è riuscito: né convincere Italia viva a non strappare, né sostituirla in Parlamento, né far temere che oltre Conte ci fosse solo il voto. Ha perso, una dopo l’altra, tutte le ultime battaglie, insieme all’aura di chi può ciò che vuole. La sconfitta lo ha reso oggetto di critiche e obiezioni, ma anche di cattiverie, insulti, ironie, sarcasmi, nella stessa misura in cui poco prima era stato invece oggetto di elogi, stima, considerazione, rispetto, finanche paura. Bettini ha perso, ma non si è dato per vinto. Ha scritto sul Foglio «ben venga un congresso» del Pd e Nicola Zingaretti ha subito aperto all’ipotesi. Ha detto che l’alleanza che ha sorretto il secondo governo Conte «non muore affatto» e al momento il grosso del Partito democratico e del Movimento 5 stelle gli stanno dando ragione. Ha dichiarato che il Pd a Roma non sosterrà «in alcun modo» Virginia Raggi e le sue parole sono suonate come la sentenza definitiva per la sindaca. Spesso Bettini dà la linea, senza avere alcun ruolo ufficiale. Non è ministro come Franceschini, né vicesegretario come Orlando, né capo di una corrente come Orfini. Ecco cosa rende il potere che esercita così ambiguo. Nel centrosinistra, è l’uomo senza cariche, e fuori dalle istituzioni, più rilevante nel Palazzo. Non prende nessuna decisione, ma esercita una grande influenza. È associato a figure leggendarie. Si cita Richelieu, si cita Mazzarino. Solo che entrambi erano cardinali. Mentre lui, nel ramo ecclesiastico, sarebbe un monaco. Vive in un monolocale di trentacinque metri quadri, al piano terra di un palazzo nella parte alta del quartiere Prati, a Roma. Dorme, legge, scrive, riceve, s’apparta, osserva, s’infuria, sempre nella stessa stanza, di cui rivendica, compiaciuto, l’essenzialità, come un manifesto d’anti-privilegio. Sostiene che nella vita non c’è persona a cui abbia dedicato più tempo di Nicola Zingaretti. Considera il segretario del Pd un figlio. Zingaretti lo ritiene un padre. Dicono che sia il suo «burattinaio», che si muova «nell’ombra». Lo definiscono «eminenza grigia». Eppure Bettini non fa altro che intervenire, dar battaglia, dire la sua. Ancor di più oggi, rilascia interviste, scrive lettere ai quotidiani, va in radio, in televisione. Spesso Zingaretti lo ascolta. Altre volte prende un’altra strada. Chi lo conosce è sorpreso dal suo protagonismo. Non si è mai nascosto, ma mai si era fatto così vedere. Si espone troppo per essere soltanto un consigliere politico, ma non si mette mai dentro fino in fondo per essere un leader. Cos’è, allora, Bettini? Non si può rispondere a questa domanda senza tenere a mente un rifiuto. Gli offrirono il posto di sindaco di Roma quando ancora il sindaco lo eleggeva il consiglio comunale, nel 1993. Andò a dirglielo Franco Carraro. «Sai, Goffredo, noi». Doveva dire solo sì. Invece disse: «Non me la sento». Anche se nella vita precedente aveva studiato per essere un giorno capo. Era stato uno dei più alti dirigenti nazionali dei Giovani comunisti, poi segretario della federazione romana del Pci, appena trentenne nella direzione nazionale del Partito, era uno dei dirigenti più promettenti d’Italia, insieme a Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Fabio Mussi. Il giorno in cui disse no Bettini firmò le dimissioni da un destino: quello, possibile, di leader; e decise che i leader li avrebbe creati. Chiese a Francesco Rutelli, ex radicale, neo militante del partito dei verdi, figura centrale di un’area marginale, di candidarsi. «Per fare il sindaco di Roma», rispose Rutelli, «sono disposto ad andare anche a Milano a piedi». Iniziò così il modello Roma,  finora l’invenzione più di successo di Bettini. Interpretato dopo Rutelli da Veltroni, e infine fallito con Ignazio Marino. «L’idea di puntare su Conte come riferimento dell’alleanza con i 5 Stelle – mi dice Carmine Fotia, autore con Bettini di due libri – in fondo risponde alla stessa logica dell’operazione Rutelli sindaco di Roma. È un paradigma della tradizione comunista: scegliere figure esterne al partito per allargare il campo, credendo poi di poterle gestire». Non c’è parola, opera e omissione che in Bettini non appartenga alla liturgia del comunismo italiano. «Noi siamo l’elefante “buono” che si porta in “groppa” qualche suonatore di tamburello», ha detto in un’intervista riferendosi ai fuoriusciti dal Pd andati con Renzi. Omaggio a Togliatti, che commentò la rottura di un funzionario emiliano su posizioni antisovietiche dicendo che si trattava di «un pidocchio annidato nella criniera di un nobile destriero». Quando gli chiedono cos’è per lui la politica, Bettini risponde che è un «principio d’ordine», il tentativo di dare «forma» al mondo. Sostiene che allearsi con i 5 Stelle per il Pd significhi gettarsi nel «gorgo» dell’antipolitica, «attraversare il popolo» e tentare di uscirne alla guida. Sembra solo sociologia. Invece, la «forma» è prima di ogni cosa un bisogno esistenziale. Bettini viene da una famiglia aristocratica marchigiana. Il padre, Vittorio, era un avvocato repubblicano. Nel salotto di casa sua passavano Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Giovanni Spadolini e altri dirigenti del partito. La madre si chiamava Wilde e aveva sposato in prime nozze un ufficiale e patriota albanese formatosi all’accademia militare di Modena. Quando l’Italia di Mussolini occupa l’Albania, anziché arrendersi, seguendo gli ordini, disobbedisce, con un gesto che sconquassa l’opinione pubblica: si suicida. Il regime fascista è così imbarazzato che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano invia immediatamente un aereo a prelevare la moglie e il figlio di otto mesi: ossia Luhan, il fratello di Bettini, che oggi vive a Parigi e ogni mattina, intorno alla sette, telefona a Goffredo. «Ricordo che passavamo la fine dell’estate nel castello di Jesi», mi racconta. «Il maggiordomo ci chiamava a pranzo con la campanella, mentre noi eravamo in giardino». È un’immagine degli anni finali della nobiltà di famiglia, gli anni della decadenza, durante i quali Bettini assiste allo sgretolamento di un’architettura di regole, tradizioni, simboli, mitologie, che erano durate decenni e ora si stavano disfacendo sotto i suoi occhi, distrutti dal fenomenale boom italiano. Nel Partito comunista, Bettini trovò innanzitutto un riparo, un’altra struttura sopra la testa. Conobbe Gianni Borgna mentre teneva un discorso ai malati di mente di Santa Maria della Pietà, issato su un banco, il colbacco in testa. Bettini lo guardò e si disse: «E lui sarebbe quello sano?». Fu Borgna a portarlo nella Federazione dei giovani comunisti romani dove, insieme a Veltroni, Ferdinando Adornato e altre promesse della nidiata, inaugurarono una stagione d’irregolarità che trasformò la sezione giovanile romana nella più pirotecnica e numerosa d’Italia (raggiunse i diecimila iscritti). Pensa a loro Pier Paolo Pasolini quando dice che il Partito comunista è «il paese pulito nel paese sporco» e, l’ultima estate prima di essere ammazzato, incontra Bettini e glielo dice: «Ho fatto un film tremendo. Non vi piacerà. Ma c’è una scena che ho dedicato a voi». È Salò. La scena è quella in cui un giovane interrompe la catena di delazioni, alza il pugno e si fa uccidere. L’unica luce in un film senza scampo. I 5 Stelle, con i quali Bettini vuole che il Pd torni a governare, amano citare un solo comunista: l’Enrico Berlinguer della questione morale (mai quello del compromesso storico, che oggi sarebbe più appropriato). Bettini lo temeva, non ebbe mai un buon rapporto con lui. Nel partito, ebbe due altri padri: uno della destra comunista, l’altro della sinistra. Il primo, Paolo Bufalini, lo incontrava una volta a settimana a cena alla “Carbonara”. Il secondo, Pietro Ingrao, a casa. Da uno prendeva lezioni di realismo togliattiano, dall’altro l’ambizione di volere la Luna. Qui la durezza, lì la fantasia. Più la furia di Gerardo Chiaromonte, che quando seppe che un giovane dirigente si era messo l’orecchino, convocò Bettini a casa e gli urlò (Bettini era diventato nel frattempo segretario del Pci a Roma): «Quale popolo si farebbe mai guidare da uno conciato in quel modo, maledizione!». Il giorno prima che il Pci si sciogliesse, Ingrao disse a Bettini: «Se voti sì, da domani le nostre strade si dividono». Le loro strade si divisero. Bettini votò «sì con la testa, no col cuore». Ancora oggi ne parla dolorando. Quando lo incontro a casa sua mi dà una raccolta di fotografie in bianco e nero. Sono foto di lui bambino. «Guardi come ero bello» dice. «Sa che da piccolo volevano farmi fare l’attore?». Da coordinatore della segreteria del Pd di Veltroni, Bettini è arrivato a pesare centottanta chili. Oggi pesa centoquindici. Non è stato sempre sovrappeso. Scorrendo gli archivi fotografici, si nota che c’è un periodo che separa un Bettini dall’altro. Questo periodo coincide con la fine del Pci, che fu per lui l’inizio di una forte depressione. Il crollo di un’altra famiglia. Stavolta senza più un posto dove andare. «Ho fatto un tale sforzo per ricostruire un ordine nella mia vita politica», mi dice, «che sono stato sopraffatto dal disordine alimentare». In Thailandia, dove andò per la prima volta con il padre, alla fine degli anni 80, è riuscito a ritrovarsi. Ha comprato una casa nell’isola di Koh Samui. Non si è sposato. Non ha figli. Parla poco della sua vita privata. In compenso, c’è chi ne parla tantissimo, con allusioni, orientalismi, gusti. Sempre con la raccomandazione: «Sia chiaro, non mi citi». Bettini mi dice: «I pensieri pruriginosi dicono molto delle persone che li fanno, niente delle persone a cui si riferiscono. La verità è che dopo la depressione non sono più riuscito ad avere legami sentimentali. Ho sentito, però, un forte desiderio di figli. Che, in parte, ho soddisfatto adottando sei famiglie thailandesi». Quando gli chiesero di fare il sindaco di Roma pensò: «E se la depressione torna?». Si disse che non avrebbe potuto permetterselo. Oggi Bettini è orgoglioso di non aver mai esercitato il «potere diretto», di cui parla con un retrogusto di sdegno. Gli preferisce di gran lunga il «potere indiretto», quello che i comunisti chiamavano: «L’egemonia». Il non detto è che anche l’egemonia deve farsi carne. Essere interpretata in prima  persona da qualcuno che se ne assuma la responsabilità. Del potere individuale Bettini non rifiuta le prerogative: si sente inadeguato a sopportarne le conseguenze, il peso sotto il quale si può rimanere schiacciati. Bettini ama la manovra. Non è un giocatore di poker. Una notte, perse tutto quel che aveva in tasca al tavolo da gioco e pagò il debito togliendosi l’ultima cosa che gli era rimasta: un giaccone di lana grigia. Al tavolo con Renzi ha perso di nuovo. Ha creduto al bluff, invece Renzi aveva il jolly. Ha cercato di spiegargli fino all’ultimo quel che aveva in mente e Renzi ha detto che la sua strategia era così «raffinata» che l’ha capita solo lui. Bettini gli ha dato dell’«inaffidabile», Renzi ha risposto che «la corrente thailandese del Pd» non lo riguarda. Sono i veleni che si riservano due che hanno una complicità alle spalle, una complicità nata quando Renzi diventò segretario del Pd e Bettini fu uno dei pochi ex comunisti a non trattarlo da alieno. Bettini ha perso, anche se non ama ammetterlo. Dice che con Draghi l’Italia è in «buone mani», però prepara la battaglia per riprendersela. Ha cominciato schierandosi subito nella lotta per il controllo del Pd, il partito che ha contribuito a far nascere, il cardine di ogni strategia, il motivo di ogni barricata. Combattere gli piace. Quando finivano gli anni Settanta a Roma, un giorno, Autonomia operaia attaccò un’assemblea dei giovani comunisti, di cui Bettini era il capo, alla facoltà di Economia. Entrarono in aula a bastonate. I Giovani comunisti avevano passato anni a prenderle. Quel giorno però reagirono, e li cacciarono. Nell’atrio gli autonomi sfasciarono tutto. Tiravano sedie, tiravano banchi. Un banco lanciato dalla balaustra colpì Bettini e gli spezzò il braccio. Lui tenne per mesi il gesso, anche quando era guarito, come un trofeo di guerra. Oggi riconosce solo di aver preso un «colpo» e dice che risponderà «come sempre» con la politica. Ha da poco deciso di lasciare la Thailandia e tornare definitivamente in Italia. «Finché non venderò lì, starò in questa casa», dice. Sente il dovere di restare «vicino a Nicola» e l’obbligo di «aiutare Conte». Convoca congressi, indica candidati, disegna traiettorie e non dimentica mai d’annoiarsi, come insegnava Togliatti. È chiaro che sono molte le cose che gli girano in testa. Tranne una, arrendersi.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 10 marzo 2021.

Goffredo Bettini, sono state dimissioni traumatiche per il Pd quelle di Nicola Zingaretti.

«Il trauma è stato forte, anche sul piano umano e personale. Ho vissuto insieme a Zingaretti le difficoltà nel difendere la linea del partito decisa quasi sempre all' unanimità».

Zingaretti ha parlato di uno stillicidio di dichiarazioni e interviste.

«Lo stillicidio, in verità, ha riguardato anche me. Tutto legittimo. Ma alcune critiche mi sono sembrate ragionevoli e di livello, altre offensive e mistificatorie. Perché tutto questo? A ben vedere mi sono semplicemente speso con generosità a sostegno delle decisioni assunte tutti assieme. Piuttosto altri, con responsabilità più grandi delle mie, hanno ripetutamente esternato dubbi, critiche, e mugugni. Questa mancanza di rispetto verso Zingaretti continua anche in queste ore: viene descritto come un segretario travicello, subalterno al mio presunto fascino diabolico (Staino); semplice esecutore di "ricette" imposte dagli altri. Poi si sono accorti tutti, dopo che ha lasciato, della sua grande popolarità».

Vi sono varie teorie sui motivi per cui Zingaretti ha lasciato.

«La realtà è molto più semplice: Zingaretti ha aperto la crisi su due questioni fondamentali. La forma del partito e la necessità di un chiarimento sulla sua natura e i suoi compiti. Ha detto con sincerità che non si sentiva più in grado di sciogliere questi nodi. Non so cosa deciderà l'assemblea di domenica. Ma al di là dei nomi, se non si apre da subito un confronto vero attorno a queste domande, non solo il Pd, ma l'intera sinistra subirà un duro colpo».

Dicono che sia lei che Zingaretti siate stati troppo contiani.

«Per rispondere alle argute argomentazioni di Claudio Petruccioli, che mi critica per aver considerato Conte una sorta di Allende, vorrei ricapitolare i fatti. Tutti sono stati favorevoli alla formazione del governo Conte II. Occorreva fermare le destre ed impedire una involuzione della crisi sociale ed economica. Il governo ha poi affrontato con dignità la pandemia e ha ricollocato l'Italia in Europa, ottenendo anche grandi risorse. Sono stato abituato a sostenere il premier che si sceglie. Questo ho fatto e lo rivendico senza alcuna esitazione. Per sostenerlo occorreva rinsaldare politicamente l'alleanza tra il Pd, Leu e i 5 Stelle. Alleanza politica. Perché se si vuole governare insieme per un lungo tratto di tempo, occorre essere solidali e condividere una visione. Ricordo, tuttavia, di non aver mai usato il termine "alleanza strutturale o organica", una caricatura delle mie posizioni per colpire la stabilità dell'esecutivo giallorosso».

E così facendo avete rinunciato alla vocazione maggioritaria del Pd...

«Ho considerato propagandistico e divisivo l'uso che molti hanno fatto della cosiddetta "vocazione maggioritaria". Dobbiamo intenderci. Per me, consiste nella capacità di rivolgere al Paese una proposta aperta e competitiva. Se invece si intende come la rinuncia a fare politica, nei processi reali, si va fuori strada. Si resta dentro "l' accademia della crusca" di un riformismo perfetto e contemplativo».

E ora il Pd sosterrà Draghi come ha sostenuto Conte?

«Ora dobbiamo pensare al futuro. Conte è caduto. Anzi è stato fatto cadere. Il presidente Mattarella di fronte all' emergenza di un Parlamento allo sbando ha messo il professor Draghi a disposizione della Repubblica. Una grande personalità che va lealmente sostenuta. Ma Draghi non è la soluzione politica alla crisi sistemica della democrazia italiana. Draghi è un passaggio alto, rassicurante, fattivo e incisivo, che deve permettere a tempo debito di tornare ad una salutare competizione, anche se spero più civile, tra la destra e la sinistra. Altrimenti potrebbe insediarsi, per forza d' inerzia, un corpaccione centrista e senza anima. A quel punto, divamperebbero di nuovo il populismo e l'antipolitica. Il Pd, dunque, deve prepararsi alla prossima dialettica democratica. Naturalmente intervenendo ogni giorno sulle questioni sanitarie e sociali e rintuzzando le scorribande di Salvini. Zingaretti per costruire la nostra alternativa ha invocato un chiarimento. Del nostro profilo, dei nostri valori e delle politiche che sceglieremo. Di questo dobbiamo parlare. Non del nostro rapporto passato con i 5 Stelle. Sarebbe ridicolo. Quel movimento è cambiato e cambierà ancor più rapidamente con la guida di Conte. Sarà un nostro competitore-alleato, la cui fisionomia non è del tutto prevedibile. Lo rincontreremo inevitabilmente, in assenza di una legge elettorale proporzionale».

Dunque?

«Dunque la palla torna a noi. Che missione ci diamo? Come allarghiamo i nostri confini per una formazione più forte? Molti dicono: occorre tornare ad una ispirazione autenticamente riformista. Chi può sostenere il contrario? Ma c' è riformismo e riformismo. Sono pronto a discutere di tutto; ma non a tradire il nucleo fondamentale di un riformismo democratico e progressista. La forza imponente del capitalismo globalizzato va civilizzata dalla politica. Altrimenti i suoi intimi meccanismi porterebbero alla autodistruzione del genere umano. Penso innanzitutto al tema ormai drammaticamente stringente della transizione ecologica e digitale. Il riformismo è riformare il capitalismo. Questo è il dibattito che scuote tutti i democratici e tutta la sinistra europea e con il quale si confronta positivamente anche Macron. In secondo luogo il riformismo democratico e di sinistra significa svolgere un incessante lavoro per accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra nelle gerarchie sociali. Come per altro, indica la costituzione italiana. Altrimenti diventa chiacchiera adulatrice dello status quo. Siamo d' accordo su questi semplici presupposti? Oggi il Pd mi pare incerto. Schiacciato nella dimensione del solo governo. Se i ceti popolari non avvertono una nostra empatia, vicinanza, difesa ultima dei loro diritti, non si fideranno più della sinistra».

Enrico Letta segretario non sarebbe forse la migliore soluzione per il Pd?

«Letta è una figura molto forte e competente. La stimo e la rispetto. Non avrei alcuna preclusione nel sostenerlo. Tuttavia qualsiasi sia la scelta del nome che prevarrà nell'Assemblea nazionale, essa dovrà garantire quel confronto nel Pd che non può ulteriormente attendere. Per quanto mi riguarda questo confronto lo sosterrò con l'orgoglio di ciò che è stato realizzato da Zingaretti negli ultimi due anni».

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2021. Lassù, Mario Draghi. Qui sotto si aspetta. Se mettete un po' di cronisti in circolo, ne viene fuori sicuro una chiacchiera perfida. Ha smesso di piovere. Tutti a bassa voce nel cortiletto di Montecitorio, quasi si sente il rumore sottile della fontana, però il sussurro è una roba ghiotta. Del tipo: Goffredo Bettini e Matteo Renzi non si parlano più. Vabbé (c'è sempre quello che la sa già). No, che vabbé: hanno rotto malissimo. Goffredo l'altro giorno ha smentito un colloquio con il Fatto , che in realtà conteneva la centesima parte di quello che dice agli amici su Renzi. Ma no? Ma sì. Renzi lo sa, e lo sfotte. Capito? Lo sfotte come fa Renzi, una cosa da farti saltare i nervi. Ha detto Bettini: «Con Renzi, dopo la crisi da lui provocata, ho un dissenso politico molto forte. Ma mai, sottolineo mai, mi lascio andare ad attacchi personali e a forme di odio politico».

L'odio, no: certo. Però una delusione cupa, profonda, lacerante, invece sì. Senza incarico, senza essere stato eletto, ma ugualmente potentissimo e ascoltato suggeritore di tutto il Pd, lui è stato l'ultimo uomo politico ad aver dato concreta fiducia a Renzi. Lo stato maggiore dei democratici, quasi al completo, gli suggeriva di lasciar perdere: Matteo lo sappiamo com' è, sprechi e sprechiamo tempo, quello dice una cosa e ne pensa un'altra, alza sempre la posta, è poker, non è politica. Invece Bettini - forse ingannato da una formazione ferocemente politicista, dominata dalla logica novecentesca della lentezza dei processi, della strategia fatta di accordi e trame - ha creduto fino all'ultimo che Renzi - puro talento, velocità, spregiudicatezza - potesse essere un interlocutore affidabile.

Ora Renzi gli manda a dire: «Goffredo aveva una strategia così raffinata da essere inesistente». Eppure Goffredo, per lui, nutriva un antico debole. Bettini ha 68 anni, è figlio dell'avvocato Vittorio, nobile proprietario terriero marchigiano, e di Wilde, che in prime nozze aveva sposato diciassettenne il principe musulmano Xhemal Rexa, albanese e nipote del pascià. «Papà, quando ero bambino, mi faceva leggere Dostoevskij. Avrei preferito ascoltare qualche favola, invece sentivo parlare solo di politica»: coltissimo, una magnifica passione per il cinema, un'altra per la Thailandia - Renzi lo graffia parlando di «corrente thailandese del Pd» - comincia nel Pci, è segretario romano della Fgci, poi Pds, Ds e Pd; deputato, senatore, eurodeputato.

Con una capacità riconosciuta da tutti: sa consigliare. «In realtà sono un po' come Nero Wolf, il detective che sta in casa a coltivare orchidee. E non sono esattamente uno che consiglia: ma uno che pensa. E pensando aiuto a risolvere». È questo (non la stazza) a renderlo talvolta ingombrante, e sempre molto ricercato. Infatti Renzi gongola, nel 2013, quando lo sente dire: «Il centrosinistra ha una sola vera carta da giocare: Matteo». «Mitico, Goffredone! Grazie». Un anno dopo, conferma: «Matteo ha avuto il merito di rimettere in moto la politica». Poi, nell'agosto del 2019, mentre Zingaretti e quasi tutto il Pd vorrebbero andare a votare, addirittura amplia la proposta di Renzi sull'accordo di emergenza Pd-M5S, aprendo i lavori per un «governo di legislatura». Quando, e siamo allo scorso autunno, il governo inizia a traballare, e l'ipotesi è quella di un rimpasto per dargli nuova energia, al Nazareno viene automatico pensare: con Matteo fate parlare il Monaco. Lo chiamano così, Bettini. Un po' per i suoi camicioni indossati fuori dai pantaloni, un po' per questo suo vivere frugale in case piccole, modeste (la penultima fu confusa da Cesare Romiti per una specie di ufficio: «Ci vediamo nel solito scantinato?». «Ma veramente, caro Cesare, in quello scantinato io ci abito»). Adesso è in trenta metri quadrati al piano terra di una stradina privata che risale la collina di Monte Mario, solo penombra e libri preziosi, un letto, la tivù da poche settimane, una finestra con panorama sulle cupole di Roma, e lui in pantofole, il vezzo di un Campari ghiacciato ora che i provvedimenti anti-Covid gli impediscono di trasgredire a cena con la celebre regola del 2 (doppio antipasto, doppio primo, doppio secondo, doppio dolce): è qui che viene a trovarlo Matteo Renzi, per consegnargli la famosa lettera del 6 gennaio, contenente i 30 punti politici con cui Iv intende rilanciare il patto di governo. «Io sono solo un postino», si schernisce, convinto di aver ricucito. E invece. Renzi spariglia. Fa precipitare la crisi. E adesso, sul NYTimes , spiega con la nota modestia: «Draghi? Ho fatto tutto io, da solo. Con il mio partito, che è al 3%». Ma Bettini pensa già ad altro. C'è da decidere chi sarà il candidato sindaco di Roma. Voltare pagina, andare avanti. È il bello della politica (se non sei sfortunato e incroci Renzi).

Aldo Forbice per "La Verità" il 28 gennaio 2021. Da alcuni giorni sembra uscito dall' ombra. Eppure da anni si è sempre parlato dell' uomo-ombra, dell' eminenza grigia, del consigliere molto ascoltato, del vero leader del Pd, dell' alchimista della politica, eccetera. Le definizioni sono state numerose nel corso degli anni. C' è anche chi lo ha marchiato come «Rasputin», una definizione un po' «pesante», anche perché Goffredo Bettini non ha nulla in comune con lo storico consigliere dei Romanov e figura molto influente dello zar Nicola II di Russia. Influente sicuramente lo è stato e continua a esserlo con gli ultimi segretari, prima dei Ds e poi del Pd (Veltroni, D' Alema, Renzi, Zingaretti), ma anche con altri uomini importanti di quei partiti, come Rutelli (quando era sindaco di Roma e poi leader della Margherita). Ma certo non si può paragonare all' odiato Grigorij Efimovic Rasputin. Bettini è amico di intellettuali, scrittori, economisti, ospite dei più rinomati salotti romani e soprattutto è stato sempre in confidenza con i finanzieri di sinistra, in particolare con quelli più vicini al Pd. I suoi modi, sempre cortesi con amici e nemici politici, tradiscono la sua provenienza aristocratica. Infatti la sua famiglia marchigiana (ma con una discendenza anche da una famiglia dal sangue blu di Bergamo) ha il seguente nome: Rocchi Bettini Camerata Passionei Mazzoleni. Non ha una laurea, ma solo un diploma di liceo scientifico, anche perché già all' età di 14 anni si è iscritto alla Fgci e quindi, ha confessato in una intervista, «non aveva tempo». Della Federazione giovanile comunista divenne segretario romano, quando Massimo D' Alema era segretario nazionale. E da allora è iniziata la sua «carriera» di funzionario politico, nel Pci ,poi nei Ds, Pds e infine nel Pd, dove continua a tessere trame e progetti politici, accanto ai leader e dove viene sempre vezzeggiato col nomignolo di «panzarella». Ma lui non si offende mai, anche di fronte a critiche pesanti. Di sé ha scritto: «I miei maestri si chiamavano Pietro Ingrao, Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte. I miei fratelli sono due: il maggiore è Massimo D' Alema, erede legittimo del Pci; l' altro è Walter Veltroni, di cui mi lega una complicità totale». Sempre nell' ombra Bettini è stato segretario del Pci a Roma, consigliere comunale, nella capitale (1989), poi consigliere regionale. Nel 1993 viene eletto alla Camera dei deputati in sostituzione di un deputato che si era dimesso. Ma ha conosciuto anche l' amarezza delle sconfitte. Per ben due volte: nel 1994 (candidato alla Camera dei deputati nelle liste Alleanza dei progressisti) e nel 1996, ci ha riprovato, come candidato del Pds, ma non viene eletto. Sia pure col magone l' aristocratico Bettini pianse ma in segreto. Si consolò progettando la candidatura di Francesco Rutelli a sindaco di Roma, che venne eletto al secondo turno, grazie anche a una lista civica di sostegno, che ebbe un grande successo (11,6% dei voti), formata da professionisti di estrazione politica variegata, guidata da un avvocato leader dei piccoli proprietari immobiliari (Giuseppe Mannino), diventato poi il presidente del Consiglio comunale della capitale, con poche centinaia di voti di preferenza. Bettini aveva riconquistato, sia pure con compromessi ed espedienti vari, l' amministrazione della più importante città italiana: un obiettivo che sembrava irraggiungibile. Nel 1997 diventa assessore ai rapporti istituzionali, ma non regge molto in quell' incarico. Lo considerava noioso; alla fine segue le indicazioni di suo «fratello» Veltroni, facendosi nominare presidente dell' Auditorium di Roma. C' è infatti da ricordare che il cinema era la seconda passione di Bettini. Anche quella poltrona la fece però fruttare politicamente, perché gli procurò nuove amicizie con numerosi «potenti di Roma», che poi gli torneranno utili (Cesare Romiti, Franco Caltagirone, Giovanni Malagò, Aurelio De Laurentis e tanti altri, imprenditori e politici, come Gianni Letta e Bruno Tabacci. Nel 2001 viene rieletto alla Camera, impegnandosi più attivamente (ma sempre nell' ombra) al vertice dei Ds. Ogni tanto però si concedeva qualche vacanza. E dove andava? Nella terra dei suoi avi, nelle Marche? No, in Thailandia, per curarsi. Gli piaceva quel mare. Lo ha anche dichiarato: «Mi sono curato in Thailandia, guardando il mare del Siam. Da allora ho un debito di riconoscenza con quel Paese». Quel debito era contraccambiato visto che il governo thailandese lo ha nominato cavaliere, mentre l' Italia - nonostante gli amici potenti - non gli ha mai concesso quel riconoscimento. In quegli anni Bettini si impegnò molto: condusse, con deleghe politiche, una intensa attività di mediazioni e contatti. È di quel periodo la nuova definizione di «imperatore di Roma», consolidata nel 2007 quando divenne Coordinatore della segreteria nazionale del Pd, nominato da Walter Veltroni. E per questa ragione che il 28 novembre di quell' anno si dimise anche da senatore perché riteneva che il lavoro parlamentare fosse solo «una perdita di tempo». Per la verità, secondo un senatore che abbiamo incontrato, Bettini era ingrassato oltre misura: «Faceva fatica a sedersi sulle poltroncine senatoriali e ripeteva sempre ai colleghi «Che ci sto a fare qui, faccio fatica anche a sedermi, è meglio lavorare al partito». Cosa che avvenne dopo pochi mesi. Al suo posto al Senato subentrò Pietro Larizza, ex segretario generale della Uil, un socialista che era stato candidato dal Pd. Nel 2014 però l' aristocratico comunista scelse l' Europa. Si candidò nel Pd e ottenne oltre 90.000 preferenze. L'imperatore aveva stravinto, lasciando stupiti i suoi compagni di partito che non si aspettavano un successo di quelle dimensioni. In tempi più recenti il «tessitore» ha ritrovato la sua brillantezza, riscoprendo un attivismo di altri tempi: adesso appare talmente legato a Zingaretti che spesso lo sostituisce, anche se non ha un ruolo istituzionale. Ma ha anche un nuovo amore, dopo aver abbandonato Matteo Renzi: Giuseppe Conte. Si è talmente innamorato dell' ex avvocato del popolo che lo paragona spesso a Giulio Andreotti e sta cercando di farlo durare il più a lungo possibile a Palazzo Chigi. Lo ha detto chiaramente anche a Stasera Italia, programma di Rete 4, dove si è fatto invitare dall' amica di famiglia, Barbara Palombelli, ed è stato e accolto in pompa magna come se fosse un ministro autorevole. Ora per l' amico Conte l' imperatore sta tirando fuori dal cilindro tutti i suoi progetti. Dopo aver mediato a lungo tra il premier e Renzi, sino allo sfinimento, si è dato molto da fare per far nascere la «quarta gamba», quella dei responsabili-costruttori- volenterosi per rafforzare la maggioranza al Senato. Ma nel frattempo ha cercato di seminare tra i suoi amici e conniventi il cosiddetto «piano b» (b, come Berlusconi) per rispolverare «il governo istituzionale». Lui pensa però di fare presiedere l' eventuale nuovo esecutivo dal suo beniamino, cioè dal solito vanitoso avvocato e arrivare così, scavalcando il semestre bianco al 2023, alla fine della legislatura. Non ha però mai smesso di sussurrare a Zingaretti, di sorvegliare Di Maio (con cui c' è molta complicità), non hai mai dimenticato il vecchio amico Renzi e ostinatamente continua a consigliare Conte, talvolta in dissenso con Rocco (Casalino). Goffredo, imperterrito, da elegante aristocratico, non si perde d' animo. Gli è stato promesso un incarico prestigioso a Palazzo Chigi: quello di sottosegretario per i rapporti con i ministri e forse con la delega al coordinamento dei servizi segreti. È la prima volta che questo accade. Neppure i governi presieduti da uomini della sinistra gli hanno offerto tanto. Forse, ai tempi del coronavirus, dei vaccini a rischio, della crisi economica che rischia di galoppare pericolosamente, del Recovery Plan tutto da tradurre in opere concrete, il vecchio imperatore pensa in questo modo di uscire dall' ombra, fedele al suo vecchio principio: «Quello che conta non è il potere ma l' influenza che uno sa esercitare». E se questa «influenza» dovesse venir meno c' è sempre la Thailandia che lo aspetta, da cavaliere aristocratico.

·        Luca Lotti.

Barbara Jerkov per “il Messaggero” il 13 marzo 2021.

Letta ha sciolto la riserva, richiamato a gran voce per salvare il Pd dopo l'addio improvviso di Zingaretti. Base Riformista lo sosterrà, onorevole Lotti?

«Base riformista è un gruppo di persone, parlamentari, amministratori e iscritti che hanno tutti a cuore le sorti del Pd. Quindi assolutamente sì. Pronti a fare la nostra parte, portare le nostre idee, dare il nostro contributo».

L'Assemblea designerà non un reggente ma un segretario vero. E il Congresso che chiedevate a Zingaretti che fine fa?

«Resta sul tavolo. Sappiamo che è impraticabile fare oggi un Congresso nel momento in cui gli italiani stanno combattendo contro il virus. A Zingaretti abbiamo chiesto, e a dire il vero non solo noi, un confronto sull' identità e sul futuro del Pd. Siamo dell' idea che questo tema debba riguardare i nostri iscritti e militanti: è doveroso coinvolgere la base e appena possibile farla esprimere».

Ammetterà che è parecchio bizzarro che gli ex renziani si ritrovino a incoronare Letta dopo che fu proprio Renzi a spingerlo fuori da palazzo Chigi... Enrico può stare sereno sul serio, stavolta?

«Sette anni sono un' era geologia nella vita, si figuri in politica. E poi mi hanno insegnato che si fa politica con il sentimento e non con il risentimento».

Magari c' è qualcuno che dovrebbe chiedergli scusa, e non solo tra gli ex renziani?

«Immagino si riferisca alla Direzione Pd del febbraio 2014. Credo che chi ha votato in quella Direzione abbia fatto una scelta politica. E se non ricordo male di lì a poco sarebbero diventati quasi tutti renziani. Ma in politica le etichette non servono, anzi sono dannose. Non andiamo da nessuna parte con la storia degli ex: noi siamo democratici e riformisti. Stop». 

Sicuri che tanto unanimismo formale sia un bene? Lo stesso Letta nel suo video ha detto che non è quello che cerca. Se c' è una cosa che nel Pd non manca sono le correnti: non sarebbe il caso, come ha detto anche un vecchio saggio come Parisi, di entrare nella fisiologia di un confronto aperto anziché sempre sotterraneo?

«Parisi da sempre sostiene che il Pd sia un partito nato strano e mai realizzato. Io, che come lui l' ho fondato, sogno invece di realizzarlo. Resto convinto che le correnti di pensiero in un partito aperto e plurale siano una cosa positiva. E non accetto l' ipocrisia di chi critica le correnti facendone parte o avendole utilizzate».

Come ha vissuto le dimissioni dell'ex segretario Zingaretti e quel suo mi vergogno del partito?

«Con sorpresa. Non conosco tutte le motivazioni che hanno spinto Nicola e non so perché abbia usato parole così forti. Di sicuro la lettura fatta da più parti - cioè che è tutta colpa della minoranza - è falsa e strumentale. Lo stesso Zingaretti ha detto di essersi voltato e non aver trovato più nessuno. Immagino che quei nessuno siano tanti».

Il rapporto di Base riformista con Zingaretti è sempre stato un po' dentro-un po' fuori...

«E' sempre stato leale e corretto, sfido chiunque a dire il contrario. So che Zingaretti è stato criticato per aver aperto a Base Riformista. Noi abbiamo garantito un'unità che nel Pd non si vedeva da anni; forse questo non piaceva a tutti gli azionisti di Zingaretti. Ma unità non significa pensiero unico».

Lo sa vero, qual è il problema? Avete scontato, e forse ancora scontate, una buona dose di diffidenza da chi vi accusa di essere la quinta colonna renziana rimasta nel Pd.

«Chi non ha argomenti fa così. Non sa come criticarti? Allora sei un ex renziano, un cancro da estirpare. Siamo arrivati quasi alle liste di proscrizione! Chi parla male, pensa male e vive male. Noi, comunque, non abbiamo nessuna intenzione di andarcene».

Con Letta pensa che la linea politica sia destinata a cambiare? Il Pd a farsi sentire di più nel governo e rispetto ai 5Stelle?

«Mi auguro che Letta parta dall' agenda Draghi e aiuti a portare il Pd verso una linea di azione chiara e un' autonomia politica, anche dal M5S. E poi che aiuti a rispondere ad una domanda: perché oggi votare il Pd?».

Quindi il rapporto con Conte e M5S è destinato a cambiare?

«Conte era stato indicato come riferimento dei progressisti, ma faccio notare che nel frattempo è diventato leader di un partito. Per mesi abbiamo parlato di alleanze strategiche o alleanze politiche, senza coinvolgere nella discussione la nostra gente. Spero che nel Pd prima si ritrovi una solida autonomia identitaria e poi si parli di alleanze. Non il contrario».

Un' ultima domanda. Se non ricordo male lei si era autosospeso dal Pd per la vicenda Palamara. Lo è ancora?

«Il mio fu un gesto a tutela del Pd, sotto attacco a causa di lettura dei fatti a dir poco forzata. A distanza di un anno e mezzo è chiaro a tutti che i fatti non erano come qualcuno ha voluto raccontarli».

·        Luciano Lama.

Luciano Lama, il riformista rivoluzionario della Cgil che ricordò la coerenza ai progressisti. Con la svolta dell’Eur il sindacato si apre alle variabili, a partire dal salario, fino a creare una visione globale dell’economia. Pasquale Cascella su Il Quotidiano del Sud il 30 maggio 2021. L’occupazione che variabile è, oggi? Vien da chieder(se)lo quando, a proposito della controversa misura del blocco dei licenziamenti nella fuoriuscita dalla pandemia, si evoca l’intervista del gennaio 1978 in cui Luciano Lama anticipava a Eugenio Scalfari la “svolta” da sottoporre alla assemblea sindacale dell’Eur. Fatta la tara al sensazionalismo del titolo, “Lavoratori stringete la cinghia”, i contenuti appaiano, in effetti, clamorosi ma non privi di problematicità, rispetto a letture già allora manichee. A volerne ancora discuterne, si dovrebbe farlo con l’onestà intellettuale che Lama per primo mostrò nell’occasione. Si mandava in soffitta il salario come “variabile indipendente” ma in contrapposizione all’analoga concezione del profitto, essendo, “in un’economia aperta”, le variabili “tutte dipendenti una dall’altra”. Ancora, il riconoscimento di non poter “più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti”, si misurava con l’”interesse generale a non rendere drammatiche, esplosive, certe situazioni sociali”, quindi si doveva puntare a una accumulazione del capitale “opportunamente programmata dallo Stato e indirizzata al fine di accrescere il più possibile l’occupazione”. Non erano mere concessioni, chiariva da subito Lama, bensì l’assunzione di un “ruolo” attivo del sindacato nel “raddrizzare la barca Italia”. La barca Italia è andata avanti e indietro, e quando si va “per diritto e per rovescio” si rischia di non comprendere quale direzione sia stata effettivamente controcorrente. Ma se un senso ha ripensare alla “lezione” di Luciano Lama, nel venticinquesimo della scomparsa (a Roma il 31 maggio 1996), che corrisponde al centenario della nascita (a Gambettola, in quel di Forlì, il 14 ottobre 1921), più che nella riproposizione di opzioni irrisolte, va ricercato nel viluppo delle emergenze che gravano sul paese senza riuscire a rimettere in campo lo stesso obiettivo di crescita, sviluppo e occupazione, l’analoga etica della (cor)responsabilità, un corrispondente respiro riformatore. Lama è stato uomo del suo tempo. Che non era il piccolo mondo antico. “Riformatore unitario”, si era definito: “Nel senso pieno del termine – unità dei lavoratori, unità delle forze politiche che si riconoscono nella causa di emancipazione del mondo del lavoro”. Come “riformista rivoluzionario”, fu ritratto da Walter Tobagi. Gianni Agnelli conobbe un “animale addestrato al combattimento” quando nel 1975 negoziarono il punto unico di contingenza. Combattendo da riformista, Lama ha attraversato il secolo che lo storico Eric Hobsbawm ha definito “breve” per l’incalzare di eventi laceranti: dalla lotta partigiana al nazifascismo, che gli aveva assassinato il fratello, alla ricostruzione democratica; dalle divisioni della sinistra politica (aveva inizialmente militato nel Psi per poi ritrovare più coerenza nel partito nuovo di Togliatti) alla mancata unità dopo il crollo del socialismo reale; dal ripudio dell’estremismo violento (subìto in prima persona per aver cercato di far valere l’agibilità democratica nell’Università di Roma) alla fermezza contro un terrorismo scatenato contro il compimento del percorso costituzionale della “Repubblica fondata sul lavoro”. E come uomo del Novecento, Lama si era fatto carico del fardello della questione sociale là dove, la Cgil preservata da Giuseppe Di Vittorio come casa comune della sinistra, ha potuto esprimere il suo impegno per il progresso. “Era il ‘poulain’, il puledro di Di Vittorio”, disse una volta Giorgio Napolitano. Si comprende perché Lama concepisse la strategia dell’Eur alla stregua di un tributo al “piano del lavoro” che Di Vittorio aveva lanciato, dopo il fatidico 18 aprile del 1948, per non lasciare rovinare la rottura politica dell’unità nazionale anche sul sindacato. Già allora Di Vittorio non aveva esitato a parlare di “sacrifici” agli occupati del Nord perché fossero “artefici di un grande movimento di solidarietà verso le masse diseredate del Sud”. E per quel piano si attirò accuse di “collaborazionismo con il sistema”. Eppure, per Lama, proprio quella esperienza “fu determinante per l’iniziativa sociale e politica” che potè svilupparsi nei decenni successivi, fino a determinare l’allargamento dei diritti e dello stesso potere di intervento del sindacato come autonomo soggetto politico. Si può dire altrettanto per la strategia dell’Eur? Si trattava, a quel punto, di non lasciare regredire l’appena ritrovata (e ancor fragile) unità sindacale in uno sterile rivendicazionismo, se non in un corporativismo subalterno, di fronte all’acutizzarsi delle crisi petrolifere che a metà degli anni Settanta fece precipitare il paese nella stagflazione. La svolta dell’Eur non si illudeva che lo “spontaneo riadattamento del sistema” conducesse al superamento della crisi, ma metteva in campo una strategia basata su un programma di riforme che “affrontasse globalmente i problemi del paese”. Per Lama “era una sfida a noi stessi”, “una grande incompiuta”. Certo, pesarono le incomprensioni, le resistenze, le rincorse, le divaricazioni che poi il sindacato ha pagato a caro prezzo e ancora fatica a recuperare. Ma “il colpo decisivo l’Eur l’ebbe con il venir meno del suo supporto politico”. L’acutezza della crisi aveva indotto il Pci di Enrico Berlinguer a concedere prima l’astensione e poi l’appoggio esterno ai governi di solidarietà nazionale che Aldo Moro aveva voluto fossero guidati da Giulio Andreotti nella convinzione di poter condurre (se la sua vita non fosse stata martoriata dalle Brigate rosse) l’intera Dc a una nuova fase della democrazia italiana. Con quella prospettiva politica (parallela al compromesso storico berlingueriano) cadeva anche “la tensione morale e riformatrice che aveva inizialmente animato la solidarietà nazionale”. È storia. E potrebbe offrire un’altra misura di raffronto con l’emergenza di questi angusti tempi, ovvero con l’altra incompiuta, politica e istituzionale, con cui pure Lama continuò a misurarsi. Una volta lasciata la Cgil, nell’86, segnato dall’ultimo trauma del referendum sulla scala mobile, il Pci gli affidò la responsabilità del programma che in una qualche misura contribuì a spianare la strada alla “svolta” dell’89. Eletto senatore (e vicepresidente a palazzo Madama) gli toccò stroncare il provvedimento sul riassetto radiotelevisivo pubblico e privato a cui sempre Andreotti nel 1990 affidava la sopravvivenza di un suo ennesimo governo (pentapartito) definito senza strategia e senza princìpi dove è “il potere” a essere posto “al di sopra di tutto, e strumento supremo nel governo degli uomini”. A un certo punto, Lama si rivolse direttamente ai compagni del Psi per richiamarli alla coerenza “progressista e riformista”: “Il riformismo autentico – scandì – ha sempre considerato il potere come un mezzo, non come un fine in sé! Un mezzo per cambiare una società ingiusta, per difendere specie i più deboli, per aiutarli a emanciparsi, per farli contare nella società”. E se fosse questo il vero lascito del riformista mai rassegnato?

La sua ossessione per l’unità del sindacato. Luciano Lama, ritratto del riformista figlio del ‘68. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Da poco eletto segretario generale, Lama si presentò al Congresso della Fiom del luglio 1970 assicurando pieno appoggio al disegno di unità sindacale che era portato avanti dal gruppo dirigente della categoria e che era osservato con tante riserve da ampi settori della Confederazione e del Pci. Ma il significato vero della presenza di Lama ai vertici della Cgil stava nel processo di identificazione (il copyright è di Ottaviano Del Turco) tra lui e il sindacato. In larga misura a questa popolarità contribuì anche la tv e la capacità di Lama di «bucare il video». Lama è la persona che non solo ha imposto il sindacato tra i grandi protagonisti della vita del paese, ma lo ha reso familiare agli italiani, al pari di ogni altra realtà appartenente alla loro vita quotidiana. Naturalmente, questi processi dipendevano da un complesso di fattori non tutti riconducibili al carisma e alla personalità di Lama. Anche lui, come tutti, era figlio del suo tempo. Dietro l’avanzata del sindacalismo confederale c’era lo strappo dell’autunno caldo (del 1969), con le sue conquiste immediate e di prospettiva e soprattutto con quel saldo rapporto di fiducia che il movimento sindacale era riuscito a stabilire con i lavoratori, ricavandone una forza organizzativa senza precedenti. Si era consumata, in quella fase, una devastante rottura di tutti gli equilibri, politici, economici e nei rapporti tra le classi sociali. Sembrava a portata di mano un profondo rivolgimento degli ordinamenti istituzionali. E questo fatto creava forti timori in molti settori della società italiana. Luciano Lama ebbe la capacità sia di garantire i lavoratori e di preservare la loro fiducia nell’azione riformista, graduale ed evolutiva. Non si può parlare di Lama, leader indiscusso, senza richiamare il suo importantissimo contributo all’unità a partire da quella della Cgil. Lama ricorreva alle solite metafore per spiegare, anche in tale circostanza, la sua opinione. Parlava della sindrome di Tecoppa, un personaggio che pretendeva dal proprio avversario la più assoluta immobilità per poterlo infilzare comodamente. C’era, infatti, un “comune sentire” dei militanti comunisti, secondo il quale partner ed alleati erano giudicati “unitari”, nella misura in cui convenivano sulle loro scelte. Per Lama, invece, i “diversi da noi” esprimevano delle posizioni legittime, con le quali occorreva misurarsi paritariamente. Guai, dunque, a fare dei processi alle intenzioni degli interlocutori; bisognava avere per i loro meccanismi decisionali il medesimo rispetto che si pretende per i propri. La mediazione era il sale della politica e doveva essere una sintesi ragionevole tra diversi punti di vista tutti egualmente rispettabili. E l’unità della Cgil, poi, era un presupposto essenziale – su questo punto Lama seguiva l’insegnamento di Di Vittorio – per un rapporto positivo anche con la Cisl e la Uil. La grande occasione di Lama venne al tempo della solidarietà nazionale, quando il Pci entrò a far parte della maggioranza, appoggiando governi monocolori democristiani (presieduti da Giulio Andreotti), insieme alle forze politiche di centro-sinistra, tra il 1976 e il 1979. Erano gli anni di piombo. La situazione del Paese era molto grave, oppressa da un’inflazione a due cifre, mentre il terrorismo muoveva apertamente guerra allo Stato. L’avvio della solidarietà nazionale fu contrassegnata da soluzioni parlamentari molto arabescate: dapprima si ebbe il Governo delle astensioni (quando i partiti diversi dalla Dc, Pci incluso, diedero il loro appoggio all’esecutivo astenendosi); poi, si passò ad un voto di fiducia comune – sospinto dall’emozione e dalla preoccupazione – lo stesso giorno in cui le Brigate rosse rapirono Aldo Moro e ne massacrarono la scorta. La risposta sindacale a quel disegno politico fu la cosiddetta strategia dell’Eur (dalla località romana in cui si svolse, nel 1978, il convegno unitario che varò la piattaforma sindacale). Si trattava di un insieme di disponibilità che le confederazioni erano pronte a concedere in cambio di riforme che portassero al risanamento e allo sviluppo del paese. L’approccio ricordava quel Piano del lavoro che Giuseppe Di Vittorio aveva voluto varare nel 1949 come alternativa al modello di sviluppo capitalistico. Trent’anni dopo a Lama era capitata l’occasione di dialogare con un governo sostenuto anche dal Pci. Ed era stato un precursore della “linea dell’Eur”, poi divenuta patrimonio unitario, sia pure con tanti mal di pancia all’interno del movimento sindacale. Era stato il segretario della Cgil, infatti, ad anticipare il senso profondo di quella impostazione in una celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari, in occasione della quale aveva affermato, tra le molte eresie, che i salari non possono essere una variabile indipendente. In tanti erano caduti dal letto, al mattino, quando si erano imbattuti in quella storica conversazione. Nel sindacato fu un giorno di smarrimento. Sergio Garavini volle manifestare il suo dissenso dichiarando a Vittoria Sivo (giornalista di Repubblica), in serata, che l’intervista non l’aveva ancora letta perché aveva avuto da fare. Anche il rapporto con i militanti risentì di quell’improvvisata. Ma Lama aveva messo in conto queste difficoltà. Ed entro pochi mesi la sua linea divenne quella di tutto il movimento sindacale. «Non basta avere ragione – soleva dire Luciano – bisogna anche riuscire a farsela dare». Del resto, Lama aveva le idee chiare: anche attraverso un’azione di carattere fortemente politico si poteva rassodare l’istanza unitaria di un movimento sindacale impregnato di ideologia come quello italiano. In sostanza, se le forze politiche andavano tra loro d’accordo e se il sindacato era unito nel proporre una linea di condotta che favoriva quelle intese (alla comune di ricerca di una strategia ritenuta di cambiamento) sarebbe andato avanti un quadro complessivo più favorevole in quella direzione, di maggiore responsabilità, che Lama stesso auspicava per il suo stesso partito. «L’Eur – disse Luciano, anni dopo – era innanzi tutto una sfida a noi stessi, alla coerenza che dà l’autorità di chiamare tutte le forze disponibili a realizzare un cambiamento “globale”, per usare una espressione di allora. La prima coerenza era data dalle compatibilità da rispettare, perché non esistono nell’economia delle variabili assolutamente indipendenti>>. Era un “cedimento”? L’Eur non teorizzava sacrifici inutili per chi già si sacrificava – continuava Lama – anzi trasformava la moderazione rivendicativa in un’arma nelle mani degli occupati per dare lavoro a chi non l’aveva. ‘’Con la coscienza che mettere insieme vecchio e nuovo significava continuare a subire il vecchio e a non aprire spazi al nuovo». Tuttavia la fine della solidarietà nazionale portò al deterioramento dei rapporti tra i partiti i quali trasformarono il mondo del lavoro e le sue problematiche in un campo di scontro. Questi anni sono descritti puntualmente nel saggio "Passato prossimo" di un protagonista come Pierre Carniti. Il Pci volle recuperare un rapporto diretto con i lavoratori; ciò condusse a momenti di competizione con i sindacati e con la stessa Cgil che sfociarono nelle rotture (anche all’interno della stessa Confederazione di Corso d’Italia) del 1984 (sul decreto di San Valentino sulla scala mobile) e del 1985 (sul referendum abrogativo della legge di conversione). Lama non potè che schierarsi dalla parte del suo partito ma (con l’intelligente collaborazione di Ottaviano Del Turco, leader dei socialisti della Cgil), riuscì a gestire prima e a superare poi i lasciti della guerra intestina e a salvare, nella misura del possibile, i rapporti con Cisl e Uil. A prova del rigore di Luciano Lama, fu sua premura inviare a Giorgio Benvenuto e a Pierre Carniti la scaletta del discorso che avrebbe pronunciato il giorno dopo in una grande manifestazione a Piazza San Giovanni. Nel 1986 lasciò il sindacato (fece l’errore di far eleggere Antonio Pizzinato al suo posto; presto se ne accorse e lo ammise) e iniziò un percorso politico istituzionale come vice presidente vicario del Senato. Nel Pci di allora non ci fu un altro Novella a proporlo come segretario, dopo la morte di Berlinguer. Poi, negli ultimi anni accettò di fare il sindaco di Amelia, dove aveva il suo buen retiro. La cittadina divenne, così, la sua “Isola di Caprera”. Giuliano Cazzola

·        Lucio Magri.

Lucio Magri: le sue idee come perle in un sacchetto. Nel libro di Simone Oggionni il tentativo di ricostruire la complessità di un uomo, di un pensiero e di un’opera il cui valore deve ancora raggiungere la popolarità che merita. Roberto Gramiccia su Il Dubbio il 10 marzo 2021. Ad aver ideato e cucito per bene il sacchetto è stato Simone Oggionni ed è questo il suo merito principale, anche perché il libro che ha scritto – Lucio Magri. Non post-comunista ma neocomunista, Edizioni Efesto, pag. 358, € 15,00 – e che da pochi giorni è disponibile nelle librerie, non è un semplice contenitore di notizie e di fatti, è qualcosa di più e di meglio. È il tentativo di ricostruire la complessità di un uomo, di un pensiero e di un’opera il cui valore deve ancora raggiungere la popolarità che merita. A dieci anni dalla scomparsa di Lucio Magri, non c’era modo migliore per ricordarlo. Anche perché a farlo è un giovane intellettuale, poco più che trentenne, non nuovo ad operazioni culturali e politiche coraggiose. Lo dico con cognizione di fatto perché ad alcune di esse ho avuto il piacere di partecipare, come mi è capitato quando scrissi con lui, qualche anno fa, un mini-dizionario politico sui generis intitolato Le Parole Rubate (Mimesis). Nonostante la sua giovane età, Oggionni ha avuto la fortuna di incrociare e conoscere Lucio Magri che annovera – parole sue – fra i “giganti spesso sconfitti, fuori sincrono rispetto al presente, ma che sono stati per noi antidoto alle degenerazioni, critica incarnata e credibile a una dimensione della politica privata del rapporto con il tempo e con lo spazio e che per questo ci hanno spalancato la coscienza e il cuore ‘verso un futuro lontano e una storia gigantesca’ “. Con la sottolineatura (ultimo virgolettato) del legame fra futuro e storia si concluse la relazione che Magri tenne a un seminario di formazione, presso la Scuola di Pace di Montesole, di fronte a un pubblico di giovani militanti di Rifondazione comunista, nel giugno 2010 a Marzabotto. In quel frangente, Oggionni ebbe occasione di confrontarsi a lungo con Lucio Magri che regalò a lui e a tutti i partecipanti al seminario, un magnifico saggio del suo rigore e della sua cultura politica. Si tratta di una relazione riportata nel testo di cui ci stiamo occupando e che – a dire dell’autore e giustamente – ne rappresenta “l’anima”. Fra i molti meriti di Oggionni c’è quello di aver azzeccato in pieno il sottotitolo: Non postcomunista ma neocomunista. Non solo un atto di rispetto per una storia – quella del Comunismo – che per Magri non è mai finita, ma il riconoscimento di uno dei tratti principali del carattere del grande intellettuale militante, artefice di una ricerca che continuamente si alimentava dell’esperienza e dello studio del passato. Esattamente il contrario di ciò che succede nell’epoca odierna, tutta divorata dalla smania di uno sterile nuovismo senza nerbo e senza futuro. Del resto, è proprio l’incubo attualissimo della pandemia che richiama e conferma quella del Comunismo come questione di attualità assoluta e insuperabile. Proprio come l’ha ritenuta Magri per tutta la vita, affrontandola con coraggio e radicalità nella sua opera più importante, un vero e proprio prezioso testamento intellettuale: Il Sarto di Ulm. Lettura cardinale per chi voglia conoscere questo lucidissimo pensatore, rispetto alla quale il libro di Oggionni rappresenta una agile ma rigorosa e piacevole introduzione. Oltre al piglio sicuro del ricercatore e alla ricchezza delle note, infatti, si ha il piacere di apprezzare lo scorrere di una lettura davvero avvincente. Attraverso di essa, si conosce l’origine e la traiettoria della vita di Magri. La formazione cattolica nella Bergamo attraversata dai fermenti del Concilio Vaticano Secondo, l’iscrizione al PCI nel 1957, l’immersione fecondante negli scritti di Gramsci e nello studio di Palmiro Togliatti, Augusto Del Noce, Franco Rodano, Lukàcs, Scuola di Francoforte e in generale di tutti quegli autori che consolideranno in lui una visione del mondo profondamente marxista ma anche antidogmatica, anti-economicistica, libera dalle forzature di uno storicismo invadente, in una parola, umanistica e illuminista laddove si valorizzi il valore fondante che Magri dava all’onesta e al rigore della ricerca in sé, persino a prescindere dagli orizzonti morali della sua weltanshauung. Ci sarà poi l’avventura de il Manifesto, prima la rivista e poi il quotidiano. Il sodalizio con compagni di strada – Castellina, Rossanda, Pintor, Natoli, Parlato e altri ancora – che come sempre saranno per lui interlocutori obbligati di una riflessione vissuta sempre come collettiva. Seguirà l’espulsione dal PCI nel ‘69, la partecipazione a pieno titolo alle vicende tempestose e feconde del post-’68, il successo del quotidiano, l’inaugurazione di un vero e proprio stile-Manifesto, non solo nel modo di ragionare ma addirittura nel modo di apparire. Tutti i componenti del gruppo erano, chi più chi meno, forniti di uno charme, di una allure che divennero una cifra distintiva. Per averne conferma ancora oggi, basta leggere la bella prefazione che Luciana Castellina non fa mancare a questo testo, il suo taglio antiretorico, sobrio ed elegante “per via di togliere” e non di aggiungere, persino nell’urgenza incombente ed emotiva del ricordo (altrettanto efficace e stilosa la postfazione di Famiano Crucianelli). E ancora, nel 1974 Magri fonda il Partito di Unità proletaria per il Comunismo. Alla ricerca sempre dell’ “unità possibile” a Sinistra, proprio nel momenti in cui cominciava a profilarsi la fine del Trentennio glorioso. Fino alla confluenza nel PCI del 1984 e all’adesione, nel 1991, a Rifondazione comunista nel momento della liquidazione del Partito a favore della nascita del PDS. Ciò che si è semplicemente richiamato in queste righe è narrato con efficacia anti-pedante da Oggionni che alla narrazione dei fatti non fa mancare l’interludio di una riflessione interpretativa. In particolare mi pare siano quattro gli snodi principali sui quali egli richiama soprattutto l’attenzione. Le origini cattoliche e democristiane della parabola di Magri, un antefatto che non sarà mai archiviato, ritornando per sempre la questione cattolica come nodo gordiano inaggirabile rispetto a una possibile via italiana al Socialismo. Il suo riconoscimento della rivoluzione sovietica come spartiacque della storia di tutti i tempi, arricchita da un giudizio su Stalin e sullo stalinismo non banale, articolato e convincente. La polemica di Magri con Amendola sul Neocapitalismo al convegno dell’Istituto Gramsci nel ’63, circostanza in cui l’intellettuale mostra con straordinaria precocità la sua capacità anticipatrice, il suo sguardo lungo. La non adesione al Compromesso storico fondata sulla imprescindibile convinzione che il mondo cattolico non fosse che in parte minima riconducibile all’ontologia e alle dinamiche, pur complesse, della Dc. Fino al giudizio sulla Bolognina e alla scelta di entrare in Rifondazione. Quelle richiamate sono solo alcune delle piste esplorate dal libro di Oggionni che, a loro volta, provano – riuscendoci brillantemente – a predisporre un lucida e agile introduzione al pensiero di Lucio Magri. Impresa riuscita – tra l’altro – rifuggendo da ogni possibile tentazione agiografica, bandendo i pettegolezzi e le informazioni non strettamente necessarie a raggiungere gli scopi ricercati. Come è del tutto evidente e risaputo, Lucio Magri non è stato uno studioso isolato, ricoperto dalla polvere dei sui libri. Ma un militante inquieto e infaticabile, un uomo pieno di fascino e di relazioni. La scelta della sobrietà, quindi, non era scontata. Appariva d’obbligo però, per uno studioso come Simone Oggionni, rigoroso e proiettato verso il futuro ma – come era Magri – attento ed educato alla lezione del passato.

·        Marco Rizzo.

Federico Novella per "la Verità" il 10 maggio 2021. «Fedez è il nulla. E con il ddl Zan la sinistra confonde i diritti con i suoi desideri». Marco Rizzo, segretario del Partito comunista, bombarda senza mezzi termini l'esercito del politicamente corretto. Alle prossime comunali la sua lista si presenterà a Roma, Torino, Milano e in tante altre città. «La vera alternativa siamo noi, e vi spiego perché». Come mai, con una pandemia in corso, il Pd insiste così tanto sul ddl Zan? Pensa che le priorità siano altre?

«In realtà questa insistenza non è una novità introdotta da Enrico Letta. Se vogliamo dirla tutta, la mutazione genetica della sinistra italiana inizia negli anni Settanta, con l'avvento del femminismo e dell'ecologismo da salotto. Nel nome dei diritti civili hanno buttato a mare i diritti sociali: il lavoro, la casa, la salute, la scuola».

Quei diritti sociali sono stati abbandonati alla destra?

«Destra e sinistra sono due facce della stessa medaglia: è il partito unico liberista. Quello di Salvini è un sovranismo di cartone: ieri inneggiava alla Russia, oggi candida un banchiere come Draghi al Quirinale. Quanto alla finta sinistra, propongo di approfondire: facciamo un'analisi di quanto è successo il primo maggio».

Il concertone, cerimoniale irrinunciabile del sindacato: quest' anno teatro della bufera tra Fedez, Rai e partiti.

«Intanto cominciamo notando un fatto sconvolgente: in piazza San Giovanni c'era un palco del sindacato confederale sponsorizzato da Eni e Banca Intesa. Rendiamoci conto».

Lotta di classe con ringraziamento allo sponsor?

«Mio padre, operaio a Mirafiori, mi diceva: quando il padrone ti dà ragione, vuol dire che stai sbagliando qualcosa. E oggi il padrone sono le multinazionali globalizzate e le duemila aziende italiane con la residenza fiscale all' estero. Dopo quello che ho visto, non venitemi a dire che la Cgil è di sinistra».

Il rapper Fedez ha il diritto di attaccare la Lega da un palco pagato anche con soldi pubblici?

«Poteva dire che abbiamo perso un milione e mezzo di posti di lavoro: non l'ha detto.

Poteva dire che ogni giorno ci sono tre infortuni mortali sul lavoro: non l'ha detto. Poteva dire che le multinazionali non pagano le tasse: non l'ha detto, forse perché è testimonial di Amazon».

Dunque?

«Io non sapevo nemmeno chi fosse. La sera del primo maggio mi sono informato, sono andato a sentirmi il suo pensiero. Ebbene, è il nulla. Se Fedez è di sinistra, allora io non sarò mai più di sinistra. Chiamatemi comunista e basta. Con questa gente neanche un caffè. Anzi, sono fiero di essere loro nemico».

Intanto Fedez ha milioni di follower: un segno dei tempi?

«Certamente. Pur studiando e usando i social spero con profondità, io sono una Cinquecento e lui una Ferrari. I personaggi di questo genere dispongono di un potere immenso, che corrisponde al comando della finanza e dell'economia sulla politica».

Eppure Fedez ha riscosso gli applausi scroscianti del Pd.

«L'ho detto e lo ripeto: la battaglia per i diritti civili è un'arma di distrazione di massa per coprire le nefandezze compiute sui diritti sociali. Il Pd si è ridotto ad essere una riedizione del partito radicale, che si batte per i diritti gay ma poi cancella l'articolo 18 e le conquiste dei lavoratori del dopoguerra».

Nel merito della questione: il ddl Zan è una legge sacrosanta, o liberticida?

«Io mi sono sempre impegnato a combattere l' utero in affitto: una pratica nazista, degna del dottor Mengele. Mi hanno massacrato per questo, ma continuerò a rivendicare questa battaglia. La voglia di avere un figlio è un desiderio: e i desideri non sono diritti. Specialmente quando consistono nello strappare figli alle madri povere del terzo mondo, per essere venduti su un catalogo, come fossero una merce».

Questa sua opinione potrebbe essere sanzionata?

«Se passa il ddl Zan potrei essere punito. È una legge costrittiva. Io rivendico il mio diritto di esprimere un' opinione supportata da fatti. I signori della sinistra rivendicano dei desideri che finiscono per mercificare il corpo delle donne. E io dovrei essere punito al posto loro? Senza contare che in quel disegno di legge ci sono altre follie».

Per esempio?

«La definizione del sesso. Mi sveglio una mattina e decido che sono una donna, e posso usufruire delle quote rosa? È il mondo al contrario. È un mondo in cui sul palco della festa dei lavoratori ci sono rapper miliardari che vendono lo smalto per unghie agli uomini. Basta, io di questo andazzo non ne posso più».

Meglio la controproposta del centrodestra: aumentiamo le pene per i gesti violenti, ma non condanniamo le opinioni?

«Le leggi contro l' omofobia ci sono già. Se vogliamo, possiamo modificare l' articolo 3 della Costituzione, aggiungendo che nessuno può essere discriminato per l' orientamento sessuale. Basta questo. Io sono contro ogni discriminazione: ma non voglio nemmeno essere "indirizzato" a darmi lo smalto sulle unghie».

Sta contestando la cosiddetta «ideologia gender»?

«È un' ideologia piegata al consumo. Ci sono dati statistici oggettivi: due single presi separati consumano più di una coppia sotto lo stesso tetto».

Sta dicendo che le battaglie contro la discriminazione sessuale rispondono a una strategia di marketing?

«Anche e soprattutto. Vogliamo dirla tutta? Io da giovane usavo una crema cosmetica per tutto il corpo, adesso ho amici che hanno quella per le rughe, il copriocchiaie, quella per le mani e quella per i piedi e via di seguito. La confusione sessuale di oggi risponde a una precisa logica di mercato, prima ancora che ideologica».

Intanto avremmo anche un virus cui pensare. Matteo Salvini chiede aperture più rapide per far ripartire il Paese. Si iscrive al partito aperturista?

«Il Covid si affronta in due modi: incrementando la sanità pubblica e territoriale, e ricorrendo a medicinali che curano la malattia a casa. Per il resto, è evidente che oggi conta più un ospedale di un F-35 o di una corazzata. Una nazione che salvaguarda la sanità è strategicamente più avanzata. Da Conte e Draghi non è arrivato nulla di buono: il ministro Speranza che parla di aumento delle assunzioni tra medici e infermieri fa a botte con la realtà».

Ammetterà che la corsa al vaccino sta procedendo speditamente.

«I vaccini sono complementari a una buona sanità pubblica, anche se sulle fiale è in corso una colossale guerra geopolitica alla ricerca del profitto. Prendo atto però che il governo italiano preferisce avere 500 morti al giorno piuttosto che puntare sul vaccino russo o cinese».

Avremmo dovuto fidarci dello Sputnik fin dal principio?

«San Marino lo ha fatto, vaccinando tutta la popolazione. Ne deduco che la sovranità dell' Italia valga meno di quella di San Marino, che non ha neanche l' esercito. Al massimo ha i vigili urbani».

I dubbi sull' efficacia non sono forse legittimi?

«La rivista scientifica Lancet ha comprovato il funzionamento di Sputnik. E comunque anche sulle alternative, come Astrazeneca, mi pare che le agenzie del farmaco occidentali abbiano ancora le idee molto confuse. La verità è che pur di restar dentro alla gabbia euroatlantica l' Italia preferisce continuare a contare i morti».

Joe Biden intende imporre lo stop ai brevetti sui vaccini.

Suona quasi di sinistra«È solo un annuncio di facciata. Non c' è nessun progetto di legge concreto, nessuna ipotesi sulla tempistica. È un' operazione che serve agli Stati Uniti per recuperare terreno in termini di immagine».

Con quale obiettivo?

«Negli ultimi anni la potenza statunitense è in netto declino, e l' ultimo pasticcio elettorale ha accentuato la loro debolezza. La metà degli americani è convinta che le ultime elezioni siano state truccate: come potranno gli Usa dare le pagelle al mondo? Da qui nasce l' annuncio sui brevetti, e in Italia ci sono cascati. I paladini della sinistra italiana non fanno che applaudire Biden: oggi sono loro i più grandi servi della politica americana».

Se però mettiamo in discussione l' atlantismo, come finiremo?

«Sogno un Paese autonomo e indipendente, che commercia con gli Stati Uniti, con l' Europa, la Russia e la Cina. Ma con un unico interesse: quello dei lavoratori italiani».

Intanto il caso della presunta «loggia Ungheria» scuote, per l' ennesima volta, il mondo della magistratura. Che idea si è fatto?

«È palese che ci sia un grande scontro di potere. Dai tempi di Mani pulite sostengo che lo stato di diritto non esiste. Esistono solamente rapporti di forza tra le classi. Un magistrato non è diverso da un politico: vivono entrambi nella stessa dimensione».

·        Gianni Vattimo.

Irene Famà per "la Stampa" il 15 dicembre 2021. «Il professore aveva un forte desiderio di colmare la solitudine. Aveva paura di rimanere solo come un cane, senza nessuno intorno. Così ne beneficiavano tutti». La frase è di un cinismo disarmante e Stefano la pronuncia con altrettanto disarmante sorriso. Testimone al processo a Simone Caminada, 38 anni, assistente del filosofo Gianni Vattimo che si sarebbe approfittato della situazione di fragilità dell'intellettuale, racconta di un insieme di persone, lui in primis, che quell'umano timore della solitudine l'hanno sfruttato, manipolato per ottenere favori. Viaggi, cene in «ristoranti strepitosi», aiuti economici e così via. Perché è vero, Stefano parla di una «relazione intima, profonda», iniziata nel 2013 ad una cena e dal 2017 andata via via allentandosi. Usa frasi come un «amore coinvolgente». Poi arriva a parlare di soldi: oltre 750 mila euro. «Tutti i mesi mi dava del denaro. Qualcuno per le spese comuni, i più erano bonifici, regali». Il professore glieli ha dati spontaneamente, certo. Ma c'è la questione giuridica e c'è la questione umana. C'è quel «bisogno di affetto» che Stefano aveva «percepito sin da subito. L'ho manipolato. Sapevo che mi amava profondamente e sapevo di amarlo un po' meno». Parole sue. Probabilmente pensieri di tanti. «Tutti prendevano. Assolutamente tutti. Dai ragazzi dell'università che gli chiedevano i soldi per le sigarette, alle cene che pagava sempre lui». C'era chi doveva sostenere le spese del dottorato, chi quelle dei figli, chi sieropositivo non poteva pagare le medicine. Una lunga lista. «Spesso davo denaro a persone vicine che credevo amici», aveva dichiarato il teorico del pensiero debole a La Stampa. Vattimo è un «gentleman» dice Stefano. Sicuramente generoso, sicuramente attento agli altri. Con delle fragilità, come tutti. Ed è su quelle fragilità che chi gli era attorno sembra aver fatto leva. Poi è arrivato Simone Caminada (per altro ieri archiviato da un'accusa di stupro per un'altra vicenda del 2019, che nulla c'entra con questa). Spregiudicato, è andato oltre. Lo sostengono i pm Dionigi Tibone e Giulia Rizzo e anche diversi testimoni. Avrebbe tentato di disporre del patrimonio e cercato di allontanare gli altri. «Ha rotto gli equilibri. Gli dicevo di stare al suo posto, che lui non era il padrone», spiega Stefano. E aggiunge: «Caminada, agli occhi di Vattimo, ci ha descritti tutti in un certo modo». Quale? Come degli «approfittatori». E il professore, così sembra, gli ha creduto. «A me ha tolto la carta di credito intestata sul suo conto corrente». Il filosofo aveva spiegato: «Simone ha approfittato della mia generosità? Tutte palle. Cercava di limitare le uscite di denaro inimicandosi le altre persone». Caminada è accusato di circonvenzione di incapace. Vattimo ribatte: «Sono completamente lucido. Il periodo dell'amministratore giudiziario è stato un incubo». Dei suoi soldi vuole disporre come meglio crede. E, come meglio gli è parso, ha gestito le sue fragilità.

Anticipazione da “Oggi” il 9 giugno 2021. «So benissimo che c’è chi pensa “Vattimo s’è innamorato e ha perso la testa”. Non è così. Simone per me è un amico, quasi un figlio. E a 85 anni affermo il diritto di spendere i miei soldi come voglio». Il filosofo Gianni Vattimo risponde così, in un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani, alle accuse rivolte al suo assistente personale Simone Caminada di averlo manipolato per sottrargli denaro e farsi inserire tra i beneficiari della sua polizza vita. «Un medico ha deciso che sono a rischio di circonvenzione. Ma la possibilità di essere plagiato e l’effettivo fatto di esserlo non sono certo la stessa cosa: ho qualche acciacco, ma con la testa ci sono tutto». Caminada, 38enne di origini brasiliane che convive da dieci anni con il maestro del pensiero debole, è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Torino con l’accusa di circonvenzione di incapace. «Una persecuzione umiliante», la definisce Vattimo, il quale spiega a OGGI che la sua polizza vita è intestata anche ad altri e tutte le spese sono documentate. «I miei amici più cari, come Franco De Benedetti e Marco Rizzo, mi ritengono una persona libera e sono scandalizzati».

(ANSA il 9 giugno 2021) Il giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Torino ha rinviato a giudizio Simone Caminada, l'assistente personale del filosofo Gianni Vattimo, per circonvenzione di incapace. Il gup ha accolto la tesi del pm Giulia Rizzo secondo cui Caminada avrebbe approfittato dello studioso per farsi elargire denaro e intestare polizze assicurative. Il processo inizierà il 27 ottobre.

Franco Debenedetti per "la Stampa" il 9 giugno 2021. «Ogni uomo trova, nella sua vita, una donna che lo vuole salvare: a volte ci riesce». La frase, incorniciata, stava in bella vista nell' ufficio di Libero Gualtieri, repubblicano, romagnolo, scapolo che avevamo eletto capo di «Sinistra Democratica», il gruppo parlamentare del Senato che avevo contribuito a costituire nella XII Legislatura. La frase mi attraversò veloce la mente quando, nell' autunno del 2018, sentii al telefono M., una delle amiche storiche di Gianni Vattimo, che, con voce concitata, mi chiedeva che cosa stesse succedendo da lui, dove a suo dire, regnava «un'atmosfera plumbea»: «Sempre quel Simone tra i piedi!» fu la sua replica alla mia richiesta di chiarimenti. Anch'io, quando invitavo Gianni a pranzo al ristorante, avrei preferito che a chiacchierare fossimo solo noi due, amici da poco meno di mezzo secolo. Ma Gianni non se la sentiva di uscire senza il braccio di Simone; senza l'aiuto di questo ragazzo di origine brasiliana, chi avrebbe risposto alle email, pagato le fatture, rimpiazzato le badanti, cercato i libri nei piani alti della libreria, affittato una casa dove rifugiarsi dall' afa estiva? Nei mesi seguenti, la frase ebbe modo di ritornarmi in mente, questa volta in tutto il suo spessore: perché la sua salvifica preoccupazione l'amica la comunicò ad altre amiche, animò cene e incontri, e un'alchimia cambiò l'«atmosfera», da plumbea che era, in aurea: nel senso che il povero Simone venne accusato, non di essere fonte di disagio per gli ospiti, ma di essere troppo a suo agio nei conti in banca del Professore. «Povera e nuda vai filosofia»: ma Vattimo, tra la pensione di accademico e quella di parlamentare europeo, una bella casa torinese al terzo piano in via Po tra piazza Castello e l'Università, e qualche risparmio bene investito, non ha problemi economici per il resto della sua vita. La sua preoccupazione, dopo che i due suoi grandi amori morirono uno dopo l'altro, è sempre stata quella di sapere a chi lasciarli i soldi: questa fu la sola ragione per cui un bel giorno decise di sposare una delle sue amiche. Non si capisce Gianni senza comprendere questo suo sentirsi in debito, donde il bisogno di aiutare con regolarità il cognato malato, la mamma di Stefano (il predecessore di Simone), i suoi assistenti parlamentari a Bruxelles, ecc. Banale interpretarlo come senso di colpa: per me è piuttosto l'orgoglio di chi si vantava delle sue tre C, cattolico, comunista, «cüpiu». L' interesse diede sostanza alle ciance, e parla che ti parla, una cena dopo l'altra, la vicenda suscitò il salvifico istinto di una delle «amiche», che ritenne di portare la cosa all' attenzione del magistrato: questi, essendo la circonvenzione di incapace un reato, per l'articolo 112 della Costituzione non può che iscrivere Simone nel registro degli indagati. Se c' è un circonveniente, ci vuole un circonvenuto: un perito ne attesterà la influenzabilità; e, a impedire la reiterazione del reato, un amministratore di sostegno vigilerà su ogni uscita di danaro. Tutto logico, tutto consequenziale. Ma il risultato complessivo è qualcosa di cui vergognarsi. Perché è vergognoso che il maggiore filosofo italiano della seconda metà del '900 debba essere sottoposto a visite psicologiche per accertare se è «incapace»: è vero, a 85 anni non scrive più un libro con la grinta di un tempo, legge Simenon (e ogni sera qualche pagina in tedesco tanto per non perdere l'abitudine, ma non Heidegger). E che la visita lo dichiari «influenzabile», come se, nell' epoca del digitale, a esserlo non siano milioni, forse miliardi di persone. L' amministratore di sostegno è un serio professionista che esegue il suo mandato, ma le conseguenze possono essere impensabili: può accadere che un uomo che, figlio di una sarta, col suo solo lavoro intellettuale si è messo da parte un patrimonio che non è certo quello di Bill Gates, ma che non riuscirebbe a spendere nella sua vita, debba chiedere aiuto ad amici per pagare la spesa nel weekend, se il contante è finito e le sue carte di credito sono bloccate. Vergognoso impedire di essere generosa a una persona che in questo trova la sua completezza. Vergognoso rendere difficile a una persona di 85 anni, che avrebbe i mezzi per farlo, di prendere un alloggetto per sfuggire al caldo di Torino, dato che nessun padrone di casa vuole affittare a un amministratore di sostegno. Vergognoso infine anche nei confronti di Simone: non ci sarebbe nulla di male se avesse sperato di ereditare una parte del patrimonio di una persona che ha aiutato da dieci anni con capacità e con affetto; e non è giusto che venga incolpato di circonvenzione quando per giunta quello stesso patrimonio sotto la sua gestione è aumentato. Per quelle che sono responsabili di aver messo in moto questo diabolico meccanismo non è una scusante non aver previsto dove esso avrebbe portato: vergognoso è proprio averlo concepito fin dall' inizio. Nel caso avessero giudicato che ci fosse qualcosa da controllare o correggere in quella casa, non hanno neppure pensato che avrebbero potuto provvedervi alcune tra le tante persone che ammirano Gianni e gli vogliono bene. Non potevano pensarlo: loro non sono tra quelle.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 26 settembre 2021. È il filosofo italiano più tradotto al mondo, ma da qualche tempo la Procura di Torino ha deciso di affidargli un amministratore di sostegno a tutela dell’intero patrimonio. In vista della decisione di oggi di revocare o meno questa misura e della prima udienza del processo (27 ottobre) a carico del suo assistente personale accusato di circonvenzione di incapace, abbiamo raggiunto proprio il professor Gianni Vattimo, 85 anni, per capire con quale spirito stia affrontando il contenzioso. A sorpresa, a fissarci l’incontro è proprio lui, Simone Caminada, il 38enne finito nell’occhio del ciclone che ancora vive con l’illustre datore di lavoro nella bella casa di oltre 300 metri quadri all’ombra della Mole e continua a occuparsi delle faccende come se nulla fosse. D’altronde, il diretto interessato ci ha subito tenuto a precisare: «Ma quale circuìto, non sono mica rincoglionito. Qualcuno ha cercato di farmi del male attaccando Simone». Il caso, comunque, promette di continuare a far discutere perché Vattimo, secondo i periti che lo hanno psicoanalizzato, sarebbe in grado “di interpretare la realtà, discutere di filosofia, analizzare il mondo che lo circonda” ma, a detta dello psichiatra Franco Freilone, diventerebbe “molto più fragile nell’autodeterminarsi, nel compiere tutte quelle scelte che riguardano la propria sfera personale”. A riprova di questa tesi le testimonianze di alcuni amici, i movimenti bancari e l’uso di bancomat, carte di credito e intercettazioni telefoniche che hanno convinto i pm Giulia Rizzo e Dionigi Tibone a procedere nei confronti del 38enne. Nel frattempo, la vita in via Po – a pochi passi da via Carlo Alberto, dove il 3 gennaio del 1889 Nietzsche impazzì alla vista del cocchiere che frustava un cavallo – sembra procedere nella più assoluta tranquillità. Fisioterapia al mattino. La visita di un amico a pranzo (l’imprenditore Franco Debenedetti). Il campanello che suona ogni dieci minuti e i corrieri che scaricano pacchi di libri. A occuparsi che tutto proceda con ordine, sempre il giovane assistente armato di cellulare che, anch’esso, non smette mai di squillare. Durante l’intervista, nonostante ammetta un po’ di stanchezza dovuta agli anni che passano e a qualche acciacco, l’ideatore del “pensiero debole” ci è apparso molto combattivo. Si è appena candidato alle amministrative con il Partito Comunista di Marco Rizzo perché «senza Comunismo non saprei vedere il futuro». Ha lanciato stilettate verso gli esponenti di centrodestra Salvini e Meloni e molti illustri colleghi, da Massimo Cacciari a Giorgio Agamben, da Maurizio Ferraris a Diego Fusaro: «È promettente ma minaccioso». Ha ribadito la stima per Papa Francesco («il più comunista che abbiamo mai avuto») e ribadito l’importanza della filosofia: «È un modo di essere presente alla propria storia». Ma soprattutto ha difeso a spada tratta Caminada da accuse molto pesanti: «Spero che l’amministratore di sostegno se ne vada fuori dai piedi il prima possibile».

Professore, intanto come sta?

Come vedi funziono a metà, sono poco mobile. Ma spero di non essere completamente rimbecillito. 

E il suo “pensiero debole” come se la passa dopo tanti anni?

Lui non male, visto che le “debolezze” stanno bene su tutto. Il “pensiero debole” è stata una corrente che ha voluto liquidare tutti gli assoluti. La filosofia che pretenda la verità totale, che non funziona. In cambio, non soltanto l’idea che tutti gli assoluti si debbano combattere, che non mi sembra poco, ma l’affermazione della forza della debolezza. Ultimamente mi sono domandato: a chi può dare ancora fastidio il pensiero debole? Naturalmente a quelli che hanno il potere. Loro lo hanno declinato nella vicinanza con il proletariato, con chi è fuori dai grandi giochi. Quindi mi sembra quanto mai attuale.

Il “pensiero debole” a contrasto dei Big Tech come Facebook, Amazon e Google?

È particolarmente urgente proprio oggi, perché l’integrazione progressiva del sistema con i computer, i social, l’internazionalizzazione dell’economia tende alla rigidezza. Per funzionare bene l’integrazione ha bisogno di certezze. Al contrario del “pensiero debole” che garantisce la mobilità che contiene la libertà. 

La filosofia in generale, però, non sembra incidere come in passato nel dibattito pubblico.

È vero. Quando me ne occupavo io, aveva una quantità di agganci con l’attualità enormi. Tutta una serie di temi per i quali non utilizzavamo la filosofia astratta, ma era legata all’attualità, a ciò che la gente viveva ogni giorno sulla propria pelle.

Consiglierebbe a un giovane oggi di studiare comunque la filosofia?

Nonostante tutto, non vorrei che nessuno facesse qualcosa di diverso dalla filosofia. Perché è un modo di essere presente alla propria storia. È indispensabile. Io non ne potrei fare a meno e non potrei consigliare a nessuno di occuparsi di altro. Come diceva De Chirico: “Di cosa mi dovrei occupare se non mi occupassi della metafisica?”. Io stesso penso: di cosa vorreste occuparvi se non della filosofia? Cioè di interpretare l’esistente per modificarlo e aiutare l’affermazione di una visione alternativa del mondo. 

C’è qualche giovane filosofo che l’ha colpita negli ultimi tempi?

Forse Pier Aldo Rovatti, benché tanto giovane non lo sia più… 

Rovatti è classe 1942.

Giovani non ne vedo tanti. Probabilmente Maurizio Ferraris, sta scrivendo cose che tutto sommato potrebbero andar bene, ma non so fino a che punto sono condivisibili. Ha una fiducia esagerata nella tecnologia. Da un lato mi piacerebbe questa prospettiva, dall’altro mi spaventa. 

Come mai?

Perché io credo in una filosofia che corrisponda alla rivelazione, al cristianesimo. L’unica cosa che farei è coltivare una filosofia cristiana. E poi, che Dio ce la mandi buona…

Eppure, Ferraris è stato un suo allievo.

Ha avuto un periodo in cui ha polemizzato molto con me, ora ci siamo riconciliati. La sua ultima prospettiva è di tipo tecnofilo. Sostiene che se applicassimo in toto la tecnologia potremmo liberarci di molti fardelli. Una specie di Marcuse tecnologico. In generale non mi sembra sbagliato, mi pare solo un po’ troppo utopico. Non so se lo debba considerare un nemico del “pensiero debole” o meno. Probabilmente certe cose che sostiene vanno benissimo con la “debolezza”. 

In una recente intervista ha sostenuto di Massimo Cacciari: “Non capisco cosa dice”.

Lui mi ha sempre detto che l’amore mi fa velo. Che sono troppo simpatetico. Io lo vedo molto presente come commentatore, molto meno come filosofo in senso stretto. Filosoficamente continuo a credere che il “pensiero debole” sia il massimo a cui si possa arrivare, ma evidentemente non tutti sono d’accordo, compreso lui. Ma Cacciari è credente o non è credente? Mah, non mi stuzzica perché non ho chiaro cosa pensa davvero.

Le faccio altri nomi, visto che non è mai stato politicamente corretto. Umberto Galimberti?

È simpatico, una persona perbene, ma non mi entusiasma. Mischia troppo la filosofia con la psicanalisi. È notevole nel panorama filosofico attuale, ma non lo considero un grande maestro. 

Un giovane filosofo che fa molto discutere ci sarebbe: Diego Fusaro.

È promettente e minaccioso. Ha scritto testi interessanti, solo che ultimamente sta facendo grande eco di pensieri controversi. Mi è simpatico ma un po’ temo… cioè temo per lui non per me… che si mischi con un certo tipo di argomenti. Forse è troppo intelligente, per questo è anche pericoloso.

Pier Luigi Bersani in tv ha detto: «Stimo molto Cacciari, Agamben e Barbero, ma quando si ha molta intelligenza non bisogna usarla tutta: perché si arriva anche alla capziosità».

Non ha tutti i torti. Anzi, ha più ragione Bersani rispetto a Fusaro. 

Giorgio Agamben?

Non condivido diverse sue posizioni perché è troppo apocalittico. Io all’apocalisse spero di non arrivarci direttamente. Ma in generale non lo leggo molto. 

È stato più netto nei confronti di Paolo Flores d’Arcais e Piergiorgio Odifreddi: «Non vorrei mai essere come loro».

Flores D’Arcais non lo accetto perché è esageratamente illuminista. Fa troppo affidamento nella ragione. Per me che sono un credente, un comunista tradizionale, figuriamoci cosa me ne importa di questa sua posizione. Odifreddi invece crede troppo nella scienza, che purtroppo non risolve niente se non contiene una pulsione filosofica che è qualcosa d’altro del solo sapere scientifico. Odifreddi non mi è antipatico, fa sul serio le sue cose, però è meglio che si occupi solo di matematica.

Intanto si è candidato alle amministrative con il Partito Comunista di Marco Rizzo.

Potrebbe far sorridere, lo riconosco. C’è chi mi ha detto: “Cosa vuoi occuparti di comunismo oggi?”. Ma un elemento di comunismo bisogna che ci sia sempre in prospettiva. Non potrei credere al futuro se non sapessi che prima o poi qualche elemento di questo modo di essere si realizzerà. 

Meno male che non dovrebbe essere in grado di intendere a volere.

No no, mi voglio impegnare particolarmente nella campagna elettorale, non perché pensiamo di vincere le elezioni su due piedi, ma perché bisogna mantenere il sogno dell’orizzonte comunista per il futuro, sennò in cosa possiamo sperare? Kant si domandava se possiamo sperare davvero in una società più giusta. Sì, se penso alla società come la pensava Lenin: “elettrificazione più soviet”.

Visto che è in campo, cosa pensa della spaccatura all’interno della Lega di Matteo Salvini?

Non credo a un suo indebolimento, mi pare fumo negli occhi. Però, tutto quello che ha a che fare con la Lega lo vedo negativamente. Non mi piace il suo razzismo, l’intolleranza verso il diverso. 

E se nella sfida interna al centrodestra dovesse prevalere Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia?

Per carità… io con quelli non ho rapporti né personali né politici. Non credo ci sia un pericolo fascista in Italia, ma c’è il pericolo introdotto dai loro atteggiamenti in politica. 

Il suo coetaneo Silvio Berlusconi sembra pensi al Quirinale.

Non è più un pericolo e più moderato di tanti altri. Però ormai mi sembra un po’ suonato, al di fuori di certi giochi.

Lei ha scelto il Partito Comunista e non il Partito Democratico. Non è abbastanza comunista?

Se dovessi votare per le politiche, probabilmente voterei Pd. Ma alle amministrative è importante che ci siano elementi di comunismo nelle giunte locali. 

Quando Matteo Renzi ha abbandonato il PD cosa ha provato?

Ho tirato un sospiro di sollievo. All’inizio mi sembrava simpatico, in seguito si è rivelato uno che voleva fare tutto di testa sua e mi è diventato abbastanza antipatico. 

D’altronde lei si è definito “castrista”, in riferimento a Fidel Castro.

Certo, soprattutto vorrei una America Latina “castrista” o “chaveziana”. A questo sono ancora profondamente legato. Perché se ci sarà una salvezza politica verrà proprio da quei paesi, che hanno una cultura relativamente giovane e mi aspetto molto da loro.

Dopo quello che è accaduto in Afghanistan è finita l’egemonia americana?

Lo spero proprio. Anche se devo dire che adesso c’è un problema di equilibrio mondiale, non so fino a che punto possiamo permettere che gli Stati Uniti vengano sostituiti dalla Cina. 

Teme la Cina comunista?

Comunista fino a che punto? È molto capitalista dal punto di vista del risultato economico. Preferirei un mondo multipolare, con una presenza forte anche dell’Europa. Possibile che noi non riusciamo a contare di più? 

Come verrà interpretata dai filosofi fra 100 anni questa epoca segnata dalla pandemia?

Bisognerebbe che la pandemia desse luogo a una maggiore unità internazionale. In questo momento avremmo bisogno di più connessioni, e non solo del mercato mondiale. Possiamo sperare che sia un fattore di unità piuttosto che di separazione. In molti aspetti mi sembra stia già funzionando in questo senso.

Lei è comunista e credente. Come concilia questi due aspetti?

C’è stato un periodo in cui ho frequentato meno la chiesa, soprattutto quando sono stato in Germania perché vivevo nell’ombra di Gadamer e Heidegger. Però non mi sono mai dichiarato ateo e questo mi ha salvato, visto che la fede mi ha ripescato. Infatti, sono un buon credente. 

C’è chi dice che Papa Francesco in fondo sia un po’ comunista.

Alla faccia, come no? è il Papa più comunista che abbiamo mai avuto. Mi ha insegnato a non essere in imbarazzo nel sentirmi cristiano. Lo amo molto e sono preoccupato per gli attacchi che subisce ultimamente che vengono dagli Stati Uniti e da alcuni cardinali che vorrebbero farlo fuori per sostituirlo con un Papa meno progressista.

Dietro Papa Francesco c’è ancora Ratzinger, che nel nuovo libro ha lanciato una bordata verso le nozze gay: «Sono contro le culture dell’umanità». Da omosessuale come l’ha presa?

Il Papa emerito sostiene che sono una schifezza? Be’, Papa Francesco non è che abbia detto “dateci dentro”, ma solo “se ci sono due persone che si vogliono bene sono fatti loro”. A me questo ha fatto molto piacere, mi è sembrato un Papa più aperto alla carità che al dogma. Ho discusso con Ernesto Galli della Loggia, il quale sostiene che Papa Francesco si preoccupa troppo poco della salvezza. Ma la salvezza è nelle cose. Dio dove sta? Nel prossimo! Gli sembrava un massone per il suo umanesimo e mi obiettava che parlasse troppo poco dell’aldilà. Ma nell’aldilà speriamo di arrivarci, prima pensiamo all’aldiquà. 

Non ci pensa mai a come potrebbe essere l’aldilà?

Come diceva Derrida: “L’instant de ma mort”. Siccome sono credente mi aspetto un aldilà tollerabile. Possibilmente in cui prosegua la vita. Uno dei misteri gloriosi del rosario che recito sempre contiene Gesù che sale in cielo e ha un prosieguo. Mi auguro che in qualche modo si continui lo sviluppo dell’umanità, della presenza di Dio attraverso gli altri. Non so di preciso cosa immaginare. Forse sarà possibile professare e attuare le nostre idee, in questo ci spero molto. 

Professore, da come ragiona non mi sembra poi così “rincoglionito” come sostiene qualcuno.

C’è qualcuno che mi ha voluto fare del male attraverso Simone, il mio assistente che si occupa di tutto. Hanno preteso che mi affidassero un amministratore di sostegno. Non sono completamente interdetto, ma devo chiedere a lui per qualsiasi cosa. Spero si tolga dai piedi al più presto. 

Insomma, non si sente circùito dal suo assistente?

Non credo proprio di essere rincoglionito. Alcuni pseudo amici pensando di farmi un “favore” mi hanno nominato questo amministratore di sostegno e mi ha dato fastidio. Fortunatamente un po’ di libertà ce l’ha lasciata. Vedremo come andranno le cose. 

Cosa si sentirebbe di dire al giudice che dovrà decidere sul caso?

Di tenere conto delle perizie e dei dati bancari. Basta guardare la situazione oggettiva. Dal canto mio sono disponibile nuovamente a farmi psicanalizzare. 

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 27 settembre 2021. Non ci sta a passare per colui che ha cercato di plagiare il grande filosofo ideatore del “pensiero debole” per estorcergli beni materiali. La prima udienza si svolgerà il 27 ottobre e Simone Caminada, 38 anni, dovrà rispondere dell’accusa di circonvenzione di incapace nei confronti del professor Gianni Vattimo, 85enne, con il quale vive da dieci anni - ufficialmente nelle vesti di assistente personale - nella splendida casa in centro a Torino. Per capire come mai, nonostante il procedimento giudiziario, condividano ancora lo stesso tetto, siamo andati a trovarli e per la prima volta Caminada ha deciso di parlare: di seguito trovate l’esclusivo video-reportage. Il tutto è partito da un esposto della geriatra Flavia Longo, amica del professore, che ha denunciato la situazione, preoccupata perché il filosofo avrebbe interrotto i rapporti con tanti suoi cari. Da lì sono partite le indagini, gli accertamenti e le intercettazioni e secondo la procura, Caminada dal 2015 avrebbe “indotto Vattimo ad effettuare bonifici sul suo conto corrente per importi superiori di circa 19 mila euro all’ammontare della retribuzione dichiarata da Caminada”. Per l’accusa, come si legge nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, il 38enne induceva inoltre il filosofo “a effettuare spese ingiustificate per quasi 60 mila euro” e avrebbe ottenuto dal filosofo persino “la delega ad operare sulla sua cassetta di sicurezza e almeno su tre conti correnti”, convincendolo inoltre, nel giugno 2017, “a stipulare una polizza assicurativa sulla vita da 415 mila euro di cui il 40% sarebbero a lui spettati”. Tra le accuse anche le presunte pressioni su Vattimo perché nel testamento lo nominasse erede di numerosi beni, tra cui orologi, opere d’arte, quadri, audio registrazioni e altri reperti di valore, tra cui il prezioso taccuino di Fidel Castro. In buona sostanza, si sarebbe approfittato della situazione di «fragilità psichica del filosofo». Per il pm, Caminada, «mediante un attività costante di pressione morale consistita nell’approfittare della generosità di Vattimo, è riuscito ad accedere a tutta una serie di benefici economici». Dal canto suo, il 38enne nell’intervista che ci ha concesso ha smentito ogni addebito. Prima di tutto sottolineando che la perizia psicologica effettuata sul filosofo non avrebbe portato a niente più che a constatare qualche acciacco dovuto alla vecchiaia. E poi ha contrattaccato, accusando chi ha voluto innescare il procedimento giudiziario sostenendo che erano loro a voler mettere le mani sul patrimonio del filosofo, mentre sarebbe stato lui stesso a bloccare una operazione di spartizione del “tesoretto” di Vattimo e per questo si sarebbe attirato le loro accuse.

Il caso del filosofo. Vattimo colpevole di altruismo smisurato: a processo la sua anima. Emiliano Morrone su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Gianni Vattimo è un uomo molto generoso. Ha sempre aiutato persone in difficoltà: ex allievi, extracomunitari, domestiche, badanti e amici fragili con la fissa del denaro e della bella vita. Nell’era dei pregiudizi, verrebbe facile imputargli eccessi interessati, senza scomodare il ddl Zan. Ma il padre del «pensiero debole» pratica e predica la carità verso il prossimo, dà e non vuole. Vattimo ha 85 anni, ha paura della solitudine, manifesta un disperato bisogno di famiglia e da tempo vive nell’ombra: perché l’Italia 2.0 se n’è dimenticata, perché nell’eterno presente digitale non contano molto il pensiero, la cultura, la storia e l’idea dell’emancipazione. Dal 2018 la Procura di Torino è convinta che il filosofo sia incapace e quindi possibile vittima di circonvenzione da parte del suo assistente: Simone Cicero Caminada, trentasettenne di origini brasiliane, scuro di pelle e spirito ribelle con a carico un procedimento a parte, per presunta violenza sessuale nei confronti di una ragazza. Secondo il Pm Giulia Rizzo, Caminada avrebbe influenzato Vattimo in modo da garantirsi entrate, investimenti e l’eredità dell’intellettuale, compresi oggetti ritenuti di valore, come un taccuino di Fidel Castro. La tesi della Procura poggia su una perizia psichiatrica dell’universitario Franco Freilone e sull’analisi dei conti bancari di Vattimo, gestiti dall’accusato per volontà e delega del suo stesso datore di lavoro, con cui condivide spazi domestici e vita quotidiana. Dal canto suo, Caminada, contrattualizzato da un pezzo, ha ricostruito al centesimo i bonifici ricevuti e le spese sostenute da Vattimo, che ha detto di fidarsi in pieno del suo assistente, riconoscendogli un ruolo, una gestione oculata della cassa e il blocco di uscite destinate a confidenti del filosofo e questuanti vari. Vattimo ha replicato, addirittura dimostrato, di non essersi rimbecillito: continua a studiare e pubblicare, anche se la vecchiaia gli gioca brutti scherzi, costringendolo a restare in casa, tra l’altro con i conti bloccati dall’autorità giudiziaria. Il già preside di Filosofia ed ex parlamentare europeo cammina male, è nostalgico, provato. Sa d’aver vissuto tra successi e dolori: la fama internazionale, la carriera accademica e politica, i convegni all’estero, la stima dei Castro e Chavez, la scomparsa prematura dei suoi familiari e compagni, l’affermazione di suoi discepoli: Maurizio Ferraris, Alessandro Baricco, Franca D’Agostini, Diego Fusaro. Talvolta Vattimo, specie dopo la morte Umberto Eco, si abbandona a riflessioni sulla fine dell’esistenza, naturali per l’età, per la consapevolezza della perdita delle forze, dell’impossibilità di tornare indietro, di non poter rimediare alla mancanza di un figlio, se non considerando tale chiunque gli mostri affetto e vicinanza. È il non essere padre il chiodo fisso del professore. Per quanto voglia rifugiarsi nelle sue interpretazioni di Nietzsche e di Heidegger, Vattimo non riesce ad allontanarlo dalla mente, non più alleggerita dall’impegno politico, dall’attualizzazione del «pensiero debole» e dalle tavolate allegre con i suoi diversi “figli adottivi”. Qualcuno di loro ha ricevuto oltre centomila euro dalla vendita di un appartamento del filosofo a Parigi, il resto del ricavato va diviso. Altri sarebbe stato foraggiato a lungo. C’è pure chi ha ottenuto l’intero archivio del pensatore, che egli avrebbe ceduto per dare una mano a tutti i costi, al punto da privarsi di testi, appunti e documenti fondamentali. Ma Vattimo è così, prendere o lasciare. Lo sa benissimo Aldo Cazzullo, per esempio, che in più articoli ne ha colto pregi e difetti, non di rado coincidenti o inscindibili. La debolezza, o la forza, di questo maestro del post-moderno sta nel suo altruismo smisurato, probabilmente frutto del vissuto, che l’ha abituato al distacco totale dai beni materiali, al bisogno di donare anche a costo di rimetterci nel profondo. Vattimo ha confessato di essersi addirittura sposato, da poco è separato, per preservare una parte dei propri averi e trasferirla ad una professionista, figlia della sua compianta amica Mara Di Fabio. «Un fatto amministrativo», così il filosofo aveva definito il suo matrimonio con il medico Martine Tedeschi. Mercoledì 9 giugno Caminada, che da circa 6 anni si prende cura della salute, si è presentato all’udienza preliminare ed è stato rinviato a giudizio. In ogni caso la giustizia penale non potrà entrare nell’animo del filosofo, per cui, peraltro, è stato chiesto l’amministratore di sostegno. In ogni caso, questi manterrà il desiderio, cosciente e sentito, di essere caritatevole ad oltranza, il diritto di libera scelta. Forse aveva ragione il teologo Massimo Naro, che sentenziò: «Vattimo è l’ultimo monaco florense, l’ultimo seguace di quel Gioacchino da Fiore che ispirò la vita povera di Francesco d’Assisi». Emiliano Morrone

Filippo Femia per "la Stampa" il 10 giugno 2021. Quando riceve la notizia, Gianni Vattimo è incredulo: «Quindi alla fine è arrivato il rinvio a giudizio?», domanda al telefono con un filo di voce. La conferma arriva da Simone Caminada, il suo assistente 38enne di origini brasiliane: il 27 ottobre inizierà il processo a suo carico per circonvenzione di incapace. Secondo l'accusa, «avrebbe approfittato della fragilità psichica» e della generosità dell'85enne teorico del pensiero debole «per accedere a una serie di benefici economici». Caminada, secondo la Procura, avrebbe indotto Vattimo a sottoscrivere una polizza vita da 415 mila euro, di cui lui è beneficiario al 40%. In più ci sarebbe un testamento che nomina l'assistente tra gli eredi, «disponendo in suo favore orologi, opere d' arte, quadri» e altri oggetti di valore. «Non so nemmeno come definirla, questa decisione del giudice», commenta il filosofo. «A me sembra una vera sciocchezza. È anche un enorme spreco di tempo».

Professore, nei giorni scorsi, commentando le tesi della Procura, parlava di «persecuzione». Ora è arrivata la decisione del gup.

«Mi sembra che questo accanimento continui. Perché diavolo si dovrebbe celebrare un processo su basi inesistenti? Purtroppo non resta che prenderne atto. Ma si tratta di un errore: anche i giudici commettono sbagli». 

Si aspettava una decisione diversa?

«Certamente, ero convinto che sarebbe arrivata l'archiviazione. Continuo a ricevere messaggi da diversi amici: sono scandalizzati, non si capacitano di questa decisione.

Stiamo vivendo una vicenda grottesca».

Lei è convinto dell'innocenza del suo assistente?

«Senza ombra di dubbio. Non esiste alcuna evidenza che provi la sua colpevolezza. Simone mi ha sempre trattato benissimo, ha un regolare contratto da 1300 euro al mese e ora viene accusato di cose assurde». 

Non c' è stato nessun danno al suo patrimonio, dunque?

«Tutte le spese che ha fatto Simone sono documentate: può dare conto di ogni singolo euro speso. I miei conti in banca sono a posto». 

Le carte della Procura parlano di spese ingiustificate che ammontano a 60 mila euro.

«Ripeto, è tutto documentabile. Sono soldi usati per un intervento chirurgico che ho subìto e per altre spese mediche. In sede processuale non avremo difficoltà a dimostrarlo. Chiameremo tutti i nostri amici a testimoniare». 

Parla al plurale, ma lei non sarà sul banco degli imputati.

«Questa vicenda mi turba, genera grande tensione. E mi preoccupo per Simone: non merita questo trattamento. Che Dio ce la mandi buona». 

Ad accusare Caminada, sostiene lui, sono persone interessate al suo patrimonio. Ci può spiegare?

«In passato ho spesso dato denaro ad amici. Poi Simone ha cercato di limitare queste uscite, inimicandosi quelle persone. Le stesse che adesso lo accusano ingiustamente». 

Le dà fastidio essere dipinto come influenzabile e circuito?

«Nessuna perizia ha mai dimostrato che sia incapace di intendere. Ho 85 anni, qualche acciacco, e la mente non è più brillante come un tempo. Ma non sono affatto rimbecillito. Sto per iniziare a scrivere un libro sulla Chiesa dopo papa Francesco. Continuo ad avere conversazioni con amici in diverse lingue. Se vuole possiamo continuare in inglese, do you want?». 

Lei è una persona fragile psichicamente?

«Mica si può chiedere a un matto se è matto (ride, ndr). Magari in futuro lo faranno, ma finora nessuno mi ha interdetto. Un medico ha deciso che sono a rischio circonvenzione. La possibilità di essere plagiato, però, e l'effettivo fatto di esserlo non sono la stessa cosa». 

«Vattimo si è innamorato di quel ragazzo», ha ipotizzato qualcuno.

«Per carità. Figuriamoci se mi innamoro alla mia età. Per me Simone è un amico, quasi un figlio». 

Secondo la Procura, Caminada, che vive con lei da 10 anni, minacciava di andarsene e lasciarla da solo. È vero?

«Si tratta di una menzogna. Qualche discussione c' è stata, non posso negarlo. Ma Simone non se n' è mai andato né ha minacciato di farlo».

Cosa le dà più fastidio di questa vicenda?

«Le accuse infondate a Simone e il fatto che io non possa disporre liberamente dei miei soldi. E, badi bene, non si tratta del patrimonio di Bill Gates. Ora è in mano a un amministratore di sostegno: dei 10 mila euro di pensione da docente ed eurodeputato ho accesso solo a 4 mila, in due tranche. Due anni fa per andare in vacanza mi sono indebitato: devo 40 mila euro a un amico». 

Ieri in aula il suo assistente ha portato con sé l'ormai celebre taccuino di Fidel Castro, tra i beni che dovrebbe ereditare insieme con opere d' arte e orologi.

«Il povero Fidel hanno tirato in ballo! Forse questa è la parte più grottesca di tutta la vicenda. Quel taccuino ha un valore puramente affettivo, dubito che sul mercato possa valere qualcosa».

Filippo Femia per “la Stampa” il 2 giugno 2021. «È un grande pasticcio, mi sento perseguitato». Gianni Vattimo lo ripete più volte, lanciando una richiesta d' aiuto: «Datemi una mano per fare chiarezza su questa vicenda, liberatemi da questo incubo». Pochi giorni fa l'85enne teorico del pensiero debole era sulle pagine di molti quotidiani per la pubblicazione della sua opera omnia da parte della Nave di Teseo. Lunedì è arrivata la notizia della chiusura delle indagini ai danni del suo assistente Simone Caminada, 38 anni: la procura ne ha chiesto il rinvio a giudizio perché «avrebbe approfittato della fragilità psichica del filosofo per accedere a una serie di benefici economici», come si legge nelle carte firmate dalla pm Giulia Rizzo. Ma Vattimo smentisce categoricamente: «Contro Simone non c'è alcuna prova, spero che tutto venga archiviato al più presto».

Professore, procediamo con ordine. Simone Caminada è ancora il suo assistente?

«Certamente, vive a casa mia. Questo ragazzo mi ha sempre trattato benissimo.

Ha un regolare contratto da 1.300 euro al mese e adesso è accusato ingiustamente di cose assurde».

Secondo la ricostruzione della procura avrebbe approfittato della sua generosità con «un'attività costante di pressione morale».

«Tutte palle. Qualche anno fa è stato nominato un amministratore per i miei beni, ma nessuna perizia ha mai certificato che io fossi un imbecille non in grado di intendere. Da allora non posso disporre liberamente del mio patrimonio: dei 10 mila euro di pensione da docente ed eurodeputato, ho accesso solo a 4 mila, in due tranche. Due anni fa per andare in vacanza a Sauze d' Oulx mi sono indebitato. Devo 40 mila euro a un amico».

Le carte della procura parlano di «spese ingiustificate per 60 mila euro» effettuate da Simone Caminada.

«Ma quali ingiustificate. Simone può dare conto di ogni singolo euro speso. Ricordo quella cifra: dovrebbe riferirsi al pagamento della mia operazione alla prostata».

La procura riferisce anche di una polizza assicurativa sulla vita di 415 mila euro di cui il 40% spetterebbe al suo assistente.

«Esatto, l'ho stipulata io. In totale libertà e trasparenza».

I bonifici contestati dalla Procura «superiori di 19 mila euro alla retribuzione dichiarata da Caminada»?

«Non esiste alcuna prova».

La Procura sostiene che Caminada minacciava di andarsene di casa e di lasciarla da solo. È vero?

«Non è mai successo. Qualche litigio c'è stato, non posso negarlo. Ma Simone non se n'è mai andato. Il problema è un altro».

Quale?

«Spesso davo denaro a persone vicine, che credevo amici. Simone cercava di limitare queste uscite, inimicandosi quelle persone. Le stesse che ora lo accusano e che hanno chiesto al tribunale di nominare un amministratore di sostegno. Io mi sento perseguitato».

Lei avrebbe nominato Caminada, sempre dopo sue pressioni per i pm, erede di «opere d' arte e beni di valore».

«Le uniche opere d' arte che ho in casa sono prove d' artista di Giulio Paolini: non credo che quei dipinti abbiano un grande valore di mercato».

E il taccuino di Fidel Castro, destinato anche quello al suo assistente?

«Me lo regalò il Líder Maximo: aveva scarabocchiato alcuni disegni durante un'intervista e glielo chiesi. Ha un valore affettivo, ma credo che difficilmente qualcuno lo comprerebbe».

Nessuna pressione di Caminada, dunque?

«Mai. Mi ha sempre aiutato e non è un pericolo per il mio patrimonio: tutti i miei conti bancari sono a posto. Spero che questo pasticcio si risolva in fretta».

·        Giuseppe Provenzano.

Tutti i disastri di Giuseppe Provenzano. Susanna Turco su L'Espresso il 03 agosto 2021. Il giovane vicesegretario del Pd, già ministro del Sud nel Conte Due, s’è svelato a sorpresa come un enigma. E anche nei salotti della sinistra lo si comincia a guardare con delusione. Quando ha saputo che nel Pd c’era chi l’aveva definito «aspirante capocorrente» è saltato sulla sedia protestando, fra l’altro, di avere «ben altre ambizioni» che non guidare una corrente, quale miseria. Così adesso c’è chi, sempre nel campo dem, è passato a supporre che Peppe Provenzano, vice segretario del Pd, già ministro del Sud nel governo Conte due, aspiri direttamente alla segreteria del partito democratico oggi retto da Enrico Letta. E volendo - a essere malevoli, ma si sa che il Pd è peggio di un covo di vipere - si può prendere come indizio il fatto che aspiri, di certo, anche lui, a un «nuovo partito democratico», come ha spiegato l’altro giorno alla festa di Articolo Uno, chiarendo che è ora di riunificare la sinistra che da Renzi si scisse, perché «forse le ragioni di quella divisione sono venute in parte meno», ed è ora di costruire, invece, «un messaggio nuovo di un campo nuovo» (sarebbe questo, lo diciamo per gli appassionati, il punto di caduta delle abbastanza misteriose Agorà democratiche volute da Letta). Di certo come elemento comune che lo circonfonde vi è appunto questo: l’aspirazione, del resto legittima. Provenzano aspira, e come dargli torto. L’ha colto persino Dagospia che a inizio luglio, in uno dei suoi flash intitolati «grandi manovre» (pubblicati di norma per sgambettare, più che per esaltare), esplicitava un’altra sua aspirazione: quella a correre come governatore della Sicilia al prossimo turno elettorale. Raccontandola come cosa fatta, proprio nei giorni di massimo scontro attorno al nuovo capo dei 5 Stelle, figurarsi: «Letta e Conte hannno già le idee chiare sul candidato presidente. Sarà Provenzano, che metterebbe d’accordo anche i partiti di centro». Il veleno come sempre sta nei dettagli, giacché Provenzano - che un tempo, da portaborse dell’assessore regionale Luca Bianchi, quota Bersani, fece il giro dei poteri forti dell’Isola per accreditarsi come lo studioso del futuro - è l’alfiere degli accordi con la sinistra, della riunificazione appunto, la quintessenza del partito larghissimo grillini compresi, per altri versi il volto della subalternità ai 5 Stelle (copyright l’europarlamentare franceschiana Pina Picierno). Direttamente dalla natìa sicilia (è di Milena, provincia di Caltanissetta), capibastone del Pd di vecchio conio con tipico fare da prima Repubblica, facendo notare che i politici teoretici stile Provenzano li chiamano «sucainchiostro», si chiedono tuttavia: «E chi lo vota?». È questa, va detto, la principale obiezione che si fa - da nord a sud, giovani e vecchi - a uno dei volti più nuovi e più in ascesa del Pd, benissimo inserito nel mondo che conta, mai in effetti misuratosi con le urne e con la fatica volgare di cercarsi i voti. La candidatura anzi astutamente la respinse, da orlandiano, nel 2018, in polemica coi metodi dell’allora segretario Matteo Renzi, che aveva inserito il suo nome al secondo posto dopo Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Salvatore (poi vincitrice con il proporzionale). Il più giovane e il più immacolato volto che Nicola Zingaretti portò nel 2019 nel governo giallo-rosa, s’è svelato adesso però a sorpresa come un enigma - per il quale anche nei salotti-tempio della sinistra lo si comincia a guardare col sopracciglio alzato della delusione. Trentanove anni appena compiuti, figlio di un fabbro e di una maestra, laureato e dottorato al Sant’Anna di Pisa, vicedirettore dello Svimez, prediletto da una divinità del Pci migliorista come Emanuele Macaluso, in questi mesi da vice di Letta Provenzano è infatti riuscito misteriosamente a doppiare le perplessità che già l’avevano circondato per il suo operato un po’ deboluccio di ministro. Agguantando, ora, l’ultraterreno obiettivo (addirittura) di riunificare mondi che fra loro non si parlano, spesso nemmeno si conoscono, e che tuttavia su una cosa sono d’accordo: su Provenzano. Dove è passato lui, un disastro che nemmeno Attila re degli Unni. Sul punto, unanimità formidabile, tanto che renzianamente lo si potrebbe ribattezzare: vicedisastro. C’è come è noto il suo contributo nel ritiro dalla corsa in Calabria del dem designato Nicola Irto, che ha precipitato il Pd locale nel delirio e generato quasi due mesi di telenovela - gestiti a quel punto non più da Provenzano, prudentemente allontanato, ma direttamente dal responsabile enti locali Francesco Boccia; meno noto è il caos generato ad esempio in provincia di Avellino, dove la mano di Provenzano ha di fatto mandato all’aria un percorso lungo mesi per arrivare a una pacificazione interna tra i dem locali. Una situazione «paradossale e inspiegabile», ha detto la deluchiana, Rosa D’Amelio, sul Mattino, puntando il dito sul «Nazareno» e in specie proprio su Provenzano, che avrebbe «svolto un ruolo negativo»: «Quando era ministro ha già avuto atteggiamenti criticabili in occasione di una sua tappa in Irpinia, dimostrando scarso rispetto per il partito locale e per le rappresentazioni istituzionali. Su di lui ho maturato un giudizio pessimo, sotto il profilo politico». Ecco, giudizi altrettanto lusinghieri vanno collezionandosi, non solo al sud, ma anche al nord, tra Torino e la provincia veneta. E persino a Bologna, dove nonostante i sorrisi il suo apporto non è considerato scintillante. Così come al sud, nella sua Sicilia, dove appunto già si ricorda l’azione non particolarmente incisiva svolta come ministro. Pronto ad assicurare il suo intervento, ad esempio quando si trattava di garantire la prosecuzione della sospensione dei versamenti tributari, ma altrettanto incline a scaricare poi la problematica sui gruppi parlamentari dem, piuttosto che caricarsela come ministro. All’attività sul campo politico fa poi da correlato quella della convegnistica e dei social. Qui a giugno, in quindici giorni, Provenzano è ad esempio riuscito da un lato ad annunciare, durante una iniziativa organizzata da Gianni Cuperlo, la fine del capitalismo (il Foglio, che già lo chiamava «vicesegretario in quota Althusser», è passato a chiamarlo «corrente Mao»); dall’altro, ad armare via twitter lo scontro all’arma bianca contro gli economisti «ultras liberisti» Riccardo Puglisi e Carlo Stagnaro e contro Palazzo Chigi che li aveva chiamati come consulenti. «Ma aggiornare, se non le letture, le rubriche di alcuni consiglieri a Chigi?», ha scritto su twitter, come uscendo da se stesso e sdoppiandosi. Come se cioè lui stesso non fosse intrecciato mani piedi e nomine e agendine con Palazzo Chigi e gli altri centri di potere dem-istituzionali. Chi lo conosce da prima di tutto ciò, sostiene che il suo errore campale sia stato passare direttamente dallo Svimez al ministero. Perché un conto è lo Svimez, un conto è il mondo reale. Un conto i centri di ricerca, un altro i partiti. E senza la dovuta “gradualità”, dicono, «nove volte su dieci le grandi promesse finiscono come nei talent, dove, visto che l’obiettivo è appunto lo show, tutto viene consumato in nove puntate». Mao non voglia.   

·        Massimo D'Alema.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. «Il futuro della democrazia italiana è incerto».

Massimo D’Alema, non le piace Draghi?

«Draghi sta facendo un ottimo lavoro. Sono fiducioso che si potranno conseguire i risultati auspicati. Rivolgo lo sguardo oltre l’emergenza; quando torneremo a votare e ad avere un governo espressione del voto popolare. Sento dire: qualsiasi sia l’esito, dovremo avere sempre Draghi. Esagerazioni che non sono utili, neanche a Draghi». 

I sondaggi dicono che la maggioranza degli italiani potrebbe votare a destra.

«Questo lo vedremo. A me preoccupa innanzitutto la prospettiva del sistema democratico. È sbagliato considerare il voto popolare come una minaccia. Penso che in questo stato d’eccezione una delle riforme debba riguardare proprio il sistema politico. Va ricostruito. Compresi i partiti». 

Ricostruire. Ma come?

«Il sistema non funziona. Produce ammucchiate elettorali che si scontrano in modo violento; perché una campagna in cui chi ha un voto in più controlla il Parlamento è drammatica. Non è vero che chi vince governa il Paese. Da quindici anni si fanno governi che con il voto non c’entrano nulla». 

Quale riforma vorrebbe?

«Adotterei il sistema tedesco: il proporzionale con sbarramento al 5%; la sfiducia costruttiva, che limita l’instabilità che il proporzionale può portare; il finanziamento della politica».

L’elettorato sarà entusiasta.

«Mi rendo conto di dire cose impopolari. Però, utili al Paese. In Germania si finanziano non i partiti, ma le loro fondazioni culturali, dove si forma la futura classe dirigente. Siamo in un dopoguerra; la ricostruzione passa anche attraverso i partiti. Se, invece, si pensa che il rapporto tra cittadini e istituzioni debba essere affidato a singole personalità, allora si abbia il coraggio di andare fino in fondo con il presidenzialismo; con tutti i controlli e i contrappesi necessari». 

Quasi trent’anni fa gli italiani scelsero il maggioritario, e lei era d’accordo.

«Ed è stato giusto. Si apriva una fase nuova, serviva un ricambio. Fu fatta una buona legge, che porta il nome di Mattarella. Oggi abbiamo una legge pessima. La destra fa muro contro i collegi uninominali, dobbiamo prendere atto della realtà. Il degrado del maggioritario ha avuto effetti disastrosi. Un Parlamento senza alcun rapporto con gli elettori». 

La soluzione è davvero il proporzionale, magari con le preferenze?

«Nel sistema tedesco ci sono i collegi. L’importante è che il cittadino scelga da chi vuole essere rappresentato. Oggi gli eletti non vanno sul territorio, perché si guadagnano la carica nell’ufficio o nell’anticamera del capo partito. Siamo a livelli di trasformismo mai raggiunti nella storia. Basta. È un’emergenza dal punto di vista della tenuta democratica».

Chi andrà al Quirinale?

«Una figura di garanzia. Va scelta una persona che non abbia una caratterizzazione di parte. Sarebbe utile al sistema democratico se in questa ricerca ci si orientasse verso una personalità femminile, in questo senso, non si può sottovalutare la ricchezza presente nella politica, nella cultura e nelle professioni». 

Una donna. Quindi niente Draghi?

«Il Paese ha bisogno che Draghi continui a governare. Dal Quirinale non si governa, si svolge un ruolo di garanzia. Stiamo attenti, già abbiamo inventato che i cittadini eleggevano il capo del governo. Non era vero. Non vorrei che ora inventassimo un semipresidenzialismo di fatto. Con la costituzione non si scherza, altrimenti si logora il sistema democratico». 

Draghi deve restare a Palazzo Chigi?

«Siamo a metà del guado, in un momento delicatissimo. Il Pnrr deve essere utilizzato per gettare le basi di una crescita duratura. L’Ue ci impone tempi incalzanti. E noi buttiamo tutto per aria e andiamo al voto anticipato? La destra ha un disegno: eleggiamo Draghi, paghiamo il nostro prezzo, ci legittimiamo in Europa, poi si va alle urne con questa legge e prendiamo il governo. Un disegno non positivo per il Paese». 

Ma la destra al Quirinale non vuole Berlusconi?

«Mi pare che, ormai, non ci pensi nemmeno lui».

Perché non sarebbe possibile?

«Perché Berlusconi è un leader di parte. Quando nel 2006 si fece il mio nome, fu proprio lui a dirmi che non poteva votarmi, perché ero un avversario politico. Aveva ragione». 

Il futuro della sinistra è con i 5 Stelle?

«Se oggi abbiamo la crescita, è per il modo in cui abbiamo affrontato la pandemia. Prima con Conte, poi in continuità con Draghi. Il ministro Speranza, il cui rigore ha reso possibile la ripresa, ha ricevuto attacchi gravissimi per aver difeso la salute degli italiani. Anche Conte subisce un linciaggio da parte di larga parte dell’informazione. Eppure ha svolto e svolge un compito positivo: portare un movimento di protesta alla sfida di governo e all’alleanza con la sinistra». 

Voi di Articolo Uno tornerete nel Pd?

«Si è aperto un dialogo. Apprezzo il lavoro di Letta per aprire e rinnovare il Pd. Sono un militante di base, farò quello che deciderà il compagno Speranza…».

Non mi prenda in giro.

«Bisogna ricostruire il partito democratico nel suo rapporto con il Paese. Il Pd è figlio di una stagione in cui si teorizzava che le ideologie erano finite, e servivano partiti aperti, senza strutture. Tutte queste idee erano sbagliate. Nello stesso tempo, la destra prendeva forza perché, al contrario, era ideologica e strutturata». 

Ma anche lei ha sostenuto la nascita del Partito democratico.

«C’è stato un momento in cui si scongelava la guerra fredda, era giusto liberarsi di un certo bagaglio ideologico. Ma quando il Pd è nato, tra il 2007 e il 2008, la fase dell’ottimismo sul mondo globale era già finita; cominciava la grande crisi, in cui si perdono certezze, prevale la paura. Oggi c’è una minoranza che vede la globalizzazione come opportunità, e che vota a sinistra. Ma c’è una maggioranza che vive il presente con un senso di timore. Nel mondo la destra vince perché manda forti messaggi ideologici di appartenenza, di identità, di riaffermazione delle radici etniche e religiose».

E la sinistra?

«La sinistra deve tornare ad avere un messaggio ideale, anzi direi proprio ideologico: il riscatto sociale. L’eguaglianza. Un mito progressista, da contrapporre a quello regressivo della terra e del sangue. Guardi quant’è forte la destra in America…». 

Biden non la convince?

«È suggestivo il messaggio neo-rooseveltiano incentrato sugli investimenti pubblici; che però è in contraddizione con il clima di guerra fredda instaurato verso la Cina. Un clima che può favorire il ritorno della destra a Washington». 

La Cina non sta facendo molto per evitare una nuova guerra fredda.

«Cinque anni fa, la Cina era molto più aperta. Ora si sta chiudendo. Si sente vittima di una controffensiva che colpisce i suoi interessi; e una grande potenza che si sente aggredita reagisce con una chiusura nazionalista. Anche dal punto di vista della violazione dei diritti umani stiamo ottenendo un risultato opposto». 

C’è stato il G20 a Roma.

«È stato molto ben condotto, ma dai risultati modesti. Il G20 era nato per avere al tavolo anche i cinesi e i russi; se non vengono, diventa un G7 allargato. Se da una parte cresce il boicottaggio verso le imprese cinesi e il tentativo di isolare la Cina anche militarmente con l’accordo Aukus sui sommergibili nucleari, dall’altra parte mi sembra difficile ottenere cooperazione sull’Afghanistan o un accordo sul clima. 

Non è così che funziona. Scelte difficili, come azzerare le emissioni per un Paese in piena crescita industriale, si possono avere solo in un quadro di collaborazione. Che ora non c’è. Quale interesse può avere l’Europa a spingere Cina e Russia a coalizzarsi contro l’occidente?». 

Dalla Dc a Berlinguer fino a Berlusconi, la Cina e la linea soft dei politici italiani. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 17 giugno 2021. Al netto degli exploit di Grillo e delle intemerate di Massimo D'Alema, tutta la Prima Repubblica e buona parte della Seconda ha avuto un atteggiamento morbido rispetto al gigante asiatico. Nel 1954, durante il suo primo viaggio, il futuro ministro degli Esteri Pietro Nenni si sentì chiedere da Mao se era vero che Mussolini era stato socialista. A Nenni piacque molto la Cina anche se, come rivelò maliziosamente Pertini, "faceva assaggiare dalla moglie i cibi prima di provarli". Il dettaglio non è ovviamente risolutivo. Ma certo alcuni anni dopo Nenni si spese molto per il riconoscimento della Cina da parte dell'Onu.

Mattia Feltri per "La Stampa" il 17 giugno 2021. Massimo D'Alema ha recapitato un video a New China Tv nella fausta circostanza dei cento anni del Partito comunista cinese a cui si devono, secondo la complessa contabilità degli storici, fra i quaranta e gli ottanta milioni di morti soltanto nella stagione del comando di Mao. Il comunismo ha fatto uscire ottocento milioni di persone dalla povertà, ha detto D'Alema col medesimo approccio costi-benefici di chi ricorda il miracolo economico di Hitler, che ereditò la Germania di Weimar sfiancata da disoccupazione e inflazione e ne fece una potenza. Mai nessun paese nella storia dell'umanità è riuscito in una tale impresa, ha aggiunto D' Alema (parlando della Cina, non della Germania) forse sedotto dall'attuale corso capitalistico del comunismo, cioè soldi e tirannia, a occhio e croce il più affine al nostro ex premier, che non per niente intrattiene felici rapporti d' affari con Pechino. Dei molti passaggi, sublime fra i sublimi è quello in cui D'Alema si rallegra di quanto fatto dalla Cina per l'ambiente (sarebbe delizioso se si riferisse a Mao quando insegnava che i cadaveri dei borghesi sono ottimi nella concimazione dei campi). Sono molto comprensivo verso l'indignazione permanente per i nostalgici del fascismo e verso la fascinazione irresistibile per i nostalgici del comunismo: da noi il fascismo ha messo in piedi una dittatura, il comunismo un'opposizione consociativa e per cui sì, mi sembra un'ovvietà insignificante e vagamente cretina quella di chi sostiene che il fascismo ha fatto anche qualcosa di buono. Volete mettere la creatività di D'Alema, secondo cui il comunismo non ha fatto niente di male? 

La Cina rispolvera D'Alema per celebrare il comunismo. Daniele Dell'Orco il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex premier, proprio mentre Mario Draghi rafforza l'alleanza con gli Stati Uniti, viene intervistato dalla tv cinese in occasione dei 100 anni del Partito comunista. È team Cina contro team Usa. L'Italia si conferma tra i due fuochi anche dal punto di vista politico e intellettuale. C'è un'anima fortemente atlantista, quella capeggiata da Mario Draghi e uscita rafforzata dal G7 in Cornovaglia, e quella giallorossa che, sulla scia dell'ambiguità del governo Conte II, continua con gli ammiccamenti nei confronti di Pechino. Draghi, forte di una intesa praticamente totale con la nuova amministrazione Biden, ha detto che l'obiettivo dell'alleanza atlantica sarà quello di "affrontare tutti coloro che non condividono i nostri stessi valori e il nostro attaccamento all'ordine internazionale basato sulle regole" e che sono "una minaccia per le nostre democrazie". In più, ha intenzione di rimettere mano al memorandum con cui l'Italia ha aderito alla Via della Seta nel 2019, quando tra i vertici del Movimento 5 Stelle e il regime di Xi Jinping l'intesa era fortissima. Il Ministro degli Esteri che firmò il memorandum è lo stesso di adesso, Luigi Di Maio, che sembra essersi "riconvertito" in chiave filo-occidentale, approccio indispensabile per mantenere la poltrona anche con Draghi. A fatica, però, il premier è riuscito a costringere Giuseppe Conte a rinunciare alla visita organizzata da Beppe Grillo all'ambasciatore cinese a Roma. Segno evidente che l'estro grillino pro-Dragone disturba non poco Palazzo Chigi. Dalla Cina, allora, hanno deciso di rispolverare i pezzi da novanta nostrani. Per celebrare la "gloria" del comunismo cinese, che quest'anno festeggia cento anni, New China Tv ha intervistato Massimo D'Alema, che ha scelto il momento meno adatto della storia recente per elogiare gli "straordinari" progressi compiuti dal Paese. L'intervista, rilanciata su Twitter dalla portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, mostra l'ex premier proteso verso il sogno di una "collaborazione" tra Oriente e Occidente. Un sogno da marziani, viste le conclusioni del G7. Ma pur di non abbandonare la propria vocazione comunista, D'Alema continua a fare ciò che gli riesce meglio: vivere distaccato dalla realtà. Subito dopo aver rievocato la sua visita a Pechino nel 1978, al tempo in cui era segretario dei giovani comunisti italiani, il proletario col panfilo ha elogiato "lo straordinario salto verso la modernità e il progresso" compiuto dalla Cina, che ha "fatto uscire almeno 800 milioni di persone dalla povertà. È un risultato straordinario. Mai nessun Paese nella storia dell'umanità - sostiene - è riuscito a realizzare una così immensa trasformazione della vita delle persone". Insomma, dichiarazioni pregne di una retorica simile a quella mostrata da Matteo Renzi al cospetto del principe saudita Bin Salman. I politici di sinistra, piccoli tra i grandi, non si smentiscono. Come non smentiscono la tendenza a mistificare la realtà. Renzi parlava di "Rinascimento" ospite di un Paese che non rispetta i diritti umani più basilari, D'Alema parla di una "forte collaborazione internazionale" con la Cina per risolvere problemi come la ripresa economica e i cambiamenti climatici. Problemi, cioè, per lo più creati dalla Cina stessa, tra i Paesi più inquinanti al mondo e allo stesso tempo capace di distruggere un intero mercato del lavoro a livello globale con aziende che operano in regime di semi-schiavitù, con prodotti di livello spazzatura che invadono i nostri mercati e con l'arte del plagio che crea seri problemi di concorrenza sleale per le eccellenze occidentali. Ma siccome per D'Alema è già tempo di vacanze, avrà modo di rifletterci meglio sul suo 18 metri.

Daniele Dell'Orco. Daniele Dell’Orco è nato ad Alatri nel 1989. Giornalista pubblicista, è laureato in Scienze della comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Ha conseguito il Master in giornalismo Eidos e ha perfezionato gli studi presso la Cuny University di New York. Ha diretto la rivista trimestrale cartacea Nazione Futura.

Maurizio Tortorella per "La Verità" il 17 giugno 2021. I filocinesi d'Italia? Sono tanti e potenti, e stanno tutti venendo fuori. Dopo tre anni in cui i due governi a maggioranza grillina guidati da Giuseppe Conte hanno stretto una rete di legami tra Roma e Pechino, ora il governo di Mario Draghi cerca d'imporre un'inversione di marcia. Draghi spinge per riportare il Paese in una collocazione più lontana dal regime di Pechino, schierandolo in quel fronte occidentale che vede l'aggressività della Cina come minaccia per la libertà globale. Come insegna la fisica, però, ogni spinta provoca controspinte. Così la pressione di Draghi ha costretto gli amici di Xi Jinping a esporsi, e se ne sono schierati alcuni di peso. Il primo è stato Beppe Grillo, che con la sua verve da provocatore è corso a far la riverenza all'ambasciatore cinese Li Junhua proprio mentre il G7 era al culmine, e poi ha usato il suo blog per negare la pulizia etnica che da anni Pechino conduce contro la minoranza islamica di 10 milioni di Uiguri, e per criticare la «propaganda atlantista» che lancia sospetti più che ragionevoli sui laboratori cinesi come origine della pandemia di Covid. Nelle stesse ore, Massimo D'Alema s'è fatto intervistare da New China Tv ed è riuscito nell'impresa di appuntare al petto del dittatore Xi Jinping - e dei suoi predecessori fino a Mao Zedong - un'improbabile medaglia umanitaria: «Credo che la cosa più importante che la Cina è riuscita a fare è togliere almeno 800 milioni di persone dalla povertà». Questo ha dichiarato l'ex presidente del Consiglio, nonché primo premier postcomunista d'Italia, dimenticando milioni di oppositori morti o reclusi nei campi di concentramento cinesi, e tutti gli altri orrori di uno dei più sanguinari totalitarismi della storia. Poi D'Alema ha aggiunto, ammirato: «Nessuno nella storia dell'umanità era riuscito a realizzare una così immensa trasformazione». Si parla di trasformazioni (meglio, di trasformismo) ed ecco viene in mente un altro grande filocinese: e cioè Conte, l'ex presidente del Consiglio che nella primavera 2019 per primo in Europa ha messo la firma sotto i protocolli con cui Xi Jinping spinge per la creazione di un ponte infrastrutturale tra Pechino e il Vecchio Continente. Il giorno in cui Grillo è andato a fare la riverenza all'ambasciatore cinese, Conte doveva essere con lui, ma aveva percepito il rischio di una polemica e s'era tirato indietro. Resta il fatto che per tutto il 2020, sotto Conte, Palazzo Chigi ha celebrato un'ininterrotta apoteosi della Cina come salvifico fornitore di mascherine e di respiratori. Peccato sia scoperto che le mascherine made in China erano per metà farlocche e che i respiratori, di cui guarda caso proprio D'Alema aveva spinto l'acquisto attraverso l'amico supercommissario Domenico Arcuri, non funzionassero. Sono questi i grandi filocinesi di oggi. Cui si aggiunge qualche esponente nei media, come Marco Travaglio che giorni fa, per difendere Grillo, ha scritto che «basta leggere i numeri dell'economia per capire che l'Italia può fare a meno più degli Stati Uniti che dalla Cina». Di certo non è il solo giornalista ad aver scoperto inclinazioni filopechinesi, se si pensa alla quantità di accordi siglati due anni fa tra Cina e Italia nella tv e nella carta stampata sotto l'attenta regia di Vito Crimi, allora sottosegretario grillino alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria: nell'elenco c'erano l'Ansa, l'Agi, il Sole 24 Ore, la Rai. Certo, dietro e prima di tutto questo c'è una lunga marcia, più lunga ancora di quella del compagno Mao. Una marcia iniziata poco prima del 2000, quando Romano Prodi stava per concludere la sua missione da presidente dell'Ue. È da allora che Prodi dice che Pechino abbia realizzato «un comunismo sui generis in cui conta la meritocrazia», ed evidentemente è un modello che gli piace. Per questo può dirsi l'alfiere della via italiana alla Cina o, per chi la vede nell'altro modo, dell'invasione cinese dell'Italia. Prodi ha lavorato per quell' obiettivo anche da capo dei governi dell'Ulivo, ed è questa forse la sola cosa (con l'antiberlusconismo) che lo vede d'accordo con D'Alema. Ancora un anno fa, del resto, era Prodi a premere perché il governo Conte accelerasse sugli accordi con la Cina per il 5G, la tecnologia per le telecomunicazioni che oggi si teme sia il «cavallo di Troia» tecnologico con cui colossi come Huawei potrebbero regalare una messe di dati strategici al governo di Pechino. Anni fa era stato l'ex ministro prodiano dei Lavori pubblici Paolo Costa, nonché ex presidente dell'Autorità portuale di Venezia, ad aprire i porti italiani all'occupazione cinese. A spendersi per le intese con la Cina sulla Via della seta, nel 2019, è stato un altro filocinese di peso: l'economista Michele Geraci, allora sottosegretario allo Sviluppo economico per la Lega, ma che il capo dello Stato Sergio Mattarella nel 2015 aveva nominato Cavaliere dell'Ordine della stella d'Italia per le sue attività tese a creare un «ponte culturale» verso la Cina. Due anni fa è stato Geraci ad adoperarsi per la strana visita di Xi Jinping a a Palermo, la città di Mattarella, che a sua volta ha accolto il presidente cinese al Quirinale con una cerimonia dei corazzieri a cavallo, solennità che non aveva riservato ad esempio a Donald Trump. La stessa deferenza filocinese ha mostrato fin dall'inizio del suo pontificato papa Francesco. Nel 2020 il suo Vaticano ha rinnovato un accordo che ha dato al Partito comunista cinese il diritto di nominare il capo della Chiesa nella Repubblica popolare. A nulla sono servite le proteste di Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, il quale un anno fa prediceva che l'accordo avrebbe «ucciso la Chiesa in Cina». Da allora, gli arresti di religiosi sono continui. In maggio un vescovo, sette sacerdoti e dieci seminaristi sono stati fermati e costretti alla «rieducazione politica». La Chiesa non ha detto una parola. Da questo punto di vista, forse il filocinese più potente d'Italia sta in Vaticano e si chiama Jorge Bergoglio.

Tommaso Labate per "7 – Sette" - corriere.it il 27 maggio 2021. Questa intervista di Tommaso Labate a Massimo D’Alema sarà pubblicata nel numero 22 di «7», con il quale il magazine del Corriere della Sera si presenta in edicola — venerdì 28 maggio — in una veste grafica totalmente rinnovata e con nuove inchieste, servizi e rubriche. La anticipiamo per i lettori di Corriere.it, dandovi appuntamento per scoprire il nuovo 7 in edicola domani. Buona lettura

«Forse è stata colpa mia», dice a un certo punto Massimo D’Alema quando l’intervista arriva al tasto più dolente, e cioè a quella grande distanza tra il come D’Alema dice di essere e il come lo vedono gli altri, tra l’immagine riflessa allo specchio e quel gigantesco percepito di una parte dell’opinione pubblica che in mille momenti del suo mezzo secolo in politica – presidente della Federazione dei Giovani Comunisti, direttore dell’Unità, segretario e poi presidente dei Democratici di Sinistra, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri – l’ha messo su un banco degli imputati o chiamato in correità. Le ultime, di chiamate in correità, arrivano a riguardare persino presunti interessi in traffici di ventilatori cinesi durante pandemia («Ho tutto documentato, legga qui: i ventilatori funzionavano e il nostro governo li ha pagati anche poco») e la retribuzione da presidente della Fondazione dei socialisti europei («Sono vittima di un attacco meschino»). Scompare anche il «forse» della prima frase, quando l’intervista è finita. «È stata colpa mia. O anche mia. Non mi sono mai preoccupato troppo della mia popolarità e in questo ho sbagliato. L’aver lasciato che venisse veicolata un’immagine così sbagliata della mia persona, arricchita spesso da menzogne, è stata una colpa. Snobismo, noncuranza, in certi casi sottovalutazione. Sono colpe». Non ci si arriva subito, a quest’ammissione. La prima chiave che scardina la barriera che D’Alema mette tra sé e il taccuino del giornalista è José Mourinho. Il prossimo allenatore della sua squadra del cuore.

È felice dell’arrivo di Mourinho?

«Sono contento. Per due ragioni. La prima è che per un ambiente come quello della Roma servono un carattere forte e una personalità spiccata. Mourinho le ha entrambe. Come le avevano, in modo diverso, anche Nils Liedholm e Fabio Capello, che infatti hanno vinto lo scudetto. La seconda è che questa proprietà americana (i Friedkin, ndr) ha dimostrato di voler puntare in alto. Non era scontato».

Di Mourinho i detrattori dicono le stesse cose che i suoi detrattori dicono di lei. La prima: è antipatico.

«Capita a volte che siano i “fresconi” a definire antipatici quelli più intelligenti».

La seconda: è una vecchia gloria che da un certo punto in poi ha collezionato solo sconfitte.

«I combattenti possono vincere o perdere. Solo gli ignavi non perdono mai».

La storia di questi cinquemila euro netti al mese per un lavoro in esclusiva che svolgeva da presidente della Fondazione dei socialisti europei, contestati dall’attuale vertice, l’ha fatta imbufalire.

«Si sbaglia. Non sono arrabbiato. Sono dispiaciuto e amareggiato da questa iniziativa folle. La meschinità umana non provoca arrabbiature. Provoca amarezza e dispiaceri. Sa, le ho provate tante volte queste sensazioni. Faccio politica da cinquant’anni: se anche solo il dieci percento delle accuse che mi hanno rivolto si fosse rivelato fondato, a quest’ora sarei all’ergastolo. Secondo una vecchia barzelletta che si raccontava in Unione Sovietica, uno che non ha fatto nulla merita una pena di massimo cinque anni. A me è andata anche meglio che al tipo della barzelletta: non solo sono incensurato ma ho anche vinto tantissime cause per diffamazione».

Guardandosi indietro, qual è stata la scelta che le ha messo più paura?

«La guerra».

L’intervento in Kosovo?

«Sì, scelta fatta da presidente del Consiglio. L’ho vissuta con grande angoscia, anche personale. Di quelle angosce che ti impediscono di prendere sonno la notte. Sono stato pieno di dubbi, fino al giorno prima».

Si è mai pentito?

«Dopo? Mai. Quella guerra pose fine a dieci anni di guerra civile nella ex Jugoslavia, fu la pietra su un genocidio, su atrocità indicibili. Quella guerra fu la fine di una guerra, non l’inizio».

Si è mai chiesto il perché della sua antipatia, diciamo così, percepita?

«Diciamo che ci ho messo del mio. Di fronte a una battuta sarcastica non ho mai resistito. E la gente non ama particolarmente l’essere oggetto di battute. Va anche precisato che tanti di quelli che pensavano fossi antipatico, conoscendomi personalmente, hanno poi cambiato idea. Non tutti. Ma tanti».

Le capita di piangere?

«Sì. Non spesso. Però mi capita. Ora non saprei quantificarle il numero di volte che è successo negli ultimi anni ma è capitato. Con l’avanzare dell’età succede più di frequente. Ma questo credo che lei possa immaginarlo, è abbastanza comune».

Certo che sì.

«Forse però ho sbagliato a dirlo. Non vorrei che si facesse l’idea che piango più volte di quelle che in realtà piango davvero».

Ci sono politici che non trattengono le lacrime. Se lo ricorda Berlusconi di fronte ai profughi albanesi, no?

«Le racconto questa cosa. Alla fine degli Anni Novanta, c’erano due bambine che erano state rapite dal loro padre naturale, portate a Tripoli e poi sottratte di nuovo alle loro mamme, che avevano avviato una disperata e coraggiosa campagna per riaverle. Le due donne avevano ottenuto l’affidamento ma non avevano il permesso per tornare in Italia. Una storia drammatica».

E poi?

«Durante una visita di Stato in Libia chiedo a Gheddafi di liberarle e di consentire che tornassero con me. Può immaginare quanti miei colleghi sarebbero scesi dalla scaletta dell’aereo tenendo per mano le due bambine di fronte a fotografi e telecamere. Sono quelli che normalmente i giornali considerano simpatici».

E invece che cosa successe?

«Una delle due donne però non voleva essere ripresa: feci atterrare l’aereo a un lato della pista e arrivare una macchina con i vetri oscurati che prelevò le donne e le figlie senza che venissero viste dai fotografi. Io scesi da solo. È sempre stata una questione di pudore. Pudore per i miei sentimenti, certo; ma anche per quelli degli altri. Mi sono preoccupato più di questo che non della mia popolarità».

Per le bambine liberate non la ricorda nessuno. Per le scarpe fatte a mano che valevano milioni di lire sì.

«Guardi queste scarpe (D’Alema mostra le scarpe con un marchio molto visibile, ndr). Questo è il tipo di scarpe che uso, belle comode. Costeranno, che ne so, centocinquanta/duecento euro? Mia figlia lavora presso l’azienda che le produce, le ho prese col suo sconto dipendenti».

La storia di quelle artigianali che indossava negli Anni Novanta le è rimasta appiccicata come un chewing-gum. La gente se la ricorda ancora. L’ex comunista con le scarpe fatte a mano.

«Me le aveva regalate un artigiano calabrese, di tasca mia non le avrei mai comprate. Una sera vado a cena a casa di Alfredo Reichlin e il suo cane, decisamente malmostoso, le mordeva. Dissi ad alta voce a Reichlin di richiamare all’ordine il cane perché stava mordendo scarpe “che costano un sacco di soldi”. E qualcuno dei presenti lo raccontò ai giornalisti. La mia, però, non era la vanteria di quello che spende tantissimi soldi in scarpe artigianali. Era semmai il grido di dolore di un poveraccio, che di fronte a quel cane correva il rischio di rovinare l’unico paio di scarpe di valore che possedeva. Che poi fu l’esatto contrario di come venne percepita la faccenda».

Le rinfacciano di aver accusato Bettino Craxi di essersi arricchito con la politica.

«Frase mai detta e mai pensata. Quando Craxi ricevette il primo avviso di garanzia fui l’unico suo avversario a rispondere, a precisa domanda di un giornalista, che non si doveva dimettere per quello. L’ho combattuto politicamente ma non ho mai partecipato al linciaggio moralistico-giudiziario. E le garantisco che, nel 1993, non era un pensiero che andava molto di moda».

Le capita di sentire Berlusconi?

«Mai. L’ultima volta è stato nel 2015, prima dell’elezione del presidente della Repubblica. Mi chiese se pensassi che quella di Giuliano Amato era una buona scelta e io risposi che lo era».

Vi date del tu?

«No, del lei. Ma lui mi chiama col nome di battesimo. Tipo “guardi, Massimo”. Nel Pci succedeva il contrario. Ci si dava del tu ma chiamandosi per cognome».

Ci racconti un “guardi, Massimo” riservato.

«Nel 2006 fui il primo candidato al Quirinale del centrosinistra. Berlusconi mi telefonò per dirmi che Forza Italia non poteva sostenermi perché per il loro elettorato ero considerato l’avversario numero uno. Gli chiesi scherzando di ripeterlo in pubblico, visto che per una certa stampa ero l’uomo dell’inciucio. Fu molto cortese. Dopo aver parlato con lui, chiamai Fassino e decidemmo di convincere Giorgio Napolitano a candidarsi».

La cosa che non rifarebbe?

«La prima che mi viene in mente è l’aver accettato di fare il presidente del Consiglio dopo che Bertinotti aveva fatto cadere il governo Prodi. A conti fatti fu un errore. Non so se per il Paese, per me personalmente sì. Io spingevo perché nascesse un governo Ciampi ma non c’erano le condizioni. Avrei dovuto insistere di più».

Si è dimesso dopo aver perso le Regionali un anno e mezzo dopo. Un azzardo.

«La sera di quelle elezioni sono andato a letto a mezzanotte, dopo i primi risultati Dissi a mia moglie “vado a dormire perché domani devo andare al Quirinale a dimettermi”. Dormii benissimo».

Ha rinunciato alla barca a vela per produrre vino. Pentito?

«Sono una persona tutto sommato normale, anche se guadagno bene. Quando voglio andare in barca, adesso, la affitto».

Strano che di lei non si sappia nemmeno la musica che ascolta.

«Soprattutto classica. Un’eredità di mio papà, che aveva studiato fagotto al Conservatorio. E poi certo, i cantautori italiani. Mia moglie in questi giorni è disperata per la morte di Franco Battiato, che piaceva anche a me. Con Dalla mi è capitato di avere anche lunghe conversazioni, persona di un’intelligenza raffinata, amico e ammiratore di Bettino Craxi. Ho sempre apprezzato tanto De Gregori, che ho frequentato per parecchio tempo, e pure Venditti. Ma il cantautore che ho sempre sentito più affine alla mia personalità l’ho visto dal vivo solo di sfuggita».

Chi è?

«Paolo Conte».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 16 maggio 2021. Com' è noto, la Feps, l'ente che racchiude le fondazioni progressiste europee, ha chiesto a Massimo D'Alema di restituire oltre 500 mila euro: intascati illegittimamente, secondo i vertici dell'organizzazione. Senza entrare nel merito della questione (ci penseranno i tribunali), nella difesa dell'ex leader dei Ds ed ex presidente della Feps c'è una frase che merita attenzione: «Sono stato pagato meno del valore delle mie prestazioni». Niente conti della serva, ma solo un po' di chiarezza: D'Alema prendeva 10.000 euro lordi al mese per conferenze e attività politica: «Nel 2016 andai a Città del Messico, Bruxelles, Teheran, Washington Sei interventi nei primi tre mesi del 2016, 25 in tutto l'anno. Ho lavorato moltissimo». Diamogli credito. Visto da una parte, il compenso di D'Alema è il gesto dell'ultimo comunista (valgo di più ma lo faccio per il bene dell'umanità). Visto dall'altra, è il gesto di un neo-liberista un po' inesperto (incapace di monetizzare il suo valore di scambio). Visto da noi: D'Alema è un neo-imprenditore vitivinicolo, come Al Bano e Bruno Vespa. Dicono che il suo sia un vino «de-territorializzato» e «politicamente corretto», qualunque cosa significhi. Possiamo pagare le sue bottiglie (ordine minimo 250 euro) meno del loro valore d'uso? Così, tanto per degustare insieme quel che resta del comunismo.

D'Alema spa: tutti gli affari del Baffo d'oro. Giuseppe Marino il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Non avendo problemi di sottovalutazione del proprio ego, Massimo D'Alema ha incaricato una società di valutarlo come uomo d'affari. Non avendo problemi di sottovalutazione del proprio ego, Massimo D'Alema ha incaricato una società di valutarlo come uomo d'affari. La perizia servirà nella causa per un compenso da 500mila euro che la Fondazione dei socialisti europei ritiene non gli fosse dovuto. Il lider Maximo non si scompone: «Mi hanno pagato meno del valore delle mie prestazioni». E a Repubblica assicura: «Da quando non presiedo la Feps guadagno molto di più». A quel che risulta al Giornale, ha ragione. Lui che accusa la sinistra di «aver smesso di essere diffidenti e critici nei confronti del capitalismo», da quando si occupa di affari di capitali ne ha incassati parecchi. «Eppure - dice uno dei tanti suoi vecchi ex amici -, di business Massimo ci capiva poco. Arrancava con il mutuo quando ha dovuto comprarsi la casa dopo Affittopoli». Altri tempi. Poi D'Alema ha trovato l'America in Cina. A differenza degli imberbi grillini, però, lui sulla Via della seta ci cammina da quarant'anni. Agli albori degli anni 80, un ventennio dopo Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi, famoso pamphlet che sancì la rottura tra Pechino e il Pci, una delegazione di giovani comunisti fu la prima a sbarcare in Cina per ricucire i rapporti dopo la morte del Grande Timoniere. Ne faceva parte un giovane Massimo D'Alema che, fin da allora, rimase folgorato. E di strada ne ha percorsa parecchia sull'amata Via della seta. Da premier si diceva che a Palazzo Chigi avesse creato «la prima merchant bank che non parla inglese», ma i veri affari li ha fatti dopo, diventando presidente dell'advisory board di Ernst & Young Italia, già partner della Fondazione Italianieuropei di cui D'Alema è stato presidente. L'incarico per Ey gli frutterebbe 300mila euro, ben di più dei 120mila annui della Feps. C'è di che compensare il taglio dei vitalizi imposto nel 2018 da Roberto Fico: il suo emolumento si è ridotto da 9630 a 7600 euro lordi mensili. La passione per la politica però è rimasta: D'Alema è stato tra i più accesi fautori del governo Conte. E la cosa gli ha portato fortuna: nel 2019 il fiorire della sua attività di lobbista internazionale lo spinge a fondare e amministrare la DL & M Advisor SrL, sede a Roma, capitale sociale di soli 500 euro ma ricavi non disprezzabili già dal primo anno: 172mila euro, con un piccolo utile di 27.594. Va ancora meglio la società fondata nel ternano con il noto enologo Roberto Cotarella: 483.354 euro di ricavi e 172mila di utile, quasi tutto frutto dell'export di vini. Su quale mercato? Ma è ovvio: la Cina. Non a caso la società si chiama Silk road wines SrL. La caduta dell'avvocato del popolo pare invece aver innescato una spirale negativa, a partire dall'affondo della Feps che fa tremare di sdegno il famoso baffino: «È una vendetta politica». Ma non solo: D'Alema ha perso anche la docenza alla Link university dopo che è stata rilevata dalla famiglia Polidori (quelli del Cepu). E poi i libri: il suo ultimo tomo, Grande è la confusione sotto il cielo, cita Mao Zedong nel titolo non è al topo per vendite. E poi il caso dei ventilatori polmonari acquistati dalla Protezione civile il 13 marzo 2020 e poi risultati non a norma. Ora sono al centro di un'inchiesta che dipinge D'Alema come mediatore, in qualità di presidente onorario della Silk road alliance, ente che controlla il fornitore dei ventilatori, e nel cui «steering committee» il lider Maximo siede al fianco di ex ministri cinesi, l'ex presidente ucraino Viktor Yuschenko e perfino un membro della famiglia reale thailandese. Un paradosso: proprio ora che in Italia governano i Draghi, la carriera di D'Alema non fila più sulla seta. 

Massimo D'Alema, l'accusa dei socialisti europei: "Ci deve mezzo milione di euro", battaglia in tribunale. Libero Quotidiano il 13 maggio 2021. "Massimo D'Alema deve restituire 500mila euro": questo quanto sostiene la Feps, Fondazione degli studi progressisti anche detta Fondazione dei Socialisti europei, che ha avviato una causa giudiziaria nei suoi confronti. L'oggetto della causa prevede la restituzione da parte di D'Alema di mezzo milione di euro alla fondazione. Secondo la ricostruzione de la Repubblica, la somma di denaro sarebbe stata intascata in modo illegittimo dall'ex segretario dei Ds. Il segretario generale dell'Associazione, Laszlo Andor ha annunciato di aver "presentato l'azione legale venerdì scorso". D'Alema però non ci sta e controbatte: "Iniziativa immotivata. Andremo in giudizio e poi sarò io a chiedere i danni. Di certo è una vicenda che davvero mi amareggia". Eletto presidente della Fondazione nel giugno del 2010, D'Alema ha ricoperto la carica fino al 2013 senza ottenere nessuna remunerazione. Lo stesso percorso quindi dei suoi predecessori e del suo attuale successore, Maria Joao Rodrigues. Tuttavia, le cose avrebbero preso una piega diversa nel momento in cui D'Alema ha terminato l'incarico di parlamentare nel 2013. Da lì in poi, fino al 2017, anno in cui l'ex leader dei Ds ha lasciato la Fondazione per uno scontro con l'allora segretario del Pd Matteo Renzi, le cose sarebbero cambiate. D'Alema avrebbe sottoscritto, insieme al Segretario Generale della Fondazione Ernst Stettern, un contratto da 120mila euro l'anno. Il problema è che la Feps è registrata in Belgio come associazione senza scopo di lucro. Ma le magagne non finiscono qui. Infatti, di questo contratto non sarebbe stato a conoscenza nessuno al di fuori di D'Alema e Stettern. Difficile che gli organi istituzionali della fondazione se ne rendessero conto dato che, stando all'inchiesta di Repubblica, i pagamenti non sarebbero avvenuti per via digitale e il contratto sarebbe stato attentamente custodito e mai mostrato. Una volta terminato l'incarico di Stettern come segretario generale, le cose però hanno preso una piega diversa. Il subentrante Laszlo Andor, economista ungherese, sapeva che il Parlamento europeo avrebbe fatto richiesta di controllo sui bilanci della fondazione. Così, Andor ha iniziato a indagare sui flussi finanziari del Feps, in modo da continuare a garantire i sostanziosi finanziamenti pubblici provenienti da Strasburgo. Viene così avviato un audit interno e il dossier passa quindi ad un meccanismo esterno di verifica. Il risultato è sconcertante: nel 2017, anno in cui D'Alema lascia il posto di Presidente del Feps, vi sarebbe un sostanzioso e anomalo risparmio nel costo del lavoro. Si decide quindi di approfondire la questione ed ecco che emerge il contratto segreto tra D'Alema e Stettern. La nuova dirigenza, preoccupata di non ricevere più i necessari finanziamenti europei, contatta l'ex leader diessino per chiedere indietro il mezzo milione che si era intascato. La risposta di D'Alema è però contrariata: "Lui (Ernst Stettner ndr.) aveva proposto di pagare le mie prestazioni intellettuali. Che ho fatto valutare da una società ad hoc: valgono di più di quel che mi hanno dato. E alla Feps ho anche regalato un libro senza pagare i diritti". Il 30 marzo si riunisce quindi l'Assemblea per deliberare sulla questione. La votazione non lascia strada alternativa se non quella di una causa civile. 25 fondazioni socialisti europee, di cui 4 italiane, hanno espresso 23 voti favorevoli al procedimento e 2 astenuti. L'incartamento è stato depositato venerdì 7 maggio presso il tribunale di Bruxelles. Si attendono ora gli sviluppi.

D'Alema nei guai: "Deve restituire 500mila euro". Alessandro Imperiali il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Massimo D'Alema è accusato dalla Feps, Fondazione degli studi progressisti, di aver preso illegittimamente 500mila euro quando era presidente dell'Associazione. "Massimo D'Alema deve restituire 500mila euro". Questo è ciò che sostiene la Feps, la Fondazione degli studi progressisti anche detta Fondazione dei Socialisti europei, che ha intentato una causa giudiziaria nei suoi confronti. Questa ha come oggetto la restituzione di mezzo milione di euro. I vertici della Feps, stando alla ricostruzione di Repubblica, ritengono che questa somma di denaro sia stata intascata illegittimamente. Laszlo Andor, segretario generale dell'Associazione, spiega: "Abbiamo presentato l'azione legale venerdì scorso". L'ex segretario dei Ds ha controbattuto affermando: "Iniziativa immotivata. Andremo in giudizio e poi sarò io a chiedere i danni. Di certo è una vicenda che davvero mi amareggia".

La vicenda. D'Alema viene eletto presidente della Fondazione nel giugno del 2010 e fino al 2013 ricopre quella carica senza alcuna remunerazione. Nulla di strano dal momento che tutti i suoi predecessori avevano fatto lo stesso e si comporta alla stessa maniera anche l'attuale successore, Maria Joao Rodrigues. Tutto, però, cambierebbe quando D'Alema non è più parlamentare, nel 2013. Da quel momento, fino al 2017, anno in cui l'ex leader diessino abbandona la Fondazione a causa di uno scontro con Matteo Renzi, allora segretario del Pd, ci sarebbe una novità: un contratto da 120mila euro l'anno. Quest'ultimo sarebbe stato siglato insieme al tedesco Ernst Stettern, Segretario Generale della Fondazione. Il grande problema risiede nel fatto che la Feps è registrata in Belgio come associazione senza scopo di lucro ma soprattutto che di quel contratto non sarebbe stato detto niente a nessuno. Organismi dirigenti, Assemblea e Bureau, ossia il Consiglio di amministrazione, ne sono completamente all'oscuro. Seconda la ricostruzione di Repubblica, è anche difficile che ne accorgano dal momento che i pagamenti non sarebbero stati effettuati con i canali digitali e il documento sarebbe stato gelosamente custodito e mai mostrato. Sarebbe saltato tutto quando Stetter ha terminato il mandato come segretario generale e a lui è subentrato l'economista ungherese Laszlo Andor, il quale già sa che in breve tempo il Parlamento europeo avrebbe richiesto un controllo sui bilanci. Per questo motivo, Andor avrebbe cominciato ad indagare per permettere alla fondazione di continuare a ricevere i sostanziosi sostegni da Strasburgo che, è bene ricordarlo, sono finanziamenti pubblici. Viene, dunque, portato avanti un audit interno e il dossier passa ad un meccanismo esterno di verifica. C'è un incredibile risultato: nel 2017, l'anno in cui D'Alema abbandona il suo ruolo di Presidente del Feps, vi sarebbe stato un notevole risparmio nel costo del lavoro. Il fatto che non ci siano stati licenziamenti fa infittire il caso e l'indagine viene approfondita. Esce fuori il contratto intercorso tra D'Alema e Stettern. Immediata la reazione della nuova dirigenza la quale contatta incessantemente l'ex presidente per fare in modo che quei soldi tornino alla fondazione così da poter rassicurare il Parlamento europeo. Ma soprattutto per avere la possibilità di continuare a ricevere i finanziamenti, senza i quali la Feps avrebbe una vita molto complicata. D'Alema, però, risponde contrariato. La Feps, a questo punto, fa presente l'obbligo si sottoporre il contratto al Bureau e all'Assemblea. "Non è vero che doveva passare all'esame del Bureau. Non hanno nemmeno voluto ascoltare il segretario dell'epoca, Stetter" - la risposta di D'Alema -. Lui aveva proposto di pagare le mie prestazioni intellettuali. Che ho fatto valutare da una società ad hoc: valgono di più di quel che mi hanno dato. E alla Feps ho anche regalato un libro senza pagare i diritti". Arriva, dunque, il 30 marzo, giorno in cui si riunisce l'Assemblea per deliberare a riguardo e, nonostante la volontà di tenere interna una notizia simile, si arriva alla conclusione che non c'è altra strada se non la causa civile. D'Alema ha continuato a difendersi ribadendo la sua buona fede ma soprattutto la legittimità dei suoi comportamenti. La votazione, però, alla quale partecipano 25 fondazioni socialiste europee di cui 4 italiane (Fondazione Socialismo, Fondazione Gramsci, Fondazione Pietro Nenni e Fondazione ItalianiEuropei) si è risolta con 23 voti favorevoli al procedimento e 2 astenuti. L'incartamento è stato depositato venerdì 7 maggio presso il tribunale civile di Bruxelles. Il Segretario generale in carica ancora spera, nonostante l'avvio della causa legale, che si arrivi ad una soluzione amichevole.

Alessandro Imperiali per ilgiornale.it il 14 maggio 2021. Massimo D'Alema è stato accusato dalla Feps, la Fondazione dei Socialisti europei, di aver preso illegittimamente 500mila euro. Dopo una votazione interna a cui hanno partecipato le 25 fondazioni socialiste che fanno capo alla Feps, l'organizzazione ha deciso di intentare la causa civile. Sono diversi i problemi della vicenda, infatti, da come è stata ricostruita: nessun Presidente, prima e dopo D'Alema è mai stato retribuito, poi, i pagamenti non sarebbero mai avvenuti attraverso canali digitali e, infine, il contratto dell'ex leader dei Ds sembra che non sia mai stato presentato all'Assemblea, l'unico organo con le capacità di regolamentarlo. Restava piuttosto un tacito accordo tra l'allora segretario generale Ernst Stettern e D'Alema. Quest'ultimo però, in un'intervista su Repubblica, ha rispedito al mittente tutte le accuse affermando di essere vittima di una "vendetta politica". La Presidenza Feps, con lui a capo, è durata 7 anni: dal 2010 al 2017. I primi 3 anni sono stati svolti gratuitamente perchè l'ex segretario Ds riceveva già lo stipendio parlamentare ma con la fine della legislatura le cose sono cambiate. "Dopo l’uscita dal Parlamento avevo molte offerte di lavoro. In particolare da una società inglese che organizza eventi internazionali, Chartwell, che mi offriva quattro volte quello che poi ho preso dalla Fondazione" - le parole di D'Alema - "Il segretario generale Ernst Stetter mi propose di concentrare tutto il mio impegno sul lavoro della Fondazione, proponendomi un contratto che prevedeva anche una clausola di esclusività, per remunerare le mie prestazioni che andavano al di là della mia normale attività di presidente". Questo perché non era intenzione del segretario generale di "creare un precedente di uno stipendio pagato per il ruolo". Retribuzione pari a "5mila euro netti al mese" e, inoltre, "il contratto è stato fatto secondo le procedure regolarmente eseguite per tutti i contratti e regolarmente protocollato". Contrariamente a quanto affermato dalla Feps, D'Alema afferma di non essere mai stato pagato in contanti ma attraverso "regolare bonifico" e di essere soggetto a "una doppia imposizione". Ha anche aggiunto di essere stato pagato "meno del valore delle sue prestazioni". A chi gli fa notare che il non aver informato l'Assemblea è una scelta piuttosto singolare risponde: "Non ho seguito la parte procedurale. Faccio però notare che i contratti non sono documenti segreti e che ogni membro del bureau avrebbe potuto esaminarli, tanto è vero che quando hanno aperto l’armadio lo hanno trovato. Credo che molti sapessero di questo e di altri contratti". E aggiunge: "Io sono stato retribuito non per la funzione, ma per l’attività svolta". Vale a dire partecipare a conferenze in giro per il mondo. E ora D'Alema è convinto di essere vittima di un attacco politico perché secondo la sua versione: "Non è mai stato sentito il segretario generale che ha redatto il contratto. La notizia della citazione in giudizio è stata notificata prima a Repubblica che a me". La cosa però non lo intimorisce, al contrario, è convinto di vincere la causa. Questo nonostante su 25 fondazioni socialiste, di cui 4 italiane, 23 hanno votato in favore di un'azione legale, due si sono astenute e nessuna ha votato contrariamente.

Carmine Di Niro per ilriformista.it il 13 maggio 2021. Massimo D’Alema portato in tribunale, quello civile di Bruxelles, dalla Feps, la Fondazione degli studi progressisti, ossia la Fondazione dei Socialisti europei, che l’ex presidente del Consiglio ha guidato dal 2010 al 2017. Una settimana fa, scrive oggi Repubblica, la Fondazione ha infatti depositato una citazione in giudizio per una causa sulla restituzione di circa mezzo milione di euro che D’Alema, ex segretario dei DS, avrebbe intascato illegittimamente. La conferma arriva dall’attuale segretario generale della Fondazione dei Socialisti europei, Laszlo Andor: “Abbiamo presentato l’azione legale venerdì scorso”. Ma l’ex presidente del Consiglio, ascoltato al telefono, risponde: “Iniziativa immotivata. Andremo in giudizio e poi sarò io a chiedere i danni. Di certo è una vicenda che davvero mi amareggia”. La storia non è semplice: D’Alema viene eletto presidente della Fondazione legata al Pse nel giugno del 2010 e per tre anni svolge l’incarico senza ricevere alcuna remunerazione, così come avevano fatto i suoi predecessori e l’attuale presidente, la portoghese Maria Joao Rodrigues. Nel 2013  per D’Alema, non più parlamentare in Italia, e fino al 2017, quando lascia la Fondazione dopo uno scontro col segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, viene introdotta una novità. D’Alema firma un contratto assieme all’allora segretario generale della Fondazione, il tedesco Ernst Stetter, per circa 120mila euro l’anno. Un contratto "fantasma", di cui nessuno sapeva niente perché mai sottoposto all’attenzione degli organismi dirigenti della Fondazione.  Quei pagamenti, scrive Repubblica, non vengono mai effettuati con i canali digitali. La circostanza del contratto a D’Alema emerge con l’inizio del mandato di Andor. Facendo un controllo sui conti della Fondazione, da lì a poco sarebbe arrivata una richiesta ordinaria dal Parlamento europeo a tutte le Fondazioni che ricevono contributi dall’Europa, l’economista ungherese scopre che negli anni successivi al 2017 emerge un consistente risparmio nel costo del lavoro, non dovuto a licenziamenti del personale ma a quel contratto tra D’Alema e Stetter. I nuovi vertici chiedono dunque all’ex premier Italiano di restituire i pagamenti, D’Alema dice ‘no’ e si affida allo studio legale Grimaldi che fa valutare sua prestazione intellettuale da una società ad hoc, che ovviamente dà ragione al politico italiano. Si arriva dunque a un voto: la Fondazione riunisce il suo board, di cui fanno parte 25 fondazioni europee (tra cui 4 italiane, comprese la Fondazione Gramsci e ItalianiEuropei, quella presieduta da D’Alema). Ben 23 sono favorevole alla causa, due si astengono. Venerdì quindi viene depositato l’incartamento al tribunale civile di Bruxelles: può iniziare la causa dei Socialisti contro D’Alema.

Mario Giordano per “La Verità” il 17 maggio 2021. Caro D'Alema, lei sostiene che quel mezzo milione di euro, che secondo i compagni socialisti europei si sarebbe intascato indebitamente, sono in realtà un giusto compenso per l'attività svolta. Ha aggiunto anche che, a suo dire, sarebbe stato pagato «meno del suo valore». Ed è per questo che le scrivo. Volevo per l'appunto chiederle: mi scusi, ma qual è il suo valore? Non starò qui a sindacare sulla imbarazzante vicenda su cui si è già scritto di tutto, non starò a insistere sull'inspiegabile dettaglio del contratto segreto, e non mi dilungo nemmeno sul triste caviale del tramonto che lei sta percorrendo, tra i ventilatori fuori norma della Silk Road Global, e le mascherine farlocche dei suoi amici Domenico Arcuri e Vittorio Farina. Triste epilogo, per altro, di una vita politica tutta costellata di casi Telecom, Banca 121, Unipol, Bingo, Monte Paschi e altro malbusiness, come le ha ricordato l'ottimo Mattia Feltri sulla Stampa. Io vado oltre e le chiedo: ammesso che lei sia stato davvero pagato per il suo valore, quale diavolo è questo valore? Lei ha ricevuto 10.000 euro al mese dal 2013 al 2017 dalla Feps, la rete della fondazioni dei socialisti europei, in cambio dell'attività intellettuale svolta. In una intervista a Repubblica ha dichiarato che ci sarebbe stata una società privata inglese disposta a pagarla quattro volte tanto (quindi 40.000 euro al mese) per il medesimo lavoro. E che lei ora ha chiesto a una società (che però rimane segreta) di valutare l'esatto valore delle sue prestazioni. Naturalmente non mi permetto di mettere in dubbio nulla di tutto ciò. Anzi, sono felice per lei perché non è da tutti farsi offrire 40.000 euro al mese in cambio di qualche idea. L'unica cosa che non riesco a capire, glielo dico con tutta sincerità, è di che diavolo di idea si tratti.  Scusi se mi permetto, sa. Ma dopo la sua infanzia dalla parte sbagliata della storia, prima nei pionieri del Pci (ai tempi in cui l'Urss aveva sempre ragione) e la sua adolescenza nella Fgci (senza dimenticare un passaggio movimentista con le molotov), è finalmente arrivato alla politica dei grandi distinguendosi soltanto per interminabili guerre nel partito con il suo alter ego Walter Veltroni e per un'esperienza di governo a dir poco fallimentare. Che cosa si ricorda di lei primo comunista italiano al potere? Il bombardamento in Kosovo? Palazzo Chigi come merchant bank? I lothar Velardi e Rondolino che l'accompagnavano come mastini? Dalla Bicamerale (fallimento istituzionale) ad Articolo Uno (fallimento scissionista) la sua vita è un coacervo di flop che nemmeno la sua sovrabbondante boria riesce a coprire. E perciò mi resta questa curiosità: ma perché diavolo qualcuno dovrebbe pagare 40.000 euro per avere i suoi consigli? Non sarà che vogliono sapere quello che lei pensa per fare esattamente l'opposto? Se riuscisse a farmelo sapere, gliene sarei grato. Nel caso guarderei con ancora più ammirazione la sinistra che lei rappresenta, una sinistra insuperabile nel difendere i valori. Quelli del conto in banca, s' intende. 

D'Alema e i soldi da restituire, la sinistra si divide. Emanuele Lauria su La Repubblica il 13 maggio 2021. Sposetti e Livia Turco difendono l'ex premier. Ma per il presidente della Fondazione Gramsci la controversia sui 500mila euro "è sgradevole per tutti". E alla Nenni dicono che l'ex leader Ds è stato "poco accorto". Fra mezze frasi e imbarazzi, i custodi della memoria della sinistra si dividono sul caso D’Alema. Neppure una, tra le cinque fondazioni italiane collegate al Feps – l’istituto europeo di studi progressisti che è una sorta di agenzia culturale del Pse – ha votato contro la mozione che prevede una causa civile nei confronti di Massimo D’Alema. 

D'Alema: “Alla Feps ero pagato meno del mio valore. È una vendetta politica”. Concetto Vecchio su La Repubblica il 13 maggio 2021. Parla l'ex premier dopo la citazione in giudizio della Fondazione dei socialisti europei: "Da ex parlamentare una società mi aveva offerto quattro volte tanto". Presidente D’Alema, è vero che lei percepiva diecimila euro mese dalla Feps, la rete delle fondazioni dei socialisti europei? "Sì, ma sono 5000 euro netti". Per quanto tempo è stato retribuito? "Dal 2013 al 2017. I primi tre anni della mia presidenza alla Feps, dal 2010 al 2013, ero ancora parlamentare e ho svolto le mie funzioni gratuitamente". E perché dal 2013 venne retribuito? "Dopo l’uscita dal Parlamento avevo molte off...

IMBARAZZO NELLA SINISTRA "VICENDA SGRADEVOLE" "MA È UNA PERSONA ONESTA". Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 14 maggio 2021. (…) Una cosa è certa: neppure una, tra le cinque fondazioni italiane collegate al Feps - l' agenzia culturale del Pse - il 30 marzo scorso ha votato contro la mozione che prevede una causa civile nei confronti di Massimo D' Alema. La maggior parte di esse ha preferito astenersi o non partecipare al voto, mentre la fondazione Socialismo guidata dall' ex senatore Gennaro Acquaviva si è espressa a favore, assieme ad altre 22 analoghe realtà europee (…). (…)  La Fondazione Gramsci si è astenuta «per rispetto nei confronti di D' Alema - dice il presidente Silvio Pons - e della stessa fondazione. (…) Il Cespi, di cui fanno parte Piero Fassino e l' ex ministra Linda Lanzillotta, si sarebbe astenuto ma non c' è conferma ufficiale. Così come la fondazione Italiani Europei, guidata proprio da D' Alema. E nel cui board c' è Ugo Sposetti, già tesoriere dei Ds: «Le cose scritte su di lui sono volgarità».

Mattia Feltri per “La Stampa” il 14 maggio 2021. No, io non ci credo. Sentite qua: la Fondazione dei socialisti europei, in cui si raccolgono le migliori fondazioni progressiste del continente, chiede indietro a Massimo D' Alema il mezzo milione di euro che, sostengono, si intascò da presidente senza averne diritto. Mica uno scherzo, hanno deciso di andare dal giudice ma io non ci credo: Massimo D' Alema quei soldi non li ha presi e se li ha presi aveva il diritto di prenderseli. Perché va bene tutto, va bene Palazzo Chigi trasformato nell' unica merchant bank in cui non si parla inglese, va bene Ikarus e le altre barche a vela, va bene la presidenza dell' Advisory board di Ernst&Young, va bene la casa vinicola in Umbria e il vino venduto ai cinesi, va bene le scarpe di pelle umana, va bene i capitani coraggiosi di Telecom, va bene le affinità elettive con Monte dei Paschi, va bene Unipol che cerca di scalare la Bnl, va bene la Silk Road Global Information di cui è presidente onorario e attraverso la quale sono stati comprati i ventilatori farlocchi dalla Cina, va bene l' animo di granito del compagno Greganti, va bene il metano di Ischia, va bene il caro amico De Bustis con la Banca 121, va bene le sale Bingo, va bene le coop, va bene le consulenze strategiche con la DL&M Advisors, va bene tutto, il vero, il verosimile e anche l' inverosimile, ma che D' Alema, dopo avere dato del principe dei corrotti a Craxi, e avere detto, sempre parlando di Craxi, che la politica non è un mestiere con cui arricchirsi, ecco, sarebbe un finale troppo perfetto anche per lui, se D' Alema chiudesse siffatta carriera fischiandosi i soldi dei socialisti.

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 14 maggio 2021. Amareggiato: «Non hanno nemmeno voluto ascoltare il segretario dell' epoca, Stetter. Era stato lui a proporre di pagare le mie prestazioni intellettuali, che ho fatto valutare da una società. Ebbene, le mie prestazioni valgono più di quel che mi hanno dato. E alla Feps ho anche regalato un libro rinunciando ai diritti». L' uomo amareggiato è Massimo D' Alema portato davanti a un tribunale europeo da venticinque fondazioni fra cui la sua stessa creatura, «Italianieuropei» che gli chiedono indietro mezzo milione di euro che ha ricevuto dalla Feps, la Fondazione dei Socialisti Europei che raccoglie tutte le fondazioni europee della sinistra. È una storia intricata e ci vorrebbe molto spazio per raccontarla nei suoi dettagli burocratici e comunque è una storia che non mette in discussione la moralità dell' ex presidente del Consiglio e leader comunista. Ma è una storia paradossale e verissima: i socialisti europei, anche italiani della fondazione di D' Alema, fanno causa al fondatore perché rivogliono indietro compensi secondo loro non dovuti. In breve: Massimo D' Alema fu messo fuori dal Parlamento e dunque anche dallo stipendio parlamentare da Matteo Renzi quando rottamò la vecchia guardia. Dopo qualche anno, D' Alema accettò di ricevere un compenso annuale di circa centoventimila euro dalla Fondazione che raccoglie la sinistra europea. Poi c' è stato un cambio della guardia e al vertice, è arrivato il nuovo segretario Laszlo Andor che ha fatto una verifica sulla destinazione dei fondi, che vengono direttamente dal Parlamento di Strasburgo. Ed è nata una contestazione sulla legittimità delle retribuzioni a D' Alema e la cosa finisce in tribunale con disappunto dello stesso D' Alema il quale dice di essere profondamente amareggiato e aggiunge: «Andremo in giudizio e poi sarò io a chiedere i danni». D' Alema ha giocato la sua identità, la sua immagine, la sua permanenza in politica creando e sviluppando la Fondazione «Italianieuropei» che poi si è federata con le altre consorelle europee. L' ultima immagine fotografica mostra un uomo che ha scelto di apparire (e dunque essere) impeccabile: dal capello dal taglio agli occhiali fino ai polsini neri su camicia immacolata e cravatta blu a pois bianchi. Una uniforme concepita sulla impeccabile banalità dell' eleganza (l' eleganza maschile è fatta di non vistosità) ma certo è che questa immagine che ha di sé e laboriosamente rilanciata dopo la cacciata negli inferi, oggi soffre molto. Nessuno lo accusa di avere preso soldi illegali, ma di aver beneficiato di un accordo personale con l' ex segretario generale Stetter. Ma è qui che emerge la dimensione dell' ego di D' Alema il quale sostiene testualmente che la prestazione intellettuale del proprio pensiero, fatta valutare da un' agenzia specializzata in prestazioni intellettuali, ha rivelato un prodotto lordo il cui valore monetizzato è di gran lunga eccedente quello dei compensi ricevuti. Onestamente non ricordiamo un caso simile: quello di qualcuno che si rivolge ad una agenzia che misura il «rating» delle idee e ne stabilisce il valore di cambio, come una moneta, bitcoin inclusi. D' Alema l' ha fatto e dice: vi ho dato col mio cervello più di quanto mi abbiate retribuito. E ci metto per buon peso anche un libro che ho scritto e donato senza alcun compenso. Ora toccherà al tribunale e poi al Parlamento europeo trovare una soluzione che calzi l' esatta e impeccabile immagine di D' Alema. Ma resta il fatto che quest' uomo sia chiamato davanti a un tribunale per una seccante questione di compensi contestati, dalla stessa sinistra che lui ha fondato. Una insurrezione di famiglia, per di più in Europa, di entità come «Fondazione del socialismo», «Fondazione Gramsci» - la mitica sacra Fondazione Gramsci del Partito comunista italiano - «Fondazione socialista Pietro Nenni» e poi, carne della sua stessa carne, «Italianieuropei». Dopo la valutazione monetaria del valore intellettuale, che è certamente una bella risorsa, non avevamo mai sentito neanche questa storia: quella di un leader della sinistra chiamato in tribunale dalla sua stessa sinistra. Non vorremmo abusare dell' espressione «crollo di un mito» forse non c' è alcun mito da far crollare, ma di sicuro crolla a nostro parere quel che restava malamente in piedi di un muro fatto di nomi ormai privi di significato e di ego inamidato.

·        Nicola Fratoianni.

Parla il portavoce nazionale di Sinistra Italiana. Intervista a Nicola Fratoianni: “A furia di cercarsi la sinistra si è persa…” Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 20 Luglio 2021. La sinistra al tempo delle “agorà”. Il Riformista ne discute con Nicola Fratoianni, portavoce nazionale di Sinistra Italiana e deputato di LeU.

Nel centro sinistra si assiste a una moltiplicazione di “agorà”, di stati generali, +convegni. È questa la strada per ricostruire una identità forte della sinistra in Italia?

Io ho molto rispetto per i percorsi di ciascuno e dunque considero ogni occasione di discussione un fatto positivo. Ma devo confessarle che l’impressione che la sinistra in Italia, e parlo partendo dalla nostra storia, abbia negli anni che abbiamo alle spalle consumato fin troppo tempo a discutere di se stessa. E che in questo c’è una parte della sua crisi, delle sue difficoltà: la ricerca infinita di una identità che tende a consumarsi in un sistema di relazioni, di alleanze, di posizionamenti. Io ritengo che sia il momento di affrontare il tema molto serio dell’identità a partire dalla ridefinizione di obiettivi, piattaforme, di pratiche e che su questi obiettivi e su queste piattaforme, attorno a queste pratiche si possa lì, nel vivo della mobilitazione, della ricerca politica e culturale, anche del conflitto, ricostruire l’identità e, perché no, anche gli strumenti della stessa organizzazione della politica a sinistra.

Da quali priorità si dovrebbe partire, per avviare questo percorso?

Su questo ho riflettuto molto in questi giorni. Ci avviciniamo a un anniversario per qualcuno, credo tanti, molto importante: il G8 di Genova di vent’anni fa. Io penso che oggi ci sia davanti a noi una gigantesca questione che in qualche modo ne attraversa molte altre..

Vale a dire?

La questione della diseguaglianza. Il mondo che abbiamo di fronte oggi, ancor più di venti anni fa, è un mondo tremendamente diseguale. Non solo nella ridistribuzione della ricchezza, la cui forbice ha raggiunto livelli impressionanti: ormai 8 persone nel mondo detengono la ricchezza di 3,6 miliardi di persone, cioè della metà della popolazione mondiale. Ma questa diseguaglianza attraversa e contribuisce ad alimentare molte delle contraddizioni più stridenti. È una diseguaglianza che ha che fare con le responsabilità nel cambiamento climatico: quali e quante sono le multinazionali nel mondo responsabili della più grande percentuale di emissioni di Co2 nell’atmosfera. Quanto queste responsabilità incidono, ad esempio, sulla crescita di un fenomeno strutturale come è quello delle migrazioni di massa sul pianeta. Quanto nel mondo del lavoro la diseguaglianza sia aumentata: se guardiamo la ripresa del conflitto operaio in questi giorni di fronte ai licenziamenti di massa delle multinazionali che sono state progressivamente mangiate dai fondi speculativi della finanza internazionale, o al conflitto operaio che torna ad esplodere nella catena infinita dello sfruttamento della logistica, ci accorgiamo che anche dentro il mondo del lavoro, che fu un lavoro classico ma che torna oggi a bussare prepotentemente alle porte della politica che a volte, troppe, si è dimenticata di quel lavoro e di quei rapporti di potere e di subalternità, la diseguaglianza è tornata a crescere in modo fortissimo. Una sinistra che non nega se stessa deve affrontare questo nodo. Noi abbiamo promosso una legge d’iniziativa popolare su cui stiamo raccogliendo firme in tutta Italia, con reazioni anche molte interessanti, a volte sorprendenti. Ad esempio, tra le giovani generazioni, che accorrono ai banchetti a firmare con una disponibilità e radicalità innata, davvero sorprendente. Intanto partiamo da lì, da un tema che è anche al centro del dibattito politico…

A cosa si riferisce in particolare?

Penso alla riforma del fisco, su cui, purtroppo, le commissioni riunite di Camera e Senato – Bilancio e Finanza – hanno prodotto un documento tanto deludente quanto in direzione decisamente contraria rispetto a quello di cui avremmo bisogno, cioè una riforma fortemente progressiva sul piano del reddito ma anche della proprietà, delle successioni. Un secondo fronte, è quello del lavoro. Venerdì scorso, in una conferenza stampa insieme anche a Rosario Rampa, della segreteria nazionale della Fiom, a Daniele Calosi, segretario della Fiom di Firenze e Prato, che si occupano, rispettivamente, uno della vertenza Whirpool, l’altro della vicenda della Gkn di Campi Bisenzio che ha licenziato da un giorno all’altro 422 operai via mail: assieme a loro abbiamo presentato un pacchetto di proposte per dire che sul lavoro occorre cambiare radicalmente strada. In termini di salario minimo legale, almeno da 10 euro l’ora, che innalzi e rafforzi la contrattazione collettiva. Invece di spendere qualche miliardo per cancellare l’Irap, a favore delle imprese, usiamo quei miliardi per incentivare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. E poi interveniamo sul sistema degli appalti, per riaffermare una cosa semplice: a parità di lavoro, parità di salario e parità di diritti, di diritti del lavoro, di libertà sindacale. Terzo fronte cruciale è quello della formazione. E anche qui un’inversione di tendenza sul piano della diseguaglianza, della redistribuzione della ricchezza potrebbe aiutare molto. Noi, per esempio, prevediamo di utilizzare le risorse che verrebbero da una patrimoniale come quella che abbiamo proposto, parliamo di circa 10 miliardi di euro l’anno, per rendere gratuito il percorso della formazione, dall’asilo all’università. È una cosa possibile. E rappresenterebbe un potente investimento, fuori dalla retorica insopportabile che accompagna questo tema, nei confronti delle giovani generazioni. Sono tre questioni, e altre ancora se ne potrebbero aggiungere, su cui è possibile ricostruire un pezzo d’identità e anche ridefinire una convergenza politica tra esperienze, soggettività, articolazioni della sinistra politica, sociale, culturale di questo Paese.

Ma tutto questo, avrebbe detto qualcuno ora uscito di scena, che c’azzecca con il dibattito senza fine sull’alleanza strategica, più o meno competitiva, tra il Pd e il Movimento 5Stelle?

Detta cosi c’azzecca poco, naturalmente. Perché quella discussione continua a rimandare il nodo del merito, dei contenuti, della qualità di un’alternativa. Io sono tra coloro che pensano che di fronte alla destra che abbiamo davanti, che è una destra regressiva, pericolosa, una destra che solidarizza, senza se e senza ma, con le guardie carcerarie di fronte alle vicende terribili di Santa Maria Capua Vetere, ed è la stessa destra che solidarizzava con la polizia di fronte alla mattanza di Genova, della Diaz, alla macelleria messicana di Bolzaneto. Di fronte ad una destra orbaniana, che comprime i diritti e che fa spregio delle libertà sociali e individuali, il tema della costruzione anche di un rapporto di forza in grado di essere competitivo, financo nei numeri, è un tema serio, di cui tutti dobbiamo farci carico. La voglio dire in chiaro: non penso che la discussione sui contenuti sia in qualche modo salvifica rispetto a questo nodo, che comunque io mi pongo, ma penso che dare forza anche a questa dimensione del problema – cioè quella delle alleanze – passi dal coraggio e dalla capacità di attraversare questa discussione con elementi che guardino alla qualità di una proposta alternativa. Senza la dimensione del merito, non c’è un’alternativa credibile. Se la discussione sul merito diventasse, però, esclusivamente una condizione autoconsolatoria, di autorassicurazione, per dirla anche qui semplice: io dico cose giuste e questo mi basta, anche questo non sarebbe sufficiente. Le due cose devono viaggiare insieme.

Lei è tra i trenta parlamentari che hanno presentato una mozione alternativa per dire “no” al rifinanziamento delle missioni che riguarda anche la cosiddetta guardia costiera libica. In un’intervista questo giornale, il presidente del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti, ha usato parole molto dure per biasimare il voto della Camera. Quanto a durezza, anche lei non scherza.

Non può essere altrimenti. Ancora una volta il nostro Parlamento e il governo hanno firmato la propria complicità con gli orrori e le sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale che si consumano in Libia e sulla rotta del Mediterraneo centrale. Noi continueremo a batterci per fermare questo scempio e cambiare una politica migratoria ipocrita e fallimentare. Quel voto in una parola: indecente.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

·        Nicola Zingaretti.

Pierangelo Maurizio per "la Verità" il 30 luglio 2021. Ecco, se indulgiamo al giallo, questa sarebbe la «pistola fumante». È lo stipendio di 8.746 euro (lordi) e il cedolino di gennaio 2013 corrisposto dal Pd a Nicola Zingaretti, tornato a fare il dirigente-dipendente di partito nell'intervallo tra le dimissioni da presidente della Provincia di Roma a fine 2012 e l'elezione a governatore del Lazio da metà febbraio 2013. Ciò significa che anche eletto alla Pisana, in qualità di lavoratore dipendente in aspettativa non retribuita, gode degli oneri previdenziali per la futura pensione, di quelli assicurativi e del Tfr, pagati - come prevede la legge - da noi e non dal Pd. L'assegno in questione spunta fuori nell'archiviazione che il gip di Roma su richiesta della Procura nel 2013 dispose della denuncia sulla vicenda presentata da Marco Pannella e dall'avvocato Giuseppe Rossodivita. Detto questo, non c'è neanche più il giallo. Perché tramite il portavoce, Zingaretti - onore al merito - ha confermato la ricostruzione della Verità. Prima impiegato del Pds dal '93, era stato assunto a tempo indeterminato come dirigente dal nascente Partito democratico laziale («Comitato provvisorio per il Pd del Lazio», poi «Unione regionale Pd Lazio») a 8.000 euro lordi al mese poco prima di essere eletto presidente della Provincia di Roma. Quindi, come «lavoratore dipendente in aspettativa non retribuita» eletto dal 2008 al 2012, la Provincia ha pagato i suoi oneri previdenziali e accessori al posto del «datore di lavoro», il partito, per 181.525 euro. Dal 2013, poiché sempre dirigente «in aspettativa», da governatore del Lazio riconfermato nel 2018 (fine mandato nel 2023) ha i «contributi figurativi» dell'Inps. Per un importo al momento imprecisato ma di centinaia di migliaia di euro.Ma torniamo alla denuncia del leader radicale. Il 4 febbraio 2013 Marco Giacinto Pannella, imbufalito perché ai suoi candidati regionali è stata fatta terra bruciata, con l'avvocato Giuseppe Rossodivita denuncia l'affaire dell'assunzione ad orologeria di Zingaretti. Il 4 notte c'è un misterioso furto nella sede del «Comitato provvisorio Pd Lazio» di tre computer «obsoleti». Per farla breve Pannella e Rossodivita chiedono alla Procura di Roma di accertare: poiché Zingaretti e il partito sapevano benissimo che il contratto da dirigente a tempo indeterminato - è la loro accusa - non sarebbe stato onorato perché di lì a poco l'«assunto» si sarebbe messo in aspettativa, per caso non è un raggiro per far pagare alla Provincia e ai cittadini gli oneri previdenziali? Il pm invece non condivide questa tesi. Chiede l'archiviazione in quanto il rapporto di lavoro tra il Pd e Zingaretti non sarebbe fittizio ma reale perché «tramite la campagna elettorale (ha) svolto un indubbio ruolo di direzione all'interno del Pd Lazio ossia la mansione per cui era stato assunto, per altro con indubbio successo visto che è stato eletto». Pannella e Rossodivita nell'opposizione all'archiviazione controdeducono facile: è la prima volta che qualcuno «viene assunto per fare il candidato a presidente alla Provincia di Roma». Nel corso delle indagini emergono a dir la verità alcuni pasticci. Antonio Olivieri, il tesoriere pd che ha assunto Zingaretti, sentito una prima volta ammette che mica lo hanno pagato veramente per quella manciata di settimane prima dell'elezione. Allora spunta Marco Lombardi, «consulente dell'Associazione Pd Lazio» che produce tre assegni da 4.890 euro ciascuno corrispondenti agli stipendi di febbraio, marzo, aprile 2008 pagati a Zingaretti. Il quale però era ancora (fino a giugno 2008) eurodeputato con relativa indennità. Ad Antonio Olivieri, il tesoriere, qualcuno tira le orecchie o lui recupera la memoria: risentito il 5 aprile 2013 corregge la sua versione. Fa però anche in tempo a dire altro: l'assunzione «a tempo indeterminato» del 15 febbraio 2008 «scaturiva dalla scelta dello stesso Nicola Zingaretti di candidarsi quale presidente della Provincia di Roma sotto le bandiere del Pd su invito del segretario Veltroni e di tutto il gruppo dirigente avvenuto dopo il Natale 2007. A questo punto si decideva di comune accordo con i Ds per il trasferimento della sua posizione lavorativa dal partito di provenienza al Comitato provvisorio del Pd Lazio». Cioè la scelta di assumerlo «a tempo indeterminato» alla vigilia della sua elezione e con il più che certo accollo delle spese previdenziali alla collettività, fu una scelta di tutto lo stato maggiore. Se non i (vaghi) «vertici Ds», l'allora segretario nazionale del Pd e collega giornalista Walter Veltroni non ha da illuminarci sulla questione? Comunque, il gip fa proprie le conclusioni del pm e considera la denuncia e la richiesta di altre indagini avanzate da Pannella-Rossodivita avulse «dal contesto storico», cioè dal travaglio che ha accompagnato il passaggio dal Pds al Pd, in cui si sono fusi Ds e Margherita, e che «Comitato provvisorio» e «Unione regionale» sono lo stesso soggetto. La richiesta di archiviazione del pm Corrado Fasanelli è del 26 giugno 2013. L'archiviazione del gip Gaspare Sturzo del 10 dicembre 2013. A proposito. Il gip pur non ravvisando profili di reato evidenzia che sebbene non siano emerse - al 2013 - irregolarità formali nella trasformazione del «Comitato provvisorio Pd Lazio» in «Pd Lazio unione regionale», «potrebbe essere oggetto di un eventuale accertamento per danno erariale presso la Corte dei conti (a cui il pm provvederà a trasmettere gli atti)».

·        Pierluigi Bersani.

Matteo Renzi accusa Pier Luigi Bersani a Non è l'arena: "Prendeva i soldi dai Riva a Taranto. Centinaia di assunti nel suo Pd". Il Tempo il 18 novembre 2021. “Dice che ho fatto del partito la mia cassa? Ora vi dico tutto”. Matteo Renzi è imbufalito per le parole di Pier Luigi Bersani e scatta la rissa a distanza tra ex segretari del Partito Democratico. "A Bersani - dice Renzi ospite di Massimo Giletti nella puntata del 17 novembre di Non è l’Arena su La7 - vorrei dire che prima di parlare di me e finanziamenti della politica dovrebbe dire come mai lui prendeva soldi, legittimi, da Riva a Taranto. Se anziché finanziare lui e la sua campagna elettorale quei soldi fossero stati utilizzati per fare delle operazioni per Taranto, per l’ambiente e per il clima… Io i soldi non li ho presi da Riva come ha fatto Bersani, io li ho portato con il mio governo, mettendo le risorse per andare sistemare Taranto. Quando Bersani parla di finanziamento alla politica, in questo caso lecito, dovrebbe ricordarsi che prima di parlare - conclude il suo attacco il leader di Italia Viva dopo aver sottolineato la vicenda del gruppo una volta proprietario degli stabilimenti dell'Ilva - dovrebbe prima spiegare cosa ha fatto lui, sia a Taranto che nella gestione del partito, quando era segretario e costava un sacco di soldi, con centinaia di persone assunte, e c'era il finanziamento pubblico”.

Oggi è un altro giorno, Pierluigi Bersani zimbello di uno stadio intero: "Si respirava hashish a volontà e io ero in giacca e cravatta". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Confessione choc di Pier Luigi Bersani, il papà per antonomasia delle liberalizzazioni. Ora racconta quello che non ha mai detto, e lo fa in tv su Rai 1 ad Oggi è un altro giorno con Serena Bortone. Si parla di musica e parte il racconto del concerto di Bob Marley. "Si respirava hashish a volontà, mi guardavano tutti", dice l'ex aspirante premier (un sogno mai realizzato, rimasto nel cassetto). Bersani non ha mai nascosto la passione per la musica. Così, decide di raccontare quello che è accaduto per assistere ad un concerto del grande Bob Marley. "Avevo i biglietti di questo concerto a San Siro, forse l'ultimo o il penultimo della sua carriera, e nello stesso giorno in Emilia-Romagna si insedia il primo consiglio regionale in cui vengo eletto. Vado, ero a Bologna e incrocio un pullman di giovani che partono per l’esibizione di Bob Marley. Salgo e arrivo allo stadio. Si respirava hashish a volontà e io ero vestito con un abito, per stare comodo mi ero tolto solo la cravatta. Gli spettatori sugli spalti mi guardavano perché ero l’unico che indossava la giacca fra 80mila presenti e pensavano fossi un questurino... Allora ho fatto questa parte, mi sono messo a girare per le tribune con un’aria da guardiano, mentre seguivo il concerto. C’era chi appena mi vedeva nascondeva la mano….”. Ma non è l'unico concerto a cui ha assistito. Arrivano pure i Guns’n’Roses: altro giro, altra corsa. Insomma altra avventura. “Mi fanno presidente della regione, devo fare la nuova giunta fra polemiche e riunioni, ma era nel 94 e io avevo il biglietto per i Guns’n’Roses. Io ho salutato tutti e me ne sono andato, i giornali il giorno dopo hanno titolato “Rose e fucili per Bersani”, conclude Bersani. 

·        Roberto Speranza.

Roberto Speranza, l'affondo di Pietro Senaldi: "Non è nemmeno un infermiere. Perché abbiamo un dilettante alla Sanità?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. L'Italia è travolta da due crisi, quella sanitaria, dovuta al Covid, e quella economica, che ne è la diretta conseguenza, visto che è generata dalle chiusure e dal rallentamento della vita sociale decisi per frenare l'epidemia. La prima ha fatto oltre centomila morti e, a oltre un anno dalla sua esplosione, siamo ripiombati per la quarta volta davanti al tunnel di nuove serrate selvagge. La seconda ha prodotto una contrazione del prodotto interno lordo nel 2020 del 9,5%, ha aumentato di due punti la percentuale di poveri assoluti e, malgrado il blocco dei licenziamenti, ha bruciato quasi 700mila posti di lavoro e fatto perdere ai dipendenti messi forzatamente in cassa integrazione 8,7 miliardi. Il collasso sanitario ed economico, oltre al disastro nell'approvvigionamento e nella somministrazione dei vaccini, sono la ragione principale, se non l'unica, della caduta del governo Conte, una poco simpatica combriccola di improvvisati.

Persone di fiducia. Per rimediare ai danni dei giallorossi sono stati chiamati in servizio i cosiddetti tecnici. La loro massima espressione è Mario Draghi, imposto da Mattarella come premier ai partiti inconcludenti e litigiosi. Draghi è un banchiere, nonché l'unico italiano che in Europa comanda anziché prendere ordini. Il suo compito istituzionale è condurci fuori dalla pandemia a colpi di vaccino e scrivere un programma economico che direzioni gli aiuti europei verso investimenti produttivi e non in sussidi senza ritorno, come sarebbe stato lasciando al suo posto il nuovo capo dei grillini, l'avvocato di Volturara Appula. Sul fronte economico SuperMario ha preso subito due decisioni drastiche. La prima è stata scegliere personalmente tutti i ministri economici, scegliendo al di fuori della politica, con l'eccezione del leghista Giancarlo Giorgetti, piazzato allo Sviluppo Economico, dove non può far peggio dei predecessori, Di Maio e Patuanelli. Fedelissimo del premier è il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che lavorò con lui in Bankitalia e ha avuto carta bianca nel scegliere i propri collaboratori. Ad aiutarlo a redigere il piano sul Recovery Fund è stata ingaggiata McKinsey, società internazionale di consulenza di primissimo livello. Collaboreranno anche Ernest&Young, Accenture, Pwc e altri trecento tecnici, assunti allo scopo dopo che il nuovo governo ha decretato che tra i tre milioni e mezzo di dipendenti della Pubblica Amministrazione non ci sono professionalità all'altezza. Ben vengano gli economisti, se ci servono. E ben venga anche l'esercito in sostituzione del commissario alla pandemia, Domenico Arcuri, degradato sul campo in favore del generale degli Alpini, Francesco Paolo Figliuolo, reclutato per la profilassi in quanto numero uno nazionale in materia di logistica. Sempre in nome della competenza è stato richiamato alla Protezione Civile Fabrizio Curcio, in sostituzione di Angelo Borrelli, il precedente pacioso responsabile, a suo tempo accusato da certa stampa di essere un no-mask. Giusto così, la partita dei vaccini è vitale e Draghi ha strutturato una squadra di primo livello. L'unica cosa che non torna, in questo tripudio di competenti, è la conferma al dicastero della Salute di Roberto Speranza, il ministro ossimoro, dal nome beneaugurante ma che, al solo sentirlo, semina terrore e lutti. L'uomo è un politico di seconda fila. Quando si candidò alle Primarie del Pd arrivò terzo, malgrado la segreteria dei dem sia una seggiola in svendita, che produce in chi vi si accomoda immediate allergie e desiderio incontrollabile di levarsi di torno. Il comunista lucano, ritenendo gli ex comunisti troppo poco a sinistra, ha fondato Liberi e Uguali, grazie alla mano sulla testa che da sempre gli pone Pierluigi Bersani, talent scout di provincia al quale dobbiamo anche Alessandra Moretti e il fu Tommaso Giuntella. Alle ultime Politiche, nella sua Basilicata, ha preso meno di quattromila preferenze, fedele al detto che nessuno è profeta in patria. Pochissime, sufficienti però, per gli incomprensibili giochi della politica, per insediarlo al ministero, dal quale decide delle nostre vite da oltre un anno.

Fuori dal tempo. Speranza è laureato in Scienze Politiche, se così si può dire, e nella sua vita ha fatto un solo lavoro, il politico, sempre se così si può dire. Non è neppure infermiere ma comanda sui medici, che di virus hanno letto qualche centinaio di libri più di lui e sui governatori delle Regioni, che hanno preso centinaia di migliaia di voti più di lui. Comanda pure sul suo vice, Pierpaolo Sileri, che siccome è medico chirurgo con tanto di master negli Stati Uniti e ne sa più di lui, non viene neppure convocato dal ministro alle riunioni che contano. Nell'era dei competenti, il bersaniano è un uomo fuori dal tempo. Nel nostro Paese i geni della medicina sono perfino più numerosi di quelli dell'economia. Abbiamo una sfilata di scienziati di livello internazionale ma nessuno li chiama in servizio. Se per l'emergenza economica abbiamo avuto l'intelligenza di rivolgerci a esperti in numeri, per quella sanitaria ci difetta l'acume di convocare al governo i medici. Si preferisce relegare chi capisce di Covid nei salotti tv e lasciare a menare il torrone gli esperti in chiacchiere. Intorno al deprimente Speranza, portatore di lutti nel fisico e nel messaggio, si stringe infatti il Comitato Tecnico Scientifico, una congregazione di medici il cui h-index, la misura con cui si pesa il valore di un dottore, è degno di un ospedale metropolitano e non di una struttura chiamata a governare la salute nazionale. Il valore medio dell'indice infatti si attesta a 31,5, ma solo perché la capa, Elisabetta Dejana, ha una quotazione personale di 109 e quello di Franco Locatelli è a 101. Al netto di questa coppia, l'indice scientifico del membro del Cts medio si fermerebbe a 25. Un nulla se si pensa ai 171 punti del professor Alberto Mantovani o ai 164 di Giuseppe Remuzzi, geni ignorati da Speranza. Curiamo il Covid con i politici e mandiamo in tv i medici, ecco il modello Italia contro la pandemia, e poi ci stupiamo se all'estero non ci copiano.

·        Romano Prodi.

Romano Prodi: «Di Pietro batteva i tacchi. Gheddafi volle la tenda». Marco Ascione su Il Corriere della Sera il 4 Ottobre 2021.  Dal libro «Strana vita la mia», sei ricordi personali di incontri, istituzionali e politici. «Putin mi gelò quando gli proposi di far aprire a Gino Strada un ospedale in Cecenia...». «Il Senatur voleva un rapporto stretto. “Strade diverse”, dissi». Sei incontri. Con leader politici o istituzionali, italiani e stranieri. Nell’autobiografia di Romano Prodi, Strana vita, la mia, scritta con Marco Ascione, molte pagine sono dedicate ai faccia a faccia che spesso si rivelano decisivi per cambiare direzione ad eventi internazionali o a strategie politiche. Eccoli, qui di seguito, tratti dal libro e sintetizzati dal suo autore.

1 - UN LIBICO A BRUXELLES

Il Colonnello (Gheddafi; ndr) mette piede in Europa nell’aprile 2004 dopo 15 anni di assenza, terminato l’embargo Onu sulla Libia. «Con lui ero stato estremamente chiaro: “Se non paghi gli indennizzi per i casi Lockerbie e La Belle, attentati di cui sono stati considerati responsabili dei terroristi libici, a Bruxelles non puoi venire”. Pagò un sacco di soldi sia per l’aereo abbattuto, sia per l’attentato alla discoteca di Berlino: miliardi di dollari. (...) Si accampò in un giardino con la sua numerosissima e folcloristica scorta. Una coreografia consolidata. Quel giorno pioveva a dirotto. Mi avvicinai alla tenda e gli chiesi: “Dormi qui anche con questo tempo orribile?”. Strizzando l’occhio mi indicò un palazzo alle sue spalle. Si creò un rapporto, con qualche disappunto dei giornalisti, quando si rivolse a me dicendo: “Voglio esprimere gratitudine a mio fratello Romano”. (...) Ma la verità è una: avevamo nuovamente un canale di dialogo con la Libia. (...) Conobbi anche suo figlio Saif e non per motivi di natura politica. Mi chiese il padre di incontrarlo per parlare dei suoi studi. Ci vedemmo a Bruxelles e a Londra e venne anche a Bologna». 

2 - CHIRAC IN RITARDO

«Dovevo mettere insieme, e subito, il contingente internazionale (per l’Albania; ndr). L’interlocutore naturale (...) era la Francia. Proprio alla vigilia della tragedia nel canale di Otranto ero stato a Parigi per parlarne con Chirac. Ci andai accompagnato da Flavia perché nelle stesse ore doveva svolgersi un concerto organizzato dalla moglie del presidente francese per i 70 anni del grande violoncellista Rostropovic. Un concerto splendido al quale Jacques arrivò in ritardo, quasi verso la fine. E di questo lo rimproverai, sorridendo. Mi rispose con una battuta: “Meglio mezz’ora di cattiva musica che un’ora di buona musica”. Finito il concerto, all’una di notte, gli spiegai che avevo assolutamente bisogno di mille soldati francesi per l’operazione in Albania. “Trecento” fu la replica. Gli dissi che, in questo caso, non avremmo adempiuto alla richiesta dell’Onu (...) ma aggiunsi con chiarezza che saremmo andati in Albania con o senza di loro. Si fermò un attimo e poi mi rispose: “Ti mando un messaggio entro domattina alle 8”. Il mattino dopo ebbi una risposta di adesione alla missione con il numero di militari da noi richiesto».

3 - DI PIETRO? UN DEMOCRISTIANO

«È stato un alleato complicatissimo. Ma non ha mai generato problemi politici con effetti di lungo periodo. È un fatto che l’Ulivo, pur con differenziazioni maggiori delle somiglianze, era portatore delle stesse istanze di indignazione popolare dell’ex pm di Mani Pulite. (...) Si è spesso definito un democristiano. Era passato anche in seminario. E il suo modo di affrontare le situazioni traeva alimento dalla sua esperienza di vita: la tradizione cattolica e la professione in polizia e in magistratura. A volte diceva: “Dobbiamo fare apostolato”. (...) Aveva l’abitudine di sbattere i tacchi, come un militare che si mette sull’attenti. E per scherzo, ma non troppo, lo faceva davanti a me, quando ero premier».

4 - DA BOSSI SUL PIANEROTTOLO

Via Arbe, Milano, prima sede della Lega. «Mi invitò Bossi, credo su suggerimento del professor Gianfranco Miglio. (...) Prima che Berlusconi mi infamasse, godevo di grande stima nel mondo della piccola e media impresa del Nord, ossia in quello che divenne il bacino naturale dell’elettorato leghista. (...) Ci radunammo su un pianerottolo, era pieno di militanti impegnati a mettere a posto mobili e archivi. Un gran viavai. (...) Bossi mi fece capire che non gli sarebbe dispiaciuto se avessi collaborato in modo strutturato con loro. Risposi che mi piaceva dialogare, ma che le nostre strade erano diverse».

5 - IL LEADER RUSSO VISTO DA VICINO

«Eravamo riuniti a Mosca. Durante un intervallo mi rivolsi a Putin dicendo che una Ong italiana - si trattava di Emergency, presieduta da Gino Strada - avrebbe desiderato aprire un ospedale a Groznyj, capitale della Cecenia. Presentai con calore l’iniziativa, aggiungendo che a mio parere sarebbe stato per lui conveniente. (...) Putin non mi rispose nulla, si spostò a chiacchierare per qualche minuto con altri convenuti e, quindi, ritornò da me chiedendomi semplicemente: “Tu, Romano, hai la cittadinanza russa?”. Alla mia ovvia e stupita risposta negativa, mi disse che non accettava nemmeno di parlare di Cecenia con chi non era cittadino russo. Questo dimostra come sia difficile il rapporto con Mosca».

6 - RUINI, AMICIZIA SPEZZATA

«Con Ruini più che una rottura fu una separazione. Ognuno andò per la sua strada, ma la sua azione contro il governo fu sempre determinata.» (...) «Negli Anni 60, a Reggio Emilia, eravamo quasi sempre insieme al Circolo Leonardo, nato su impulso di alcuni aderenti al gruppo dei laureati cattolici (...)». L’ultima volta in cui ebbi un faccia a faccia con lui fu nel 1995. Lo andai a trovare in Laterano per parlargli del mio progetto politico. Non fu un momento facile. Mi disse che la mia scelta non gli appariva coerente con il mio passato. (...) Una volta sull’uscio, aggiunse che, visto il mio ruolo pubblico, avremmo dovuto vederci con circospezione. Capii in quel momento che la politica aveva scavato tra di noi un solco profondo».

Massimo Franco per il Corriere della Sera il 15 settembre 2021.

Su Mario Draghi: «Credo che l’incognita dei prossimi mesi riguardi molto Draghi: se sceglierà un grande potere limitato nel tempo, o meno potere ma grande autorità per un tempo molto più lungo».

Su Sergio Mattarella: «Conoscendolo, se dice di non volere essere rieletto, sarà così. Credo a quello che dice».

Su se stesso: «Non c’era bisogno del no di Berlusconi per farmi mancare i voti nel 2013. Con la bocciatura al Quirinale non ci sono problemi, non era cosa che facessi il capo dello Stato, tutto qui. Debbo anche aggiungere che gli anni successivi sono stati tra i più felici della mia vita…».

E nel voto del 2022 «starò a guardare…», assicura, proseguendo una vita strana e fortunata, la definisce Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, ex premier ed ex presidente della Commissione Ue. Ha deciso di raccontarla insieme con Marco Ascione, in un libro sorprendente, a tratti puntuto, edito da Solferino; e che si intitola proprio Strana vita, la mia.

Strana perché?

«Ma perché è stata dettata tutta da fatti esterni, non guidati. E direi anche fortunata. La mia famiglia, un buon liceo, l’università Cattolica a Milano, con un mondo cattolico in fermento che era all’avanguardia in Italia. Poi casualmente ministro dell’Industria quando Pandolfi mi suggerì a Andreotti. Poi la crisi dei partiti e l’esigenza di ricostruire il riformismo, riunendo chi era stato diviso dal Muro di Berlino…». 

È una casualità un po’ sospetta, professor Prodi. Nessun calcolo, nessuna strategia?

«Ammetto che nella costruzione dell’Ulivo una strategia c’è stata. A quel gesto non sono stato spinto. L’ho compiuto perché volevo interpretare un’esigenza diffusa che coglievo nel Paese. E quell’esigenza rimane, anche se non si può declinare più come Ulivo. Il riformismo deve trovare un’identità nuova dopo 35 anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali». 

Ma il Muro di Berlino divise anche i moderati. E la sua caduta li ha riuniti, con una grande forza.

«Certamente, e allora li riunì Berlusconi creando il centrodestra; ora non saprei. Io mi occupai del campo riformista. Il problema è che in quel campo c’erano riformisti speciali come Bertinotti, che per la paura di vedersi erodere la base si tirarono indietro».

Lei racconta che l’Ulivo si collegò con l’indignazione popolare espressa dal pm Antonio Di Pietro. Col senno di poi, una virtù o un peccato originale?

«Era un’evoluzione obbligata. In quel momento Di Pietro era coerente col mio disegno. Certo la sua meteora e il suo cambiamento sono stati più rapidi del previsto».

Nel libro dice che «con la destra al governo» l’Italia non sarebbe mai entrata nell’euro». Che cosa glielo fa pensare?

«Il fatto che avesse assunto profondamente l’idea che la fine della lira e il legame con l’Europa avrebbero eroso il collante del centrodestra. Allora, i voti di quell’area guardavano più al passato che al futuro. E seguivano un’ottica nazionale più che internazionale. L’appello era a una base conservatrice che tra lira ed euro preferiva la prima». 

Eppure Berlusconi oggi è un europeista convinto.

«È stato il capolavoro di Helmut Kohl. Lui dava giudizi taglienti su Berlusconi, ma accolse FI nel Partito popolare europeo. Gli dissi: “Ma che stai facendo?”. Mi rispose: “Ho passato tutta la vita a combattere i socialisti e non posso cambiare ora. E se FI sta nel Ppe, lì comando io”. Aveva ragione lui: FI è oggi una forza europeista». 

Lei sostiene che l’Italia può esprimere il suo ruolo solo se pesa a Bruxelles. Con Draghi abbiamo fatto un passo avanti.

«Certamente, è già così. Abbiamo recuperato in immagine internazionale, ci sono gli aiuti del Next Generation Plan. La Ue ha compiuto un grandioso passo avanti grazie alla conversione di Angela Merkel e della Germania. E grazie alla Brexit, senza la quale non ci sarebbe stato il ripensamento: ex malo bonum. Semmai, il problema è la Francia. Il nostro futuro è con gli Stati Uniti, ma l’Europa deve avere più forza nella Nato, e può farlo solo se la Francia mette a disposizione l’arma nucleare e il potere di veto all’Onu, rendendoli risorse non nazionali ma europee. Non è scontato: la Francia è un Paese particolare» . 

Dopo essersi definito un «cattolico adulto», si definisce anche atlantista adulto. Che significa?

«Significa che il nostro destino politico e militare è con gli Usa. Ma che bisogna tenere conto degli interessi nazionali ed europei, e dunque anche dell’esigenza di dialogare con la Cina».

Non offrirà pretesti a chi, in alcune cancellerie occidentali, la raffigura come amico di Putin e della Cina?

«Dicano quello che vogliono. Ho insegnato negli Stati uniti, prima che in Cina, in anni non sospetti. E mai nessuno ha potuto vedere nella mia vita il minimo di incoerenza nei rapporti con l’America. Quando andai in Iran in pieno embargo si può pensare che non mi fossi consultato con la Casa Bianca? Parlai tre volte con Clinton. So cos’è la storia. Tutti sono in grado di parlare con san Francesco, ma è più difficile parlare con il lupo. E si dovrà fare così anche col governo afghano, se vogliamo portare gli aiuti umanitari a chi ne ha bisogno e tirare fuori i nostri collaboratori». 

Il lupo è anche la Cina?

«Con la Cina occorre trovare un modus vivendi. Non so se si troverà, ma bisogna cercarlo. Dipende molto dalla Cina e dagli Usa. Di fatto, gli Stati Uniti stessi ci danno l’esempio di un possibile compromesso: mantengono una tensione fortissima nel campo dell’alta tecnologia, ma il resto del commercio continua alla grande». 

Come ricorda la bocciatura al Quirinale nel 2013? Nel libro parla di 118 o 120 franchi tiratori, non 101. Il no di Berlusconi pesò anche sul Pd?

«Non c’era bisogno del no di Berlusconi per spingere una parte del Pd a farmi mancare i voti: è stata una fatica inutile! Mi dispiace soprattutto che in conseguenza di quell’episodio il Pd si sia ulteriormente diviso. E in questo senso il Partito democratico ci ha rimesso più di me. D’altra parte ho sempre ritenuto che non fosse cosa che facessi il capo dello Stato, tutto qui. E gli anni successivi sono stati forse per me i più belli della mia vita». 

Non ha voglia nemmeno Mattarella di essere rieletto.

«Conoscendolo, quando dice una cosa la mantiene. Dunque credo a quello che dice. Se poi arrivassero momenti drammatici, che non vedo né oggi né in prospettiva, certamente il capo dello Stato sentirebbe il dovere di cambiare idea».

Invece vede Draghi al Quirinale?

«Dipende da cosa sceglierà di fare: se avere grande potere per un periodo limitato, o grande autorità per un tempo molto più lungo».

Cioè se sceglie Palazzo Chigi o il Quirinale. Ma nei conclavi chi entra papa esce cardinale.

«Dovunque ci sia un voto segreto si annida il rischio. Ne sono un buon testimone diretto».

Lei starà solo a guardare, da cardinale laico? Ci credono in pochi, anzi quasi nessuno.

«Le assicuro, come ho scritto nel libro, che starò a guardare da laico, non essendo nemmeno cardinale».

Esce il 16 settembre, per Solferino, il libro di Romano Prodi, scritto con Marco Ascione, Strana vita, la mia (pp. 226, € 17,50). Prodi lo presenterà a Roma il 21 settembre, alla Feltrinelli di Galleria Alberto Sordi (ore 18, con Enrico Letta e Marco Ascione). Poi a Bologna, il 24 settembre, nell’ambito della rassegna «La voce dei libri», in Sala Borsa. Infine a Milano, nella Sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera, il 1° ottobre (ore 18.30), con Marco Ascione e il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana.

Romano Prodi e Marco Ascione per il Messaggero il 15 settembre 2021. C'è chi parla ora del Professore e del Cavaliere, ormai ottuagenari, come «carissimi nemici», accomunati dall'aver vissuto, politicamente parlando, nella stessa cornice, quando ancora non imperavano i sovranismi. Un po' Coppi e Bartali, si è detto. «Con Berlusconi non si è mai creato un vero rapporto, né prima, né durante né dopo la mia esperienza di governo. A parte alcune inevitabili telefonate quando ero a Palazzo Chigi. Lo chiamai per informarlo delle conclusioni della conferenza per il Libano nel 2006. E lui, a proposito della difficoltà di tenere in piedi le rispettive coalizioni, mi disse: Anche tu hai i tuoi matti. Nei rapporti continuativi, che sono indispensabili fra governo e opposizione, ho abitualmente fatto riferimento a Gianni Letta, un canale che si è sempre dimostrato utile per spiegare le diversità e, anche, per preparare i necessari compromessi. Si è detto che recentemente sono state smussate antiche asprezze, come se fossero cambiati i nostri punti di riferimento. Credo che le differenze sul futuro politico e sociale del Paese rimangano, ma questo non mi ha impedito di apprezzare una convergenza su importanti capitoli di politica europea. Che la vecchiaia porti saggezza mi sembra incontrovertibile». Ma per Prodi una «maggiore convergenza» dovrebbe passare non solo da «un confronto sui fondamentali in politica, ma anche dall'analisi di alcuni eventi che hanno avuto grandi conseguenze sul futuro del nostro Paese». Eccoli, gli eventi. «Non mi è infatti facile dimenticare la comprovata compravendita di parlamentari per far cadere il mio secondo governo. Oppure la campagna alimentata da Forza Italia e dal centrodestra su Telekom Serbia. Contro di me e alcuni miei colleghi è stata allestita addirittura una commissione parlamentare.» Telekom Serbia, ossia la vicenda giudiziaria nata dalle dichiarazioni del faccendiere Igor Marini, secondo il quale, nell'ambito dell'acquisto di azioni dell'azienda telefonica Telekom Serbia, da parte di Telecom Italia, furono pagate tangenti a Prodi, a Dini e a Fassino, agenti sotto i «misteriosi» nomi di mortadella, ranocchio e cicogna. Accuse rivelatesi completamente false, così come i documenti che le sostenevano. Il governo Berlusconi, nel 2008, istituisce, appunto, una commissione d'inchiesta che non porta a nulla. «Chissà quanto e a chi è costato pagare tante persone a Belgrado e a Montecarlo perché costruissero documenti falsi. Quando nel 2004 il magistrato di Torino che indagava su Telekom Serbia mi ascoltò, io arrivavo da Bruxelles come presidente della Commissione Ue. Mi chiese: Lei torna a Bologna? Passi allora dalla Madonna di San Luca, per grazia ricevuta, perché proprio ieri è arrivata da Montecarlo la rogatoria che chiarisce l'origine di quei documenti, provando senza ombra di dubbio la loro totale falsità e quindi la completa estraneità ai fatti da parte sua e di tutti gli altri accusati. Se ci fosse stato un ritardo, la Procura avrebbe dovuto spedire le carte al Tribunale dei ministri. Certo, io sarei stato poi assolto a formula piena ma, intanto, mi sarei dovuto dimettere da presidente della Commissione europea».

·        Rosy Bindi.

Rosy Bindi: «Il Pd è un patto di potere, deve andare oltre se stesso». Lo stile di Letta. L’esistenza di Di Maio. Il cinismo di Renzi. I conti col berlusconismo. Il centrosinistra da ricostruire. Franceschini «che è come quella pubblicità: dove c’è maggioranza c’è Dario». L’ex ministra e parlamentare parla a tutto campo. E su chi la vuole al Colle ironizza: «Sto già scrivendo il discorso, come Casini». Susanna Turco su L'Espresso il 5 novembre 2021. Adesso che tanti fanno il suo nome tra i papabili per il Colle, non c'è verso di stanarla. La prendi alla larga e lei, seduta in una poltrona della Domus Mariae, sede storica dell'Azione Cattolica e ora albergo di cui comunque riconosce ciascuna stanza dalla forma delle finestre, risponde placida: «Una donna capo dello Stato? Lo dico dai tempi di Tina Anselmi». Anno di grazia 1992. Vai dritto alla domanda e lei vira al sarcasmo: «Quirinale? Sto già scrivendo il discorso». Rosy Bindi, 70 anni di cui 24 da deputata, nata nell'Azione cattolica e nella Dc, dove si affermò nel tempo di Tangentopoli, ministra della Sanità e della Famiglia nei governi Prodi, tra le poche capaci di farsi largo nel maschilismo pre quote rosa, unica donna a candidarsi alle primarie Pd (2007, mezzo milione di voti), la prima ad esserne presidente, due nemici giurati (lo diciamo per chi ravvisa somiglianze): Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Nella Dc con Casini, nella Margherita con Enrico Letta, amica da sempre di Sergio Mattarella, è un altro pezzo pregiato che il Pd si è perso per strada senza che si sapesse esattamente perché. Ma sapendo con certezza per chi: Renzi, appunto, da cui la divide tutto (anche le immagini: sono finiti solo una volta nella stessa foto, per caso) sin dal 2012, quando lei, presidente del Pd, perse la battaglia dei contrari a modificare lo statuto dem per far sì che lui partecipasse alle primarie. Chi c'era, racconta che alle preoccupazioni dell'allora segretario, Pier Luigi Bersani («poi rischiamo che se ne vada e si faccia un partito suo»), lei avesse risposto con una previsione leggendaria: «Vedi se non finirà che dovrai fartelo tu, un partito», disse al futuro fondatore di Articolo 1. Scomparsa per anni dalla prima fila, ha rifatto capolino alle suppletive a Siena. Ma sogna di andare oltre il Pd, che di fatto giudica irriformabile: l'affossamento del Ddl Zan è per lei la prova di quanto ciò sia necessario. Dopo molti anni all'Azione Cattolica, di cui è stata vicepresidente, Rosy Bindi esordisce in politica con la Dc. Il battesimo è alle Europee del 1989. Si candida con la Dc, viene eletta nella circoscrizione nord est con 200 mila preferenze (qui a Berlino, nel 1990). In Parlamento arriverà solo nel 1994, con il Ppia: e ci rimarrà per 24 anni.

Dopo la vittoria nelle città il Pd sembrava andare a larghe falcate verso l'Ulivo 2.0. E invece è arrivata la gelata del Ddl Zan.

«Non guardate me, io sui diritti civili ho già dato a suo tempo. Nel primo tentativo di regolare le unioni civili, i Dico, che poi fallì per colpa degli estremismi del Family Day di piazza San Giovanni, più quello di una certa sinistra. Avendo preso botte di qua e di là, me ne sono stata in religioso silenzio. E non entro nel merito: dico solo che è stato consumato un atto di cinismo».

Alludiamo a Matteo Renzi?

«Il tentativo di mediazione da parte di Letta è stato forse tardivo. Ma anche se l'avesse fatta prima, visto come si è comportato il capo di Italia Viva, cosa sarebbe cambiato?».

Da premier Renzi rinunciò a pezzi di maggioranza e pezzi di testo, pur di portare a casa le Unioni civili.

«Intendiamoci: sulla tattica è un genio. Per forza: non ha scrupoli, è facile così. Ma con chi avrebbe dovuto sedersi al tavolo Letta? Per questo dico che, da questa vicenda, va tratta un'unica lezione: non si fanno le ammucchiate, bisogna aprire una fase di ricostruzione della sinistra. E il ddl Zan è un segnale preciso: attenti a parlare dell'Ulivo e a ritrovarsi nell'Unione».

Cioè si rischia il pantano?

«Ciò che è accaduto al Senato è un campanello di allarme molto chiaro, che va interpretato da chi pensa a una coalizione che si chiama “Ulivo” ma poi si traduce “Unione”. Una volta si diceva: da Mastella a Ferrero, ora da Calenda a Fratoianni».

A Luigi Di Maio.

«Al Movimento Cinque Stelle, guidato da Conte, anche per superare le differenze tra Luigi Di Maio e Roberto Fico. Comunque i rischi li abbiamo appena visti. È vero che è difficile cambiare la legge elettorale e che, se si vota con quella meraviglia che è il Rosatellum, la tentazione di fare coalizioni ampie viene a tutti: ma mi pare che si debba distinguere tra gli accordi per una maggioranza, e un progetto politico. Rischiamo di non fare tanta differenza rispetto al passato. Con una variabile a sfavore».

Faccia indovinare.

«Il cinismo di Renzi».

Bignami per chi non sa o non ricorda. Cosa era l'Ulivo e cosa era l'Unione?

«L'Ulivo nel 1996 era un disegno basato sulla sintesi tra le culture politiche, un progetto per l'Italia e l'Europa: ha avuto una stagione molto breve. L'Unione, nel 2006, fu il tentativo di unire il campo del centrosinistra, anche con lo scopo - sapendo che non era l'Ulivo - di creare con l'esperienza di governo più coesione, contro una destra non meno divisa ma più capace di neutralizzare le sue differenze».

Perché fallì?

«Di fatto c'era solo il governo che lavorava con il desiderio di andare avanti: dietro però non c'era un progetto. E del resto sarebbe stato difficile mettere tutti insieme. Ricordo ministri che guidavano piazze contrapposte. Quasi tutti i capi politici erano al governo, facevano il doppio mestiere».

Morale per l'oggi?

«Capisco sia una buona cosa darsi l'obiettivo di vincere, però il centrosinistra dovrebbe aver imparato che non vincerà nulla se non c'è un progetto condiviso e una classe dirigente che vuol superare le divisioni».

Da dove bisognerebbe ricominciare?

«Nonostante l'astensionismo ci sarebbero i materiali, le energie: penso al mondo cattolico, di sinistra, che ha radicamento sul territorio eppure non ha casa, interlocutori. Navigano tra tentazioni di esperienze identitarie, mentre avvertono tutti che la sede giusta sarebbe una forza politica capace di esser inclusiva».

E questa forza non è il Pd?

«Oggi no. Non è riconosciuto tale. E paradossalmente, quello zoccolo duro di elettori che ha è frenante, perché dici: quelli ci sono comunque. Ma non ha dentro l'innovazione, non è inclusivo, non si apre. Si fa forte di quello che ha. È un patto di potere»

Come è accaduto per esempio a Roma, con la candidatura di Gualtieri?

«È l'unica cosa su cui sono d'accordo con Calenda, quando non voleva accordi di potere con il Pd di Bettini, Astorre e Mancini. Ma Gualtieri è una bravissima persona e farà bene. Non è questione di oggi. Già dai tempi di Zingaretti mi permisi di dire che serviva aprire una fase costituente: ma c'era grande fretta di superare Renzi, che invece poi non è stato superato».

È questo il momento della resa dei conti?

«Quanto meno si tratta di trarre le conseguenze. Siccome i possibili interlocutori della sinistra fanno il gioco delle esclusioni reciproche, bisogna scegliere. Su un progetto. Letta dovrebbe avere chiaro con chi ha a che fare, questo dovrebbe averlo imparato. È anche un ragazzo sveglio»·

Per entrare nel futuro bastano le Agorà?

«Le Agorà vanno bene, meglio di stare chiusetti nella propria stanzetta. Ma sembrano una consultazione: mentre gli interlocutori dovrebbero essere i protagonisti. C'è da ricostruire un campo, difficile che avvenga se un partito fa gli inviti. Il Pd dovrebbe usare questo tempo per andare oltre se stesso, costruire una grande forza di sinistra nel Paese».

Ci può stare anche il M5S?

«Per me sì, andrà chiesto a loro. I flussi elettorali dimostrano che i Cinque Stelle sono una costola della sinistra. Penso sia possibile ricucire quello strappo, però non unendo solo le sigle: perché altrimenti non si fa chiarezza, ed è quella che al centrosinistra manca».

Ma le elezioni sono andate bene, no?

«Era anche difficile perdere a Roma, a Milano, a Napoli. Ma una cosa sono le grandi città, una cosa i centri medio piccoli. È un'altra storia. E sulle grandi questioni la destra una sua posizione ce l'ha, bene o male, fa capire cosa vuole. La sinistra dovrebbe essere più esplicita, avere più coraggio: credo ci sia troppa preoccupazione di non guadagnare consenso, se si è radicali nei contenuti».

E invece?

«Se io dico agli italiani che le vite in mare si salvano e punto, la gente lo capisce».

Sembra di sentire Elly Schlein.

«In un Paese in crisi demografica come il nostro il futuro sta nell'integrazione, l'Europa l'ha capito da un pezzo. E sui temi del lavoro. Si rimettono o no in discussione alcune parti del jobs act? Si ha il coraggio? Si parla tanto del futuro dei giovani: che si chiama scuola, lavoro, ricerca. Sulla sanità pubblica una parola chiara la vogliamo sentire? È il momento di decidere, perché il piano inclinato che ha preso l'Italia porta alla privatizzazione».

E tutto ciò dovrebbe farlo Enrico Letta? Venite dalla stessa cultura politica, ma avete approcci opposti. Esempio: nel 2007, in mezzo a una battaglia tra Prodi e Rutelli, lui diceva di sentirsi sia prodiano che rutelliano, lei di non essere d'accordo con nessuno dei due.

«Siamo sempre stati dalla stessa parte, con delle differenze. Anche da candidati alla segreteria del Pd, nel 2007, io difendevo gli anni Settanta, lui gli anni Ottanta. E non solo per un fatto anagrafico: io ero concentrata sul periodo delle grandi riforme, lui quello delle opportunità - che per me era la Milano da bere. Quando era presidente del Consiglio e si cominciò a parlare di Congresso del Pd, gli consigliai di venire in Direzione e minacciare le dimissioni, contro Renzi. Lui non lo fece. Ma sono passati molti anni».

Un altro stile.

«Speriamo di dire che lo “aveva”, un altro stile. Chi è segretario deve fare opera di ascolto e di sintesi, sì, ma ora serve dare una linea precisa, con coraggio. Si è vinto le elezioni perché le periferie non sono andate a votare? Questo ci dovrebbe dire molto. Visto che sono stati a casa, è ora di ricominciare a parlarci».

Lei protestò contro l'unanimismo che portò Zingaretti alla guida del Pd. Ma anche Letta è stato acclamato all'unanimità. Che differenza c'è?

«Attorno a Zingaretti non ci fu solo unanimismo: vinse il congresso grazie a quelli che fino al giorno prima avevano appoggiato Renzi. Fu un'operazione politico-scientifica. E infatti non si sognarono di esporre icone anti-renziane: io ad esempio non ho mai ricevuto una telefonata».

A chi stiamo alludendo?

«È come la pubblicità: dove c'è Barilla c'è casa. Dove c'è maggioranza c'è Franceschini»

Il leader di Areadem c'è anche adesso.

«È diverso. A marzo, dopo le dimissioni di Zingaretti o chiudevi bottega, o cambiavi schema. Poi, siccome uno lo sa come è stato eletto, si regola di conseguenza: e Letta ha parlato infatti di comportamenti radicali».

Lei non ha più partecipato alle scelte del Pd. Tornerebbe alle Direzioni del partito?

«Tornerei a iscrivermi solo per votare una mozione che dice di andare oltre il Pd per ricostruire la sinistra italiana».

Con il governo Draghi le Camere sono ridotte ancora di più a ratificatrici delle scelte del governo. Che ne pensa?

«Io sono parlamentarista, il populismo si combatte con la democrazia rappresentativa. Ma è dai primi anni 90 che l'Italia supera le fasi difficili così. Il primo è stato Scalfaro, che ha chiamato il governatore della Banca d'Italia, dopo il governo Amato. Un momento delicatissimo: il governo Ciampi, ad esempio, coincide con la fase della mafia stragista, addirittura con il black out a palazzo Chigi, quella notte delle bombe in cui San Macuto era l'unico palazzo istituzionale in cui erano aperte le comunicazioni. Continuiamo a passare momenti difficili, ogni volta il capo dello Stato ha risolto le strettoie affidando alla politica la possibilità di soluzioni come quelle di Ciampi, Dini, Monti. Però, persone all'altezza del compito ci sono: le classi dirigenti non si formano solo nei partiti. E la politica è in grado di sostenere percorsi così».

Non è invece un segno di debolezza?

«Questa fase è frutto delle capacità di Draghi, che è all’altezza non solo da tecnico, ma perché si sta muovendo con un metodo politico, e anche del senso di responsabilità delle forze politiche. E i partiti dovrebbero approfittare del momento per fare il loro mestiere, visto che in cucina c'è chi lavora».

Draghi al Quirinale?

«Penso che debba restare a Palazzo Chigi. È utile lì e, soprattutto, nel disegno istituzionale dell'Europa il dopo Merkel si chiama Draghi. Nel ruolo di presidente del consiglio, perché l'Ue è ancora l'Europa dei governi. Perché grazie a Dio non siamo la Francia e non possiamo diventare semi-presidenzialisti in questo modo. Capisco d'altra parte che questo passaggio è talmente delicato che forse l'unico modo è una figura come lui, capace di dare al Paese un momento di grande unità».

Per tanti l'unità, una pacificazione, potrebbe realizzarsi con Silvio Berlusconi.

«Ma che stiamo su Scherzi a parte?»

Lui stesso si è fatto avanti.

«E nessuno ha detto di no, certo: perché nessuno l'ha preso sul serio. A proposito: bisognerebbe rileggere questi anni, dal 1994 a oggi. Nel Pd non si è fatto i conti col renzismo, ma in Italia non si è fatto i conti con il berlusconismo. Ci vuole il coraggio di rivedere questa parabola, fatti giudiziari a parte - che poi secondo me per i politici non si può dire “a parte”, e sarà anche stato perseguitato dai magistrati ma di materiale ne ha offerto».

Fatti giudiziari a parte?

«Vogliamo ripercorrere cosa il berlusconismo ha voluto dire per la politica, per il senso della cosa pubblica? A tutt'oggi non c'è la “moderazione” di cui si parla: dopo l'assalto alla Cgil mai hanno detto la parola “violenza squadrista”. Forza Italia non s'è dissociata dalla destra, hanno firmato una mozione in cui si condanna “tutta” la violenza: e grazie! Ma qui è la Costituzione, non pinzillacchere. E poi, chi è il padre fondatore di questo schieramento? La destra è destra, qualcuno lo deve dire, e non c'è bisogno di chiamare Liliana Segre. Sarebbe bene che anche il Fatto non strumentalizzasse una donna così. E lo dico per la venerazione che ho nei suoi confronti».

Sarebbe tuttavia ora di avere una donna al Quirinale, non trova?

«Lo dico dai tempi di Tina Anselmi candidata di Cuore, ho ancora il giornale incorniciato»

E Prodi?

«Bisognerebbe prima fare la votazione e poi proporlo, dopo aver guardato tutte le schede. Non si può esporre la sua persona ancora una volta, dopo quello che è successo coi 101».

Da più parte si fa il suo nome, Bindi.

«Sto già pensando al discorso».

Fa del sarcasmo?

«Tutti i politici hanno pronto un passaggio del discorso da capo dello Stato, sa? Casini probabilmente se l'è già scritto tutto».

Casini non fa mistero delle ambizioni.

«Se penso a cosa non mi disse quando scrissi un editoriale sull'Unità di Walter Veltroni. Poi te lo ritrovo alle ultime politiche a farsi eleggere dal Pd, con tanto di foto in sezione davanti al poster di Gramsci e di Berlinguer!»

Candidarono lui, lei invece è rimasta fuori. Il Pd è il partito più maschilista di tutti?

«Quale partito non è maschilista? Il Paese stesso lo è ancora, anche se meno della politica. È l'irrisolto tema del rapporto con il potere, che a sinistra è ancora più problematico. Oggi la base della piramide sociale ha maggioranza di donne, ma come ti innalzi cambiano le percentuali. Dipende dagli uomini, sicuramente. Ma va detto, alle donne, che il potere si conquista con la competizione, mentre lavorare sulla cooptazione non è una soluzione: fra l'altro, anche lì, un uomo si fiderà sempre più di un altro maschio».

Letta ha voluto una vice donna, Tinagli.

«Una cara ragazza molto preparata. Come l'altro vice, Provenzano: preparato, di sinistra, ogni tanto fa qualche scivolata, è nelle cose».

Calenda può stare nella nuova sinistra?

«È stato un bravissimo ministro, il suo mestiere era quello».

E Di Maio? Lei ha citato Fico, ma è lui il vero uomo di potere del M5S.

«Di Maio esiste, è vero: ecco il problema».

Conte può essere il futuro del centrosinistra, come disse Zingaretti?

«Su di lui avevo quasi un pregiudizio, ma è diventato una risorsa. Una evoluzione il M5S doveva averla, ed è meglio che l'abbia con un personaggio come lui, capace di fare sintesi. Un domani potrebbe entrare nella squadra che si farà carico di questo Paese».

Addirittura?

«Pensiamo a cosa offre il mercato. C'è tanta gente che si impegna, fuori dalla politica: devono far parte del progetto, costruire un “noi” nuovo. Sarebbe anche un modo, per il Pd, per superare le correnti».

Bum!

«È molto più rischioso, le assicuro, andare avanti col tran tran».

·        Il Renzismo.

Gianluca Paolucci e Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 16 dicembre 2021. A differenza di tutti gli altri petali del «giglio magico», indagati con lui per aver trasformato la fondazione Open in una cassaforte di finanziamento politico illecito, Matteo Renzi ha chiesto di essere interrogato dai pm fiorentini che lo accusano. E ieri si è presentato all'appuntamento, preso non casualmente all'indomani della decisione della giunta del Senato di sollevare conflitto contro la Procura davanti alla Corte costituzionale, come da lui richiesto, per violazione dell'immunità parlamentare. Ma di tutto si è trattato, tranne che di un interrogatorio. Per un'ora, in un clima che dall'iniziale formale cordialità è scivolato sul crinale della tensione, Renzi si è rifiutato di rispondere alle domande. E anziché difendersi ha puntato il dito contro gli stessi pm, in una baldanzosa controrequisitoria. Li ha accusati di aver violato la Costituzione, mistificato, sbagliato grossolanamente, invaso il campo della politica, fondato un'inchiesta monstre su «premesse arbitrarie». Ha depositato una memoria di cinque pagine firmata dai suoi avvocati Federico Bagattini e Gian Domenico Caiazza, dichiarandosi disponibile a un nuovo incontro, quando i pm si saranno schiariti le idee ed emendati dalle loro colpe. Da parte loro, non senza imbarazzo, i magistrati hanno verbalizzato, ribadito di aver rispettato le regole e acquisito la memoria, riservandosi di valutarla. Ora hanno due strade: procedere con le richieste di rinvio a giudizio (alcuni imprenditori indagati hanno reso veri interrogatori, corroborando l'inchiesta) o svolgere le ulteriori indagini sollecitate da Renzi e riconvocarlo nelle prossime settimane (cosa non dovuta a differenza della convocazione di ieri). L'archiviazione sollecitata da Renzi non è un'opzione realistica. Renzi contesta dalla base l'indagine «scandalosa», che dipinge la fondazione Open come schermo per finanziare la corrente renziana del Pd. Nega il ruolo di «direttore di fatto» della fondazione e l'esistenza della sua corrente, «uno sproposito politico che in un'indagine diventa grossolana e arbitraria mistificazione della realtà». Cita altre fondazioni politiche «mai accomunate a correnti di partito» e (non senza malizia) il commissario Ue Gentiloni e il ministro Guerini: «Per la stravagante tesi accusatoria esponenti di vertice della corrente, anche se non hanno mai versato alcunché». In una mail della fondazione agli atti, entrambi (mai indagati) risultavano morosi rispetto al versamento delle quote dopo l'elezione in Parlamento nel 2013 in quota renziana. Poi sottolinea «plurimi, rilevanti e gravi errori» dei pm, che invita a «porre immediato rimedio». Sfidandoli in un crescendo «in difesa della dignità della politica», li accusa di aver «reiteratamente e sistematicamente violato la Costituzione, come metodo di lavoro», utilizzando sue mail e chat sequestrate nei computer di altri indagati (egli non è mai stato intercettato né perquisito). La Procura (presente ai massimi livelli per testimoniare la compattezza dell'ufficio, anche rispetto agli attacchi degli ultimi giorni) ha ribadito la correttezza delle indagini. Che avrebbe argomentato anche in sede parlamentare, se la giunta avesse chiesto atti o memorie, ed eventualmente sosterrà davanti alla Consulta. La questione in ogni caso non paralizzerà il processo. Ma ha un enorme peso nella strategia politico-mediatica di Renzi. Tanto che Conte, leader M5S, annuncia voto contro Renzi in Senato perché «bisogna difendersi nei processi, senza privilegi».

(ANSA il 15 dicembre 2021) "Credo nella giustizia, quindi chiedo giustizia. Questa mattina ho incontrato i PM di Firenze che indagano sulla vicenda Open, Luca Turco e Antonino Nastasi. Questo processo politico alla politica resterà negli annali della cronaca giudiziaria come uno scandalo nel quale gli indagati non hanno violato la Legge mentre i Pubblici Ministeri hanno violato la Costituzione. E come se non bastasse la Corte di Cassazione ha già smontato in quattro diverse sentenze l'impianto dei PM. Tuttavia credo che un politico non debba scappare dalla giustizia". Così Matteo Renzi su fb. "In passato - scrive il leader Iv - miei colleghi parlamentari hanno utilizzato le prerogative dell'articolo 68 della Costituzione per chiedere di non essere giudicati. Io no, io voglio il contrario. Voglio che si faccia giustizia davvero, sul serio, verificando se le plurime violazioni costituzionali dei PM, che ho pubblicamente segnalato, meritino una sanzione. E ieri la Giunta competente, al Senato, ha deciso con una schiacciante maggioranza (14 contro 2!) di chiedere di sollevare la questione di attribuzione in Corte Costituzionale. Interverrò in aula, immagino a gennaio, per spiegare come questa vicenda sia importante non tanto per me (per il mio processo cambia poco) quanto per le Istituzioni. Questa battaglia la faccio non per me ma per la dignità della politica e per il rispetto della separazione dei poteri contro l'invasione di campo di una parte della magistratura". "È proprio perché - spiega Renzi - io non ho violato alcuna legge non scappo dalla giustizia e stamattina mi sono presentato al Palazzo di Giustizia di Firenze. I PM hanno speso centinaia di migliaia di euro pubblici per dimostrare che i nostri finanziamenti privati non sono formalmente corretti: noi con cinque pagine abbiamo replicato alle 94.000 pagine dell'accusa, ridondanti e piene di errori. L'accusa impiega 94.000 pagine a spese del contribuente per sostenere una tesi che non esiste. A noi bastano cinque paginette a nostre spese per mostrare gli errori più grossolani. Questa vicenda durerà per anni. Noi la vivremo col sorriso di chi ha la coscienza a posto e la forza della propria tranquillità. E questo è il messaggio che voglio dare soprattutto ai ragazzi più giovani: credete nella giustizia, anche quando vi sembra difficile farlo. Perché anche quando ti entrano nella vita privata in modo illegittimo, quando ti controllano le email degli ultimi 12 anni, quando ti pubblicano in modo illegittimo l'estratto conto e i singoli movimenti bancari, quando i tuoi amici e la tua famiglia pagano un prezzo salato per la tua notorietà, quando vogliono impedirti di fare politica utilizzando presunti - e inesistenti - reati formali, anche allora bisogna credere nelle Istituzioni di questo Paese. Il giorno dopo aver vinto il primo round in Senato io sono andato dai magistrati a dire che voglio giustizia, non che scappo dal processo. Sono stato Presidente del Consiglio dei ministri di questa Repubblica: io faccio le mie battaglie rispettando le Istituzioni, sempre. E chiedendo ai ragazzi e alle ragazze di fare sempre le proprie battaglie a viso aperto. Perché a viso apetto è l'unico modo con cui quelli come noi sono stati educati a fare politica. Buona giornata, adesso vado a Roma per intervenire in Senato con il Presidente Draghi".

(ANSA il 15 dicembre 2021) Il senatore Matteo Renzi si è presentato questa mattina in procura a Firenze nell'ambito dell'inchiesta sulla fondazione Open. Secondo quanto appreso, Renzi, accompagnato dai suoi legali, avvocati Federico Bagattini e Giandomenico Caiazza, avrebbe scelto di non rispondere alle domande dei pm e avrebbe consegnato una memoria difensiva ai pm Luca Turco e Antonio Nastasi (ANSA). 

(ANSA il 15 dicembre 2021) "Si formula in via principale istanza perché la Procura di Firenze, preso atto dei gravi errori in fatto, avanzi richiesta di archiviazione del procedimento. Il difetto della qualifica di "Direttore di fatto" della Fondazione Open in capo al Senatore Renzi così come la assoluta inesistenza della c.d. "corrente renziana", determinano il venir meno delle premesse fattuali, logiche e giuridiche che sostengono la imputazione provvisoria a carico del nostro assistito". Lo si legge nella memoria difensiva consegnata oggi da Matteo Renzi, con i suoi avvocati, ai pm di Firenze, nel corso di un incontro durato circa 40 minuti che fonti di Iv dicono essere avvenuto in un clima "costruttivo". Nella memoria Renzi presenta cinque istanze difensive e formula cinque istanze istruttorie: "Espellere dal fascicolo ogni e qualsiasi corrispondenza indebitamente acquisita dalle SS.LL. senza il rispetto dell'articolo 68 Costituzione; verificare quali spese asseritamente in favore del senatore Renzi siano state effettuate nel periodo compreso tra il febbraio ed il maggio del 2017, nel quale Matteo Renzi, diversamente da quanto affermato nel capo di incolpazione, non ha rivestito la carica di Segretario Nazionale del Partito Democratico, traendone le doverose conseguenze in relazione alla formulata imputazione provvisoria; accertare e indicare quali e quanti siano i contributi indiretti di cui avrebbe beneficiato il politico Matteo Renzi nell'arco di tempo in cui può essere considerato oggetto di incolpazione e quale sia l'importo ad esso riferibile per ciascun anno; accertare e indicare a quanti e quali consigli direttivi della Fondazione Open abbia partecipato il politico Matteo Renzi e quali attività gestorie o amministrative egli abbia assunto nel corso degli anni nella veste di "direttore di fatto" della medesima fondazione, anche permettendo a questa difesa di accedere al copioso materiale di archivio consegnato spontaneamente agli investigatori dal Presidente della Fondazione, avvocato Alberto Bianchi, non utilizzato dai medesimi e non ancora dissequestrato per consentire le doverose indagini difensive sul punto; espellere dal fascicolo ogni e qualsiasi riferimento all'asserito finanziamento illecito per le iniziative della c.d. Leopolda sulla quale si è già formato un giudicato parziale, essendosi espressa la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, il 26 maggio 2021, numero 29409, definendo "dato storico, ampiamente documentato" il fatto che gli eventi della Leopolda fossero "incontri a carattere eminentemente politico, con programmazione di numerosi laboratori, eventi di discussione, occasioni di partecipazione della società civile, diretti a stimolare il confronto su temi oggetto delle attività espressamente previste dallo Statuto della fondazione, senza peraltro alcun collegamento con le attività del Partito democratico".

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 15 dicembre 2021. Finito nella morsa, tra la maxi inchiesta sulla fondazione che ha sostenuto la sua scalata e i sondaggi che danno il suo partito al lumicino, Matteo Renzi segna un punto (mediatico e politico) per lui importante. E grazie all'asse tra Italia viva e centrodestra ha innescato, su un fronte sempre delicato e divisivo come la giustizia, anche scintille nell'ala di maggioranza a lui più ostile: Pd e M5S. La giunta delle immunità del Senato, ieri, ha infatti approvato con un'ampia maggioranza (14 favorevoli e 2 contrari) la relazione di Fiammetta Modena (FI) che dà il via libera a presentare un ricorso alla Corte costituzionale contro i pm di Firenze. A questi ultimi, titolari dell'inchiesta sulla fondazione Open che vede indagato Renzi per finanziamento illecito, la ratio della relazione contesta di fatto la violazione dell'articolo 68 della Costituzione, in quanto non avrebbero chiesto preventivamente alla Camera di appartenenza l'autorizzazione a intercettare conversazioni o corrispondenza di un parlamentare. Agli atti dell'inchiesta, oltre 92 mila pagine, risulta però una chat WhatsApp tra Renzi e il manager Vincenzo Manes del 3-4 giugno 2018 (da cui emerse la vicenda del jet pagato 134 mila euro dalla fondazione per portare Renzi a Washington, ndr ), quando Renzi era già senatore; uno scambio di sms e mail tra l'ex premier e l'amico Marco Carrai. Ora la questione potrà sbarcare in Senato per essere votata. Renzi ha superato l'ostacolo, ancora una volta, rinnovando il flirt con il centrodestra. Non a caso i 14 voti della relazione pro Renzi sono stati di FI, FdI e Lega, oltre chiaramente a Iv. Rilevante il posizionamento del Pd, con Anna Rossomando, responsabile Giustizia della segreteria di Enrico Letta, che ha scelto di astenersi. E non in solitudine, ma confermando l'asse con il M5S. Molteplici le ripercussioni. Renzi ha sparato contro il suo ex partito: «Insegue il Movimento nel populismo giudiziario». E tra i dem c'è anche chi lo segue: «Astenersi è stata una scelta sbagliata e non conseguente a quanto prevede la Costituzione», dice il senatore Margiotta. Ma disappunto, secondo quanto ribalzato nelle chat del Nazareno, sarebbe stato espresso anche da un peso massimo come il ministro Dario Franceschini. Bufera, palese, invece sul fronte grillino, che da sempre si batte contro ogni tipo di immunità per i parlamentari. In tanti hanno contestato alle senatrici Gallicchio, Evangelista e D'Angelo di non aver votato contro la relazione. Tanto che a sera è dovuto intervenire Conte: «È stata un'astensione tecnica. Posso preannunciare che in Aula potremo esprimere pienamente un voto politico contrario a che questo conflitto arrivi alla Corte costituzionale». Il teatro della battaglia finale sarà infatti a Palazzo Madama, dove però si arriverà a votare solo dopo la scelta per il Quirinale. E dai numeri per il successore del presidente Sergio Mattarella potrebbero uscire assetti politici finora totalmente inediti, con Renzi che punterebbe ad arrivare al traguardo prima che arrivi un probabile rinvio a giudizio.

Da iltempo.it il 14 dicembre 2021. Vittoria per Matteo Renzi sul caso della Fondazione Open. Fiammetta Modena, senatrice di Forza Italia, ha ottenuto l’ok della Giunta per le immunità di palazzo Madama alla sua relazione sul caso della Fondazione che vede coinvolto l’ex premier. Ora la palla passa all’Aula, che dovrà esprimersi su conflitto di attribuzione sollevato dalla Modena davanti alla Corte Costituzionale contro i magistrati di Firenze che avrebbero inserito nel fascicolo dell’inchiesta la chat con Vincenzo Manes del 3-4 giugno 2018 quando Renzi era già senatore. La Giunta per le Immunità di Palazzo Madama ha approvato con 14 voti a favore, due contrari e 4 astenuti la relazione. Raggiante Renzi nella sua reazione: “Oggi al Senato la Giunta per il Regolamento riconosce a larghissima maggioranza (14-2) che esiste una violazione della Costituzione da parte dei PM fiorentini Turco e Nastasi. Si tratta di una decisione fondamentale per la battaglia di civiltà che sto combattendo. In altri casi alcuni colleghi parlamentari hanno chiesto di utilizzare l’articolo 68 Costituzione per evitare il processo. Io no. Io non chiedo di evitare il processo: chiedo solo che si sanzioni il comportamento illegittimo e incostituzionale del dottor Turco e del dottor Nastasi. Io non ho violato la Legge, gli inquirenti hanno violato la Costituzione: questo è ciò che dimostrerò in tutte le sedi istituzionalmente preposte. Io non scappo dalla giustizia, io chiedo giustizia. In questa bella giornata dispiace per l’Atteggiamento del PD che finisce per astenersi inseguendo il Movimento Cinque stelle. Quello che era un partito riformista e garantista insegue oggi Conte e i suoi adepti nel peggior populismo, quello giudiziario. Sono curioso di vedere come voteranno in aula a scrutinio palese i colleghi del Pd, ricordando i principi sui quali sono stati eletti. Per il momento - conclude il numero uno di Italia Viva - ringrazio la Giunta, il Presidente, la relatrice e in particolare modo i colleghi commissari di Italia Viva che stanno combattendo, non da soli, una battaglia di civiltà giuridica e di dignità per la politica”. Lo scorso 7 ottobre Renzi si era rivolto per lettera alla presidente del Senato Casellati chiedendo di tutelare le proprie “prerogative costituzionali” che considera violate dai pm di Firenze Turco e Nastasi che lo indagano per finanziamento illecito ai partiti: i magistrati avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva al Senato per sequestrare la corrispondenza telematica di altre persone (non coperte dall’immunità parlamentare) che hanno avuto scambi con lui.

Partita a scacchi ed emoticon. Le chat di Open mandano in tilt Travaglio e Conte, il Fatto ‘bastona’ i 5 Stelle evocando “l’immunità” per Renzi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. L’aula del Senato voterà in una delle prime sedute di gennaio sul conflitto di attribuzione sollevato da Fiammetta Modena (Fi) nella Giunta per le immunità, dopo che ieri – con 14 sì, due no e 3 astenuti – i membri dell’organismo ristretto di Palazzo Madama lo hanno consegnato al voto del Senato. Ma è stata bagarre nei gruppi (il Pd dilaniato tra garantisti e meno garantisti) e cortina fumogena tra le disordinate tifoserie pentastellate. Il conflitto di attribuzione sollevato in seno alla giunta per le autorizzazioni del Senato ha infatti mandato in tilt gli sherpa di Pd e Cinque Stelle. Che hanno capito tardi (e male) l’oggetto del contendere, sollevando una messe di polemiche subito dopo il voto in Giunta.

Riepilogando: lo stesso senatore Renzi chiede alla Presidente Casellati se si può sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale con l’esigenza di andare a fondo sulla natura giuridica delle comunicazioni che avvengono con mezzi telematici – WhatsApp, sms, email – rimanenti in una zona ‘grigia’ poco definita da leggi e regolamenti. Nella Giunta per le elezioni e le immunità è la senatrice azzurra Fiammetta Modena che se ne fa portavoce, chiedendo di acquisire un parere sulla valenza giuridica delle chat. La quantità di materiale finito nei faldoni dell’inchiesta Open è impressionante: molte migliaia di ore di conversazioni ascoltate, chilometri di pagine di trascrizione con le chat private e personali di Renzi e dei suoi collaboratori, e che amici e familiari hanno avuto con lui. Che a questo punto vuole acquisire un parere alto, un pronunciamento da parte della Corte Costituzionale se quel materiale può essere allegato agli atti o meno. Se ha valore di fonte efficace, stante la decodifica particolarissima del sottotesto delle messaggerie che tra abbreviazioni, gif, emoticon e testi dall’alto grado ironico si prestano a errori di interpretazione costanti. La questione non è da poco.

Ma non si tratta affatto di dare o meno un parere sulla procedibilità del senatore Renzi. Sta di fatto che al Fatto non ci hanno visto più, o forse non ci o visto bene: Marco Travaglio e Peter Gomez (tutti e due, uno solo non bastava) si incaricano di “bastonare” i Cinque Stelle che sulla questione si sono prudentemente astenuti. “Rischiano l’estinzione se vanno avanti così”, tuona Gomez in un corsivo sobriamente intitolato: “Cari Cinque Stelle, tornate a bordo, cazzo! Sennò scomparirete”. La testata “ammiraglia” del Movimento prende un abbaglio, continuando a parlare di salvataggio dal processo. Le sirene giustizialiste ululano, mentre Matteo Renzi – che il procedimento vuole celebrarlo, “rispondendo punto su punto” – viene ammesso in Procura a Firenze per rendere spontanee dichiarazioni. Ma Travaglio: “Dal 2013, quando entrarono in Parlamento, i pentastellati avevano sempre votato contro qualunque pretesa immunitaria”. Un misunderstanding, per chiamarlo così, tanto grande da mettere anche Conte nel mirino.

L’Avvocato del popolo, colto alla sprovvista, corre ai ripari da par suo: “Il M5S voterà contro in Aula sull’inutilizzabilità delle intercettazioni di Matteo Renzi su Open”, annuncia trionfante Conte, che aggiunge che sarà “un voto politico”. Si becca un bel “giustizialista nel midollo con la pochette” da Di Maio, Marco. Il vice capogruppo di Italia Viva alla Camera. Come mai il giornale più amato dai grillini sia caduto in errore, non è dato sapere. Per Forza Italia hanno fatto una forzatura tanto per fare polemica. La senatrice Modena lo spiega al Riformista: “Non hanno capito, o meglio non hanno voluto comprendere, che la Giunta non ha imboccato la strada di uno scudo per non far fare il processo a Renzi. Non c’è peraltro nessuna richiesta di immunità. Renzi non ha richiesto le tutele dell’ex art.68 della Costituzione. Abbiamo proposto il conflitto di attribuzione, facendo notare come si sia sconfinato nell’ascolto”. E la Giunta ha dato parere favorevole. “E’ difficile dire oggi quale sia l’atto contro il quale la Giunta del Senato ha proposto di sollevare il conflitto di attribuzione e sul quale si sta decidendo”.

Gregorio De Falco, senatore del gruppo misto, membro della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari di Palazzo Madama, non nasconde i suoi dubbi, raggiunto dall’Adnkronos. “Nel corso della seduta sono state proposte due pregiudiziali – ricorda De Falco che ha votato contro la relazione, assieme all’ex presidente del Senato, Pietro Grasso – la prima sulla competenza, proposta dal presidente Grasso, la seconda dalla senatrice Rossomando, sulla necessità di integrare l’istruttoria, per aver piena consapevolezza di quale fosse l’atto, il provvedimento, della magistratura, nel quale si sarebbe oggettivato lo sviamento di potere, che poi è il motivo della sollevazione del conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, oggetto stesso del conflitto di attribuzione”. Rossomando, da noi sentita, riepiloga così: “Avevo proposto un’istruttoria per l’acquisizione di atti che sarebbero serviti per esprimersi in maniera compiuta, ma preso atto della volontà della maggioranza della Giunta di concludere l’iter senza esaminare gli atti sui quali viene sollevato il conflitto. In queste condizioni abbiamo deciso di astenerci, perché la precondizione del garantismo è basarsi sul merito”.

Dagli uffici di Andrea Marcucci trapela l’insofferenza per un Pd che si allinea a Conte, quando poi Conte si mette sull’attenti per Travaglio. “Ci sono giorni in cui è utile tornare alla nettezza di Leonardo Sciascia per ricordarsi che non può esistere un partito che sia di centrosinistra e al tempo stesso arrendevole con la furia dei giustizialisti”, dice il portavoce di Marcucci, Aldo Rosati. Si evoca il grande scrittore siciliano: “Mi ripugna quando mi sento dire che sono un garantista. Io non sono un garantista: sono uno che crede nel diritto, che crede nella giustizia”.

La conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama dovrà a breve individuare la data per la messa in votazione. Il M5S di Conte, richiamato all’ordine da Travaglio, voterà contro. Il Pd è chiamato a dare un segnale significativo, in una direzione o nell’altra: la richiesta che la Corte Costituzionale svolga una riflessione approfondita sull’utilizzo delle chat e delle messaggerie non inficia in nessun caso lo svolgimento del processo. La cosa peggiore che si può fare, quando si è a un bivio, è prenderlo in pieno.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Da ilfattoquotidiano.it il 14 dicembre 2021. Nel corso della diretta quotidiana il direttore Peter Gomez non ha risparmiato critiche al movimento 5stelle, i cui componenti nella giunta per le Immunità si sono astenuti nel voto decisivo per sollevare un conflitto di attribuzioni nei confronti dei Pm fiorentini che indagano sul caso Open: “Il Pd e i 5 stelle si trincerano dietro questioni tecniche, balle! Sono 15 giorni che stanno discutendo, si studiavano le carte anche di notte e prendevano una decisione. Detto questo almeno i 5 stelle non dovevano farsi nessuna opinione. Non perché quello era Matteo Renzi, ma perché ci hanno scassato la uallera per anni spiegandoci che erano contro l’immunità parlamentare. Se sono contro l’immunità parlamentare dicono ok a qualsiasi processo e non sollevano nessun conflitto di attribuzione”. “Perché diavolo uno dovrebbe votare i 5 stelle dopo aver sentito Giuseppe Conte dire che Berlusconi aveva fatto molte cose buone, senza saper elencare quali fossero. Dopo non aver sentito nessuno o quasi dei 5 stelle dire che c’era una questione etica e morale riguardante Berlusconi, grande come una casa. E oggi vedere questi 4 buontemponi, si suppone spalleggiati sa quelli che non torneranno in parlamento…perché se il Movimento 5 stelle perde anche l’ultima sua caratteristica, quella di schierarsi sempre dalla parte che non vuole un’Italia dominata da corrotti e corruttori, se non c’è questo, non solo caleranno nei sondaggi, ma se prendono il 6-7% gli va tanto bene”.

Lo scisma dei mozzorecchi. Il Fatto accusa i Cinquestelle, nel loro piccolo, di aver tradito l’oscurantismo manettaro. Mario Lavia su L'Inkiesta il 16 Dicembre 2021. Dopo l’astensione grillina al Senato sul caso Open, è arrivata la scomunica del direttore del sito Peter Gomez. Ora a Conte e compagnia rimane solo l’incomprensibile sostegno del Pd. La scomunica del Movimento Cinque stelle è arrivata dal cardinale Peter Gomez in termini terribili: «Se prendono il 5-6% gli va bene». Una scomunica, anzi un anatema e da parte del direttore del Fatto.it, mica da un redattore de Linkiesta (qui preconizziamo da tanto tempo l’inesorabile tramonto grillino), ed è singolare che partendo e seguendo strade diametralmente opposte si giunga alla medesima conclusione: il Movimento sta fallendo. Gomez ha emanato la sua sentenza dopo che il M5s nella Giunta per le immunità del Senato si era astenuto nella votazione sulla legittimità dell’uso di intercettazione telefoniche da parte dei pubblici ministeri che indagano su Open, se cioè i pm avessero violato la norma che prevede la previa autorizzazione della Camera d’appartenenza per effettuare intercettazioni che coinvolgano un parlamentare (in questo caso Matteo Renzi). 

La maggioranza della Giunta ha dato ragione al leader di Italia viva, Partito democratico e M5s (ormai uniti nella lotta) si sono astenuti. 

L’ira di Gomez è stata davvero funesta: «Ci hanno scassato per anni la uallera spiegandoci che erano contro l’immunità parlamentare» e invece… Lasciamo stare qui la solita imprecisione – l’immunità parlamentare non esiste più, esiste invece l’obbligo per i magistrati di chiedere l’autorizzazione del Parlamento per le intercettazioni telefoniche – e andiamo al sodo. 

Il rapporto politico-editoriale tra grillismo e travaglismo è storia vecchia. Dopo l’imborghesimento di Di Maio e il parallelo impazzimento di Di Battista, Il Fatto (Marco Travaglio in primis) aveva scommesso tutto sull’avvocato del populismo: Conte, per Travaglio e Gomez, era diventato l’ultimo baluardo dell’antipolitica, la casamatta finale, la sempre alta barricata a presidio del decadimento del dibattito pubblico mentre veniva avanti la risposta democratica incarnata da Mario Draghi al populismo grillino. 

Dopo l’autodistruzione del patto Conte-Di Maio-Salvini per opera dell’allora ministro dell’Interno su una spiaggia romagnola con un bicchierino di liquore in mano, malgrado avesse cambiato il fucile di spalla, alleandosi con un Pd in versione fraterna, l’avvocato cadde una seconda volta. E da allora perde metri su metri come quei maratoneti che arrivano al traguardo due ore dopo il vincitore. 

Travaglio ha fatto quello che ha potuto, aiutandolo a cadere con consigli sbagliati e poi ha cominciato a storcere il naso quando ha visto che l’avvocato aveva sposato un terza linea, quella di diventare se non una corrente del Pd almeno una ruota di scorta, un maglioncino che ti porti la sera d’estate che magari fa freddo, una batteria in più se ti scaricasse il cellulare: cose così. 

In questo nuovo quadro che fa orrore a Gomez, Conte si prostra a tutto quello che fa il Pd, non farà una proposta che non sia concordata con Letta, per esempio sul presidente della Repubblica, si aggrappa al Nazareno, è il caso di dire, cercando la salvezza. E infatti il Pd lo voleva ringraziare cedendogli quel collegio di Roma Centro da cui è scappato appena intravista la sagoma di Carlo Calenda: l’ultima figuraccia. 

E si arriva qui al presunto tradimento dell’oscurantismo manettaro e antigiuridico fulminato da Peter Gomez sulla via del davighismo “fattista”: ma se non mandi più la gente a processo o in galera, se smetti di intercettare, perquisire, intimidire “presunti colpevoli” allora la gente che vi vota a fare (ha detto proprio così Gomez)? 

Per questo vi andrà bene se prenderete il 5 o il 6%! Ma a parte il fatto che nel presente del M5s non c’è nessuna svolta garantista o anche solo timidamente rispettosa delle regole (infatti Conte ha detto che in Aula non si asterranno ma voteranno a favore dei pm), anche qui si condivide che il partito dell’avvocato è ormai un fantasma politico dato dai sondaggi (Swg, due giorni fa) sotto la soglia psicologica del 15%: ma le ragioni del continuo scivolamento sono insite nella sua natura di soggetto antipolitico e a-democratico, come tale espressione di un sentimento molto italiano ma di breve durata. 

Il Movimento ha dettato legge finché tardava la riscossa della Politica e poteva contare sulla respirazione bocca a bocca praticata da Nicola Zingaretti, Goffredo Bettini, Dario Franceschini e un po’ anche Enrico Letta: c’è voluto il ritorno della Politica con Mario Draghi per vedere le convulsioni forse finali di un Movimento che respira ormai artificialmente grazie alle bombole d’ossigeno offerte gentilmente non si sa più perché dal Nazareno, vana risorsa dinanzi alla terribile scomunica di quello che fu il suo organo di riferimento e all’incedere della Politica.

Renzi smonta l'inchiesta Open. Il Pd giustizialista sta coi pm. Felice Manti il 15 Dicembre 2021 su Il Giornale. Accusati da un inquirente di depistaggio, scaricati dai colleghi e dall'Anm, difesi da Pd e Cinque stelle. Per i pm del caso David Rossi sono giorni difficili. Accusati da un inquirente di depistaggio, scaricati dai colleghi e dall'Anm, difesi da Pd e Cinque stelle. Per i pm del caso David Rossi sono giorni difficili. Uno di loro, Antonino Nastasi, è nel mirino di Matteo Renzi perché indaga sulla Fondazione Open assieme al pm Luca Turco. Ieri la giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha respinto la pregiudiziale presentata da Pietro Grasso (Leu) dopo la memoria del leader di Italia Viva che dimostrerebbe come i due pm di Firenze abbiano violato la Costituzione in fase di indagine. Colpa di una chat di Renzi agli atti sebbene fosse già senatore. I parlamentari M5s e Pd si sono astenuti, mostrando ancora una volta di essere sottomessi alle toghe e al peggior giustizialismo, come commenta l'ex premier: «Io non chiedo di evitare il processo. La Giunta riconosce un comportamento illegittimo e incostituzionale che dimostrerò in tutte le sedi. Spiace per un partito riformista e garantista come il Pd che oggi insegue M5s e i suoi adepti nel peggior populismo, quello giudiziario». In Aula M5s per bocca di Giuseppe Conte ha già detto che voterà contro il rinvio alla Corte costituzionale. Insomma, pur di fare un dispetto all'ex segretario il Pd - con un voto che pare abbia irritato Andrea Marcucci - ha deciso di abdicare all'indipendenza di Palazzo Madama.

Un tempismo sbagliato, proprio adesso che la solidità corporativa delle toghe mostra delle crepe che ne mettono in dubbio la storia e la credibilità. Tanto che persino l'Anm ha deciso di scaricare i pm del caso Rossi. «Non sono questioni di cui mi occupo», dice al Giornale il presidente del sindacato delle toghe Giuseppe Santalucia, che fa spallucce di fronte alle gravissime rivelazioni alla commissione sul caso Mps del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che ha raccontato un gravissimo inquinamento probatorio dell'ufficio dal quale si sarebbe lanciato il 6 marzo 2013 il manager della comunicazione della banca, appena sfiorato dall'inchiesta sulla scalata Antonveneta.

Si tratta pur sempre di un cestino rovesciato su una scrivania, fazzolettini sporchi di sangue spostati, la finestra da cui sarebbe precipitato chiusa, i suoi effetti personali come il telefonino toccati o mossi, presunti bigliettini d'addio che sembrano portati via dalla scena del crimine da uno dei pm, molto prima che la Scientifica potesse cristallizzare la scena del crimine. Tra i magistrati c'è chi legge questa mossa dell'Anm come una sorta di dispetto anche all'ex presidente Eugenio Albamonte, che nel 2017 proprio a Siena aveva convocato il congresso incentrato sulla «visibile perdita di credibilità della magistratura». Parole quanto mai profetiche.

Ma per capire se questa mossa sia o meno una pietra tombale sui magistrati che hanno archiviato i sospetti dei familiari, confermando l'ipotesi del suicidio nonostante i mille più che ragionevoli dubbi sollevati soprattutto dai servizi delle Iene, bisognerà aspettare di capire come si comporterà la Procura di Genova, investita dal presidente della commissione Pierantonio Zanettin delle rivelazioni di Aglieco. A quanto apprende l'Ansa, la Procura ligure sarebbe pronta ad aprire un fascicolo per favoreggiamento, omissione d'atti d'ufficio e falso. Nel mirino lo stesso Nastasi, Aldo Natalini e Nicola Marini. Il problema è che Genova aveva già scandagliato l'ipotesi che i festini gay a cui avrebbero partecipato questi ultimi due e lo stesso Aglieco - come ha confermato ai pm liguri, alle Iene e alla commissione un escort, minacciato da lettere anonime e pedinato fin sotto la commissione dal colonnello, al tempo ex comandante provinciale a Siena - abbiano in qualche modo ostacolato o inquinato le indagini sulla strana morte di Rossi. E dire che anche Aglieco era stato ascoltato dai pm di Genova. Mentre invece non è mai stato interrogato l'ex carabiniere che accusa almeno uno dei tre pm di aver insabbiato le indagini sui festini. La Procura cambierà idea? Non canta vittoria il legale della famiglia Carmelo Miceli, deputato Pd. «Mi auguro che la questione non venga archiviata per prescrizione», dice al Giornale. «Anche se a me interessa solo sapere come è morto David Rossi». D'altronde, persino l'ex deputato di Forza Italia Giancarlo Pittelli, nei guai per 'ndrangheta e legato guarda caso anche all'ex numero uno di Mps Giuseppe Mussari, in un audio reso noto dall'emittente calabrese LaC e rilanciato dalle Iene aveva detto: «Rossi è stato ammazzato, se si sa chi è stato...». Mussari sarà a breve ascoltato dalla commissione, Pittelli chissà...

Intanto i parlamentari saranno presto in missione a Siena assieme ai carabinieri di Ris, Ros e Racis. «Valuteremo bene se la caduta è compatibile con quello che ad oggi è emerso - dice al Giornale Walter Rizzetto di Fdi, uno degli ispiratori della commissione - e le anticipo che grazie a un software simuleremo anche una caduta da un piano diverso dal terzo». La famiglia invoca l'intervento del Guardasigilli affinché il ministro Marta Cartabia mandi presto gli 007 a Siena e a Genova e prepara una conferenza stampa per domani.

Sollecitato dal Giornale, il Csm invece tace sul futuro dei tre magistrati. Altro segnale che il loro destino appare in qualche modo segnato. Felice Manti

Il leader di IV: "Pd insegue 5S nel populismo giudiziario". Caso Open, la Giunta del Senato dà ragione a Renzi: i pm fiorentini dovevano chiedere l’autorizzazione per intercettarlo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Un primo round a favore di Matteo Renzi quello andato in scena nella Giunta per le immunità del Senato. I suoi 20 membri hanno infatti dato il via libera alla relazione della senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena che ha sollevato un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale contro i magistrati di Firenze.

I pm fiorentini avrebbero infatti inserito nel fascicolo di indagine sulla Fondazione Open la chat tra Vincenzo Manes e lo stesso Renzi del 3-4 giugno 2018, quando l’ex premier era già senatore: i magistrati secondo la parlamentare forzista avrebbero dovuto chiedere prima una formale autorizzazione al Senato.

A votare a favore della relazione della Modena sono stati 14 senatori, col voto compatto del centrodestra e di Italia Viva: due i voti contrari, quello dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso e dell’ex 5 Stelle Gregorio De Falco, mentre i quattro membri di Partito Democratico e M5S si sono astenuti.

Col voto odierno la Giunta chiederà dunque all’Aula del Senato di votare sul conflitto di attribuzione per il caso Open.

Prima del voto sulla relazione di Fiammetta Modena la Giunta aveva respinto la pregiudiziale presentata da Pietro Grasso e la richiesta di nuova istruttoria presentata dalla senatrice Dem Anna Rossomando.

LE PAROLE DELLA RELATRICE MODENA – La relatrice Modena dopo il voto in Giunta che ha approvato la sua relazione si è detta “soddisfatta” dell’esito, anche se “avrei preferito sicuramente una valutazione unanime, in quanto la documentazione presentata dal senatore Renzi è stata oculatamente selezionata e la proposta non aveva ad oggetto, né poteva averla, l’immunità” per il fondatore di Italia viva, “ma la difesa delle prerogative del Senato”.

Per la senatrice, sentita dall’AdnKronos dopo il voto della Giunta, la decisione di oggi assume un significato politico preciso, non solo tecnico: “Dopo l’irrazionalità nella determinazione dei conflitti tra potere giudiziario e legislativo, è necessario ritrovare dei punti di equilibrio oggettivi senza un abbrutimento del dibattito politico”.

L’AFFONDO DI RENZI – Ben più dure le parole di Matteo Renzi dopo il voto della Giunta. Per il leader di Italia Viva col voto odierno “la Giunta per il Regolamento riconosce a larghissima maggioranza (14-2) che esiste una violazione della Costituzione da parte dei PM fiorentini Turco e Nastasi. Si tratta di una decisione fondamentale per la battaglia di civiltà che sto combattendo”.

Altre parole al vetriolo sono invece ‘dedicata’ agli ex compagni del Partito Democratico, che col loro “atteggiamento”, spiega Renzi, finiscono per astenersi “inseguendo il Movimento Cinque stelle. Quello che era un partito riformista e garantista insegue oggi Conte e i suoi adepti nel peggior populismo, quello giudiziario. Sono curioso di vedere come voteranno in aula a scrutinio palese i colleghi del Pd, ricordando i principi sui quali sono stati eletti”.

Quanto all’eventuale processo, Renzi rimarca ancora una volta che “io non chiedo di evitare il processo: chiedo solo che si sanzioni il comportamento illegittimo e incostituzionale del dottor Turco e del dottor Nastasi. Io non ho violato la legge, gli inquirenti hanno violato la Costituzione: questo è ciò che dimostrerò in tutte le sedi istituzionalmente preposte. Io non scappo dalla giustizia, io chiedo giustizia”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

L'inchiesta sulla Fondazione Open. I Pm e le ‘indagini creative’ su Renzi, ma su Philip Morris chiudono gli occhi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Novembre 2021. Il ministro degli Esteri Di Maio, intervenendo a un convegno nell’ambito di Expo 2020, si è detto soddisfatto per gli investimenti che Philip Morris sta realizzando in Italia. Già. E così mi è venuta in mente tutta la vicenda dei rapporti stretti tra i 5 Stelle e Philip Morris della quale in realtà ha parlato quasi solo il nostro giornale ma è una vicenda bella grossa. Mi è venuta in mente anche per un’altra ragione. Ho messo mentalmente a confronto il rumor di grancassa intorno all’inchiesta dei Pm fiorentini su “Open” e il silenzio ovattato intorno a questa vicenda di Philip Morris. Vediamolo bene questo confronto. “Open” è una Fondazione che è stata finanziata in maniera volontaria e con somme relativamente modeste da alcune centinaia di sostenitori. Non sottobanco. Ogni euro versato è stato bonificato, registrato, dichiarato e segnalato. Non c’era niente di illegale né di losco. I Pm di Firenze hanno deciso di mettere sotto indagine “Open” per due ragioni. Una evidentemente vera, l’altra evidentemente pretestuosa. La ragione vera è che “Open “è roba di Matteo Renzi, e un pezzo di magistratura e di informazione (entità talvolta quasi coincidenti) da tempo hanno messo Renzi nel mirino. Se non si trovano reati a suo carico resta solo la possibilità dell’”indagine creativa” che invece di fondarsi sul codice penale si fonda sulla capacità di inventiva degli inquirenti.

L’inventiva, a pensarci bene, è una qualità, non un difetto. E così i Pm hanno deciso che siccome finanziare una Fondazione non è reato, neppure un pochino, basta però stabilire che “Open” non è una Fondazione ma un partito e il finanziamento (almeno una parte del finanziamento) anche se dichiarato e trasparente diventa reato, sulla base di una legge recente che equipara il finanziamento dei partiti politici a quello delle associazioni a delinquere. Ok. Ma come si fa a stabilire che “Open” non è una fondazione ma un partito? I Pm hanno deciso che per fare questo è sufficiente la loro parola. Se loro dicono che è un partito, è un partito. E allora hanno detto: è un partito. La parola dell’inquirente diventa prova. Anche questo è diritto creativo, uno degli aspetti più originali della modernità. La faccenda Philip Morris invece è molto più semplice. L’abbiamo denunciata con scarsi risultati circa un anno fa. Cosa era successo? La Philip Morris aveva finanziato con circa 2 milioni di euro la Casaleggio. E – ovviamente in modo del tutto casuale – i 5 Stelle – che all’epoca erano molto legati a Casaleggio – in Parlamento avevano ottenuto un clamoroso sconto fiscale a vantaggio dei prodotti della Philip Morris. Abbiamo calcolato che questo sconto produceva una riduzione delle tasse di circa 500 milioni all’anno per la Philip Morris. E, di conseguenza, produceva mancate entrate all’erario per mezzo miliardo. Una quantità di denaro clamorosa, se pensate che la maxitangente Enimont – quella che nel ‘92 provocò la caduta della Prima repubblica, centinaia di arresti tra i politici, la fine e poi la morte in esilio di Bettino Craxi – era una tangente di circa 60 milioni di euro. Noi del Riformista, quando fummo informati di questa storia, cercammo di parlarne sul nostro giornale e di farci notare. Ottenemmo che nella legge di bilancio del 2021 lo sconto fiscale fosse ridotto un pochino, ma non troppo. Però questa modesta riduzione, scritta nella legge mandata alle Camera, nella notte fu ritoccata con un ulteriore piccolo favore a Philip Morris (anche in questo caso, lo so benissimo, i fatti furono del tutto casuali e privi in ogni caso di dolo). Ora non credo che ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni per capire che i due casi – “Open” e Philip Morris – sono molto diversi. Nel primo caso non c’è l’ombra né di reati né di scambio tra finanziamenti e favori. Nel secondo caso sicuramente ci sono stati sia i finanziamenti (molto cospicui) sia i favori (clamorosamente cospicui) anche se niente ci autorizza e credere che tra favori e finanziamenti ci fosse una relazione. In genere, a essere onesti, i Pm non sottilizzano molto, in questi casi, e se vedono un finanziamento e subito dopo un favore, anche piccolino, stangano. C’è gente che ha avuto la vita rovinata per 10 mila euro, non per due milioni. Stavolta, per fortuna, sembra che i Pm vogliano comportarsi in modo parecchio più cauto. E questa è una cosa buona. Che noi apprezziamo molto. Sarebbe ancora migliore se qualche cautela la dimostrassero anche i Pm fiorentini. Ma forse è chiedere troppo. Così come è una domanda veramente stronza quella di chi vorrebbe sapere dai grandi giornali come mai si sono entusiasmati per “Open “e se ne fregano del tabacco. Proprio stronza: noi ci guardiamo bene dal porre questa domanda.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Fabio Amendolara e François de Tonquédec per “La Verità” il 21 novembre 2021. La sessione della Leopolda 11 sulla Giustizia e contro il giustizialismo, twitta Matteo Renzi, «resterà negli annali». Un attimo dopo indossa una giacca scura e introduce il grande tema dell'inchiesta sulla fondazione Open. Per lo show ha preparato delle slide da mostrare ai suoi ospiti sul grande display piazzato proprio sopra la grafica che ricorda una vecchia trasmissione radiofonica. L'arringa comincia con queste parole: «La questione processuale si vedrà in Tribunale. Se guardiamo i dati dei processi penali più o meno terminerà in Cassazione nel 2027. Mettetevi comodi, c'è tempo». Il fu Rottamatore scalda subito i suoi: «È impressionante il fatto che le 92.000 carte, che noi ancora non abbiamo letto, sono il frutto di un lavoro che ha portato centinaia di uomini della Finanza, tantissime persone che sono state sottratte dal loro lavoro sulla criminalità, a discutere di cosa? Del reato di finanziamento illecito alla politica». Per Renzi il punto di partenza è «che il tema del contendere non è il finanziamento illecito. Il tema è la seconda parte della frase, è quel "finanziamento illecito alla politica"». E spiega: «Questi denari sono andati a una fondazione, che è un istituto giuridico previsto delle leggi. Ma secondo il pm la fondazione in realtà era un partito. Qual è la sostanza? La differenza è che se i soldi vanno alla fondazione vanno rendicondati con un modulo che chiameremo A. Se vanno a un partito vanno rendicondati con un altro modulo, il modulo B. Ma questo porta più svantaggi che vantaggi». Il leader di Italia viva però si dimentica di dire che, se gli imprenditori avessero usato il modulo B, i soldi sarebbero andati all'intero partito, invece che agli uomini più vicini a lui. Quello che proprio il Bullo non riesce a mandare giù è che i magistrati ritengano Open la cassaforte della sua corrente: «Chi decide cosa è politica e cosa non è? Se è un magistrato a decidere, la libertà democratica è a rischio». In realtà, gli inquirenti evidenziano «quanto emerge in ordine alle reali circostanze che hanno portato all'esaurimento delle finalità statutarie e allo scioglimento della fondazione Open con verbale del Cda datato 29 giugno 2018». E risultano «direttamente collegate al quadro seguito»: «All'esito del referendum del 4 dicembre 2016»; «alle dimissioni di Matteo Renzi dalla segreteria del Pd»; «alle elezioni politiche del 4 marzo 2018». Dunque a decidere cosa fosse davvero Open, sarebbero stati i suoi stessi componenti all'atto dello scioglimento. Poi passa a quello che definisce il «secondo tema», ovvero «come si entra nella vita degli altri». E dice: «Si entra nei telefonini e si tira tutto ciò che si può tirare via». A quel punto spara ad alzo zero su chi indaga: «Noi in questa vicenda non abbiamo rubato un centesimo né violato norme, altri non so. Hanno violato norme e Costituzione. Non mi preoccupano i giornalisti polemici né i grillini, mi preoccupa il silenzio di chi sa di cosa si sta parlando». Le protagoniste, nell'arringa di Renzi, sono le toghe: «Vi segnalo che un magistrato, sulla rivista di Magistratura democratica, ha scritto che attorno a Renzi va stretto un cordone sanitario. [...] Quando saremo giudicati potremmo sapere se quel pubblico ministero per caso appartiene a Md?». Al sistema che avrebbe creato per sfruttare i social dedica non poco spazio, rivendicando la volontà di distruggere l'avversario politico anziché sconfiggerlo: «Di Maio ha detto che dall'analisi delle carte di Open Renzi voleva distruggere i 5 stelle. Ci sono volute le carte di Open? Io non so se è un reato distruggere i 5 stelle. Io penso che sia stato un reato non riuscire a farlo. La distruzione ovviamente era politica». Poi attacca Pier Luigi Bersani: «Tra i testimoni del procedimento c'è Bersani. È arrivato a dire "Renzi ha una cassa personale all'interno del partito." Non so come abbia fatto a dire una cosa del genere. Vorrei ricordare che Bersani ha ricevuto 98.000 euro dai Riva a Taranto. Io ho lavorato per mettere a posto quella città martoriata. Non so quanto costano i caffè a Taranto, ma ora mi spiego perché è così nervoso Bersani». Poi se la prende con D'Alema, che «ha distrutto il Monte dei Paschi di Siena, cosa che nemmeno la peste e le guerre erano riuscite a fare». Ultima questione: «La pesca a strascico»: «Per continuare l'operazione del cordone sanitario non bastava l'invasione di campo nella sfera della politica. Bisognava andare nella sfera personale. I pm vanno a prendere da 40 persone che hanno creduto nel disegno della Leopolda i loro supporti informatici. E così sono uscite le mie email, anche quelle da presidente del consiglio [...]. Quando un pm prende la corrispondenza di un parlamentare sta facendo una cosa enorme. Se deve farlo deve utilizzare delle procedure, chiedendo alla giunta per le autorizzazioni». In realtà quello che è stato acquisito è il contenuto dello smarthphone di Carrai, indagato. Le autorizzazioni serviranno se e quando i magistrati vorranno usare quei dati contro Renzi. Che prosegue: «E nel telefonino di Carrai ci sono le email che producono due cose, il mio conto corrente e la mail di Rondolino». Per un bonifico con Carrai da 5.000 euro parte una segnalazione di operazione sospetta alla Banca d'Italia. «E da lì si arriva a spiattellare il mio conto corrente. Mettono questo conto negli atti. Cosa c'entra con Open? Nulla». Renzi non dice che allegato alla segnalazione non c'è solo il suo estratto conto, ma tutti quelli «dei rapporti beneficiari dei bonifici» effettuati da Carrai oggetto di approfondimento. Sulla mail di Rondolino, però, sorvola. E chiude così la questione. Alla fine ripete che non ha paura e che andrà fino in fondo: «Vogliono processarci per aver fatto politica?», si chiede. E la risposta è questa: «Chiederemo ricompense e lo faremo col sorriso».

Renzi: «Io so di non aver violato la legge, spero possano dirlo anche i pm». Open, Renzi: «Hanno cercato tra le mie mutande» per  un processo «politico alla politica dove dovrò discutere con i magistrati, che hanno fatto pesca a strascico, di cosa è politica e cosa non lo è». Rocco Vazzana Il Dubbio il 21 novembre 2021. È forse il momento più atteso della Leopolda, quello in cui Matteo Renzi prova a dare la sua versione sulla vicenda Open, un «processo è impressionante», dice che ha richiesto l’impiego di centinaia di uomini delle forze dell’ordine per riempire quelle 92 mila pagine. «Tantissime persone sottratte al loro lavoro di contrasto alla criminalità per dedicarsi al reato di finanziamento illecito alla politica». «Matteo Messina denaro ricercato con meno risorse di Matteo Renzi», si scalda il leader di Iv, puntando il dito contro lo «sputtanamento», contro la «violazione della privacy», attraverso la pubblicazione di conversazioni e immagini private, non solo di un cittadino ma di un «parlamentare». «Hanno cercato tra le mie mutande» per  un processo «politico alla politica», ribadisce Renzi, un processo «kafkiano», dove dovrà discutere con i magistrati  – che hanno «fatto pesca a strascico», sequestrando telefonini, iPad e computer di «gente che non c’entrava niente» –  di cosa è politica e cosa non lo è. Eppure Renzi dice di non aver «niente da temere» da questo processo, sono «altri a doversi preoccupare. Perché noi  non abbiamo violato nessuna legge, spero che altri possano dire la stessa cosa. A partire dagli inquirenti». Perché il finanziamento illecito «cosa fa venire in mente?», si chiede retoricamente il senatore. Che poi si risponde: «Che ci siano dei soldi non denunciati, presi di nascosto. Poi scopri che quei soldi non solo sono tutti tracciati, ma sono tutti bonificati». Il tema del contendere, dunque, «non è il finanziamento illecito, è la politica. Perché questi denari sono andati a una fondazione, un istituto giuridico previsto dalle normative». Solo che per gli inquirenti quella fondazione si comportava in realtà da partito. «E chi lo ha deciso? E cosa cambia nella sostanza?» La differenza, secondo Renzi, «è che se i soldi vanno a una fondazione vanno rendicontati col “modulo A”, se vanno a un partito vanno rendicontati col “modulo B”. Il paradosso è che il modulo B è più conveniente. Noi avevamo tutto l’interesse a farlo come partito, perché avremmo avuto delle detrazioni maggiori». Il problema dunque è che qualcuno vuole decidere cosa è politica e cosa no. Ma «nei paesi democratici le forme della politica le decide il Parlamento. Lì dove è un giudice penale a deciderlo non è democrazia». La Leopolda, organizzata da Open, «non era un’iniziativa del Pd», insiste il leader di Iv, «anzi, venivamo sommersi dalle polemiche perché non volevamo bandiere di partito». Eppure il pm dice che alla Leopolda si svolgeva l’attività organizzata da un partito o da una corrente. Ma «che la Leopolda fosse un evento culturale lo dimostra un’ordinanza della Cassazione che dice espressamente che si trattava di “un’iniziativa culturale diversa da quella di un partito politico”». Forse «i magistrati pensano che le correnti in politica funzionano come nella magistratura. Ma non è così. Se facessimo ciò che fa il Csm prenderemmo avvisi di garanzie per traffico di influenze. La corrente dei renziano semplicemente non esisteva», aggiunge Renzi. Che po cita un passaggio di un articolo di Nello Rossi, magistrato in pensione e direttore della rivista di Magistratura democratica, secondo cui attorno all’ex premier va «stretto un cordone sanitario». «Quando verremo giudicati potremo chiedere se quel pm è di Md. E potrò chiedere, in caso, se ritiene anche lui di dover stringere un cordone sanitario attorno a me?» Non mancano le frecciate agli ex compagni di partito che a Firenze sono andati a deporre “contro” l’ex segretario. «Pier Luigi Bersani ha detto che Renzi voleva tagliare le radici della sinistra storica e sindacale. Sì, è vero. Tant’è che abbiamo preso il 40 per cento.  E quella sinistra storica ha lavorato dall’interno per distruggere il Pd. Bersani ha detto che avevo una cassa personale dentro il Pd. Vorrei ricordare che Bersani ha ricevuto 98 mila euro dai Riva a Taranto che hanno finanziato la sua campagna elettorale. Prima di parlare di etica con me pensi alla sua campagna elettorale. Su questi temi sono pronto a discutere con tutti. Con D’Alema che è riuscito a distruggere Mps, con Bersani, coi 5 Stelle che prendevano i soldi dal Venezuela», scandisce Renzi, mentre la platea si alza ad applaudire esaltata. Una standing ovattino per un leader che non sembra intenzionato a mollare la presa di un millimetro.

Da "il Giornale" il 22 novembre 2021. La magistratura al contrattacco. L'Anm, all'indomani delle accuse che dal palco della Leopolda il leader di Iv Matteo Renzi ha ribadito nei confronti dei pm fiorentini che hanno in mano l'inchiesta sulla Fondazione Open, ha affidato a una nota il suo disappunto: «Secondo un ripetuto schema - scrive il sindacato delle toghe - il senatore Matteo Renzi ha mosso, dal palco della Leopolda, ai magistrati fiorentini che hanno concluso le indagini relative alla fondazione Open, accuse gravissime e inaccettabili, come quella di voler imbastire "un processo politico alla politica". Sono parole che gettano discredito non solo e non tanto sui magistrati impegnati in quel procedimento ma sull'intero ordine giudiziario e che, provenendo da un autorevole esponente politico, che ha rivestito anche in passato alte cariche istituzionali, sono capaci di ingenerare disorientamento nell'opinione pubblica e di minare la fiducia dei cittadini nell'Istituzione giudiziaria. Per questa ragione - prosegue la giunta esecutiva dell'Anm - si avverte forte l'esigenza di ribadire la necessità che, fermo il diritto di critica delle azioni della Magistratura e l'inviolabile diritto di difesa di qualunque imputato, il loro esercizio, specie ad opera di rappresentanti della Politica, sia sempre ispirato al rispetto dell'autonomia e della indipendenza della giurisdizione, capisaldi di democrazia».

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 25 novembre 2021. «Qui è bene fare chiarezza: io non voglio evitare il processo e non chiedo al Parlamento di evitarmelo. Io voglio provare che i pm di Firenze hanno violato palesemente la Costituzione. E oggi, in merito, ho portato in Senato quattro prove schiaccianti». Matteo Renzi ha appena finito un'ora di audizione-show davanti alla Giunta per le immunità del Senato, che ieri ha convocato il leader di Italia viva dopo la lettera che aveva inviato alla presidente Maria Elisabetta Casellati, denunciando la violazione dell'articolo 68 della Carta da parte dei pm che lo accusano di finanziamento illecito ai partiti nell'ambito dell'inchiesta Open. Agli atti dell'inchiesta, oltre 92 mila pagine, sono finite anche intercettazioni e corrispondenza del senatore di Firenze, passaggio contestato appunto da Renzi in quanto sarebbe stata violata la norma che obbliga i pm a richiedere l'autorizzazione alla Camera di appartenenza del parlamentare; passaggio chiave che, a detta di Renzi, nel caso di Open manca all'appello. L'ex premier, durante l'audizione a porte chiuse nella Giunta presieduta dal forzista Maurizio Gasparri, viene dipinto di buonumore, a tal punto da dire al collega Pillon: «Occhio che ti scateno i Måneskin», riferendosi alle critiche del leghista riguardo l'abbigliamento della rock band. Scintille, invece, con il senatore Grasso, che ha contestato la tesi di Renzi: «Si sente il rumore delle unghie sullo specchio», è stata la reazione. Ma la sensazione di Renzi è che, vista la geografia politica dei componenti della Giunta, alla fine prevarrà la linea garantista. «Anche da parte del M5S - riflette il leader Iv - perché davanti a prove solide di violazione della Carta li voglio vedere dopo le battaglie che hanno fatto». Al di là dei complicati meccanismi istituzionali, però, quale potrebbe essere il traguardo di questa battaglia? Nel caso in cui fosse provato che i magistrati non hanno rispettato l'articolo 68, il Senato potrebbe votare e decidere di appellarsi alla Corte costituzionale, aprendo un conflitto di attribuzione rilevante. A chi gli chiede se si senta perseguitato dai magistrati, l'ex premier risponde così: «Io non credo alla persecuzione: non ho mai parlato di questo e soprattutto stavolta non avete un politico che grida al complotto. Non sto chiedendo che non si applichi la legge per me, una scorciatoia: io sto chiedendo che venga applicata la Costituzione». E poi snocciola: «Questo pubblico ministero di Firenze ha arrestato mio padre e poi annullato l'arresto, indagato mio cognato, mia sorella e mi ha indagato in più di una circostanza. Ha una particolare sensibilità nei miei confronti. Questo pm (Luca Turco, ndr ) ha violato la Costituzione in quattro passaggi». Le quattro presunte «prove schiaccianti» di violazione dell'articolo 68 portate dal senatore sono: «L'acquisizione di corrispondenza del giugno 2018 con il dottor Manes (da cui è emersa la vicenda del jet privato pagato oltre 130 mila euro dalla fondazione Open per portare Renzi a Washington, ndr ); lo scambio di messaggi WhatsApp con il manager e amico Marco Carrai; una serie di mail dell'agosto 2019: queste tre sono palesi ed evidenti per tutti». La quarta prova - ha detto ancora il leader di Iv - che «trovo molto convincente ma sarà discussa dalla Giunta se lo riterrà, è quella relativa all'estratto conto con l'acquisizione da parte del pm in data 11 gennaio 2021». Al termine della lunga audizione c'è il tempo per un botta e risposta con l'ex premier Giuseppe Conte, accusato da Renzi: «Alla fine abbiamo scoperto che pure lui va a fare le conferenze», dice riferendosi a un evento ad Amsterdam. Secca la replica: «La differenza tra me è lui è profonda: io non ho preso un euro». 

Giacomo Amadori François De Tonquédec per "la Verità" il 19 novembre 2021. E alla fine la slavina Open rischia di sfiorare anche Palazzo Chigi o almeno il suo capo di gabinetto. Tra i capi d'accusa contenuti nell'avviso di fine indagini, c'è quello che vede iscritti Gianluca Ansalone, responsabile dell'ufficio relazioni esterne della British American Tobacco Italia, e Giovanni Carucci, vicepresidente del Consiglio di amministrazione accusati di corruzione nei confronti dell'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti, che si sarebbe «ripetutamente adoperato in relazione a disposizioni normative di interesse per la spa British American Tabacco Italia». Parallelamente agli scambi con Lotti, Ansalone chatta anche con Antonio Funiciello, quarantacinquenne capo di gabinetto del premier Mario Draghi. E gli scambi in molti passaggi sembrano speculari, anche se non ci risulta che Funiciello sia indagato. Nel novembre 2017, mentre a Palazzo Chigi siede l'attuale commissario europeo Paolo Gentiloni, un emendamento alla legge di stabilità scatena il panico tra le multinazionali del tabacco. E Ansalone attiva i suoi canali con il Pd, in particolare con Lotti. Il 7 novembre avverte il sottosegretario di «alcuni emendamenti al dl fiscale che ci preoccupano molto» e il giorno successivo torna sull'argomento con un altro messaggio Whatsapp dal tono drammatico: «Se passasse questo emendamento nel giro di un paio d'anni almeno due operatori (noi e Imperial Tobacco) non saremmo più in grado di stare sul mercato. Grazie ancora». Il manager della multinazionale, però, si muove su più fronti, e sempre l'8 novembre scrive, per lo stesso emendamento, ad Antonio Funiciello, all'epoca capo staff di Gentiloni e oggi capo di gabinetto del premier Draghi. I due sembrano avere confidenza, tanto che Ansalone si complimenta per gli articoli di Funiciello sul Foglio («puntuale e suggestivo» dice di uno). Ma veniamo alla ciccia: «Caro Antonio faccio seguito al tuo scambio con Leonardo e ti chiedo davvero scusa per il disturbo», inizia Ansalone, che poi va al cuore del problema: «È stato presentato un emendamento al Dl fiscale a firma Santini (Giorgio, senatore Pd, con un passato da sindacalista, ndr). Il 5.0.22, su cui pare ci sia segnalazione del Governo. In sintesi l'emendamento propone di inasprire la fiscalità sulle sigarette di fascia medio bassa in maniera abnorme rispetto a quelle di fascia alta, con effetti distorsivi sulla concorrenza e un vantaggio anticoncorrenziale per il dominante di mercato (Philip Morris). La legge sulle sigarette è molto delicata e questo emendamento con un colpo di mano la cambia radicalmente». Funiciello risponde brevemente: «Ok, cerco di capire». Ansalone ringrazia ancora «di cuore» e Funiciello replica: «Ok figurati». A stretto giro, Ansalone manda un appunto, a cui il capo segreteria dell'allora premier risponde: «Benissimo. Sono già all'opera, complicato però». Il 9 novembre nuovo giro di contatti con Ansalone che dice: «Caro Antonio, solo per dirti che ho appena incontrato Casero (Luigi, all'epoca viceministro all'Economia in quota Ncd, ndr- che ha la delega ai tabacchi) il quale era all'oscuro della vicenda e si è detto contrariato dall'iniziativa. Ne parla immediatamente con Aams (Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, ndr) e con Santini. Un messaggio di perplessità tuo/vostro aiuterebbe a rafforzare e scongiurare fughe in avanti pericolose. Ti sono di nuovo molto grato». Lo stesso giorno, cinque minuti dopo, Ansalone manda un messaggio pressoché identico (gratitudine inclusa) a Lotti. Funiciello replica laconicamente: «Che al Mef fossero all'oscuro ci credo come credo ancora a Babbo Natale». Il 10 novembre è Funiciello che contatta il manager del tabacco, con un «insomma» che allarma l'interlocutore: «Cioè sta andando male?». Ma la rassicurazione è immediata: «Bene non ancora chiusa, ma bene». Ansalone: «Grazie davvero». L'uomo delle sigarette, tre giorni dopo, è in fibrillazione: «Mi rassicuri? So che lo hai già fatto, ma». Il capo di gabinetto di Draghi lo accarezza: «In via di rassicurazione». Ansalone si scioglie: «Grazie. Torno a Monteverde carico di speranza». Il 14 novembre alle 9.18 Ansalone esplode di gioia: «Caro Antonio, ho appena avuto conferma che tutto è andato bene. Un grazie non formale per aver condiviso merito e contenuto delle nostre preoccupazioni. Abbiamo evitato una cosa pericolosa []». Passano tre minuti e Ansalone manda un messaggio pressoché uguale a Lotti: «Caro Luca []. Abbiamo scongiurato una cosa devastante. Ti sono sinceramente grato». Circa un mese dopo, però, Ansalone è costretto a tornare alla carica con Funiciello: «Non mi chiamare rompiscatole ti prego ma i nostri cari amici tornano a farsi sentire, lo stesso identico emendamento della scorsa volta, in fotocopia, è stato depositato alla Bilancio». Cinque minuti prima aveva informato pure Lotti dell'esistenza di nuovi emendamenti con sette firmatari diversi («Fortunatamente tutti di opposizione»), ma testi pressoché identici e gli promette un appunto aggiornato. Il 14 Ansalone continua a perorare la causa con Funiciello: «Caro Antonio, ti volevo aggiornare sul tema emendamenti. È rimasto in piedi solo 23-ter.9 (Ravetto - Laura, all'epoca in Forza Italia, ndr) che ripropone il tema noto. Boccia (Francesco, all'epoca presidente della commissione Bilancio, ndr) e Baretta (Pierpaolo, in quel momento sottosegretario all'Economia, ndr) sono informati. Fi lo sostiene». Il 19 Ansalone scrive a Lotti: «Caro Luca, l'emendamento Ravetto è stato appena accantonato. sono in contatto con Alessandro e teniamo gli occhi aperti. Grazie mille». E il 21, questa volta in seconda battuta, ringrazia anche Funiciello: «Caro Antonio, finalmente dopo un nuovo round alla Camera possiamo rilassarci un attimo. Ti voglio ringraziare sinceramente per il tuo ascolto e il supporto». Funiciello lo tranquillizza: «Alla Camera rischi veri non ne abbiamo corso. Chi ti dice il contrario e si vanta con te è un cazzaro». Nonostante Ansalone abbia ringraziato sia Funiciello che Lotti, solo quest' ultimo rischia di finire a processo a causa delle erogazioni di denaro della multinazionale alla fondazione Open, di cui Lotti era consigliere. A Funiciello, invece, Ansalone ha promesso un caffè.

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 23 novembre 2021. Spiace disturbare il premier Draghi, che ha già il suo daffare. Ma quella che gli sottoponiamo non è una vicenda minore […]. Riguarda il suo capo di gabinetto Antonio Funiciello, da lui nominato il 12 aprile con un atto che lo richiamava a perseguire "unicamente finalità di interesse generale". Draghi allora non poteva sapere ciò che è poi emerso dagli atti dell'inchiesta Open, in cui Funiciello è ripetutamente citato nelle sue precedenti vesti di turborenziano e capo di gabinetto del premier Paolo Gentiloni (2016-'18). Carte che dimostrano come il Funiciello interpretasse le "finalità di interesse generale" a cui era ed è tenuto: come finalità di interesse privato per favorire, nella legge di Bilancio del 2017, due lobby - British American Tobacco e gruppo Toto - che finanziavano Open. […] Essendo ben nota la sua correttezza, siamo certi che mai Draghi, se avesse saputo queste cose quando un amico (Gentiloni?) gli segnalò Funiciello, l'avrebbe scelto come capo di gabinetto. Ma ora le sa e il Fatto gli domanda se quelle marchette siano compatibili con le "finalità di interesse generale" che gli aveva prescritto. Per ruoli e condotte meno rilevanti, ha già meritoriamente rimosso o degradato personaggi imbarazzanti come Durigon, Tabacci, Farina e De Pasquale. Quando dirà e farà qualcosa su Funiciello?

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 20 novembre 2021. Antonio Funiciello, il capo di gabinetto del premier Mario Draghi, a detta di un altro imprenditore indagato nell'inchiesta Open, avrebbe «lavorato ventre a terra» anche per il gruppo Toto. Ieri vi abbiamo raccontato i rapporti di Funiciello con Gianluca Ansalone, quarantaquattrenne di Torre del Greco, sino al 2018 responsabile dell'ufficio relazioni sterne della British American tobacco Italia. Dalle carte dell'inchiesta Open, la cassaforte del Renzismo, emerge pure che nel 2017 Ansalone inviava gli screenshot delle sue chat con Funiciello, con l'ex sottosegretario Luca Lotti, e con Nicola Centrone (ex stretto collaboratore di Lotti) al vicepresidente della Bat, Alessandro Bertolini. Lotti si sarebbe «ripetutamente adoperato in relazione a disposizioni normative di interesse per la Spa British American tobacco Italia» e in cambio avrebbe ottenuto bonifici per la Fondazione Open da parte di Bat; per questo Lotti, Ansalone e il vicepresidente della multinazionale del tabacco Giovanni Carucci sono sotto inchiesta per corruzione a Firenze. Funiciello, al contrario, è bene precisarlo, non risulta indagato: infatti, dalle investigazioni, non risulta che abbia ottenuto utilità in cambio del suo interessamento alla soluzione dei problemi degli imprenditori indagati. Usiamo il plurale, perché, come anticipato all'inizio dell'articolo, il numero di telefono di Funiciello non sarebbe stato solo sull'agenda di Ansalone, che a lui (e ad altri) si rivolgeva fiducioso per far saltare questo o quell'emendamento sfavorevole ai signori delle sigarette. Anche un altro imprenditore accusato di corruzione avrebbe utilizzato il canale Funiciello per provare a ottenere norme favorevoli alla propria società. Stiamo parlando dell'abruzzese Alfonso Toto, titolare con la sua famiglia di una concessione autostradale, il quale in un messaggio avverte Lotti che sta per recarsi presso la segretaria di Funiciello, in quel momento capo staff del premier Paolo Gentiloni. Il tema del momento è l'approvazione in commissione Bilancio di un emendamento di fine 2017 firmato dalla piddina Paola Bragantini e favorevole alla holding chietina. Un'approvazione per cui «È stato determinante il parere positivo espresso dal ministro dei Trasporti, Graziano Delrio» annotano gli investigatori. L'emendamento incrementa di 58 milioni la spesa prevista per il 2018 destinata agli interventi di ripristino e messa in sicurezza sulla tratta autostradale abruzzese A24 e A25, spostandoli dal contributo già autorizzato di circa 250 milioni per gli anni 2021-2022. Il senatore ed ex presidente della Regione Abruzzo Luciano D'Alfonso prova a prendersi i meriti: «Di' a Polifemo di tuo padre (Carlo Toto, Ndr) che la gazza ladra di tuo cugino (il deputato Daniele Toto, Ndr) non c'entra nulla». Alfonso Toto replica: «Ne è al corrente... sa che sono stato da Funiciello e dalla Canalini (la segretaria, Ndr) che hanno lavorato ventre a terra avendo compreso la drammaticità della nostra infrastruttura abruzzese». Scrivono gli uomini della Guardia di finanza: «L'interessamento di Maria Elena Boschi, attivata da Luciano D'Alfonso, e del capo di gabinetto del Ministero delle infrastrutture e trasporti (sic, Ndr), Antonio Funiciello, hanno contribuito all'effettiva approvazione in commissione Bilancio alla Camera dei deputati in data 17 dicembre 2017 dell'emendamento 63.12 affidato a Paola Bragantini». Torniamo adesso ai rapporti di Funiciello con Ansalone. Ieri abbiamo cercato quest' ultimo per chiedere delucidazioni sui suoi rapporti con Funiciello e anche per ricevere alcuni chiarimenti sul suo curriculum, visto che in una nota degli investigatori viene indicato, oltre che docente presso la Scuola ufficiali dei carabinieri, anche come percettore di «redditi dalla Presidenza del Consiglio dei ministri (Dipartimento informazioni per la sicurezza)», ovvero l'ufficio di coordinamento dei nostri servizi segreti. Una notizia che regala un'atmosfera da spy-story a tutta la vicenda. Un vecchio articolo di Dagospia indicava Ansalone come «ex di Finmeccanica» ed «esperto di intelligence», tanto da aver fatto il collaboratore del Copasir ai tempi di Massimo D'Alema. Autore di articoli su temi militari, nel 2013, trentaseienne, sarebbe stato dirottato al Quirinale con l'incarico di «consulente per l'analisi internazionale e la sicurezza». Successivamente sarebbe diventato un esperto di tabacco ed emendamenti. Ansalone non ha risposto alle nostre domande sul suo legame con Lotti e Funiciello, ma ha precisato di non essere a libro paga dei servizi: «Non percepisco alcun reddito dal Dis. Nel lontano passato sporadici emolumenti per occasionali docenze in geopolitica presso la scuola di formazione del dipartimento. Così come presso la Scuola ufficiali Carabinieri. I miei studi sono in Relazioni internazionali. Scrivo di geopolitica e strategia. Troverà i miei libri e le mie pubblicazioni online». Quindi Funiciello avrebbe aiutato non uno 007, bensì un esperto di strategia e questioni militari. Il capo di gabinetto di Draghi compare negli atti dell'inchiesta anche per altri motivi. Prima di diventare collaboratore del governo dei migliori era stato un fedelissimo di Matteo Renzi, ai tempi del gabinetto dei Mille giorni. Nel novembre del 2013, per i tipi di Edizioni Dlm Europa, ha pubblicato il volume Un'agenda per Renzi scritto con Giorgio Tonini, Enrico Morando e Dario Perrini. Lo stesso anno ottiene la delega «per la cultura e la comunicazione nella segretaria nazionale del Pd». La sua scheda sul sito di Palazzo Chigi ci informa che ha lavorato nell'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio tra il 2014 e il 2016, gli anni in cui Renzi era al governo. Ma è nell'infuocata campagna referendaria del 2016 che Funiciello gioca un ruolo strategico, visto che è stato lui a costituire insieme all'ex capo segreteria della Boschi, Marco Rivello, e all'ex assessora della giunta fiorentina di Renzi, Sandra Biagiotti, il «Comitato nazionale per il Sì al referendum costituzionale - Basta un sì», di cui era presidente.Gli investigatori indicano il ruolo di fondatori del comitato e di componenti del consiglio direttivo come «incarichi, da cui emerge un evidente collegamento con gli esponenti della Fondazione Open». Un legame che, nel caso di Funiciello, è confermato dal contratto di mutuo infruttifero, sottoscritto il 9 novembre 2016 dal presidente della fondazione Alberto Bianchi e il comitato referendario, rappresentato da Funiciello. Con l'atto Bianchi concede, a titolo personale, un prestito di 200.000 euro (soldi provenienti da Toto e per cui viene contestato a Bianchi il finanziamento illecito oltre che il traffico di influenze) a sostegno della campagna «Basta un sì», da restituire entro il 31 agosto 2017. Ma solo se nelle casse dei promotori ci sarà una cifra superiore a quella prestata. In caso di un avanzo più basso «il Comitato per il Sì sarà obbligato a restituire soltanto tale avanzo; conseguentemente, la somma residua assumerà, per il signor Alberto Bianchi, la natura di mero contributo/erogazione liberale». La centralità di Funiciello si intuisce anche da uno scambio di mail in cui Bianchi fa sapere a Lorenzo Anichini, tesoriere del comitato (e, tra l'altro, membro del collegio sindacale di Bat) che «Matteo vuole denunciare i Cobas Ataf che hanno appiccicato sugli autobus un No sopra il Sì della propaganda regolarmente pagata». Anichini comunica che «la denuncia la può firmare solo Funiciello che ha la legale rappresentanza del Comitato». Il nome di Funiciello compare anche nei bilanci di Open per alcuni rimborsi.Per esempio vengono messi a pie' di lista 124 euro per una camera d'hotel in cui non è si è presentato.Il 2 maggio la segretaria particolare di Lotti, Eleonora Chierichetti, chiede al presidente di Open Bianchi e alla sua assistente di prenotare un biglietto del treno per Funiciello al seguito di Lotti. Inoltra anche il rimborso di una notte allo Starhotel di Napoli per i due. Il 18 maggio la donna allega la prenotazione per tre camere doppie uso singola all'Airhotel di Linate, situato a 500 metri dall'aeroporto.Nel 2016 Funiciello era in forza all'ufficio stampa della Presidenza del consiglio e il Comitato per il Sì al referendum è stato fondato il 20 maggio, dopo lo scambio di mail sulle prenotazioni. Per quale motivo la fondazione Open pagava le spese di viaggio di un funzionario di Palazzo Chigi che accompagnava un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio? Forse qualcuno lo considerava un membro ad honorem della famosa corrente renziana del Pd che, secondo gli inquirenti, veniva finanziata da Open. 

I quesiti: dall'inchiesta Open all'estratto conto. Le 13 domande di Conte e del M5S a Renzi: “Confrontiamoci in tv, dalle mascherine al Venezuela”. Redazione su Il Riformista il 15 Novembre 2021. Un confronto in tv. Tredici domande a testa. E’ quanto rilancia Matteo Renzi, leader di Italia Viva, dopo aver ricevuto 13 domande da parte dell’ex premier Giuseppe Conte e del suo Movimento 5 Stelle, di cui è presidente. “Sarò felice di rispondere in un confronto in diretta Tv. Aspetto la sua proposta di data e nel frattempo preparo le 13 domande per lui, dalle mascherine al Venezuela. Sono certo che non scapperà dal confronto democratico. Vero?”. Questo il cinguettio di Renzi poco dopo le 19.30 di lunedì 15 novembre. I quesiti partoriti dai grillini hanno come riferimento l’inchiesta Open, rilanciata quotidianamente da Il Fatto Quotidiano negli ultimi giorni. ’13 domande a tutela del confronto democratico #RenziRispondi‘. Si intitola così il lungo post pubblicato dal Movimento 5 Stelle sul proprio sito, e rilanciato via social, in cui vengono poste a Renzi una serie di quesiti che toccano alcuni temi emersi, dall’inchiesta Open ma non solo. “Queste domande – si legge sul blog – sono poste dal M5S nell’interesse di tutti i cittadini, a garanzia dei principi di piena trasparenza e accountability, che devono contraddistinguere l’operato di tutti i politici e che sono fondamentali per alimentare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella classe politica’. ‘Su questi aspetti il Movimento 5 Stelle non è disponibile ad arretrare di un millimetro – sui sottolinea -. La politica non può essere solo questione di rispetto delle norme, penali in particolare. Per noi la politica, in via primaria e imprescindibile, è questione di rispetto della dignità delle persone e di ‘disciplina e onore’. In definitiva, è questione di ‘etica pubblica’. Senza coscienza morale, il nostro Paese non ha futuro”. Tra i 13 quesiti posti dal M5S a Renzi molti vertono sull’inchiesta Open, ma c’è spazio anche per domande legate ad altri temi.

“Senatore Renzi, lei ha definito ipotesi di scuola il progetto mirato a creare una struttura di propaganda antigrillina e a diffondere rilevazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica del M5S e di alcuni giornalisti. Ma a che tipo di scuola e di offerta didattica lei e i suoi collaboratori vi siete dedicati? Questo progetto, già a una prima lettura, presenta una quantità impressionante di profili di illiceità (investigatori privati, siti anonimi, server sottratti alla legge italiana, diffusione di notizie false e diffamatorie etc.). Come mai lei, all’epoca segretario del Partito democratico, anziché prendere le distanze da questo inquietante progetto lo inoltrò, via i-phone, senza alcun commento, a un altro suo collaboratore, ingenerando – oggettivamente – l’equivoco che la sua intenzione fosse di dar seguito al progetto?”.

“Come mai ha ritenuto di ribadire, ancora recentemente, la stima nei confronti del giornalista che ha elaborato questo progetto, nonostante la palese violazione delle regole deontologiche dei giornalisti e il palese contrasto con la tutela dei diritti fondamentali degli esponenti del Movimento 5 Stelle e dei giornalisti presi di mira? Quali sono le ragioni per cui non vuole o non può stigmatizzare l’operato di chi ha lavorato al progetto? Il progetto prevedeva di far riprendere dai media tradizionalì questa campagna denigratoria grazie a una serie di interlocutori, nei giornali e nelle tv, con cui costruire un rapporto personale e fiduciario. Non ritiene di doversi scusare con il Movimento 5 Stelle e con le persone che il piano da lei ricevuto e trasmesso si proponeva di distruggere e diffamare?”.

“Come spiega la mail inviata a un suo stretto collaboratore che conterrebbe l’indicazione di conoscere le scalette e di indirizzare i contenuti delle tv?”.

“Può spiegare i contenuti  dell’accordo – di cui si parla nelle carte dell’inchiesta – tra il suo ex-portavoce Agnoletti e Orfeo e dell’accordò per Mediaset? Può spiegare il significato dell’espressione ‘dare uno sguardo particolare su Gruber, Floris, Formigli, Giletti, Minoli’?”.

“Le paiono comportamenti consoni a un ex premier nonché leader di un partito e rispettosi della libertà di informazione? Le paiono accordi compatibili con incarichi dirigenziali nel servizio pubblico radiotelevisivo?”.

“Lei ha spesso accusato altri partiti di usare social network per le loro macchine del fango, per le loro ‘bestie’ e per le notizie false diffuse solo per screditare gli avversari. Come spiega le carte emerse dall’inchiesta sulla fondazione Open secondo cui, nel marzo 2017, il coordinatore della sua comunicazione inviò una mail in cui si parlava esplicitamente di 16 persone che gestivano 128 account postando contenuti denigratori nei confronti del Movimento 5 Stelle?”.

“Ora che si scopre che queste iniziative venivano elaborate e discusse dai suoi collaboratori: intende prendere le distanze da loro e, nel caso in cui lavorino ancora con lei, intende allontanarli oppure certe condotte sono censurabili soltanto se attribuite ad altri?”.

“Al di là di eventuali divieti di legge, le sembra compatibile con il principio costituzionale di disciplina e onore la condotta di un parlamentare che incassa lauti compensi dal governo saudita e apprezza il ‘nuovo rinascimento arabo’ nonostante la innegabile compressione dei diritti fondamentali delle persone, in particolare delle donne e degli omosessuali, e le terribili accuse per l’assassinio del giornalista Khashoggi?”.

“Lei è stato componente in questa legislatura della commissione Difesa e poi Esteri del Senato: come può un parlamentare garantire i cittadini italiani di difendere i loro interessi se si lascia finanziare da governi esteri?”.

“Lei, a parole, ha mostrato di avere a cuore le battaglie per i diritti civili. Le sembra coerente con queste dichiarazioni la sua assenza al momento del voto sul ddl Zan, in Senato, motivata da una ennesima trasferta in Arabia Saudita? Le carte dell’inchiesta testimoniano l’urgenza di chiudere la fondazione Open entro il 31 gennaio 2019 in modo da evitare l’applicazione della legge Spazzacorrotti (n. 3/2019), fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle. Per quale ragione eravate così preoccupati sino a preferire la liquidazione affrettata di Open, che ha portato ad accertare una perdita ingente e a rinunciare ai fondi residui del Comitato per il sì al referendum?”.

“Intende contrastare o non si opporrà, con il suo partito Italia Viva, alla battaglia che il Movimento 5 Stelle sta conducendo in Parlamento per introdurre una più stringente normativa sul conflitto di interessi, con esplicito divieto per i parlamentari italiani di ricevere finanziamenti da governi stranieri?”.

“Lei, con il suo partito Italia Viva, siete stati i più fieri oppositori dell’annullamento della concessione autostradale ad Autostrade per l’Italia, controllata dai Benetton tramite Edizione Holding. In particolare, nel 2018, dopo il crollo del Ponte Morandi, lei attaccò la procedura di annullamento della concessione, precisando di ‘non avere preso un euro dai Benetton’. Come mai, nel 2019, ha invece accettato un finanziamento da Alessandro Benetton, membro del Cda di Edizione Holding? Non ha ritenuto quantomeno inopportuno ricevere somme dai Benetton a procedura ancora aperta? E perché non avvertì il bisogno di informare i suoi elettori di questo bonifico, visto che si era vantato del contrario? Lo stesso discorso vale per i finanziamenti a Open da parte di alcuni gruppi imprenditoriali, che per l’ipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Firenze sarebbero illeciti e addirittura corruttivi, in quanto seguiti da provvedimenti normativi favorevoli ai soggetti finanziatori. Il procedimento penale avrà il suo corso e lei avrà le più ampie possibilità di far valere le sue ragioni. Ma non crede che questi comportamenti rischiano di minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella classe politica? Non pensa che l’etica pubblica sia un valore da preservare, a prescindere dalla sfera della responsabilità penale?”.

 “Nel gennaio del 2018, durante la trasmissione tv Matrix, esibì ai telespettatori il suo estratto conto di circa 15.000 euro, affermando testualmente: ‘Se volete fare i soldi, non fate politica. Se vuoi fare i soldi vai nelle banche d’affari, prendi i contratti milionari che ti offrono, non ti metti a fare il politico. Chi fa il politico ha questi conti correnti, non ne ha altri. Se ne ha altri c’è qualcosa che non torna Io sulla trasparenza non faccio sconti a nessuno  Mi piacerebbe che per trasparenza tutti quelli che fanno politica presentassero anche tutti i conti correnti, dove li hanno e come tirano fuori i soldi’. Perché oggi si lamenta che nelle carte dell’inchiesta in corso siano stati acquisiti alcuni finanziamenti che risultano dal suo estratto conto? Perché non ha avvertito l’esigenza, per il principio di trasparenza da lei stesso più volte invocato, di informare i suoi elettori, man mano che i suoi conti correnti lievitavano con ogni sorta di introiti?”.

L’accanimento della casta dei pm e del suo house organ. Perché Renzi è perseguitato dai magistrati: dall’inchiesta di Genova fino a Open. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Tutto cominciò con quel “Brr che paura” alle proteste del sindacato dei magistrati che lamentavano il taglio delle ferie. Erano i primi di settembre del 2014 e “Porta a porta” inaugurava la nuova stagione con la presenza prestigiosa, sulla poltrona bianca dello studio di Bruno Vespa, del Presidente del Consiglio. Era premier da soli sette mesi, Matteo Renzi, e aveva la baldanza di chi ancora non aveva assaggiato antipasto primo secondo dolce frutta e caffè della tavola imbandita dal Partito Mediatico Giudiziario. Aveva infatti con molta nonchalance in quella serata ancora estiva buttato lì il suo “L’Anm è insorta? Brr che paura! Noi andremo avanti”. Sulla responsabilità civile delle toghe: “Se sbagliano devono pagare”. Sulle ferie: “Vi sembra normale che un tribunale sia chiuso dal primo agosto al 15 settembre? Per aprirlo devi scassinare una banca…”. Non sapeva ancora il baldo presidente del consiglio che quei sassolini che lui tirava con disinvoltura verso la Casta più potente mai comparsa all’orizzonte della politica, quel partito dei pubblici ministeri in grado di tenere per la collottola i partiti e il mondo economico e finanziario, sarebbero presto diventati slavina. Che sarebbe precipitata su di lui, la sua famiglia, i suoi amici e collaboratori. Già la primavera del 2014 – lui aveva giurato davanti al presidente Napolitano nel febbraio – non era stata del tutto indolore. Di fronte all’esposto di un usciere del Comune di Firenze che si era esercitato in modo seriale a prendere di mira l’ex sindaco della città, la Procura si era ben guardata dall’archiviare quelle che apparivano visibilmente le fissazioni di un dipendente scontento, e aveva aperto indagini. Con un “fascicolo esplorativo”. Che non vorrebbe dire niente, se non fosse stato accompagnato da fanfara mediatica e un po’ guardona, per vedere se l’affitto di quell’appartamento del centro di Firenze fosse stato pagato da Matteo Renzi o dal suo amico Marco Carrai, presidente dell’aeroporto della città e anche della Fondazione Open. Una bolla di sapone, quell’inchiesta, e siamo ancora solo agli aperitivi. Ma si affacciava già il Movimento cinque stelle che, del tutto isolato, cercava di coinvolgere in quella bufala il consiglio comunale di Firenze, mentre Beppe Grillo già twittava intimando a Renzi di rispondere alle sue domande, anche se non erano tredici come quelle di Conte. L’antipasto arriva pochi giorni dopo la famosa partecipazione di Renzi a Porta a porta. Non ha ancora finito di dire “Brr che paura” che i giornali sono inondati da una notizia che arriva da Genova. Un fatto tecnico, la richiesta di proroga delle indagini da parte di un pm, che torna utile però per far uscire la notizia: Tiziano Renzi, padre del Presidente del consiglio, è indagato nel capoluogo ligure per bancarotta. Da qui in avanti la slavina mediatico- giudiziaria non si ferma più. E ha poca importanza il fatto che quell’inchiesta di Genova finirà in niente, con la procura che dovrà chiedere per ben due volte l’archiviazione prima che la gip si decida. Stessa sorte – la notizia è recentissima – avrà un’altra indagine condotta dalla procura di Cuneo, questa volta nei confronti della madre di Renzi, Laura Bovoli, processata in seguito al fallimento di una società di pubblicità e diffusione di volantini nel cuneese, e assolta perché “il fatto non sussiste” nel luglio di quest’anno, dopo lunghe indagini. Ma Genova e Cuneo non sono in provincia di Firenze. Perché è nel palazzo di giustizia di quella città che si concentrano tutti i piatti forti di quella tavola imbastita dal Partito Mediatico Giudiziario. Quasi che quel “Brr” fosse stato un vento gelido che soffiava solo da quelle parti. Nel febbraio 2019 i genitori di Matteo Renzi vengono posti agli arresti domiciliari. La richiesta, ottenuta dal gip, è del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco. Un nome che ritornerà, insieme a quello del capo dell’ufficio Creazzo, perché il leader di Italia Viva anche di recente li accuserà di essere “ossessionati” dalla sua persona. Anche perché, solo diciotto giorni dopo i due genitori saranno scarcerati dal tribunale del riesame. Il che di solito significa che non c’era nessun bisogno di quelle manette, pur se solo metaforiche. Ma si sa che gli arresti fanno notizia. È comunque un dato di fatto che tutte le inchieste sull’attività passata dei genitori di Renzi nascevano dalla procura di Genova, che aveva indagato ad ampio spettro su tutte le attività della coppia, poi smistando agli uffici di altre città sulla base delle diverse competenze territoriali. Ed è un altro dato di fatto che, mentre le altre procure hanno archiviato, solo a Firenze i due coniugi sono ancora processati per bancarotta per il fallimento di tre cooperative e già condannati in primo grado a un anno e nove mesi per false fatturazioni. E ancora a Firenze si apre il fascicolo più assurdo, anche se “a modello 44”, cioè contro ignoti. Ignoti nell’intestazione del faldone, ma non sui giornali. Anzi, in particolare, sull’house organ delle procure. È la famosa storia della telefonata tra Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, indagato in un’inchiesta del procuratore di Napoli John Woodcock, in cui la sua posizione sarà poi archiviata, avvenuta nel 2014 e pubblicata dal Fatto quotidiano un anno dopo. Quella in cui Renzi definiva il premier Enrico Letta un “incapace” e ne preannunciava le forzate dimissioni. Ma quanta confidenza tra i due, deve aver pensato, dopo aver letto il quotidiano, il denunciatore seriale di Palazzo Vecchio. E giù un esposto. Fatto sta che la procura di Firenze indaga, un po’ per le intercettazioni pubblicate un po’ per l’esposto, per vedere se per caso il generale Adinolfi, quando era il comandante interregionale di Emilia e Toscana, non avesse imboscato qualche malefatta del suo “amico” per favorirlo. Altra fuffa, ma intanto la grancassa mediatica è sempre pronta. Sulla vicenda Consip, il cui coinvolgimento giudiziario di Tiziano Renzi è transitato prima sulla via mediatica che su quella giudiziaria, ha già scritto tutto il direttore Piero Sansonetti. Possiamo solo ricordare come, uscita dall’inchiesta l’unica imputazione di qualche rilievo, cioè la turbativa d’asta, nel rinvio a giudizio è rimasto impigliato solo il reato più evanescente del codice, il traffico d’influenze. Cioè quello che non si nega a nessuno, anche se lo si presume destinato a sciogliersi come neve al sole. Ed ecco l’inchiesta “Open”. Quella iniziata il 26 novembre 2019 con un blitz di perquisizioni e sequestri nel miglior sistema delle procure antimafia. Quella che consta di 92.000 pagine. Quella cui partecipa attivamente il giornale di Travaglio, con cinque sei articoli ogni giorno e la pubblicazione di atti riservati e anche “sensibili” come gli estratti di conto corrente. Quella in cui la procura di Firenze ha notificato la chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per 11 persone e 4 società, e un giudice avrà il compito, strettamente politico, di decidere se la fondazione che organizzava le Leopolde fosse o no una sorta di braccio armato del Pd. Proprio quella, oggi rischia di essere la buccia di banana della Procura di Firenze. Per capirlo basta rileggere quel che ha già scritto la cassazione quando ha denunciato un certo sistema dell’organo dell’accusa: quello di setacciare migliaia di documenti per vedere se c’è qualche reato. E’ il sistema che in dottrina viene chiamato del “tipo d’autore”: prima individuo la persona da indagare, poi cerco il reato che eventualmente ha commesso. Trovato uno come Matteo Renzi, per esempio. Magari con tutta la famiglia, quella affettiva e quella politica. Poi vediamo che cosa hanno fatto. Ma intanto sbattiamoli per qualche anno sui giornali.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Calenda: «Indecenti le intercettazioni di Open sui giornali». «Renzi può stare antipatico ma può accadere a chiunque. Non va bene, è indecente per un Paese civile». Il Dubbio il 14 novembre 2021. I metodi come la “bestiolina” proposta a Matteo Renzi «mi fanno abbastanza schifo, ma io non credo Renzi l’abbia fatta. Io sono stato duro sul fatto che la politica si faccia dare soldi da uno Stato straniero, ma dico attenzione a che quello che sta succedendo, ogni giorno con le intercettazioni sui giornali, perché Renzi può stare antipatico ma può accadere a chiunque. Non va bene, è indecente per un Paese civile». Carlo Calenda commenta così, su Radio 24, le indiscrezioni apparse sulla stampa sull’inchiesta della Procura di Firenze dedicata a Open, la fondazione del renzismo. Il leader do Azione si dice però «assolutamente» favorevole alla proposta di una legge per limitare le attività extra dei parlamentari avanzata dal segretario del Pd Enrico Letta. Calenda poco prima era tornato sull’argomento in un’intervista alla Stampa. «Io non ho mai comprato follower. Ma quando sento che la struttura Delta di Renzi doveva sfruttare i giornali femminili perché non era popolare tra le donne capisco che è una polemica che possiamo fare solo in Italia. Se fosse reato quella roba se lì dovrebbero portare tutti via, a partire da Salvini. Il momento non è casuale», è il pensiero del leader di Azione che ambisce adesso a occupare lo spazio fino a poco tempo fa presidiato proprio dall’ex presidente del Consiglio. «C’è il tentativo di mettere Renzi all’angolo prima dell’elezione del Quirinale e un Paese così mi fa abbastanza schifo», spiega Calenda, che tuttavia assicura di non avere alcuna intenzione di accordarsi col senatore di Rignano sull’Arno per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Quella, dice il leader di Azione, «è una partita che giocherà da solo». 

007, giornali e procure: così devastano l'Italia. La vendetta del Fatto contro Renzi, asse di Travaglio con Pm e servizi segreti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Novembre 2021. Il Fatto Quotidiano ha lanciato la sua ennesima campagna contro Renzi (ma perché lo odia tanto? Renzi è alla guida di un partito che non raggiunge il 3 per cento. Forse è solo un tentativo di vendetta perché Renzi è stato decisivo nel fermare il governo Conte e portare un premier come Draghi a Palazzo Chigi? Può darsi. La vendetta è nelle corde della compagnia del Fatto. Però le campagne contro Renzi sono molto più antiche. Non si sono mai fermate. Abbondantemente sostenute dalla spinta e dall’aiuto anche tecnico di diverse procure). Stavolta Renzi è accusato di avere preparato una strategia di attacco a base di fake news contro i 5 Stelle e contro il Fatto Quotidiano. Strategia ispirata da Fabrizio Rondolino, ex giornalista dell’Unità. Se però poi leggi bene gli articoli scopri che è esattamente il contrario. Renzi, si capisce dai resoconto del Fatto, non ha preso in considerazione neppure per un minuto le proposte di Rondolino e non ha mai realizzato nessuna strategia contro Il Fatto. La cosa – cioè l’attacco a Renzi, ispirato probabilmente da una Procura – è abbastanza inquietante perché coincide con altri episodi che stanno emergendo in questi giorni. Per esempio la vicenda Cesa, che coinvolge i servizi segreti. In che consiste questa vicenda? Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc, fu raggiunto da un importante 007 – del quale non conosciamo il nome – il quale gli garantì che le accuse pesantissime che gli erano state mosse qualche giorno prima da Gratteri (associazione a delinquere) e che erano evidentemente del tutto infondate, sarebbero cadute, ma che lui avrebbe dovuto comportarsi bene e non fare colpi di testa. Il colpo di testa al quale evidentemente si riferiva lo 007 era quello appena compiuto da Cesa, e cioè il voto del suo piccolo gruppo in Parlamento contro il governo Conte 2, che fu decisivo per la liquidazione di quel governo. Il nostro 007 però, probabilmente, riteneva che ci fossero ancora i margini per un Conte 3 – visto che l’operazione Draghi non era ancora nota e che l’ipotesi di elezioni anticipate terrorizzava la maggioranza dei parlamentari – e che un voto dell’Udc di Cesa sarebbe stato fondamentale. Chi era questo 007? Il Fatto Quotidiano oggi fa il nome di Marco Mancini – sospettabile, dice il Fatto, in quanto amico di Gratteri – e spiega come e perché Marco Mancini non avesse nessun interesse a salvare Conte. Vero. Però c’è un errore nella ricostruzione del Fatto: tutto lascia pensare che quello 007 non fosse affatto Mancini, anzi, fosse uno dei nemici di Mancini e che, in questo caso, Gratteri non c’entrasse proprio nulla. Provate a mettere insieme le due vicende. E anche altre vicende recenti, legate soprattutto all’attacco giornalistico-giudiziario a Matteo Renzi, del quale Il Fatto Quotidiano ha pubblicato qualche giorno fa addirittura i conti correnti, violando ogni principio costituzionale, giornalistico, civile, di buon senso. La fotografia che esce è questa. Ci sono in azione, in Italia, vere e proprie bande di soldati di ventura (magistrati, giornalisti, agenti segreti) che in accordo tra loro, o talvolta persino in disaccordo, devastano il paese e inquinano, fino a infognarla, la lotta politica. Della politica vera vera, del resto, ormai è rimasto zero. Idee, programmi, progetti, ideologia: e chi li ha visti? Da una parte (per fortuna) c’è un drappello di governanti, guidato da Mario Draghi, che tenta di tenere in piedi l’Italia, infischiandosene dei partiti; dall’altro ci sono gli avventurieri, che trovano spazio ad abbondare proprio perché la politica vera ha abbandonato il campo. Schiacciata ora dalla magistratura, ora dal populismo, ora dal taglio dei fondi e dall’impossibilità di finanziarsi, ora dalle potenze economiche. Non è una novità: tutto cominciò con Tangentopoli e poi con la lotta a Berlusconi. Il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi: un deserto di idee e il campo libero alle bande. Il Fatto nell’edizione di ieri sommerge tutti di accuse infamanti. In realtà poi si scopre che molti degli accusati non hanno fatto proprio niente di male. Annalisa Chirico, giornalista, è accusata di essersi voluta informare sui fatti prima di andare in Tv. C’è qualcosa di male? Lilli Gruber è accusata di farsi imporre gli ospiti da Renzi (ma allora, uno si chiede, come mai a Otto e mezzo gli ospiti fissi sono Travaglio e Scanzi?). Molti altri collaboratori di Renzi sono accusati di avere detto e scritto parole di fuoco contro le fake news lanciate verso di loro. E lo scandalo dov’è? Lo scandalo sta in poche righe nelle quali Fabrizio Rondolino (inascoltato) suggerisce a Renzi di rispondere ai 5 Stelle e al Fatto, copiando pari pari lo schema della propaganda dei 5 Stelle e del Fatto. La strategia del pan per focaccia. Conosco Fabrizio da una trentina d’anni (credo di averlo portato io all’Unità alla fine degli Ottanta) e lo stimo. Se davvero ha proposto a Renzi di copiare i metodi di Travaglio, ha fatto malissimo, secondo me. Ma non mi pare che sia da fucilare. La frase incriminata poi è una sola, scritta su una mail confidenziale e riservata, e magari buttata lì un po’ a caso o come voluta provocazione. Quando si parla e si scrive senza sospettare che l’Ovra o la Stasi ti stiano spiando, spesso si usano esagerazioni e stupidaggini. Rondolino probabilmente non poteva immaginare che qualche talpa in Procura (diciamo così, in modo da non prendere querele: qualche talpa in procura…) avrebbe istruito i giornali dell’estrema destra (La Verità e il Fatto) perché saltassero sulle mail private dell’ex segretario del Pd e aumentassero la loro fame di infangamento. P.S. Travaglio scrive che gli 007 Pollari e Pompa prepararono nel 2006 dei dossier contro di lui. Non è vero. I magistrati accertarono che non era vero. Marco, Marco, caschi sempre sulla fake news.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Chiara Giannini per “il Giornale” il 10 novembre 2021. Il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) vuol vederci chiaro sulla vicenda dei presunti fondi venezuelani versati al Movimento 5 stelle, tanto che nel corso dell'ultimo incontro ha deciso di chiedere alle procure che stanno indagando su questi filoni gli atti delle inchieste per verificare eventuali profilli di interesse del Comitato, ovvero possibili minacce alla sicurezza nazionale. Durante l'ultima riunione sono state trattate anche le vicende di Matteo Renzi legate ai compensi che il senatore ha ricevuto da Stati esteri. Dei 5 stelle si è parlato durante l'audizione di ieri al Copasir del direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli. L'indagine verte sui reati di riciclaggio e e finanziamento illecito al partito. La procura di Milano ci sta lavorando da giugno dello scorso anno, tanto che è stato aperto un fascicolo per verificare se il nascente Movimento 5 Stelle, nel 2010, abbia veramente ricevuto tre milioni e mezzo di «fondi neri» venezuelani. A tal proposito sarà sentito dalle procure Hugo El Pollo Carvajal, l'ex capo dei servizi segreti venezuelani che fu arrestato in Spagna su ordine degli Usa. Carvajal aveva confermato ai giudici spagnoli l'ipotesi del finanziamento illecito a diversi partiti tra cui anche il Movimento 5 stelle, ma anche al Podemons spagnolo. A tirare fuori il caso fu Marcos Garcìa Rey, il giornalista dell'Abc che nel 2020 pubblicò un documento esclusivo dei servizi segreti venezuelani. Le indagini sono affidati al Nucleo di Polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza. Ora il Copasir vuol fare giustamente chiarezza per capire se il Movimento 5 stelle abbia realmente ricevuto i 3,5 milioni di euro in maniera del tutto illecita.

Le indagini si allargano. Renzi e 5 Stelle nel mirino del Copasir: chiesti atti alle procure su compensi dell’ex premier e rapporti col Venezuela dei grillini. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Chiarimenti alle Procure che si stanno occupando delle due inchieste. È la richiesta arrivata nel corso dell’audizione odierna del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, in merito ai compensi che Matteo Renzi ha ricevuto da Stati esteri, in particolare l’Arabia Saudita, e dai rapporti tra Movimento 5 Stelle e Venezuela e i presunti fondi illeciti ricevuti nel 2010 dal partito fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Il Copasir ha chiesto, alle procure che stanno indagando su questi filoni, gli atti delle inchieste: l’obiettivo è quello di verificare eventuali profilli di interesse del Copasir, ovvero possibili minacce alla sicurezza nazionale. Una mossa che non sorprende. Nei giorni scorsi Elio Vito, deputato di Forza Italia e componente del Copasir, aveva auspicato che il Comitato si occupasse in particolare del caso Renzi per “i profili attinenti la sicurezza nazionale” derivanti dal finanziamento da parte di Stati esteri, in particolare l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman, come speaker di eventi internazionali. L’Ansa riferisce che durante la riunione, in cui è intervenuto il direttore dell’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) Giovanni Caravelli, si è discusso della possibilità che alcuni Stati intendano, attraverso questi rapporti con figure politiche italiane, influenzare gli indirizzi dell’Italia. Stessa motivazione che ha spinto il Copasir ad occuparsi anche del caso M5S-Venezuela e dell’inchiesta della Procura di Milano che sta indagando con le ipotesi di finanziamento illecito e riciclaggio sul caso: la storia è quella già raccontata lo scorso anno dal quotidiano spagnolo Abc dei 3,5 milioni di euro in contanti che nel 2010 sarebbero arrivati dal Venezuela al fondatore del Movimento, Gianroberto Casaleggio. Il Comitato parlamentare quindi, facendo ricorso ad un articolo della legge di riforma dei servizi, la 124 del 2007, che gli consente di ottenere, “anche in deroga al divieto stabilito dall’articolo 329 del codice di procedura penale, copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria o altri organi inquirenti“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Fabio Amendolara François De Tonquédec per "la Verità" il 12 novembre 2021. Il progetto di Bestia renziana nella sua declinazione «macchina del fango», svelato ieri dalla Verità, si arricchisce di nuovi elementi. Al momento l'uso di un investigatore privato «di provata fiducia e professionalità», inserito in un progetto di «distruzione della reputazione» degli avversari politici inviato a Matteo Renzi dal giornalista ed ex spin doctor di Massimo D'Alema, Fabrizio Rondolino, non trova né conferme, né smentite. Ieri Renzi si è limitato, come al suo solito, a replicare ai giornali annunciando azioni legali. Alla Verità risulta però che la fondazione Open abbia avuto un rapporto, regolarmente iscritto a bilancio, con un'agenzia di investigazioni, la Top Secret: oggetto del rapporto la sicurezza alle varie edizioni della Leopolda. La collaborazione tra la Top secret, con sede a Ferrara e un fatturato nel 2020 di 6,4 milioni di euro, inizia con la Leopolda del 2013, con il servizio di «sicurezza e controllo accessi» fatturato per 2.531,50 euro. Negli anni successivi, però, sino al 2018, lo stesso servizio viene pagato a una cifra superiore: da 4.772 euro sino a 8.161, per un totale di 36.168 euro. In quelle fatture è stato inserito qualche servizio extra? Ovviamente tutti smentiscono. Ma torniamo alla mail del 7 gennaio 2018 con il progetto di «character assasination» nei confronti dei nemici, esponenti grillini e giornalisti del Fatto quotidiano, inviata da Rondolino. In essa quest' ultimo cita pure i nomi di due giornalisti che, secondo l'ex Lothar dalemiano, potrebbero «essere coinvolti, in forme più o meno indirette e sulla base di un rapporto personale e fiduciario», e che «non sempre possono pubblicare ciò che scoprono». I nomi individuati da Rondolino per avere notizie, in una insolita inversione di ruoli, sono quelli di Annalisa Cuzzocrea, all'epoca cronista parlamentare di La Repubblica e da pochi giorni vicedirettore della Stampa, e Jacopo Iacoboni, inviato sempre del quotidiano torinese, nonché autore di due libri contro il progetto politico del Movimento 5 stelle. Agli atti, della possibile collaborazione della Cuzzocrea non abbiamo trovato nulla, a parte la citazione di Rondolino. Su Iacoboni invece è presente un articolo sui finanziatori della Leopolda. Il rapporto però nel tempo sembra esseri evoluto, tanto che nel 2016 Fabio Pammolli, nell'organigramma della Bestia renziana il capo dell'analisi dei dati e professore ordinario di economia e management al Politecnico di Milano, scrive via messaggio ad Alberto Bianchi: «Qui tutto nasce dalle interazioni di m (non è chiaro se il riferimento sia a Renzi o a Marco Carrai, ndr) con Iacoboni. Va detto che Iacoboni è su una pista molto interessante per mettere a nudo alcune caratteristiche della rete. Penso ne valga la pena». Il 17 novembre, sempre Pammolli gira all'avvocato di Open il link a un articolo della Stampa, firmato proprio da Iacoboni, intitolato «Ecco la cyber propaganda pro M5s. La Procura indaga sull'account chiave». Bianchi commenta: «Va dato a dago». Intendendo il sito Dagospia. Contattato dalla Verità, Iacoboni spiega: «Non ho mai avuto Rondolino come fonte, non ho neanche il suo numero in agenda. Lo conosco perché ci avrò parlato quatto o cinque volte ai congressi di partito ma non è assolutamente una mia fonte, né lui, né Lotti, né Carrai. Fabio Pammolli, invece, lo conosco bene. Oltre a essere un editorialista della Stampa, è un professore che si occupa di economia e di scienza dei dati. È uno che mi ha fornito un'analisi di rete sulla struttura del network grillino che io ho poi fatto vedere ad altri fisici, nella quale si vedevano i cluster dei grillini». La Cuzzocrea taglia corto: «Non ho mai avuto a che fare con queste persone e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ho sempre fatto il mio lavoro in piena indipendenza e senza farmi condizionare o usare da nessuno. In più, questi metodi di costruzione del consenso sono quelli che ho sempre denunciato nei miei articoli». Non avendo a disposizione un giornale, per diffondere le notizie, Rondolino, sempre nel progetto inviato via mail, propone di creare «un sito specifico, non riconducibile al Pd né tantomeno a MR (Renzi, ndr), da costruire su un server estero non sottoposto alla legislazione italiana, che raccoglie e pubblica tutto il materiale (una specie di Breitbart, o di Wikileaks antigrillina)». Insomma, un mix tra Julian Assange e il sito di ultradestra vicino al guru dei sovranisti Steve Bannon, che avrebbe dovuto «rilanciare poi sui social network (attraverso una rete di fake che agiscono su cluster specifici, da individuare con Fabio Pammolli, ndr) e che, a seconda del valore e della qualità, potrà poi essere ripreso dai media tradizionali». Poche settimane prima i renziani avevano denunciato, attribuendolo a Lega e Movimento 5 stelle, proprio l'uso delle tecniche suggerite da Rondolino. E lo avevano fatto alla Leopolda attraverso il lavoro di Andrea Stroppa, un ex hacker assunto nella Cys4 di Marco Carrai, amico di Renzi, appassionato di intelligence ed ex consigliere di Open. Successivamente lo smanettone si è messo in proprio e insieme con un programmatore russo, Pavel Lev, ha fondato una società, la Ghost data, che non risulta registrata in Italia e che sul proprio sito offre pochissime informazioni. Stroppa, nell'organigramma (agli atti dell'inchiesta) della Bestia renziana, risalente al 25 marzo 2017, risulta a capo della struttura «unofficial», non ufficiale. Al giovanotto (che da minorenne venne coinvolto in un'inchiesta sul gruppo di pirati digitali Anonymous) è dedicato un paragrafo di una delle ultime informative della Guardia di finanza. Secondo gli investigatori, tra il 2016 e il 2018, ha ricevuto dalla Fondazione Open nove bonifici per un importo complessivo di circa 60.000 euro, offrendo servizi di cyber security, ma anche di assistenza tecnica sms e analisi dei dati. Ha svolto pure consulenze per il Comitato per il sì al referendum del 2016, per il Pd e per la Cgil. La ricerca, declamata da Renzi sul palco, aveva ispirato articoli del sito americano Buzzfeed, firmati dall'analista Alberto Nardelli e da Craig Silverman, del New York Times, grazie alla penna del fedelissimo Jason Horowitz, e, ovviamente di Iacoboni sulla Stampa. Ma dietro a quegli scoop c'era il lavoro di Stroppa, capo «unofficial» della Bestia renziana e ben retribuito consulente di Open (definito da Nardelli e Silverman, «ricercatore indipendente sulla cybersicurezza»). Lo ha svelato lo stesso ex hacker al Corriere della Sera: «Matteo Renzi si è chiesto se anche in Italia ci sarebbero problemi simili a quelli emersi in altri Paesi durante le elezioni. Così ho scritto un lungo report e gliel'ho consegnato. Parte di questo documento è arrivato al New York Times, che dopo aver verificato l'attendibilità delle mie informazioni ha pubblicato un articolo». Per strutturare il lavoro della Bestia era stato predisposto un vero e proprio organigramma, con 9 aree di lavoro. Stroppa, oltre che a capo della casella «unofficial», era anche che «responsabile sicurezza idle digital». A capo delle «attività di reporting», nella slide agli atti dell'inchiesta, viene indicato l'economista Antonio Preiti, mentre l'autrice tv Simona Ercolani, moglie di Rondolino, figura a capo del «coordinamento content e diffusione», che controlla la «redazione in Cammino (stand by me)» e i «social media - attivisti (stand by me)». Il «coordinamento data analysis», affidato a Pammolli controlla 4 gruppi di lavoro: «integrazione basi dati», «laboratorio di analisi dei dati», «sviluppo dashboard» e «sviluppo piattaforma». Fabio Bellacci, ex segretario di Renzi, controlla l'«advertising», a cui rispondono i «social media e il search marketing», mentre Giampaolo Moscati, ex socio di Carrai, è al vertice di «pianificazione controllo». «Ufficio social Firenze Matteo Renzi news Matteo Renzi ufficiale» fanno invece capo ad Alessio Giorgi.Ieri, dopo lo scoop della Verità sulla mail di Rondolino, quest' ultimo ha scelto la via del silenzio, ma a commentare le notizie sull'inchiesta della Procura di Firenze ci ha pensato il suo ex capo a Palazzo Chigi, Claudio Velardi. Il cui sfogo si è concluso con «che schifo». Ricordiamo che, secondo la titolare della Quicktop, fu l'allora consulente della società Velardi a portare come cliente il gruppo Toto, cui fa parte Alfonso Toto, accusato dai pm di Firenze di corruzione proprio nell'inchiesta Open.

Fabio Amendolara François De Tonquédec per “la Verità” il 13 novembre 2021. La Bestia di Matteo Renzi poteva contare su hacker ed economisti e arrivava con le sue veline propagandistiche mascherate da analisi scientifiche sino a siti e giornali internazionali come Buzzfeed e il New York Times. Una rete che faceva sponda su giornalisti italiani e stranieri, come Gianni Riotta che definì una di queste inchieste pilotate uno «strepitoso saggio». Un gioco di squadra, in cui l'hacker amico di Riotta, Andrea Stroppa era anche consulente pagato della Fondazione Open e persino traslocatore. Su Internet postò una foto mentre aiutava Renzi, premier uscente, a sbaraccare l'ufficio di Palazzo Chigi: «Ero di passaggio a Pontassieve e ho incontrato questo signore che mi ha chiesto di dargli una mano a mettere a posto degli scatoloni» scrisse sui social. Stroppa era il capo «unofficial» della Bestia, mentre il professor Fabio Pammolli era a capo (nel 2017) del «coordinamento data analysis». Pammolli risulta tutt' ora «componente Gruppo di lavoro data-driven per l'emergenza Covid-19», incarico conferitogli, a titolo gratuito, il 31 marzo 2020, che avrà termine «sei mesi dopo la cessazione dello stato d'emergenza Covid-38» e dal 10 novembre è presidente dell'Investment committee (ne era membro dal 2015), che si occupa di investimenti per il Fondo dell'Unione europea. Una promozione che è avvenuta proprio mentre Renzi si trovava a Bruxelles per promuovere le sue iniziative contro i populismi. Gli stessi che Pammolli combatteva dalla cabina di regia della Bestia.Nella quale non esisteva solo una struttura legata alla parte comunicativa, ma anche un progetto dedicato alla posta elettronica, che gli inquirenti definiscono un «gruppo posta», deputato a gestire la casella di posta elettronica dell'ex Rottamatore e alla realizzazione di «una sorta di intelligenza artificiale per l'assegnazione automatica delle priorità dei messaggi, tramite un algoritmo». Per l'avveniristico strumento di comunicazione, secondo quanto verbalizzato dalla responsabile della «task force» della posta, sarebbero stati utilizzati i dati di una casella di posta istituzionale, con tanto di dominio governo.it. Il titolare del progetto, racconta Elena Ulivieri, a Palazzo Chigi insieme al marito, Pilade Cantini, «era una infrastruttura, ovvero la So big data, alla quale, con apposito Nda (non disclosure agreement), sono stati donati i dati della casella di posta elettronica matteoatgoverno.it». Un numero imprecisato di messaggi inviati da cittadini all'allora premier, che secondo la Ulivieri riguardavano «sia il ruolo di Matteo Renzi quale presidente del Consiglio dei ministri, sia il suo ruolo di Segretario del Partito Democratico» è quindi finito in mano a un soggetto terzo. Ma chi è So big data? Su internet il sito ufficiale descrive così chi ha ricevuto i dati della casella di posta istituzionale dell'allora premier: «Il consorzio So big data è composto da 12 partner provenienti da 6 paesi membri dell'Unione Europea (Italia, Regno Unito, Germania, Estonia, Finlandia, Paesi Bassi) e Svizzera». Lasciamo ai lettori la libertà di immaginare cosa succederebbe per una cessione internazionale di corrispondenza del premier in un altro Paese, ad esempio negli Stati Uniti dove una gestione disinvolta delle email rischiò di costare all'allora Segretario di Stato Hillary Clinton la candidatura alla presidenza degli Usa. Tra i membri italiani del progetto (composto da università e istituti di ricerca), finanziato con fondi Ue, c'è anche la Scuola Imt (Istituzioni, mercati, tecnologie) di Lucca, nota alle cronache giornalistiche per la controversa vicenda della tesi di dottorato dell'ex ministro Marianna Madia. Dell'Imt Fabio Pammolli risulta «rettore fondatore e presidente del consiglio esecutivo» nel periodo tra il 2004 e il 2012, oltre che professore di Economia e management all'Imt, fino al 2016, quindi anche mentre Renzi era a capo del governo. L'informativa di 388 pagine che riassume le attività della macchina di propaganda a favore di Renzi sintetizza così la testimonianza della Ulivieri: «La predetta riferiva di aver avviato le attività del "gruppo posta" della casella di posta elettronica matteoatatteorenzi.it, dietro richiesta di Matteo Renzi il quale le avrebbe detto di rivolgersi all'avvocato Alberto Bianchi se non direttamente alla Fondazione Open, per quanto riguardava gli aspetti relativi ai contratti dei collaboratori». La donna, laureata in informatica, ha lavorato a Palazzo Chigi dall'ottobre 2014 al dicembre 2016 in qualità di supporto organizzativo della segreteria tecnica di Renzi. Dopo le dimissioni di quest' ultimo, la donna si è spostata presso la segreteria del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi dove è rimasta fino al termine della legislatura. E in quell'ambito, ha spiegato la donna, «c'era un accordo con» la Boschi «affinché continuassi a lavorare per lo sviluppo del progetto della So big data ed è in questo contesto che la Ulivieri ha continuato ad occuparsi della casella di posta elettronica matteoatgoverno.it ormai chiusa, ovvero ad occuparsi del «data set prodotto su tale casella».Ma se la gestione dei dati di un indirizzo di posta elettronica del governo lascia perplessi, colpisce anche l'utilizzo di criptovaluta da parte della Bestia. Che pagamenti riservati doveva effettuare per non lasciare tracce? Coinbase si presenta come «una piattaforma sicura in cui è facilissimo acquistare, vendere e depositare criptovalute quali bitcoin, ethereum e altre». Ma in un messaggio inviato all'avvocato Bianchi, Marco Carrai afferma: «Alberto, bisogna pagare alcune cose tramite bitcoin. Scaricati l'app Coinbase, è il miglior wallet per farlo, poi chiama Pammolli». La questione deve essere molto delicata, visto che Carrai è categorico con Bianchi: «Parla solo tramite Wa». E infatti Pammolli e Bianchi parlano proprio della moneta virtuale. Il prof scrive all'avvocato: «Sulla questione bitcoin...». Bianchi risponde con un punto interrogativo. E Pammolli gli indica «Signal», un'app che permette di impostare un tempo massimo di visualizzazione della chat, oltre il quale questa viene distrutta automaticamente. È il 23 novembre 2016 e mancano pochi giorni alla batosta al referendum confermativo sulla riforma costituzionale del 4 dicembre. Batosta a cui i renziani risposero con i progetti legati alla Bestia, iniziati con la mail inviata il 7 gennaio 2017 da Fabrizio Rondolino a Renzi, contenente le proposta di «character assasination» nei confronti dei nemici, esponenti grillini e giornalisti del Fatto quotidiano (proposta a cui Renzi ha ieri spiegato di «avere detto di no»). Un piano che gli investigatori hanno sintetizzato così: «Dopo il risultato referendario del dicembre 2016, in cui la Fondazione Open ha sostenuto, economicamente, le politiche promosse dal presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico Matteo Renzi, segnatamente a metà dicembre 2016, affiora la volontà di attuare una "strategia social" a sostegno di Matteo Renzi e, nei primi mesi del 2017, di realizzare una struttura "di propaganda antigrillina"». Un gruppo su cui Stefano Bagnoli, uno dei ragazzi di via Giusti, il gruppo social della Bestia renziana, ha rilasciato un'interessante testimonianza. Quando gli investigatori, il 6 aprile 2021, lo interrogano lui ammette candidamente: «L'attività che svolgevamo era sostanzialmente una campagna politica permanente a sostegno delle posizioni del segretario del Pd Matteo Renzi o delle iniziative di altri esponenti del Pd condivise anche da Renzi, dal quale, comunque, ci provenivano tutti gli input operativi». E subito dopo il social media manager esplicita quali fossero i compiti che la falange macedone di via Giusti riceveva: «Le attività richieste potevano variare dal sostegno a iniziative già sui social, al lancio di nuove iniziative anche di attacco a politiche di forze antagoniste al Pd, come il Movimento 5 stelle e la Lega di Matteo Salvini».

Dagospia il 12 novembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, vedo riportato su Dagospia un articolo nel quale è citato un mio whatsapp del 2017 a Fabio Pammolli in cui (in relazione a uno suo precedente) dico “va dato a Dago”. A scanso di ogni equivoco, preciso che il mio whatsapp (uno delle centinaia non aventi alcun rilievo penale, ma diligentemente inseriti, sottolineati e costantemente interpretati in malam partem nelle 92.000 pagine delle relazioni di Polizia Giudiziaria afferenti all’indagine su Open) non conteneva e non poteva contenere alcuna concreta indicazione operativa, posto che né io né il mio interlocutore conoscevamo Roberto D’Agostino, nessuno di noi aveva la minima idea di come contattare lei o Dagospia, e tutto si poteva pensare (all’epoca come adesso), che Dagospia, espressione di libertà giornalistica, fosse al servizio mio o di Pammolli o di chiunque altro!! E infatti poi nessuno ha dato niente a nessuno. Non dovrebbe esserci necessità di spiegarlo. Non dovrebbe esserci  nessun bisogno di spiegare che trattavasi di un’indicazione ironica, l’amaro auspicio che mai fosse che sul suo sito, tra i più letti e diffusi, fosse data evidenza a una notizia che a Pammolli e a me appariva significativa. Ma non è la prima, e non sarà l’ultima volta che parole la cui interpretazione autentica appartiene ovviamente soltanto a chi li ha dette o scritte, vengono malignamente travisate. E almeno in questa occasione un chiarimento va dato, in attesa di fornirne di più ampi e più interessanti, su tutta la vicenda, nelle sedi e al momento opportuni. Cordialmente Alberto Bianchi

François de Tonquédec per "la Verità" l'11 novembre 2021. Come sanno i nostri lettori Matteo Renzi, già ai tempi in cui era presidente della Provincia di Firenze, aveva investito milioni di euro nella propaganda con la Florence multimedia. Un'attenzione maniacale che ha ulteriormente sviluppato una volta sbarcato a Palazzo Chigi. La macchina di costruzione del consenso, attivata a partire dal 2014, si preoccupava anche di distruggere i nemici, come abbiamo svelato lunedì scorso. Ma non solo sui social. Agli atti dell'inchiesta della Procura di Firenze sulla fondazione Open, ex cassaforte del renzismo, infatti, si trova una mail piuttosto inquietante. A scriverla il giornalista Fabrizio Rondolino, uno dei consiglieri di Renzi ed ex spin doctor di Massimo D'Alema. Il 7 gennaio 2018 Renzi riceve questo messaggio da Rondolino: «Caro Matteo, eccoti un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni []. Sarebbe utile vederci presto per approfondire e iniziare la Lunga marcia (citazione da Mao, ndr)...». Alla mail, che Renzi trasmette senza alcun commento, è allegato un documento word con alcuni punti strategici, tra cui la «character assassination: notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l'immagine pubblica di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi». Secondo la nota «Per realizzare il punto 2. (inchieste/indagini serie sul personale grillino) è necessario creare una piccola, combattiva redazione ad hoc, che lavori esclusivamente sul progetto nella massima riservatezza: vanno individuati almeno 2 giornalisti d'inchiesta e un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (a costo medio-alto)». Va detto che al momento non risulta alcuna evidenza che le ipotesi di lavoro sottoposte a Renzi dal giornalista siano state sposate dall'ex premier, altrimenti ci troveremmo di fronte a un nuovo piccolo Watergate; però, il fu Rottamatore, anziché cestinare l'email, l'ha inoltrata a Marco Carrai, esperto di cybersecurity. Emerge anche che per contrastare le notizie sulle inchieste che li toccavano Renzi e alcuni componenti del Giglio magico puntavano sulla giornalista, Annalisa Chirico. Della collaboratrice del Foglio e presidentessa del movimento garantista Fino a prova contraria, parlano in una chat agli atti dell'inchiesta l'ex ministro dello Sport Luca Lotti e l'avvocato renziano Alberto Bianchi. Il 2 marzo 2017 Bianchi scrive a Lotti, all'epoca ministro ma non ancora parlamentare: «La Chirico scrive domani sul Foglio sulla vicenda Consip. L'ha sollecitata M. (Renzi, ndr). Mi chiede se hai qualche elemento da darle della tua difesa []». Una settimana dopo, Bianchi fa sapere, sempre a proposito di Consip: «La Chirico stasera va dalla Gruber, glielo ha chiesto Matteo». Il lavoro della giornalista veniva utilizzato anche dallo staff della Bestia. Nella chat di denominata «gruppo per post» infatti, il 15 marzo 2017 viene data indicazione ai 115 membri: «Il post della Chirico sui popcorn stamattina è da viralizzare». Per garantire la massima efficienza alla propaganda sui social venivano usate due piattaforme, la Voyager e la Tracx, fornite alla fondazione Open da società israeliane. La Verità è in grado di rivelare che il 6 giugno 2016, rappresentanti di una delle due software house sono stati ricevuti direttamente a Palazzo Chigi. Agli atti dell'inchiesta infatti è presente il messaggio, in lingua inglese inviato ai partecipanti da Giampaolo Moscati: «We' ll meet in Rome, Palazzo Chigi, next monday at 10:30 Please send to Marco the names for the pass». In un'altra mail del 31 dicembre 2017, citata ieri da alcuni giornali, si scopre come Renzi si preparasse per la campagna elettorale delle politiche del 2018. In un elenco di sei punti, l'ex premier evidenzia le «questioni da sciogliere, tutte insieme», mettendo al primo punto «Gestione Tv, Radio, Settimanali, organi di informazione anche online», che Renzi vorrebbe affidare a Marco Agnoletti (suo ex portavoce), puntando ad avere «una presenza televisiva molto più organizzata e massiccia». Nelle tv Renzi sembra puntare principalmente su La7 e sul suo direttore: «Dobbiamo pretendere una figura dedicata di raccordo tra noi e Andrea Salerno (che io vorrei incontrare nella settimana prima dell'8)». Renzi ambisce anche a «conoscere le scalette», «capire i format dei nostri avversari» e a «essere presenti sempre, anche nei format mattutini con i migliori». L'allora candidato chiede anche di poter dettare la linea delle trasmissioni: «Pretendere di indirizzare alcuni contenuti (Grasso Pietro ex presidente del Senato piddino bersaniano, ndr - e super stipendio, fuga di Di Maio dalla società di Brescia sul JobsAct, marocchino che fa il volontario delle ambulanze e viene cacciato dal segretario della Lega di Vercelli, coperture delle proposte di Berlusconi)». Secondo Renzi servirebbe uno «sguardo particolare su Gruber, Floris, Formigli, Giletti, Minoli []». Per il «mondo Mediaset», Renzi si limita a puntare a un «accordo con Brachino/Confalonieri (Claudio e Fedele, ndr). Monitorare costantemente Berlusconi e chiedere di fare altrettanto, sempre». Sulla Rai l'atteggiamento è piuttosto diffidente: «Accordo Agnoletti/Orfeo. Vanno, però, verificate anche le virgole. Montare polemiche sempre, come nel caso della sovraesposizione di Grasso sulla Costituzione o su Fazio». Infine l'ex sindaco di Firenze ambisce ad «avere interviste fisse, ma soprattutto far uscire qualche commento e qualche notizia da riprendere sui social». Così funzionava la Bestia renziana.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” l'11 novembre 2021. Gli atti dell'inchiesta della Procura di Firenze sulla fondazione Open, l'ex cassaforte del renzismo, ci raccontano come funzionasse (o funzioni?) la Bestia di Matteo Renzi, la sua oliatissima macchina di propaganda mediatica gestita da Alessio Di Giorgi, una delle menti, tra le altre cose, della pagina Matteo News. Quando l'ex Rottamatore era ancora segretario del Pd, il 6 febbraio 2017, viene aperta una chat a cui partecipano l'amministratore Alexander Marchi (coordinatore del team della comunicazione), Marco Carrai, amico e collaboratore di Renzi oltre che ex consigliere di Open, Di Giorgi, Franco Bellacci, detto «Franchino», segretario particolare di Renzi, la praticante avvocato piddina Ursula Bassi, Elena Ulivieri (moglie di Pilade Cantini, comunista finito con la sua signora nello staff di Renzi a Palazzo Chigi come addetto alla corrispondenza) e Matteo Renzi. Alexander apre le danze: «Da oggi siamo operativi con i ragazzi in via Giusti. Stamattina ho fatto una riunione politica/organizzativa dove abbiamo impostato il lavoro: presenza sui social, monitoraggio notizie, raccolta dati, diffusione materiale e lotta contro le bufale e l'odio. I ragazzi sono carichi per la causa e pronti a proporre idee». L'8 febbraio Renzi scrive: «Oggi non male articolo di Giavazzi (Francesco, ndr) Alesina (Alberto, ndr). Forza, avanti tutta». Alexander aggiunge un commento sull'allora sindaco di Roma: «Sì e soprattutto la Raggi ha girato parecchio oggi». Cioè la notizia dell'iscrizione dell'allora sindaco per abuso d'ufficio. Il giorno dopo Renzi riprende: «Mi raccomando sulla minoranza e il congresso. Chiedono il congresso se no è scissione. Glielo diamo, minacciano la scissione». Renzi consiglia di dare un'occhiata a un tweet di Guido Crosetto, l'ex parlamentare Fdi che pure in queste ore è in campo in difesa del fu Rottamatore per la diffusione dei suoi dati reddituali depositati. Nella chat il 19 marzo Renzi dà indicazioni precise: «Occhio ai commenti sui miei post... ci lavoriamo? Rispondiamo a chi dice che per la Calabria non ho fatto nulla?». Il 24 marzo scrive: «La cosa di Boccia (Francesco, allora presidente della commissione Bilancio alla Camera, ndr) per favore». Forse il riferimento è un articolo uscito su un concorso da docente vinto da Boccia all'Università del Molise. Renzi domanda: «Voi avete chat Whatsapp per lanciare i contenuti?». Di fronte alla risposta affermativa chiede: «Quante? Composte da quante persone? Chi le gestisce?». Sempre la Bassi lo informa che sono numerose: «All'interno di queste chat condividiamo sempre i link di incammino della Simona, MR, MR news, le nostre pagine (Lingotto, RenziMartina2017, passo dopo passo) in più i post importanti sia Fb che Twitter come Bonifazi ieri». Renzi : «Quanti messaggi mandate al giorno?». Ursula: «Tanti, troppi. Infatti parlavamo di questo ieri con Alessio. Sarebbe opportuno focalizzarsi solo sulle cose importanti per noi». Il 14 aprile Renzi detta la linea: «Teniamoli schiacciati sul fatto che loro sono falsi. Falsi come le firme in Sicilia, false come le prove contro Renzi, false come le notizie sui vaccini. Un partito di falsi». Ursula: «Va bene, ribadiamo». Renzi, per essere sicuro di non essere frainteso, gira il messaggio inviato sulla chat della segreteria di partito: «Spero che tutti voi vi siate iscritti alla app e l'abbiate aggiornata ieri sera o stamani. Piano piano diventerà strumento sempre più utile. Spero che ciascuno di voi abbia almeno 100 nomi da inserire nella app che oggi nel frattempo supera quota diecimila. Ma vi scrivo soprattutto per un fatto di linguaggio. Il nostro avversario sulla Rete e in tv e sempre più il M5s. Bene. Appicchiamogli addosso l'idea del Falso. Io ho iniziato col Falso quotidiano dalla Gruber e gli ha fatto male. Molto male. Ma voi dovete rilanciare. Un partito Falso. False come le firme in Sicilia. False come le prove contro Renzi. False come le news sui vaccini. I grillini sono falsi. Ragioniamo su questa linea...». Alexander si entusiasma: «Ci siamo!! bisogna martellare finché non passa il concetto». Renzi : «Forza ragazzi». Ma nel faldone con le chat ce n'è una che spiega meglio di un trattato il cinismo e la spocchia di molti intellettuali che dopo aver perso la testa per Massimo D'Alema si erano innamorati di Renzi. Il gruppo inizia a discutere sul nome da dare alla piattaforma che doveva far concorrenza a Rousseau. Ci sono l'ex hacker Andrea Stroppa, che veicolava sui media stranieri ricerche antigrilline, il solito Carrai, il suo socio Giampaolo Moscati, Fabio Pammolli docente universitario e consigliere economico di Renzi, Antonio Preiti, anche lui economista, gli esperti di Web marketing Paolo Dello Vicario e Cristiano Magi, l'esperta di statistica Valentina Tortolini, la renzianissima Agnese Duro, di nuovo Bellacci, Simona Ercolani, autrice e produttrice televisiva e il marito Fabrizio Rondolino, già uno dei Lothar di D'Alema a Palazzo Chigi. Il dibattito si scalda. Pammolli, ironicamente, propone «Avanti!», come lo storico giornale socialista. Moscati rilancia: «Qualcosa che riprenda concetto "Italy first" e di rinnovamento?». Ercolani si irrigidisce: «Prima l'Italia è slogan lega. Purtroppo». Pammolli: «Beh tra Enrico Rossi e Zaia io scelgo Zaia». Dopo qualche divagazione la Ercolani azzarda: «Perché non la chiamiamo Italia in cammino?». Pammolli: «Santiago di Compostela? Anche sull'orlo del baratro mi pare buono». Per lui il nome proposto dalla Ercolani è «melenso» e «sdolcinato» e Rondolino ribatte che è «disgustosamente sdolcinato, quindi perfetto». La Tortolini propone «Go on» e trova l'approvazione della Ercolani. La quale annuncia che «deve spammare enews» di Renzi. Pammolli si dispiace: «Tutto questo perché non volete Avanti!, banda di post democomunisti». Rondolino si accende: «Iskrà. Come il glorioso giornale dei bolscevichi!». Ercolani: «E se fosse solo On? Viene un bel logo». Pammolli rilancia con «Bettino». C'è chi dice «Noi». Per qualcuno è da «rivista di gossip», mentre per Ercolani «esclude voi» e per questo è «da bersaniani». Pammolli tenta una citazione di Donald Trump: «Facciamo l'Italia Grande Ancora». Ercolani: «Facciamo l'Italia Grande Ora». Rondolino: «Chiamiamola Viva Verdi. Patriottico, risorgimentale, neosovranista, laico».Il mattino dopo Pammolli dà a tutti la ferale notizia: «Sembra Bobby, da Bob Kennedy. Matteo dixit». La fonte è Carrai che informa la truppa che il nome sarà quello e che ha deciso «MR». Rondolino commenta: «Non noi. Il Principe». Qualcuno chiede se sia una battuta. Rondolino s' affloscia: «Mi arrendo». La Tortolini è dubbiosa: «Bobby sembra il nome di un cane da riporto, ma non avendo trovato di meglio mi taccio». Pammolli riflette: «Dovemo da prende' i voti di 'aggente» Al gruppo viene chiesto di trovare uno slogan e dopo un po' la Ercolani informa il gruppo che la frase che verrà abbinata «è quella sul Pil e la felicità». Poi domanda: «Rondolo ricordi?». Il marito è tranchant: «Non saprei. Sempre detestato Bob. Non per caso Veltroni gli ha dedicato un intero libro». Poi aggiunge: «Come logo direi una pistola. Oppure Marilyn». Anche Dello Vicario ha il motto: «Puoi aggiustare l'Italia, sì con Bob. Potrai farlo, sì con Bob». Pammolli: «Poi vi racconto di Hurricane Bob». Rondolino: «Un gran bel localino, Bob. Blues Brothers». Chiedono a Rondolino di fare «un incursione suicida» per convincere Renzi a cambiare nome e il giornalista risponde: «Stasera ho già Paragone». Pammolli si chiede se ci sarà «qualche cazzo di video che faccia sollevare i cuori» in cui magari «appare anche Veltroni». Rondolino chiude: «Manca la frase in cui dice: "Intercettiamo illegalmente quel negro comunista di Martin Luther King". Non male anche: "Stanotte eliminiamo quella troia di Marilyn"». Pammolli tenta l'ultima carta: «Siamo eventualmente in tempo a rinominare la piattaforma Ivanka? O Melania». La Ercolani inoltra un comunicato dei Liberal Pd, guidati da Enzo Bianco, a sostegno di Renzi. Ercolani: «Ora cambia tutto». Dello Vicario: «Abbiamo vinto». Rondolino: «Stravinto».

PiazzaPulita, Guido Crosetto svela la vergogna di "Fatto" e magistrati: "Ma è morto di tumore sei anni fa..." Libero Quotidiano il 12 novembre 2021. Un'ossessione, bella e buona e soprattutto vergognosa, quella nutrita in primis dal Fatto Quotidiano contro Matteo Renzi, vittima di una violentissima campagna di stampa, culminata nella pubblicazione del suo conto corrente. Un tema che viene discusso a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7, la puntata è quella di giovedì 11 novembre. In studio un indignato Guido Crosetto, a confronto con due dei principali protagonisti di questa campagna contro il leader di Italia Viva, Antonio Padellaro del Fatto Quotidiano ed Emiliano Fittipaldi di Domani. "Come vengono fatte le indagini in Italia? Sono due anni che leggo cose su Renzi anche se non ci sono atti giudiziari depositati. Qui parliamo di cose che, da quel che ho letto, sono partite dieci anni fa, quando non era indagato", premette Crosetto. Dunque, va da sé, Padellaro nega. Ma il gigante di Fratelli d'Italia rilancia: "Ho letto cose che parlavano di un dialogo su una persona malata, un dialogo tra due amici, dialogo che si riferiva a una persona morta di tumore cinque-sei anni fa". E Fittipaldi: "Sarebbero delle intercettazioni illegali". "Infatti", replica Crosetto sganciando la sua bomba. "Sta dicendo delle cose gravissime", alza il ditino Fittipaldi, quando forse le "cose gravissime" sono ben altre. Crosetto non demorde, e riprende: "Mi ha colpito sentire un cittadino italiano dire che non c'è un atto formale per l'acquisizione. Uno per avere un conto corrente fa una richiesta alla banca. Si parla di un conto corrente allegato non richiesto formalmente da nessuno. Il fatto che compaiano nell'inchiesta atti non richiesti da nessuno mi colpisce. Questa cosa ha senso?", conclude il gigante con una domanda retorica.

Travaglio accusa Renzi di usare il metodo Travaglio. Paolo Bracalini il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. Botte da orbi in tv. L'ex premier si scaglia contro Giannini: spunta anche un assegno a Carrai. Faccia a faccia, con licenza di schiaffi, tra Renzi e Travaglio in tv a Otto e mezzo, dopo una settimana di prime pagine del Fatto dedicate all'inchiesta sulla Fondazione Open. «È un hackeraggio di Stato. Hanno preso il telefonino di centinaia di persone. Hanno preso illegalmente il mio conto corrente e lo hanno spiattellato in prima pagina. Ma la verità è che a Travaglio gli rode perché ho mandato a casa Conte. Lui è una vedova di Conte. È per questo che c'è questa campagna di odio contro di me» attacca Renzi. L'accusa al leader Iv è di aver progettato un team per colpire i grillini e i giornalisti a loro vicini, come appunto Travaglio. «Capite la disperazione di queste persone che su 94mila pagine di inchiesta si attaccano ad una mail di Rondolino che fa una ipotesi di scuola a cui nessuna ha dato corso. Perché noi non siamo come il Fatto, noi siamo civili». Poi l'attacco diretto a Travaglio: «Per distruggere il M5s è bastato farli governare. Per distruggere il Fatto basta il pregiudicato Marco Travaglio. È un diffamatore seriale, ha una condanna penale e dieci civili. È il campione europeo della diffamazione. Io non voglio la fine del Fatto perché per me è un vitalizio, ha dato 50mila euro a mio padre. Il gettone che Travaglio prende qui (per fare l'ospite a Otto e mezzo, ndr) poi lo passa alla mia famiglia» dice il senatore Iv, tirando una frecciatina alla Gruber, a cui Renzi ricorda più volte il suo passato da europarlamentare prodiana, e poi il suo appoggio al governo Conte («qui siete tre contro uno» dice riferendosi alla conduttrice, Travaglio e l'altro ospite Massimo Giannini, direttore della Stampa, di cui poco dopo pubblica su Twitter un assegno di risarcimento a Carrai per un articolo: «Ecco la prova che mente»). Travaglio gli risponde per le rime: «Usa contro di me gli stessi argomenti dei galoppini di Berlusconi. Ma confonde i reati di opinione, che sono un incidente del mestiere per un giornalista, con i reati di affari che lo riguardano». Colpo su colpo, tocca all'ex premier: «Io prendo soldi per l'attività di conferenziere e pago le tasse regolarmente in Italia. Tutti i miei voti sono pubblici, sfido a dire che un mio voto in Senato sia in conflitto di interessi» dice Renzi, accusato di aver favorito i Benetton dopo una conferenza a pagamento. «La mia posizione sulle concessioni è che il governo Conte, annunciando la revoca, abbia fatto un favore ai Benetton. Quindi le accuse di Conte a me sono fortemente lesive della dignità mia oltre che della realtà». Il paradosso è che la «struttura di propaganda antigrillina» prendeva a modello i metodi del Fatto. Lo riporta proprio la mail a Renzi di Fabrizio Rondolino (contattato dal Giornale si limita a spiegare che «di quel progetto non se ne fece nulla»). Tra i contenuti da produrre vengono indicate «inchieste giornalistiche» sui Cinque stelle, documentate ma anche «allusive e intrinsecamente diffamanti, secondo lo stile del Fatto». Un dettaglio che Travaglio in tv, gli ha fatto subito notare Renzi, si è dimenticato di citare. Paolo Bracalini

Alessandro Di Matteo per “la Stampa” il 13 novembre 2021. Mille battibecchi, frecciatine, veri colpi bassi per reagire agli addebiti che gli vengono portati: l'intervista di Matteo Renzi a Otto e mezzo, come prevedibile, diventa un confronto teso con la conduttrice Lilly Gruber e con i direttori de La Stampa Massimo Giannini e del Fatto quotidiano Marco Travaglio. Alla fine, però, la linea di difesa dell'ex premier resta la solita: le conferenze a pagamento in giro per il mondo sono un'attività lecita, il problema è l'acquisizione dei sui conti correnti «quando non ero ancora indagato», un «hackeraggio di Stato», e le critiche che gli vengono rivolte sono solo un «campagna d'odio nata perché dieci mesi fa abbiamo scelto di aprire una crisi per mandare a casa Conte, per questo a Travaglio gli rode». Nel merito, le risposte non arrivano. Al leader Iv viene chiesto di quella mail - emersa dagli atti dell'inchiesta sulla Fondazione Open - in cui l'ex giornalista dell'Unità Fabrizio Rondolino propone la creazione di un vero e proprio apparato di controinformazione per colpire il Fatto e veicolare su giornali e Tv la narrazione renziana dei fatti. Renzi, inquadrato, ridacchia sarcastico mentre Travaglio legge la mail di Rondolino. Poi spiega: «Era un'ipotesi di scuola alla quale ovviamente nessuno ha dato corso». Quindi, attacca: «Per distruggere il Fatto basta Travaglio, che è un diffamatore seriale. Ormai le richieste di danni superano il valore dell'azienda (che edita il quotidiano, ndr)». Il direttore della Stampa chiede perché abbia girato la mail a Marco Carrai. Risposta: «La mail di Rondolino non viene messa in pratica. Ovviamente tutte le mail che arrivavano l'ufficio le girava alle persone che potevano essere interessate. Abbiamo detto: non faremo mai ciò che fa il Fatto». Più volte il leader Iv provoca Travaglio definendolo «pregiudicato», evocando le querele perse dal direttore del Fatto. Ribatte Travaglio: «Renzi confonde i reati di opinione, che sono un incidente del mestiere per un giornalista, con i reati di affari che lo riguardano...». Giannini obietta che non esiste solo la dimensione giudiziaria di queste vicende, chi fa politica dovrebbe tenere conto anche dell'aspetto etico e morale dei propri comportamenti e che sui soldi ricevuti dall'Arabia saudita non si può sorvolare. Ribatte Renzi: «Lei non sa niente dell'Arabia saudita». Gruber ricorda a Renzi di quando, nel 2018, diceva che chi fa politica non può arricchirsi. Renzi ripete la sua precisazione: il discorso vale per chi è al governo, non per i semplici parlamentari. «Spiegavo che chi sta al governo non può arricchirsi. Chi sta in parlamento può fare altre attività: c'è chi fa l'avvocato, chi l'architetto Io faccio le conferenze all'estero. E sui miei guadagni pago le tasse». Lo interrompe Travaglio: «Ora lo dobbiamo pure ringraziare perché paga le tasse». Il leader Iv poi, nega qualsiasi conflitto di interessi, sulla revoca della concessione ad Autostrade. «Il governo Conte annunciando la revoca ha fatto un favore a Benetton. Conte, che era avvocato della società Aiscat, i concessionari autostradali. Non è l'avvocato del popolo Sfido Travaglio a trovare un mio voto in conflitto di interessi, i miei voti sono pubblici». Il 2% di Iv nei sondaggi è forse dovuto alla «spregiudicatezza», ipotizza Gruber. Replica Renzi: «Col 2% abbiamo fermato Salvini, mandato a casa Conte e fatto arrivare Draghi». Ma Travaglio: «Salvini l'hai portato al governo». Alla fine Renzi si sfoga su Twitter: «Erano tre contro uno. Ma mi sono divertito perché non mi fanno certo paura».

Otto e mezzo, la stoccata di Renzi alla Gruber: è una vedova di Conte! E lei va nel panico. Il Tempo il 12 novembre 2021. Matteo Renzi nella fossa dei leoni. Sul tavolo di Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7, venerdì 12 novembre c'è l'inchiesta sulla Fondazione Open e il caso dei conti personali del leader di Italia Viva svelati dal Fatto quotidiano (Anche Marco Travaglio è ospite della trasmissione). "È un hackeraggio di Stato. Hanno preso il telefonino di centinaia di persone. Hanno preso illegalmente il mio conto corrente e lo hanno spiattellato in prima pagina. Ma la verità è che a Travaglio gli rode perché ho mandato a casa Conte. (...) È per questo che c’è questa campagna di odio contro di me", attacca Renzi. Insomma, l'ex rottamatore accusa: voi mi  attaccate perché ho mandato a casa Giuseppe Conte. E rincara la dose: "Lei Gruber è una vedova di Conte!" è la stoccata di Renzi. La conduttrice non se lo aspetta e va nel panico, tanto che alla fine si sbaglia e lo saluta così: “grazie senatore Conte”. Il cortocircuito è servito. Nel corso del programma Renzi ha contrattaccato su più fronti: "Nel 2018 venivo dall’esperienza di capo del governo, ed ero stato accusato dai media di aver rubato i soldi sui sacchetti di plastica. Allora ho detto in televisione che chi viene da un’esperienza di governo non può arricchirsi. Altro discorso è per un senatore, io prendo soldi per l’attività di conferenziere e pago le tasse regolarmente in Italia". Poi sul presunto piano anti-M5s dice: "Questa e-mail è stata inviata da Rondolino come ipotesi di scuola, a cui ovviamente nessuno ha dato corso. Per distruggere il ’Fatto Quotidiano' basta il pregiudicato Marco Travaglio, perché è un diffamatore penale" attacca Renzi che ripete gli epiteti più volti. "Il ’Fatto Quotidiano' è il vitalizio per me e la mia famiglia. Io non ho risposto per e-mail ma ho detto di no alla proposta di Rondolino perché noi siamo diversi dal Fatto Quotidiano" attacca Renzi. 

Matteo Renzi sottoposto al fuoco di fila ad Otto e Mezzo, su La7. Ma Travaglio contesta a Renzi i metodi utilizzati pure dal Fatto e dai grillini. Francesco Boezi il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. Lo studio di Otto e Mezzo, trasmissione condotta da Lilli Gruber, è stato il teatro di uno scontro: la stessa giornalista, il direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio e quello de La Stampa Massimo Giannini si sono scagliati in maniera congiunta contro l'ex premier Matteo Renzi, che è al centro del caso che riguarda la Fondazione Open. Tutti contro il fondatore d'Italia Viva, dunque, che dal canto suo ha spiegato che chi ha iniziato a contrastare la sua azione politica soffre soprattutto per via del cambio di guardia a Palazzo Chigi. Giuseppe Conte, del resto, è stato costretto a fare le valigie proprio grazie alla scelta compiuta dai renziani, che ora rivendicando di aver consentito a Mario Draghi di divenire premier, donando all'Italia un certo ritorno in termini di qualità dell'esecutivo e di credibilità internazionale.

La battaglia sul MoVimento 5 Stelle e sul Fatto Quotidiano

Il Fatto Quotidiano ha rimproverato a Renzi metodi di destrutturazione degli avversari che sono i medesimi metodi utilizzati dal direttore Marco Travaglio e dal MoVimento 5 Stelle per destrutturare i loro di avversari. Quando ci si è soffermati sul punto, Matteo Renzi ha spesso sorriso con fare ironico, mentre il giornalista torinese presentava le sue argomentazioni. Renzi, dal canto suo, ha esordito così: "Per distruggere il MoVimento 5 Stelle è bastato farli governare". L'ex presidente del Consiglio ha voluto replicare alle accuse tutte politiche che lo avrebbero visto impegnato nella costruzione di una "bestia" social e giornalistica, con il fine di ridimensionare i grillini. Protagonista di quella fase sarebbe stato il giornalista Fabrizio Rondolino. " Io non ho risposto per email, ma ho detto di no alla proposta di Rondolino perché noi siamo diversi dal Fatto Quotidiano", ha raccontato l'ex presidente del Consiglio.

Lo scontro su Travaglio "diffamatore seriale" ed il ricordo dei tempi di Santoro

"Travaglio - ha continuato Renzi - è un diffamatore seriale. Lui distrugge Il Fatto Quotidiano, che è un'azienda quotata in borsa. Le richieste di risarcimento danni sono, in questo momento, superiori al valore dell'azienda. Io non voglio la fine de Il Fatto Quotidiano - ha fatto presente Renzi - perché è il vitalizio per me e per la mia famiglia". Renzi ha dichiarato che Travaglio è un "campione" della "diffamazione", avendo perso anche alla Cedu. E ha anche rammentanto come "l'ultima volta" che Travaglio ha parlato della famiglia Renzi a Otto e Mezzo il giornalista abbia dovuto "staccare" un assegno di 50mila euro.

"Sembra di essere tornati ai tempi di Santoro quando ogni volta che cercavo di dire qualcosa di Berlusconi saltava fuori uno dei suoi galoppini e mi diceva che ero un pregiudicato", ha risposto il giornalista piemontese. Poi il ricordo: "Interrompevano anche - ha incalzato - la continuità prosegue...". Per Travaglio le interruzioni servivano a "confondere le idee ai telespettatori" e "confondere i piani". Dunque a Travaglio le argomentazioni di Renzi somigliano a quelle dei berlusconiani. "Io avuto una multa di mille euro per aver detto una mia opinione, Renzi confonde i reati di opinioni, che sono un incidente del mestiere per un giornalista, con i reati di affari che lo riguardano", ha proseguito il giornalista.

I rapporti tra Romano Prodi ed il Kazakistan

Quando Renzi è stato attaccato per la sua attività in Arabia Saudita, il leader d'Iv ha replicato alla Gruber ricordando i rapporti tra Romano Prodi ed il Kazakistan. Renzi si è domandato come mai la giornalista non chiedesse dei suoi rapporti all'ex presidente del Consiglio supportato dall'Ulivo e da Rifondazione comunista. "Nel 2018 venivo dall'esperienza di capo del governo, ed ero stato accusato dai media di aver rubato i soldi sui sacchetti di plastica. Allora ho detto in televisione che chi viene da un'esperienza di governo non può arricchirsi. Altro discorso è per un senatore, io prendo soldi per l'attività di conferenziere e pago le tasse regolarmente in Italia", ha spiegato il fondatore d'Italia Viva, così come ripercorso dall'Adnkronos. Renzi ha sfidato Travaglio a citare un'occasione di voto in cui Renzi sia coinvolto all'interno di un conflitto d'interessi.

La chiosa di Renzi: "Vedovi di Conte"

La parte finale della tramissione è stata quella più politica. Matteo Renzi ha ricordato di aver mandato a casa il leader grillino Giuseppe Conte, mentre Travaglio ha provato a replicare, sostenendo come Salvini - un altro di quelli che Renzi dice di aver "mandato a casa" sarebbe al governo proprio in virtù della scelta dei renziani. Lapsus della Gruber sul finale che si è rivolto all'ex presidente del Consiglio come "senatore Conte". In virtù della partita di stasera della nazionale, Renzi ha voluto chiudere con un "Forza Italia, si può dire?". E la Gruber: "Forza Italia è un partito che non è ancora suo".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista. 

"Non diciamo falsità...". Ma Renzi pubblica un assegno di Giannini. Francesco Boezi il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. Matteo Renzi replica a Massimo Giannini durante Otto e Mezzo, parlando di un risarcimento danni a Marco Carrai. Il direttore de La Stampa smentisce, ma il leader di Italia Viva pubblica un documento via Twitter. Nel corso della puntata di Otto e Mezzo, una parte dello scontro ha avuto per protagonisti il direttore de La Stampa Massimo Giannini e l'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha replicato alle accuse del terzetto composto pure dalla conduttrice Lilli Gruber e dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Massimo Giannini, in uno dei suoi interventi, si è soffermato sulle "mail" - riferendosi a quelle del giornalista Fabrizio Rondolino - che andrebbero "inquadrate in un contesto". Rondolino, secondo l'accusa che è tutta politica, sarebbe la punta di diamante di una sorta di "bestia" mediatico-giornalistica che avrebbe dovuto destrutturare il MoVimento 5 Stelle. Renzi, secondo Giannini, avrebbe girato le mail del piano di Rondolino a Marco Carrai. "Leggiamo queste mail: si chiede a Carrai e a tutta la struttura Delta di produrre un accordo....", ha specificato il giornalista. Insomma, Renzi avrebbe provato a costruire una sorta di struttura tentacolare in grado di articolarsi in più direzioni. Il fondatore d'Iv ha tuttavia smentito la versione riportata, sottolineando di non condividere l'impostazione fornita all'epoca da Rondolino. La parte più infuocata del dibattito tra il direttore de La Stampa ed il senatore, però, è stata quella in cui Giannini ha smentito di aver mai riscarcito Carrai per una causa. "Tu Carrai lo conosci bene - ha incalzato Matteo Renzi - , gli hai pure dato dei soldi per il risarcimento danni di una causa". "Si sbaglia di grosso. Non ho pagato un solo centesimo a Carrai. Si informi meglio. Non diciamo falsità, Nessuna causa per cui abbia mai pagato un solo centesimo a Carrai - ha replicato il direttore del quotidiano torinese - ". Renzi ha dunque detto (non senza ironia) che il tutto sarebbe successo all'insaputa di Giannini e che domani avrebbe pubblicato un documento in grado di provare le sue affermazioni. Nel corso della serata, Matteo Renzi ha pubblicato su Twitter la foto di un documento che sembrerebbe una lettera cui è allegato un assegno. Righe che, stando a quanto è osservabile, sarebbero proprio a firma del direttore Massimo Giannini: "Gentile dottor Marco Carrai - si legge - con riferimento all'articolo dal titolo "Il groviglio armonioso del salvataggio Mps" apparso su La Repubblica del 22 ottobre 2016, desidero rappresentarLe che non ho inteso offendere la Sua reputazione professionale e personale". E ancora: "Mi auguro che la presente valga a risolvere ogni possibile malinteso e La saluto cordialmente". Si tratterebbe di un assegno da tremila euro. Renzi ha condito il tutto con un commento breve: "Ecco la prova che @MassimGiannini mente #Ottoemezzo", ha scritto.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

Massimo Giannini per “la Stampa” il 14 novembre 2021. La Macchina del Fango non dorme mai. Come ha raccontato ieri Giuseppe Salvaggiulo sul nostro giornale, l'inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open svela un meccanismo di costruzione del consenso e distruzione del dissenso ormai collaudato nella Seconda Repubblica. Iniziò Silvio Berlusconi con la sua Struttura Delta e il suo immane conflitto di interessi. Poi vennero i suoi emuli. Ingrassati, e incarogniti, alla tavola calda per antropofagi del Web. Dunque, non solo la grande Bestia salviniana. Ma anche la piccola Spectre renziana, incrocio di tutti gli interessi propri e impropri. I bonifici dei Sauditi e i finanziamenti dei Benetton. I piani per devastare i grillini e quelli per controllare i media. La "character assassination" e il dossieraggio. Le fake news e i server esteri. C'è di tutto e di più, in quegli atti giudiziari. Soprattutto, c'è un dispositivo di potere che Renzi nega, coprendosi dietro la fuffa del cosiddetto "hackeraggio di Stato", e che invece lo dovrebbe far riflettere sulla miseria al quale sta riducendo il suo famoso storytelling. Dirà l'inchiesta se ci sono reati. A occhio, non se ne vedono. Ma si vede la bassezza politica. Si vede la pochezza morale. E tanto basta. 

P.S. Breve postilla personale. Lo stesso Renzi torna sulla vicenda di una mia presunta condanna in una causa persa contro Marco Carrai, e di un mio presunto risarcimento danni versato a suo beneficio. Ne aveva già parlato a sproposito venerdì, a "Otto e Mezzo" su La7. Ora rilancia sui suoi social, esibendo un documento nel quale comparirebbero le mie "scuse a Carrai" e un mio assegno a lui intestato, con tanto di mia firma, zoomata ad arte accanto all'assegno medesimo.

È deprimente, per chi fa il mio mestiere con serietà, ma mi vedo costretto a precisare quanto segue: 

1) Non esiste alcuna "condanna" né alcuna "causa persa" da parte mia nei confronti di Carrai. Il medesimo presentò una querela per diffamazione nei miei confronti, per un mio articolo su "Repubblica" del 2016. Nel maggio del 2019 la causa fu ritirata dal querelante, previa conciliazione di cui fa fede la lettera esibita da Renzi, nella quale mi limito a precisare di non aver offeso nessuno. 

2) Non esiste alcun "risarcimento danni" da me versato a Carrai. Dell'assegno sbandierato da Renzi io non conoscevo l'esistenza. Non porta la mia firma, come può vedere chiunque. Reca un importo di soli 3.000 euro (e già questo basta per capire che non può trattarsi di risarcimento danni). Infatti non lo è. Come può chiarire il mio Editore, è invece un semplice concorso alle spese legali, che di norma le parti condividono quando una causa viene ritirata. E questo è tutto. A dispetto di quello che continua a propalare il senatore di Scandicci, io non ho mentito. Ma, di nuovo, constato con amarezza come queste sue continue campagne di delegittimazione e manipolazione dei fatti stiano portando davvero la politica al grado zero della dignità e della decenza.

Alessandro Di Matteo per “la Stampa” il 13 novembre 2021. Mille battibecchi, frecciatine, veri colpi bassi per reagire agli addebiti che gli vengono portati: l'intervista di Matteo Renzi a Otto e mezzo, come prevedibile, diventa un confronto teso con la conduttrice Lilly Gruber e con i direttori de La Stampa Massimo Giannini e del Fatto quotidiano Marco Travaglio. Alla fine, però, la linea di difesa dell'ex premier resta la solita: le conferenze a pagamento in giro per il mondo sono un'attività lecita, il problema è l'acquisizione dei sui conti correnti «quando non ero ancora indagato», un «hackeraggio di Stato», e le critiche che gli vengono rivolte sono solo un «campagna d'odio nata perché dieci mesi fa abbiamo scelto di aprire una crisi per mandare a casa Conte, per questo a Travaglio gli rode». Nel merito, le risposte non arrivano. Al leader Iv viene chiesto di quella mail - emersa dagli atti dell'inchiesta sulla Fondazione Open - in cui l'ex giornalista dell'Unità Fabrizio Rondolino propone la creazione di un vero e proprio apparato di controinformazione per colpire il Fatto e veicolare su giornali e Tv la narrazione renziana dei fatti. Renzi, inquadrato, ridacchia sarcastico mentre Travaglio legge la mail di Rondolino. Poi spiega: «Era un'ipotesi di scuola alla quale ovviamente nessuno ha dato corso». Quindi, attacca: «Per distruggere il Fatto basta Travaglio, che è un diffamatore seriale. Ormai le richieste di danni superano il valore dell'azienda (che edita il quotidiano, ndr)». Il direttore della Stampa chiede perché abbia girato la mail a Marco Carrai. Risposta: «La mail di Rondolino non viene messa in pratica. Ovviamente tutte le mail che arrivavano l'ufficio le girava alle persone che potevano essere interessate. Abbiamo detto: non faremo mai ciò che fa il Fatto». Più volte il leader Iv provoca Travaglio definendolo «pregiudicato», evocando le querele perse dal direttore del Fatto. Ribatte Travaglio: «Renzi confonde i reati di opinione, che sono un incidente del mestiere per un giornalista, con i reati di affari che lo riguardano...». Giannini obietta che non esiste solo la dimensione giudiziaria di queste vicende, chi fa politica dovrebbe tenere conto anche dell'aspetto etico e morale dei propri comportamenti e che sui soldi ricevuti dall'Arabia saudita non si può sorvolare. Ribatte Renzi: «Lei non sa niente dell'Arabia saudita». Gruber ricorda a Renzi di quando, nel 2018, diceva che chi fa politica non può arricchirsi. Renzi ripete la sua precisazione: il discorso vale per chi è al governo, non per i semplici parlamentari. «Spiegavo che chi sta al governo non può arricchirsi. Chi sta in parlamento può fare altre attività: c'è chi fa l'avvocato, chi l'architetto Io faccio le conferenze all'estero. E sui miei guadagni pago le tasse». Lo interrompe Travaglio: «Ora lo dobbiamo pure ringraziare perché paga le tasse». Il leader Iv poi, nega qualsiasi conflitto di interessi, sulla revoca della concessione ad Autostrade. «Il governo Conte annunciando la revoca ha fatto un favore a Benetton. Conte, che era avvocato della società Aiscat, i concessionari autostradali. Non è l'avvocato del popolo Sfido Travaglio a trovare un mio voto in conflitto di interessi, i miei voti sono pubblici». Il 2% di Iv nei sondaggi è forse dovuto alla «spregiudicatezza», ipotizza Gruber. Replica Renzi: «Col 2% abbiamo fermato Salvini, mandato a casa Conte e fatto arrivare Draghi». Ma Travaglio: «Salvini l'hai portato al governo». Alla fine Renzi si sfoga su Twitter: «Erano tre contro uno. Ma mi sono divertito perché non mi fanno certo paura».

Fabrizio Rondolino, il caso della mail (dopo la sconfitta di Renzi al referendum). Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 13 novembre 2021. Il giornalista già portavoce di D’Alema e in quei mesi tra i consiglieri di Renzi, prospettava l’ipotesi di costituire una piccola e combattiva redazione dedita alla «character assassination», per colpire gli avversari. «Io sono qui per dire la verità dei fatti. Questa email è stata inviata da Rondolino come ipotesi di scuola, alla quale ovviamente nessuno ha dato corso». La frase chiave di Matteo Renzi, ospite venerdì sera da Lilli Gruber su La7, lascia l’interrogativo a metà strada, in un limbo. La ormai famosa lettera digitale inviata all’allora segretario del Pd, assolutamente inaccettabile nei toni e nei contenuti, nasce per iniziativa propria di Rondolino o è frutto di una richiesta esplicita, o per lo meno è figlia di un preventivo dibattito?

Nella mail, ricordiamo, il giornalista già portavoce di D’Alema e in quei mesi tra i consiglieri di Renzi, prospettava l’ipotesi di costituire una piccola e combattiva redazione dedita alla «character assassination», per colpire gli avversari. Leader grillini soprattutto, ma anche il direttore del Fatto Quotidiano , Marco Travaglio. Il tutto su un sito costruito appositamente, con un server estero non sottoposto alla legislazione italiana e non riconducibile al Partito democratico o a Renzi. Meme, vignette, card per i social e una rete di fake per rilanciarle. È il 7 gennaio del 2017. La data è importante perché segue di appena un mese il referendum del 4 dicembre del 2016 , quello sull’abolizione del Senato, che segna, dopo una netta sconfitta, l’inizio del declino politico di Matteo Renzi, costretto prima a tentare la carta del voto anticipato, poi a dimettersi da premier e a lasciare il posto a Paolo Gentiloni, fino alla sconfitta del Pd alle successive elezioni. Tramonta la possibilità di avere notizie di prima mano, chiedendole a Fabrizio Rondolino («Grazie per l’opportunità, ma proprio non saprei cosa dire. È un appunto di qualche anno fa, cui non è mai stato dato seguito e che non c’entra nulla con l’inchiesta. Tra l’altro qualche settimana dopo quella mail mi sono trasferito in campagna...»). Dove la «campagna» sta a significare la rinuncia, almeno al momento e da qualche anno, alla politica, sia vissuta che raccontata. Pare però che la mail abbia un antecedente, sempre in forma di comunicazione via Internet. Ancora un messaggio di posta elettronica, scritto da Rondolino e inviato a Renzi nell’ultimo giro di campagna elettorale per il referendum, quando era già chiaro l’orizzonte della sconfitta, con i sondaggi riservati che non davano speranza. Con piglio da spin doctor si chiedeva al segretario del Pd di fare un passo indietro nel condurre la battaglia sul referendum, di occuparsi unicamente della guida del governo, di mandare altri in tv, di scrollarsi il più possibile di dosso la polvere del perdente annunciato. Il consiglio insomma di una ritirata strategica, o perlomeno tattica, in attesa di tempi migliori. Suggerimento sdegnosamente rifiutato dal segretario del Pd del momento. Sarebbe nato allora, con Renzi «agonizzante», un confronto su come risalire la china, fino a prospettare la costruzione di una macchina del fango, convinti di essere stati pagati in precedenza con la stessa moneta. Di qui la mail di Fabrizio Rondolino, inviata da un account criptato e intitolata «Tu scendi dalle stelle». Eravamo al 7 gennaio, ventiquattro ore dopo l’Epifania, manifestazione della divinità di Gesù ai re Magi. Il sottotitolo era meno criptico: «Appunti sulla propaganda antigrillina». Due giornalisti d’inchiesta, un investigatore privato, il tutto per un costo medio-alto. Con lo scopo di diffondere notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica degli avversari. Come bersaglio, indicati i nomi di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio. Si proponevano messaggi ironici e strafottenti che ridicolizzino questa o quella proposta, dichiarazione, personaggio. Ma anche «inchieste giornalistiche documentate ovvero, secondo lo stile del Fatto, allusive e intrinsecamente diffamanti». Sia Matteo Renzi che Fabrizio Rondolino, in attesa che i fatti siano chiariti, convergono sul destino ultimo di questo progetto: non se ne fece nulla. Ci fu però l’invio da parte di Renzi della mail di Rondolino a Marco Carrai, il suo amico imprenditore: un punto ancora da approfondire.

Estratto dell’articolo di To.Ro. per il “Fatto quotidiano” il 13 novembre 2021. […] a Otto e mezzo. Renzi s' infila l'elmetto e si cala in trincea […] Di risposte, invece, alle domande sull'inchiesta di Firenze e sugli altri guai renziani, non ce n'è praticamente una. Il primo round si apre sugli atti dell'indagine Open. Travaglio legge l'email di Fabrizio Rondolino, ricevuta da Renzi e inoltrata a Marco Carrai, con la quale l'ex giornalista dell'Unità propone una task force per delegittimare gli avversari politici: la "character assassination" dei Cinque Stelle (Grillo, Di Maio, Di Battista e altri), di Travaglio e di Andrea Scanzi. Renzi ridacchia in sottofondo. Quando è il momento di replicare, lo fa con una sequela di insulti: "Maddai ragazzi. Due minuti e due secondi per dire quanto è disperato Travaglio. Per distruggere i Cinque Stelle è bastato farli governare. Per distruggere Il Fatto Quotidiano invece è bastato Travaglio". […] Sull'idea di Rondolino, Renzi si limita a poche parole: "Ovviamente non ha avuto seguito. Gli ho risposto di no, ma non per email. Altrimenti sarebbe stata agli atti. Il mio ufficio l'ha girata a Carrai in automatico". In verità, dagli stessi atti, risulta che Rondolino e la moglie Simona Ercolani sono stati impiegati nella "bestiolina" renziana, la squadra della comunicazione web messa in piedi […] con le risorse della Fondazione Open dopo la sconfitta nel referendum costituzionale del 2016. […] Renzi non risponde nel merito su Open ("È un hackeraggio di Stato"), né sui rapporti con Bin Salman ("Dite che le donne non possono guidare, non sapete niente di Arabia Saudita"), né sull'opportunità di prendere soldi da uno Stato estero ("Di quello che faccio ne rispondo ai cittadini. Voi alimentate una campagna di odio perché noi, da soli, abbiamo messo Draghi al posto di Conte"). […]

Otto e Mezzo, Selvaggia Lucarelli e la valanga di insulti a Matteo Renzi: "Poraccio, miserabile". Libero Quotidiano il 13 novembre 2021. A Otto e Mezzo è andata in scena una vera e propria rissa tra Marco Travaglio (sostenuto da Lilli Gruber) e Matteo Renzi. Dalla parte del giornalista, in collegamento con La7 nella puntata del 12 novembre, anche Selvaggia Lucarelli. L'ex firma del Fatto Quotidiano ha preso le difese del suo ex direttore, ma da casa. E con diversi cinguettii ecco che se l'è presa con il leader di Italia Viva: "'Lei lo stipendia a Travaglio!' - scrive in riferimento alle parole di Renzi - alla Gruber. Madonna che poraccio Renzi. Che poraccio". E ancora: "'Ma non le fa orrore farsi pagare da un regime che ammazza i giornalisti e nega diritti alle donne?'. 'Mi hanno hackerato il conto, siete ossessionati da me'. Le risposte tragicomiche di Renzi". Ma la Lucarelli non si limita a questo e passa all'ennesimo attacco. Oggetto, ancora una volta, il botta e risposta tra Travaglio e Renzi: "Chiamare un giornalista 'pregiudicato' è da miserabili.I giornalisti sono bersagliati da cause penali e civili e i direttori sono responsabili anche di errori altrui. Pure giornalisti che Renzi ritiene amici sono pregiudicati, non per questo non sono persone perbene". Insomma, tutti contro uno, tutti contro Renzi.

Otto e mezzo di fuoco tra Renzi e Travaglio. Plotone d'esecuzione in studio ma succede di tutto. Giorgia Peretti su Il Tempo il 12 novembre 2021. Matteo Renzi sulla graticola a “Otto e Mezzo”, venerdì 12 novembre. Nel talk show preserale di Lilli Gruber, va in onda il processo al leader di Italia Viva, un plotone d’esecuzione composto dalla conduttrice, Massimo Giannini e Marco Travaglio. Al centro della puntata la resa dei conti tra Renzi e il direttore del Fatto Quotidiano dopo la pubblicazione del suo conto corrente. L’inchiesta a cui si fa riferimento è quella sulle presunte irregolarità nei finanziamenti a Open, la fondazione attiva tra il 2012 e il 2018 per sostenere economicamente l’attività politica dell’ex premier. Non si fa attendere il botta e risposta selvaggio tra i due, un duello che ben presto vede Renzi denunciare la disparità di parola “eh ma siamo uno contro tre qua però”. L’ospite d’eccezione esordisce col botto definendo Marco Travaglio un “pregiudicato, è un diffamatore seriale ha una condanna penale e 10 condanne civili addirittura quella penale”. Poi continua a pungere il giornalista: “non ho nessun problema contro Travaglio, anzi. Il Fatto Quotidiano è il vitalizio per me e la mia famiglia, l’ultima volta che lui ha parlato di mio padre qui ha dovuto sganciare un assegno di 50 mila euro. Il gettone che Travaglio prende per venire qui lo passa alla mia famiglia quindi”. “Lei è campione di querele”, interviene la Gruber. Travaglio risponde: “Mi sembra di essere tornato ai tempi di Berlusconi, quando parlavo di lui mi dicevano che ero un pregiudicato. Io ho avuto una multa di 1.000 euro per avere detto la mia opinione”. “Renzi confonde i reati di opinione, che sono gli incidenti sul lavoro dei giornalisti, con i reati di soldi per i quali è indagato lui e gran parte della sua famiglia”, mima il gesto dei soldi. Renzi prende la palla al balzo: “Travaglio è l'uomo della doppia morale, indica gli altri dicendo siete indagati fai versi sui soldi lui che di soldi alla mia famiglia ne ha dati sin troppi e continuerà a darli”. Travaglio poco dopo perde le staffe interrompendo il senatore di Iv. “Doveva stare zitto. Maleducato, non era lei quello che doveva tacere? Parla da 10 minuti”, si scalda Renzi. L’assist è presto servito per il giornalista, il riferimento è all’attività di conferenziere in Arabia Saudita: “Non siamo nel regno di Bin Salman, posso parlarle qui eh”. Nel mentre la padrona di casa esorta il senatore a sintetizzare il proprio ragionamento. “Vi rendete conto che voi parlate 10 minuti e io vengo continuamente interrotto?”, attacca Renzi. “Siete accecati dal rancore. Se lei è così cortese da farmi parlare bene”, ha aggiunto. E una Gruber spazientita ribatte: “Se lei è così cortese da rispondere alle domande altrimenti dobbiamo chiudere la trasmissione tra un po’”.

Il duello in TV. Renzi contro Travaglio: “Il Fatto è il mio vitalizio, è un diffamatore seriale”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Novembre 2021. Tra Matteo Renzi e Marco Travaglio sono partite le scintille in un botta e risposta andato in scena a “Otto e mezzo” su La7. Acceso il dibattito tra i due, ospiti di Lilli Gruber. Renzi, accusato di avere preparato una strategia di attacco a base di fake news contro i 5 Stelle e contro il Fatto Quotidiano, strategia che sarebbe stata ispirata da Fabrizio Rondolino, ex giornalista dell’Unità, ha risposto: “Io sono qui per dire la verità dei fatti – ha detto Renzi – Questa email è stata inviata da Rondolino come ipotesi di scuola, alla quale ovviamente nessuno ha dato corso”. Renzi ha rincarato: “Per distruggere il Movimento Cinque stelle è bastato farli governare… Per distruggere il Fatto Quotidiano basta il pregiudicato Marco Travaglio, perché è un diffamatore seriale, è un campione europeo di diffamazione… Il Fatto Quotidiano è il vitalizio per me e la mia famiglia… Io non ho risposto per email, ma ho detto di no alla proposta di Rondolino perché noi siamo diversi dal Fatto Quotidiano”, ha detto l’ex premier, come riportato dall’AdnKronos. Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, ha replicato: “Io ho avuto una multa di mille euro per aver detto una mia opinione. Renzi confonde i reati di opinioni, che sono un incidente del mestiere per un giornalista, con i reati di affari che lo riguardano…”. Per Renzi “la verità è che a Travaglio gli rode perché ho mandato a casa Conte… È per questo che c’è questa campagna di odio contro di me…”. Poi, parlando dell’inchiesta sulla Fondazione Open, il leader di Italia Viva dice: “Quello che è successo è un hackeraggio di Stato. Hanno preso il telefonino di centinaia di persone. Hanno preso illegalmente il mio conto corrente e lo hanno spiattellato in prima pagina..”. “Io sull’etica politica posso fare una trasmissione ad hoc – ha sottolineato Renzi – La vera onestà è portare a casa i risultati. Quello che avrò lo diranno i cittadini e non i sondaggi… Con il 2% abbiamo fermato Salvini dal Papeete e mandato a casa Conte e fatto arrivare Draghi”. “Tutti i miei voti sono pubblici, sfido a dire che un mio voto in Senato sia in conflitto di interessi… – rimarca ancora – La mia posizione sulle concessioni è che il governo Conte, annunciando la revoca, abbia fatto un favore ai Benetton. Quindi, le accuse di Conte a me sono fortemente lesive della dignità mia oltre che della realtà”. Alla fine della puntata, condotta da Lilli Gruber, presenti come ospiti anche Travaglio e Massimo Giannini, il tweet di Renzi: “A ‘Otto e Mezzo’ erano tre contro uno. Ma mi sono divertito perché non mi fanno certo paura loro. Ci hanno già provato ai tempi della crisi Conte Draghi. Colpo su colpo si ribatte su tutto. E la verità viene fuori. Ora buttiamoci sulla partita. Notte a tutti e grazie per il sostegno”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

RENZI A TRAVAGLIO A OTTO&MEZZO (LA7): “IL MIO VITALIZIO E’ IL FATTO QUOTIDIANO”. Il Corriere del Giorno il 13 Novembre 2021. Il leader di Italia Viva ha rivendicato nuovamente l’operazione politica che ha portato Mario Draghi a sostituire Giuseppe Conte a Palazzo Chigi: “Io sull’etica politica posso fare una trasmissione ad hoc. La vera onestà é portare a casa i risultati. Quello che avrò lo diranno i cittadini e non i sondaggi. Con il 2% abbiamo fermato Salvini dal Papeete e mandato a casa Conte e fatto arrivare Draghi”. Si è svolta in un clima tesissimo la registrazione della puntata del programma “Otto e Mezzo”, su La7. Protagonisti Matteo Renzi, Marco Travaglio, Massimo Giannini, oltre naturalmente alla conduttrice Lilli Gruber. Molta attesa soprattutto per il duello mediatico fra il leader di Italia Viva Renzi e Travaglio direttore del Fatto Quotidiano che parte subito attaccando leggendo la mail del 2017 inviata dal giornalista Fabrizio Rondolino a Matteo Renzi, in cui presentava “un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina” chiamato a “distruggere la reputazione e l’immagine pubblica di Grillo, Di Maio, di Battista, Raggi, Casaleggio, Travaglio e Scanzi”. Cioè contro M5S e Il Fatto quotidiano. Renzi replica dicendo che non è stato dato alcun seguito a quel progetto definendolo “una ipotesi di scuola” anche perché “per distruggere il Movimento 5 stelle è bastato farli governare, per distruggere il Fatto basta il pregiudicato Marco Travaglio” aggiungendo “Io non ho risposto per mail ma ho detto di no alla proposta di Rondolino perché noi siamo diversi dal Fatto quotidiano”. Ma non solo: “Io non voglio la fine del Fatto quotidiano perché è un vitalizio per me e per la mia famiglia. Il gettone che Travaglio prende qui poi lo passa alla mia famiglia”. Marco Travaglio si è difeso sostenendo che “Io ho ricevuto una multa di mille euro per aver detto una mia opinione, Renzi confonde i reati di opinioni, che sono un incidente del mestiere per un giornalista, con i reati di affari che lo riguardano”. aggiungendo: “Immaginate se questa mail fosse uscita dall’indirizzo di Casaleggio, il senatore qui presente starebbe strepitando, chiedendo dimissioni di massa”. Travaglio ha dimenticato di essere stato condannato per la seconda volta per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del consiglio Matteo Renzi e al risarcimento di 50 mila euro. È la seconda condanna per questo reato in meno di un mese per il direttore de il Fatto Quotidiano sul caso Consip. La prima, di 95 mila euro, riguardava articoli pubblicati sul suo giornale. Inoltre Travaglio ha dimenticato la terza vittoria di fila di Tiziano Renzi papà di Matteo contro chi ha scritto falsità su di lui a proposito del caso Consip. Il “segugio” del Fatto Marco Lillo vicedirettore e firma di punta della cronaca giudiziaria, autore di pagine (e libri) sui presunti affari sporchi di babbo Renzi e della sua famiglia, ha dovuto pagare 30mila euro più spese legali, a seguito della condanna del tribunale di Firenze depositata il 15 ottobre, a pagare il papà del leader di Iv. Ma è stato solo il calcio d’avvio della puntata-partita fra Renzi e Travaglio. Il senatore Renzi parla dell’inchiesta Open definendola “un hackeraggio di Stato”, perché “hanno preso il telefonino di centinaia di persone. Hanno preso illegalmente il mio conto corrente e lo hanno spiattellato in prima pagina. Ma la verità è che a Travaglio rode perché ho mandato a casa Giuseppe Conte. È per questo che c’è questa campagna di odio contro di me”. Sul conflitto di interessi Renzi risponde per le sue attività – “Io prendo soldi per l’attività di conferenziere e pago le tasse regolarmente in Italia” – e alle accuse di conflitto di interessi che gli ha rivolto Giuseppe Conte sul caso Autostrade/Benetton – ha risposto: “Tutti i miei voti sono pubblici, sfido a dire che un mio voto in Senato sia in conflitto di interessi”. Ma Travaglio era in buona compagnia...anche all’ editore (Gruppo GEDI, leggasi famiglia Agnelli) del giornalista Massimo Giannini direttore del quotidiano torinese LA STAMPA, è toccato pagare per non essere condannato da una querela di Marco Carrai, amico e collaboratore di Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva ha rivendicato nuovamente l’operazione politica che ha portato Mario Draghi a sostituire Giuseppe Conte a Palazzo Chigi: “Io sull’etica politica posso fare una trasmissione ad hoc. La vera onestà é portare a casa i risultati. Quello che avrò lo diranno i cittadini e non i sondaggi. Con il 2% abbiamo fermato Salvini dal Papeete e mandato a casa Conte e fatto arrivare Draghi”.

(ANSA il 14 novembre 2021) - "Il Senatore Matteo Renzi ha dato mandato ai suoi legali di pronunciare azione di risarcimento danni nei confronti del Fatto Quotidiano per la diffamazione contenuta nella edizione odierna del giornale diretto da Marco Travaglio". Lo riferisce una nota dell'ufficio stampa di Iv.

(ANSA il 14 novembre 2021) - Nessun accordo tra Iv e Lega, nessuno con M5s. E, soprattutto, nessuna fuga dal partito. Matteo Renzi lo scrive sui social sottolineando che "dividere la realtà dalle bugie e lottare per la verità è un lavoro a tempo pieno ma divertente". Renzi contesta anche chi dice "che io attacco i giornalisti" dimenticando "che c'è libertà di informazione, non di diffamazione", chi sostiene "che avevamo la macchina del fango" ma "che siamo quelli che il fango lo hanno subito". "Dicono - aggiunge - che arriveremo divisi al voto per il Quirinale e dimenticano che lo avevano già profetizzato ai tempi della crisi: non è andata proprio così, no?" "Dividere la realtà dalle bugie e lottare per la verità è un lavoro a tempo pieno", è l'incipit del post del leader di Iv che poi elenca: "Dicono che Italia Viva ha fatto l'accordo con Salvini e dimenticano che se non c'è il governo del Papeete, quello dei pieni poteri, è grazie alla nostra scelta del 2019. Dicono che Italia Viva farà l'accordo con i grillini e dimenticano che in questa settimana i grillini si sono sposati con il PD in Europa, non con noi: noi siamo Renew Europe cioè orgogliosamente contro il populismo sovranista e il populismo grillino, come abbiamo detto mercoledì scorso a Bruxelles. E del resto se Draghi ha preso il posto di Conte nel 2021 - sottolinea - si deve alla nostra scelta di aprire la crisi in piena pandemia". "Dicono che io attacco i giornalisti - prosegue Renzi - e dimenticano che c'è libertà di informazione ma non c'è libertà di diffamazione. Dicono che stanno scappando tutti da Italia Viva e dimenticano che siamo pieni di prenotazioni per la Leopolda, con migliaia di persone che stanno contribuendo con idee, suggerimenti, contributi economici. Dicono - osserva ancora - che avevamo la macchina del fango e dimenticano che siamo quelli che il fango lo hanno subito". Poi un'aggiunta sulla partita per il Colle: "Dicono che arriveremo divisi alle votazioni per il Quirinale e dimenticano che lo avevano già profetizzato ai tempi della crisi: non è andata proprio così, no? Dicono tante cose. Lasciamoli dire. A tutte le polemiche, gli attacchi, le insinuazioni rispondiamo con il sorriso più grande", conclude Renzi con un ultimo invito: "Ci vediamo alla Leopolda a partire da venerdì sera, sarà bellissimo. Buona domenica".

Giampiero Mughini per Dagospia il 14 novembre 2021. Caro Dago, ti confesso che avevo seguito con gran disagio il confronto televisivo su La7 con Matteo Renzi da una parte e Lilli Gruber, Massimo Giannini e Marco Travaglio compattamente schierati contro di lui a mordergli le caviglie anche quando respirava. Come tu sai ho un interesse così e così per la politica politicante, di certo sbalordisco nel vedere giornalisti politici che nella materia vanno addobbati di elmetto e giubbotto antiproiettile. Ovvio che avevo trovato sconcertante il “piano del lavoro” di Fabrizio Rondolino, ovvero di mettere in campo un team di Forze Speciali nel dare addosso ai nemici politici di Renzi, ma che cos’è quel che gli avversari di Renzi fanno sui loro giornali e nelle loro esternazioni se non una serie di agguati mortali a Renzi? Una volta che mi avevano chiesto quali fossero i migliori giornalisti italiani, avevo messo nel mazzo Andrea Scanzi che è mio amico e che conosco dal tempo dei suoi debutti. Ebbene quando Scanzi scrive di Renzi che cos’altro fa se non un accanito cecchinaggio ad avvicinare sempre più i colpi al cuore del “personaggio” Renzi (quello che Rondolino chiama “character assassination”)? Ora Renzi è lontanissimo da un santo almeno quanto io da eventuale giocatore di basket (non ho mai giocato al basket in vita mia) lo sarei da Michael Jordan. Nello scontro politico frontale nemmeno lui usa i guanti neppure per sbaglio, ciò che del resto non ho mai visto fare a nessun politico a mia memoria d’uomo. Così pure reputo che il denaro ottenuto con il proprio lavoro e con il proprio talento non puzza, eppure in Arabia Saudita non ci sarei andato. E così via. Solo che non è questo che si staglia in primo piano se vuoi avere a che fare con il politico toscano men che cinquantenne Matteo Renzi, quello cui dobbiamo il fatto che a capo del governo ci sia oggi Mario Draghi. Quello cui dobbiamo l’entrata perfetta a togliere la palla dai piedi del governo Lega/Cinque Stelle, forse il più squallido governo dell’intera storia repubblicana. Quello è il Renzi di cui discutere, di cui decidere se approvarne o no la postura politica, cui fare domande e averne delle risposte. Così come di Bettino Craxi c’erano cento cose da discutere e commentare, l’ultima delle quali la valigia con le “tangenti” che gli portavano dritto filato nel suo studio milanese, una valigia che non credo contenesse più contanti di quelli che il Pci (uno dei grandi partiti della nostra storia recente) aveva ricevuto per poco meno di mezzo secolo dall’Urss, tanto che nel 1989 il Parlamento italiano votò compatto l’amnistia per i partiti (tutti tranne il Msi) che avevano incassato tangenti. Possibile che non abbia insegnato nulla la ferocia e la sovrana ingiustizia della campagna che assassinò il “character” Craxi, uno che nella sua battaglia contro “l’onesto” Enrico Berlinguer aveva non una ma cento e una ragioni? E invece siamo qui a prendere sul serio questa grottesca indagine giudiziaria sui soldi che faceva viaggiare avanti e indietro la Fondazione Open, soldi tutti alla luce del sole e rendicontati fino all’ultima lira, soldi che ovviamente erano destinati a giovare al “politico” Renzi e a chi altri se no? E quando mai in politica i soldi non sono stati necessari se non indispensabili? Nel caso di Open erano soldi limpidissimi, che hanno contribuito anch’essi a creare la forza del Renzi che in un certo momento aveva della sua il 40 per cento dell’elettorato italiano. Semplice. Semplicissimo. Elementare. Nel 1948 il Psi non aveva neppure i soldi di che pubblicare l’ “Avanti!”. Li chiedeva in prestito al Pci, di cui ho detto prima il perché avesse un tutt’altro budget. Era il tempo in cui il Pci era elettoralmente tre o quattro volte più forte del Psi, e durò così sino ai fatti d’Ungheria. Ne sto parlando da cittadino repubblicano. Quando faccio il giornalista, di certo non mi metto l’elmetto e il giubbotto antiproiettile quando affronto un politico che abbia idee diverse o molto diverse dalle mie. Una volta che alla trasmissione di Nicola Porro mi avevano detto di intervistare Giorgia Meloni, una che gli imbecilli patentati chiamano “fascista”, le ho fatto alcune domande, lei ha risposto, alla fine ci siamo stretti la mano. Il destino della Repubblica non dipendeva certo da quelle domande e da quelle risposte. 

Renzi porta (di nuovo) Travaglio in tribunale. Francesco Boezi il 14 Novembre 2021 su Il Giornale. Matteo Renzi ha di nuovo querelato Marco Travaglio ed Il Fatto Quotidiano per diffamazione. La guerra "colpo su colpo" continua. E intanto il leader d'Iv allontana le voci di scissione. Che una guerra aperta fosse iniziata era già noto, ma il leader d'Italia Viva Matteo Renzi ha già battuto il secondo colpo di questa fase: dopo la pubblicazione dell'assegno di Massimo Giannini a Marco Carrai - un tema di cui si è discusso nella puntata di Otto e Mezzo in cui è andato in scena un tre (Gruber, Giannini, Travaglio) contro uno (Renzi) e che il direttore de La Stampa ha smentito, sostenendo l'inesistenza di una causa di risarcimento persa con Carrai - è arrivata un'altra querela a Marco Travaglio. Com'è già accaduto altre volte, l'ex presidente del Consiglio ha chiesto danni per presunta diffamazione. Quella che sarebbe contenuta in un articolo pubblicato dall'edizione odierna de Il Fatto Quotidiano. In un nota diffusa da Italia Viva, si legge quanto segue: "Il senatore Matteo Renzi ha dato mandato ai suoi legali di pronunciare azione di risarcimento danni nei confronti del Fatto Quotidiano per la diffamazione contenuta nella edizione odierna del giornale diretto da Marco Travaglio". Del resto, l'ex presidente del Consiglio aveva già annunciato l'intenzione di rispondere "colpo su colpo" all'offensiva in atto. Durante la tramissione de La7, peraltro, Renzi aveva parlato del giornale diretto dal giornalista torinese alla stregua di un "vitalizio" per la sua famiglia. Con questa azione di risarcimento, la saga e la battaglia continuano. In questa fase si discute pure sulla tenuta d'Italia Viva, con il tentativo dei Dem (e la sponda di Repubblica) di dividere il fronte dei renziani in vista dello spartiacque del Colle, così come spiegato ed approfondito in questo articolo del Giornale a firma di Paolo Bracalini. Il fondatore d'Iv ha pubblicato via Facebook la sua versione sullo stato dell'arte: "Dividere la realtà dalle bugie e lottare per la verità è un lavoro a tempo pieno ma divertente". E ancora: "Dicono - ha scritto - che Italia Viva ha fatto l'accordo con Salvini e dimenticano che se non c'è il governo del Papeete, quello dei pieni poteri, è grazie alla nostra scelta del 2019 - ha continuato - ". Poi la direttrice politica: "Dicono che Italia Viva farà l'accordo con i grillini e dimenticano che in questa settimana i grillini si sono sposati con il PD in Europa, non con noi: noi siamo Renew Europe cioè orgogliosamente contro il populismo sovranista e il populismo grillino, come abbiamo detto mercoledì scorso a Bruxelles". Insomma, l'ex premier rivendica la linea ed i risultati raggiunti, con la premiership di Mario Draghi che ha di fatto preso il posto del grillino Giuseppe Conte dopo il passo di lato dei renziani rispetto ai giallorossi. Poi l'analisi verte sulla situazione d'Iv, con la smentita sulla spaccatura:"Dicono che stanno scappando tutti da Italia Viva e dimenticano che siamo pieni di prenotazioni per la Leopolda, con migliaia di persone che stanno contribuendo con idee, suggerimenti, contributi economici", ha fatto presente il fondatore d'Iv. Se sul piano politico il ritmo incalza, su quello della "guerra aperta" con Marco Travaglio l'intensità aumenta, con l'ennesima azione tesa ad ottenere un risarcimento danni.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

Lo scontro finisce in procura. Renzi chiede danni a Travaglio per diffamazione: “Alle insinuazioni rispondiamo con il sorriso più grande”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Novembre 2021. Continua lo scontro tra Matteo Renzi e il Fatto Quotidiano. E questa volta finisce in procura. “Il Senatore Matteo Renzi ha dato mandato ai suoi legali di pronunciare azione di risarcimento danni nei confronti del Fatto Quotidiano per la diffamazione contenuta nella edizione odierna del giornale diretto da Marco Travaglio”. Lo riferisce una nota dell’ufficio stampa di Iv. Il Fatto da giorni sta pubblicando stralci dell’inchiesta sulla fondazione Open. Oggi la notizia di una lettera inviata da Renzi alla presidente del Senato Elisabetta Casellati con il titolo: “’Difendimi dai Pm’: così Renzi chiede l’immunità alla Casellati”. Nella lettera del 7 ottobre, Renzi avrebbe chiesto alla presidente di “porre in essere tutte le azioni a tutela dei diritti del parlamentare”, perché secondo il senatore i magistrati depositando le intercettazioni in cui era presente anche lui hanno violato le “guarentigie costituzionali del parlamentare”. Intanto su Facebook Renzi commenta gli ultimi giorni di attacchi e polemiche: “Dividere la realtà dalle bugie e lottare per la verità è un lavoro a tempo pieno ma divertente – ha scritto – Dicono che Italia Viva ha fatto l’accordo con Salvini e dimenticano che se non c’è il governo del Papeete, quello dei pieni poteri, è grazie alla nostra scelta del 2019”. “Dicono che Italia Viva farà l’accordo con i grillini e dimenticano che in questa settimana i grillini si sono sposati con il PD in Europa, non con noi – continua il post – noi siamo Renew Europe cioè orgogliosamente contro il populismo sovranista e il populismo grillino, come abbiamo detto mercoledì scorso a Bruxelles. E del resto se Draghi ha preso il posto di Conte nel 2021 si deve alla nostra scelta di aprire la crisi in piena pandemia”. “Dicono che io attacco i giornalisti e dimenticano che c’è libertà di informazione ma non c’è libertà di diffamazione – continua Renzi – Dicono che stanno scappando tutti da Italia Viva e dimenticano che siamo pieni di prenotazioni per la Leopolda, con migliaia di persone che stanno contribuendo con idee, suggerimenti, contributi economici. Dicono che avevamo la macchina del fango e dimenticano che siamo quelli che il fango lo hanno subito”. Dicono che arriveremo divisi alle votazioni per il Quirinale e dimenticano che lo avevano già profetizzato ai tempi della crisi: non è andata proprio così, no? – conclude il post di Renzi – Dicono tante cose. Lasciamoli dire. A tutte le polemiche, gli attacchi, le insinuazioni rispondiamo con il sorriso più grande. Ci vediamo alla Leopolda a partire da venerdì sera, sarà bellissimo”. Il prossimo martedì, dopo le 20, la Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato comincerà a discutere della richiesta inoltrata da Renzi alla presidente Casellati.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Open, Italia viva al contrattacco: «La procura fa il processo sui giornali». Annibali e Giachetti contro la procura di Firenze: «Nel fascicolo atti penalmente irrilevanti, servivano solo per screditare l’ex premier: qualcuno dovrà risponderne». Valentina Stella su Il Dubbio il 13 novembre 2021. Lo aveva evidenziato qualche giorno fa su questo giornale il professor Giorgio Spangher, spiegandoci che il problema non riguarda tanto la pubblicabilità o meno degli atti di un fascicolo di indagine, ma la pertinenza delle acquisizioni al fascicolo. Ieri la questione è arrivata all’attenzione della Camera, quando il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto è andato in aula a rispondere a un’interpellanza presentata da Iv, a prima firma Maria Elena Boschi che, riassumendo i provvedimenti adottati dal 2019 al 2020 dalla procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sui finanziamenti ottenuti dalla fondazione Open, domandava «quali iniziative di competenza» il ministero della Giustizia «intenda adottare in relazione alla violazione della segretezza dei fascicoli inerenti al sequestro del materiale appartenente all’avvocato Bianchi, pubblicati dal quotidiano La Verità in data 14 novembre 2020». Sisto ha annunciato che non verranno inviati ispettori: «L’ 11 novembre 2020, ovvero in epoca antecedente la pubblicazione dell’articolo, in seguito al ricorso di uno degli indagati, gli atti erano stati depositati e tale deposito ha fatto seguito alla notifica inoltrata agli indagati dell’invito a comparire inviata il 4- 5 novembre del 2020. Si è così realizzata quella condizione di “conoscibilità” cui fa riferimento anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per dedurre la cessazione del vincolo di segretezza dell’indagine». Nelle repliche di Roberto Giachetti e Lucia Annibali però è emerso il problema con cui abbiamo aperto l’articolo: «Stiamo assistendo ha spiegato Annibali – a un quotidiano processo sui media e sui social di fatti che non hanno alcun rilievo penale. Quello che accade in questi giorni è sotto gli occhi di tutti: intercettazioni di conversazioni private processualmente irrilevanti, pubblicazione di dati sensibili, appunti, dati bancari. Sono i risultati dell’operazione a strascico condotta dalla procura di Firenze, anche attraverso sequestri e perquisizioni contro privati cittadini non indagati, che da settimane alimenta un flusso continuo di informazioni riservate». Il riferimento è alla campagna mediatica del Fatto Quotidiano contro Matteo Renzi che ieri è proseguita con la pubblicazione di scambi di email tra l’ex premier e altre persone con in allegato un presunto piano per realizzare una ‘ struttura di propaganda antigrillina’. «L’aspetto più grave di questa vicenda – ha proseguito Giachetti – è che siano stati inseriti negli atti dell’indagine e consegnati ai giornali dati, come i conti bancari del senatore Renzi, relativi a operazioni avvenute dopo il 2018, quando Open è stata chiusa. Perché la Guardia di Finanza li acquisisce e perché la procura li mette agli atti di un procedimento che non ha nulla a che vedere in termini temporali con l’oggetto dell’indagine? La risposta è chiara: perché servivano per il processo mediatico contro Renzi. Qualcuno dovrà rispondere di tutto questo». E poi si rivolge direttamente alla Guardasigilli Cartabia: «Mi aspetterei dalla ministra della Giustizia, dal ministero: chi stabilisce quali sono gli atti che vengono depositati? Qual è la parte che stabilisce quali sono gli atti depositati? Perché è del tutto evidente che, se io faccio una raffica di acquisizioni di tutto e di più, ci deve essere un momento successivo, e prima che si depositino gli atti, in cui c’è qualcuno che si assume la responsabilità di stabilire cosa non ha nulla a che vedere con l’indagine e con la parte penale e cosa ha solo funzione di sputtanare, per i prossimi mesi ed anni, delle persone con questioni che non hanno nulla a che vedere con l’iniziativa». I deputati di Italia viva, seppur di parte, hanno comunque centrato il punto: il problema non è tanto che Travaglio pubblichi informazioni prive di rilevanza penale, bensì la discrezionalità che la magistratura requirente ha di inserire dati non pertinenti nel fascicolo d’indagine, tranne le intercettazioni irrilevanti. Così facendo, consci della disclosure sulla stampa, si pongono all’origine della rovina reputazionale de- gli indagati e del loro entourage familiare e lavorativo. Urge una modifica normativa.

Il leader 5S evocava un conflitto di interessi. Renzi contro Conte, veleno tra ex premier: “Su Autostrade e Benetton illazioni squallide, lui gli ha regalato 8 miliardi”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Novembre 2021.  Tra Renzi e Conte torna lo scontro. Il duello tra ex premier è avvenuto a distanza: uno dagli schermi tv di La7, ospite di Lilli Gruber a ‘Otto e Mezzo’, l’altro sui social, su Facebook.

Oggetto del contendere è l’inchiesta sulla Fondazione Open e sui soldi che il senatore fiorentino avrebbe ricevuto da Alessandro Benetton e dall’Arabia Saudita per i suoi ‘speech’.

“Mi colpisce molto che un senatore prenda soldi da enti pubblici di uno Stato estero”, attacca il leader del Movimento 5 Stelle, che quindi lancia la sua proposta sul tema: “Risolveremo con una legge sul conflitto di interesse”. Poi la stoccata sui soldi dalla famiglia Benetton arrivati al leader di Italia Viva, dopo che il Fatto Quotidiano aveva ricostruito come Renzi, dopo essere intervenuto a un meeting sulle “eccellenze Made in Italy”, nel 2019, organizzato a Firenze dalla 21 Investimenti Sgr di Alessandro Benetton, si è visto versare dalla stessa quasi 20mila euro sul suo conto. “Mi ha colpito poi che un pagamento arrivi da parte di uno dei Benetton proprio mentre noi ci battevamo contro la concessione di autostrade. Mi chiedo con che stato d’animo Italia Viva possa aver approcciato alla cosa”, è l’accusa di Conte. Accuse respinte con forza dal numero uno di Italia Viva, che su Benetton parla di “illazione squallida” che dimostra come “Conte sia un uomo dominato dal rancore”. Per Matteo Renzi le parole del leader del Movimento 5 Stelle sono “false come sarebbe facile dimostrare se solo accettasse un confronto TV cosa che ha paura di fare”.

La verità per Renzi è che la revoca delle concessioni autostradali alla famiglia Benetton “è figlia di una cultura populista e demagogica che ha portato il contribuente italiano a regalare circa 8 miliardi alla società dei Benetton. I Benetton non hanno pagato: hanno incassato, grazie a Conte e al suo populismo”.

Renzi ricorda come Italia Viva si sia schierata contro “praticamente da sola” smarcandosi con le sue ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti dal voto in Consiglio dei ministri. “Ci siamo schierati contro – aggiunge Renzi – perché Conte stava facendo un regalo al concessionario mascherato con il populismo di chi non pensa alla realtà ma solo ai like sui social. Questa è la verità. E sono pronto a dimostrarla, numeri alla mano, in qualsiasi dibattito pubblico Conte accetti di fare da qui alle elezioni. Su di me e sull’indagine Open, l’avvocato grillino ha detto falsità. Non so se per ignoranza giuridica o per malafede politica. O per entrambe”.

Il leader di IV quindi rivendica ancora una volta la ‘mossa politica’ che ha portato alla caduta del governo Conte e all’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi. “Potremo dire ai nostri nipoti che in uno dei momenti più difficili della storia repubblicana un gruppo di parlamentari ha avuto il coraggio di sfidare l’opinione comune, mandando a casa un premier non all’altezza come Conte e creando le condizioni per l’arrivo di Draghi. Da allora non ci sono più le Azzolina, i Bonafede, i Casalino, l’ABC del populismo. Ma c’è il Governo Draghi e l’Italia ha recuperato prestigio. Conte può insultarmi, può mentire, può fare illazioni. Ma non può cambiare la storia: noi lo abbiamo mandato a casa perché non era capace. E di questa scelta sono e sarò sempre orgoglioso”, conclude Renzi nel suo intervento. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” l'8 novembre 2021. L'obiettivo, dichiarato, era quello di raccogliere almeno 240 milioni sul mercato per quotare la sua ultima creatura, la società di car sharing russa Delimobil, a Wall Street. Ma a Vincenzo Trani - l'imprenditore napoletano con casa e portafoglio in Russia, sul quale Matteo Renzi ha puntato tanto da entrare al suo fianco nel consiglio di amministrazione della società - anche questa volta non è andata bene: tutto rimandato. Il punto è che quella della Delimobil è l'ennesimo inciampo capitato a Trani. (…) Trani è molto noto in certi ambienti. Il suo nome è assai conosciuto a Mosca dove da tempo - come presidente della Camera di commercio Italo-Russa - fa affari (…) nel periodo del Conte I, contribuisce a fare entrare negli uffici giusti gli uomini leghisti. A partire da quel Gianluca Savoini che difese strenuamente, con l'allora ministro Matteo Salvini, quando scoppiò l'affaire Metropol. Ma il nome di Trani è rimbalzato ancora di più in Italia più recentemente, (…) perché Trani è il primo italiano a vaccinarsi con Sputnik. Ma soprattutto perché è l'uomo che gira per alcune aziende italiane a promettere denaro qualora avessero cominciato a produrre il siero russo. (…) Il primo luglio del 2020 apre, sede Napoli, la Pharmalite, «una piattaforma logistica nata in piena emergenza Covid » per supportare le farmacie nel business dell'online. Ha il 40 per cento della proprietà (…). Ma la società non parte bene: secondo gli ultimi dati ha un rosso di qualche migliaia di euro. Utile negativo anche per la General invest srl, società di consulenza interamente di proprietà di Trani. Il cui gioiello imprenditoriale è però la Mirko Capital, una società che si occupa di piccoli prestiti tra Russia, Est Europa e Asia (e nel cui consiglio di vigilanza ha seduto per sei mesi anche l'attuale sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola). Il cuore della società è in Lussemburgo, uno dei rami in Italia.  Dove però le cose non vanno benissimo: il 2020 si è chiuso in perdita con un calo del 20 per cento circa del giro di affari. (…) 

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 9 novembre 2021. I rapporti discutibili con l’Arabia Saudita e gli speech a pagamento per aziende e privati. L’inchiesta sulla Fondazione Open e le centinaia di migliaia di euro spesi per un solo volo negli Stati Uniti. L’incontro con il dirigente dei servizi segreti in autogrill e la sfiducia al governo Conte che favorì l’arrivo di Mario Draghi. Il mancato sostegno al Ddl Zan e i guadagni lievitati da quando è senatore. E potremmo andare avanti a lungo, visto che quella di Matteo Renzi sembra ormai una telenovela giornaliera condita da accuse e smentite, veleni e intrighi, inchieste giudiziarie clamorose – con annesse intercettazioni diffuse dalla stampa - e manovre politiche senza scrupoli. Non c’è giorno nel quale non si parli dell’ex premier, nonostante il suo partito ormai da tempo navighi intorno a un consenso del due per cento. Anche per questo viene naturale chiedersi che cosa sia diventato davvero l’ex enfant prodige della politica italiana, che a soli 39 anni riuscì a compiere il grande salto dallo scranno di primo cittadino di Firenze a quello di presidente del consiglio con l’intento di rottamare la vecchia classe dirigente. Abbiamo girato la questione a Tommaso Cerno, giornalista, senatore del Pd (per alcune ore virtualmente aderente a Italia Viva), che non solo lo conosce bene, ma che verso di lui è sempre stato molto critico. Eppure, nonostante tutto quel che si dice e scrive sul suo conto, non crede “che si sia trasformato in uno che legge le veline a pagamento”. 

Tommaso Cerno, come interpreta le continue notizie che escono ogni giorno sul conto di Matteo Renzi?

Penso che ci sia, come in tantissime vicende odierne, una incapacità pratica di guardare il mondo com’è veramente. Fa parte del nostro tempo, con una politica ormai dilatata e diluita nella quotidianità.

A cosa si riferisce?

Al fatto che lo “scandalo Renzi” è abbastanza surreale in tempi moderni. Che abbia ancora un ruolo politico è evidente, direi connaturato. Gli posso contestare l'ammicco a paesi dove la libertà di cui lui stesso gode non è quella che noi abbiamo, ma non credo onestamente al teorema che Renzi si faccia pagare per dire cose che gli sono utili. 

Altro conto è se, in punta di legge, la magistratura riterrà che certe cose non si possano più dire. Ma non mi stupirei che poi ci sia qualcuno che possa sollevare la questione del reato di opinione. E quindi che Renzi, proprio perché politico, può dire quello che vuole.

 Non c’è anche una questione di opportunità politica su certi atteggiamenti?

Non vedo una consequenzialità in ciò che lui ha detto e in ciò che lui ha fatto. Semmai vedo l’accanimento di Renzi nel voler essere sempre al centro dell’attenzione come se fosse ancora premier e l’accanimento di una parte della stampa nel verificare che questo suo essere al centro dell’attenzione sia legittimo. Ma non credo a un disegno utilitaristico in tutto questo. 

C’è chi dice che un senatore o parlamentare non dovrebbe prendere soldi da soggetti privati che potrebbero influenzare le sue decisioni all’interno delle istituzioni.

Se parliamo di un peóne del Parlamento che prendendo soldi da qualcuno dice quello che gli è utile dire, allora gli darei ragione. Ma Renzi è talmente narcisista che pensare a uno che lo paga per modificare quel che vuole dire è oltre l’immaginabile.

Se Renzi ha un difetto è che può prendere i soldi per dire quello che vuole, non quello che dicono gli altri. Insomma, su Renzi bisogna mettersi d’accordo: è un personaggio che ha totalizzato il dibattito della sinistra per anni dicendo qualunque cosa, oppure improvvisamente è diventato uno che dice cose per cui lo pagano? Quest’ultima teoria mi sembra poco renziana. Che poi abbia guadagnato soldi dicendo quello che avrebbe detto comunque ci può anche stare.

Provi lei a spiegarci chi è davvero oggi Matteo Renzi.

La questione è la seguente. È un politico che ha cercato di cambiare l’Italia a suo uso e consumo o è uno che si fa pagare come l’ultimo arrivato? Ho avuto molti scontri con lui, ma non posso immaginare che sia diventato così poco narcisista da farsi dettare il copione. Non credo proprio. Se lo ha fatto è perché nella sua visione lo ritiene legittimo. Se non lo sarà, come ha già fatto, pagherà per le sue colpe.

Anche perché non posso immaginare che dal suo auto-centralismo italiano, per cui l’Italia è quello che dice Renzi, si sia trasformato in uno che legge le veline a pagamento. Anche se non siamo vicini come visione politica non glielo posso attribuire. È troppo Renzi per essere anche qualcos’altro. 

Quando lei fu accostato a Italia Viva, dichiarò: “Stimo Renzi ma non ho bisogno di capi”.

Renzi in quel caso fece una dichiarazione via cellulare a Enrico Mentana comprendendomi in Italia Viva. Ma gli avevo solo detto “lascio il Pd". Ma bisogna tenere conto che io mi candidai in Parlamento anche contro l’idea che Renzi aveva dell’Italia, lo dimostrano le copertine dell’Espresso quando ero direttore. Nonostante ciò, sono stato l’unico candidato del Pd che Renzi voleva con sé anche se non la pensavo come lui. Lo stimo dal punto di vista politico nel senso che ritengo sia anche troppo politico. 

Ha fatto più adesso che ha il due per cento di quando aveva il quaranta. È sicuramente un fenomeno, ma non quello a cui io aderisco. Non so se stia compiendo dei reati o meno, non mi interessa, penso solo che Renzi dica quello che direbbe in qualunque circostanza. Quindi, più che di Renzi, bisognerebbe discutere del tema della libertà di pensiero di un politico.

Lei scrisse il libro “Inferno. La Commedia del potere” (Rizzoli) ispirato alla Divina Commedia dantesca, nel quale tra gli altri mise anche Matteo Renzi in uno dei gironi dei dannati.

Li ho messi tutti i politici, io per primo. Credo che Renzi sia l’uomo più vicino a Massimo D’Alema. Entrambi sono degli illusi della sinistra, ma per ragioni opposte. D’Alema ha cercato di far passare l’idea che il partito di maggioranza, anche se di sinistra, poteva esprimere il premier. E sappiamo come andò a finire. Mentre Renzi ha pensato di poter prendere in mano la sinistra trasformandola in qualcosa che la sinistra non è. 

Quindi sono molto più simili di quanto raccontino le cronache: due idealisti diventati due iper-realisti. Il loro girone è quello degli illusi, cioè di coloro che pensavano di prendere in mano la sinistra dandogli una loro idea e che poi sono finiti per essere cacciati, in un modo o nell’altro, da quella stessa sinistra che quando pensavano di avere dominato si è ribellata a loro come a qualunque leader.

Quindi, più che a Renzi, lei il processo politico lo farebbe alla sinistra?

Non è un caso che dal 1992 a oggi la sinistra abbia cambiato una immensità di leader , mentre la destra, a parte Salvini che ha sostituito Bossi anche per motivi fisiologici, sia sempre ferma sullo stesso schema e le stesse persone. 

Al punto che Berlusconi è ancora protagonista. La vera questione per me è la seguente: la sinistra la vuole cambiare questa Italia, oppure preferisce conviverci in uno stato di eterno potere dove senza mai vincere governa e gli va bene così e dove può cambiare un segretario al mese e non se ne accorge più nessuno? 

Il rapporto malato tra Renzi e la sinistra. Augusto Minzolini il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. A leggere le cronache politiche, e non solo, degli ultimi due anni una domanda è d'obbligo: ma che ci sta a fare Matteo Renzi con quell'agglomerato informe di populismo. A leggere le cronache politiche, e non solo, degli ultimi due anni una domanda è d'obbligo: ma che ci sta a fare Matteo Renzi con quell'agglomerato informe di populismo, tardo massimalismo, pseudo ideologia e concentrato di ipocrisia che è l'ultima variante della sinistra italiana? Siamo di fronte, per usare la definizione di scuola della moderna psicologia, ad un rapporto malato. Ad una relazione in cui odi e rancori mai sopiti determinano nei due soggetti un continuo scambio di ruoli improntati al masochismo e al sadismo politico. In sintesi: mancano tutti gli ingredienti indispensabili per creare le condizioni di una collaborazione positiva. Non c'è fiducia, visto che nel Pd ormai è una costante interpretare ogni parola di Renzi al contrario. Non c'è solidarietà, dato che se qualcuno assalta le sedi di Italia Viva dalle parti di Enrico Letta non viene spesa neppure una parola di condanna. Non c'è un comune sentire, perché il Pd considera le battaglie di Renzi sempre di destra, mentre il leader di Italia Viva giudica quelle di Letta e compagni il retaggio di impostazioni ideologiche superate, memorie di un lontano passato. Insomma, Renzi e il Pd hanno molto per odiarsi e nulla per amarsi. E in fondo non è neppure una novità: nella Storia i riformisti sono sempre stati il bersaglio della sinistra d'apparato, dei massimalisti, dei comunisti e dei post-comunisti. Dai tempi di Matteotti e Gramsci, a quelli di Bettino Craxi e il Pci in tutte le sue evoluzioni. Storie di emarginazioni, criminalizzazioni, financo, condanne etiche e, appunto, odi. Che hanno sempre avuto come epilogo l'eliminazione politica del riformista di turno e, in alcuni casi (vedi Craxi), anche di peggio. Ora non è che Matteo Renzi con le sue conferenze per il mondo e i suoi viaggi a Riad sia uno stinco di santo, ma mentre con lui la sinistra di oggi cerca il pelo nell'uovo, con i nuovi compagni di strada, i grillini, che secondo l'ex capo dei servizi segreti di Chavez beneficiavano dei petroldollari del Venezuela, chiudono entrambi gli occhi. E chi li accusa non è un pinco pallino: è come se Lavrentil Pavlovic Berija, per citare una storia che gli eredi del Pci conoscono bene, avesse squarciato il velo sui rubli dati da Stalin ai partiti comunisti fratelli. La verità è che il Pd si rapporta con gli alleati, come il Pci con gli indipendenti di sinistra: ha poca tolleranza verso l'autonomia, sia sui contenuti (ddl Zan), sia sulle strategie. Pazientano solo con l'opposizione del Re: quelli che li criticano a parole ma poi puntualmente si accodano. E poco importa se il Pd dopo aver osteggiato Draghi al grido «o Conte, o morte», sia stato costretto da Renzi a trasformarlo in un nume tutelare. In quel mondo la lungimiranza è un'aggravante, si preferisce cento volte la sudditanza. Si tratti delle battaglie sulla giustizia, sul ddl Zan, sugli equilibri di governo o sul Quirinale. Ecco perché Renzi dovrebbe farsi due conti di fronte a scelte decisive: o si emancipa dal rapporto con quel tipo di sinistra che lo odia; o se crede ancora alla comune appartenenza, dispiace dirlo, ma può già considerarsi spacciato. Augusto Minzolini

Tommaso Ciriaco per "la Repubblica" il 2 Novembre 2021. La scelta è destinata inevitabilmente a far discutere. Matteo Renzi è pronto a partire, direzione New York. Nelle prossime ore, confermano a Repubblica fonti qualificate, il senatore ha in programma una missione di lavoro a Wall Street. L'appuntamento è per il 3 novembre. L'obiettivo: percorrere l'ultimo miglio della quotazione della società italo-russa di car sharing Delimobil Holding, di cui il leader di Italia Viva è membro del consiglio di amministrazione. Sotto i riflettori, nel cuore della finanza mondiale, a sostenere l'ingresso ufficiale del gruppo nella Borsa newyorkese. Le puntate precedenti. Nell'agosto scorso, il leader di Italia Viva era stato arruolato dall'italiano Vincenzo Trani - fondatore della società di microcredito Mikro Kapital, presidente della Camera di commercio italo-russa e console onorario della Bielorussia in Campania - proprio per cercare di favorire lo sbarco sui mercati azionari a stelle e strisce. Un impegno che Italia Viva aveva anche rivendicato con una nota ufficiale, una volta trapelata la notizia. «Il senatore è molto felice di collaborare all'attività della società Delimobil. La prossima quotazione a Wall Street rappresenta una fase di internazionalizzazione importante a livello globale. Renzi, da sempre convinto dell'importanza di valorizzare le competenze degli imprenditori italiani in tutto il mondo, sarà al fianco del dottor Trani in questa sfida». Lo sarà letteralmente, vista l'intenzione di di recarsi negli Stati Uniti in qualità di consigliere di amministrazione. Renzi dovrebbe restare Oltreoceano per diversi giorni, con tanto di partecipazione ufficiale ai passaggi pubblici che sanciranno l'approdo a Wall Street. È l'ultimo atto di un percorso che aveva avuto una tappa decisiva a inizio ottobre, quando il gruppo aveva depositato alla Sec - la Consob americana, vale a dire l'ente che regola la Borsa negli Stati Uniti - la richiesta di quotazione (IPO, offerta pubblica iniziale) e inviato il documento di presentazione. Delimobil, d'altra parte, ha interessi crescenti. Può arruolare 18.400 automobili, con 7,1 milioni di utenti registrati e un raggio d'azione in undici città. Trani, che lo guida, è stato anche il primo italiano a scegliere di sottoporsi al vaccino russo Sputnik-V. In questo quadro, la società - che opera in Russia e ha sede fiscale in Lussemburgo - ha scelto di avvalersi dell'esperienza di Renzi. Suscitando un vero e proprio caso. La notizia dell'ingresso dell'ex presidente del Consiglio nel cda della società aveva scatenato infatti molte polemiche. E non soltanto per il fatto che si tratta di un impegno retribuito: non è noto a quanto ammonta il compenso di Renzi, ma è pubblica l'informazione che Delimobil stanzia un milione di dollari l'anno per pagare l'intero consiglio d'amministrazione. Voci critiche si erano levate dalla politica, mettendo in risalto il doppio ruolo dell'ex premier: consulente retribuito di società private e leader politico (oltreché senatore) di Italia Viva, una forza politica che sostiene l'attuale maggioranza di governo di Mario Draghi. La replica dell'ex presidente del Consiglio non prevedeva autocritica, ma rivendicazione della scelta: «Tutte le mie attività sono assolutamente disciplinate dalla legge e quindi come tali riguardano la mia sfera privata». Adesso il nuovo capitolo, con la scelta di presenziare alla quotazione a New York. E d'altra parte, non è il primo vespaio sollevato dalle scelte del fondatore di Iv. Scalpore avevano suscitato in particolare gli incarichi e i viaggi in Arabia Saudita come membro del Future Investment Initiative, fondazione che fa capo a Mohammad bin Salman (considerato dalla comunità internazionale il mandante dell'omicidio del giornalista Jamal Kashoggi). Ieri sera, la puntata di Report si è occupata proprio delle missioni di Renzi in Arabia Saudita. Nel trailer del programma su Facebook si preannuncia anche la notizia di un presunto viaggio negli Emirati Arabi a fine novembre 2020, finora rimasto inedito. Lo dimostrerebbe una foto del senatore su un volo Emirates.

Estratto dell'articolo di Giovanna Casadio per repubblica.it il 2 novembre 2021.

Carlo Calenda, come giudica il fatto che Matteo Renzi sia in trasferta a New York per il lancio a Wall Street della società italo-russa di car sharing Delimobil, nel cui cda siede il leader di Italia Viva?

"Lo trovo sbagliato. Ritengo che ci sia un vuoto normativo inoltre, perché per legge dovrebbe essere previsto che non si possa svolgere una attività di business regolamentato, come il car sharing, o essere pagati da società direttamente o indirettamente partecipate da Stati stranieri, se si è parlamentari in carica". 

Ma la meraviglia l'attività di business man di Renzi?

"Non mi meraviglia, ma sono contrario. L'ho detto più volte. Non è mai avvenuto nella politica contemporanea che un leader che fa politica in Italia riceva soldi da uno Stato straniero".

Lei si riferisce ai viaggi e agli incarichi in Arabia Saudita di Renzi come membro del Future Investment Initiative, la fondazione che fa capo a Mohammad bin Salman (su cui peraltro gravano i sospetti per la morte del giornalista Khashoggi)?

"Certo. E a tutte quelle che sono attività in qualche modo direttamente o indirettamente remunerate da Paesi stranieri". 

Tuttavia non c'è niente di illegale?

"No, ma perché - ripeto - non ci sono precedenti nella politica contemporanea di un leader di partito in carica che faccia attività di lobbying". 

Forse non si possono scegliere i partner internazionali solo se rispettosi dei diritti, non crede?

"Sicuramente uno deve avere a che fare anche con i regimi autoritari quando è al governo, perché l'80% dei Paesi sono regimi autoritari. Ma una cosa è averci a che fare nei rapporti tra governi. Altra è essere stipendiati da questi Paesi, cosa che non è data nell'universo".

Tutto questo ha conseguenze sul progetto del Grande centro?

"Sì. Ha un'influenza, come il fatto che i renziani facciano alleanze con Micciché in Sicilia e con i 5Stelle in un numero rilevante di Comuni. Qui si mostra la diversità delle nostre concezioni. Io vedo la necessità di un grande motore politico riformista contro i populismi. Non di un centro che sia un fritto misto che si allea ora a destra ora a sinistra, alla ricerca di un vantaggio".

Renzi d'Arabia. Report Rai PUNTATA DEL 01/11/2021 di Danilo Procaccianti. Mentre al Senato non passa il ddl Zan, il senatore Matteo Renzi si trova a Riyadh, in Arabia Saudita. Sta per salire sul palco del Future Investment Initiative, organizzazione nella quale è membro del comitato esecutivo e che è direttamente riconducibile al principe saudita Mohammed Bin Salman. Nel corso della prossima puntata, Report tornerà sui viaggi del leader di Italia Viva nei paesi del Golfo e sulle cariche che ricopre in alcuni consigli di amministrazione esteri. Andranno in onda delle parti inedite di una lunga intervista che Danilo Procaccianti ha tenuto con il senatore lo scorso maggio. 

RENZI D’ARABIA di Danilo Procaccianti collaborazione di Eleonora Zocca immagini di Cristiano Forti montaggio e grafica di Monica Cesarani Report Rai

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, il Senato, con voto segreto, ha affondato la legge, il disegno di legge Zan che prevedeva l’inasprimento delle pene contro le discriminazioni di omosessuali, transessuali, donne e disabili. Noi non vogliamo entrare nel merito del perché è stata affondata questa legge, ma nel fatto che nel giorno in cui era necessario essere presenti in Parlamento per affermare e dichiarare che si era dalla parte dei diritti, il senatore Renzi era invece a Riyad in Arabia Saudita che non è proprio la patria dell’LGBT. Infatti, l’omosessualità è ancora punita con la reclusione o la fustigazione. Che cosa c’era di così irrinunciabile in Arabia Saudita? Consentiteci un ragionamento: il voto al Senato era segreto, non era scontato l’esito. Se il disegno di legge Zan fosse stato affondato per un solo voto, di chi sarebbe stata la responsabilità? Il nostro Danilo Procaccianti aveva incontrato Renzi proprio nei giorni in cui aveva effettuato dei frequenti viaggi in Arabia Saudita.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il 28 gennaio scorso, nel pieno della crisi del governo Conte, Matteo Renzi era a Riyad in Arabia Saudita con un ruolo un po’ diverso dal solito: intervistatore del principe ereditario Mohammed Bin Salman

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA "Buongiorno, buongiorno a tutti, è un grande piacere e onore essere con il grande principe ereditario Mohammed bin Salman. Grazie mille per questa opportunità”

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Si scopre che Matteo Renzi ricopre un incarico nel comitato consultivo del Future Investment Initiative, un istituto finanziato dal fondo sovrano saudita che garantisce al senatore un compenso annuale che può arrivare a circa 80mila dollari. Le parole di Renzi hanno fatto molto discutere.

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA "Vostra Altezza, amico mio, io penso che l'Arabia Saudita potrebbe essere il luogo di un nuovo rinascimento per il futuro.

DANILO PROCACCIANTI Di recente il nostro ex premier Matteo Renzi ha parlato di un nuovo rinascimento per l’Arabia Saudita. Cosa ha provato quando ha sentito queste parole?

ABDULLAH (DISSIDENTE ARABO E RICERCATORE A WASHINGTON) Beh, mi sento triste perché ricordo il mio amico Jamal Khashoggi che è stato ucciso nel consolato di Istanbul. Questo non è Rinascimento, è persecuzione sponsorizzata dallo stato. Oggi che il potere è nelle mani di Mohammed Bin Salman, il livello di oppressione e persecuzione è aumentato drammaticamente.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le ragioni dell’indignazione mondiale sull’amicizia tra Renzi e il principe Mohammed Bin Salman sono riferibili al fatto che proprio il principe è considerato dalle Nazioni Unite e dalla Cia il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi. Un editorialista del Washington Post che nel 2017 era entrato in conflitto con il principe saudita. Per questo motivo è stato ucciso, fatto a pezzi e bruciato all’interno del consolato saudita di Istanbul, paese della sua fidanzata il 2 ottobre del 2018.

DAL DOCUMENTARIO “THE DISSIDENT” Nell’area della piscina c’era un forno tandoori, a immersione. Profondo un metro e mezzo o due. La polizia turca ha scoperto che la notte dell’assassinio di Jamal il consolato aveva ordinato 31 chili di carne da un noto ristorante di Istanbul. Se avessero bruciato un corpo lì avrebbero istantaneamente eliminato ogni traccia di DNA. Pensiamo che quell’ordine di carne sia servito a camuffare l’odore del cadavere che bruciava.

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Il mandante lei ha le certezze su chi è stato, come e quando, le faccio i complimenti, non è così per l’amministrazione americana

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO In realtà dall’Arabia arrivò un commando che includeva anche sette membri del corpo speciale per la sicurezza personale del principe saudita. Quegli agenti rispondono esclusivamente a Mohammed Bin Salman. Per questo motivo, il report della CIA sostiene che non avrebbero partecipato direttamente all’esecuzione se non sotto ordine del principe stesso.

DANILO PROCACCIANTI Ci racconta la storia di suo padre? Perché si trova in carcere e in che condizioni si trova?

ABDULLAH (DISSIDENTE ARABO E RICERCATORE A WASHINGTON) Mio padre è uno studioso in Arabia Saudita, è molto influente, è seguito da 14 milioni di follower solo su Twitter. Gli è stato chiesto di prendere parte all'agenda di governo chiedendogli di twittare, e lui ha rifiutato. Lo hanno arrestato, torturato, un anno dopo hanno chiesto la pena di morte basandosi su trentasette accuse false.

DANILO PROCACCIANTI C’è una politica portata avanti dall’Arabia Saudita in questo senso? Ripulirsi un po’ l’immagine?

ABDULLAH (DISSIDENTE ARABO E RICERCATORE A WASHINGTON) A loro interessano solo le transazioni economiche. L'ex primo ministro in Italia, lo chiama grande amico, ma penso che il suo grande amico sia un killer. Non secondo me, ma secondo le agenzie di intelligence. Il governo saudita paga un sacco di soldi per società di PR e lobbisti in tutto il mondo per continuare con questo lavaggio del cervello.

DANILO PROCACCIANTI Le polemiche non sembrano aver scosso più di tanto il senatore Renzi che oltre al primo incarico ne riceve un altro. Fa parte, infatti, dell’advisory board della Royal Commission che si occupa dello sviluppo di Alula, città dell’Arabia Saudita patrimonio dell’Unesco che il principe sta cercando di pubblicizzare in tutto il mondo.

DANILO PROCACCIANTI Però capisce, mi perdoni, fa pubblicità per una città. È come se lavorasse all'ambasciata dell'Arabia Saudita

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA però se lei non sa che cos'è Alula, che è una città che è un patrimonio mondiale dell'Unesco e pensa che sia una cittadina su cui far la pubblicità, beh penso che questo - non voglio sembrare un professore - ma è un problema suo. Stavo facendo un ragionamento per arrivare alla domanda precedente. Evidentemente, il fatto che il tempo stringa la porta a essere un po’ scortese, ma la rispetto per questo. Le sto dicendo Alula è una città patrimonio mondiale dell'umanità, è una città che ha storia pazzesca, ha un rapporto con l'antica Roma. È una cosa enorme, è un grandissimo progetto che vale billion e billion. Questo progetto bellissimo è un progetto al quale io sono onorato di partecipare.

DANILO PROCACCIANTI Quello che fa è lecito, lei paga le tasse. Detto questo, siccome le parole sono importanti, lei lavora anche per l'Arabia Saudita. Io non trovo un altro termine, mi dica lei.

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Qual è la domanda?

DANILO PROCACCIANTI Lavora per l'Arabia Saudita?

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA No, io ho delle collaborazioni all'interno di due istituzioni, una di Riyad e una di Alula, come ho collaborazioni con realtà americane, europee, londinesi, cinesi, beh di altri paesi. Italiane…

DANILO PROCACCIANTI È una cosa opportuna secondo lei? Insomma, ha parlato di nuovo rinascimento, ha intervistato il principe Mohammed Bin Salman

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Che cosa è opportuno? Stare dentro questi board?

DANILO PROCACCIANTI Prendere soldi da un altro stato

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Il problema di fondo… qual è la domanda sull'opportunità: se ha senso o meno stare dentro un fondo che sta – nel caso dell'iniziativa saudita – che sta cercando di descrivere il mondo di domani con una serie di investimenti in tutto il mondo, sull’intelligenza artificiale, sulla robotica, la digitalizzazione, la sanità, con collaborazioni che vanno per esempio con l'università Bocconi di Milano

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La vicinanza di Renzi all’Arabia saudita ha provocato grande curiosità nei media di tutto il mondo

GIORNALISTA CHANNEL 4 Lei ha descritto l'Arabia Saudita come il centro di un nuovo rinascimento globale. Sta prendendo lezioni di leadership da MBS?

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Se si segue la politica in quell'area, per la prima volta con una giovane leadership, l’Arabia Saudita sta cercando di creare una visione per il futuro. Cinque anni fa in Arabia Saudita per una donna era impossibile guidare.

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA È una cosa che a noi può sembrare impressionante, ma come le donne non possono guidare? Fino al 2015, fino all'avvento dell'attuale crown prince questo non accadeva

DANILO PROCACCIANTI Il nostro ex premier Matteo Renzi ha parlato di emancipazione femminile in Arabia Saudita, perché adesso le donne possono guidare e cinque anni fa non era così. Sua sorella che cosa ha dovuto subire per questo diritto?

LINA AL-HATHLOUL – ATTIVISTA PER LA DEMOCRAZIA SAUDITA Loujain è accusata di aver contattato Amnesty International e Human Rights Watch per tutelare una campagna per i diritti delle donne in Arabia Saudita. E sulla base di queste accuse, è stata etichettata come terrorista e condannata dal tribunale del terrorismo.

DANILO PROCACCIANTI Le risulta che sua sorella abbia subito torture e violenze sessuali in prigione?

LINA AL-HATHLOUL – ATTIVISTA PER LA DEMOCRAZIA SAUDITA Ha subito scariche elettriche, è stata frustata, picchiata, molestata sessualmente e tutto per mano di alti funzionari, compreso il braccio destro del principe ereditario. E queste violenze avvenivano nelle stanze della tortura.

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA "Vostra Altezza, amico mio, penso che in questo momento la politica abbia bisogno di un'ottima combinazione tra passato e futuro, tra giorno per giorno e visione, tra tradizione e innovazione. Penso che con la vostra leadership, con la guida di re Salman, il regno saudita potrebbe davvero svolgere un ruolo cruciale. Grazie mille amico mio, grazie altezza.

DANILO PROCACCIANTI Dopodiché lei lo chiama amico mio. Insomma, lì ci sono i dissidenti che vengono torturati e uccisi. Lei ha detto “le donne guidano”. La principale attivista che si è battuta affinché le donne guidassero è stata collegata all’elettroshock, per esempio.

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA L'80% della popolazione mondiale vive in realtà che non riescono ad avere una piena democrazia – questo secondo le ultime indagini, poi si può capire che cosa voglia dire una piena democrazia o meno. Certo non appartiene al concetto di piena democrazia la Cina o l'Arabia Saudita. Io ho sottolineato, questo sì lo faccio anche con lei, che nel paese di cui stiamo parlando si è registrato nell'ultimo periodo un cammino faticoso, ancora non concluso di progressivo riformismo che ha portato - un esempio era quello che le persone che prima protestavano per avere la possibilità di guidare, adesso guidano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Guidano è vero, se però cercano di difendere i loro diritti vengono “curate” con le scosse elettriche, frustate, torturate, molestate. Amnesty International nell’ ultimo rapporto che tasta il polso sullo stato della democrazia e della libertà in Arabia Saudita – il rapporto è fresco, 2020/2021 – scrive che si è intensificata la repressione dei diritti alla libertà di espressione, nei confronti di giornalisti e di oppositori al governo. A fine anno, praticamente tutti i difensori dei diritti umani dell’Arabia Saudita, conosciuti all’interno del paese, erano stati catturati, incarcerati e i tribunali hanno fatto ampio ricorso alla richiesta di pena di morte. Ora il senatore Renzi dice “guardate che tutte le consulenze che faccio, i convegni a cui partecipo, sono tutti legali perché li faccio in termini di legge, pago le tasse in Italia”. Tutto vero. “E i temi che tratto” dice il senatore Renzi, “sono temi che riguardano l’intelligenza artificiale o lo sviluppo culturale di una città fantastica come Alula. C’è da essere orgogliosi”. Anche questo è vero. Però c’è un tema che riguarda i rapporti tra Renzi e l’Arabia Saudita sul quale il senatore ha sempre tenuto un profilo molto basso. Qual è?

PUBBLICITÀ SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Stavamo parlando dei viaggi di Renzi nella penisola araba e dei suoi rapporti con gli Emirati Arabi in particolare. Bene. C’è un fatto, un record di cui si è vantato poco, ha tenuto sempre il basso profilo: quello degli armamenti. Con il suo governo si è avuto il record storico di autorizzazioni all’esportazioni di armamenti, per circa 15 miliardi di euro. A chi sono andati gli armamenti?

GIORGIO BERETTA – ANALISTA OPAL OSSERVATORIO PERMANENTE ARMI LEGGERE Rappresenta il massimo storico, possiamo dire dall'Unità d'Italia, di esportazione di armamenti da parte dell'Italia

DANILO PROCACCIANTI E a chi sono andate queste armi?

GIORGIO BERETTA – ANALISTA OPAL OSSERVATORIO PERMANENTE ARMI LEGGERE Questo è il più grosso problema. A partire, appunto, dal 2014 vediamo che i maggiori acquirenti destinatari di armamenti italiani non sono più i Paesi della Nato e dell'Unione Europea, ma soprattutto i paesi dell'area del Nordafrica e del Medio Oriente.

DANILO PROCACCIANTI Spicca l'Arabia Saudita. Lei ha scritto più volte.

GIORGIO BERETTA – ANALISTA OPAL OSSERVATORIO PERMANENTE ARMI LEGGERE Spicca perché all'Arabia Saudita è stata concessa, diciamo, un'autorizzazione che io definisco particolarmente odiosa che riguarda la fornitura all'Arabia Saudita di 19 mila 675 bombe aeree prodotte dall'azienda RVM Italia. Ad un paese che era già attivamente impegnato nel conflitto in Yemen senza alcun mandato internazionale e dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite aveva già ripetutamente condannato i bombardamenti indiscriminati da parte dell'Arabia Saudita in Yemen, secondo me è un fatto molto grave

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I viaggi di Matteo Renzi non si limitano all’Arabia Saudita, frequenti sono anche quelli negli Emirati Arabi. A noi ne risulterebbe uno a fine novembre come dimostra questa foto di un volo Emirates. Poi a marzo un altro ancora, questa volta lo scopre La Stampa che racconta del viaggio e dell’alloggio del senatore in un hotel tra i più belli al mondo, il grattacielo Burj al-Arab. Pubblicato l’articolo sembrava tutto finito lì

DANILO PROCACCIANTI E invece? La mattina si sveglia con una sorpresa…

MASSIMO GIANNINI – DIRETTORE “LA STAMPA” Invece la mattina mi sveglio con una sorpresa sì, perché era la domenica io accendo il mio cellulare intorno alle 8 e mi ritrovo un messaggio dello stesso senatore Renzi, che con il suo consueto piglio piuttosto spregiudicato mi scriveva: “Bastava una telefonata, vi sareste risparmiati quella fitta serie di cazzate - testuale - che avete scritto sul giornale. Ci vediamo in tribunale”. A quel punto io mi allarmo non poco perché nonostante io fossi piuttosto sicuro della mia fonte, puoi sempre commettere un errore. Temevo, detta in maniera molto sincera, che di lì a poco sarebbe uscito, magari sui suoi social, un'immagine di Renzi che fa jogging sul Lungarno. A quel punto, comunque, rispondo al messaggio di Renzi, e gli scrivo: “Guarda, mi dispiace, se abbiamo scritto delle cose sbagliate, io me ne assumerò, come ovvio, la responsabilità. Ti chiederò scusa sia personalmente, sia pubblicamente”. Trenta secondi dopo, squilla il mio cellulare ed era lui che mi chiamava. Anche lì, ribadisce il tono spregiudicato del messaggio dell'alba: “Ah te l’ho scritto. Tu mi chiami per fare le interviste, poi per un fatto del genere non ti fai vivo. Se l'avessi fatto, ti saresti risparmiato questo incidente. Adesso la regoliamo in tribunale”. Io dico: guarda, te l’ho già scritto per messaggio te lo ribadisco anche a voce. Mi dispiace molto se abbiamo scritto cose sbagliate. Ti chiederemo scusa se non sei a Dubai, ovviamente – dico - perché non sei a Dubai, no?”. A quel punto succede un fatto sorprendente, perché c'è un attimo di silenzio, e il senatore Renzi mi risponde: “No, no, io sono a Dubai, ma il problema non è questo”. Allora per me si è aperta un'altra fase della giornata. Ho detto: “Guarda, la nostra conversazione può anche finire qua, perché se sei a Dubai, non credo che noi abbiamo scritto altre cose che possano ledere la tua dignità e la tua immagine. E la cosa è finita là. Ho letto e riletto l’articolo che abbiamo scritto. Ci abbiamo aggiunto due giorni dopo un'ulteriore novità.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La novità scoperta dalla Stampa è che a Dubai il senatore Renzi non era da solo, ma in compagnia del suo amico imprenditore Marco Carrai

MASSIMO GIANNINI – DIRETTORE “LA STAMPA” Anche qui, ricostruendo la fitta rete - in questo caso - di affari che legavano Marco Carrai al mondo arabo. E quando parlo di arabo mi riferisco al mondo saudita. C’era una partecipazione dell’aeroporto di Firenze in quota a questo fondo saudita

DANILO PROCACCIANTI Appunto La Stampa scrive di questo suo viaggio a Dubai, sarebbe andato anche con il suo amico imprenditore Marco Carrai, che cosa andate a fare? Perché lei ha annunciato querela ma non ci ha spiegato che cosa andato a fare?

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Faccia per bene. Intanto io non ho annunciato querela. Io faccio azioni civili. Se uno scrive il falso, ho diritto di chiedere al giudice: “Giudice, questo signore ha scritto il falso su di me”, e questo è un fatto di giustizia. La mia attività internazionale personale, privata, è un'attività che risponde a tutti i requisiti di legge, alle forme di trasparenza previste dalla legge e non ha alcun elemento di… come posso dirle… contrasto con l'attività parlamentare.

DANILO PROCACCIANTI Però appunto non mi ha detto che cosa è andato a fare, lei dice attiene alla sua attività però lei è un senatore della Repubblica, insomma per trasparenza…

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Mi faccia capire, questo è il Grande Fratello? Lo so che a voi piace il Grande Fratello, ma chi è abituato ad avere strette frequentazioni con Rocco Casalino sa perfettamente

DANILO PROCACCIANTI no, no, io non sono abituato

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA No, mi scusi. Mi faccia finire la frase. Non ho detto lei, mi faccia finta la frase. Chi è abituato ad avere strette relazioni con Rocco Casalino ha un'idea della politica simile al Grande Fratello

DANILO PROCACCIANTI Quindi è andato per piacere personale, oppure per lavoro? Mi dica solo se per lavoro o per piacere personale

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Le ho detto: tutto ciò che io faccio rispondo alla legge. La legge non la scrive Report. Vorrei capire dal servizio pubblico che mi sta intervistando, se l'idea che lei sta esprimendo è che io, in quanto politico, devo raccontarle anche cosa faccio quando vado in bagno.

DANILO PROCACCIANTI Io non ho detto quando va in bagno, dico quando fa i viaggi internazionali

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Quando vado fuori dal paese, quindi quando esco fuori dal paese devo avere il bracciale elettronico. è una cosa interessante secondo me questa è una visione leggermente illiberale.

DANILO PROCACCIANTI Qual è la tua chiave di lettura? Proprio per non fare insomma del populismo. Renzi, che lavoro sta facendo?

MASSIMO GIANNINI – DIRETTORE “LA STAMPA” Nell’ultimo viaggio di cui noi abbiamo scritto, cioè quello a Dubai, c'era Marco Carrai, riguarda i rapporti fitti, stretti che Matteo Renzi ha, da quando è diventato Presidente del Consiglio in poi, con Israele. Israele che, ricordiamo il 15 settembre del 2020, ha sottoscritto con alcuni singoli Paesi del mondo arabo, in particolare della penisola araba, in particolare gli Emirati Arabi, i famosi accordi di Abramo. Accordi di pace che, tuttavia, hanno rotto, se vogliamo, un diaframma che era sempre esistito tra quella parte di mondo arabo e Israele e con Israele fanno affari. Secondo me è abbastanza evidente, che Renzi per il tramite di Carrai stia svolgendo un ruolo di lobbying, di mediazione di affari, nel legame che esiste tra Israele e il mondo arabo sunnita.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma. Renzi svolgerebbe attività di lobbying o di mediazione, tra Israele e l’Arabia Saudita, così interpreta i viaggi il direttore de La Stampa, Massimo Giannini. Renzi viaggia in compagnia spesso di Marco Carrai che è un suo amico ma anche un imprenditore esperto di cybersecurity; è stato nominato qualche tempo fa console onorario di Israele in Toscana, Lombardia ed Emilia-Romagna. È anche presidente della Toscana Aeroporti dove ha una partecipazione anche un fondo degli Emirati Arabi. Insomma, Renzi incassa dalle consulenze per questi convegni e li incassa da un istituto che è finanziato a sua volta da un fondo sovrano saudita. Questa estate, ad agosto, è emerso anche che Renzi è nel board di una società russa, la Delimobil. È una società che fa car sharing. È presente in molte città russe, ma ha la sede in Lussemburgo. È stata fondata ed è guidata da un italiano, Vincenzo Trani. Ora noi non sappiamo qual è il compenso di Matteo Renzi. Sappiamo però da bilancio, che la Delimobil spende in compensi per l’intero cda (consiglio di amministrazione ndr) circa un milione di euro e si tratta di meno di dieci persone. Tutto regolare, tutto a norma di legge, fa sapere Renzi. Ma non è questo il problema: il problema è che è una questione di opportunità secondo noi. Perché quando Renzi offre la sua competenza nelle consulenze e nel board di società estere, mette a disposizione, offre la sua esperienza da statista italiano. Ora. Non c’è da scandalizzarsi per i compensi – sono in linea con quelli che prendono altri statisti come Schröder, Fillon, Cameron, Barack Obama… solo che c’è un particolare non trascurabile: loro sono ex della politica, non incidono sulla vita politica del loro paese. Renzi è ancora un senatore della Repubblica. È leader di un partito che seppur piccolo, è decisivo nella vita del nostro paese. E Renzi ha cercato anche di incidere grazie ai suoi rapporti con il mondo arabo anche nel 2018 quando aveva svestito i panni da premier, veniva delle esperienze non troppo fortunate dei salvataggi falliti di Alitalia e di Piaggio Aerospace, ha cercato di inserirsi, di aiutare anche Meridiana. Duemila posti di lavoro a rischio e, per un buon auspicio, gli avevano anche regalato delle ali. Che fine hanno fatto queste ali?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il senatore Renzi non si è fatto mancare nemmeno i viaggi in Qatar, e anche in quel paese ha stabilito relazioni fin da quando era premier. Stesso modo di procedere. Dopo Alitalia bisognava salvare Meridiana, e Renzi tira fuori dal cappello la soluzione Qatar Airways. VIDEO RENZI Nessuno ne parla perché fa rumore l’albero che cade, ma non la foresta che cresce. Abbiamo salvato Meridiana in quella fase. Con chi? Con Qatar Airways

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’avventura di Meridiana con Qatar è durata appena due anni, questo è il tempo che è passato da quando nel 2018, quando non era più nemmeno premier, Matteo Renzi aveva annunciato l’accordo per salvare la compagnia

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Fate un applauso a chi in queste ore, nel silenzio, ha chiuso l’accordo con Meridiana e Qatar Airways perché era un accordo fondamentale e sono duemila posti di lavoro salvati. Io una volta in Sardegna ho trovato un comandante che mi ha lasciato le ali. Cioè mi ha dato, mi ha detto io gliele affido a lei perché per noi non abbiamo più un pilota, non abbiamo più un futuro. Me le ha date, tra l’altro adesso gliele restituiremo visto che – no questa è una cerimonia che devi far tu visto che io non sono più membro del governo – però in queste ore è accaduto questo fatto non ne parla nessuno.

DANILO PROCACCIANTI Quindi è lei il famoso pilota che diede le ali a Renzi. Come andarono le cose?

LAVORATORE MERIDIANA/AIR ITALY Non sono un pilota, sono un assistente di volo, però quella persona sono io. Non sapevo che Renzi avesse detto questa cosa qua, ma incontrandolo – non avevamo un gadget, non avevamo una maglietta pulita – e io ho pensato di dargli le ali. Lui è stato ben contento, mi ha detto che me le avrebbe ridate quando la nostra compagnia sarebbe tornata grande, ci hanno mandato per scogli anziché farci tornare grandi. Hanno distrutto il trasporto aereo in Italia

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Oggi Olbia, un tempo quartier generale di Meridiana si presenta così. Tutto fermo e abbandonato

MARCO BARDINI – DIPENDENTE AIRITALY Quel progetto prevedeva che Qatar Airways investisse in Meridiana e si assumessero, a detta dell’amministratore delegato di Qatar Airways, poi addirittura 10mila dipendenti. I passeggeri sarebbero dovuti arrivare a 10 milioni, si sarebbero dovuti comprare secondo quel piano dichiarato 50 aeroplani, non se ne fece niente. Tutto finì in un bagno di sangue.

DANILO PROCACCIANTI Perché per voi adesso sono iniziate le procedure di licenziamento?

MARCO BARDINI –DIPENDENTE AIRITALY Sì, sono state avviate le procedure di licenziamento. Finirà anche la cassa integrazione e se non interverrà nessuna istituzione né nessun investitore, i 1.400 lavoratori di AIR ITALY saranno tutti licenziati.

DANILO PROCACCIANTI Voi nella vostra vicenda vedete un parallelo con la vicenda Alitalia, Piaggio nei rapporti con gli Emirati. In questo caso il Qatar ha usato la vostra compagnia per fare pressioni con gli Stati uniti.

MARCO BARDINI –DIPENDENTE AIRITALY Noi siamo stati in qualche modo utilizzati perché il socio di minoranza sfondasse sul mercato nord-atlantico – Europa, Stati uniti, Canada –all’indomani degli accordi di codesharing di Qatar Airways con American airlines e altre compagnie americane e all’indomani di una maxicommessa di Boeing alla quale partecipò addirittura con stretta di mano anche il presidente Trump, noi ci siamo sentiti a quel punto quasi abbandonati.

DANILO PROCACCIANTI Quindi in qualche modo vi siete sentiti in qualche modo sfruttati, in che senso

MARCO BARDINI – DIPENDENTE AIRITALY Utilizzando appunto la nostra compagnia che all’indomani degli accordi di codesharing con le compagnie americane, appunto hanno comportato la messa in liquidazione di Airitaly. Tra l’altro in una notte, dall’oggi al domani.

DANILO PROCACCIANTI Matteo Renzi l'avete più contattato, si è fatto più vivo?

MARCO BARDINI – DIPENDENTE AIRITALY No, è sparito completamente dal radar e non è più venuto qui

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il 28 marzo scorso, con l’Italia bloccata dal virus, Renzi è volato in Bahrain per assistere al gran premio di automobilismo.

DANILO PROCACCIANTI Avrei tante altre domande, il Gran Premio in Bahrein per esempio

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Ha vinto Vett…

DANILO PROCACCIANTI Era andato solo per il gran premio?

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA No, ha vinto Hamilton. E comunque non ha vinto Vettel, ha vinto Hamilton.

DANILO PROCACCIANTI Quindi è andato solo per il gran premio?

MATTEO RENZI – LEADER DI ITALIA VIVA Anche se secondo me doveva vincere Verstappen perché se l’è meritato nettamente di più Verstappen, però ha fatto un errore finale…

DANILO PROCACCIANTI Però mentre la gente sta chiusa a casa lei va a vedere il Gran Premio. Questa era la domanda, oppure è andato anche lì per lavoro?

MATTEO RENZI– LEADER DI ITALIA VIVA E ha vinto con una mossa finale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non si può dire che non sia esperto di Formula Uno. Comunque purtroppo i tentativi di salvare le compagnie aeree non sono andati a buon fine. Alitalia, Piaggio Aereospace e anche Meridiana. L’abbraccio tra arabi e lavoratori è stato un abbraccio mortale. A proposito, ma che fine hanno fatto le ali che gli ha donato il lavoratore?

Da iltirreno.gelocal.it il 22 ottobre 2021. Il video finì sui social. Si vedevano lui moglie e figli che giocavano a pallavolo nel giardino della villa. Pieno lockdown. Le immagini rimbalzarono da una chat all’altra su Whatsapp, e alla fine perfino sul suo telefono. Un’invasione della privacy che Matteo Renzi non gradì per niente, tanto che denunciò il vicino che aveva filmato la scena. Adesso quel vicino ha ottenuto l’assoluzione ed estinto il reato e dunque il processo a suo carico pagando un ristoro di 6. 500 euro, ma non eviterà la causa civile. Renzi non perdona e, dopo il procedimento penale, l’ha citato in giudizio per ottenere un risarcimento. Nel video, infatti, oltre a costituire una violazione della privacy, si affermavano anche cose false, tra cui la circostanza che nel giardino della villa di Renzi fossero presenti anche degli amici, in violazione delle norme anti Covid. Il vicino di casa, difeso dall’avvocato Mario Taddeucci Sassolini, oltre a presentare una lettera di scuse ha versato a Renzi, parte civile nel procedimento e assistito dall’avvocato Federico Bagattini, un assegno da 6.500 euro, cifra ritenuta congrua dal giudice per estinguere il reato. Nella sua Enews, tuttavia, il senatore di Italia Viva ha afferma che la settimana prossima lui e la sua famiglia procederanno alla richiesta danni anche in sede civile. «È scandaloso – scrive Renzi in una lettera inviata al giudice del processo penale – che si possano riprendere dei minorenni, per di più all’interno della loro abitazione o giardino. E forse ancora più scandaloso che si possa affermare che i minorenni violino delle regole stabilite dal governo per tutti i cittadini». «Mia moglie Agnese – prosegue la lettera – è insegnante ed è stata costretta a spiegare alla cerchia di conoscenti che non vi era alcuna violazione in casa nostra del Dpcm. Ma soprattutto lo ha dovuto fare a scuola, davanti a coetanei dei nostri figli». «I componenti della scorta – aggiunge ancora il senatore – sono stati pesantemente colpiti nella loro professionalità. Sostenere che personale dell’Aisi si possa prestare a accompagnare amici minorenni da una casa all’altra profondamente lesivo della reputazione»..

Il vicino di casa dovrà risarcire Renzi: lo filmò in casa durante il lockdown. L'uomo dovrà versare 6500 euro per il video girato in piena pandemia che ritraeva la famiglia di Renzi giocare a pallavolo in giardino. Ora l'ex premier fa sapere che chiederà i danni anche in sede civile. Il Dubbio il 21 ottobre 2021. Il giudice del tribunale di Firenze ha considerato congrua, per estinguere il reato di intromissione illecita nella vita privata, la cifra di 6.500 euro versata con un assegno al senatore Matteo Renzi da un suo vicino di casa. L’uomo era finito sotto processo perché aveva filmato dalla sua finestra, in pieno lockdown, la famiglia dell’ex premier che giocava a pallavolo nel giardino della sua villa fiorentina nella zona di piazzale Michelangelo, realizzando un video, poi diventato virale, in cui la voce fuori campo affermava cose risultate false, tra cui la circostanza che nel giardino della villa di Renzi fossero presenti anche degli amici dei figli, in violazione delle norme anti Covid, e che gli uomini della scorta del leader di Italia Viva li avessero accompagnati da una casa all’altra. Il vicino di casa dell’ex premier ha anche presentato una lettera di scuse. La vicenda penale, nella quale Renzi era parte civile difeso dall’avvocato Federico Bagattini, si è così conclusa. Oggi, però, nella sua Enews, il leader di Italia Viva ha annunciato che la prossima settimana prossima lui e la sua famiglia procederanno alla richiesta di danni anche in sede civile. «È scandaloso – ha scritto Renzi in una lettera inviata al giudice del processo penale – che si possano riprendere dei minorenni, per di più all’interno della loro abitazione o giardino. E forse è ancora più scandaloso che si possa affermare che i minorenni violino delle regole stabilite dal Governo per tutti i cittadini». E ha aggiunto: «Mia moglie Agnese è insegnante ed è stata costretta a spiegare alla cerchia di conoscenti che non vi era alcuna violazione in casa nostra del Dpcm. Ma soprattutto lo ha dovuto fare a scuola, davanti a coetanei dei nostri figli». Nella lettera al giudice del processo penale Renzi, a proposito dei componenti della sua scorta ha sottolineato che «sono stati pesantemente colpiti nella loro professionalità» perché «sostenere che personale dell’Aisi si possa prestare a accompagnare amici minorenni da una casa all’altra è profondamente lesivo della reputazione». «Di me non parlo, perché il danno reputazionale e politico è evidente. Ma ciò che mi fa male in questa vicenda non è il politico aggredito, quanto il genitore ferito. Il genitore che non riesce a proteggere i propri figli dalle fake news e che si vede violato nella sua intimità familiare da una valanga di bugie», ha detto l’ex premier.  «Non mi fermano nemmeno le polemiche sulle indagini» sulla vicenda Open, ha aggiunto nella sua ultima enews spiegando: «L’udienza dal GUP sarà nella primavera 2022, questo processo ci accompagnerà almeno fino al 2025». «Basta avere pazienza e la verità arriva: il tempo è davvero galantuomo, come dimostrano le varie cause che sto e stiamo vincendo in sede civile – ha sottolineato Renzi. Possono aggredirci quanto vogliono, noi non perdiamo la calma e chiediamo giustizia. Ovunque».

Da vigilanzatv.it il 18 ottobre 2021. Tiziano Renzi, padre del leader di Italia Viva Matteo, ha fatto sapere che il Vicedirettore del Fatto Quotidiano Marco Lillo è stato condannato dal Tribunale di Firenze a risarcirlo per una somma di 30.000 euro più le spese legali. La sentenza depositata - come precisa Askanews - il 15 ottobre scorso si riferisce al caso Consip, sulla quale Marco Lillo aveva scritto un articolo chiamando in causa Tiziano Renzi. Il quale ha commentato così la decisione del Tribunale di Firenze: "Per la terza volta giornalisti del Fatto Quotidiano sono costretti a risarcirmi. Continuerò in ogni sede a combattere per la verità e per la giustizia"

Il giornalista del Fatto Quotidiano e il caso Consip. Marco Lillo condannato a risarcire Tiziano Renzi: il vice di Travaglio dovrà sborsare 30mila euro. Redazione su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Il vicedirettore del Fatto Quotidiano Marco Lillo condannato a sborsare 30mila euro, più spese legali, per risarcire Tiziano Renzi, imprenditore e padre dell’ex premier e leader di Italia Viva Matteo Renzi. Il giornalista d’inchiesta, secondo del direttore Marco Travaglio a Il Fatto, avrebbe scritto falsità sul caso Consip: esploso nel 2016 intorno alla società del ministero dell’Economia che gestisce beni e sevizi per la pubblica amministrazione. Un’inchiesta partita dal procuratore Henry John Woodcock con le indagini sull’imprenditore campano Alfredo Romeo (editore di questo giornale) e quindi proseguita con indagini su generali e alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri e ministri. E su quel caso fu proprio Il Fatto Quotidiano a lanciarsi a rotta di collo e con una delle sue principali firme, Lillo, cui non bastarono le pagine del cartaceo: gli ci vollero dei libri (Di Padre in Figlio, per esempio, su Renzi senior e junior; è lui il responsabile della casa editrice Paper First). Per alcune frasi in un’intervista in diretta Radio24, risalenti al 2017, il vicedirettore della testata è stato condannato lo scorso 15 ottobre dal Tribunale di Firenze: 30mila euro più spese legali. “Per la terza volta – il commento di Tiziano Renzi – giornalisti del Fatto sono costretti a risarcirmi. Continuerò in ogni sede a combattere per la verità e per la Giustizia”. Matteo Renzi ha osservato come dopo prime pagine e aperture di giornali “quando arriva la verità di una sentenza del giudice sta in un trafiletto. È la stampa, bellezza!”. Il giornalista ha già fatto sapere che ricorrerà in appello contro la decisione. Gli altri due contenziosi tra Renzi e il Fatto non riguardano lui. Tiziano Renzi – prosciolto da altri tre capi d’accusa – dovrà intanto rispondere di traffico di influenza in uno dei filoni dell’inchiesta, secondo quanto deciso dal gup del Tribunale di Roma Annalisa Marzano. Per la stessa fattispecie penale e altri reati minori andranno a processo, che partirà il prossimo 16 novembre davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma, l’imprenditore Alfredo Romeo, l’ex parlamentare Italo Bocchino, Carlo Russo e Stefano Massimo Pandimiglio. Romeo lo scorso marzo è stato prosciolto dal Gup di Napoli dai reati di corruzione e di reati fiscali.

Matteo Renzi attacca le toghe al Senato? Prima l'indagine su presta, poi il padre al giudizio: solo un caso? Libero Quotidiano il 27 settembre 2021. Dalla "giustizia a orologeria" si passa direttamente alla "vendetta delle toghe". Non usa mezzi termini, il Giornale, per delineare la situazione di Matteo Renzi. Pochi giorni fa il leader di Italia Viva aveva denunciato apertamente le correnti nella magistratura italiana, intervenendo in Senato sulla Riforma Cartabia. "Appena parla - scrive il quotidiano diretto da Augusto Minzolini - rispunta l'indagine di Bankitalia sui fondi di Lucio Presta". E oggi peraltro suo padre, Tiziano Renzi, è stato rinviato a giudizio per traffico d'influenze nell'ambito della maxi-inchiesta Consip. Due indizi che, secondo i più maliziosi, farebbero una prova. "Sarà sospetta l'operazione, ma pure la tempistica non scherza", scriveva Massimo Malpica sul Giornale. ricapitolando la vicenda dell'inchiesta su Renzi e il manager televisivo Presta, indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni in relazione al compenso percepito per il documentario dell'ex sindaco Firenze secondo me. Quei bonifici, secondo gli inquirenti, sarebbero in realtà un finanziamento occulto e illecito all'attività politica di Renzi. A far saltare la mosca al naso al Giornale è il fatto che si sia tornati a parlare di quella vicenda, che risale all'estate, quattro giorni dopo il duro discorso a Palazzo Madama del leader di IV. In aula, Renzi aveva sottolineato di aver preso "due avvisi di garanzia" subito dopo aver detto che "c'era una procura che stava oltrepassando i limiti dell'azione giudiziaria". E la rappresaglia dei magistrati e del mondo che gravita intorno alle Procure, anche mediatico, non si sarebbe fatta attendere, è la tesi del Giornale. "Il problema non è la separazione delle carriere - aveva tuonato in Senato Renzi -, bensì lo strapotere vergognoso delle correnti della magistratura. Devi fare carriera se sei bravo non se sei iscritto ad una corrente. Per anni noi abbiamo acconsentito non a singoli magistrati, ma alla subalternità della politica di far decidere a un pm chi poteva fare politica e chi no perché si è consentito che l’avviso di garanzia fosse una condanna". E il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi, da anni "vittima designata" per molti giornali vicinissimi alla magistratura come il Fatto quotidiano, sembra essere un'altra pagina da aggiungere al dossier.

Massimo Malpica per il Giornale il 6 novembre 2021. Se è stato finanziato illecitamente lo stabilirà la magistratura, ma nel frattempo Matteo Renzi viene lapidato con le stesse carte del fascicolo dell'inchiesta Open, con una meticolosità senza precedenti e, spesso, con argomenti che nemmeno sono oggetto dell'indagine della procura fiorentina che ipotizza come la fondazione Open fosse stata utilizzata illecitamente per finanziare la corrente dell'ex premier. È il caso delle dichiarazioni dei «big» del Pd chiamati dai pm a raccontare che cosa sapessero di Open, i cui verbali sono stati riportati ieri dal Corriere della Sera. Dall'ex segretario Pier Luigi Bersani all'ex tesoriere Antonio Misiani, passando per Rosy Bindi, Maurizio Martina e Matteo Orfini, più che notizie di reato finiscono nei faldoni della procura di Firenze accuse politiche, come nel caso di Bersani che mette nero su bianco come la componente renziana fosse interessata, nella sua scalata al Partito democratico, a «tagliarne le radici della sinistra storica, politica e sindacale». I volti noti dem, spesso ostili all'ex sindaco di Firenze, alzano le mani e scuotono la testa quando si tratta di dichiarare se fossero a conoscenza di finanziamenti diretti a Open da parte di parlamentari fedeli a Renzi, ma sono piuttosto loquaci nel criticarne la linea politica come appunto Bersani o nel giustificare il crollo dei finanziamenti privati al Pd con gli scandali che avevano travolto il partito, da Lusi a Mafia Capitale. Ma dal fascicolo dell'inchiesta toscana saltano fuori anche i conti correnti, che finiscono passati al setaccio sul Fatto quotidiano, un destino che non era toccato in sorte nemmeno a Silvio Berlusconi. I movimenti avere di Renzi tra 2019 e 2020 vengono snocciolati uno dopo l'altro e messi sotto la lente d'ingrandimento, dai compensi per gli speech agli incarichi retribuiti con la Stanford University, fino al già noto bonifico da 20mila euro ricevuto da Piero Pelù a febbraio 2020 e relativo a una conciliazione tra il cantante e Renzi per far ritirare una querela per diffamazione presentata dal politico dopo che, nel 2014, Pelù dal palco del concertone del Primo maggio aveva definito l'allora premier «non eletto» e vicino alla massoneria.

Fondazione Open, dal giornale coreano ai sauditi: ecco chi pagava i discorsi di Renzi. Valentina Marotta e Antonella Mollica su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. Dal 2016 al 2018 2,6 milioni per le conferenze di Renzi: tutti i versamenti sono elencati negli atti dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open, la «cassaforte» che avrebbe consentito la scalata dell’allora sindaco di Firenze a Palazzo Chigi. L’Arcobaleno Tre di Lucio Presta e l’Algebris, società di gestione di risparmio globale di Davide Serra. Ma anche la Celebrity Speakers Ltd (dal sito «agenzia altoparlanti leader a livello mondiale»), il ministro delle finanze e la commissione per il turismo dell’Arabia Saudita. La casa editrice svizzera che pubblica il giornale economico Verlag Finanz und Wirtschaft Ag e il principale quotidiano coreano Chosun Ibo. Sono solo alcune delle società che, tra il 2016 e il 2018, hanno sborsato fino a oltre 2 milioni e mezzo di euro (per la precisione 2.644.142,48 euro) per un discorso di Matteo Renzi. Attività legittima, che non è oggetto di indagine. Ma tutti i versamenti sono elencati negli atti dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open, la «cassaforte» che avrebbe consentito la scalata dell’allora sindaco di Firenze alla presidenza del consiglio dei ministri. Secondo il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi, Open avrebbe agito come un’articolazione di partito, raccogliendo finanziamenti utili a sostenere l’attività dell’allora premier. E lui reagisce: «Prendo atto della violazione reiterata di precetti costituzionali e di norme di legge nel silenzio di larga parte della pubblica opinione. E conferma il proprio impegno per ottenere giustizia sia in sede civile che penale».

La «cassa spesa»

Secondo l’accusa Open era come un bancomat, «una cassa spesa, una creatura simbiotica con Renzi» l’ha definita il tribunale del Riesame di Firenze nel provvedimento che ha confermato per la terza volta il sequestro dei documenti all’imprenditore Marco Carrai. Sempre dagli atti delle indagini emerge che la spesa più importante è quella sostenuta per le «Leopolde»: 358 mila euro nel 2014, 496 mila euro nel 2015. Per le primarie e il ballottaggio per la nomina del candidato premier della coalizione del centro sinistra nel 2012, si spendono 90mila euro, che comprendono anche la «festa dei volontari per Matteo Renzi», con tanto di servizi di catering e baby parking. Ma c’è di più.

Le conferenze

Tra il 2019 e il 2020 Renzi gira il mondo per conferenze pagate non meno di 15mila euro. La Guardia di Finanza elenca «la Invest Industrial di Andrea Bonomi (25 mila) e la società di private equity 21 Investimenti Sgr di Alessandro Benetton (19 mila)». Oltre 507 mila euro vengono accreditati in due anni dalla Celebrity Speaker Ltd, «società di global speaker del Regno Unito», per svariati interventi. Altri 44 mila euro dalla Vbq Limited, «società global speaker Regno Unito», e 83 mila euro dalla This is spoken Ltd, altra soc. consulenza amm.-gest. britannica. Il produttore Lucio Presta versa 653 mila euro per il documentario televisivo «Firenze secondo me» e su questo indagano i magistrati romani che ipotizzano un finanziamento illecito. Quasi 44 mila provengono dal ministero delle Finanze di Mohamed Bin Salman, altri 40 mila dalla «Saudi Commission For Turism». Emolumenti che si aggiungono ai circa 80 mila euro — non riportati nel documento — che Renzi percepirebbe dalla sua partecipazione al board della fondazione saudita Future Initiative Investment.

Le banche

Se 64 mila euro sono arrivati dalla banca Usa Interaudi Bank, 25 mila li ha versato l’istituto di credito svizzero Julius Baer International. Mentre 29mila euro li avrebbe versati il «Chosun Ilbo», il «principale quotidiano coreano». Renzi gira il mondo e non bada a spese. Nel 2018 viene invitato a Washington per i cinquanta anni dall’omicidio di Robert Kennedy. All’amico imprenditore Vincenzo Manes chiede: «C’è qualche tuo amico riccone che viaggia dopo le 18 verso Washington? È una figata storica parlare a Arlington, ricordando Bob Kennedy». Manes propone di chiedere a Marchionne e all’ex segretario di Stato di Clinton, Kerry. Renzi è secco: «No, lascia stare: sembriamo morti di fame». Alla fine il conto viene addebitato a Open. «Non abbiamo alternative», dice Renzi in un messaggio intercettato. Così il 5 giugno, secondo quanto ricostruito dagli investigatori della guardia di finanza, Open firma il contratto per noleggiare del jet per gli Usa. In cassa ci sono solo 6mila euro. «134.900??? Ma ha perso la testa?» scrive in un sms Alberto Bianchi l’allora presidente della Fondazione a Luca Lotti. Che risponde: «Non ho parole. Gli ho detto che senza copertura non si può». Alla fine però il finanziamento arriva dall’imprenditore parlamentare Pd Gianfranco Librandi. E il senatore vola negli States.

Inchiesta Open, Renzi conferenziere: ingaggi da inglesi, coreani, arabi, fondi internazionali e anche dai Benetton. Il senatore: "Violata la legge". Andrea Bulleri su La Repubblica il 6 novembre 2021. Nell'inchiesta sulla Fondazione del leader di Iv - che annuncia querele per violazioni costituzionali - allegati i guadagni per la sua legittima attività come relatore, 2,6 milioni in due anni. La fattura degli imprenditori veneti un anno e mezzo dopo il crollo del ponte Morandi. Dalle società di "global speaker" del Regno Unito al ministero delle finanze dell'Arabia Saudita. Dal "principale quotidiano coreano" (il "Chosun Ilbo") a fondi internazionali di private equity, tra cui la " 21Investimenti Sgr" di Alessandro Benetton. Sono solo alcuni dei committenti che dal 2018 al 2020 hanno effettuato bonifici - per un totale di circa 2,6 milioni di euro - sul conto corrente di Matteo Renzi, per aggiudicarsi una o più conferenze tenute dall'ex premier. Un'attività, quella di conferenziere all'estero, che il leader di Italia Viva ha più volte rivendicato come "perfettamente legittima" e "prevista dalla legge", con compensi sui quali - ha sempre ripetuto - "pago le tasse in Italia". Ma che in ogni caso, per quanto non oggetto di indagine da parte dei magistrati fiorentini, è finita in un'informativa della guardia di finanza datata 10 giugno 2020, relativa alle indagini sulla Fondazione Open. "Tra gli allegati alla segnalazione per operazioni sospette - scrive la finanza - risulta accluso l'estratto, dal 14.06.2018 al 13.03.2020, del conto corrente Bnl - Filiale Senato di Roma intestato a Renzi Matteo". Renzi, nell'inchiesta su Open, è indagato per finanziamento illecito ai partiti (per la procura, Open avrebbe agito come "articolazione di partito politico"). Dopo la diffusione dei suoi compensi il senatore Renzi ha dato mandato ai suoi avvocati di agire sia penalmente che civilmente per "la violazione reiterata di precetti costituzionali e di norme di legge nel silenzio di larga parte della pubblica opinione". Nell'informativa vengono elencati compensi per conferenze dal fondo Algebris del finanziere Davide Serra (147 mila euro), dalla Invest Industrial di Andrea Bonomi (25 mila) e dalla società di "private equity" 21 Investimenti Sgr di Alessandro Benetton (19 mila). Dalle carte risulta che la fattura è stata emessa in data 5 dicembre 2019 e va ricordato che più di un anno prima, il 14 agosto del 2018, il crollo del ponte Morandi a Genova aveva generato un'ondata di indignazione e di proteste, anche sul fronte politico, nei confronti della famiglia Benetton nella sua veste di principale azionista di Autostrade spa. "Dalla disamina dell'estratto conto - annotano i finanzieri - si rilevano: in avere accrediti di bonifici per complessivi 2.644.142,48 euro". E poi "in dare, uscite per 2.543.735,66 di cui 1.221.009 sono bonificati verso altro rapporto intestato allo stesso Renzi". E numerosi sono i bonifici relativi agli "speech" tenuti all'estero dall'ex premier. A partire dagli oltre 507 mila euro accreditati nel giro di due anni dalla Celebrity Speaker Ltd, "società di global speaker del Regno Unito". Un compenso che secondo quanto si apprende sarebbe relativo a più conferenze. Ci sono poi 44 mila euro dalla Vbq Limited, altra "società global speaker Regno Unito", e 83 mila euro dalla This is spoken Ltd, altra "soc. consulenza amm.-gest." britannica. E se circa 653 mila euro arrivano dalla Arcobaleno Tre di Lucio Presta (indagato per finanziamento illecito dalla procura di Roma proprio per i compensi girati al leader di Italia Viva, per il suo documentario televisivo "Firenze secondo me"), alcune decine di migliaia di euro provengono invece direttamente dall'Arabia Saudita. Quasi 44 mila dal ministero delle Finanze di Mohamed Bin Salman, altri 40 mila dalla "Saudi Commission For Turism". Emolumenti che si aggiungono ai circa 80 mila euro - non riportati nel documento - che Renzi percepirebbe dalla sua partecipazione al board della fondazione saudita Future Initiative Investment. Infine le banche: 64 mila euro arrivano dalla banca Usa Interaudi Bank, 25 mila dall'istituto di credito svizzero Julius Baer International. Tra i finanziatori spunta pure il "Chosun Ilbo", che i finanzieri descrivono come il "principale quotidiano coreano". Per uno speech di Renzi avrebbe pagato oltre 29 mila euro.

Assalto a Renzi "Il Fatto" pubblica il conto corrente e i suoi finanziatori. E lui: ora querelo. Massimo Malpica il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Se è stato finanziato illecitamente lo stabilirà la magistratura, ma nel frattempo Matteo Renzi viene lapidato con le stesse carte del fascicolo dell'inchiesta Open. Se è stato finanziato illecitamente lo stabilirà la magistratura, ma nel frattempo Matteo Renzi viene lapidato con le stesse carte del fascicolo dell'inchiesta Open, con una meticolosità senza precedenti e, spesso, con argomenti che nemmeno sono oggetto dell'indagine della procura fiorentina che ipotizza come la fondazione Open fosse stata utilizzata illecitamente per finanziare la corrente dell'ex premier. È il caso delle dichiarazioni dei «big» del Pd chiamati dai pm a raccontare che cosa sapessero di Open, i cui verbali sono stati riportati ieri dal Corriere della Sera. Dall'ex segretario Pier Luigi Bersani all'ex tesoriere Antonio Misiani, passando per Rosy Bindi, Maurizio Martina e Matteo Orfini, più che notizie di reato finiscono nei faldoni della procura di Firenze accuse politiche, come nel caso di Bersani che mette nero su bianco come la componente renziana fosse interessata, nella sua scalata al Partito democratico, a «tagliarne le radici della sinistra storica, politica e sindacale». I volti noti dem, spesso ostili all'ex sindaco di Firenze, alzano le mani e scuotono la testa quando si tratta di dichiarare se fossero a conoscenza di finanziamenti diretti a Open da parte di parlamentari fedeli a Renzi, ma sono piuttosto loquaci nel criticarne la linea politica come appunto Bersani o nel giustificare il crollo dei finanziamenti privati al Pd con gli scandali che avevano travolto il partito, da Lusi a Mafia Capitale. Ma dal fascicolo dell'inchiesta toscana saltano fuori anche i conti correnti, che finiscono passati al setaccio sul Fatto quotidiano, un destino che non era toccato in sorte nemmeno a Silvio Berlusconi. I movimenti avere di Renzi tra 2019 e 2020 vengono snocciolati uno dopo l'altro e messi sotto la lente d'ingrandimento, dai compensi per gli speech agli incarichi retribuiti con la Stanford University, fino al già noto bonifico da 20mila euro ricevuto da Piero Pelù a febbraio 2020 e relativo a una conciliazione tra il cantante e Renzi per far ritirare una querela per diffamazione presentata dal politico dopo che, nel 2014, Pelù dal palco del concertone del Primo maggio aveva definito l'allora premier «non eletto» e vicino alla massoneria. Eppure, come tra l'altro premette lo stesso quotidiano nel pezzo sulla lista movimenti renziana, si tratta di soldi incassati legittimamente, e che soprattutto non sono affatto oggetto dell'indagine fiorentina. Facile insomma capire la frustrazione del leader di Italia viva, quando ringhia contro la «reiterata violazione di ogni forma di privacy», come appunto nel caso del «segreto bancario che vale per tutti tranne che per me», e annuncia «il proprio impegno per ottenere giustizia sia in sede civile sia penale». Ma a scandalizzarsi per la gogna mediatica, oltre al diretto interessato, sono quasi solo voci interne allo stesso partito di Renzi. Come Michele Anzaldi, segretario della commissione di vigilanza Rai, che attacca la «gravissima deriva» per cui «un giornale pubblica l'estratto conto personale di un senatore» mentre «in Italia non si riesce a sapere quanto guadagnano i giornalisti esterni invitati nei talk Rai» e «la tv pubblica si rifiuta di fare trasparenza su opinionisti pagati con soldi dei cittadini». Duro anche il vicepresidente di Iv alla Camera Marco Di Maio, che ricorda come pubblicare quei dati bancari sia «contro la Costituzione». E nel Pd? Ad alzare la voce è solo il renziano Andrea Marcucci, per il quale la deriva mediatica sull'inchiesta Open è «un passo in più verso l'abisso». Massimo Malpica

Matteo Renzi su tutte le furie: "Messo online il mio conto corrente". Anche Marco Travaglio in tribunale? Libero Quotidiano il 06 novembre 2021. La guerra tra Matteo Renzi e Marco Travaglio non finisce qui. Questa volta il Fatto Quotidiano pubblica l'estratto conto del leader di Italia Viva. Una violazione della privacy, quella sul giornale in edicola sabato 6 novembre, che ha mandato su tutte le furie il diretto interessato. "Hanno messo online il mio conto corrente, violando Costituzione e Leggi. Hanno scelto come testimone dell’accusa penale un avversario politico. Hanno captato comunicazioni e intercettazioni con un metodo che è stato contestato persino dalla Cassazione", ha esordito il senatore. Renzi non si capacita di come quanto accaduto non possa indignare i media e poi punta il dito: "Da anni spendono centinaia di migliaia di euro e impiegano decine di finanzieri per una caccia all‘uomo teorizzata dalla corrente dei giudici di Magistratura Democratica come la stretta di un 'cordone sanitario attorno al senatore Renzi'". Da qui la promessa che arriva dal suo ufficio stampa: "Il senatore Renzi ha dato mandato ai propri legali di agire in tutte le sedi istituzionali per verificare la correttezza delle acquisizioni e delle pubblicazioni di queste ore. Il senatore Renzi prende atto della violazione reiterata di precetti costituzionali e di norme di legge nel silenzio di larga parte della pubblica opinione. E conferma il proprio impegno per ottenere giustizia sia in sede civile che penale".

Lo scoop "inquietante" del quotidiano di Marco Travaglio. Estratto conto di Renzi pubblicato dal Fatto, blitz in stile DDR di Travaglio e co.: “Violata la Costituzione”. Redazione su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Il titolo: “Ecco chi paga Renzi: Arabia, Benetton & C.”. È un blitz quello de Il Fatto Quotidiano contro Matteo Renzi, senatore, ex Presidente del Consiglio, ex segretario del Partito Democratico e fondatore e leader di Italia Viva. Il giornale del direttore Marco Travaglio ha pubblicato l’estratto conto privato dell’onorevole: un attacco senza precedenti o quasi nel giornalismo. Giornalismo? Gossip? Sarà. Un focus sulla situazione personale patrimoniale di Renzi: nessuna informazione su possibili indagini. Il documento sarebbe saltato fuori da una Procura. Altro che presunzione di innocenza. Addio privacy. I conti di Renzi messi in fila e in tabella: 2,6 milioni di euro in due anni. Due pagine piene zeppe: firma di Valeria Pacelli. Tra le voci il “principale giornale coreano”, il ministero delle Finanze Saudita, la commissione turismo Saudita, case editrici, Stanford University in Italy e il cantante rock Piero Pelù che lo aveva definito “boy scout di Licio Gelli” (20mila euro per il contenzioso civile). Un blitz da DDR, altro che intercettazioni e Le vite degli altri. “C’è – attacca il pezzo – una società di consulenza del Regno Unito e anche un quotidiano coreano. E ancora: due società italiane di cui una fondata da Alessandro Benetton e persino il ministero delle Finanze dell’Arabia Saudita. Ecco chi paga gli speech di Matteo Renzi. In totale, dal 2018 al 2020, il senatore oggi leader di Italia Viva, ha guadagnato (non solo con gli speech) oltre 2,6 milioni di euro in totale. Il dettaglio degli incassi (legittimi) dell’ex premier, sia per le conferenze ma anche per altro, ad esempio per i libri, sono finiti agli atti dell’indagine della Procura di Firenze. Qui Renzi è accusato di concorso in finanziamento illecito assieme agli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi. Al centro dell’indagine ci sono i contributi volontari finiti nelle casse della Open, che i magistrati ritengono essere stata un’articolazione politico-organizzativa della corrente renziana del Pd. Sono migliaia gli atti depositati dai pm. Tra questi c’è anche un’informativa del 10 giugno 2020 della Guardia di Finanza che contiene anche gli estratti del conto corrente intestato a Renzi. Gli incassi dell’ex premier non sono oggetto di indagine: non è per questo che Renzi è finito sotto inchiesta”. Et voilà: lo scoop.

Le reazioni

E via a due pagine di riepilogo e spiegone sull’estratto conto di Matteo Renzi. Appassionante di certo se non fosse allarmante. Il metodo, dicevamo, senza precedenti fa montare la polemica ma soprattutto la preoccupazione, anzi la paura, il terrore puro: molti i politici indignati, forse anche spaventati da un raid che potrebbe interessare chiunque, domani, e quindi anche loro. Tutti convengono: è inquietante.

“La procura – ha scritto su Twitter il parlamentare di Azione Enrico Costa – acquisisce l’estratto conto bancario privato di Renzi, che magicamente finisce pubblicato, voce per voce, sul Fatto. Un atto istruttorio utilizzato per gossip giornalistico. Purtroppo – ha aggiunto – le sanzioni per questa violazione sono ridicole e tutti se ne fregano”. Il fondatore di Fratelli d’Italia Guido Crosetto: “Su Il Fatto trovate pubblicato, uscito illegalmente dagli atti istruttori della Procura, l’estratto conto privato di @matteorenzi . Prossimamente magari quello della sua carta di credito o di quella della moglie. Poi, perché no, l’elenco dei siti web visitati. E le foto in bagno”. Altri, tanti altri, intervengono con lo stesso tono.

La replica di Renzi

Matteo Renzi ha risposto in serata alle attenzioni, che a questo punto potremmo definire morbose, de Il Fatto con un post sui suoi social network. “Hanno messo online il mio conto corrente, violando Costituzione e Leggi. Hanno scelto come testimone dell’accusa penale un avversario politico. Hanno captato comunicazioni e intercettazioni con un metodo che è stato contestato persino dalla Cassazione.

Da anni spendono centinaia di migliaia di euro e impiegano decine di finanzieri per una caccia all‘uomo teorizzata dalla corrente dei giudici di Magistratura Democratica come la stretta di un ‘cordone sanitario attorno al senatore Renzi.’ Quello che sta accadendo dovrebbe indignare l’opinione pubblica, i media, gli avversari politici. Non i miei amici. Perché i miei amici sanno che vicende come queste non mi impauriscono ma anzi mi danno la carica per rilanciare.

Mi aspetta una lunga battaglia in sede civile e penale per ottenere il risarcimento che merito. La farò con tenacia e metodo, passo dopo passo, senza rabbia. Non ho nulla da temere ed anzi la pubblicazione incivile di questi documenti non fa che confermare la mia trasparenza e correttezza. Ma in sede politica spero che qualcuno rifletta sul fatto che ciò che sta accadendo a me è una reiterata violazione di legge che fa male alle Istituzioni. A chi in queste ore mi sta mostrando affetto va il mio grazie più sincero. Vi voglio bene e vi aspetto alla Leopolda con il sorriso di chi non si è stancato di lottare. Buon weekend”.

"È un processo politico. Indegno pubblicare il conto corrente di Renzi". Francesco Boezi l'8 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex pm Carlo Nordio è critico: "Le inchieste di Tangentopoli avevano reati specifici. Qui non accade". Carlo Nordio, ex magistrato noto al grande pubblico, non ha dubbi sul caso Open: si tratta di un processo politico. Lo stato di salute della giustizia italiana, poi, merita una riflessione che passa da altri appuntamenti processuali, dalla ventilata necessità di una riforma del Csm e da quello che accadrà con l'elezione al Colle di febbraio. Partiamo dal caso della Fondazione Open: un processo politico? «Certo. Direi anzi che questo è il primo, e unico, processo politico della nostra storia repubblicana. Da Tangentopoli in poi sono stati inquisiti molti politici, ma sempre per reati specifici, ancorché connessi alla loro attività politica. Qui invece la magistratura si attribuisce la funzione di decidere cosa sia un partito e cosa no. E questa è politica pura».

Su Open circola una suggestione: che i pm vogliano decidere che cosa sia un partito e che cosa non lo sia. Condivide?

«Ovvio che condivido questa tesi. A quanto si è letto fino ad ora si tratta di una Fondazione che ha ricevuto finanziamenti dichiarati. Renzi sui suoi introiti ha pagato le tasse. Dov'è il reato? Ma se si pretendesse di attribuire alla Fondazione il connotato di un partito allora il reato in teoria potrebbe esserci. Tuttavia la magistratura non può assumersi questo potere di sindacato. Altrimenti, come ho detto, il processo diventa squisitamente politico».

I testimoni del caso Open sono politici. Alcuni di questi sono anche avversari di Renzi. Un quadro atipico?

«Questo no. I testimoni devono essere ammessi dal Tribunale, e quindi non ha importanza la loro attitudine nei confronti dell'imputato. Ma mi lasci dire una cosa. Il ruolo dei testi in questo processo è niente rispetto a quello che altri testi avranno in altri due processi. Lì sì rischiamo un'esplosione a catena».

A quali allude?

«Il primo sarà quello a Palermo a Salvini. Lì saranno chiamati Conte e altri ministri di allora. A Conte sarà chiesto se sapesse o meno della decisione di Salvini di bloccare i migranti, circostanza peraltro già emersa nel dibattito parlamentare, dove Conte ha detto che disapprovava. E allora Conte sarebbe corresponsabile per concorso per omissione. In quanto garante dell'indirizzo politico del governo, il premier aveva il dovere non di dissociarsi ma di intervenire attivamente se uno dei suoi ministri stava commettendo un reato. E poiché non impedire l'evento che si ha il dovere giuridico di impedire equivale a cagionarlo (art. 40 del codice penale) Conte dovrebbe coerentemente esser chiamato a risponderne».

E il secondo?

«Il secondo è il dibattimento a Perugia su Palamara. Saranno citati numerosi testimoni, tutti altissimi magistrati e componenti, o ex componenti del Consiglio superiore della magistratura. Cosa possa emergere sul sistema che Palamara ha già descritto nel suo libro, e di cui lui era solo un piccolo ingranaggio, è facile capire. Rischia di essere un bagno di sangue».

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato l'estratto conto di Matteo Renzi...

«Una cosa indegna, ma dovremmo esserci abituati. Da anni le intimità delle persone, anche quelle più delicate, finiscono sui giornali. Va detto che Renzi, quando era al governo, non ha fatto molto per cambiare questa situazione».

Crede che i giudici politicizzati temano una nuova Assemblea costituente?

«Credo che al momento, dopo lo scandalo Palamara e quello ancor più grave della Procura di Milano abbiano altro cui pensare».

Si finirebbe col discutere di immunità parlamentare e di separazione dei poteri.

«L'immunità parlamentare era stata prevista da costituenti come De Gasperi, Togliatti, Saragat e Nenni, e garantiva la carica proprio dalle interferenze anomale del terzo potere, che vediamo da vent'anni. Abolirla è stata una follia».

Una delle questioni aperte riguarda il Csm. Che tipo di intervento servirebbe?

«Lo scrivo da sempre:il sorteggio. Non - ovviamente - tra i comuni passanti, ma nell'ambito di un canestro formato da magistrati valutati almeno tre volte, docenti universitari e presidenti dei consigli forensi. Per definizione, tutte persone intelligenti e preparate».

Pensa che sia il caso di eleggere un capo dello Stato in grado di pacificare i rapporti tra giustizia e politica?

«Ovviamente sì. Ma come direbbe De Gaulle, vasto programma».

"Diritto alla riservatezza garantito all'accusato dalla Costituzione". Francesco Boezi l'8 Novembre 2021 su Il Giornale. Il giurista: "I finanziamenti non appaiono diretti a influenzare la politica del partito". Il caso della Fondazione Open anima il dibattito dei giuristi e raggiunge i livelli più alti: il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, ex ministro e giurista autorevolissimo la cui fama ha superato i confini nazionali, si domanda pure se, in questa specifica circostanza, sia stata rispettata o meno la riservatezza. Quello che sta accadendo attorno ad Open ed al leader d'Italia Viva Matteo Renzi potrebbe persino riguardare il perimetro giuridico di un partito politico: questa è una delle questioni dibattute da chi, almeno sul piano culturale, sta discutendo del merito dell'inchiesta. Tutto questo avviene in un clima di rinnovato garantismo, sulla scia dell'impostazione promossa dal governo di Mario Draghi, con le riforme volute dal ministro Marta Cartabia. Anche la promozione del referendum sulla Giustizia può contribuire al cambiamento. Per il professor Sabino Cassese, però, la strada da percorrere, per una vera e propria svolta garantista, è tutto fuorché terminata. Al limite, per l'accademico, è intravedibile un «percorso» che è «iniziato». Di cose da fare in materia di Giustizia, poi, ce ne sarebbero eccome. Cassese, nella sua disamina, ne elenca sei.

Professor Cassese, resta una fase complessa per i rapporti tra politica e Giustizia. Che idea si è fatto del caso Open?

«Non conosco gli atti dell'inchiesta e rispondo sulla base delle informazioni che si traggono dai quotidiani di oggi. I finanziamenti appaiono diretti all'organizzazione di convegni, a compensare conferenze e a coprire spese per viaggi. Non sembrano strumenti diretti a influenzare la politica di partito. I finanziatori sono in prevalenza soggetti stranieri, di diversa nazionalità che anch'essi non paiono interessati alla politica nazionale. Bisognerebbe, quindi, controllare la congruità di questi elementi con l'accusa. Inoltre, viene sostenuto che una fondazione sarebbe l'articolazione di un partito, quindi di un'associazione. Si tratta di una figura singolare, poco nota al diritto civile. Infine, ricordo che l'articolo 111 della Costituzione dispone che "la persona accusata di un reato sia...informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico". La riservatezza è stata rispettata in questo caso?»

Può un Pm disporre su cosa sia un partito e su cosa non sia un partito?

«Il partito politico è definito direttamente dalla Costituzione. È un'associazione. La magistratura inquirente deve accertare la corrispondenza della fattispecie concreta con il tipo dell'associazione».

Riforme Cartabia e referendum sulla Giustizia: siamo alla svolta garantista?

«Per giungere a quella che lei chiama svolta garantista, bisogna iniziare un percorso che modifichi circa 50 anni nella storia dell'interpretazione della Costituzione. Questo percorso mi pare iniziato».

Una sua frase clou: "Abbiamo bisogno di essere comunità". Vale anche per la giustizia?

«Certamente, vale anche per la giustizia. E siamo ben lontani dall'essere comunità, considerata la forte diminuzione della fiducia dei cittadini nella giustizia».

Quali riforme strutturali per risolvere il nodo della relazione tra politica e giustizia?

«Autentica indipendenza dell'ordine giudiziario; organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia rimessi interamente al potere esecutivo, come prevede la Costituzione; Consiglio superiore della magistratura garante dell'indipendenza e non organo di autogoverno, come si pretende da alcuni; riservatezza dei magistrati nell'esercizio delle loro funzioni; gestione del personale della giustizia da parte del Csm sulla base di criteri esclusivamente meritocratici; termine della politicizzazione endogena della magistratura; regime speciale, stabilito dalla legge, delle garanzie dei pubblici ministeri (art. 107 della Costituzione). Questi sono alcuni dei passi necessari per assicurare l'indipendenza autentica della magistratura». 

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

L’usurpatore e la ditta. Il conto corrente di Renzi e lo stile rancoroso della politica italiana. Christian Rocca su L'Inkiesta il 7 Novembre 2021. Il mascariamento dell’ex premier va oltre l’inchiesta giudiziaria sulla Fondazione Open e il suo atteggiamento spaccone. Sono alcuni suoi ex compagni di partito, e il mondo a loro collegato, a volerlo annientare perché mossi dal livore personale e per evitare che continui a rovinargli i giochi. Ma così si rendono volenterosi complici del populismo. Soltanto Calenda l’ha capito. Matteo Renzi ha fermato il ducetto del Papeete che ci voleva far uscire dall’euro e ha rimosso i gestori del disastro economico, sociale e sanitario italiano, Giuseppe Conte e Mimmo Arcuri, e con loro anche il portavoce mitomane Rocco Casalino, spalancando così la strada alla nomina di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Renzi sarà anche antipatico, insopportabile e spaccone, e farà anche conferenze nei peggiori bar di Caracas e di Riad, ma un signore che in poco più di un anno ha sventato la presa del potere assoluto di Salvini e Meloni, ha allontanato Conte e Casalino dalle stanze dei bottoni e ha creato le condizioni per l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi e il salvataggio del paese meriterebbe un monumento equestre, la dedica di una piazza, la nomina a senatore a vita. Ma siamo la patria del populismo, siamo mossi dall’invidia sociale, siamo succubi di questo eterno stile rancoroso della politica italiana. Per cui niente statue a cavallo, niente piazze, niente vitalizi ma al contrario ordini di custodia cautelare per i genitori, indagini su family & friends, perquisizioni ai sostenitori e ogni genere di contumelie, diffamazioni e ingiurie possibili e immaginabili. E, ancora, pedinamenti autostradali, ossessioni mediatiche quotidiane, prove taroccate, surreali complotti internazionali di cui sarebbe stato protagonista per abbattere anche Trump (altra statua, fosse vero), invocazioni togate per formare un cordone sanitario da stringergli intorno in modo da limitare la sua agibilità democratica, fake news orchestrate anche in ambienti stranieri, tempeste di merda ingegnerizzate digitalmente per avere il massimo effetto abrasivo, invasione della privacy e ora anche la pubblicazione del suo conto corrente senza che ci fosse alcuna motivazione processuale o giornalistica per renderlo noto. Il conto corrente di Renzi sbattuto sul giornale dei secondini (e poi anche dagli altri, come il malridotto Corriere che ha scambiato la figlia di Bob Kennedy per John Kerry e un’agenzia di conferenzieri, «speakers», per un’azienda di altoparlanti) non è stato il punto più basso di questa vicenda miserabile perché niente può essere più spregevole dell’arresto dei genitori di Renzi colpevoli, appunto, di aver generato Matteo. Ma il punto è: che cosa viene contestato a Renzi in questa grande opera di mascariamento personale, politico e sociale? Gli viene contestato di aver avviato una legittima, ma eticamente problematica, attività privata quando ha lasciato il governo, come ce l’hanno tutti gli eletti alla Camera e al Senato che non siano politici di professione, e di aver ricevuto finanziamenti trasparenti e regolarmente iscritti a bilancio per finanziare le attività pubbliche della Fondazione Open che da anni organizza la Leopolda e altre iniziative. Le inchieste accerteranno se sono stati commessi reati o irregolarità, o anche solo dei pasticci, ma la premessa dell’accusa – ovvero che Open non era una fondazione ma un’articolazione di partito per cui valgono le regole del finanziamento ai partiti e non quelle delle fondazioni – lascia intendere che la questione è pretestuosa e soprattutto politica ancor più che giudiziaria. L’obiettivo degli ex compagni di partito di Renzi, corsi in procura a legittimare le tesi dei magistrati e quotidianamente manganellatori compulsivi su tutti i media, è quello di fargli pagare l’irrispettosa baldanza con cui per qualche anno gli ha sottratto la gestione della ditta (anni in cui, peraltro, Renzi ha eletto Sergio Mattarella al Quirinale e recuperato alla politica Paolo Gentiloni, ovvero le due più autorevoli e rispettate figure istituzionali italiane assieme a Draghi, mentre quelli che poi hanno strappato il Pd dalle mani dell’usurpatore di Rignano si sono prevalentemente impegnati a sostenere la carriera del «leader fortissimo» Giuseppe Conte). L’obiettivo finale degli ex compagni di Renzi è annientarlo personalmente, non solo politicamente, approfittando anche della sua spavalda e irritante disinvoltura, per evitare che l’ex premier possa continuare a prenderli per il naso come sta facendo da tre anni in Parlamento nonostante quel risicato due per cento di consensi che gli assegnano i sondaggi e lo status di uomo più antipatico d’Italia. Il cordone sanitario contro Renzi invocato da una fetta di un potere dello Stato, applaudito dai giornali populisti e complici, alimentato dai saltimbanchi dei talk show, accettato da un sistema politico che trent’anni dopo la via giudiziaria al populismo non ha ancora imparato la lezione, certamente andrà oltre il conto corrente pubblicato sul Fatto, e continuerà a martellare sull’ex Presidente del Consiglio. Tra i leader di partito, ieri soltanto Carlo Calenda ha denunciato l’aggressione mediatica nei confronti di Renzi, pur mantenendo la sua ferma convinzione che un leader politico dovrebbe fare soltanto il leader politico, cosa che rende quindi la sua solidarietà più seria e più nobile. Se si vuole mantenere un minimo di civiltà politica, bisogna ripartire esattamente da qui: dall’aggregazione di tutte le forze che si oppongono al bipopulismo culturale, giudiziario e mediatico italiano, e che si riconoscono nell’agenda Draghi per il risveglio del paese. Dopo aver scampato il pericolo, soltanto dopo, ci sarà tempo per dividersi sul resto. 

Verbali Open source. Con la riforma della presunzione di innocenza non è cambiato nulla. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. I garantisti della maggioranza sono ingenui e non capiscono che ogni volta che si introduce una misura di civiltà in campo giudiziario ecco che i fan della gogna (e i loro house organ) cercano una contromisura, sfruttando i punti deboli delle norme, come l’articolo 114 del codice di procedura penale. Il caso Renzi ne è la conferma. Neanche il tempo di esprimere la doverosa soddisfazione per lo strombazzato varo del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza che la vicenda che coinvolge Matteo Renzi e la fondazione Open ci richiamano alla dura realtà dello sputtanamento perenne dell’imputato a mezzo verbali giudiziari sapientemente distribuiti. Il recente provvedimento del governo Draghi, attuativo di una specifica direttiva europea ormai vecchia di anni, prevede che «è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». Ogni comunicazione verso la pubblica opinione è riservata al procuratore capo «solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico» che peraltro egli dovrà indicare e motivare per iscritto. Spiace deludere l’ottimo deputato Enrico Costa, fautore strenuo della legge che pure si spera porrà rimedio alle indecenze delle conferenze stampa messianiche dei vari procuratori che denunciano la “liberazione” di pezzi del Paese dai fenomeni criminali, ma lo stillicidio dei verbali dell’indagine fiorentina sulla fondazione Open dimostra che le contromisure della solita compagnia giustizialista e forcaiola sono ancora in vigore e la renderanno inutile. Sui vari house organ delle procure sono stati ampiamente pubblicati i contenuti dei verbali delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza sotto la direzione della procura di Firenze sui conti della Fondazione Open, ivi compresi conti correnti personali e mail dei vari indagati, tra cui Renzi, sospettati di elusione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Tali atti, va subito precisato, non sono coperti dal segreto perché depositati per i difensori e dunque, secondo una corrente e prevalente interpretazione dell’articolo 114 del codice di procedura penale, come tali pubblicabili. Qualche mese fa, questo giornale è stato facile profeta nell’indicare che senza la modifica di uno degli articoli più ambigui e peggio scritti del codice, proprio il 114, anche l’applicazione della nuova direttiva sarebbe servita a poco. È quello che sta succedendo: forse in futuro avremo commenti agli arresti più sobri e qualche nickname meno evocativo per le inchieste più importanti che secondo il decreto del governo non potranno essere battezzate con «denominazioni lesive della presunzione di innocenza», qualsiasi cosa ciò voglia dire, ma basterà anticipare agli organi fidati il contenuto di indagini non ancora conosciute dagli indagati né sottoposte al vaglio di un giudice per ottenere lo stesso effetto di indebito indirizzo di un processo. Un’autorevole corrente di pensiero sostiene che, poiché lo stesso articolo 114 prescrive che «se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento , se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello», il segreto venga meno solo per le parti e sia da mantenere per il pubblico, almeno sino a che le prove non siano mostrate al giudice. È la teoria mutuata dal diritto anglosassone della virgin mind del giudice che dovrebbe arrivare al dibattimento avvolto da un “velo di ignoranza” sul contenuto degli atti. In Inghilterra e negli Stati Uniti è una cosa seria e le violazioni sono punite severamente fino all’invalidazione degli atti di indagine. Invece, in Italia il giudice arriva al processo già reso edotto di cosa vi troverà e quando alla verifica del dibattimento troverà ridimensionato il materiale di accusa che gli è stato presentato come granitico, dovrà affrontare l’opinione pubblica che non capirà decisioni finali che smentiscono le verità diffuse sui media con conseguente pioggia di critiche cui non sempre si ha la forza di sottostare. Basta pensare a cosa diffondono le redazioni televisive di programmi dedicati al gossip giudiziario in chiave colpevolista, ma il fenomeno della pubblicazione di atti, intercettazioni, pedinamenti e foto delle indagini, sapientemente distillati, costituisce la più clamorosa e radicale smentita al principio della presunzione di non colpevolezza sicché la legge appena approvata rischia di essere solo un palliativo di una patologia grave. Resta da chiedersi come mai i garantisti presenti in Parlamento e nella compagine di governo continuino a commettere le solite ingenuità, a disattendere ciò che studiosi e avvocati denunciano da tempo. La risposta è altrettanto nota. Nel Ministero di Giustizia, negli uffici legislativi del governo e delle commissioni sono presenti in misura schiacciante magistrati che rappresentano la loro esclusiva visione culturale, con le ricadute che si vedono nella maggior tutela concessa al ruolo degli inquirenti rispetto a quello della difesa. Lo stesso fenomeno si osserva anche nelle commissioni che il ministro Marta Cartabia ha nominato per realizzare la sua riforma penale: sono cinque, dirette da tre eminenti magistrati ex presidenti della suprema Corte di Cassazione e della Consulta che hanno creato, governato e regolato la giurisprudenza penale degli ultimi venti anni, più due illustri docenti universitari tutti lontani da tempo dalle aule di giustizia, per via degli alti incarichi, della pensione e della condizione di puri studiosi di due dei tre docenti.

Con loro ci sono una cinquantina di giuristi, di cui soltanto sei avvocati: un evidente squilibrio che suscita un qualche legittimo interrogativo sull’adeguata valutazione delle esigenze di garanzia dei cittadini sottoposti a processo. Fino a che questa discriminazione culturale e intellettuale non verrà colmata, sarà difficile pensare a un reale cambiamento. Ovviamente c’è da augurarsi che non sia così, ma c’è un problema di fondo nella cultura giuridica di questo Paese che va corretto prima di tutto dalla politica, altrimenti è inutile lamentarsi, perché ne avremo altri di casi come quello di Renzi o di Luca Morisi.

"C'è un rapporto malato tra giustizia e politica. Barbarie rendere noti i dati sensibili di Matteo". Francesco Boezi il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Il professore di Diritto costituzionale: "Sono favorevole al lodo Alfano, per le cariche istituzionali il processo va sospeso. In Francia funziona così". Le indagini sul caso della Fondazione Open animano il dibattito tra i giuristi. Un mondo dove ci si chiede quale sia il confine tra un processo in senso stretto ed un processo politico. Il professor Alfonso Celotto ne fa anzitutto una questione di interferenze: «In Italia, da almeno una trentina d'anni, c'è un rapporto malsano tra politica e Giustizia», premette l'accademico, che ricorda il fuoco di fila cui sono stati sottoposti Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Il giurista rammenta pure la vicenda di Antonio Bassolino, con tanto di «diciannove assoluzioni». Poi la precisazione: «È giusto - annota - che anche i politici possano essere indagati. Non ci si dimentichi che candidato deriva da candidatus, che è proprio di chi indossa una toga trasparente». Per quanto il rapporto tra politica e Giustizia - specifica - «vada chiarito». Una delle questioni aperte riguarda il tema del finanziamento ai partiti, che è stato di fatto abolito. La politica ha bisogno di coperture economiche. Un altro nodo che, stando al punto di vista del costituzionalista, andrebbe sciolto: «Io, operaio, mi sottraggo al mio lavoro per fare politica e dunque devo avere i mezzi per poter fare propaganda. Altrimenti come faccio?». La faccenda di Open, inoltre, è condita da almeno una particolarità: «In questo caso - dice il docente di Diritto Costituzionale - è proprio un processo alla politica. Non è più un processo ad un politico che ha fatto altre cose in ambito privato. Si tratta di un processo ad un politico che ha fatto politica in un certo modo. L'accusa - prosegue - verte su come è stata fatta politica. Non a caso i testimoni provengono dal mondo politico». Tra chi è stato chiamato a testimoniare dalla Procura di Firenze figurano Pier Luigi Bersani, Matteo Orfini, Rosy Bindi e Maurizio Martina. Giusto per fare qualche nome: «L'intreccio tra politica e giustizia - insiste l'accademico - giunge così al suo massimo livello». Il giornalismo può metterci del suo. In che modo? Per esempio rendendo noto l'estratto conto di Matteo Renzi. Una scelta che è stata compiuta ieri dal Fatto Quotidiano: «Pubblicare l'estratto conto di una persona è una cosa che non si può fare - tuona il giurista - Esiste il diritto alla riservatezza. I politici posseggono già degli obblighi di pubblicazione, come per la dichiarazione dei redditi. Però gli atti d'indagine non andrebbero pubblicati. Comunque, nel caso di un estratto conto, siamo dinanzi a dati ultra-sensibili». Di sgomento in giro per il metodo ce n'è. L'ex premier Matteo Renzi ha reagito subito, dando mandato ai suoi legali per «violazione reiterata di precetti costituzionali». Celotto, a questo punto, insiste sulla necessità di riformare la relazione tra Giustizia e politica: «Dico una cosa fuori moda: il famoso lodo Alfano è una misura plausibile. Nelle cariche di vertice, per determinati reati, il processo verrebbe sospeso sino al termine della carica. In Francia funziona così». I concetti ripetuti più spesso dal professore sono due: «argine» e «contemperamento». «Altrimenti viene giù tutto», sentenzia. Capitolo Presidente della Repubblica: «Uno dei problemi che avrà il prossimo Capo dello Stato, in materia di Giustizia, riguarderà il Csm. Il Presidente Sergio Mattarella ha avuto una serie di problemi con il Csm: dal caso Palamara in giù».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

Claudio Bozza per il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Matteo Orfini, Antonio Misiani, Maurizio Martina, il defunto Guglielmo Epifani, Francesco Bonifazi. Sono i big (ed ex) del Partito democratico che la Procura di Firenze ha chiamato a testimoniare durante le lunghe indagini sulla Fondazione Open, cassaforte e braccio operativo dell’attività politica di Matteo Renzi, da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi. Undici gli indagati a vario titolo, tra finanziamento illecito ai partiti, corruzione, riciclaggio e traffico di influenze. L’ex premier, in quanto ritenuto il direttore di Open (che in sette anni ha ricevuto finanziamenti privati per 7,2 milioni), è il dominus dell’impianto accusatorio. L’obiettivo dei pm Luca Turco e Antonino Nastasi, qualora si arrivasse al processo, è quello di provare che Open operasse come un’articolazione di partito.

Le domande dei magistrati

E navigando nel mare magnum delle 92 mila pagine dei faldoni depositati con la chiusura delle indagini, colpiscono le parole di Pier Luigi Bersani: «Che informazioni ha sulla Fondazione Open?», chiedono i magistrati. E l’ex segretario del Pd tra il 2009 e il 2013, prima della scalata di Renzi, dopo un’articolata premessa risponde così: «La nuova componente (corrente renziana, ndr) aveva l’obiettivo di scalare il partito attraverso una piattaforma politica molto aggressiva, un sistema ampio di relazioni e una vera e propria raccolta fondi». E poi: «Da segretario vedevo chiaramente questa componente, pur essendo totalmente intrinseca alla battaglia politica nel Pd, tuttavia cercava forme che potessero suscitare il coinvolgimento di soggetti esterni al partito stesso — aggiunge Bersani —, ma interessati a tagliarne le radici della sinistra storica, politica e sindacale». Tutti i big ascoltati — in gran parte avversi a Renzi, ad eccezione di Martina e del fedelissimo Bonifazi — incalzati dai magistrati hanno dichiarato di non essere al corrente che alcuni parlamentari renziani (eletti in discreto numero nel 2013) finanziassero anche Open. Una cifra aggiuntiva, visto che l’ex tesoriere Misiani, a verbale, ha ricordato che il regolamento del Pd prevede che ogni parlamentare versi 1.500 euro mensili al Nazareno. I pm, ai testimoni, chiedono anche perché, dal 2013, i finanziamenti privati destinati al Pd inizino a crollare. 

La fondazione dopo lo stop al finanziamento pubblico

Lo stesso Misiani risponde che tra le cause principali «dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti» c’era «il discredito della politica dopo gli scandali Lusi (tesoriere della Margherita, ndr) e Belsito (Lega, ndr)». È quindi in questo contesto che i finanziatori hanno deviato il proprio sostegno verso altri contenitori, come appunto Open. Anche Orfini, già presidente dell’assemblea nazionale pd, parla del brusco arresto del sostegno ai dem: «La raccolta fondi privata subì un drastico ridimensionamento dopo l’inchiesta di Mafia capitale, nel senso che il partito decise di interrompere lo svolgimento delle grandi cene di raccolta fondi che erano state organizzate a Milano a Roma».

La difesa di Renzi

Intanto Renzi, annunciando che dal 19 al 21 novembre si terrà la Leopolda 11, reagisce duramente davanti alle informazioni emerse dopo la chiusura delle indagini: «Chiamano libertà di informazione quella che, in realtà, è una reiterata violazione di ogni forma di privacy, di guarentigie costituzionali, di rispetto della libertà personale e dell’iniziativa economica», scrive nella sua enews. E infine: «Sono le stesse notizie da anni, gli sms anche privati di parlamentari in carica, le fatture professionali sulle quali ci sarebbe un segreto bancario che vale per tutti tranne che per me, la corrispondenza coperta da divieto costituzionale di acquisizione, che viene allegramente rimbalzata di redazione in redazione».

Open, la Finanza : "Sconti dai fornitori della Leopolda in cambio di contatti d'affari". Andrea Bulleri e Luca Serranò su La Repubblica il 7 novembre 2021. Secondo le informative delle Fiamme Gialle agli atti dell’inchiesta della Procura la Fondazione otteneva di pagare meno dei preventivi e metteva i propri fornitori in contatto con Firenze Fiera, Eni, Enel e altre grandi società. Un corposo “taglio” alle fatture della Leopolda in cambio di una corsia preferenziale con i vertici di grandi società, da Enel a Firenze Fiera fino agli organizzatori del G7 di Taormina del 2017. Uno scambio di favori che da un lato avrebbe fatto risparmiare a Open decine di migliaia di euro, dall’altro avrebbe permesso ai suoi fornitori di accreditarsi nel panorama dei grandi eventi locali e nazionali.

Inchiesta Open, i "non ricordo" dell'ex tesoriere Pd. Luca Serranò su La Repubblica il 6 novembre 2021. Francesco Bonifazi sentito come teste dai pm fiorentini che indagano sulla Fondazione. Il caso del costo di due collaboratori che si voleva accollare al partito. "Non ricordo". Così il senatore Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd per oltre 5 anni (fino al marzo 2019), risponde alle domande dei pm sui rapporti intrattenuti all'epoca con la Fondazione Open, considerata dalla Procura base operativa della corrente renziana del Pd e per questo al centro di una inchiesta - in cui sono indagati tra gli altri Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti - per finanziamento illecito ai partiti. Al senatore vengono sottoposte alcune circostanze in cui i due livelli Pd-Fondazione Open si sarebbero intersecati,  come il pagamento di due collaboratori di Open che sarebbe stato accollato al partito.  Anche di fronte a quelle osservazioni nessun cambio di linea: "Non ricordo - ripete nel verbale del 7 dicembre 2020 - quando sono divenuto tesoriere ho avviato una opera di ristrutturazione con riduzione dei costi e addirittura con l'attivazione della cassa integrazione; ciò ha comportato il blocco delle assunzioni e quindi ritengo difficile che il partito possa essersi fatto carico di nuove spese per il personale". Nel dettaglio il caso riguarda i compensi di due collaboratori, parte di una staff di una decina di persone che vantava crediti con Open per circa 250 mila euro. A Bonifazi - non indagato - viene mostrata una mail inviata il 31 maggio 2017 dall'avvocato Alberto Bianchi, presidente di Open anche lui indagato, a due uomini di fiducia. Una mail in cui Bianchi sembra suggerire una via di uscita per far fronte a quelle spese: "Ho già detto a Matteo che poiché l'onere complessivo a carico della Fondazione è di 230-250 mila euro lo reggiamo a 3 condizioni - scrive l'avvocato - una delle quali è che il Pd assuma a proprio carico gli oneri della Fossatelli e della Duro (due dei collaboratori che attendevano i pagamenti, ndr)". Il 20 giugno a Bianchi arriva mail di un contabile, che dice di essere stato contattato dal Pd per riformulare il contratto e intestare le fatture a nome del partito, ma di non aver più avuto notizie: "Dopo 20 giorni dall'invio del contratto dal Pd non ho avuto ancora alcun riscontro né copia del contratto firmato - il testo della mail - Non so se voi potete darmi un riscontro". Dice sul punto Bonifazi: "credo che la mail si riferisca a una applicazione presentata durante il periodo congressuale da parte dei candidati Renzi e Martina. Non ho avuto interlocuzioni dirette con esponenti della Fondazione, è possibile che ne abbiano avuti miei collaboratori". Tra i temi anche il versamento da 20 mila euro ad Open da parte della fondazione Eyu, di cui era presidente lo stesso Bonifazi. Il contributo viene messo in relazione dai pm con le spese - 135 mila euro - sostenute nello steso periodo da Open per pagare il jet con cui Renzi era volato a Washington, per parlare alla cerimonia per i 50 anni dalla morte di Robert Kennedy. Una spesa che sarebbe stata autorizzata nonostante la mancanza di copertura, e che avrebbe innescato nei vertici di Open una frenetica ricerca di contributi. "Ricordo che nell'ambiente politico iniziò a circolare la notizia di una possibile liquidazione della Fondazione e di una difficoltà economica in tale contesto - dice il politico - mi rivolsi al segretario generale e rappresentante legale di Eyu, chiedendo a lui se era possibile dare un contributo nell'ottica di agevolare la liquidazione, rimettendo allo stesso l'eventuale individuazione del quantum. Lessi poi su un quotidiano che il contributo era stato erogato". 

Inchiesta Open, Bersani: "Renzi voleva scalare il partito anche grazie alla raccolta fondi". Luca Serranò su La Repubblica il 5 novembre 2021. Agli atti delle indagini dei magistrati fiorentini le deposizioni come testimoni di alcuni notabili del Pd: Bindi, Epifani, Orfini, Martina, Nardella. E Renzi attacca: "Il processo si celebra sui media, è una reiterata violazione della privacy". "La componente renziana aveva l’obiettivo di scalare il partito attraverso una piattaforma politica molto aggressiva, un sistema ampio di relazioni e una vera e propria raccolta fondi". E' il 30 novembre dell'anno scorso e Pierluigi Bersani depone davanti ai magistrati fiorentini che indagano sulla Fondazione Open. E l'ex segretario del Pd, che ha lasciato il partito nel 2017, risponde per un'ora.

Fondazione Open, chiuse le indagini: Renzi, Lotti, Boschi e Carrai tra gli indagati. Antonella Mollica su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Concluse le indagini su Open, la “cassaforte” che ha finanziato l’ascenza di Renzi, da sindaco di Firenze a premier. Undici indagati e quattro società i destinatari dell’avviso di conclusione delle indagini. La Procura ha chiuso l’inchiesta sulla fondazione Open , la “cassaforte” che ha finanziato l’ascesa di Matteo Renzi da sindaco di Firenze a premier. Undici indagati e quattro società sono i destinatari dell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal sostituto Antonino Nastasi. Per l’accusa, Matteo Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi attraverso la Fondazione avrebbero ricevuto tra il 2014 e il 2018, in violazione della normativa sul finanziamento ai partiti, oltre 3 milioni e mezzo di euro per la loro attività politica e per la corrente renziana. Indagati sempre per finanziamento illecito anche l’ex presidente di Open Alberto Bianchi e Marco Carrai , componente del consiglio direttivo di Open. Intanto, per la terza volta, il tribunale del Riesame di Firenze ha confermato il sequestro dei documenti di Marco Carrai, eseguito nel novembre 2019.

Finanziamento illecito alla Fondazione Open, chiuse le indagini (dopo le elezioni): ci sono Renzi, Boschi, Lotti. Redazione martedì 19 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Archiviate le elezioni con le palate di fango lanciate sul Centrodestra dai molto presunti specchiatissimi esponenti del Centrosinistra, in queste ore la Procura di Firenze sta notificando in queste ore l’avviso di chiusura delle indagini nell’ambito dell’inchiesta su presunte irregolarità nei finanziamenti a Open, la Fondazione renziana attiva tra il 2012 e il 2018 per sostenere finanziariamente l’ascesa e l’attività politica di Matteo Renzi, prima come sindaco di Firenze e poi come segretario del Pd. E si scopre così che, forse, il Centrosinistra non è proprio specchiatissimo se fra gli 11 indagati figurano lo stesso ex-premier e leader di Italia Viva Matteo Renzi, l’ex-ministra e attuale capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi, il deputato del Pd Luca Lotti, l’ex-presidente della Fondazione Open Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai. Al senatore Renzi e i deputati Lotti e Boschi la Procura contesta il reato di finanziamento illecito ai partiti, dal momento che il procuratore aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi, ritengono la Fondazione Open un’articolazione di partito.

 Agli altri indagati vengono contestati a vario titolo i reati di finanziamento illecito ai partiti, corruzione, riciclaggio, traffico di influenze.

Open, Matteo Renzi: "Nessun illecito", due anni di indagini per nulla? Ecco la magistratura italiana. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2021. La Procura di Firenze ha chiuso l’inchiesta sulla fondazione Open: nel registro degli indagati figurano quattro società e undici persone, tra cui nomi pesanti quali Matteo Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi. Stando a quanto sostenuto dall’accusa, tra il 2014 e il 2018 i tre avrebbero ricevuto dalla fondazione Open più di tre milioni e mezzo di euro per la loro attività politica. Tra i reati contestati il finanziamento illecito ai partiti, la corruzione, il riciclaggio e il traffico di influenze. “La fine delle indagini sulla vicenda Open è realmente un’ottima notizia - ha commentato Matteo Renzi - dopo due anni di incessanti indagini, perquisizioni giudicate illegittime dalla Cassazione, veline illegalmente passate ai giornali finisce il monologo dell’accusa. Finalmente arriva il momento in cui si passa dalla fogna giustizialista alla civiltà del dibattimento. E lì contano finalmente i fatti e il diritto. Alla fine di questa scandalosa storia emergerà la verità: non c’è nessun finanziamento illecito ai partiti perché tutto è bonificato e tracciato”. “Quando il giudice penale - ha aggiunto il leader di Italia Viva - vuole decidere le forme della politica siamo davanti a uno sconfinamento pericoloso per la separazione dei poteri. Loro vogliono un processo politico alla politica, noi - ha chiosato - chiederemo giustizia nelle aule della giustizia”. 

Dagospia il 19 ottobre 2021. "La fine delle indagini sulla vicenda Open è realmente un’ottima notizia. Dopo due anni di incessanti indagini, perquisizioni giudicate illegittime dalla Cassazione, veline illegalmente passate ai giornali finisce il monologo dell’accusa. Finalmente arriva il momento in cui si passa dalla fogna giustizialista alla civiltà del dibattimento. E lì contano finalmente i fatti e il diritto. Alla fine di questa scandalosa storia emergerà la verità: non c’è nessun finanziamento illecito ai partiti perché tutto è bonificato e tracciato. La Leopolda - del resto - non era la manifestazione di una corrente o di una parte del PD, ma un luogo di libertà, senza bandiere e con tutti i finanziamenti previsti dalla legge sulle fondazioni. Quando il giudice penale vuole decidere le forme della politica siamo davanti a uno sconfinamento pericoloso per la separazione dei poteri. Loro vogliono un processo politico alla politica, noi chiederemo giustizia nelle aule della giustizia, così il senatore Matteo Renzi commentando in Senato la fine delle indagini sull’inchiesta Open. " Adesso Renzi ha 20 giorni per chiedere di essere interrogato dal PM Turco. L’udienza per l’eventuale rinvio a giudizio è attesa nella primavera del 2022", aggiunge l'ufficio stampa di Matteo Renzi.

L'affondo di Renzi: "I miei processi? Hanno lo stesso pm". Federico Garau il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. Il leader di Italia Viva a gamba tesa durante la presentazione del suo libro. Le vicende giudiziarie che riguardano lui e la sua famiglia? Riguardano tutte lo stesso pm. Intervenuto a Treviso per presentare il suo nuovo libro "Controcorrente", Matteo Renzi ha colto l'occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, e lanciare alcuni strali. I casi giudiziari che lo hanno visto coinvolto? In comune, spiega l'ex premier, c'è lo stesso magistrato. Un'allusione neanche troppo velata, insomma. Il leader di Italia Viva ha parlato stasera al pubblico di Treviso, che lo ha raggiunto presso l'auditorium Fondazione Cassamarca per ascoltare la presentazione del nuovo lavoro dell'ex sindaco di Firenze. L'evento è stato possibile grazie all'iniziativa della parlamentare Sara Moretto. Proprio nel libro "Controcorrente", Renzi parla dei retroscena che hanno interessato il secondo governo Conte, passando poi all'arrivo del premier Mario Draghi. Non solo. Fra gli argomenti trattati, anche gli scontri con la Lega ed il Movimento 5Stelle, fino ad arrivare al tanto discusso incontro con l'ex agente dei servizi segreti. Ed è proprio sui casi giudiziari che hanno visto interessato non solo lui, ma anche il resto della sua famiglia, che Renzi ha voluto concentrarsi. "Le mie vicende giudiziarie e quelle della mia famiglia, dei miei amici e finanziatori che si sono visti sequestrare il telefonino all'alba, hanno in comune tutte lo stesso pm", ha attaccato il leader di Italia Viva, come riportato da Agi. "Quello di Open non è, poi, un processo per finanziamento illecito: è un processo alla politica. L'unica cosa che chiedo alla stampa è quando arriveranno le sentenze dateci lo stesso spazio che date alle indagini, perchè non succede mai. I processi che vogliono farmi sono incredibili ma con calma sono certo che la verità verrà fuori. I drammi della vita sono altri", ha aggiunto. L'ex presidente del Consiglio ha poi voluto commentare le parole del ministro leghista Giancarlo Giorgetti, che oggi ha negato l'esistenza delle due Leghe, ma si è detto a favore di Carlo Calenda per quanto riguarda le elezioni amministrative di Roma. "L'intervista di Giorgetti oggi è un fatto politico rilevante. Intanto, dice che a Roma voterebbe Calenda e non Michetti: sono d'accordo con lui. È incredibile come la destra faccia di tutto per perdere queste amministrative", ha dichiarato Renzi. "A Milano è stato scelto un candidato che per rassicurare i moderati ha detto di andare in ospedale con la pistola e a Roma la Meloni non ha avuto coraggio e hanno messo un signore che ci ha spiegato tutto di Caligola e Nerone, tutto sull'attualità insomma", ha concluso.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).

Francesco Boezi per ilgiornale.it il 22 settembre 2021. Il leader d'Italia Viva Matteo Renzi è intervenuto poco fa in Senato, rimarcando tutta la distanza possibile tra l'idea di Giustizia promossa dal governo di Mario Draghi e quella che avrebbe dovuto prendere piede secondo i desiderata dell'ex ministro Alfonso Bonafede, ma attaccando pure la "correntocrazia" che alberga in parte della magistratura italiana. Forte anche il richiamo al rispetto delle guarentigie dei parlamentari. Attraverso un annuncio circolato nel corso della mattina di oggi, l'ex presidente del Consiglio aveva anticipato i temi del discorso odierno. Argomentazioni che sarebbero state relative allo stato di salute della Giustizia italiana: "Questo pomeriggio - si leggeva sulla Enews - interverrò in Aula, al Senato, sui temi della riforma Cartabia e della giustizia penale. Sarà un intervento - aveva premesso Renzi - molto difficile, tra i più difficili della mia carriera. Ma sento il dovere di dire parole di verità sul momento incredibile che sta vivendo il mondo della magistratura nel silenzio dei più". Il tutto mentre il governo si appresta ad incassare il voto favorevole del Parlamento alla riforma Cartabia, che viene ritenuta decisiva dalla maggioranza. In gioco c'è il futuro del sistema Giustizia in Italia. Sistema che grazie al governo Draghi è sempre più lontano dall'impostazione di Bonafede. Italia Viva sostiene appieno l'azione del ministro della Giustizia: "La riforma Cartabia - ha esordito Renzi - , che noi voteremo con convinzione, è un ottimo primo passo e un primo passo, lo dice la storia, ti toglie da dove sei, dalla Bonafede, ma non ti porta ancora dove dobbiamo andare. Questa situazione avviene nel momento più tragico della storia del potere giudiziario nella storia repubblicana", così come raccontato dalla Lapresse. Insomma, quanto messo in campo dall'esecutivo potrà essere perfezionato tra qualche tempo, ma intanto la riforma consente di uscire dal guado giustizialista pentastellato. Un altro "siluro", per così dire, riguarda il rapporto tra politica e magistratura: "Tanti di noi - ha fatto presente l'ex presidente del Consiglio - hanno rinunciato al gusto della verità per la paura. Perchè per anni abbiamo consentito di lasciare non a dei singoli magistrati ma alla subalternità della politica, il fatto che fossero i pm a decidere chi poteva far carriera politica e chi no, perchè abbiamo detto che un avviso di garanzia costituiva una sentenza di condanna. In questi anni - ha proseguito Renzi - il potere legislativo ed esecutivo hanno attraversato momenti di difficoltà, quello giudiziario mai, questo è il primo momento drammatico". "Crisi" è dunque una parola che la politica conosce bene, mentre la magistratura prenderebbe ora confidenza con i momenti no. La politica viene richiamata a riappropriarsi del ruolo che le è proprio. Renzi si è soffermato pure sull'articolo 68 della Costituzione e sulla sua centralità: "Le guarentigie dei parlamentari sono costituzionalmente garantite e quotidianamente ignorate da un utilizzo mediatico della magistratura e delle indagini. Se non utilizziamo il tempo da qui al rinnovo del Csm, nel luglio 2022, per scrivere una pagina nuova, non importa chi sarà il prossimo a essere coinvolto, la vera vittima della nostra inerzia sarà la credibilità delle istituzioni e la dignità della magistratura". La clessidra scorre. Puntuale, l'ex premier, ha presentato anche la sua visione della situazione complessiva della magistratura, citando pure una "profezia" dell'ex direttore di Radio Radicale Massimo Bordin. Questi aveva pronosticato un futuro in cui "i magistrati si sarebbero vicendevolmente arrestati". Il leader d'Italia Viva, nel proseguo, ha posto accenti pure su quella che ha chiamato "correntocrazia": La “correntocrazia? dentro la magistratura del 2021 è come la partitocrazia nella politica del 1991"., ha tuonato, facendo dunque un'associazione. Poi la specificazione: "Il problema non è la separazione delle carriere, bensì lo strapotere vergognoso delle correnti della magistratura. Devi fare carriera se sei bravo non se sei iscritto ad una corrente". Renzi, nella parte finale del discorso, ha preso atto delle scuse poste tempo fa da Luigi Di Maio sul modus operandi e sulla visione della giustizia dei pentastellati. Applausi scroscianti, al termine dell'intervento del leader d'Italia Viva, sono arrivati pure dagli scranni di Forza Italia, da quelli della Lega e da quelli del Partito Democratico.

L'intervento al Senato dell'ex premier. La furia di Renzi contro Pm e Csm: sempre agli ordini delle correnti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Settembre 2021. Come una furia. Matteo Renzi ormai da un anno ha cambiato pelle e quando arriva in Parlamento arriva con una tutina angelo vendicatore. Porta decisioni, non considerazioni. Un giorno arrivò come quelli della Smorfia e disse: “Tu, tu, tu, Giuseppe Conte, te n’hai da annà”. Bim bum bam e Conte è andato per stracci. Il discorso di ieri al Senato è stato più che una requisitoria, è stato un avviso di sfratto. Fra un anno il Parlamento deve eleggere i suoi membri laici del CSM e stavolta – ha detto Renzi – faremo un lavoro secondo istruzioni per strappare il potere alle correnti e impedire abuso di potere dei magistrati. Ha fatto le sue concessioni di rito ai magistrati buoni che non possono lavorare per colpa dei magistrati cattivi, e più che altro ha accusato il Parlamento di non aver esercitato il suo potere mandando come membri laici del CSM gente che fosse capace di bloccare le correnti e imporre la democrazia. Approvata la legge Cartabia, tutto deve essere rifatto da capo, in magistratura. L’impressione è che quel che l’Europa comanda, Matteo va e fa. Adesso dobbiamo fare quaranta riforme in poco tempo e quella della magistratura è considerata vitale, anche se la legge Cartabia è un buon inizio ma all’Europa non basta e l’Europa allora (presumiamo) batte i pugni e Matteo è il suo evangelista. L’Europa disse: “Per favore, ci buttate fuori quelli?”. Pronti: zac e zac, missione compiuta. E ieri, Matteo è venuto ad avvertire la Magistratura – intesa come quella corporazione che ammazza la democrazia, – che è il momento del “Game Over”. Tutti a casa. Arrendetevi, siete circondati. “Molti non hanno il coraggio di dirlo anche tra noi che rinunciamo al gusto della verità per paura – dice Renzi – perché per anni abbiamo consentito che fossero i PM a decidere e che l’avviso di garanzia fosse una sentenza di condanna”. E scusate se è poco. Per carità, tutto vero, tutto arcinoto, ma Renzi ha portato il messaggio come quei messi giudiziari americani che ti urtano per strada e ti mettono in mano l’avviso di convocazione dicendoti: “You are served”. Il Parlamento è servito. Matteo restringe la premessa storica: “Attenzione – concede retoricamente – non parlo di giudici cui ci rivolgiamo con deferente omaggio a due giorni dall’anniversario della morte di un gigante come Rosario Livatino e i tanti magistrati che hanno dedicato la propria vita per le istituzioni”. Tutto ciò è giusto e ovvio, ma il potere giudiziario è in crisi per colpa della politica. Diciamoci le cose come stanno una volta per tutte: c’è stata una parte del Senato e della Camera, in particolar modo a sinistra, che ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie che riguardavano l’altra parte della politica: la parte che stava nell’emiciclo di destra. “E questa – grida Renzi – è una responsabilità politica della sinistra che ha cercato di strumentalizzare questa circostanza accusando la destra di aver risposto con leggi ad personam. Ma nessuno si può tirare indietro nel giudicare la fine di questi trent’anni di lunga guerra tra magistratura e politica durante i quali la magistratura non ha mai avuto problemi perché ha sempre utilizzato ciò che avveniva in quest’aula recuperando forza. Oggi non è più così perché c’è una disgregazione all’interno della magistratura e questa disgregazione porta ad avverarsi la profezia dell’allora direttore di Radio radicale Massimo Bordin che definiva il futuro come il luogo nel quale i magistrati si sarebbero vicendevolmente arrestati, Chi di noi ha iniziato a fare politica nel momento tragico dell’inchiesta “Mani Pulite” non può che sentirsi stravolto vedendo oggi che i due personaggi del pool rimasti sulla ribalta, siano alle carte bollate tra di loro”. Già, è vero, curioso: Greco e Davigo si menano come i duellanti, ma nessuno ci fa caso: nessuno ha il coraggio di dire quello che sta succedendo come se la politica avesse paura di dire ciò che sta accadendo in magistratura. Insomma, dice il leader di Italia Viva, oggi viviamo in una cappa di preoccupazione e di timore “e io avverto il bisogno di dirlo qui senza alcuna paura senza alcun elemento di timore reverenziale verso la magistratura che nel 2021 ha iniziato un cammino preoccupantissimo perché è venuta meno la guida politica 5 Stelle nella magistratura; anche se devo dare atto all’attuale ministro degli Esteri di aver detto parole sull’uso barbaro e incivile della giustizia da parte dei 5 Stelle, nel 2016: scuse timide e tardive ma pur sempre scuse”. Negli anni del ministero Bonafede – ha detto Renzi – c’è stata una guida profondamente giustizialista del ministero, quando si diceva che giustizialismo e garantismo sono due diversi estremismi. Renzi si è rivolto “agli amici di quella parte politica cui posso solo fare gli auguri: io vengo da una cultura in cui la Costituzione è una cosa seria e il giustizialismo e un elemento di deformazione della Costituzione.” In questo momento – ha osservato il leader di Italia Viva – sono partite delle dinamiche interne nella magistratura che hanno portato alla luce tensioni che sono esplose in una guerra che sta portando a indagini su indagini di magistrati contro altri magistrali: se volete far finta di non vedere, fatelo pure ma è un dato di fatto. Il problema non è la separazione delle carriere, paradossalmente il punto è lo strapotere vergognoso che le correnti hanno dentro la magistratura e che incide nel processo disciplinare dei singoli magistrati e che impedisce ai magistrati di livello di fare carriera se non sono iscritti ad alcune correnti. Questa è la vera separazione della carriera da fare: quella tra la corrente e il magistrato. È impossibile immaginare che un Csm la cui autorevolezza ha toccato i punti più bassi (anche per colpa nostra – ha ammesso – nella selezione dei candidati laici, perché bisogna avere il coraggio di dirla tutta) possa riformarsi da solo. Il punto vero è che se i PM vanno al disciplinare sulla base dell’appartenenza alla singola corrente, non sulla base dei fatti, le cose non possono funzionare. Poi Renzi ha ricordato un episodio che riguarda direttamente: “Quando io sono intervenuto a testa alta per dire che c’era una procura che a mio giudizio stava sorpassando il limite dell’azione giudiziaria, non è che ho preso un avviso di garanzia ma ne ho presi due dalla stessa procura”. Quando le correnti dicono: “voglio stringere un cordone sanitario intorno al senatore XY” non ci si deve preoccupare di quel senatore, ma del Senato per quello che sta succedendo. Vedo tre cure immediate e necessarie, ha concluso: primo, i magistrati devono sentirsi liberi di fare il proprio lavoro anche se non sono iscritti a una corrente. Due: i politici devono avere il coraggio di andare avanti anche quando ricevono un avviso di garanzia perché non può essere un avviso di garanzia a bloccare una carriera. Tre: non si può continuare a parlare di nuove guarentigie: le guarentigie dei parlamentari sono costituzionalmente garantite e quotidianamente ignorate dall’utilizzo mediatico della magistratura e delle indagini. Dobbiamo metterci a lavorare per un rinnovo del Csm nel luglio del 2022 per scrivere una pagina nuova, pena la credibilità delle istituzioni e la loro dignità. Per la magistratura – ha concluso Renzi – non conveniva che io parlassi. Ma ci sono momenti in cui avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome è un dovere politico civile e morale.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Processo trattativa, Renzi contro Travaglio: "Parole gravissime". Adnkronos il 24 settembre 2021. "Travaglio scrive che dà la solidarietà a Bagarella, ai mafiosi condannati". "La sentenza riguarda tre servitori dello Stato che sono stati accusati del peggiore dei crimini. È una cosa enorme quella che è accaduta. Leggete il Fatto Quotidiano di oggi, il direttore Travaglio scrive che dà la solidarietà a Bagarella, ai mafiosi condannati. Lo dico qui in una terra profondamente ferita dalla mafia: pensa di essere ironico, ma come si fa?". Così Matteo Renzi, presentando 'Controcorrente' a Catania, dopo la sentenza del processo sulla trattativa stato-mafia. "Abbiamo ricordato qualche giorno fa la memoria del giudice Livatino. La sua vita personale è un esempio come quelle di Falcone e Borsellino. Poi è arrivato Ingroia che pensava di essere Falcone. In questo contesto si è affrancata la narrazione di Travaglio 'è Stato la mafia', liberando così la mafia dalle sue evidenti colpe", dice il leader di Italia Viva. "Io credo nella giustizia che non la fa Travaglio con un editoriale, dobbiamo uscire dal populismo giudiziario scritto sui giornali e sui tweet: si aspettano le sentenze. Basta usare la giustizia come arma per distruggere un avversario politico così come ha fatto il Pd con Berlusconi. Uno che prende un avviso di garanzia non è già condannato, siamo in una Costituzione garantista e non giustizialista. È una barbarie la giustizia via social”.

Guido Crosetto, bomba sulla magistratura: "Lui era a capo del Pd...", le informazioni riservate in mano a Matteo Renzi. Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. "Una parte della sinistra ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie di chi stava dall’altra parte". A dirlo non è Silvio Berlusconi ma Matteo Renzi. Un lungo discorso pronunciato in Aula davanti a tutti che ha scoperchiato il vaso di Pandora. Ma non sono tanto le parole che hanno stupito, quanto più chi le ha pronunciate. "Ieri un ex PdC, ex segretario del Pd, in Senato, ha fatto un discorso durissimo sulla magistratura - scriveva Guido Crosetto su Twitter -. L’uso improprio dei poteri affidati a chi dovrebbe custodire la giustizia è una ferita aperta da decenni, che la politica ha paura di affrontare. Sui quotidiani, oggi, zero. Paura?". Secondo il fondatore di Fratelli d'Italia l'ex premier ammette che "le persone cui noi abbiamo affidato il compito di amministrare la giustizia, e che dunque per questo motivo hanno poteri enormi e straordinari sulla vita delle altre persone, non l'hanno svolto in modo asettico e super-partes, ma hanno fatto parte del gioco e hanno cercato, con le loro azioni, di modificare gli scenari politici e di tenere sotto scacco la politica e le istituzioni repubblicane. Quindi una cosa gravissima", la definisce al Giornale. A maggior ragione se a dirlo è Renzi, il fu segretario del Pd, colui che "conosce benissimo il partito che più di tutti è stato avvantaggiato da questa magistratura". La speranza a questo punto non può che essere quella di un fronte garantista che si opponga a quello giustizialista, "perché ad oggi il fronte giustizialista teneva insieme il Pd, il MoVimento 5 Stelle ed anche parti della destra". E da quel momento "non c'è più stata un'istituzione nazionale, regionale o provinciale che sia più stata libera di agire e che abbia potuto fare il suo lavoro senza fare nulla di male, nulla di illegale, negli ultimi anni". 

Vendetta su Renzi dopo la denuncia sui magistrati. Massimo Malpica il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. Appena parla dello strapotere dei pm rispunta l'indagine di Bankitalia sui fondi di Presta. Sarà sospetta l'operazione, ma pure la tempistica non scherza. Matteo Renzi appena mercoledì scorso, intervenendo in Senato sulla riforma Cartabia, aveva pronunciato «uno degli interventi più difficili» della sua vita politica, mettendo nel mirino lo strapotere della giustizia e il suo uso politico. Circa due mesi prima, a metà luglio, il senatore di Italia Viva aveva saputo di essere indagato, insieme al manager dei vip Lucio Presta, per finanziamento illecito e false fatturazioni, relativamente al compenso percepito per il documentario «Firenze secondo me» con bonifici che, per gli inquirenti, sarebbero appunto in realtà un finanziamento, illecito, alla politica. E ora, quattro giorni dopo quelle dichiarazioni nell'Aula di Palazzo Madama, ecco la relazione degli ispettori di Bankitalia che, rivela il Corriere della Sera, lo scorso 25 agosto hanno segnalato alle fiamme gialle come «operazioni sospette» alcune movimentazioni sui conti di Presta, che poco prima che si sapesse dell'indagine avrebbe trasferito le sue quote nella società Arcobaleno Tre (che ha prodotto il documentario di Renzi) a una commercialista, Laura Aguzzi, che avrebbe poi, a inizio luglio, movimentato un conto che risultava dormiente da quasi quattro anni, con gli 007 della Banca d'Italia che nella loro relazione, citata dal Corriere, non mancano di rimarcare esplicitamente «la coincidenza temporale con le notizie di stampa che vedono Presta indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni per aver elargito a Matteo Renzi una somma rilevante per il tramite della società stessa». Insomma, se a luglio Renzi, respingendo al mittente le accuse di finanziamento illecito, aveva assicurato di non aver paura di «qualche velato avvertimento» comunicato «via stampa in un determinato giorno», ora può aggiungere un altro «memo», anche se indiretto e via Bankitalia, dalla tempistica quanto meno sospetta. Un avviso che piove nella stessa settimana in cui il leader di Iv si era tolto più di un sassolino dalle scarpe quanto al suo rapporto con la giustizia e sul «malfunzionamento» di quest'ultima, citando tra l'altro, in Aula, l'aver preso «due avvisi di garanzia» subito dopo aver detto «che c'era una procura che stava oltrepassando i limiti dell'azione giudiziaria». Massimo Malpica 

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 2021. Quando ha saputo di essere indagato per i soldi versati a Matteo Renzi, il manager Lucio Presta ha trasferito le quote della sua società «Arcobaleno Tre» a una commercialista che ha movimentato un conto «dormiente» dal 2017. Lo evidenzia l'Unità antiriciclaggio di Bankitalia in una segnalazione di operazione sospetta che è già stata trasmessa alla Guardia di Finanza. La relazione, datata 25 agosto 2021, mette in luce tutti i passaggi di soldi «anomali», ma soprattutto sottolinea la coincidenza con l'inchiesta della procura di Roma che contesta allo stesso Presta, al figlio Niccolò e al senatore di Italia Viva il reato di finanziamento illecito. Il sospetto è che i 700 mila euro versati a Renzi per la realizzazione del documentario Firenze secondo me non fossero giustificati dalla prestazione professionale ma servissero per elargire i soldi necessari ad acquistare la villa dove lo stesso Renzi ora vive con la famiglia. Accusa che il senatore ha sempre negato: «È tutto tracciato, non temo niente e nessuno». Il 31 luglio 2018 Renzi firma due scritture private con la «Arcobaleno Tre» per il documentario. La prima prevede un compenso da 125 mila euro lordi: 75 mila euro per l'attività di autore e altri 50 mila per la cessione di tutti i diritti di utilizzo delle opere prodotte. L'altra ha lo stesso importo: 75 mila per l'attività di conduttore e altri 50 mila per la cessione dei diritti d'immagine. Due mesi dopo arrivano altri due contratti, ognuno da 75mila euro lordi. Sono 400mila euro per un prodotto venduto a Discovery Network. C'è poi un accordo per la promozione dell'immagine del senatore in Italia e all'estero nei settori dello spettacolo, televisione, cinema e teatro. Dunque - dice l'accusa - dovrebbe essere Renzi a pagare i Presta per questa attività, invece nella scrittura privata c'è una clausola che fissa gli «obblighi dell'artista» e gli riconosce 100 mila euro. Altri 200 mila gli vengono elargiti per due programmi che però non sono mai stati realizzati. Scrivono gli ispettori di Bankitalia: «La società "Arcobaleno Tre", titolare di un conto corrente acceso nel 2016 e pressoché immobilizzato da fine 2017, ha fatto registrare un'improvvisa ripresa dell'operatività tramite il versamento di un cospicuo assegno tratto dalla medesima società. L'operazione è stata eseguita dalla commercialista Laura Aguzzi che l'ha motivata con l'intenzione di cambiare banca di riferimento senza fornire giustificativi. Non si può fare a meno di notare la coincidenza temporale con le notizie di stampa che vedono Presta indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni per aver elargito a Matteo Renzi una somma rilevante per il tramite della società stessa». In particolare segnalano che «il 5 luglio 2021 è stato versato un assegno di 850 mila euro tratto dalla "Arcobaleno Tre" e appena una settimana dopo, il 12 luglio, parte della somma è stata trasferita alla banca di partenza tramite bonifico di 250 mila euro con causale "giroconto"». Nella segnalazione gli specialisti dell'Uif aggiungono: «Circa i rapporti tra il politico e l'impresario si richiama la segnalazione inoltrata da Intesa Sanpaolo ove si evidenziavano bonifici in arrivo sul conto intestato a Comitato Leopolda 9 e 10, disposti da "Arcobaleno Tre" presso il Monte dei Paschi di Siena. Poco prima della diffusione delle notizie di stampa relative all'inchiesta giudiziaria, la maggioranza delle quote di "Arcobaleno Tre" è passata a Laura Aguzzi e Marco Contessi con relativo ridimensionamento della percentuale in capo ai figli di Paola Perego e di Presta. Quest' ultimo era già formalmente uscito dalla compagine societaria l'anno prima, ma solo a luglio 2021 è stata comunicata alla banca la sua cessazione dal ruolo di titolare effettivo della società "Sdl 2055", sebbene tale ruolo gli derivasse dalla titolarità di "Arcobaleno Tre" che detiene il 30% delle quote di quest' ultima». Lucio e Niccolò Presta sono indagati anche per false fatturazioni. La «Arcobaleno Tre» è stata perquisita agli inizi di luglio, l'accusa è che «i reati ipotizzati siano stati realizzati mediante rapporti contrattuali fittizi, con l'emissione e l'annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa, costi occulti del finanziamento della politica».

Dal libro di Matteo Renzi “Controcorrente” il 7 settembre 2021. (…) Nelle ore finali della crisi, quando gli comunico riservatamente che di lì a qualche ora le ministre si dimetteranno, Dario Franceschini chiede di parlarmi. “Non ti ho chiamato per farti cambiare idea, lo so che non la cambi. Ti ho chiamato per dirti che mi dispiace”. Continua: “Non sai cosa ti stanno preparando contro, ti massacreranno anche sul personale, ti aggrediranno a tutti i livelli, non solo sui social”. Gli rispondo: “Grazie Dario. Ti credo. Ma che cosa possono farmi ancora? Mi hanno arrestato la mamma, il babbo, preso in ostaggio la famiglia, attaccato con le voci più immonde, mi hanno mandato avvisi di garanzia, mi hanno dipinto come l’amico dei poteri forti, io che venivo dalle esperienze dei boy scout…Possono dire che da chierichetto rubavo le offerte in chiesa? Nel caso sappi che non è vero”, sdrammatizzo. “Matteo, stai sottovalutando quanto male possano farti ancora. Ti distruggeranno sotto il profilo psicologico, faranno saltare i tuoi parlamentari, ti aggrediranno sul piano personale. Te lo voglio dire non per farti cambiare idea perché idea non la cambi. Te lo dico perché mi dispiace umanamente”

Da ilsussidiario.net il 7 settembre 2021. Dall’ipotesi obbligo vaccinale al reddito di cittadinanza, passando per il percorso del governo: Matteo Renzi a 360° ai microfoni di Coffee Break. Il leader di Italia Viva ha esordito parlando della campagna vaccinale: “Standing ovation per il presidente Mattarella, ha detto quello che serviva nel momento giusto. Io sono a favore dell’obbligo vaccinale, c’è già per tanti vaccini: questo è l’unico modo per distruggere questo maledetto Covid. Ci sono difficoltà e preoccupazioni, la strada maestra nel breve periodo è l’estensione del green pass, che ci sta restituendo libertà. Le alternative al green pass sono le zone rosse”. Matteo Renzi ha poi commentato così la sintonia con Salvini e Meloni sul reddito di cittadinanza: “Sul green pass ritengono che stiano sbagliando tutto, non si rendono conto che stanno perdendo la base di destra, che vuole delle regole e che vuole libertà. Dire di no al green pass significa tradire l’elettorato. Sul reddito di cittadinanza confesso un certo stupore: Salvini è per abolirlo, ma è lo stesso Salvini che lo ha introdotto. E mi colpisce molto l’atteggiamento del Pd, che alle elezioni aveva detto no al reddito di cittadinanza e sì al Rei”. “Io sono per voltare pagina e spero che ci pensi Draghi, se non lo farà il governo arriverà il referendum”, ha aggiunto Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza, per poi soffermarsi sul futuro del governo: “Io spero che duri tanto. Io sono felicissimo che ci sia Draghi. Aver tolto Conte e aver messo Draghi è stato un servizio fatto al Paese. Il governo sta lavorando bene”. “Io penso che Draghi sia una garanzia e una sicurezza, ma la scelta di chi mandare a Palazzo Chigi passa dal Parlamento, che nel 2023 sarà rinnovato, sempre che Draghi non vada a fare altre cose”, ha proseguito Matteo Renzi, che già ai microfoni de Il Foglio aveva acceso i riflettori sulla sua influenza nel passaggio da Conte all’ex capo Bce: “Credo che questo sia stato il più importante capolavoro politico dei miei quindici anni di carriera. Sono ovviamente più fiero e orgoglioso delle leggi che ho firmato, ma dal punto di vista di una battaglia oltre la politica, una battaglia anche umana, valoriale, psicologica, Draghi a Palazzo Chigi è il mio capolavoro”. 

Da “la Stampa” l'1 agosto 2021. Che il reddito di cittadinanza vada rivisto lo dicono in tanti. Matteo Renzi, invece, lo vuole proprio abolire e per questo progetta un referendum. Lo fa, spiega in un video diventato virale, perché vuole «riaffermare l'idea» che la gente debba «soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela. Se non ce la fa gli diamo una mano: ma bisogna sudarsela - sbraita al microfono -. I nostri nonni hanno fatto l'Italia spaccandosi la schiena, non prendendo i sussidi dallo Stato!». Ecco: rischiare, provare, correre e giocarsela ci sta, ammesso che ci siano le condizioni per farlo. Soffrire anche no. Renzi non si rende proprio conto di quel che dice e poi si sorprende se gli haters lo attaccano: se vuole si accomodi lui. Gli italiani e le migliaia di giovani e donne che da mesi son senza lavoro han già sofferto abbastanza e gli cedono volentieri il posto.

Paolo Bracalini per “il Giornale” l'1 agosto 2021. Un pezzo importante della maggioranza, cioè Lega, Forza Italia e Italia Viva (più Fdi all'opposizione) vuole cancellare il deleterio reddito di cittadinanza M5s. Ma la battaglia si preannuncia difficile, non solo per la resistenza dei Cinque Stelle a difesa dell'ultimo baluardo identitario rimastogli in piedi. Alla contesa parlamentare si aggiunge la gogna mediatica per chi si permette di criticare il sussidio grillino, malgrado i numeri dimostrino in modo inequivocabile il fallimento del Rdc, uno strumento inutile per il reinserimento del lavoro, un disincentivo a lavorare (negli hotel mancano 70mila stagionali, nel commercio 150mila), per giunta percepito in una impressionante quantità di casi da persone che non ne avrebbero diritto, tra cui mafiosi e 'ndranghetisti. In compenso molti percettori del reddito (3 milioni di persone, un esercito), avendo tempo a disposizione, sono attivi sui social per difendere il loro assegno statale gentilmente offerto dallo Stato e attaccare chi lo contesta. L'ultima vittima del pestaggio è Matteo Renzi, per una frase contenuta in un video postato su Twitter da Italia Viva: «Il referendum sul reddito di cittadinanza è una grande operazione educativa e culturale. In un mondo che investe sulle nanotecnologie, sui Big Data, sull'intelligenza artificiale, ai ragazzi va detto studiate, provate, mettetevi in gioco, poi se fallite vi diamo una mano, ma rischiate. Se il messaggio è non vi preoccupate tanto lo Stato vi dà un sussidio, questo è diseducativo. Io voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza perché voglio riaffermare l'idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, giocarsela. Se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi! I nostri nonni hanno ricostruito l'Italia spaccandosi la schiena, non con i sussidi di Stato». Un ragionamento che scatena una pioggia di commenti, chi gli rinfaccia - a proposito di sudore - le vacanze sullo yacht, chi i rapporti con gli emiri, tutti al grido #RenziFaiSchifo. Il leader Iv non si scompone più di tanto: «Anche oggi sono attaccato dai soliti haters. Noi andiamo #ControCorrente e a noi fa schifo la propaganda, non le persone». Nei giorni scorsi il ministro leghista del Turismo, Massimo Garavaglia, ha annunciato che la Lega battaglierà per cambiare nella prossima legge di Bilancio il Rdc che «distorce il mercato del lavoro e frena la ripresa economica». Ieri Salvini ha annunciato che a settembre verrà rivisto «questo disincentivo al lavoro e inno al lavoro nero», e che quindi «anche Renzi qualche volta ha ragione». Forza Italia propone, al posto del Rdc, un'integrazione da parte dello Stato della differenza tra il salario mensile e mille euro. L'abolizione del reddito di cittadinanza troverebbe favorevole anche Fdi: «Il reddito di cittadinanza è come il metadone per i tossicodipendenti, io sono per abolirlo» ha detto Giorgia Meloni. Poi c'è appunto Italia Viva che ha proposto una raccolta firme per un referendum abrogativo del reddito. Ma c'è il muro dei Cinque Stelle che, capitolati su tutto - da ultimo anche sulla riforma della giustizia che cancella quella di Bonafede -, non vogliono mollare. Conte ha detto che il Rdc «va migliorato, non cancellato», Di Maio la difende, un pezzo del Pd anche, a partire dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. E il premier Draghi? Finora si è tenuto alla larga da questa grana che presto, con la manovra di fine anno, esploderà nella maggioranza.

Stefano Zurlo per "il Giornale" il 30 luglio 2021. È un giorno double face per Matteo Renzi. Il Corriere della sera fa sapere che i pm di Roma hanno aperto i telefonini di Lucio Presta per cercare i finanziamenti sotto traccia all'ex premier. Ma nel pomeriggio escono indiscrezioni e stralci della sentenza della Cassazione sulla Fondazione Open e si capisce che l'ex premier ha vinto questo round contro i magistrati fiorentini. «La cosa più bella - afferma il leader di Iv - è che la Cassazione dice chiaramente che l'organizzazione della Leopolda non ha niente a che fare con l'organizzazione del Pd. Quindi cade il teorema di chi diceva che finanziare la Leopolda significasse finanziare la corrente di un partito». Non basta. La Suprema corte dà un'altra bacchetta al tribunale di Firenze spiegando che il tribunale non solo si era allineato alle richieste della procura di Firenze, ma ne aveva copiato le parole: una per una, con esiti imbarazzanti. Il risultato è stato quello di «travisare l'analisi, di rilevanza decisiva, dei flussi finanziari della Fondazione Open». La cassaforte del renzismo chiusa nel 2018 e nel mirino dei magistrati toscani. Insomma, se Roma avanza, Firenze arretra. E l'ex premier lascia filtrare un altro messaggio che descrive il suo stato d'animo: «Qualche tempo prima che si aprisse l'inchiesta su Open un importante giornalista di Rcs dice ad un parlamentare: non passare con Renzi perché ci sarà una valanga che lo porterà via». E in effetti il partito dei giudici sembra aver trovato nell'ex sindaco della città toscana il nemico di cui era rimasto orfano, che prima era Berlusconi e prima ancora il «Cinghialone», Craxi. Un duello cominciato quando Renzi, saldo a Palazzo Chigi, aveva proposto di sforbiciare le ferie delle toghe, considerate un lusso ormai indifendibile. La proposta fu accolta come una profanazione nel sancta sanctorum dell'Anm. Sette anni dopo Renzi si è autodisarcionato e guida un partitino quasi pulviscolare ma è sempre un guastatore di razza e il regista della politica italiana, ha preso di mira il Guardasigilli Bonafede e le sue pulsioni giustizialiste, ha soffiato contro Conte e ha ispirato l'arrivo di Draghi, della Cartabia e della moderazione sul fronte della giustizia, firmando pure per i referendum. Insomma, è l'avversario dei giudici o meglio di quell'ala militante, e corporativa, che non ha aggiornato il calendario ed è convinta di vivere sempre dentro una Repubblica giudiziaria. Oggi le battaglie sono più rarefatte, non siamo più ai tempi della demonizzazione di Craxi, il grande totem abbattuto da Mani pulite, e nemmeno alle mischie furibonde dell'era berlusconiana. Ma le coincidenze restano impressionanti: l'ex sindaco di Firenze attacca, i pm lo accerchiano. Indagano lui e il suo cerchio magico, perquisiscono e spediscono avvisi di garanzia. Pare di assistere a una replica fuori tempo massimo del duello ingaggiato da pezzi della magistratura contro il Cavaliere, ma allora le procure dettavano il metronomo della politica italiana, o almeno lo condizionavano, oggi assistono sgomente alla liquefazione di una nomenklatura immersa in una sequenza di scandali senza fine. Il braccio di ferro però va avanti e per capirlo basta pensare alla costellazione di inchieste che hanno colpito i genitori dell'ex capo del governo e che ormai non fanno nemmeno più notizia. Ieri il Corriere della sera svela che i pm della Capitale stanno studiando le chat di Lucio Presta: i finanziamenti del produttore al Renzi documentarista sarebbero in realtà la foglia di fico di contributi mascherati per aiutarlo a pagare la nuova, sontuosa abitazione. Renzi grida alla persecuzione: «I miei genitori sono diventati a 65 anni Bonnie e Clyde»; poi incassa il successo sul fronte di Open: la Cassazione sottolinea infatti la «diversità ontologica fra partito e fondazione politica». Il teorema, forse, non c'è più.

Gianni Agnelli, il nipote Lupo Rattazzi e la grossa sorpresa sui soldi: "Maxi-finanziamento", quale partito sostiene. Libero Quotidiano il 24 luglio 2021. Le donazioni di privati e imprese a Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, nel 2020, ammontano a circa 900 mila euro. Di questi, 801 mila euro arrivano da persone fisiche, per lo più parlamentari, e quasi 70 mila euro da società, rivela il Corriere della Sera. Eppoi ci sono le quote associative - 265 mila euro - e il 2 per mille dell'Irpef - 725 mila euro - infine  711 euro di "proventi da attività editoriali, manifestazioni e altre attività". In totale, come emerge dall'ultimo rendiconto relativo al 31 dicembre scorso, si tratta di 1 milione 863 mila euro. "Un piccolo tesoretto, a disposizione di Matteo Renzi, visto i tempi di magra dopo l'abolizione del finanziamento pubblico e nonostante la pandemia", si legge ancora. Il disavanzo d'esercizio è di 23 mila euro dovuto a un passivo di 1 milione 887 mila euro. Ma attenzione perché tra i principali finanziatori di Italia viva c'è l'imprenditore Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, con 100 mila euro di persona e 20 mila euro attraverso la Neos spa, la compagnia aerea di cui è presidente. E ancora: Davide Bendinelli, sindaco di Garda (Verona) approdato in Parlamento con Silvio Berlusconi nel 2018 per poi diventare renziano, che contribuisce a con 3 mila euro attraverso il suo Cà Barbini Resort, e con 11 mila 530 euro come deputato. A sostenere Renzi con 48 mila 500 euro figurano infine Davide Serra, fondatore di Algebris e tra i maggiori donatori della fondazione Open, e la Helbiz Italia srl che produce monopattini. Insomma, un bel tesoretto. 

MATTEO RENZI - NESSUNO LEGGE IL MIO LIBRO, MA TUTTI LEGGONO DAGOSPIA. MATTEO RENZI - OSPITE DI BRUNO VESPA ALLA MASSERIA LI RENI A MANDURIA, PRESENTA IL SUO LIBRO “CONTROCORRENTE”. DAGO-TRASCRIZIONE il 26 luglio 2021. (…) Scrivo questo, dicendo: “Come mai la Consob non ha fatto niente?”, “Come mai la Consob non ha vigilato sulla mancanza di accantonamento?”. Dov’è la cosa strana, caro direttore? Che di questa cosa non ha parlato nessuno. Poi due giorni fa un sito di informazione, notoriamente a me non amico, che si chiama Dagospia, ha rilanciato questo tema, e ha detto: guarda guarda che cosa c’è…(…) Nessuno legge il mio libro, ma tutti leggono Dagospia! In Italia questa notizia la tira fuori solo Dagospia. Stava nel libro di un ex premier, attuale senatore, non la rilancia nessun organo di informazione, anche perché cane non mangia cane, tra organi di informazione c’è sempre un certo appeasement, diciamo così. Dagospia ci va già duro e dice ehi, perché Renzi scrive questo e nessuno dice niente, il giorno dopo Dagospia, che leggon tutti, il capo della Consob dice al ministro dell’economia: Oh, se non avete fiducia in me ditemelo che vado via. Al di là del fatto che questa è una sgrammaticatura istituzionale, perché il capo della Consob non deve avere la fiducia del governo (è nominato dal governo, ratificato dai passaggi parlamentari, è un’autorità indipendente),  in questa vicenda ci sono cinque cose che non tornano.

A - A che titolo Savona dice a Franco se volete vado via? 

B - Perché Savona non spiega cosa ha fatto su Cairo? 

C - Perché RCS non spiega perché ha ritenuto di manleavare Cairo ma di non accantonare per la Borsa 

D - Come è possibile che nessuno dei grandi organi di informazione decida di non trattar equesto argomento, essendo argomento molto serio

E - Ma è mai possibile che il capo della Consob legga questa solo su Dagospia, e che alla fine soltanto Dagospia sia la testata che ha il coraggio di affermare queste cose?

Dagospia il 23 luglio 2021. Estratto da “Controcorrente”, di Matteo Renzi, ed. Piemme. Ma volendo volare più basso torniamo alla nostra Italia nell'inverno 2020. Il Governo e le aziende pubbliche tornano a fare tanta pubblicità sui giornali e in tv. Sono denari sonanti per le anemiche casse degli editori italiani strangolati dalle difficoltà del mercato pubblicitario privato. La Consob, il cui presidente è nominato dal Governo populista, evita di intervenire sulle vicende complicate di Urbano Cairo e della sua causa a Blackstone. Ovviamente nessuno fiata, per paura delle reazioni del principale editore italiano, ma il fatto che la Consob non ritenga di accertare la presenza di eventuali accantonamenti al gruppo RCS impegnato in una controversia legale del valore di circa seicento milioni di euro è uno degli scandali più incredibili del mondo finanziario degli ultimi anni. Altro che banche popolari e cooperative: il mancato accantonamento di RCS è una clamorosa ingiustizia per i risparmiatori. E forse non è un caso che alcune trasmissioni de La7 e la testata filogovernativa «il Fatto Quotidiano» — anch'essa in difficoltà economica dopo il crollo delle vendite della direzione Travaglio rispetto alla direzione Padellaro, e come tale costretta a ricorrere al sostegno finanziario dei Decreti Conte — stringano una fortissima collaborazione: prendiamo ad esempio la trasmissione più vista, la storica Otto e mezzo condotta dalla ex europarlamentare Lilli Gruber.

Marcello Zacché per “il Giornale” il 23 luglio 2021. Urbano Cairo non intenderebbe accantonare risorse di Rcs in vista della causa intentata da Blackstone a New York. La società lo comunicherà al mercato nella relazione semestrale che sarà sottoposta al cda venerdì prossimo 30 luglio. Per Cairo la causa di Blackstone non sarebbe fondata, oltre a non esserci nemmeno la competenza territoriale. Per questo, assistito da legali e consulenti, ritiene che non servano gli accantonamenti. Come noto il gruppo di fondi Usa chiede a Rcs 600 milioni di dollari di risarcimento per la mancata vendita dell'immobile di via Solferino e per i relativi danni. La questione deriva dal fatto che quando Cairo ha preso il controllo di Rcs, nel 2016, ha contestato a Blackstone di aver acquistato la sede storica del Corriere approfittando della situazione di difficoltà in cui versava Rcs. Ma l'arbitrato concluso a Milano qualche settimana fa ha escluso questa circostanza. E il presidente, fondatore e ceo di Blackstone Stephen A. Schwarzman, assai offeso per un'accusa di quel tipo, ha riavviato la causa rimasta in sospeso. In attesa che il procedimento avanzi, intorno a Rcs e al suo azionista di controllo (Cairo detiene il 63% di Rcs) girano Cassandre e nubi cariche di tempesta. A Milano la storia appassiona ogni salotto che si rispetti e i grandi nomi della finanza e dell'industria quali Mediobanca, Pirelli, Unipol e Della Valle, che sono rimasti nel capitale Rcs anche dopo la sconfitta del 2016. Da allora hanno lasciato il controllo ma non il cda. Quello che si dice è che, si presentasse l'occasione, sarebbero pronti a tornare all'attacco. E troverebbero tanti disposti ad accodarsi. Dagli Angelucci, editori di Libero, ben consapevoli che per imprenditori romani della sanità una strada in solitaria verso il Corriere è improponibile, ma dentro a una cordata sarebbe un'altra cosa; ai Riffeser, già editori del gruppo Poligrafici e ben noti a Mediobanca; al cosiddetto «gruppo di Italo», gli imprenditori che hanno lanciato il treno privato ad alta velocità capitanati da Luca di Montezemolo; fino a Intesa, la prima banca italiana al fianco di Cairo nella scalata Rcs, ma i cui rapporti con l'editore si sono incrinati (anche per la faccenda Blackstone) proprio quando si sono stretti quelli con Mediobanca. Bisognerà vedere se nel cda di venerdì prossimo qualcuno contesterà la scelta di Cairo. Ma al momento non tira aria di tempesta. «Alla fine una soluzione con i finanzieri di Blackstone si troverà - dice un socio della vecchia guardia - e Cairo farà il suo cammino di Compostela». Per quanto riguarda la Consob, bisognerà vedere se all'Autorità guidata da Paolo Savona la semestrale di Cairo sarà giudicata sufficiente per la tutela dei soci Rcs. Certo, le pressioni non mancano. E arrivano anche da un ex premier, Matteo Renzi, che, a pagina 25 del suo ultimo libro, «Controcorrente» scrive che il mancato intervento della Consob «il cui presidente è nominato dal governo populista» sugli accantonamenti non effettuati da Rcs per la causa Blackstone «è uno degli scandali più incredibili del mondo finanziario degli ultimi anni». Renzi attacca Cairo perché non gli garba - e lo scrive - la linea filo grillina tenuta da La7, di cui è pure editore. E che gli avrebbe dato una mano tramite Savona. Ma così mantiene alta la pressione sul futuro del Corrierone. Di sicuro quel 63% del capitale è «tanta roba» come si dice oggi. Tanto che Cairo ripete che «me lo devono portare via a forza», riferendosi all'impossibilità di un'operazione di mercato. Certo, tutto cambierebbe se per far fronte a un problema finanziario Rcs avesse bisogno di così tanto capitale da costringere Cairo a diluirsi sotto il controllo. Per questo Blackstone accende la fantasia di tanti. E per lo stesso motivo è montata anche la questione dei fornitori di Rcs con fatture scadute da mesi e mesi. Tra questi ci sarebbe anche, secondo il sito Dagospia, Andrea Ceccherini, il promotore e presidente dell'Osservatorio permanente giovani editori. Un «fornitore» illustre, quindi. Tra quelli che possono tenere alto il pressing.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2021. L'errore più grande di Matteo Renzi sulla giustizia? Scegliere le persone sbagliate nei posti di responsabilità. Ad esempio, gli ultimi due componenti laici del Consiglio superiore della magistratura in quota Pd, nell'ordine Giovanni Legnini e David Ermini. L'ex rottamatore, che ieri ha però incassato l'assoluzione di sua madre dall'accusa di bancarotta nel processo in corso a Cuneo, ha parole molto dure per entrambi, attribuendogli di fatto molte delle vicissitudini giudiziarie che lo vedono coinvolto da tempo. Legnini, esponente di primo piano dei dem in Abruzzo dove si candidò anche a governatore, avrebbe «concorso a decidere ogni singola nomina attraverso il meccanismo della lottizzazione delle correnti». Ermini, invece, sarebbe stato preferito a concorrenti più blasonati, come il costituzionalista Massimo Luciani, ultimamente incaricato dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia di scrivere la riforma del Csm. Renzi ricorda poi, senza entrare nello specifico, la scelta della Banca popolare di Bari da parte di Legnini come banca per gestire la cassa milionaria del Csm. Una scelta che aveva sorpreso un po' tutti gli addetti ai lavori del mondo della finanza e che merita di essere raccontata. Il Csm aveva pubblicato il bando per l'affidamento del suo servizio di tesoreria il 7 agosto del 2015 con scadenza per la presentazione delle domande il successivo 16 agosto. L'unico requisito richiesto era l'offerta «più vantaggiosa». Bpb, con solo cinque sedi in tutto il centro Italia, offrendo anche ai magistrati del Csm mutui scontatissimi e prestiti a tassi irrisori, vinse a mani basse, superando colossi come Intesa o Unicredit. Se fossero stati richiesti, invece dei mutui scontatissimi, altri indicatori, tipo la solidità finanziaria, si sarebbe scoperto che nel 2010 la Banca d'Italia aveva evidenziato a carico di Bpb «carenze nell'organizzazione e nei controlli interni sul credito». Pur a fronte di tali carenze Bpb nel 2014 aveva acquisito la Cassa di risparmio di Teramo (Tercas), con la partecipazione per 330 milioni del Fondo interbancario di tutela dei depositi, al quale si era opposta la Commissione europea ritenendolo un aiuto di Stato. Nel 2015, anno in cui iniziò a gestire le risorse dei magistrati, le azioni di Bpb divennero carta straccia. E nel 2016 un'altra ispezione della Banca d'Italia rilevò «significativi ritardi rispetto agli obiettivi prefissati» e, nuovamente, «l'esigenza di rafforzamento nel sistema dei controlli sui crediti». Nel 2017 partì, allora, l'ultimatum da via Nazionale per un aumento di capitale al fine di impedire il fallimento della banca. Il 2018 si chiuse con un rosso record, oltre 430 milioni, per il sistema bancario italiano. Nel 2019 ci fu, infine, l'ennesima visita degli ispettori della Banca d'Italia con la sentenza di "morte". «Si segnala scrissero gli ispettori - l'incapacità della governance di adottare le misure correttive per riequilibrare la situazione patrimoniale. Le gravi perdite portano i requisiti prudenziali di Vigilanza al di sotto dei limiti regolamentari». Il commissariamento chiuse così l'avventura di Bpb e il governo Conte dovette stanziare 900 milioni per il suo salvataggio. Nel 2016 a carico di Bpb, per non farsi mancare nulla, venne aperto dalla Procura di Bari un fascicolo per associazione a delinquere, truffa, ostacolo alla vigilanza, false dichiarazioni in prospetto. Fra gli indagati il presidente Marco Jacobini, poi arrestato, e l'amministratore delegato Vincenzo De Bustis. Questo quadro giudiziario poco idilliaco, però, non impedì a Bpb di continuare a gestire i soldi del Csm e di sponsorizzare i convegni dei magistrati. Nel settembre del 2017, a Pescara, Bpb sponsorizzò infatti un maxi incontro organizzato dalle toghe di sinistra dal titolo «Dialoghi sulle Procure». In prima fila, oltre a Legnini, tutto il gotha di Magistratura democratica, dall'attuale procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi al procuratore di Milano Francesco Greco, magistrato quest' ultimo molto esperto proprio di reati finanziari. Ieri sera, intanto, Renzi ha dato la notizia dell'assoluzione della madre Laura Bovoli su Facebook: «Mia mamma oggi assolta dopo anni di indagini e processi dall'accusa di bancarotta a Cuneo. Perché? Perché il fatto non sussiste. La verità arriva, prima o poi. Tante sofferenze ma poi arriva. Continuino ad attaccarmi, non mollo. E soprattutto: ti voglio bene, mamma. Scusami se hai dovuto subire tutto questo per colpa mia».

Dagospia il 17 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo da Giovanni Legnini. Caro Dago, a proposito dell'articolo a firma di Paolo Ferrari su Libero, che hai pubblicato oggi, da lettore e per amore di verità vorrei precisare alcune cose. Il pezzo contiene diverse dichiarazioni del Senatore Matteo Renzi su cui vale la pena soffermarsi. Sulla vicenda della tesoreria del Csm affidata nel 2015 alla Banca Popolare di Bari occorre ricordare che fu affidata con gara pubblica europea, interamente gestita dalla struttura del Consiglio, e aggiudicata da una commissione di gara. Il Vice Presidente non aveva nessuna competenza trattandosi di atto di gestione amministrativa.  Inoltre è bene dire che nessun pregiudizio ha subito il Consiglio dalla gestione della tesoreria da parte di una banca andata in dissesto anni dopo la stipula del contratto. Non si comprende, quindi, come a distanza di sei anni e dopo che la vicenda è stata oggetto di chiarimenti in ogni sede, ciò possa costituire oggetto di critica. Quanto al resto delle dichiarazioni bisogna ricordare che durante i quattro anni del mio mandato, ho ripetutamente e pubblicamente preso posizione e agito contro le degenerazioni correntizie nella magistratura, garantendo imparzialità e attenendomi al rispetto scrupoloso delle regole. A conferma del mio operato è sufficiente sottolineare che dopo anni di indagini su diversi soggetti, anche interni al Csm, portate avanti dalla magistratura, peraltro utilizzando strumenti molto invasivi, nessun mio comportamento, non dico illecito ma neanche semplicemente scorretto, è stato oggetto di rilievo o attenzione da parte degli inquirenti. Le altre considerazioni appartengono alle opinioni del Senatore Renzi e come tali possono essere valutate da ciascun lettore. Cordialmente, ti saluto, Giovanni Legnini

Renzi: “Bonafede? Il peggior ministro: è sua la colpa dello scandalo Capua Vetere”. L'affondo del leader di Italia Viva: "Ritengo Conte, Bonafede e Basentini responsabili delle violenze in carcere. La riforma Cartabia? Avremmo fatto diversamente ma è un passo avanti". Il Dubbio il 14 luglio 2021. «Dobbiamo prender atto che qualcosa deve profondamente modificarsi, arrivo di Bonafede non è stato positivo, è stato uno dei peggiori ministri, lo volevamo mandare a casa, ma ci siamo fermati per rispetto di Conte». Non si risparmia Matteo Renzi nel suo intervento alla Camera in occasione della presentazione del suo libro “Controcorrente”, edito da Piemme: «Non siamo ancora a livello di Rocco Casalino che aveva superato Obama, ma il volume nelle prevendite sta andando bene». «Ritengo Conte, Bonafede e Basentini i responsabili italiani del più grande scandalo avvenuto negli ultimi anni, ovvero quello che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere e in altre carceri», accusa ancora il leader di Italia Viva intestandosi “l’operazione Draghi”: «Sei mesi fa l’operazione fatta con il cambio del governo è stata un mezzo miracolo. L’obiettivo del libro è dire ai ragazzi di non fidarsi della montagna montante dei social ma di andare oltre, controcorrente appunto». Quindi l’affondo sulla riforma del processo penale.  «La riforma Cartabia? Magistratura e politica sono in guerra dal 1992, è un dato di fatto, c’è tensione che spero possa essere risolta nella fine della “guerra dei trenta anni”», prosegue Renzi. «È un grande passo in avanti – aggiunge – bisogna prendere atto che la questione giudiziaria nasce prima del 1992, Enzo Tortora è precedente. Spero si possa arrivare alla fine del conflitto con l’elezione del Csm, questione su cui faccio autocritica nel libro». «Credo che la legge Bonafede sulla prescrizione sia uno scandalo, i responsabili sono i grillini ei leghisti. Noi l’avremmo cambiata in modo diverso, la proposta del governo non è quella che avremmo voluto noi ma va nel senso che abbiamo auspicato. Ho visto che Conte nella sua nuova veste ha aperto ad una discussione in Parlamento, ci troverà lì», chiosa l’ex premier. Sui referendum di Lega e radicali Renzi fa sapere che «non abbiamo ancora deciso, stiamo valutando».  «Il fatto che sia un referendum portato dai radicali – spiega – mi porta a dire che sia un referendum interessante. Naturalmente ci sono degli aspetti, in quei quesiti, anche discutibili».

Renzi: libro Controcorrente, nel 2019 i pm andarono all’assalto di chi finanziava la Leopolda. Le dure accuse dell'ex premier. Firenze Post.it il 15/7/2021. «Nel novembre 2019 il procuratore Turco va all’assalto di chi finanzia – in modo trasparente, lecito e rendicontato – iniziative politiche come la Leopolda, che la fondazione Open organizza ogni anno. Alle sei del mattino, decine di finanziatori non indagati, vengono svegliati con un blitz da centinaia di uomini della Guardia di Finanza. Centinaia di finanzieri, per un costo esagerato che tanto paga il contribuente. Il messaggio è chiaro: voi avete finanziato la Leopolda di Renzi? E adesso noi vi entriamo in casa al mattino, vi rovesciamo i cassetti e andiamo a spulciarvi il telefonino che vi sequestriamo. E cosa c’entra il telefonino con un bonifico la cui copia è semplicemente ottenibile in banca? Nulla». Lo scrive il leader di Italia Viva Matteo Renzi in un capitolo del suo nuovo libro “Controcorrente” (Piemme). «Per mesi i telefonini, con i messaggi privati, le foto private, i dati privati restano nelle mani degli inquirenti. Il Pm Turco, nel silenzio impaurito dei commentatori, prende i telefonini dei non indagati finanziatori della Leopolda con l’unico obiettivo di avere più informazioni su di loro. E su di me – continua Renzi. Non sta cercando prove, sta cercando reati. E questa frase non la dico io, la dice mesi dopo la Corte di Cassazione che dà quattro volte torto al pubblico ministero fiorentino. Sono parole che dovrebbero far arrossire di vergogna gli inquirenti quelle che la Suprema Corte mette per iscritto nell’annullare le ordinanze di sequestro: un inutile “sacrificio di diritti”, con un sequestro “onnivoro e invasivo”, “asimmetrico”, “che finisce per assumere una non consentita funzione esplorativa”. Il sequestro insomma sacrifica i diritti di un cittadino per andare a cercare altri reati. Con centinaia di finanzieri che al mattino vengono inviati a sequestrare telefonini di persone per bene, nemmeno indagate, ma a cui viene dato il messaggio: “State lontani da Renzi”. Ma non ci rendiamo conto che in questo stile – contestato dalla Corte di Cassazione, non dalle chiacchiere del bar – c’è una fortissima invasione di campo della magistratura nella sfera politica? Chi tocca Renzi rischia, chi finanzia iniziative cui lui partecipa rischia ancora di più. I cittadini finanziatori hanno reazioni diverse. Qualcuno smette anche di parlarmi. Molti soffrono la violazione della privacy in silenzio. Altri sono indignati e consolano me quando io non trovo le parole per scusarmi con loro. Uno mi scriverà dopo mesi: “Ti chiedo scusa se in questi mesi ti ho evitato. Ma quando ho visto i finanzieri aprire i cassetti di camera mia mi sono sentito come violentato. E ho pensato che tu avessi combinato chissà che cosa”».

DA “La Verità” il 13 luglio 2021. - Per gentile concessione dell’editore Piemme, pubblichiamo ampi stralci del nuovo libro di Matteo Renzi intitolato “Controcorrente” (272 pagine; 17,90 euro). Senza una commissione parlamentare di inchiesta non faremo mai tesoro degli errori dei piani pandemici, ma anche e soprattutto delle opacità di una struttura commissariale che ha permesso di fare lucrare a improbabili mediatori cifre enormi. Mentre molti, troppi, morivano, qualcuno faceva molti, troppi, soldi. È chiaro così? Chi ha interesse a non scoperchiare la pentola della verità? Davvero chi ha gridato per anni «onestà, onestà, onestà» oggi non vuole capire dove sono finiti i soldi degli italiani? Lo ripeto: questa vicenda è peggio di Tangentopoli. E mi colpisce il silenzio dei più davanti a un'affermazione così perentoria. Peggio di Tangentopoli, sì, peggio di qualsiasi altro scandalo corruttivo della storia repubblicana. Nella Prima Repubblica un sistema sbagliato e illegale contribuiva, con il complice silenzio di tutti, a finanziare, in modo illecito, la politica, i partiti, il loro finanziamento. In questo caso, se fosse vero ciò che viene da più parti paventato, singoli individui avrebbero lucrato un enorme vantaggio economico da una situazione di disperazione del Paese. Chi sono queste persone? A che titolo hanno ricevuto questi denari? Ci sono fiduciarie e fondi esteri implicati in questa vicenda? Fare chiarezza è un dovere. E mi colpisce che quando chiedo di votare la commissione di inchiesta nessuno mi dice nulla. Banchi a rotelle, gel, mascherine, ventilatori cinesi malfunzionanti ma garantiti da Massimo D'Alema: stiamo parlando di centinaia di milioni di euro. Perché il silenzio cala sovrano? Avessero dedicato a questa storia il dieci per cento del tempo che hanno dedicato alle mie visite in autogrill o alle mie conferenze all'estero oggi questa commissione di inchiesta sarebbe già insediata a furor di popolo. La questione, più importante, è che Conte insiste nel non mollare i Servizi. Perché? Perché rischiare di far cadere il Governo su una faccenda del genere? Che cosa c'è sotto? Lo dice in aula, lo dice in conferenza stampa, lo dice a Porta a Porta. C'è una vicenda che nessuno in questi mesi ha mai fatto notare. E segnalarla non è frutto di malizia ma richiesta di verità. Nel maggio 2020 il commissario Arcuri fa sapere a uno dei principali beneficiari dell'intermediazione di mascherine, Benotti, il quale ha incassato milioni e milioni di euro da questa attività sulla cui legittimità sono aperte inchieste, che lui, Arcuri, non può più vederlo. Perché? Perché Palazzo Chigi gli ha fatto sapere che non è il caso. Ora, questa notizia può apparire banale e insignificante ma in realtà nasconde un grande quesito. Cosa significa? Palazzo Chigi ha informato Arcuri di che cosa? Dell'esistenza di un'indagine? Qualcuno ha intercettato telefonate particolari? A che titolo Palazzo Chigi conosce questi dettagli? Se davvero è Palazzo Chigi significa che sono i Servizi segreti e questo porterebbe a dire che già a maggio 2020 l'intelligence informa o viene informata in modo non tradizionale. È forse questo il motivo per cui il premier non intende cedere l'autorità delegata? O c'è dell'altro? E l'interrogativo è: quando si dice che Palazzo Chigi ha fatto sapere, a chi ci si riferisce? La domanda delle domande, cui nessuno vuole dare risposta, è semplice: Palazzo Chigi chi?

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 15 luglio 2021. Dai documentari tv alle conferenze arabe. I soldi che Matteo Renzi guadagna al di fuori della sua attività politica attirano l'attenzione dei magistrati. Più che altro, per il modo in cui arrivano nelle tasche del leader di Italia Viva. Dopo la notizia dell'inchiesta della procura di Roma per finanziamento illecito, per i 700mila euro ricevuti dal manager Lucio Presta, ecco la conferma di un'altra indagine a suo carico: la procura di Firenze gli contesta l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, in relazione al compenso incassato per una conferenza tenuta ad Abu Dhabi. A raccontarlo è lo stesso Renzi, in un passaggio del suo nuovo libro, ma la vicenda era nota da più di un anno. Tutto ruota intorno ai circa 33mila euro versati all'ex premier per la partecipazione al convegno, che si è svolto nella capitale degli Emirati Arabi tra il 9 e il 12 dicembre 2019. Un forum internazionale tra finanza e geopolitica organizzato dalla Salt (SkyBridge Alternative), società di Anthony Scaramucci, imprenditore americano in passato anche consulente di Donald Trump. Il punto è che i soldi non sono arrivati a Renzi direttamente dalla società newyorkese, ma da una piccola azienda di Portici, vicino a Napoli, che ha fatto da intermediario. Carlo Torino, titolare della Carlo Torino associati, risulta indagato, in concorso con Renzi, nell'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco, lo stesso che ha portato a processo i genitori del senatore fiorentino, imputati per bancarotta fraudolenta e false fatturazioni (prossima udienza il 2 novembre). Ieri, intanto, la madre di Renzi, Laura Bovoli, è stata assolta in un altro processo per bancarotta fraudolenta, legato al fallimento, nel 2012, di una società di Cuneo, che si occupava della diffusione di volantini e pubblicità per i supermercati. «La verità arriva, prima o poi - commenta Renzi - scusami se hai dovuto subire tutto questo per colpa mia». Nel libro, invece, se la prende direttamente con il procuratore Turco: «Avendo finito il resto della famiglia ha inviato un avviso di garanzia anche a me - scrive -. Solo al sottoscritto, e solo dalla procura di Firenze, sono stati avanzati rilievi sulle conferenze a pagamento che caratterizzano l'attività di molti ex capi di governo». Inoltre, la prestazione in questione è «talmente inesistente da essere reperibile su Youtube e sulle principali testate internazionali». L'intervento di Renzi ad Abu Dhabi, intitolato "Il futuro dell'Europa", è effettivamente online, mentre il motivo per cui il suo compenso sia passato da Portici è meno chiaro. In un'intervista rilasciata alla trasmissione "Report", l'ex premier spiegava: «I soldi non fanno un giro strano, chiunque si occupa di convegni a livello internazionale sa che c'è l'organizzatore del convegno e c'è chi organizza la presenza dei relatori. Comunque, i soldi sono tutti tracciati e trasparenti». Resta il punto interrogativo su quali siano i rapporti che lo legano a Carlo Torino e alla sua S. r. l. s., società a responsabilità limitata semplificata, capitale 1500 euro, fondata nel novembre 2019 e che risultava inattiva. L'inchiesta è nata da una segnalazione fatta da una banca all'Uif di Bankitalia (l'unità di prevenzione antiriciclaggio) per dei movimenti di denaro sul conto corrente della società napoletana, che era stata anche perquisita. Del resto, sempre dalla Procura di Firenze, e in particolare dall'indagine sui finanziamenti alla Fondazione Open, sarebbero partiti gli accertamenti da cui è nata l'inchiesta romana a carico della coppia Renzi-Presta. Sotto la lente dei magistrati, non tanto il cachet fuori mercato (400mila euro) ottenuto da Renzi per il documentario a puntate "Firenze secondo me", che almeno è andato in onda, quanto i due contratti, da 100mila euro l'uno, per due format tv rimasti sulla carta, più un terzo (sempre da 100mila euro) per la cessione dei diritti d'immagine del Renzi "artista". Contributi indebiti, secondo i pm, versati a un esponente politico per attività mai concretizzate. Soldi serviti al senatore per restituire un prestito a un amico imprenditore, che lo aveva aiutato a comprare la villa fiorentina dove vive con la famiglia.

Matteo Renzi e Lucio Presta indagati per finanziamento illecito.  Giuliano Foschini,  Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 13 luglio 2021. L'indagine è legata al documentario "Firenze secondo me" realizzato dalla società di Presta, l'Arcobaleno Tre. Quel progetto tv, andato in onda su Discovery, finì nel 2019 in una relazione dell'antiriciclaggio della Uif. Matteo Renzi e il manager Lucio Presta sono indagati dalla procura di Roma per finanziamento illecito ai partiti. La vicenda riguarda il documentario su Firenze, "Firenze secondo me", che Renzi, con la casa di produzione Arcobaleno 3 della famiglia Presta (l'amministratore è Niccolò, figlio di Lucio, anche lui indagato), ha realizzato. E’ andato in onda su Discovery Channel con scarsissimi risultati di pubblico: il 2 per cento. Per i Presta non era stato un buon affare, visto che Discovery aveva pagato appena 20mila euro. Per Renzi sì che aveva intascato 454 mila euro per il documentario. Ora la procura di Roma e gli uomini del nucleo di Polizia valutaria della Guardia di finanza ipotizzano che, dietro il cachet per quel documentario, ci sia in realtà altro: un finanziamento illecito al Renzi politico, appunto, essendo la cifra troppo alta. E una serie di reati fiscali contestati ai Presta per "prestazioni mai effettuate": in questa maniera, infatti, avrebbero frodato l'Iva. Nei giorni scorsi i finanzieri hanno effettuato una perquisizione a casa dei due Presta, nella società Arcobaleno sequestrando alcuni documenti che potrebbero essere utili alle indagini. L'indagine è partita da una segnalazione della Uif, l'Antiriciclaggio di Bankitalia, del dicembre del 2019. Parte di quel denaro, secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori, sarebbe servito a Renzi per ripagare il prestito di 700mila euro che aveva ricevuto dalla singora Anna Picchioni, vedova dell'imprenditore Egiziano Maestrelli, per comprare la villa di Firenze (1 milione e 350mila euro per 285 metri quadrati) dove oggi l'ex premier vive. Renzi ha sempre rivendicato la regolarità dell'operazione spiegando che il prestito era stato ripagato grazie ai guadagni extra: gli introiti da conferenziere. E la realizzazione del documentario, appunto. Secondo la Finanza, però, la cifra ricevuta da Presta è assolutamente fuorimercato. Ed è spiegabile appunto soltanto come un finanziamento dell'imprenditore all'attuale leader di Italia Viva. Per questo a Presta vengono anche contestati i reati fiscali. E in una diretta facebook Matteo Renzi ha replicato: "Questo avviso di garanzia non so in cosa possa sostanziarsi. Tutte le mie attività sono lecite e legittime. Quando arriveranno gli atti, e non i tweet dei giornalisti, potremo confrontarci. Non ho nulla da nascondere, buon lavoro ai magistrati". E ancora: "Qualcuno forse pensa che possa fermarmi di fronte a questo, che io possa perdere il buonumore e innervosirmi. Ma chi mi conosce sa che io vado controcorrente, non ho paura di andare contro tutto e tutti anche per cambiare un governo. Figuriamoci se possono farmi paura con un avviso di garanzia. Ci sono casualità che si ripetono. L'altra volta, quando presentai il mio libro, furono arrestati mio padre e mia madre. Stavolta si sono limitati ad un avviso di garanzia. Verrebbe da ridere di fronte a tutto questo ma non c'è niente da ridere. Quindi vado avanti con più decisione di prima".

 Renzi indagato: quando L’Espresso raccontò di quello strano prestito. L'Espresso il 13 luglio 2021. L’ex premier è stato iscritto a Roma per finanziamento illecito. La storia dell’acquisto della casa e dell’aiuto ottenuto dal manager dello spettacolo Lucio Presta. L'ex premier Matteo Renzi è indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni insieme al manager dello spettacolo Lucio Presta. La procura di Roma ha iscritto il leader di Italia Viva nel registro degli indagati qualche settimana fa, in merito a un'inchiesta sui rapporti economici tra Renzi e l'agente televisivo. Al centro dell'indagine i bonifici del documentario "Firenze secondo me", che finirono nel 2019 in una relazione dell'antiriciclaggio della Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. L'Espresso segnalò due anni fa come Presta, per il progetto televisivo andato in onda su Discovery, «girò a Renzi quasi mezzo milione di euro, una cifra che appariva fuori mercato».

Da “Il Fatto Quotidiano” il 21 luglio 2021. In relazione agli articoli "Presta, pm pronti a sentire Renzi. Che è indagato" a firma di Valeria Pacelli e "Vip e 8 milioni di fatturato: l'azienda che paga Matteo" a firma di Stefano Vergine, pubblicati sul Fatto del 15 luglio, si rettifica quanto segue: "Smentiamo categoricamente la veridicità di quanto da voi pubblicato sul versamento di somme rispettivamente pari a 9,2 milioni e 13,2 milioni da parte della società televisive, Rai e Reti televisive italiane Spa al signor Lucio Presta e alla Arcobaleno Tre Srl, nonché la veridicità dei dati riferiti relativi al fatturato di quest' ultima. Abbiamo saputo dell'indagine della Procura di Roma sull'ipotesi di violazione della legge sul finanziamento ai partiti solo pochi giorni fa e ci siamo subito messi a disposizione dell'autorità giudiziaria, per chiarire i rapporti di collaborazione nel campo delle prestazioni artistiche e autorali da parte di Matteo Renzi, che risalgono a quasi tre anni fa, inerenti il documentario Firenze secondo me, di cui si era parlato pubblicamente al momento in cui la società Arcobaleno Tre aveva proposto a Matteo Renzi di produrlo con la sua collaborazione autorale e conduzione. Contrariamente a quanto si legge nel testo dell'articolo, si tratta di prestazioni esistenti, regolarmente fatturate all'Arcobaleno Tre e pagate alla persona fisica quale corrispettivo dell'attività svolta, non al politico o, tanto meno, al partito. Stiamo presentando una memoria con documentazione contrattuale e bancaria che certamente sarà motivo di attenta valutazione da parte della Procura, onde fugare ogni dubbio sulla posizione dei signori Presta. Lucio e Niccolò Presta 

La risposta di Valeria Pacelli e Stefano Vergine: L'articolo "Presta, pm pronti a sentire Renzi" non fa altro che riportare, come scritto, ipotesi investigative. Sono infatti i magistrati nel decreto di perquisizione a parlare di "rapporti contrattuali fittizi". L'articolo "Vip e 8 milioni di fatturato: l'azienda che paga Matteo" riporta i dati dell'Arcobaleno Tre che derivano dal bilancio della società stessa. Per quanto riguarda invece gli incassi da parte di Rai, Rti ed Endemol, sono contenuti in una segnalazione per operazioni sospette della Uif di Banca d'Italia.

Casa Renzi, le nuove carte di Bankitalia: «Il prestito restituito grazie a Lucio Presta». Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian L'Espresso il 19 dicembre 2019. Il leader di Italia Viva ha detto che i 700 mila euro furono restituiti appena «perfezionata la vendita della vecchia villa». Ma le date non tornano. L’antiriciclaggio ha analizzato i bonifici tra il senatore e l'agente delle star. Per Renzi mezzo milione per il documentario su Firenze. Ma Discovery lo ha comprato per meno di 20 mila euro. L'impresario televisivo: «Troppi soldi a Matteo? Se lo volevo, dovevo trattare». Matteo Renzi ha detto che il prestito da 700 mila euro necessario all’acquisto della sua nuova villa a Firenze l’ha rimborsato appena «perfezionata» la vendita della vecchia casa di Pontassieve. Un’affermazione fasulla, visto che la casa - si scopre ora - è stata venduta solo nel maggio del 2019. Il senatore di Italia Viva - come dimostra una nuova informativa della Uif - è riuscito a pagare il suo debito grazie a circa mezzo milione di euro giratogli da Lucio Presta. L’agente delle star ha dato a Renzi il mega compenso per il documentario “Firenze secondo me” (di cui il politico era autore e conduttore) tra settembre e novembre 2018. Una somma completamente fuori mercato: l’Espresso ha scoperto che Discovery Italia, l’unica emittente che ha mandato in onda il programma, ha infatti versato a Presta per la messa in onda del documentario meno di 20 mila euro. Come mai la Arcobaleno Tre ha dato all’ex premier un compenso così alto? Partiamo dalla fine. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del nostro settimanale che ha svelato come l’ex democrat abbia comprato una villa da 1,3 milioni di euro grazie al prestito arrivato da una società del finanziatore della Fondazione Open Riccardo Maestrelli, Renzi prima ha spiegato che nell’operazione finita nel mirino dell’antiriciclaggio di Bankitalia «non c’è nulla di illegale». Poi è entrato nel merito. Ha negato conflitti d’interessi o deficit di etica politica, senza però chiarire come mai il prestito a tasso zero sia stato “schermato” dalla Pida (società di Maestrelli, nel 2015 piazzato in Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare) attraverso il conto dell’anziana madre Anna Picchioni. E ha infine dichiarato di aver restituito la somma in soli pochi mesi. Ma come ha fatto, dal momento che lui stesso aveva mostrato in tv, prima di comprare casa nel giugno 2018, un conto corrente di appena 15 mila euro? La prima versione di Renzi è arrivata, a chi vi scrive, il 27 novembre. Se inizialmente Renzi aveva rifiutato di rispondere alle nostre domande, dopo la pubblicazione online dell’articolo ci ha detto che il prestito era stato restituito nel tempo necessario «a ricevere i soldi delle conferenze». Lo stesso giorno, durante una conferenza stampa, aveva dichiarato di aver guadagnato nel 2018 ben 830 mila euro grazie alle sue attività extraparlamentari. Il giorno dopo, in un post su Facebook, Renzi ha aggiunto una spiegazione supplementare: il bonifico proveniente dalla Picchioni sarebbe stato di fatto un prestito ponte, rimborsato appena «perfezionata» la vendita della «vecchia casa di Pontassieve, ceduta per 830 mila euro». Una versione dei fatti ribadita anche a Raidue, e successivamente negli studi di Massimo Giletti e di Corrado Formigli. Incrociando le carte del catasto, e analizzando nuovi documenti inediti dell’antiriciclaggio di Bankitalia, si scopre, però, che Renzi è riuscito a restituire il prestito alla madre di Maestrelli il 6 novembre 2018 non con i soldi provenienti dalla vendita della vecchia villa (venduta infatti molti mesi dopo, a maggio del 2019; lo stesso contratto preliminare è di fine dicembre 2018). E nemmeno con le sole retribuzioni delle conferenze in giro per il mondo, visto che da giugno a novembre dell’anno scorso l’ex premier ha incassato dai suoi speech “solo” 175 mila euro, che coprivano appena un quarto del valore del prestito di Maestrelli. I soldi necessari a restituire il prestito usato per l’acquisto della villa sono in realtà arrivati da 15 fatture pagate a Renzi da Lucio Presta. L’agente delle star ha prodotto il documentario “Firenze secondo me”, di cui il politico era autore e conduttore. Così, tra settembre e il 2 novembre 2018, la sua società Arcobaleno Tre ha girato a Renzi quasi mezzo milione di euro. Pari ai tre quarti del valore del debito contratto dall’ex presidente del Consiglio: il 6 novembre, quattro giorni dopo l’arrivo del secondo bonifico da Presta, il leader ha bonificato 700 mila euro in favore della vedova Picchioni, a titolo di «restituzione prestito». 

CON PRESTA SI CHIUDE IL PRESTITO. Senza Presta, dunque, Renzi non avrebbe potuto restituire i 700 mila euro alla madre dell’imprenditore Maestrelli. Almeno, non in tempi così rapidi. Se era noto, come hanno scritto la Repubblica e la Verità, che l’agente aveva girato a Renzi un cachet da 454 mila euro per le quattro puntate del documentario andate in onda un anno fa su Discovery Channel, L’Espresso ha scoperto che il compenso per i diritti d’autore è stato versato sul conto di Renzi con due bonifici. E che il primo, partito dalla Arcobaleno Tre il 17 settembre 2018 per un valore di 235 mila euro, è stato pagato da Presta prima ancora che qualche emittente facesse un contratto. Come ha detto l’ex ad Marinella Soldi, «la decisione di trasmettere il documentario e la relativa negoziazione dei diritti sono avvenute successivamente alla mia uscita dal gruppo Discovery, divenuta effettiva il 1 ottobre 2018». Non solo: Discovery Italia - la media company che ha comprato la messa in onda del documentario che ha fatto meno del 2 per cento di share - ha dato alla società Arcobaleno di Presta e di suo figlio Niccolò meno di 20 mila euro complessive per i diritti del programma. Come mai l’agente ha concesso al senatore un cachet così alto, 25 volte maggiore della fee sborsata da Discovery? I diritti sono stati venduti altre emittenti nazionali o internazionali che finora non l’hanno ancora messa in onda? «Renzi è stato pagato con la ritenuta d’acconto», ci spiega Presta al telefono, «non posso rivelare la cifra avuta da Discovery. Posso dirle che anche se non ho venduto ancora i diritti ad altre emittenti, farò un Dvd e un libro. Insomma, ho i diritti per tutta la vita! Firenze non ha una data di scadenza». All’Espresso che domanda se Mediaset abbia comprato il documentario senza averlo ancora mandato in onda, Presta risponde: «No... con loro abbiamo solo trattato». Il Corriere della Sera il 16 ottobre del 2018, raccontando la presentazione del documentario fatto a Cannes, annunciò che l’Arcobaleno Tre aveva chiuso un accordo con Mediaset di Silvio Berlusconi «dopo una lunga trattativa», e che il docu-film sarebbe stato «trasmesso in prima serata: una scommessa per il Biscione, che a fronte di un importante investimento si aspetta un relativo buon ritorno pubblicitario». Articolo mai smentito: solo a novembre i quotidiani, tra cui Il Giornale della famiglia Berlusconi, annunciarono che Mediaset s’era sfilata per le esose richieste di Presta, e che Renzi sarebbe andato in onda su Discovery. Il generoso compenso pagato da Presta al nuovo talento della sua scuderia sembra comunque del tutto fuori mercato per un documentario prodotto in Italia. Non solo perché Discovery Italia valuta i diritti d’immagine di “Firenze secondo me” meno di 20 mila euro. Ma anche facendo confronti con prodotti simili, il cachet offerto da Presta a Renzi appare abnorme rispetto alle prestazioni fatturate. Alberto Angela nel 2018, dopo decenni di carriera in Rai, ha guadagnato dal servizio pubblico 950 mila euro complessivi. Non per un unico documentario, ma per 15 trasmissioni tra “Ulisse”, “Le Meraviglie” e “Stanotte a Pompei”, a cui vanno aggiunte una decina di repliche: se Renzi ha preso 110 mila euro a puntata, il conduttore e autore più autorevole e famoso d’Italia appena 38 mila. Con la differenza che Angela garantisce share superiori al 20 per cento e picchi di 6 milioni di persone, Renzi (documentarista senza curriculum) vanta finora numeri risibili. «Presta», dicono i renziani contattati dall’Espresso, «ha puntato sulla grande fama politica di Matteo. Non fate confronti scorretti. Poi lui del documentario è anche ideatore, conduttore e narratore: perciò il cachet sembra alto». Cifra congrua anche secondo l’agente: «Quando hai la prima volta di una persona che fa qualcosa, la cifra si decide e si concorda in una trattativa». Walter Veltroni, ex segretario del Pd come Renzi e tra i politici italiani più in vista, non è probabilmente un bravo negoziatore come Matteo. Anche lui è autore, ideatore e regista dei suoi documentari, ma prende assai meno del collega: per “Quando c’era Berlinguer”, prodotto dalla Palomar e Sky, per esempio ha guadagnato poco più di 20 mila euro lordi. E l’intero prodotto, tra troupe, tecnici, riprese, montaggio e post produzione è costato in totale circa 200 mila euro. A differenza di “Firenze secondo me”, è stato pure un successo: il documentario di Veltroni nel 2014 incassò, solo al cinema, quasi 700 mila euro. «Veltroni ha preso il giusto, Renzi una cifra folle», sostengono gli addetti ai lavori. D’altronde grandi star come Toni Servillo, i premi Oscar Jeremy Irons o Helen Mirren hanno preso tra i 30 e i 50 mila euro complessivi, per fare i narratori e i conduttori di documentari di successo sui grandi musei (Ermitage, il Prado) o su Anna Frank, tutti venduti in mezzo mondo e coprodotti da Sky. Dieci volte più bassi, dunque, di quello ottenuto dal fortunato senatore di Rignano sull’Arno.

DA MEDIASET ALL’AGENTE. Ma da dove viene la provvista che ha permesso a Presta di pagare i bonifici a Renzi? Certamente, non da Discovery Italia. Sono altre media company a rimpinguare i conti del procuratore. Lo scopriamo leggendo un’altra segnalazione sospetta. Gli ispettori della Uif di Bankitalia prima lavorano sulla «provvista necessaria ai coniugi Renzi-Landini» (cognome della moglie Agnese, ndr) per la restituzione del prestito da 700 mila euro alla signora Picchioni. Poi, dopo aver elencato i bonifici provenienti dalle conferenze su cui torneremo più avanti, si concentrano sui pagamenti di Presta. «Tenuto conto che la gran parte della provvista in entrata (sul conto di Renzi, ndr) deriva da bonifici disposti dalla Arcobaleno Tre (453 mila euro su complessivi 640 mila euro) si è acquisita copia della movimentazione del conto corrente intrattenuto da tale azienda». Ebbene, le analisi finanziarie sul conto corrente della Banca Monte dei Paschi di Siena intestati alla srl di Presta e del figlio evidenziano che «i fondi necessari ai predetti bonifici in favore di Matteo Renzi erano già presenti sul rapporto della Arcobaleno Tre». Nel corso del 2018 erano arrivati alla srl bonifici di natura commerciale per 13,2 milioni di euro. Soldi provenienti da Rai e Endemol (che girano all’agenzia di Presta rispettivamente 825 mila e 805 mila euro), e soprattutto da Reti Televisive Italiane. Una società di Mediaset che l’anno scorso ha girato al procuratore bonifici per la bellezza di 9,2 milioni di euro. Presta con l’azienda di Silvio Berlusconi ha un rapporto professionale costante. Soprattutto perché cura gli interessi di una dei conduttori più ricchi della tv del Biscione, Paolo Bonolis. Anche grazie a Mediaset, il procuratore vive un momento d’oro: l’ultimo bilancio segnala una crescita dell’utile netto del 100 per cento rispetto all’anno precedente. Visti i rapporti economici, non è un caso che l’agente di Renzi abbia trattato per mesi la vendita del documentario proprio con la società di Berlusconi, che dai tempi del Nazareno con Renzi ha sempre avuto un rapporto dialettico. 

TRA RAI E LEOPOLDA. «Tra privati cittadini ognuno fa quello che vuole. E Presta può dare a Renzi conduttore quanto preferisce», dicono gli amici dell’ex presidente del Consiglio. Sul piano formale, però, qualcuno potrebbe storcere il naso. Il rischio di conflitti d’interesse è infatti dietro l’angolo. Presta, infatti, non è solo il regista dell’ultima Leopolda: è pure l’uomo che ha portato il suo assistito Bonolis alla kermesse fiorentina del 2018. «Nel 2019 ho fatto l’allestimento della Leopolda, ho chiamato io le aziende che si sono occupate dell’audio-video e compagnia bella», spiega Presta. «Ho avuto massimo 15 mila euro, con cui ho pagato i miei fornitori abituali». L’imprenditore nel maggio 2015 ha pure ottenuto dalla Rai, la televisione di Stato, l’organizzazione dell’evento inaugurale dell’Expo di Milano. L’appalto fu assegnato dai manager capitanati da Luigi Gubitosi nonostante fosse stata precedentemente «creata una struttura Rai - protestò al tempo un’associazione dei dipendenti di Piazza Mazzini - apposta per affrontare gli impegni legati alla manifestazione. Cui prodest?». Ancora oggi Presta lavora benissimo con la tv pubblica, di cui Pd, M5S e Italia Viva stanno decidendo proprio negli ultimi giorni nomine e poltrone: Amadeus, di cui Presta è agente, sarà il presentatore del prossimo Sanremo, a cui parteciperà anche Roberto Benigni, di cui il promoter cura da sempre i contratti. Mentre nel suo portfolio ci sono altre stelle della Rai, come la moglie dell’agente Paola Perego, Lorella Cuccarini ed Eleonora Daniele. Non solo: l’agente che nel 2018 a versato a Renzi un compenso mostruoso usato poi per restituire il prestito di Maestrelli, è stato pure candidato dal Pd nel marzo del 2016 (quando Matteo era premier e segretario del partito) come sindaco di Cosenza. Una decisione che fece scalpore, anche perché Presta si rifiutò di sottomettersi al responso delle primarie di coalizione. «È stato imposto da Renzi», accusavano le fronde interne al partito, mentre il procuratore delle star spiegò a Repubblica che l’amico «conosciuto quando era sindaco di Firenze» aveva «fatto di tutto per dissuadermi. Io l’ho visto con mia moglie, e le ha detto: “Ha deciso e non torna indietro. Fattene una ragione”. Il no alle primarie? Perché avrei dovuto? Non è Presta che è andato dal Pd, è il Pd che è venuto da Presta». La corsa a primo cittadino della sua città alla fine s’interruppe quasi subito: l’agente si ritirò per non specificati «motivi di natura familiare». 

CONFERENZE D’ORO. Se tre quarti del prestito a tasso zero sono stati restituiti grazie al super cachet, il resto della somma necessaria a saldare la vedova Picchioni è arrivato dalle conferenze in giro per il mondo. Nemmeno un euro, a differenza di quando raccontato da Renzi, arriva dalla vendita della vecchia casa di Pontassieve: i compratori, una famiglia del posto, a fine 2018 versano a Renzi e consorte una caparra di soli 60 mila euro per di più divisa in due tranche: 10 mila euro a ottobre, altri 50 mila euro a fine dicembre, quando il bonifico verso i Maestrelli è già partito da un pezzo. I restanti 770 mila euro vengono accreditati sul conto corrente di Renzi e Landini solo il 27 maggio 2019, e parte importante della somma viene usata per estinguere i mutui che pesavano sulla villetta venduta. I compensi per alcuni speech, invece, arrivano effettivamente tra giugno e ottobre 2018. L’ex premier, che secondo le classifiche di Openpolis è uno dei cinque senatori più assenteisti della legislatura in corso (ha saltato quasi il 40 per cento delle sedute a Palazzo Madama), per il suo secondo lavoro di conferenziere nel 2018 è stato in Stati Uniti, Cina, Qatar. I viaggi rendono assai bene: la società inglese Celebrity Speakers - leggendo le carte Uif - ha versato a Renzi quasi 84 mila euro per quattro interventi, del 3 e 4 giugno e del 18 e 19 settembre. Per un solo evento in Kazakistan, l’Eurasia Media Forum, la società Elastica gli ha pagato un gettone di oltre 10 mila euro. Altri 26 mila sono arrivati da Minds Agency, e altri due interventi in Inghilterra sono stati pagati 57 mila euro. Queste ultime due fatture sono state saldate da Algebris Uk Limited, la società del finanziere Davide Serra. Uno dei finanziatori di Open perquisiti nei giorni scorsi dalla Finanza, che evidentemente apprezza il Renzi conferenziere e lo paga lautamente. «È libero di farlo», dicono i conoscenti, «la stima per il senatore all’estero è enorme». Anche Serra nutre ammirazione per l’amico. E apprezza di certo le sue posizioni politiche. Anche quella sulla flat tax per i super ricchi, norma di cui il finanziere s’è avvalso lo scorso anno per trasferire il suo domicilio da Londra all’Italia. Come ha raccontato il Sole 24 Ore, Serra nel giugno 2018 insieme a manager, imprenditori e calciatori ha usato una nuova regola introdotta dal governo del Pd con la legge di Bilancio del 2017. «Un provvedimento sponsorizzato da Renzi, ed attuato concretamente dal successore a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni, che favorisce i Paperoni che vengono in Italia», scrive il quotidiano di Confindustria. Che nota come Serra & Co, grazie al sì alla norma del Pd al tempo guidato da Matteo in persona, pagano un’imposta forfettaria di 100 mila euro l’anno, indipendentemente dal reddito guadagnato all’estero. Chissà se nelle conferenze pagategli da Serra, Renzi abbia spiegato alla platea inglese come migliorare il loro regime fiscale per i “residenti non domiciliati”. Quello italiano è ormai più conveniente di quello britannico. Soprattutto per i ricchi, s’intende.

Renzi e i suoi fratelli: sono 196 parlamentari con il doppio lavoro tra aziende e spa. Zan è proprietario e amministratore della società che gestisce l’evento del Pride Village di Padova, Bonifazi è in una società immobiliare con Davide Serra. Il meloniano Urso siede in commissione Affari esteri ed è socio con il figlio di una società che si occupa di internazionalizzazione delle imprese. La forzista Bernini è ancora nel cda di una società di armi. Ecco i casi più eclatanti. Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 3 maggio 2021. Matteo Renzi fa tendenza. Non fra gli elettori, ma fra i parlamentari col doppio lavoro, la doppia poltrona e, a volte, il doppio stipendio. Come ha raccontato L’Espresso, il conferenziere a ingaggio ha appena inaugurato la Ma.Re, una società di consulenza che, con modestia, porta le sue iniziali. Però di Renzi n’è pieno il Parlamento: 196 parlamentari durante la legislatura hanno avviato imprese o assunto cariche in consigli di amministrazione oppure, semplicemente, non hanno mai sospeso i loro affari. Siccome non ci sono limiti, ci si muove senza limiti. In Italia non ci sono norme precise e rigide. Il Senato non prescrive nulla. La Camera ha un timido codice di condotta. Il Gruppo di Stati contro la corruzione, il cosiddetto organismo Greco del consiglio d’Europa, ha appena consegnato un rapporto molto critico a Palazzo Chigi: «Ci si rammarica che le iniziative concrete che erano state impostate dalla precedente legislatura sui conflitti di interesse non abbiano avuto seguito. Le autorità italiane fanno solo riferimento a una bozza di modifica della legge sui conflitti di interesse attualmente in discussione alla Camera». Si tratta del disegno di legge Fiano-Boccia, impantanato da mesi nelle commissioni a Montecitorio. La norma prevede «ulteriori casi di ineleggibilità e incompatibilità per i parlamentari sul fronte dell’attività privata anche se svolta all’estero e sulle partecipazioni societarie e azionarie anche in srl e aziende non solo dirette ma anche di familiari». E poi si demanda all’Autorità per la concorrenza, cioè all’Antitrust, il compito di controllare il rispetto della norma e irrogare eventuali sanzioni «fino alla decadenza del parlamentare in questione». Vincoli severi e perciò ancora in bozza. Il Greco ha chiesto, inoltre, altri interventi sui conflitti di interessi dopo la carriera parlamentare. Roma indugia perché i politici indugiano. In fondo conviene, a chi ha uno stipendio, ritrovarsene due o tre. E partendo da sinistra a destra o viceversa, passando per il centro, non ci sono differenze. Ecco un piccolo campionario di parlamentari-imprenditori-consulenti. Il terzetto Francesco Bonifazi, Federico Lovadina, Emanuele Boschi avanza sempre compatto. Bonifazi è avvocato e senatore di Italia Viva, un irriducibile renziano, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Renzi segretario. Lovadina è avvocato e presidente di Toscana Energia e del gruppo Sia (pagamenti digitali), due aziende di carattere pubblico. Boschi è commercialista e fratello di Maria Elena. Oltre a condividere lo studio legale Bl, Bonifazi, Lovadina e Boschi sono soci con pari quota al 27 per cento di Lbr servizi, a sua volta presente con lo 0,38 per cento nel capitale di Homepal, l’agenzia immobiliare interamente su internet lanciata da Andrea Lacalamita, ex dirigente di Unicredit e Mediobanca. Homepal ha un paio di anni e già fattura 2 milioni di euro. Ha un futuro splendente, tant’è che ci hanno speso migliaia di euro anche la Banca Bper e il finanziere Davide Serra, l’amico e donatore di Renzi. Adesso ci sono Renzi e i renziani, un tempo c’era il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi che ha assuefatto gli italiani. Per rinfrescare quel disappunto un tempo assai vivace, va rammentato che a Palazzo Madama siedono tre senatori che fanno parte anche del consiglio di amministrazione di Fininvest, la cassaforte della famiglia Berlusconi: Adriano Galliani, Niccolò Ghedini e Salvatore Sciascia. Invece la senatrice Anna Maria Bernini, capogruppo forzista a Palazzo Madama, è al secondo triennio nel cda di Benelli armi del gruppo Beretta che, per l’appunto, fa armi e munizioni da caccia e da guerra anche per l’esercito italiano. Ci si abitua a non indignarsi più. L’ha capito il deputato leghista Dario Galli. Nel governo gialloverde di Giuseppe Conte fu viceministro allo Sviluppo economico. Dopo una lunga istruttoria, l’Antitrust sancì che le cariche societarie di Galli erano incompatibili con l’incarico di governo. Il governo gialloverde, però, non esiste più, ma Galli conserva la presidenza di Ticino Holding, il ruolo di consigliere delegato e azionista al 50 per cento di Ticino Plast che, come s’intuisce, fabbrica prodotti in plastica. Neppure il senatore Andrea Marcucci, ex capogruppo del Pd, si è mai preoccupato della distanza fra i suoi affari di famiglia e i suoi incarichi politici. Marcucci è ancora consigliere di Kedrion, l’azienda farmaceutica di famiglia di cui Fsi Investimenti, controllata da Cassa depositi e prestiti, cioè dallo Stato, è un importante azionista. Anzi Marcucci ha varato un’altra impresa un paio di anni fa: si chiama Ambrosia e vende all’ingrosso bevande alcoliche. La svolta meridionalista di Matteo Salvini è sublimata dalla travolgente passione per i panzerotti pugliesi. I panzerotti pugliesi sono il suo cibo di conforto - ne fece una scorpacciata dopo una sconfitta del suo Milan nel derby con l’Inter - e la traiettoria filosofica del suo partito. Lui li mangia, altri ci investono. I deputati Massimiliano Capitanio, Giulio Centemero e Alberto Ribolla hanno acquistato un po’ di azioni di “I love panzerotti”, un’azienda americana formata da una coppia di cugini lombardi, Angelo Magni e Giovanni Bonati. I tre deputati leghisti, tra cui il tesoriere Centemero, hanno deciso di aiutare “I love panzerotti” perché utilizza unicamente prodotti pugliesi, coinvolge imprenditori lombardi e assume personale italiano. E in più i panzerotti si annaffiano con la birra Elav di un birrificio indipendente bergamasco per un pasto totalmente leghista a New York e Miami. Dopo l’uscita di Salvatore Caita dal gruppo, il deputato irpino Michele Gubitosa è l’imprenditore per eccellenza dei Cinque Stelle. Gubitosa è proprietario dell’azienda di informatica Hs Company. Ogni anno a Padova d’estate si tiene il Pride Village. «Il più grande evento Lgbt+ d’Italia», specifica con orgoglio Alessandro Zan, che si definisce, in ordine, fondatore del Padova Pride Village, attivista Lgbt+ e deputato della Repubblica. Com’è noto l’onorevole democratico Zan è il relatore del ddl Zan, il disegno di legge contro l’omofobia, la transfobia, la misoginia e l’abilismo, già approvato in prima lettura alla Camera e contrastato dalle destre al Senato. Questo, invece, non è noto: Zan è azionista di maggioranza col 52 per cento e amministratore unico di Be proud srl, la società a responsabilità limitata che organizza concerti, spettacoli e dibattiti nei tre mesi del Pride Village alla fiera di Padova. Be proud fu aperta nella primavera del 2015 alla vigilia dell’ottava edizione, mentre Zan, già assessore comunale di Padova, era deputato di Sel di Nichi Vendola. «La Be proud è una società di scopo che gestisce solo il Pride Village a Padova. Io non ho alcun compenso e», precisa il deputato del Pd, «non c’è alcun ritorno economico. Tutto quello che incassa lo reinveste e quindi non fa alcun tipo di utile. La società è nata perché l’Arcigay non poteva seguire la gestione del Village per motivi fiscali». Be proud ha impiegato 23 persone e ha dichiarato ricavi per 1,049 milioni di euro nel 2019 e si tratta, soprattutto, dei biglietti d’ingresso. Non riceve contributi pubblici, ma il comune di Padova finanzia alcune associazioni e alcuni appuntamenti del cartellone del Village. La società Bithouseweb si occupa di comunicazione per il Pride Village da sempre e ha una quota del 24 per cento in Be proud. A differenza di Be proud, Bithousweb non lavora soltanto per il Pride Village e i suoi amministratori sono ben retribuiti. Zan non guadagna un euro dal Pride Village e assicura che si è intestato la società per generosità: di fatto, però, i conti e le scelte del Pride Village, un potere, dipendono completamente da Be proud di cui Zan è proprietario e amministratore e dai suoi soci di Bithousweb. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia, è la spalla del giovane figlio Pietro nella società Italy World Services (Iws) che svolge «attività di consulenza e assistenza a professionisti e imprese, pubbliche e private, per raggiungere il mercato internazionale». Papà Adolfo ha il 31 per cento, il figlio Pietro il 69. Per sette anni viceministro con delega al commercio estero negli ultimi governi di Berlusconi, dunque competente del settore, Urso ha fondato Iws nel 2013 quando non venne candidato dopo la rottura fra Gianfranco Fini e l’ex Cavaliere. Adesso è membro della commissione Esteri e vicepresidente del comitato che vigila sui servizi segreti (Copasir), ma non ha lasciato la società di famiglia: «Nel 2013 non ero più in Parlamento né avevo ancora il vitalizio. Non ho chiesto un posto pubblico e mi sono reinventato nel privato. Quando nel 2017 ho compiuto 60 anni e ho iniziato a ricevere il vitalizio, ho smesso di avere ruoli operativi in questa società e non ho più ricevuto compensi. Nel 2018 sono stato rieletto e continuo a mantenere solo una piccola quota. Oggi non ho alcuna incompatibilità perché non svolgo alcuna attività operativa. E le dico di più: anche se l’avessi non sarebbe incompatibile. Sentite, qui tutti vanno alla ricerca di incarichi pubblici, io quando non ero più parlamentare cosa dovevo fare? Ho seguito la legge: mi sono dimesso dal governo Berlusconi e dopo tre anni ho fondato Iws». Tutti stanno un po’ di qua e un po’ di là. Un po’ attentamente in aula e un po’ distrattamente in cda. Nessuno si sente operativo. Di sicuro, molti si avvertono indispensabili.

L’incredibile storia dei 700mila euro di Renzi. Dai 15mila euro sul conto una volta finito l’incarico da premier alla villa da 1,3 milioni comprata tre mesi dopo: ecco cosa si nasconde dietro quei 700mila euro prestati a Matteo Renzi. Luca Telese il 14 Luglio 2021 su TPI. Vedi alla voce insabbiare. La cosa più bella, sul caso Matteo Renzi, è uno stato d’animo giornalistico ben raccontato dalla prima pagina di Libero di oggi: “La vendetta dei Pm: Renzi indagato”.

Un titolo straordinario perché rivela un certo umore, un sentimento dei media, gli effetti di un’ottima campagna di depistaggio, la tanta voglia di taroccare una notizia che i signori dell’informazione trattano quasi controvoglia. Renzi è di nuovo indagato, e la colpa, secondo i giornali amici, non è sua, o di una imputazione che andrebbe come minimo verificata, ma dei suoi presunti persecutori togati. Ed ecco il fatto (a dir poco clamoroso) oscurato nel racconto pubblico di questa vicenda.  I magistrati hanno scoperto che Renzi ha preso dall’agenzia dell’amico Lucio Presta 700mila euro firmando un contratto per tre programmi televisivi: il primo, un documentario, è stato realizzato (ma scopriremo tra poco a che prezzo). Gli altri due programmi, invece, a distanza di quattro anni non hanno mai visto la luce. Il primo, su cui all’epoca si favoleggiava di una formidabile asta, è stato venduto. Ma i pm hanno anche scoperto che la cifra del contratto è…. Mille euro. Altra notizia interessante: questa fattura non è stata mai pagata. Quindi, il saldo teorico dell’agenzia Presta è questo: 700mila euro dati all’ex premier. Incasso teorico a fronte di questa impresa: mille euro. Incasso contabile reale: zero. Mica male, no? Se fossimo nel mondo delle favole si potrebbe dire: forse è un investimento andato male. Nel mondo reale una domanda bisogna farsela. Invece la vicenda scompare, affogata dalla consueta narrazione vittimistica renziana. Ecco La Repubblica, in perfetto stile Gedi: “Quelle inchieste che tengono l’ex premier sulla graticola”. Quindi la colpa è “delle inchieste”, non di questi numeri che ballano. E subito dopo, sempre nel titolo, c’è il virgolettato del martire di Italia Viva: “Ma a me nessuno fa paura”. Ovviamente Renzi si guarda bene dal spiegare o chiarire: “È tutto in regola”, dice. Cosa, di grazia? Anche il Giornale sembra in linea con l’ufficio stampa leopoldino: “Attacca le toghe, Renzi indagato”. Quindi è vittima con dolo: non è indagato per questi bilanci sbarazzini, ma perché le toghe (cattive) ovviamente, si vogliono vendicare. Renzi martire della libertà di opinione, perseguitato solo perché ha minacciato di firmare i referendum radicali: e in realtà, a bene vedere, se le toghe fossero scaltre dovrebbero gioire: il sostegno di Renzi, dopo il 2016, è una buona garanzia per far fallire un quesito referendario. Ma torniamo alla rassegna stampa. Solo con il Corriere della Sera si tira un sospiro di sollievo, perché il titolo del quotidiano di via Solferino è ineccepibile: “Renzi e Presta indagati per il documentario su Firenze: finanziamento illecito”. Ecco, il tema che sparisce dal dibattito è questo: qualcuno ha dato 700mila euro a Renzi, senza guadagnare un solo euro in cambio. Ma siccome Renzi è stato Presidente del Consiglio, ha amministrato la cosa pubblica, ha gestito le nomine in Rai, se qualcuno lo paga 700mila euro, più di Alberto Angela, per un documentario che ne costa mille, qualche domanda è giusto farsela. Soprattutto perché la storia di questo milione di euro del leader di Italia Viva non comincia con questo avviso di garanzia. Inizia il 18 gennaio 2018 quando, ospite di Nicola Porro in una puntata di Matrix in piena campagna elettorale, Renzi dice al giornalista: “Le mostro l’estratto conto del mio conto corrente bancario!”. Il colpo di teatro è perfetto: nel saldo si legge che l’ex premier può contare solo su 15.859 euro. Peccato che cinque mesi dopo, La Verità riveli che l’uomo di Rignano sta comprando a Firenze una villa da 1,3 milioni di euro. E che la notizia susciti parecchio scalpore, se è vero che i coniugi Renzi in quei giorni pagano ancora una rata mensile di 4.250 euro per il mutuo della loro vecchia casa di Pontassieve (che all’epoca non è stata ancora stata venduta). Da dove vengono, allora, i soldi per il villone di Firenze? Mistero. Renzi, inaugurando la sua strategia, non lo dice. Lamenta una intrusione nella sua vita privata (già allora) spiega che vende la sua villa di Pontassieve. E dice: “Sono stato eletto parlamentare e prendo un ottimo stipendio. Non avendo più attività di Governo – aggiunge – posso avere ulteriori entrate e persino prendere un mutuo”. I giornali si accontentano di questa spiegazione, del super-acquisto non si parla più. Renzi si compra anche una Mini Cooper da 29mila euro, mentre dalla dichiarazione patrimoniale si apprende che nel 2017 ha guadagnato solo 29mila euro lordi. Ma non è finita: nel novembre del 2019, un’inchiesta di Emanuele Fittipaldi, su L’Espresso, rivela da dove arrivano quei soldi. Per poter stipulare il rogito, Renzi (si era ben guardato dal dirlo), aveva ottenuto un prestito generosissimo e difficile da decrittare a prima vista grazie ai soldi ricevuti dalla madre di un imprenditore fiorentino. Si tratta di Riccardo Maestrelli, che in passato è stato un generoso finanziatore della fondazione renziana e che, grazie al Presidente del Consiglio, è stato nominato alla Cassa Depositi e Prestiti. Dalla famiglia Maestrelli sono arrivati (fate attenzione alla cifra) 700mila euro. All’inizio Renzi replica duro a tutte le notizie: “Ho restituito tutto, denuncerò L’Espresso per violazione del segreto bancario”. Ma intanto il caso monta e diventa molto imbarazzante. Senza la segnalazione della banca per la normativa anti-corruzione il movimento di denaro non sarebbe stato tracciato. E così l’ex premier è costretto ad una nuova correzione del tiro: “Dovendo effettuare un anticipo bancario ho fatto una scrittura privata con un prestito concesso e restituito nel giro di qualche mese, quattro mesi circa”. Per togliersi dall’imbarazzo di un caso che ha una doppia valenza politica ed economica, insomma, Renzi ha bisogno di una cifra molto importante. E dove la va a prendere? Da Presta, ovviamente: così non si può capire l’importanza di questa inchiesta, se non si capisce che quel contratto “televisivo” era già un enorme “bancomat” con cui l’ex presidente sanava la situazione dopo mille polemiche. Se non altro perché il percorso era stato questo: i soldi sul conto corrente dell’anziana signora, che erano serviti per il prestito a Renzi, arrivavano dalla Cassa di Risparmio di Firenze, e arrivavano dalla Pida spa. E cos’era la Pida? Una holding fiorentina fondata dal marito della madre di Maestrelli e in quegli anni gestita dai tre figli della signora e dalla stessa Anna Picchioni. La Pida non aveva iscritto il finanziamento nel suo bilancio. La causale del bonifico era: “Pagamento in conto acquisto 25 partecipazione Mega srl”. Il nome di Renzi non appariva in nessun modo. Il giorno dopo questa operazione era stato fatto un bonifico di pari importo, da quello stesso conto, a un altro aperto dal leader di Italia Viva presso il Banco di Napoli. Il 13 giugno i due coniugi Renzi, ritiravano i fondi chiedendo 4 assegni per 100mila euro ciascuno che sarebbero serviti per pagare la caparra. Il giorno prima di andare a comprare la sua villa da 1,3 milioni di euro, dunque, Renzi non aveva un solo euro per l’acconto. Solo alla vigilia dell’acquisto incassa questa cifra, con cui dispone gli assegni di cui sopra. Quando si ritrova sotto il rischio di una inchiesta e di una polemica e deve risolvere in qualche modo la questione del prestito, onorandolo, Renzi ottiene con perfetto tempismo il contratto provvidenziale di Presta. Ecco perché non c’è nessuna persecuzione nei suoi confronti: non un filone di inchieste pretestuose, ma un unico percorso intorno ad un unico problema. I finanziatori cambiano, insomma, ma i soldi sono sempre gli stessi. Ecco perché Renzi non ha nessun pretesto per alimentare il suo pianto vittimistico. Ovviamente può sempre dire che i giornalisti che indagano sulle sue risorse lo facciamo “per invidia”, come scrivono i suoi supporter sui social. E questa è l’unica cosa certa: anche io – infatti – vorrei comprarmi una villa e avere un amico che mi presta 700mila euro per poterlo fare.

Luca Telese è giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico. Ha lavorato per Il Giornale, Il Fatto Quotidiano, Pubblico Giornale e La Verità. Ha condotto In onda, Matrix, Terza Repubblica e Bianco e Nero. Collabora con TPI dal 2019.

Dopo il documentario tocca a Renzi d’Arabia: è indagato a Firenze per la conferenza ad Abu Dhabi. Lorenza Mariani mercoledì 14 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Renzi indagato a Firenze per la conferenza ad Abu Dhabi. A rivelarlo è lo stesso senatore, leader di Italia Viva, nel suo nuovo libro. I dubbi sulle trasferte negli Emirati arabi dell’ex premier. Il fatto che rumors, indiscrezioni, e addirittura un presunto scoop di Striscia la notizia, nei mesi scorsi dessero il numero uno di Iv talmente colpito dal “Rinascimento arabo” da voler abbandonare la politica italiana e il suo partito. E dunque, sempre più in odore di trasloco tra sceicchi. Emiri. E principi sauditi. Indeciso tra le dune del deserto e i grattacieli di Dubai…E, soprattutto, i compensi remunerativi di cui Renzi d’Arabia potrebbe avvalersi. (E di cui, tra gli altri, Le Iene hanno dato conto in quanto membro della fondazione saudita Future Investment Initiative). Complici, in qualche modo, le criptiche spiegazioni rese dal diretto interessato sulle sue trasferte, considerate da cronisti, detrattori e avversari politici, delle vere e proprie «scorribande affariste». Fatto sta che il magma indistinto di voci e supposizioni oggi torna in auge con una indagine della Procura di Firenze: per emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione al compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi. È lo stesso ex premier a darne notizia nel suo libro Controcorrente. «Vengo indagato per «prestazione inesistente» dopo aver partecipato a un convegno ad Abu Dhabi, al quale parteciparono autorevoli leader internazionali», racconta l’ex segretario nel nuovo libro. Non solo. In base a quanto riferisce in queste ore l’Adnkronos sul caso, in concorso con Renzi, nell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco, sarebbe indagato Carlo Torino, titolare di una società di Portici (Napoli). Per l’esattezza, si tratterebbe della Carlo Torino e associati, che avrebbe fatto da tramite per la ricezione del compenso dell’ex premier. L’inchiesta sarebbe nata a seguito di una segnalazione dell’Unità di prevenzione antiriciclaggio, che avrebbe indicato movimenti di denaro poco chiari sul conto corrente della società di Napoli. Se poi tutto si risolverà, come ipotizza in queste ore Carlo Calenda, in un nulla di fatto. O se, al contrario, l’inchiesta farà emergere l’arrosto oltre al fumo: solo il tempo, le indagini e gli eventuali riscontri, potranno dirlo. O smentirlo...

Ieri la notizia dell'indagine per finanziamento illecito. Renzi indagato anche per la conferenza di Abu Dhabi: “Fatture per operazioni inesistenti”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Matteo Renzi è indagato per emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione al compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi. Lo ha fatto sapere lo stesso leader di Italia Viva, attraverso il suo libro Controcorrente, presentato oggi a Firenze. L’indagine della Procura de Capoluogo Toscano. L’Ansa scrive che, secondo quanto appreso da fonti investigative, Renzi sarebbe indagato in concorso con Carlo Torino, titolare di una società di Portici (Napoli), la Carlo Torino e associati, che avrebbe fatto da tramite per la ricezione del compenso. L’inchiesta sarebbe nata a seguito di una segnalazione della Uif, l’Unità di prevenzione antiriciclaggio, che avrebbe indicato movimenti di denaro poco chiari sul conto corrente della società di Torino. La notizia arriva all’indomani di un’altra notizia: l’indagine della Procura di Roma per finanziamento illecito ai partiti che vede coinvolti Matteo Renzi e il “manager dei vip” Lucio Presta. La vicenda avrebbe messo al centro il documentario sul capoluogo toscano, Firenze secondo me, che Renzi ha realizzato con la casa di produzione Arcobaleno 3 della famiglia Presta e altri prodotti che non sono mai stati realizzati. “Posso garantire che quel compenso, che appartiene alla mia sfera privata, lo uso per la mia vita privata: la mia attività politica è trasparente”, ha dichiarato Renzi sull’indagine durante la presentazione del libro a Firenze. Il senatore di Italia Viva ha quindi dichiarato la sua totale fiducia e disponibilità nei confronti dei magistrati romani. “Quando i magistrati ci chiederanno conto, vedranno dalle carte che è tutto a posto. Sono assolutamente tranquillo, perché questa roba non sta né in cielo né in terra – ha aggiunto il senatore di Italia Viva – il tempo è galantuomo: avete visto quanta roba ci hanno buttato addosso? Ricordate le banche? Quante vicende giudiziarie ci hanno buttato addosso nel 2016? Di Maio ha chiesto scusa per Uggetti: e la Guidi? La Paita? La Boschi?”. La notizia dell’indagine di Roma è stata data ieri dal quotidiano Domani. Lo stesso quotidiano che, durante la crisi del governo Conte bis, aveva raccontato della conferenza in Arabia Saudita dell’ex Presidente del Consiglio con il Principe Ereditario Mohamed Bin Salman. Un caso che aveva scatenato numerose polemiche.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Doppia inchiesta su Renzi dopo gli attacchi alle toghe. Lodovica Bulian e Fabrizio De Feo il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Offensiva contro l'ex premier tra Roma (false fatture) e Firenze (l'evento di Abu Dhabi). "Nulla da nascondere". È il giorno della presentazione di «Controcorrente», il libro in cui Matteo Renzi, il «Demolition Man» della politica italiana, vuole «togliersi molti sassolini dalla scarpa». Un volume in cui esplora i retroscena della sua parabola politica, ripercorre la sua odissea giudiziaria e le tante indagini che hanno colpito lui e le persone a lui vicine - «mi arriveranno addosso dieci processi» dice ai suoi - e vibra potenti fendenti contro la Procura di Firenze, puntando il dito contro il procuratore aggiunto Luca Turco «specializzato in Renzologia». Un argomento evidentemente attuale visto che, come in uno scherzo del destino, proprio ieri da una parte arriva la notizia di una nuova inchiesta ai suoi danni da parte della Procura di Roma, dall'altra è lo stesso fondatore di Italia Viva a svelare i dettagli di un'altra indagine partita a Firenze a inizio 2020 per la sua partecipazione a un convegno ad Abu Dhabi. Ma andiamo con ordine. Indiscrezioni dell'indagine romana filtrano già in mattinata. «Rapporti contrattuali fittizi» e «fatture inesistenti». Renzi e il manager dei vip Lucio Presta - già organizzatore della Leopolda - sono indagati per finanziamento illecito alla politica e false fatturazioni, nell'ambito di un'inchiesta sui rapporti economici intercorsi tra il leader di Italia Viva e l'agente televisivo. Al centro delle indagini - partite dopo una verifica fiscale - ci sarebbero non solo i flussi di denaro inerenti al documentario di Renzi «Firenze secondo me», prodotto da Presta, ma anche contratti e bonifici per progetti mai realizzati. Per somme che arriverebbero a 700mila euro. Nei giorni scorsi la guardia di Finanza, su disposizione dei pm romani, ha perquisito la società di Presta, la Arcobaleno Tre, ha acquisito contratti e bonifici, tra cui anche quelli con cui nel 2018 è stato versato all'ex premier un maxi cachet da 450 mila euro considerato anomalo per un documentario che poi era stato venduto a Discovery per 20mila euro. Era già emerso che il denaro ottenuto da Presta sarebbe servito a Renzi per restituire parte del prestito da 700mila euro ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l'acquisto della sua villa di Firenze. Le indagini però ora si allungano su altre operazioni e compensi versati a favore di Renzi dalla società del manager per progetti televisivi e cessione dei diritti. I magistrati vogliono verificare se dietro a queste operazioni ci sia un finanziamento illecito alla politica. Nel decreto di perquisizione si ipotizzano «fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa di costi occulti del finanziamento della politica». Per l'avvocato di Presta «si tratta di prestazioni esistenti, regolarmente fatturate e pagate alla persona fisica, quale corrispettivo dell'attività svolta, non al Politico o al Partito». E Renzi attacca: «Tutte le nostre attività sono legali, legittime, lecite. Non ho paura. Buon lavoro ai magistrati». L'altro fronte è quello fiorentino. Nel libro l'ex premier racconta «la storia dell'indagato Renzi». E poi dà notizia di un'altra inchiesta della quale aveva parlato La Verità mesi fa, ma della quale non c'erano state ulteriori conferme. «A inizio 2020 avendo finito il resto della famiglia ed essendo le nonne troppo anziane (una centenaria, l'altra novantenne) Turco invia un avviso di garanzia anche a me» racconta nel libro. «Vengo indagato per prestazione inesistente dopo aver partecipato a un convegno ad Abu Dhabi con leader come Nicolas Sarkozy, Tony Blair, David Cameron. Prestazione talmente inesistente da essere reperibile online sul canale Youtube e sulle testate internazionali a cominciare da Bloomberg America. Inutile dire che ho ricevuto un bonifico in modo trasparente per il quale ho pagato le tasse in Italia. Su quale base giuridica si vuole impedire a un ex premier italiano di fare quello che fanno costantemente gli ex leader del mondo?». La chiosa finale Renzi la dedica però soprattutto al processo Open, «uno scandalo istituzionale che partirà nel 2022». «I miei genitori fino a 65 anni sono stati cittadini irreprensibili, poi io divento presidente del Consiglio e loro diventano Bonnie e Clyde. Se il procuratore di Firenze vuole procedere contro di me io rinuncio all'immunità». Lodovica Bulian e Fabrizio De Feo

Con l’ex premier coinvolto il manager e produttore Presta. Renzi indagato per finanziamento illecito: nel mirino i contratti per il documentario "Firenze secondo me". Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Il leader di Italia Viva Matteo Renzi e il manager dei vip Lucio Presta sono indagati dalla Procura di Roma per finanziamento illecito e false fatturazioni. L’indagine della procura capitolina è legata al documentario ‘Firenze secondo me’, realizzato dallo stesso Renzi assieme alla società di Presta, la Arcobaleno Tre. Un progetto, quello dell’ex presidente del Consiglio, andato in onda su Discovery Channel con scarsi risultati di pubblico, il 2 per cento, finendo già nel 2019 una relazione dell’antiriciclaggio della Uif. Su delega dei pm romani titolari dell’inchiesta, nei giorni scorsi è stata svolta una perquisizione nei confronti del produttore da parte della Guardia di Finanza: nel mirino in particolare i contratti stipulati dalla società di Presta con l’ex premier per la produzione del documentario. Secondo il quotidiano Domani, l’indagine verte sui “rapporti economici e i bonifici da quasi 750mila euro versati dall’agente delle star all’ex premier per il documentario ‘Firenze secondo me’ e alcuni contratti per la cessione di diritti d’immagine”. L’ipotesi che fa la procura di Roma e il nucleo di Polizia valutaria della Guardia di finanza è che dietro il pagamento del cachet per il documentario ci sia altro, ovvero un finanziamento illecito al Renzi "politico". I dubbi emergerebbero in particolare sullo squilibrio tra il cachet di Renzi e i ricavi del documentario: secondo Domani la Arcobaleno Tre aveva fatto a Discovery una fattura da appena mille euro, mentre a Renzi appuntò girò tra rapporti economici e bonifici quasi 750mila euro. Da parte sua l’ex premier aveva spiegato che non era affar suo se Presta voleva pagarlo quanto star televisive del calibro di Roberto Benigni. Secondo il quotidiano di De Benedetti “il documentario, costato quasi un milione di euro tra compenso per Renzi e spese di produzione, ad oggi non ha incassato nulla. I soldi ottenuti dall’amico Presta, già organizzatore della Leopolda, servirono invece a Renzi, nell’autunno del 2018, a restituire parte del prestito da 700mila euro che aveva ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l’acquisto della villa di Firenze. Un prestito anomalo che finì nelle maglie dell’antiriciclaggio (i soldi furono bonificati dai Maestrelli attraverso il conto corrente dell’anziana madre, e da qui finirono su quelli dei Renzi), ma in quel caso la procura di Firenze non ravvisò gli estremi del finanziamento illecito, nonostante nel bilancio 2018 dell’azienda dei Maestrelli da cui partì la provvista il destinatario finale del prestito (un politico) non era stato segnalato come vuole la legge sul finanziamento alla politica”.

Carmine Di Niro.  Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giovanni Tizian ed Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 13 luglio 2021. Nuova tegola giudiziaria su Matteo Renzi. L'ex premier è infatti indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni insieme al manager dei vip Lucio Presta. Domani ha scoperto che la procura di Roma ha iscritto il leader di Italia Viva nel registro degli indagati qualche settimana fa, in merito a un'inchiesta sui rapporti economici tra Renzi e l'agente televisivo. Al centro dell'indagine ci sono i bonifici del documentario “Firenze secondo me”, che finirono nel 2019 in una relazione dell'antiriciclaggio della Uif. Chi vi scrive due anni fa, sull'Espresso, segnalò come Presta, per il progetto televisivo andato in onda su Discovery, girò a Renzi quasi mezzo milione di euro, una cifra che appariva fuori mercato. Non solo se rapportata alle somme pagate da conduttori di fama come Alberto Angela, ma anche messa a confronto con quanto incassato dai Presta da Discovery: se al tempo fonti interne all'emittente rivelarono che il documentario presentato dal politico era stato comprato per poche migliaia di euro, oggi si scopre che l'Arcobaleno Tre (la società di Presta e del figlio Niccolò – anche lui indagato) ha fatto a Discovery una fattura da appena mille euro, che tra l'altro non risulta ancora incassata. In pratica il documentario, costato quasi un milione di euro tra compenso per Renzi e spese di produzione, a oggi non ha generato alcun ricavo. I soldi ottenuti dall'amico Presta, già organizzatore della Leopolda, servirono invece a Renzi, nell'autunno del 2018, a restituire parte del prestito da 700mila euro che aveva ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l'acquisto della villa di Firenze. Un prestito anomalo che finì nelle maglie dell'antiriciclaggio (i soldi furono bonificati dai Maestrelli attraverso il conto corrente dell'anziana madre, e da qui finirono su quelli dei Renzi). In quel caso non fu aperta alcuna inchiesta: la procura di Firenze non ravvisò gli estremi del finanziamento illecito, nonostante nel bilancio 2018 dell'azienda di Riccardo Maestrelli – da cui partì la provvista per il prestito dato ufficialmente al politico dall’anziana madre di Riccardo –  non era segnalato come vuole la legge sul finanziamento alla politica. Presta, al tempo, si giustificò dicendo che per lui l'operazione “Firenze secondo me” era un investimento nel tempo e che i diritti sul documentario avevano a suo giudizio un valore economico di rilievo e insindacabile. Renzi dal canto suo ha sempre spiegato che non è affar suo se Presta vuole pagarlo con cachet simili a quelli di Benigni o di Giancarlo Giannini. La procura di Roma, però, vuole vederci chiaro sulla regolarità dell'operazione. I sospetti maggiori non riguardano tanto il documentario, visto che il prodotto – al di là dei compensi anomali e fuori mercato per il conduttore-autore – è certamente stato realizzato e messo in onda. I dubbi toccano soprattutto altri due contratti e relativi compensi da centinaia di migliaia di euro a favore di Renzi, scoperti dopo una verifica fiscale nella sede dell'Arcobaleno Tre. Denaro versato dalla società del manager all'ex premier per la cessione dei diritti d'immagine in esclusiva e per alcuni progetti televisivi che i due avrebbero dovuto fare insieme. Leggendo il decreto di perquisizione ai Presta e alla loro Arcobaleno Tre, i pm Alessandro Di Taranto e Gennaro Varone parlano infatti di «rapporti contrattuali fittizi, con l'emissione e l'annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa costi occulti del finanziamento della politica». I programmi ipotizzati non sono infatti mai stati fatti e soprattutto i pagamenti al politico non sono stati iscritti al bilancio. Da qui il sospetto di attività illecite da parte della Guardia di Finanza e della procura romana.

Renzi: “Il giornalista Fittipaldi mi ha informato che sono indagato”. su Il Riformista il 13 luglio 2021. In un video su Facebook il leader di Italia Viva Matteo Renzi racconta di come ha saputo di essere indagato per finanziamento illecito dal giornalista di Domani Emiliano Fittipaldi.

Matteo Renzi indagato per finanziamento illecito. Lui: «L’ho saputo da un giornalista…». Il leader di Iv indagato insieme al manager dei vip Lucio Presta. Nel mirino della procura di Roma, secondo il Domani che ne dà notizia, ci sarebbero i bonifici del documentario "Firenze secondo me". Il Dubbio il 14 luglio 2021. «Chi va controcorrente non ha paura di niente e di nessuno. Ai giustizialisti rispondiamo con la forza dei fatti, delle carte, della verità». Così Matteo Renzi commenta su Twitter la notizia diffusa dal quotidiano Domani secondo cui lui e il manager dei vip Lucio Presta sono indagati dalla procura di Roma per finanziamento illecito e false fatturazioni. «L’indagine», spiega il giornale di De Benedetti, «verte sui rapporti economici e i bonifici da quasi 750mila euro versati dall’agente delle star all’ex premier per il documentario Firenze secondo me e alcuni contratti per la cessione di diritti d’immagine». L’accusa: «Fatture relative a operazioni inesistenti, Presta e il figlio Niccolò (anche lui indagato, ndr) hanno realizzato risparmio fiscale usando costi occulti del finanziamento della politica». Ma il leader di Italia viva non ci sta a recitare la parte del furbetto e a stretto giro contrattacca: «Oggi alle cinque e mezza mi chiama un giornalista, Emiliano Fittipaldi, e mi dice “senatore, ti comunico che sei indagato dalla procura di Roma”. Di solito queste comunicazioni le fanno i magistrati o la polizia giudiziaria, in Italia l’informazione viene data da un giornalista…», dice Renzi in un video su Facebook. «Questo avviso di garanzia non so in che cosa possa sostanziarsi, si parla di una mia attività professionale che sarebbe finanziamento illecito cosa che non sta né in cielo né in terra. Quando arriveranno gli atti, e non i tweet dei giornalisti, potremo confrontarci nella sede del processo», prosegue l’ex presidente del Consiglio, convinto che la diffusione della notizia nel giorno dell’uscita del suo libro non sia frutto di una casualità: «Quello che mi colpisce è che qualcuno pensa forse che io mi possa fermare di fronte a certe cose» dice. «Sono casualità che si ripetono. L’altra volta quando ho fatto la presentazione del libro hanno arrestato mio babbo e mia mamma, stavolta si sono limitati a un avviso di garanzia…». 

Matteo Renzi indagato sfida i magistrati: "Più mi perseguitano più mi gaso, l'odio degli altri per me è benzina". Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. Come nel celebre programma televisivo Matteo Renzi non lascia, ma raddoppia. "Quando mi arrivano situazioni che giudico ingiuste per me è benzina, trasformo la rabbia e l'altrui odio, in benzina". Insomma, più viene perseguitato e più si gasa, per dirla in fiorentino. Perché Renzi è così. Dal peggio prende il meglio. Sulla nuova indagine, il leader di Italia Viva, ha confermato la sua "ampia disponibilità verso i magistrati romani". "Mi dispiace per le persone coinvolte, a cominciare da Lucio Presta. Tutto tracciato, tutto scritto, tutto verificato. Nessuna rabbia istituzionale", sottolinea Renzi. L'ex premier, lo ricordiamo, è indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni insieme al manager delle star. Al centro dell'indagine i bonifici del documentario Firenze secondo me, finiti, nel 2019, in una relazione dell'antiriciclaggio. "Se qualcuno pensa che mi passi il sorriso, non mi conosce", chiosa Renzi.

"Non temo niente e nessuno, è tutto tracciato". Renzi indagato: “Me l’ha detto un giornalista, in Italia funziona così”. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2021. “Quando arriveranno gli atti e non i tweet dei giornalisti potremo confrontarci”. E’ un Matteo Renzi che non ha paura di “niente e di nessuno” quello che commenta l’indiscrezione, veicolata come al solito dai media e non dall’autorità giudiziaria, secondo cui sarebbe indagato dalla procura di Roma, insieme al manager dei vip Lucio Presta, per finanziamento illecito e false fatturazioni in relazione al documentario del leader di Italia Viva su Firenze, "Firenze secondo me", realizzato dalla società di Lucio Presta, Arcobaleno Tre. “Oggi alle cinque e mezza mi chiama un giornalista, Emiliano Fittipaldi (Domani, ndr), e mi dice ‘senatore, ti comunico che sei indagato dalla procura di Roma’. Di solito queste comunicazioni le fanno i magistrati o la polizia giudiziaria, in Italia l’informazione viene data da un giornalista…” attacca l’ex premier in un video pubblicato sui propri account ufficiali. “Questo avviso di garanzia non so in che cosa possa sostanziarsi, si parla di una mia attività professionale che sarebbe finanziamento illecito cosa che non sta né in cielo né in terra. Quando arriveranno gli atti, e non i tweet dei giornalisti, potremo confrontarci nella sede del processo. Quello che mi colpisce è che qualcuno pensa forse che io mi possa fermare di fronte a certe cose, innervosirmi o scoraggiarmi: chi mi conosce sa che io sono uno di quelli che davvero va controcorrente e che non ha avuto paura di andare contro tutto e tutti per cambiare un governo. Vi immaginate se possono farmi paura un qualche velato avvertimento o un qualche avviso di garanzia comunicato via stampa in un determinato giorno”, ovvero quello dell’uscita del libro. “Sono casualità che si ripetono. L’altra volta quando ho fatto la presentazione del libro hanno arrestato mio babbo e mia mamma, stavolta si sono limitati a un avviso di garanzia…”. Renzi poi aggiunge: “Con molta tranquillità e determinazione, io dico che vado avanti con più decisione di prima, vado avanti a testa alta. Quello che riguarda è tutto trasparente e tracciato. Io non ho niente da nascondere e nulla di cui vergognarmi. E quindi buon lavoro ai magistrati che facciano il loro dovere di indagare, noi siamo a loro disposizione”. “Buon lavoro alla stampa e anche a chi non si lascia fermare. Io non ho paura di nessuno e di niente. Abbiamo mandato a casa un governo perché le cose non funzionavano, lo rifarei oggi. Se qualcuno pensa mi passi il sorriso, non mi conosce. Certo mi dispiace per le persone coinvolte. Ma c’è l’assoluta consapevolezza non solo di non aver fatto nulla di illegale ma anche che la battaglia che stiamo facendo, è giusta. Controcorrente con più forza di prima”.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 14 luglio 2021. I soldi che Matteo Renzi ha ricevuto dall'imprenditore-manager Lucio Presta sono diventati una sospetta violazione della legge sui finanziamenti dei partiti, per la quale il leader di Italia viva è indagato insieme all'agente delle star e al figlio Niccolò che amministra la società. La Procura di Roma ha acceso i fari sui 700.000 versati da Presta a Renzi tra il 2018 e il 2019 (più della metà per la realizzazione del documentario tv Firenze secondo me), e una settimana fa gli investigatori della Guardia di finanza si sono presentati negli uffici della Arcobaleno Tre, nonché a casa dei due Presta e di altri azionisti e impiegati della società, in cerca di documenti cartacei e informatici utili alle indagini. L'esame di computer, telefonini e altri dispositivi elettronici è appena cominciato, ma Renzi ha già reagito con un messaggio via Facebook: «È tutto tracciato, lecito e legittimo. Che la mia attività professionale sia finanziamento illecito alla politica non sta né in cielo né in terra, non temo niente e nessuno». A Lucio e Niccolò Presta sono contestati anche reati tributari, ma nel decreto di perquisizione viene riassunta la tesi dell'accusa sui rapporti con l'ex premier ed ex segretario del Pd, all'epoca dimessosi dalla carica ma non ancora dal partito: «Si ritiene che i reati ipotizzati siano stati realizzati mediante rapporti contrattuali fittizi, con l'emissione e l'annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa, costi occulti del finanziamento della politica». In sostanza: un contributo illecito all'esponente politico mascherato da costi sui quali era possibile pagare meno tasse. L'inchiesta dovrà accertare se questa ipotesi è reale o se invece quei soldi furono solo un legittimo compenso al leader di partito divenuto anche ideatore, autore e conduttore di programmi televisivi, come sostiene l'avvocato dei Presta: «Si tratta di regolari fatture pagate alla persona fisica, quale corrispettivo dell'attività svolta, non al politico o al partito». Renzi, che lasciò la guida del Pd a marzo 2018 all'indomani della sconfitta elettorale, aprì la partita Iva il 28 luglio dello stesso anno, e due giorni dopo firmò i primi contratti con la Arcobaleno Tre. Il documentario in quattro puntate andò in onda tra la fine del 2018 e l'inizio del 2019 grazie a Discovery Network, all'epoca guidata da Marinella Soldi, ora indicata dal premier Mario Draghi come futura presidente della Rai; la multinazionale avrebbe pagato una cifra molto bassa (al momento è stata trovata una fattura di 1.000 euro) per una programmazione che non si tradusse in un grande successo d'ascolti ma fruttò all'ex premier 400.000 euro. Tuttavia sono altri i pagamenti considerati più sospetti dagli inquirenti. In particolare due contratti da 100.000 euro ciascuno per due format rimasti sulla carta: uno con interviste realizzate dallo stesso Renzi a personaggi famosi; l'altro una sorta di Accadde oggi, su avvenimenti storici legati al calendario, che in assenza di ulteriori dettagli non sembra una grande novità per i palinsesti televisivi. Infine, altri 100.000 euro per la cessione dei diritti d'immagine del Renzi «artista». Sarebbero queste le fatturazioni legate a «operazioni inesistenti» rilevate dalla Guardia di finanza dopo le prime segnalazioni di operazioni sospette sui bonifici partiti dai conti correnti della Arcobaleno Tre, che per entità delle somme e coincidenze temporali sono state collegate all'acquisto della villa fiorentina dove Renzi vive con la sua famiglia. Per comprarla l'ex premier poté contare, a giugno 2018, su un prestito di circa 700.000 euro da un imprenditore amico, restituiti a fine anno, subito dopo aver incassato i compensi pattuiti con la società di Presta. Se fosse fondata l'ipotesi investigativa, in pratica l'imprenditore televisivo avrebbe finanziato l'acquisto della villa del leader politico. Il che ha fatto scattare l'ipotesi di reato poiché - secondo la legge del 1981 - i divieti sui contributi occulti ai partiti «sono estesi ai finanziamenti e ai contributi in qualsiasi forma o modo erogati, anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale» ed ad altre categorie di rappresentanti politici e amministratori pubblici.

Arriva la risposta delle toghe: Renzi indagato. Luca Sablone il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Il leader di Italia Viva indagato con Lucio Presta per finanziamento illecito: ecco il "fallo di reazione" dei magistrati dopo il sostegno ai referendum sulla giustizia e il nuovo libro. Arriva puntuale quello che potrebbe essere considerato una sorta di "fallo di reazione" da parte dei magistrati: Matteo Renzi è indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni insieme al manager Lucio Presta. Stando all'anticipazione fornita dal quotidiano Domani, qualche giorno fa la procura di Roma avrebbe iscritto il leader di Italia Viva nel registro degli indagati "in merito a un'inchiesta sui rapporti economici con l'agente televisivo". Al centro dell'indagine - sempre secondo il giornale - ci sarebbero i bonifici del documentario "Firenze secondo me", che nel 2019 finirono in una relazione dell'antiriciclaggio della Uif (Unità di informazione finanziaria per l'Italia). Il quotidiano riporta che il documentario "costato quasi un milione di euro tra compenso per Renzi e spese di produzione, ad oggi non ha incassato nulla". I soldi ottenuti da Presta, "già organizzatore della Leopolda", sarebbero serviti all'ex presidente del Consiglio per "restituire parte del prestito da 700mila euro che aveva ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l'acquisto della villa di Firenze". Ora la procura di Roma vuole vedere chiaro sulla regolarità dell'operazione: i sospetti maggiori non sono incentrati tanto sul documentario ma, scrive Domani, i dubbi toccherebbero "altri due contratti e relativi bonifici da centinaia di migliaia di euro a favore di Renzi, scoperti dopo una verifica fiscale nella sede dell'Arcobaleno Tre". I pm parlerebbero di "rapporti contrattuali fittizi, con l'emissione e l'annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa costi occulti del finanziamento della politica".

La reazione dei magistrati. Proprio nei giorni scorsi Renzi ha pronunciato dichiarazioni di certo non accomodanti nei confronti del mondo della magistratura. Innanzitutto l'ex premier ha strizzato l'occhio verso la raccolta firme per i referendum sulla giustizia lanciata dalla Lega e dal Partito radicale. "Ci stiamo ragionando se firmarlo, non c'è obbligo di partito", ha fatto sapere nelle scorse ore. A questo si aggiunge che oggi il numero uno di Italia Viva ha lanciato il suo nuovo libro "Controcorrente" ed è già primo in classifica per le vendite. Un libro - ha assicurato - utile per togliersi "molti sassolini" dalle scarpe. Nel corso della presentazione alla Camera dei deputati, Renzi ha denunciato amaramente: "I miei genitori sono arrivati a 65 anni da incensurati. Sono entrato in politica e sono diventati Bonny and Clyde o la Banda Bassotti". "C'è un magistrato che ha chiesto l'arresto di mio padre e di mia madre, poi ha indagato mio cognato, poi non potendo indagare mia nonna che ha 101 anni, ha indagato me per più di un reato e ha creato le condizioni del processo", ha aggiunto. Ha poi parlato anche del processo Open, a suo giudizio un punto preoccupante in quanto lo reputa un processo alla politica: "Non si processa il finanziamento di nascosto ma si pretende che i finanziamenti li decide il giudice penale". In sostanza il suo ragionamento è che lui viene accusato di aver fondato una corrente "e il giudice penale pretende di decidere che io ho formato una corrente e sequestra 30 telefoni di persone". All'indomani di tutto, quindi, sembra proprio che il referendum e il libro "con in quale mi sono tolto molti sassolini" abbiano fatto sobbalzare dalla sedia le toghe che subito sono partite col contrattacco. Contrattacco contro Renzi.

"Nulla da nascondere". Non si è fatta attendere la replica dell'ex presidente del Consiglio: "Quello che mi colpisce è che qualcuno possa pensare che mi possa fermare di fronte a certe cose. Che possa perdere il buon umore o scoraggiarmi. Chi mi conosce sa che sono davvero uno che va controcorrente, che non ha paura. Pensate se possono farmi paura, con qualche velato avvertimento, con un avviso di garanzia comunicato via stampa, in un determinato giorno". Renzi ha affidato a un video Facebook la risposta alla notizia che dice di aver appreso questo pomeriggio da un giornalista: "Si parla di un'attività professionale che sarebbe finanziamento illecito alla politica, e questo non sta né in cielo né in terra. Non ho nulla da nascondere, buon lavoro ai magistrati".

"Fatture pagate per attività". L'avvocato Lucarelli ha specificato che si tratta di "prestazioni esistenti, regolarmente fatturate all'Arcobaleno Tre e pagate alla persona fisica, quale corrispettivo dell'attività svolta, non al politico o al partito". Si sta presentando ora una memoria con documentazione contrattuale e bancaria "che certamente sarà motivo di attenta valutazione da parte della Procura, onde frugare ogni dubbio sulla posizione dei signori Presta".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura.

L’ultimo avviso di garanzia a Renzi conferma che ormai  giustizia è sfatta. Anni e anni di casi giudiziari, di indagini che non approdano a nulla salvo distruggere la vita delle persone. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 15 luglio 2021. Giornata davvero poco nobile per la giustizia italiana e per l’Italia stessa: Matteo Renzi viene sottoposto ad inchiesta giudiziaria per aver fatto una conferenza internazionale retribuita credendo forse di essere Tony Blair o Emmanuel Macron e si è visto recapitare le carte bollate contenenti un’accusa davvero sorprendente per un ex primo ministro. Nel frattempo sua madre, una normale mamma anziana che è stata trascinata sui giornali da accuse riconosciute poi come assolutamente infondate cervellotiche, è stata assolta si può dire in diretta, mentre suo figlio riceveva un’altra mezza quintalata di carta bollata subito dopo aver presentato un libro con la sua storia della giustizia sicché il popolo italiano ha assistito a uno degli spettacoli meno edificanti della sua storia recente. Nel frattempo, il presidente Draghi è andato a Santa Maria Capua Vetere con la ministra Cartabia per compiere un gesto importante sia sul piano politico che giuridico e morale e cioè avvertire che mai più in Italia si permetteranno pestaggi in carcere e che l’Italia è in Europa non soltanto quando si tratta di vincere un torneo di calcio, ma anche quando si tratta di difendere la dignità della pena affinché non diventi la pena della dignità. L’Italia fa progressi, ma lentissimi se si considera che prima della riforma che porta il nome della ministra della giustizia abbiamo dovuto subire la controriforma del ministro Bonafede, il quale è stato l’uomo grazie al quale Di Maio ha conosciuto Giuseppe Conte portandolo di conseguenza a Palazzo Chigi. Conte d’altra parte sta facendo grandi capricci contro la riforma Cartabia, vuole difendere un passato recente ma davvero poco onorevole, quello della abolizione della prescrizione che renderebbe tutti gli italiani perseguibili a vita. Quella riforma è stata momentaneamente corretta e forse si potrà fare anche di meglio considerato che finora è stato stabilito il principio di non procedere ulteriormente qualora si varchino alcuni limiti di tempo posti come barriere invalicabili. La giustizia soffre, il caso Palamara è ancora attualissimo benché pochi ne parlino e con la giustizia soffre anche l’immagine del paese dal momento che Draghi sta in grande fretta cercando di mostrare all’Europa la volontà italiana di darsi un sistema giudiziario degno dei paesi più civili del nostro continente. Ricorderemo questo anno non soltanto per i progressi della lotta contro il covid, per quanto sempre incerti e minacciati dalle nuove forme virali e dalle bizzarrie euforiche estive, ma anche perché per la prima volta viene dato uno scossone a quello strapotere di quella parte della magistratura che non onora particolarmente l’immagine dell’Italia nel consesso delle Nazioni civili. Di questo parlava e parla il libro di Matteo Renzi, il quale ha ottenuto come recensione il trillo alla porta dell’avviso di garanzia. Certamente Renzi agli occhi di una parte della magistratura è colpevole di aver fatto cadere un governo e farne succedere un altro, quello attuale che non va certamente giù ad alcune toghe inferocite per il desiderio della politica di prendere in mano la situazione. Non dimentichiamo che le prerogative di indipendenza di cui godono i magistrati non godono dei privilegi di loro accordati, ma semmai il privilegio che il popolo italiano ha voluto concedere a se stesso per garantirsi una giustizia indipendente, veloce, giusta. La giustizia in realtà non è stata mai nessuna di queste cose prevalendo la lentezza nel migliore dei casi e spesso anche i risultati sconcertanti di indagini che non approdano a nulla ma sconvolgono la vita politica del paese interferendo apertamente con essa e dando la sensazione di una volontà esterna di comandare sulla politica negando alla politica il diritto di rappresentare e legiferare. Tutto questo dimostra che una crisi di crescenza è in atto ma questa crisi prevede anche dei colpi di coda, delle amare sorprese e ciò che è accaduto ieri a Matteo Renzi non offre un panorama particolarmente confortante in questo senso. Comunque il governo va avanti con le sue riforme, sa che le resistenze fanno parte dell’ordine delle cose e dunque adesso si tratta di procedere con calma e razionalità ma anche con la volontà di mostrare al paese la preminenza del Parlamento su tutti gli altri poteri come prescrive la costituzione della Repubblica.

Un film già visto. Augusto Minzolini il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Puntuale come un orologio svizzero è arrivata la risposta dei giudici alla politica che tenta di rialzare la testa. Puntuale come un orologio svizzero è arrivata la risposta dei giudici alla politica che tenta di rialzare la testa. Il solito avviso di garanzia per una vicenda di presunto finanziamento illecito ai partiti e fatture false che vede nel mirino Matteo Renzi e l'agente dei vip dello spettacolo, Lucio Presta. Roba che a prima vista fa ridere. Quello che non fa ridere, invece, e anzi preoccupa è l'ennesima coincidenza: l'avviso di garanzia all'ex presidente del Consiglio è arrivato proprio mentre esce un suo libro che mette a nudo i meccanismi perversi che regolano i rapporti tra magistratura e politica. Senza contare che proprio in questi giorni il leader di Italia Viva sta valutando se appoggiare o meno i referendum sulla giustizia promossi da Matteo Salvini e dai radicali. Se fossi in lui non attenderei un minuto per firmarli, perchè ormai il meccanismo è talmente sfacciato, scontato, automatico, chirurgico, imbarazzante che mette a repentaglio addirittura il diritto di critica e l'agibilità politica in questo Paese. Lo stesso Renzi nel libro svela di essere stato oggetto di un altro avviso di garanzia nei mesi scorsi per «prestazione inesistente» in relazione ad un convegno ad Abu Dhabi. E proprio ieri, presentando il suo libro alla stampa, si è lasciato andare ad una scommessa: «Vedrete che mi arriveranno addosso dieci processi».

A questo punto neppure i bookmakers inglesi, malgrado la loro spavalderia, avrebbero il coraggio di puntare contro una simile previsione. Perché è nelle cose, è nella storia recente del Paese. Queste analisi spietate sullo stato della giustizia in Italia Silvio Berlusconi, purtroppo inascoltato, le faceva già un quarto di secolo fa. La verità è che per comprendere le inchieste che coinvolgono i politici, nella maggior parte dei casi, non devi basarti sugli atti processuali ma sulle logiche, appunto, politiche. Perché una parte della magistratura ormai è palese - Palamara docet - fa politica. Solo così scopri i perchè dell'accanimento sull'ex premier, che è lo stesso metro utilizzato in passato e ancora oggi nei confronti di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi: nella circostanza Renzi deve pagarla perchè ha messo in crisi il governo più giustizialista di tutti i tempi, quello che aveva come Guardasigilli un personaggio come Alfonso Bonafede, che ha provocato più danni al nostro ordinamento penale e alle nostre carceri di Pierino alle elementari. Sono operazioni che ormai non sono neppure tanto nascoste, ma si fanno alla luce del sole. Tre giorni fa il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, criticava nell'assemblea di magistratura democratica la riforma della prescrizione del ministro Cartabia e il grillino Mario Perantoni commentava felice: «Non siamo più soli». Il giorno dopo questo Giornale titolava: «Crociata manettara, asse tra Pm e grillini». Siamo stati facili profeti: ormai il giustizialismo al tramonto può contare solo sulle toghe. Augusto Minzolini

Il silenzio dei giustizialisti. Luca Sablone il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Da una parte Pd e 5 Stelle saldano l'alleanza e tacciono sulla reazione delle toghe, dall'altra Forza Italia solidarizza con Renzi per la giustizia a orologeria. Due inchieste che fanno godere i giustizialisti. Adesso Matteo Renzi deve fare i conti con un'indagine per finanziamento illecito e false fatturazioni, insieme al manager Lucio Presta, e un'altra per emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione al compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi. A comunicarlo è stato proprio il leader di Italia Viva nella presentazione di "Controcorrente", il nuovo libro in cui ripercorre la sua odissea giudiziaria e le tante indagini che lo hanno colpito. Un'occasione per "togliersi molti sassolini dalla scarpa". Quanto al primo caso, al centro delle indagini ci sarebbero flussi di denaro inerenti al documentario "Firenze secondo me" e contratti e bonifici. C'è chi la considera una sorta di "fallo di reazione" da parte delle toghe, finite di recente nel mirino dell'ex presidente del Consiglio che di certo non ha usato mezzi termini per criticare certe scelte e determinate "coincidenze". Ma ciò che è emerso nelle ultime ore è palese e non sorprende più di tanto: da una parte i manettari si sono rintanati in un imbarazzante silenzio e non hanno perso tempo per rilanciare la notizia dell'indagine; dall'altra Forza Italia ha solidarizzato con Renzi per quella che viene definita una "giustizia a orologeria".

Il silenzio dei giustizialisti. Dal Partito democratico non filtra nulla. Mutismo assoluto. Dal Movimento 5 Stelle invece si sparano sui social i titoli di alcuni giornali che danno la notizia dell'inchiesta sul numero uno di Italia Viva. Ad esempio è il caso di Dino Giarrusso, europarlamentare grillino, che ha colto l'occasione per difendere a spada tratta l'operato dell'ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e attaccare gli avversari politici: "Anche ieri condanne, arresti e nuovi indagati fra i politici dei vecchi partiti, con una nuova accusa per il politico meno amato della storia, Matteo Renzi. Chi ha cose da nascondere e processi per condotte non sempre trasparenti, spera nella prescrizione per rimanere impunito e beffare le vittime. È un'anomalia tutta italiana che noi abbiamo fermato grazie alla riforma Bonafede, e che sarebbe assurdo ripristinare con un colpo di mano". Anche Stefano Buffagni su Facebook è intervenuto sul caso: "Renzi con il 2% di share guadagna più di Fiorello a Sanremo. I conti non tornano. Fare chiarezza al più presto". Il deputato pentastellato, pur riconoscendo il diritto dell'ex premier di difendersi, ritiene che sia un problema di etica pubblica: "Renzi ai tempi non era un semplice parlamentare ma aveva appena terminato la sua esperienza di presidente del Consiglio e Presta lavora e guadagna anche grazie a contratti con la Rai".

La solidarietà a Renzi. A differenza dei giustizialisti, Forza Italia ha immediatamente solidarizzato per quanto avvenuto. Anche perché non va dimenticato che vi sono personaggi politici che, come rivelato nel libro Il Sistema di Alessandro Sallusti, hanno provato sulla loro pelle gli effetti di certe dinamiche. Il senatore azzurro Francesco Giro ha espresso "piena solidarietà" a Renzi che, va ricordato, fino a prova contraria è innocente: "Oggi i giornali propalano la notizia sull'inchiesta a piena pagina senza neppure attendere gli esiti della fase istruttoria. Molti giudici, ma anche moltissimi giornalisti, dovrebbero farsi un bell'esame di coscienza. Vogliono distruggere anche Renzi?".

Pure Carlo Calenda si è unito al coro di solidarietà. "Ho visto troppe di queste inchieste concludersi in nulla verso i politici in generale e Matteo Renzi in particolare per attribuire un qualsiasi peso a quanto accaduto. Mi dispiace per i magistrati seri, ma su questa roba la magistratura ha perso ogni credibilità", ha scritto su Twitter il leader di Azione. Il candidato sindaco di Roma ha poi ricordato che "negli ultimi 30 anni abbiamo assistito a cose inimmaginabili, pensate che Bassolino ha avuto 19 inchieste da cui è uscito assolto, rovinandogli la vita". "Pensate anche a Berlusconi", ha aggiunto Calenda. Insomma, nulla di nuovo: i giustizialisti godono (a intermittenza) per indiscrezioni giornalistiche, mentre i garantisti si attengono ai sacrosanti principi costituzionali.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene.

Renzi indagato? Sallusti: c'è chi dice che sia un messaggio a Mario Draghi. La magistratura è un'emergenza. Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. «Sto seriamente pensando se firmare il referendum sulla giustizia», aveva detto poche ore fa Matteo Renzi. La risposta della magistratura non si è fatta attendere: avviso di garanzia per lui e per il manager dello spettacolo Lucio Presta con il quale l'ex premier aveva prodotto per Discovery il documentario "Firenze secondo me", quattro puntate andate in onda nel 2018 su tv Nove peraltro senza grande riscontro di pubblico. L'accusa è di finanziamento illecito ai partiti, la solita che i magistrati contestano ai politici quando, pur frugando nelle loro vite, non trovano nulla di serio. Non per fare il garantista a oltranza ma la scena di questo avviso di garanzia sembra uscita dalle pagine del libro "Il Sistema" nel quale Luca Palamara ricostruisce le scorribande della magistratura nella vita politica. C'è il politico ingombrante da punire (di solito, come in questo caso, nemico del Pd), c'è il pm con smania di protagonismo, ci sono i giornali amici che preparano il terreno e ci inzupperanno il biscotto. Tutto da copione, compreso il fatto che Matteo Renzi stia in questi mesi facendo impazzire la sinistra e ammicchi sia con Salvini che con Berlusconi per bloccare il decreto Zan e per far passare la riforma della giustizia. I più raffinati, e informati delle segrete cose sostengono che questo avviso di garanzia sia anche un segnale a Mario Draghi che pochi giorni fa aveva indicato, all'insaputa dei partiti, Marinella Soldi come futuro presidente Rai. La signora all'epoca dei fatti finiti sotto inchiesta era infatti amministratore delegato di Discovery, la compagnia di produzione che aveva sottoscritto con Renzi il contratto in questione e che secondo i magistrati era sproporzionato rispetto alle qualità artistiche dell'ex premier. Insomma parliamo del nulla o giù di lì. Ma è un nulla rumoroso e pericoloso, l'ennesimo tentativo di interferire nel corso della politica e dei governi. Qui non basta una riforma, il cancro di una magistratura incosciente è una emergenza nazionale che necessita un intervento non più rinviabile.

Alessandro Sallusti per "Libero quotidiano" il 14 luglio 2021. «Sto seriamente pensando se firmare il referendum sulla giustizia», aveva detto poche ore fa Matteo Renzi. La risposta della magistratura non si è fatta attendere: avviso di garanzia per lui e per il manager dello spettacolo Lucio Presta con il quale l'ex premier aveva prodotto per Discovery il documentario "Firenze secondo me", quattro puntate andate in onda nel 2018 su tv Nove peraltro senza grande riscontro di pubblico. L'accusa è di finanziamento illecito ai partiti, la solita che i magistrati contestano ai politici quando, pur frugando nelle loro vite, non trovano nulla di serio. Non per fare il garantista a oltranza ma la scena di questo avviso di garanzia sembra uscita dalle pagine del libro "Il Sistema" nel quale Luca Palamara ricostruisce le scorribande della magistratura nella vita politica. C'è il politico ingombrante da punire (di solito, come in questo caso, nemico del Pd), c'è il pm con smania di protagonismo, ci sono i giornali amici che preparano il terreno e ci inzupperanno il biscotto. Tutto da copione, compreso il fatto che Matteo Renzi stia in questi mesi facendo impazzire la sinistra e ammicchi sia con Salvini che con Berlusconi per bloccare il decreto Zan e per far passare la riforma della giustizia. I più raffinati, e informati delle segrete cose sostengono che questo avviso di garanzia sia anche un segnale a Mario Draghi che pochi giorni fa aveva indicato, all'insaputa dei partiti, Marinella Soldi come futuro presidente Rai. La signora all'epoca dei fatti finiti sotto inchiesta era infatti amministratore delegato di Discovery, la compagnia di produzione che aveva sottoscritto con Renzi il contratto in questione e che secondo i magistrati era sproporzionato rispetto alle qualità artistiche dell'ex premier. Insomma parliamo del nulla o giù di lì. Ma è un nulla rumoroso e pericoloso, l'ennesimo tentativo di interferire nel corso della politica e dei governi. Qui non basta una riforma, il cancro di una magistratura incosciente è una emergenza nazionale che necessita un intervento non più rinviabile.

Alessandro Sallusti per “Libero Quotidiano” l'11 luglio 2021. Parlare di Matteo Renzi agli elettori del Centrodestra è come fargli venire l'orticaria. Oggi lo facciamo non per spirito masochistico ma perché l'ex premier ha scritto un libro (edizioni Piemme) che svela interessanti retroscena - ne anticipiamo alcuni - della politica e nel quale si parla, e soprattutto si sparla, della sinistra. Già il titolo, "Controcorrente", ammicca al popolo montanelliano anche se la prosa, ovviamente, non è la stessa del Maestro. Vale però la pena di leggerlo perché come recita un antico detto di attribuzione incerta «il nemico del mio nemico è mio amico». Lo stesso Montanelli teneva nel suo ufficio un busto di Stalin e a chi gliene chiedeva stupito la ragione rispondeva: «Semplice, ha ucciso più comunisti lui di chiunque altro». Ecco, Renzi ci ha provato a far fuori i comunisti dalla sinistra italiana - la famosa rottamazione - e di questo tentativo lo ringraziamo. È che ha perso e alla fine hanno fatto fuori lui, così oggi si ritrova detestato sia da destra, in quanto ex leader del Pd, che da sinistra, in quanto traditore del Pd. Quando un politico scrive un libro con retroscena inediti della propria attività significa che sa di non poter più tornare ai vertici, altrimenti certi segreti li terrebbe per sé e li giocherebbe nelle segrete stanze dove si fa e si disfa il potere; meglio monetizzare fino a che si è in tempo. Un peccato perché Renzi è stato - e ancora è - un vero talento della politica. Una volta Berlusconi mi fece una delle sue battute: «Dite che non ho eredi? Tutta colpa della malasanità perché io l'erede lo avevo ma c'è stato uno scambio di neonati in culla e così la sinistra si è ritrovata Renzi e noi Alfano». Erano i tempi del Patto del Nazareno, un progetto purtroppo abortito dopo soli pochi mesi di gestazione perché Renzi, come tutti i fenomeni, è imprevedibile. Di recente, estate 2019, è riuscito a stoppare, insediando a sorpresa il governo Conte due, elezioni anticipate che avrebbero visto trionfare il Centrodestra a guida Salvini. Ma poi quel governo assurdo lo ha fatto cadere e ci ha regalato Mario Draghi. In canna ha certamente ancora alcuni colpi da sparare e siccome è il migliore tiratore su piazza c'è da aspettarsi di tutto. Se è da temere o incoraggiare, come al solito, lo si capirà all'ultimo istante. 

Dagospia l'11 luglio 2021. La denuncia di Renzi: business coi cinesi, sprechi, propaganda. Una pagina tra le più oscure. Anticipazione del libro “controcorrente” di Matteo Renzi. Nel 2021 l'Italia ha vissuto una delle crisi politiche più complicate della sua storia recente. Mentre il Governo Conte Bis insisteva nel dire che andava tutto bene, che i ministri erano i migliori del mondo, che l'Italia era un modello per gli altri Paesi, inspiegabilmente i numeri e le statistiche dicevano altro: in quel momento eravamo il Paese in cima alle classifiche della mortalità, con un rapporto tra cittadini e decessi devastante. Avevamo chiuso le scuole più degli altri, subito un crollo del PIL superiore agli altri, gestito l'emergenza peggio di altri nonostante un infaticabile lavoro di medici, infermieri, volontari. Gli italiani avevano risposto alla grande, l'Italia intesa come organizzazione no. Eppure la propaganda a reti unificate e chat amplificate continuava a dire: «Andrà tutto bene». E nel complice silenzio degli addetti ai lavori continuavano a susseguirsi gli appalti dei banchi a rotelle, delle mascherine, dei ventilatori cinesi non funzionanti ma garantiti dagli amici degli amici. Una pagina, questa, tra le più oscure della storia repubblicana. E trovo assurdo che, nonostante decine e decine di migliaia di morti e centinaia di milioni di euro di appalti sospetti, si continui a negare la commissione di inchiesta parlamentare su questi temi. Giuseppe Conte veniva da una storia complicata. Avvocato pugliese poco conosciuto nei palazzi della politica, era diventato il leader del Governo populista Cinque Stelle-Lega. Le sue posizioni allora erano molto nette: elogiava il sovranismo al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, esaltava il populismo alla scuola di formazione della Lega Nord, guidava un esecutivo "di cambiamento" che in Europa strizzava l'occhio ai "gilet gialli" francesi e alla destra estrema tedesca. Dopo un anno fallimentare, certificato da risultati economici impietosi figli di scelte sbagliate, a partire da Quota 100 e dal reddito di cittadinanza, Conte aveva rassicurato sul proprio futuro in una dichiarazione alla stampa poi ripresa da un tweet nel luglio 2019: «Che io possa andare in Parlamento a cercare maggioranze alternative o che voglia addirittura dare vita a un mio partito è pura fantasia. Non facciamo i peggiori ragionamenti della Prima Repubblica. Voliamo alto». Ed effettivamente aveva volato alto, altissimo, al punto da cambiare tutte le proprie idee pur di restare a Palazzo Chigi. Da sovranista era diventato europeista, da populista progressista, da leghista uomo di sinistra. Un uomo che aveva abbracciato il pensiero di Marx, inteso come Groucho Marx, non Karl: «Ho i miei principi. Se non vi piacciono, ne ho degli altri». Ecco dunque che alla guida del Governo giallorosso Conte era diventato europeista e antipopulista. Ma soprattutto la campagna di comunicazione pervasiva - senza alcun paragone possibile a livello di Paesi occidentali per quantità di messaggi, drammatizzazione del racconto pubblico, suspence comunicativa sapientemente elaborata per tenere milioni di persone davanti al teleschermo - lo aveva reso un personaggio dalle cui labbra dipendeva la vita quotidiana delle persone. Seguire le dirette Facebook non era semplicemente un'opzione di natura politica ma un bisogno vitale per sapere se si poteva incontrare il giorno dopo la fidanzata, se e come andare al lavoro, quale tipo di ristoro economico poteva permettere alla famiglia di arrivare alla fine del mese. E lo schema che gli strateghi della comunicazione avevano studiato era quello della concessione, mentalità tipica dello Stato ottocentesco che gli storici del Diritto definiscono appunto octroyée: vi consentiamo di uscire di casa per correre a un chilometro di distanza, vi consentiamo di portare il cane a svolgere le proprie funzioni fisiologiche, vi consentiamo di vedere il fidanzato solo se però il rapporto è stabile. E meno male che nella modulistica non c'era scritto: «Ma gli/ le vuoi bene davvero?». Intendiamoci: la gestione di una pandemia era una scelta complicata e una sfida inedita.  Farlo però preoccupandosi primariamente del proprio consenso e della propria immagine creava molti dubbi anche in chi - correttamente e lealmente - per un anno ha votato tutti i provvedimenti in spirito di responsabilità nazionale. In tutto questo, la crescita del debito pubblico, con provvedimenti a pioggia senza una vera strategia per il futuro suscitava timori profondi per i nostri figli, più che per noi. Tra vent' anni chi ripagherà il debito fatto oggi dai sussidi e dall'assistenzialismo? Alla fine il rischio era che i ragazzi pagassero il Covid due volte: oggi perché costretti a perdere un anno di vita, di scuola, di relazioni. Domani perché costretti a saldare il conto della mancanza di visione del Governo. Mario Draghi, invece, era semplicemente l'italiano più stimato al mondo non solo tra gli addetti ai lavori. Nei suoi interventi del 2020 - dall'editoriale di marzo sul «Financial Times» fino all'apprezzato intervento al meeting di CL a Rimini - aveva tracciato la linea su ciò che serviva, non solo all'Italia ma anche all'Europa. Nei suoi colloqui privati, almeno quelli con me, Draghi aveva sempre rispettato fedelmente le prerogative del presidente della Repubblica, del Governo allora in carica, del Parlamento. Io naturalmente forzavo su un suo eventuale impegno, anche alla luce del fatto che non avesse accettato, al termine dell'esperienza alla guida della BCE, di tornare subito al lavoro nel privato: questo costituiva per me un indicatore chiaro della sua disponibilità da civil servant a dare una mano al proprio Paese. Tutto qui. Mandare a casa Conte è stato un atto di coraggio di poche persone che hanno rischiato l'osso del collo per cambiare tutto. Sapendo che cambiare è sempre un azzardo, un rischio, un pericolo. Ma se fossimo andati avanti come stavamo andando avanti in quel momento, il baratro si sarebbe aperto di fronte a noi e - peggio ancora - alla generazione dei nostri figli. Abbiamo messo a rischio le certezze dei nostri amici per garantire una speranza ai nostri figli. Per evitare che il debito pubblico potesse inghiottire una generazione, quella di chi verrà dopo di noi. Diciamo la verità. Si parla poco di figli, in Italia. Noi ci avevamo provato alla Leopolda 2019 lanciando l'idea del Family Act, ma quando la politica italiana si occupa di ragazzi lo fa quasi sempre per qualche problema. Lo scandalo di Bibbiano, la didattica a distanza, singoli fenomeni di bullismo. Noi abbiamo cambiato Conte con Draghi per ridare centralità e sicurezza alla nuova generazione, ai nostri ragazzi. E lo abbiamo fatto per svoltare nella gestione dell'emergenza, per ritornare prima possibile alla crescita economica e al protagonismo dell'Italia su scala internazionale. Nel 2021 l'Italia guida il G20, ha la copresidenza della Conferenza sulla sostenibilità ambientale COP26, è in prima fila nella gestione della svolta europea in seguito all'abbandono del Consiglio Europeo da parte di Angela Merkel dopo sedici anni: in questi scenari internazionali avere Draghi al posto di Conte significa essere più forti. Chi lo nega, nega la realtà. Altro che complotto. Messaggio agli inconsolabili: il Governo Conte non è caduto per intrighi, per complotti o per incontri segreti all'autogrill. Il Governo Conte è caduto perché non è stato all'altezza della sfida. Con Draghi l'Italia è più forte, con Conte era più debole. Punto. Ripeto: negarlo significa negare l'evidenza.

Matteo Renzi contro Alfonso Bonafede: "Mediocre, avvocato di seconda fila diventato ministro". Francesco Specchia su Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. «Avrei potuto accontentarmi ma è così che si diventa infelici». Renzi che incornicia con un Charles Bukowski d'annata il capitolo intitolato Soli contro tutti (evidentemente plurale maiestatis) che inizia con un amico sacerdote che lo prende a pesciate in faccia mentre Matteo innesca la crisi di governo più esplosiva del secolo; be', è tanta roba. Ma al di là del valore letterario dell'opera -su cui si può discutere- il nuovo libro di Matteo Renzi, Controcorrente, in uscita per Piemme descrive una sorta di viaggio nel ventre del draghismo che ha seppellito il contismo attraverso retroscena, fotografie e scazzi dell'ultima battaglia dell'uomo di Rignano. Dopo i libelli Fuori! del 2011 e il resipiscente Oltre la rottamazione del 2013 che molti di noi cronisti hanno trangugiato come Renzi dichiara d'aver «trangugiato ettolitri di Maalox» a causa di Conte, il libro è illuminante comunque sugli equilibri di Palazzo. Scopriamo così che Renzi ancora sorride sugli inciampi di Letta: «Da Parigi scende in campo Enrico Letta. E alla fine la grande profezia di Enrico: "Renzi ci fa fare la figura del solito Paese inaffidabile: pizza, spaghetti, mandolino. Conte ha fatto bene a sfidarlo". Infatti Conte va a casa, arriva Draghi e l'Italia recupera credibilità, reputazione e fiducia: non so a quale mandolino si riferisce il futuro segretario del Pd, ma la crisi in realtà aiuta l'Italia a recuperare prestigio, altro che inaffidabilità. Alla luce della crisi, l'attacco di Letta è una medaglia al merito». 

STRANA COPPIA. Sicché Renzi dopo aver fracassato il mandolino sulla "strana coppia" Conte-Casalino svela che aver fatto saltare il governo in piena pandemia non fu narcisismo; bensì il tentativo di evitare il «baratro che si sarebbe aperto di fronte a noi e -peggio ancora- "alla generazione dei nostri figli"... Il governo Conte è caduto perché non è stato all'altezza della sfida. Il Conte 1 ha governato lucrando consenso sulla paura dell'immigrazione, il Conte 2 lucrando consenso sulla paura della pandemia». E da qui Renzi appare come un inquieto mix tra Cavour e Pietro Micca: lo statista si muove sulle uova di un governo che gestisce male la pandemia, che hail record dei morti e che affonda in una gestione commissariale disastrosa. Lo chiama nella notte Franceschini, così diverso dal Bruto accoltellatore descritto nei governi precedenti: «Nelle ore finali della crisi mi confido spesso con Dario. Mi esprime i suoi dubbi politici: "Non sai cosa ti stanno preparando contro, ti massacreranno anche sul personale. Ti distruggeranno sotto il profilo psicologico, faranno saltare i tuoi parlamentari. Te lo voglio dire non per farti cambiare idea. Te lo dico perché mi dispiace umanamente». La risposta di Renzi sono le fiches puntate su Draghi: «Mario Draghi era semplicemente l'italiano più stimato al mondo. Nei suoi interventi aveva tracciato la linea su ciò che serviva non solo all'Italia, ma all'Europa. Nei suoi colloqui privati, almeno con me, Draghi aveva sempre rispettato le prerogative del governo in carica, del Presidente della Repubblica, del Parlamento. Io naturalmente forzavo su un suo eventuale impegno». Naturalmente. Sicché il Renzi narratore si abbandona a giudizi trancianti. Bonafede è un peggio di un legale parafangaro: «Da parlamentare prima e da ministro poi ha rappresentato la summa di tutti ciò che noi contestavamo nella giustizia italiana (...) E quando diventa Guardasigilli sceglie come capo del Dap il massimo dirigente delle carceri, un oscuro pm che ha avuto il merito -per i grillini- di indagare sui presunti reati compiuti dai membri del governo Renzi nel cosiddetto scandalo Tampa Rossa. È l'uomo per il quale non c'è differenza tra giustizialismo e garantismo: mediocre avvocato di seconda fila divenuto improvvisamente ministro».

QUIRINALE. Prodi, invece, si rivela d'inaudita ferocia: «Il suo problema è che vede fantasmi di Bertinotti ovunque: le sedute spiritiche evidentemente lasciano il segno. In realtà con Prodi la questione è semplice: lui non ha fatto il Presidente della Repubblica nel 2015 perché io gli ho preferito Sergio Mattarella. E se l'è legata al dito, tutto qui. Mai visto un uomo più rancoroso di Romano Prodi: dietro la bonomia della faccia c'è un carattere irascibile e vendicativo». Zingaretti ha le stigmate del voltagabbana, non esistono più i comunisti di una volta. Infatti prima il segretario Pd lo pugnala: «Zinga esplicita il proprio consenso alla strategia del Capitano leghista. Pur di mandare a casa i renziani, il nuovo Pd preferisce fare l'accordo istituzionale con Salvini, e fare ciò che a una certa sinistra piace. 

Matteo Renzi, la rivelazione su Silvio Berlusconi: "La telefonata subito dopo l'arresto di mia madre". Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. Torna al centro della scena, Matteo Renzi. E non solo perché, ancora una volta, sul ddl Zan con la sponda della Lega è lui a dare le carte. Già, perché martedì uscirà Controcorrente, l'ultimo libro del leader di Italia Viva, un libro pieno zeppo di retroscena e rivelazioni politiche. Insomma, tutta la sua verità. Le anticipazioni piovono un po' su tutti i giornali, Libero compreso. E tra queste, ve ne sono alcune che riguardano Silvio Berlusconi. Quel Berlusconi a cui Renzi è stato più volte accostato. E così, su Controcorrente, si legge: "Le ironie si sprecheranno, lo so. Gli odiatori non credono che anche i politici abbiano una dimensione umana. E tutte le volte che vengo avvicinato a Berlusconi si scrivono fiumi di inchiostro su una relazione speciale che tale in realtà non è stata. Con Berlusconi, checché se ne pensi, abbiamo condiviso molto meno di quello che si dice. C'era il patto del Nazareno, vero, ma poi è saltato per responsabilità che attribuisco a lui in via esclusiva. Poi, nel merito abbiamo dialogato spesso, ma Forza Italia non ha mai votato la fiducia al mio Governo, fiducia che invece ha votato a Monti, Letta, Gentiloni, Draghi. Però, quando si parla di mamme, Berlusconi ha un tratto di umanità profondo e raro da ritrovare. È simpatico, nel senso greco del termine: sa soffrire insieme. Nella telefonata di pochi minuti che mi ha fatto nelle ore successive all'arresto ho avvertito un tratto di verità nella sua condivisione che molti colleghi di partito non mi hanno concesso per una vita intera", spiega Renzi. Insomma, Berlusconi fu il politico che nel drammatico momento dell'arresto della madre fu più vicino a Renzi. E certe cose, ovviamente, non si possono scordare. Notevoli, nel volume, gli attacchi rivolti contro Beppe Grillo e Marco Travaglio. Renzi infatti chiede di "chiudere la Repubblica giudiziaria", l'epoca ultra-manettare che ci hanno portato in dote e i grillini e che, con la riforma di Marta Cartabia, abbiamo iniziato a smantellare. E ancora, Renzi aggiunge: "Grillo e Travaglio sono dei pregiudicati che si sono intestati l'onestà". Picchiare durissimo, appunto.

Attaccò Renzi per le "spese pazze in Provincia": assolto Maiorano, l'usciere maledetto di Palazzo Vecchio. Per il giudice "il fatto non costituisce reato". Redazione Firenze Today l'08 luglio 2021. Il giudice del tribunale di Firenze Laura Bonelli ha assolto l'ex dipendente comunale Alessandro Maiorano dall'accusa di diffamazione aggravata nei confronti dell'ex premier Matteo Renzi, ora senatore di Italia Viva. 'L'usciere maledetto di Palazzo Vecchio' è stato assolto in quanto "il fatto non costituisce reato". L'accusa invece aveva chiesto la condanna di Maiorano al pagamento di una sanzione pecuniaria. Maiorano era finito a processo per aver sostenuto, in un'intervista a un quotidiano on line e con alcune uscite social che, ai tempi in cui era presidente della provincia di Firenze, Renzi avesse dilapidato soldi pubblici - “Matteo Renzi ha speso 20 milioni di euro da presidente della Provincia pagati dal contribuente” - fondando su tali "spese pazze" la sua scalata politica. Renzi, dal canto suo, nel 2013 aveva querelato Maiorano e poi si era costituito parte civile al processo. Il suo legale, l'avvocato Federico Bagattini, come riporta La Repubblica Firenze, ha commentato: “Aspettiamo le motivazioni per valutare se fare ricorso in appello contro questa assoluzione ma, vista la formula con cui è stato assolto l'imputato, valutiamo se intraprendere subito una causa civile di risarcimento dei danni i cui proventi verranno devoluti in beneficenza". "E' una sentenza importante che ha ristabilito il diritto del cittadino a rivolgere critiche e domande su come siano stati spesi soldi pubblici" ha dichiarato invece l'avvocato Carlo Taormina, difensore di Maiorano, come riportato da Il sito di Firenze. Per poi aggiungere: "la procura di Firenze è arrivata ad effettuare una perizia psichiatrica per cercare di dimostrare l'incapacità di intendere e volere di Maiorano e addirittura di individuare un percorso di socializzazione del mio assistito". "Nè possiamo dimenticare - ha concluso il legale - che ci sono molti procedimenti in atto nati proprio dalle denunce di Maiorano".

La digos perquisisce Maiorano: il "nemico pubblico numero 1" di Renzi indagato per stalking. All'ex usciere della Provincia, difeso dall'avvocato Carlo Taormina, sono stati sequestrati documenti, chiavette, cellulari. Redazione Firenze Today il 25 aprile 2020. L'ex premier Matteo Renzi si sente perseguitato e ha denunciato il suo stalker: è l’ex usciere del Comune di Firenze Alessandro Maiorano. L’altra mattina la digos ha bussato alla porta di casa sua, a Prato, mostrando un decreto di perquisizione firmato dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli: atti persecutori "quasi quotidiani", via internet, nei confronti del leader di Italia Viva, bersaglio di Maiorano sin dai tempi in cui era presidente della provincia di Firenze. Lo riporta La Nazione. Contro Maiorano, Renzi ha presentato una serie di esposti. L’ultimo pochi giorni fa, contro Maiorano ma non solo. Dentro alle carte ci sono video, post, commenti a post. E fake news, tipo quella montata in piena emergenza Coronavirus sugli amici del figlio che giocano a pallavolo nel giardino della villa fiorentina di via Tacca dopo essere stati accompagnati dalla scorta. Maiorano, 59 anni, ha un 'conto aperto' con Renzi che gli è già costato un processo per diffamazione. In passato, anche il suo licenziamento da dipendente di Palazzo Vecchio è stato oggetto di un procedimento giudiziario, che ha alimentato veleni e risentimenti. Ma con la perquisizione della digos di giovedì mattina, la querelle a distanza ha fatto ora un salto. Oltre a computer, telefoni, profili social, la digos gli ha sequestrato anche materiale, carte e chiavette. E’ l’archivio che Maiorano usa come detonatore di possibili "bombe" in ogni sua apparizione via web? Post dopo post, l’ex usciere (che non ha mai risparmiato nelle sue invettive neanche i magistrati che, a suo dire, non prendono in considerazione le sue denunce), annuncia quasi quotidianamente clamorose rivelazioni, documenti scottanti, verità che nessuno ha il coraggio di svelare. A brevissimo, promette anche, con la benedizione del suo avvocato Carlo Taormina, l’uscita di un libro. Pagine con un unico tema: Renzi, ovviamente. Una persecuzione? Per il leader di Italia Viva, sì. Ma il bersaglio dell’operazione dell’altra mattina, non è stato soltanto Maiorano. La polizia si è presentata anche dal vicino di Renzi, colui che – viene ipotizzato – avrebbe filmato Matteo, la moglie e i tre figli in giardino e fatto partire la condivisione del video con tanto di commento "fake". Episodio, quest’ultimo, che non riguarda Maiorano.

Renzi querela Maiorano: "Non ho comprato nessuna casa faraonica". Ennesima accusa al segretario da parte del dipendente comunale. Alessia Benelli su Firenze Today 30 ottobre 2017. "Il segretario del Partito democratico ha dato mandato all'avvocato Bagattini di Firenze di sporgere querela contro il signor Maiorano che in video dichiara che Renzi avrebbe acquistato una faraonica abitazione nel centro di Firenze. L'unica abitazione acquistata da Matteo Renzi è quella di Pontassieve per la quale sta ancora pagando le rate del mutuo". E' quanto scritto in una nota diffusa alla stampa dal Partito democratico. Alessandro Maiorano è un dipendente del Comune di Firenze che da anni presenta esposti contro il segretario dei dem e la sua famiglia. "In Via Guicciardini il pupazzo si è comprato un altro appartamento, bisognerebbe capire da dove escono questi milioni di euro". Così poche ore fa Maiorano ha parlato della nuova casa di Matteo Renzi in centro a Firenze in un video pubblicato sul suo profilo Facebook. Matteo Renzi si è effettivamente trasferito con tutta la sua famiglia nel quartiere di Santo Spirito da quasi 2 mesi. Fino ad allora viveva nella casa a Pontassieve (quella citata nel comunicato dei democratici) in Via del Capitano. 

Matteo Renzi non si costituisce parte civile nei confronti di Maiorano. Il dipendente comunale di Palazzo Vecchio è accusato di diffamazione nei confronti del premier. Al centro del processo, rinviato a giugno 2015, presunti abusi e irregolarità commessi dall’ex presidente della Provincia e sindaco. Il Tirreno il 7 luglio 2021. Al via a Firenze il processo per diffamazione contro il dipendente comunale Alessandro Maiorano, pratese, denunciato da Matteo Renzi per le accuse sui presunti sperperi alla Provincia di Firenze quando il premier ne era a capo. Renzi non si è costituito parte civile contro il dipendente di Palazzo Vecchio, pur avendolo denunciato. Maiorano da tempo porta all'attenzione presunti abusi e irregolarità commesse da Matteo Renzi sia come presidente della Provincia, sia come sindaco. Il processo di stamani riguarda 20 milioni di euro, che secondo Maiorano, Renzi avrebbe sperperato per iniziative varie. Il processo e' stato rinviato al 14 giugno 2015. Maiorano, difeso dall'avvocato Carlo Taormina, potrà presentare una sua lista dei testimoni.

Matteo Renzi non fu diffamato: assolto Alessandro Maiorano. Luca Serranò su La Repubblica l'8 luglio 2021. L'ex usciere di Palazzo Vecchio aveva accusato l'ex premier di aver fondato la sua scalata politica sulle spese "pazze" all'epoca in cui guidava la Provincia di Firenze (2004-2009). La difesa di Renzi: "Valuteremo se chiedere risarcimento danni da devolvere in beneficenza". Il fatto non costituisce reato. Con questa formula il tribunale di Firenze ha assolto Alessandro Maiorano, l'ex usciere del Comune di Firenze che ha accusato Matteo Renzi di aver fondato la sua scalata politica sulle spese "pazze" all'epoca in cui guidava la Provincia di Firenze (2004-2009). Maiorano, difeso nel procedimento dall'avvocato Carlo Taormina, era finito alla sbarra per diffamazione. Due in particolare gli episodi al centro della denuncia dell'ex premier: un'intervista a un quotidiano on line e la pubblicazione sempre sul web di una foto - accompagnata da commenti polemici - dello stesso Maiorano con una maglietta con la frase "Matteo Renzi ha speso 20 milioni di euro da presidente della Provincia pagati dal contribuente". "Aspettiamo le motivazioni per valutare se fare ricorso in appello contro questa assoluzione - commenta l'avvocato Federico Bagattini, che assiste il leader di Italia Viva - ma vista la formula con cui è stato assolto l'imputato valutiamo se intraprendere subito una causa civile di risarcimento dei danni i cui proventi verranno devoluti in beneficenza".

Tribunale di Firenze assolve il grande accusatore di Renzi: critiche legittime. Assolto con formula piena “l’usciere” Maiorano. Accusava Renzi: spese improprie L’avv. Taormina: “Cose mai viste. Gli hanno fatto anche la perizia psichiatrica”. Antonio Amorosi su Affari Italiani Giovedì, 8 luglio 2021. Che è successo, avvocato? Lei difendeva il dipendente del Comune di Firenze Alessandro Maiorano che accusava l’ex Premier Matteo Renzi di aver fondato la sua scalata politica su spese improprie, all'epoca in cui guidava la Provincia di Firenze (2004-2009). Il processo nasce da una querela presentata da Renzi nel 2013, 7 anni fa...Sì e il processo si è concluso oggi con l'assoluzione con formula piena per Maiorano, accusato di diffamazione aggravata nei confronti di Renzi. Il mio assistito lo criticava legittimamente per l’utilizzo improprio, per finalità diverse da quelle istituzionale, di denaro pubblico. E’ una sentenza importante perché in cinquant'anni di professione non ho mai visto un processo come questo.  

In che senso?

Si è tentato di far passare Alessandro Maiorano per pazzo. 

Come?

È la prima volta che mi capita in un processo per diffamazione che un imputato sia sottoposto a perizia psichiatrica per capire se è capace di intendere e di volere

E cosa dice la perizia?

Dice che Maiorano è perfettamente capace di intendere e di volere ma che potrebbe ancora troppo pericolosamente criticare il potere politico. Da non crederci. Si voleva sapere se Maiorano doveva essere ulteriormente seguito nel percorso della sua vita perché può tornare a criticare il potere politico. Si voleva censurare un cittadino che critica come la politica spende i soldi pubblici

Ah...

Negli anni siamo stati impediti dall’esercitare qualsiasi attività difensiva. Per fortuna è intervenuta la sentenza della dottoressa giudice Bonelli, del tribunale di Firenze, che ha assolto con formula piena il mio assistito perché ha correttamente esercitato il diritto di critica…. anche se in luoghi come Firenze è difficile...

Che farete ora?

Aspetteremo le motivazioni. Mi auguro che Renzi si renda conto che è un cittadino come tutti gli altri, e anche un cittadino più importanti degli altri perché manovra denaro pubblico. Come per tutti gli altri politici ci sono i cittadini e i giornalisti che si fanno domande. Che si chiedono come abbia raccolto quel denaro e come lo abbia utilizzato

Si è dovuto aspettare 7 anni...

Si ma questa è una sentenza che ci dà un minimo di speranza e la possibilità di capire che si può criticare il potere, legittimamente. Devo dare atto al tribunale di Firenze, in particolare al giudice Bonelli. È stata veramente ineccepibile perché ha consentito a tutti di dire tutto. In questo Paese si mette in discussione il diritto di criticare i potenti ma la sentenza fa giustizia

Le critiche di Maiorano erano molte significative

Ma corrette. E’ molto importante sapere che è legittimo criticare chi usa i nostri soldi e fa politica, anche se durante questi anni ne ho viste di tutti i colori.

Dagospia il 25 giugno 2021. Da "Belve". Protagonisti della nuova puntata di Belve - condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera (venerdì 25 giugno), alle 22.55 su Rai2 - sono l’ex premier Matteo Renzi e il sindaco di Roma Virginia Raggi. Matteo Renzi: Graziano Delrio mi ha ferito umanamente, Enrico Letta il giorno della cerimonia della campanella ha fatto una figuraccia, con lo 007 Mancini ho parlato di questioni di interesse nazionali…Quando ha cominciato a sentire che il suo potere scemava, il contraccolpo personale è arrivato? chiede Francesca Fagnani a Matteo Renzi, ospite di Belve. “Mi ha fatto effetto vedere le stesse persone che ti lusingavano, per non dire altre parole, che il giorno dopo ti ignorano”, risponde Renzi. Mi fa dei nomi? “No, anche perché farei un elenco che parte ora e finisce domani”. Me ne dica uno. Lei non ha problemi a fare i nomi…“Le dico un nome che mi costa fatica e mi dispiace molto, legato a quando abbiamo messo Draghi al posto di Conte. Mi ha molto colpito come Graziano Del Rio ha fatto un appello ai nostri, agli ex, dicendo “lasciate Matteo venite con noi”. Quella è stata una cosa che da Graziano non mi aspettavo. Gliel’ho detto in faccia, gli ho detto che umanamente la ferita ha lasciato una cicatrice grande. Perché me lo aspettavo da tanti, da lui no. Non pensavo che Graziano potesse diventare un membro del Politburo in quel modo”. Poi Fagnani ricorda al suo ospite il famoso episodio della cerimonia della campanella del 22 maggio 2014, quando Enrico Letta si girò da un’altra parte proprio per non guardare Renzi. poi la conduttrice di Belve lo provoca: Lei, invece, tutto tronfio si è preso la campanella. In quel momento cosa ha pensato? Tiè? “No” replica Renzi “anche perché non avevo nessun tipo di rivalsa verso Letta. Ho pensato che stesse facendo una figuraccia, ho pensato che di fronte alle Istituzioni non si scherza. Lì, in quel momento, Enrico sta facendo una cosa che non si fa. Sta puntando a dire: guardate, sono la vittima, anziché rispettare le Istituzioni. Credo che abbia fatto un errore lui”. Quanto al caso-Mancini, Fagnani prima ricostruisce l’incontro in un autogrill tra Renzi e lo 007 Marco Mancini, poi domanda: è scoppiato un putiferio, lei se lo aspettava? Assolutamente no. Mancini è un agente dei servizi segreti italiani, incontra regolarmente tanti politici. Io non ho niente da nascondere, per cui andando di corsa gli ho detto: “Ci vediamo all’autogrill”. Se devo fare un incontro di nascosto, lo faccio in ufficio: questo spieghiamolo ai teorici del complotto. Ho detto a Mancini le stesse cose che potrei dire a lei o che posso dire uscendo di qui, sono una persona trasparente”. Ne parlerà nelle sedi opportune, insiste Fagnani, ma le posso chiedere se con Mancini avete parlato di questioni personali oppure di interessi nazionali? Non ho parlato minimamente di questioni personali né mie né sue. Io non parlo di questioni personali con nessuno, nemmeno con lei”. Quindi avete parlato di questioni di interessi nazionali? “Assolutamente sì”, conferma l’ex premier. Inoltre, a Belve, Renzi rivela aspetti ulteriori e inediti della sua vita politica e professionale: “i gossip” su Maria Elena Boschi; il rapporto la moglie Agnese, con la quale “ci riprenderemo il nostro tempo”; l’investitura a Mario Draghi quale nuovo leader della sinistra: il riconoscimento del difetto dell’arroganza; il paragone divertito con Jep Gambardella della “Grande Bellezza; la difesa di Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita, nonostante il suo coinvolgimento nell’inchiesta sull’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi (“Non ho alcun disagio morale”); “l’errore” fatto dopo la sconfitta al referendum costituzionale (“Dovevo andarmene, dal punto di vista personale ho fatto malissimo a rimanere in politica, avevo già la valigia pronta per gli Stati Uniti”). Indomabili, ambiziosi, sempre all’attacco e mai gregari, alle 22.55 i protagonisti di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e debolezze dei protagonisti. Feroci e fragili, al tempo stesso.

Matteo Renzi irritato a Belve, attacca Lilli Gruber e poi minaccia di andarsene: "Sono 45 minuti di intervista". Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. Matteo Renzi irritato da Francesca Fagnani. È successo a Belve, il programma in onda su Rai2 dove il leader di Italia Viva era ospite. Tutto è cominciato con una domanda della conduttrice sul suo aspetto fisico."Se mi piaccio? Sono consapevole di non essere bello –  ha risposto – sono consapevole di essere grasso, ma sono talmente in pace con me stesso…”. E ancora: "Queste domande le faccia fare alla Gruber con Conte. Ad un certo punto la Gruber ha chiesto persino: ‘ma Conte secondo voi è sexy?’. Questa discussione non ha senso. Sono sposato, ho una moglie, comunque se vuole una risposta è no". Una situazione incandescente che ha portato l'ex premier a innervosirsi oltremodo. Stando a quanto riporta Tvblog Renzi avrebbe addirittura minacciato di andarsene. Guardando a più riprese l’orologio, il senatore si è infatti lamentato con la Fagnani per gli oltre quarantacinque minuti di faccia a faccia, in seguito tagliati e aggiustati in fase di montaggio. Questi poi riproposti nei titoli di coda. Tornando ai tempi che furono, la conduttrice ha ricordato al leader di Italia Viva la sua presenza ad Amici, nel lontano aprile 2013, quando era all'apice della sua carriera. L'obiettivo dell'ex presidente del Consiglio era quello di rivolgere un appello ai giovani. E dove sarebbe stato meglio se non davanti alle telecamere di Maria De Filippi? In particolare a creare scalpore fu il chiodo alla Fonzie indossato. "Quel giubbotto di pelle lo scelsi da solo", ha ammesso a distanza di anni, "Non ho uno che mi segue l’abito, era un giubbottino di Versace, bellino. Ora lo usa mia figlia".

La decisione dei giudici "contabili". Renzi assolto dalla Corte dei Conti per le “spese pazze”: cade l’accusa di danno erariale. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Maggio 2021. Non ci furono “spese pazze”, come avevano titolato i giornali. L’ex presidente del Consiglio e leader di Italia Viva Matteo Renzi è a stato assolto dalla Corte dei Conti, terza sezione giurisdizionale di appello, dall’accusa di danno erariale. I giudici hanno accolto infatti l’appello presentato dal senatore di IV per le contestazioni della magistratura contabile riguardante l’operato di Renzi quando, nel 2005, era presidente della provincia di Firenze. La questione che ha portato all’assoluzione dell’ex premier riguardava il conferimento di quattro incarichi da direttore generale. Renzi, che era stato condannato a versare 15mila euro, è stato oggi assolto dalle accuse: “L’appellante – si legge nella sentenza – censura le sentenze impugnate che sarebbero pervenute al risultato di condannare un soggetto che di mestiere fa il politico (e non il dirigente, l’avvocato, l’esperto contabile o il tecnico) per questioni squisitamente amministrative e tecniche contro il quale la parte che sostiene per legge l’accusa, ossia la Procura, non ha individuato alcun addebito”. Su Twitter il senatore di Italia Viva commentando la sentenza si è detto “felice dell’assoluzione di oggi in appello alla Corte dei Conti. E un pensiero a chi sfoga il proprio odio insultando sui social: il tempo è galantuomo, la giustizia non è giustizialismo”. Dopo la condanna in primo grado il suo legale, l’avvocato Alberto Bianchi, si era mostrato fiducioso per l’assoluzione in Appello. “La condanna è avvenuta senza nessuna richiesta di condanna da parte della procura – spiegava nel 2019 il legale – e in presenza di una legge che esclude che possa essere sottoposto a giudizio un soggetto che, come nel caso di Matteo Renzi, era rientrato nel processo su ordine del giudice dopo che la procura ne aveva chiesto l’archiviazione”. Quanto alle “ragioni di merito”, il legale dell’ex premier riteneva “paradossale attribuire all’organo politico l’eventuale danno di una amministrativa presa con tutti i visti di regolarità, anche contabile”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 14 maggio 2021. D' Alema, Davigo, Ranucci, Speranza: tutti in fila. Chiuso il capitolo Conte, con lo sfratto da Palazzo Chigi dell'avvocato del popolo e l'arrivo di Mario Draghi, Matteo Renzi vuole saldare i conti in sospeso con i «nemici». E si lancia in una battaglia che rischia di risucchiarlo nel pantano. Una strana guerra che mette in ombra l'operazione Draghi. E che appare incomprensibile anche ai suoi fedelissimi. Ma Renzi è testardo, si sa, e va avanti con la personale resa dei conti. È il primo maggio, festa dei lavoratori, quando dall' e-news l'ex presidente del Consiglio sferra un attacco a freddo contro Piercamillo Davigo. Lo scandalo corvi al Csm è l'occasione servita sul piatto d' argento. Vicenda nella quale Renzi non c' entra nulla. Ma che fornisce l'assist per colpire un simbolo del giustizialismo: «Sono certo che il giudice Davigo, il quale da anni ci fa la morale, saprà spiegare», commenta l'ex presidente del Consiglio. Vendetta consumata. I due mastini renziani sono Luciano Nobili e Michele Anzaldi. Con Sigfrido Ranucci, conduttore e giornalista di Report, sembra quasi una battaglia quotidiana. Dopo i primi due round, lunedì si gioca il match decisivo: Renzi sarà in studio per ribattere colpo sul colpo all' inchiesta sull' incontro avvenuto il 23 dicembre scorso, nel parcheggio di un Autogrill di Fiano Romano, tra il leader di Iv e Marco Mancini, dirigente del Dis. Renzi incontrava un agente dell'intelligence mentre tramava per mandare a casa Conte? È la tesi di Report che avrebbe ricevuto il filmato da un'insegnante. Renzi contesta la ricostruzione di Ranucci, adombrando il sospetto di una regia di pezzi dello Stato. L' incontro Renzi-Mancini finisce sul tavolo del Copasir che ieri ha formalizzato la richiesta al premier di un'indagine interna sul caso. Draghi sta già provando a mettere ordine: giovedì è stata nominata a capo del Dis, Elisabetta Belloni: nomina appoggiata dal ministro degli Esteri Luigi di Maio e apprezzata molto dal Colle. Il conto con Ranucci è apertissimo. C' è un altro capitolo: Luciano Nobili ha depositato un'interrogazione parlamentare per sapere se Report (la Rai) ha pagato una fonte per confezionare un servizio contro Renzi.Nella «lista nera» di Renzi spuntano altri due nomi: Roberto Speranza e Massimo D' Alema, due vecchie conoscenze dell' ex segretario del Pd. In questo caso i conti sono in sospeso dai tempi della rottamazione. Contro il ministro della Salute, Renzi appoggia la richiesta di Matteo Salvini di una commissione d' inchiesta parlamentare per accertare responsabilità e ritardi da parte del ministero della Salute nella gestione dell'emergenza. Renzi pregusta contro D' Alema una vendetta freddissima, a distanza di otto anni dallo scontro al Nazareno. Il terreno è l'inchiesta sui ventilatori cinesi in cui compare (ma non è indagato) il nome di D' Alema. Il braccio operativo, il renziano Michele Anzaldi, picchia duro. E Renzi si gode lo spettacolo.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 10 maggio 2021.

Senatore Renzi, Giuseppe Conte sul «Corriere» la accusa di essersi prestato a un'operazione per farlo fuori.

«Nessuna operazione men che mai segreta: ho lavorato alla luce del sole perché pensavo che Draghi fosse meglio di Conte. Dopo le prime settimane lo penso ancora di più. Non solo non mi nascondo, dunque, ma rivendico questa operazione. Le accuse che Conte mi rivolge sono per me medaglie al merito».

Non crede quindi che vi fossero, come dice Conte, interessi politici economici che convergevano per farlo saltare?

«Il complottismo è la malattia di chi non si assume mai le proprie responsabilità. Tutti i media erano schierati contro la crisi, il Pd diceva o Conte o morte, Confindustria sponsorizzava i ministri uscenti fino all' ultimo. Ma quali complotti? Un interesse economico per sostituire Draghi con Conte effettivamente c'era: quello dei nostri figli. Il debito pubblico oggi è in mano più sicure. E io sono orgoglioso di ciò che abbiamo fatto da soli, controcorrente».

Non lo ha fatto saltare, come sostiene Conte, perché Iv non decollava nei sondaggi?

«Solo da noi si confondono i sondaggi con la politica. La decisione costante basata sul consenso anima il Grande Fratello, non il Parlamento. Temo che Casalino e Conte non abbiano fino in fondo capito la differenza. Quanto ai sondaggi: ci danno sempre per morti. Però nel 2018 abbiamo impedito il governo Di Maio, nel 2019 abbiamo impedito il governo Salvini, nel 2021 abbiamo impedito il governo Conte ter. Lasciamo pure che gli amanti dei reality si trastullino coi sondaggi, noi facciamo politica. E i risultati arrivano. Gli altri fanno le somme dei sondaggi, noi facciamo la differenza con la politica».

Uno dei punti da lei contestati a Conte era il Pnrr. L'ex premier dice che il suo e quello di Draghi sono praticamente uguali.

«Per fare un paragone bisogna conoscere almeno uno dei termini della questione.

Conte non aveva letto il Pnrr del suo governo come scoprimmo con sorpresa a dicembre 2020. Da quello che dice evidentemente non ha letto neanche quello di Draghi. La svolta tra i due governi è evidente non solo sul Pnrr, ma anche sui vaccini, sulle riaperture, sul ruolo internazionale dell'Italia. E naturalmente passare da Arcuri a Figliuolo è un piccolo passo per il governo, un grande passo per gli italiani. Spero che si faccia presto una commissione di inchiesta così capiremo che fine hanno fatto in banchi a rotelle di Azzolina, i ventilatori cinesi di D' Alema, le mascherine di Arcuri. Troppi soldi sono girati sempre dagli stessi uffici, presto capiremo perché».

Lei ha presentato una denuncia sul servizio di «Report» che ha mandato in onda un filmato di un suo colloquio con Marco Mancini, sostiene di essere stato intercettato e seguito.

«La versione di Report è piena di contraddizioni. La testimone si confonde più volte sul chi è partito prima, sul cosa ha ascoltato, dice cose che poi nega, afferma di aver visto le macchine andare in due direzioni diverse, il che da un autogrill imporrebbe di andare contromano. Su questa cosa vogliamo solo sapere se la Rai manda in onda dei video falsi. E non per me, ma per i cittadini che pagano il canone e hanno diritto a un servizio pubblico di verità. Noi difendiamo il giornalismo di qualità, non un racconto che fa acqua da tutte le parti. Sono a disposizione per intervenire stasera in diretta a Report e commentare i servizi sapientemente tagliati dalla redazione. Sono certo che Ranucci - nominato vicedirettore da questa Rai - mi chiamerà sicuramente. Ci metto la faccia e chiedo par condicio rispetto a chi mi accusa con voce camuffata. E dopo Report sono pronto ad andare al Copasir e in Vigilanza: su questa cosa si va fino in fondo».

Mancini è un personaggio controverso.

«Stiamo parlando di un dirigente dello Stato peraltro molto vicino all' allora premier Conte. In ogni caso io non ho nulla da nascondere: se volessi organizzare qualche incontro riservato le garantisco che non lo farei all' autogrill di Fiano Romano, uno dei più trafficati d' Italia, ma tra quattro mura protette. Chi vice di complotti ha un grande nemico: il buon senso. Se sono con Mancini all' autogrill, all' aperto, significa che non ho paura di farmi vedere. Gli scandali veri sono gli incontri segreti di Davigo, il grande moralizzatore che comunica notizie riservate a Nicola Morra, parlamentare dei Cinque Stelle, in un sottoscala del Csm. Io non sono Davigo, giustizialista con gli avversari e divulgatore di notizie con i parlamentari amici».

La campagna vaccinale sembra aver ingranato, ma con le riaperture non c' è il rischio che riprendano i contagi?

«Le riaperture sono un dovere morale e una priorità economica. Prima togliamo questo folle coprifuoco meglio è. Il virus non diventa più cattivo alle 22 e noi abbiamo bisogno di tornare al ristornate, al cinema, a teatro. Per uccidere il virus servono i vaccini, non le prediche laiche di qualche catastrofista. Chi tifa per la quarta ondata - come qualche virologo già in crisi di astinenza da Tv - dovrebbe domandarsi perché in Israele, nel Regno Unito, negli Stati Uniti sono già tornati alla normalità. Meno allarmismo e più vaccini. E meno male che la coppia Draghi-Figliuolo ha preso il posto di Conte-Arcuri».

I suoi avversari le contestano le conferenze in Arabia Saudita.

«E questo dice molto di loro. Come tanti ex premier, anche italiani, viaggio per il mondo. I miei movimenti bancari sono segnalati come per tutti i politici, la mia dichiarazione dei redditi e pubblica, la mia attività rispetta la legge. Se vogliono impedirmi di fare ciò che è lecito e legittimo possono cambiare la legge. Non chiederò loro invece di cambiare argomento semplicemente perché non ne hanno altri. Aver tolto Conte per mettere Draghi è stato un servizio al Paese. Parlino pure delle conferenze se non sanno cosa altro dire, ormai è l' argomento a piacere di tutte le interviste».

Matteo Renzi srl: fonda una società con le sue iniziali. A caccia di affari. Carlo Tecce  su L'Espresso il 19 aprile 2021. Dopo le polemiche per le conferenze e le interviste retribuite all’estero, il senatore di Italia Viva non lascia la politica, ma raddoppia: rimane nella maggioranza, continua a fare l’oratore e nel centro di Roma apre Ma.Re per le consulenze e altro. Matteo Renzi non ha scelto se fare il politico o il conferenziere. Ha scelto di fare il politico, il conferenziere e anche l’imprenditore. Il fondatore e senatore di Italia Viva, la settimana scorsa, ha aperto la società Ma.Re Consulting srl col doppio ruolo di amministratore e azionista unico. Secondo lo statuto depositato alla Camera di commercio di Roma, Ma.Re Consulting si occupa di “consulenza, assistenza, prestazione di servizi, svolgimento di analisi, studi e ricerche dirette alle imprese o a favore delle stesse o di enti, soggetti e servizi in genere, in materia di strategia aziendale e industriale, operazioni straordinarie quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, acquisizioni e fusioni”. Per i suoi affari, dunque, Renzi si trasferisce a Roma e ha indicato una sede nel centro storico, in via Bocca di Leone 78, nel palazzo della nobile famiglia Torlonia. L’ultima volta, nell’autunno di due anni fa, ci provò a Firenze con la Digistart: la ragione sociale era simile e l’intenzione pure, ma non fu mai davvero funzionante. Allora Renzi temeva questioni di incompatibilità, o almeno di opportunità, come si dice in politichese con sobrietà lessicale, perché era il periodo dell’uscita dal Pd e la nascita di Iv. Adesso Renzi ha una carriera lavorativa in piena attività e gestisce un partito, senza cariche, non proprio in piena salute: la dichiarazione dei redditi dell’ex premier ho toccato 1,092 milioni di euro nel 2020, ma Italia Viva non si schioda dal 2/3 per cento nei sondaggi, che spesso è una quota assai sensibile all’errore statistico. Nonostante la pandemia ancora virulenta, Renzi ha ripreso a girare il mondo per i suoi discorsi e le sue interviste retribuite, per tessere le sue relazioni anche con i regimi monarchici, com’è accaduto - durante la caduta del governo di Giuseppe Conte - con la trasferta in Arabia Saudita dall’erede al trono Mohammad bin Salman. Il principe “amico” è accusato dagli americani di aver organizzato l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Seppur proiettato all’estero, soprattutto nella penisola del Golfo, Renzi si fa imprenditore a Roma dove la politica e il resto, tutto il resto, si mescolano. Questa società a responsabilità limitata (srl) con 10.000 euro di capitale interamente versato, fa sapere l’ex premier all’Espresso, non sarà utilizzata per fatturare le sue prestazioni di oratore poiché per quelle ha la partita Iva. Ma.Re Consulting ha soltanto qualche giorno, è stata costituta presso lo studio fiorentino del notaio Niccolò Turchini, conosciuto anche per aver certificato il primato mondiale di abbracci davanti a Palazzo Vecchio con la partecipazione di 1.186 cittadini capitanati dal sindaco Dario Nardella. Ma.Re è destinata a crescere e potrebbe accogliere nuovi soci. Renzi lo sa. I buoni contatti danno un Ma.Re di possibilità.

Alessandro Sallusti per "il Giornale" il 31 marzo 2021. Strafottente è strafottente, non c'è dubbio ma tutta questa attenzione, direi ossessione, per i viaggi all'estero in Paesi così così di Matteo Renzi, mi pare davvero eccessiva e comunque di scarso contenuto politico. Forse non è chiaro a tutti, ma Renzi non è più un politico, penso abbia chiuso la sua carriera con quell'ultima zampata da maestro che è stata la defenestrazione di Conte e il successivo insediamento di Draghi. O quantomeno non è più un politico nel senso comune del termine, ha scoperto che fuori dai palazzi romani esiste un mondo assai più interessante, generoso nei compensi economici e che, per di più, non conoscendolo lo ammira, apprezza e coccola. E lui, che resiste a tutto meno che alle tentazioni, ci si è tuffato con la solita foga e spregiudicatezza appagando il suo ego smisurato. Ce lo vedo sulla terrazza di qualche suite vista oceano, con una coppa di champagne in mano, irridere all'ultima dichiarazione alle agenzie di qualche oscuro parlamentare indignato per il suo comportamento, dare ordine ai suoi avvocati di querelare chi nei giudizi si spinge un po' in là, perché si sa, i soldi oltre un certo livello non bastano mai. Insomma, dare oggi una valenza politica a Matteo Renzi è tempo perso, il che non vuole dire che non dispensi qualche consiglio qua e là, che non si diverta a mettere zizzania tra i suoi nemici e sostenga i pochi amici rimasti a Roma a fare la guardia a un bidone, Italia Viva, ormai vuoto. Matteo Renzi, penso, lo abbiamo perso e ciò non è un male assoluto, anche se rispetto a ciò che offre oggi il mercato della politica l'ex premier oggi conferenziere tiene lo stipendio da senatore immagino per le spese correnti - resta un fuoriclasse assoluto. Imboccate certe strade non si torna più indietro, o almeno non facilmente né velocemente. Enrico Letta, defenestrato da Palazzo Chigi dal medesimo Renzi nel 2014 si ritirò a Parigi a dirigere l'École d'affaires internationales e vi è rimasto per sette anni, prima di essere richiamato in servizio dal Pd. Ma parliamo di un altro tipo di uomo e di un'altra storia. Tra sette anni qualcuno sentirà l'irrefrenabile nostalgia di Renzi? Non lo so, più probabile che Renzi dopo sette mesi di vita così non sentirà alcuna nostalgia per la sinistra italiana e per il partito di cui è stato segretario, che ancora ieri, mentre lui parlava con principi e magnati, si scannava su chi tra la Madia e la Serracchiani doveva diventare capogruppo alla Camera. Chiamalo fesso.

Ha vinto lui. Il governo Draghi è un capolavoro di Matteo Renzi, il Re del 2%. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Corre voce che questo giornale sia renziano. Non è vero. È un giornale assolutamente indipendente, liberale, garantista, socialista, anti sovranista, antipopulista – mi fermo qui… -, che crede nella funzione dei partiti ma si tiene ben lontano dai partiti. Ok? È un giornale che spesso ha apprezzato le idee e le proposte di Renzi, e spesso ha criticato le sue oscillazioni su temi cruciali come l’immigrazione (mancata approvazione dello ius soli da parte del suo timido partito) e come il garantismo, terreno sul quale più di una volta gli è capitato di dondolare (a parte il peccato originale, praticamente incancellabile, di avere proposto Nicola Gratteri come ministro della Giustizia…). Poi, tra l’altro, noi siamo un giornale pluralista, e qui in redazione ci sono quelli ai quali Renzi piace molto e quelli che lo sopportano poco. Detto tutto questo, oggi come oggi è abbastanza difficile negare che Renzi abbia avuto un successo politico strepitoso. E che, a occhio e croce, nel giro breve di un paio d’anni abbia dimostrato di essere, come leader politico, di qualche anno luce al di sopra dei suoi interlocutori o avversari. Tutti. Proviamo a fare qualche confronto. Renzi e Salvini. Salvini ha avuto un successo notevole alle elezioni del 2018, conquistandosi la leadership del centrodestra. È entrato nel governo, è diventato vicepremier e ministro dell’Interno, ha raccolto attorno a se tutte le telecamere d’Italia. Cosa ha ottenuto? Niente: la svolta del Papeete (nella quale, come si dice a Roma, si è ribaltato in parcheggio), la perdita del governo, e poi il cono d’ombra, sebbene i sondaggi dessero il suo partito in costante e clamorosa crescita. Oggi Salvini guida un partito che è accreditato del 25 per cento dei consensi elettorali ed è virtualmente il primo partito: ed è immobilizzato. Renzi invece guida un gruppetto un po’ al di sopra del 2 per cento ed è il capo dell’ultimo partito (persino Calenda, dicono, l’ha scavalcato…). Eppure, con il suo 2 per cento, Renzi fa e disfa governi: dopo aver insediato Conte a Palazzo Chigi con Speranza e Franceschini, ora lo ha mandato a casa senza che lui se ne accorgesse, ha beffato e sbeffeggiato il gradasso Travaglio (padrone di La 7), ha liquidato Bonafede, ha umiliato il Pd e ha sistemato Draghi a Palazzo Chigi, probabilmente permettendo all’Italia di avere finalmente un governo dopo due anni di ribalta dominata da vari dilettanti e figuranti. Beh, sembra un po’ Ronaldo che gioca a pallone con mio cugino… È solo un giocoliere? Un talento assoluto della manovra e basta? È solo fumo? Non si può dire così. In primo luogo perché quest’ultima operazione, se andrà in porto, è una operazione politica di grandissimo peso. L’Italia stava correndo a perdifiato, allegra e instupidita, sull’orlo di un burrone. Con la pandemia, il morso feroce della crisi economica, la necessità di gestire un nuovo piano Marshall e la totale assenza di una classe politica e persino di una maggioranza. Si trovava governata da un esecutivo la cui forza si risolveva nella personalità di cartone dell’avvocato Conte. Privo di carisma, di idee, di conoscenze, di esperienza. Il rischio quale era? Di mandare a monte il piano Marshall e di trovarsi staccatissima dalle grandi potenze europee. Incapace di rialzarsi, di reagire. Ci sono dei momenti, nella storia delle nazioni, nei quali conta moltissimo il valore della propria classe politica. L’Italia purtroppo non ha più classe politica. Era un paese che nel dopoguerra aveva trovato la sua fortuna in una generazione politica formidabile. Che era stata selezionata e rappresentava la parte migliore della sua intellettualità. Espressione di una borghesia robusta e coraggiosa e di una classe operaia potente e compatta. I democristiani, i comunisti, e poi i modelli geniali del Psi e i colti e raffinati repubblicani. Forse pochi paesi dell’Occidente avevano a loro disposizione partiti e leader così preparati e forti. Persino l’opposizione estrema, quella di destra un po’ fascista e quella di sinistra sovversiva e in alcune frange violenta o addirittura sanguinaria, era una opposizione intellettualmente di grande qualità. Nessuno può negare che fosse così. La forza di questa politica era la struttura ed il radicamento dei partiti, che erano fucine di idee, di cultura, di compattezza sociale e anche di capacità di governo. Poi, lo sapete, arrivò Mani pulite e sfasciò tutto. Nessuno si aspettava che una struttura politica che aveva resistito alla guerra fredda, alla mafia, al terrorismo, alla crisi economica, finisse sbaragliata da un gruppetto di magistrati. Eppure successe esattamente questo. Il paese che temeva la rivoluzione comunista o il golpe di destra finì nel sacco di un potere che aveva esso stesso costruito al suo interno, ingenuamente e un po’ vigliaccamente. Beh, oggi i partiti non esistono più – lo spettacolo offerto dal Pd in questa crisi, capace solo di sistemarsi in seconda fila alla corte di Conte – è stato spaventoso. E non c’è più classe politica. Né la destra, né la sinistra hanno leader all’altezza. I grillini hanno Grillo e il gruppetto di avvocati che girano intorno a Conte, e poi basta. È in questo deserto che Matteo Renzi, il bullo, l’inaffidabile, il narciso, l’egocentrico, si è rimboccato le maniche, si è messo a tessere la tela. Ha fatto politica e ha trovato una soluzione. Con la stessa spregiudicatezza e capacità di sogno e di avventura che aveva Bettino Craxi. Vi piace Renzi? A me mica tanto. Mi ha deluso molte volte. Credo che abbia anche lui delle colpe nell’annientamento dei partiti politici (il modo nel quale ha liquidato il Pd e raso al suolo la vecchia tradizione e sapienza che veniva dalla Dc e soprattutto del Pci, ”ancor mi offende”). Penso anche che almeno in una prima fase abbia seguito la spinta populista e abbia delle responsabilità nel trionfo del grillismo. E però come fai a non rendergli omaggio per l’operazione-Draghi e per come si è dimostrato due o tre o quattro spanne al di sopra di tutti gli altri. È uno statista? Non so. Aspettiamo. Sicuramente, se tra i leader presenti in Parlamento ci fosse uno statista, di sicuro sarebbe lui. Questo vuol dire che Draghi è la salvezza? Non ci scommetterei. Draghi è una persona di qualità molto alte e ha più di altri la possibilità di governare. In un clima politico nel quale nessuno è in grado di definire destra e sinistra (destra e sinistra hanno entrambe il problema di ridisegnarsi e di ritrovare le proprie rispettive e distinte anime) non si capisce perché non si dovrebbe dare a lui l’incarico, visto che, a occhio, è il più bravo. I miei amici di sinistra dicono: no, Draghi è la borghesia, è la tecnocrazia, la sinistra è un’altra cosa. Grazie. Ma la sinistra forse ha qualche idea o qualche leader da mettere a disposizione del paese? Vogliamo fare un governo Speranza, un governo Zingaretti, un governo Acerbo? Siamo seri. La sinistra deve rimboccarsi le maniche e provare a rinascere. Pagando pegno per l’orrore che ha fatto mettendosi al servizio di una forza reazionaria come i 5 Stelle. Ci vorrà del tempo. E la destra? Uguale. Quando Salvini ha provato a governare ha solo combinato pasticci. Ha dimostrato di non avere visione, progetti, senso dello Stato. Di essere prigioniero della sua propaganda. Noi ora usciamo da un triennio nel quale ha governato, in modo uniforme, un gruppo di dilettanti su posizioni neo-autoritarie. In questo, tra Salvini e Conte non c’è stato un abisso. Si son dimostrati simili. Draghi si propone come governo neutro. Dico meglio: di coalizione. Nel senso vero della parola coalizione. Coalizione tra diversi. Ci sono pochi esempi nel passato. Forse l’unico esempio possibile è il governo Andreotti del 1978. Sostenuto dai comunisti. Sotto il tiro e il fuoco delle brigate rosse. Sfregiato dal rapimento Moro. Con l’inflazione che galoppava e l’America che ci odiava. Anche la Russia. Durò un po’ più di un anno. Fece la riforma sanitaria (primo nel mondo ad assicurare la sanità a tutti), la riforma psichiatrica (la più grande legge di rottura dell’autoritarismo, con un valore culturale immenso), introdusse l’aborto, riformò i patti agrari e lo stato di famiglia, istitutì l’equo canone, portò Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Vi pare poco? È stato forse (senza forse) il governo più riformista della storia della Repubblica. Se Draghi facesse anche solo la metà di quel che fece quell’anno Andreotti…

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 31 marzo 2021. Le vie del deserto sembrano particolarmente trafficate. Specialmente quelle che conducono sotto la tenda del principe Mohammed bin Salman, l'uomo forte dell'Arabia saudita - e mandante diretto, secondo la stessa Cia, dell'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Sono soprattutto gli ex primi ministri europei che non sembrano avere particolari esitazioni a stringere la mano insanguinata di MBS (sigla con cui è conosciuto il principe). Del nostro Matteo Renzi sapevamo già, così come delle sue lodi al «rinascimento saudita» (per maggiori informazioni, chiedere alla vedova Khashoggi); ma adesso si scopre che a godere dell'ospitalità di Bin Salman, addirittura in campeggio fra le dune, è stato pure l'ex premier britannico David Cameron, volato lì in qualità di lobbista della Greensill Capital, la discussa società finanziaria di cui era diventato consulente dopo aver lasciato Downing Street. Il viaggio, ha raccontato il Financial Times , sarebbe avvenuto all'inzio del 2020, subito prima dello scoppio della pandemia. Ma Cameron era andato a Riad già nell'ottobre del 2019, per partecipare alla cosiddetta «Davos del deserto»: una visita che era avvenuta un anno dopo l'omicidio Khashoggi e che già Amnesty International aveva criticato perché poteva «essere interpretata come una dimostrazione di supporto per il regime saudita» nonostante «gli spaventosi precedenti in tema di diritti umani». Considerazioni che evidentemente non hanno impedito a Cameron (e dopo di lui a Renzi) di fraternizzare col despota mediorientale. D'altra parte, gli ex premier sono di bocca buona: il loro modello sembra essere Tony Blair, che dopo aver lasciato la politica attiva ha fatto da consulente ai peggiori regimi, da quello egiziano di Al-Sisi a quelli dei satrapi centro-asiatici. Ma come si sa, pecunia non olet : e Cameron dall'attività di lobbista per la Greensill Capital, esercitata tanto con i sauditi che col governo di Londra, si apprestava a incassare 60 milioni di sterline. La finanziaria però è crollata per le sue dubbie pratiche d'affari e ora a Londra si reclama a gran voce che Cameron risponda a parecchie domande.

 “Renzi in Arabia? I parlamentari non prendano soldi dai governi stranieri”. Calenda: "Metà del mondo non è democratico e bisogna averci a che fare, ma attraverso le relazioni diplomatiche, non incassando soldi personalmente mentre si è pagati dai cittadini italiani. Questo è il punto". Il Dubbio martedì 2 marzo 2021. “Invece di continuare questa discussione all’infinito sarebbe meglio varare una norma che vieti ad un rappresentante in carica di percepire soldi direttamente o indirettamente da un governo straniero”. Lo dice Carlo Calenda, leader di Azione ed europarlamentare, intervistato dal Corriere della Sera, sulla partecipazione di Matteo Renzi alla "Davos nel deserto" a Riad. Renzi è membro del board del Future investment initiative voluta da Mohammed bin Salman, da cui riceverebbe un compenso annuo di 80 mila euro. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha indicato nel principe ereditario dell’Arabia Saudita il mandante del rapimento e dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Renzi ha definito l’Arabia un “baluardo contro l’estremismo islamico, uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni”. “Difendersi menzionando i rapporti tra governi vuol dire buttare la palla fuori campo – sostiene Calenda -. Metà del mondo non è democratico e bisogna averci a che fare, ma attraverso le relazioni diplomatiche, non incassando soldi personalmente mentre si è pagati dai cittadini italiani. Questo è il punto”.

"Rinascimento arabo tema interessante". Renzi, Bin Salman e l’omicidio Khashoggi: “Che sia il mandate lo dite voi, mai preso 80mila dollari”. Redazione su Il Riformista il 24 Marzo 2021. “Non ho mai preso 80mila dollari per quell’intervista, è un’affermazione falsa”. E poi “Mohammad Bin Salman? È un mio amico e che sia il mandante dell’omicidio Kashoggi lo dite voi. L’amministrazione Biden non ha sanzionato Bin Salman”. Queste le parole di Matteo Renzi sui rapporti con l’Arabia Saudita e con il principe Bin Salman, quest’ultimo accusato lo scorso febbraio dalla Cia, l’intelligence americana, di essere stato il mandate dell’operazione di “cattura o uccidi” del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, morto ammazzato nell’ottobre del 2018 in seguito all’ingresso nell’ambasciata saudita a Istanbul. “Non c’è alcun conflitto d’interesse. L’unico interesse in conflitto di qualcuno che vorrebbe io smettessi di parlare dell’Italia…” ha aggiunto Renzi rispondendo alle critiche ricevute per la sua visita in Arabia Saudita avvenuta a gennaio scorso. “L’attività parlamentare è compatibile con quella di uno che va a fare iniziative all’estero, su questi temi è tutto perfettamente in regola e legittimo” precisa il leader di Italia Viva ribadendo di non aver “preso 80mila dollari per quell’intervista, è un’affermazione falsa”. Quanto all’affermazione sul Rinascimento arabo, “la ridirei. Sono molto convinto che la questione sul nuovo rinascimento arabo sia un tema molto interessante” sottolinea Renzi. Sull’omicidio Khashoggi “c’è una piena ed evidente condanna, nel 2018, nel 2019 e nel 2021” ma “non ci sono certezze sul fatto che” il principe Bin Salman “sia stato il mandante dell’omicidio Kashoggi”.

Renzi: "Bin Salman è mio amico. E neanche gli Usa hanno certezze sul mandante dell'omicidio di Kashoggi". La Repubblica il 24 marzo 2021. Il leader di Italia viva interviene di nuovo sui suoi rapporti con l'Arabia Saudita: "Non c'è alcun conflitto di interessi, non ho preso 80mila dollari per quella intervista. E da parte mia c'è una condanna piena dell'uccisione del giornalista saudita". Attacca il M5S: "Sconcertante che continui i suoi viaggi di affari". Matteo Renzi torna a parlare dei suoi rapporti con l'Arabia Saudita: "Non c'è alcun conflitto d'interesse. L'unico interesse in conflitto è di qualcuno che vorrebbe io smettessi di parlare dell'Italia... L'attività parlamentare è compatibile con quella di uno che va a fare iniziative all'estero, su questi temi è tutto perfettamente in regola e legittimo". Mohammad Bin Salman? "È un mio amico, lo conosco da anni. E non c'è nessuna certezza che sia il mandante dell'omicidio Kashoggi. Sul quale peraltro da parte mia c'è una condanna piena evidente. Se voi - ha detto rivolgendosi ai giornalisti - avete certezze sul mandante non è così per l'amministrazione Biden. E io mi fido più di quest'ultima". Gli risponde il vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano: "No, Matteo Renzi. Lo dicono Biden e il Dipartimento di Stato Americano. Ma d'altronde uno gli amici se li sceglie". Ancora. "Io non ho preso 80mila dollari per quell'intervista, è un'affermazione falsa", dice il leader di Italia viva ai cronisti sull'intervista a Bin Salman. Quanto all'affermazione sul Rinascimento arabo, "la ridirei. Sono molto convinto che la questione sul nuovo rinascimento arabo sia un tema molto interessante". E le polemiche non si placano. Il M5S attacca Renzi: "Ha causato una crisi di governo in piena crisi pandemica e adesso va in giro per il mondo stringendo relazioni che intrecciano il suo ruolo da senatore a interessi privati: dall'Arabia Saudita all'Africa, troviamo sconcertante che Matteo Renzi continui imperterrito i suoi viaggi di affari. Per questo invochiamo che il Parlamento approvi quanto prima una seria e severa legge in materia di conflitto d'interessi. Non sono più tollerabili atteggiamenti simili da parte della classe istituzionale del Paese - dichiarano i deputati e le deputate del MoVimento 5 Stelle in commissione Esteri - Oggi Renzi si nasconde dietro un dito perché difende il suo rapporto privilegiato con Bin Salman spiegando come il principe saudita non sia stato sanzionato dall'amministrazione Biden. Significa quindi che rifarebbe quella conferenza? Non gli interessa il fatto che bin Salman sarebbe il mandante dell'omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi? E ancora: quando si dimette da membro del board saudita per incompatibilità con carica da senatore italiano?. Non ci bastano le autointerviste: siamo qui per pretendere che Renzi chiarisca la natura dei suoi viaggi, in Arabia come in Africa, che risponda alle domande in nome della trasparenza e che, soprattutto, chieda scusa agli italiani. Su questo non arretreremo, vogliamo fare luce" concludono.

Bugie renziane su Bin Salman. Gian Micalessin - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. Un bel tacer non fu mai scritto. Il primo a saperlo dovrebbe essere Matteo Renzi. Anche perché da un ex premier convinto di poter ancora aspirare alla poltrona di ministro degli Esteri o, peggio, di Segretario generale della Nato è doveroso aspettarsi affermazioni comprovate e verificate. Soprattutto se, per giustificare se stesso, tira in ballo il presidente degli Stati Uniti. Invece l'ex segretario del Pd - accusato di relazioni assai pericolose con il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman - non solo si definisce «amico» del temuto sovrano, ma cita a sproposito Joe Biden pur di scagionarlo dall'accusa di mandante dell'eliminazione di Jamal Kashoggi, il dissidente strangolato e fatto a pezzi nel consolato di Riad a Istanbul. All'origine di tutto c'è sempre la polemica montata a fine gennaio quando - nel bel mezzo di una crisi di governo da lui stesso innescata - il buon Matteo volò a Riad per intavolare una farsesca intervista al «grande» (parole sue) principe in cui sproloquiava di un improbabile rinascimento saudita. Lo sproloquio di allora è poca cosa rispetto a quello esibito ieri quando Renzi - bloccato all'uscita del Senato da alcuni giornalisti - ha dovuto fornire alcune precisazioni sull'argomento. Precisazioni nel corso delle quali - oltre a smentire di aver incassato un compenso da 80mila dollari - liquida come assolutamente infondate le accuse al principe. «È un mio amico - dice Renzi - lo conosco da anni. E non c'è nessuna certezza che sia il mandante dell'omicidio Kashoggi... Se voi - aggiunge - avete certezze sul mandante non è così per l'amministrazione Biden. E io mi fido più di quest'ultima». Ma qui casca l'asino. Il 28 febbraio scorso infatti la signora Avril Haines, coordinatrice e direttrice per conto della Casa Bianca delle 18 agenzie d'intelligence statunitensi, ha formalmente accusato il principe saudita presentando un documento di quattro pagine che conferma la posizione dell'amministrazione Usa. «Riteniamo - ha detto quel giorno la Haines - che il principe ereditario dell'Arabia Saudita Mohammed bin Salman abbia approvato un'operazione a Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi». Il rapporto, dopo aver ricordato il clima d'autentico terrore imposto ai propri subalterni da Bin Salman, cita i nomi delle 21 persone coinvolte nell'assassinio e spiega che nessuno di loro avrebbe potuto «decidere un'operazione così delicata senza il suo consenso». Dati di fatto e dichiarazioni su cui Renzi allegramente sorvola nella certezza di potersela cavare con una facile battuta. Una leggerezza non diversa da quella esibita quando, pur d'appagare l'«amico» principe, evocò il fantomatico «rinascimento» di un regno dove terrore e repressione sono di casa. Un regno dove il 23 aprile 2019 il «grande» principe Bin Salman fece rotolare, in un solo giorno, le teste di 37 oppositori costretti a confessare, sotto tortura, la partecipazione ad atti di terrorismo. Un regno dove si contano una media di 150 decapitazioni all'anno e dove all'ascia del boia può venir preferita la lapidazione. O, persino, una crocifissione con taglio di testa finale.

Bin Salman e l'omicidio Khashoggi, Renzi risponde alle nostre domande. Le Iene News il 26 marzo 2021. Nelle scorse settimane con Roberta Rei vi abbiamo raccontato delle polemiche che hanno coinvolto Matteo Renzi: nel corso di un’intervista il senatore ha definito il principe saudita Mohammad Bin Salman “my friend”. Bin Salman è considerato dalla Cia e dell’Onu il mandante dell’omicidio Khashoggi. Dopo molti tentativi, Renzi ha risposto alle nostre domande: ecco cosa ci ha detto.

Nelle ultime settimane con Roberta Rei abbiamo provato in tutti i modi a fare qualche domanda a Matteo Renzi. La visita del leader di Italia viva e senatore Matteo Renzi in Arabia Saudita ha generato polemiche politiche: l’ex premier si è recato a Riyadh per intervistare il principe dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman. Le sue dichiarazioni sul “nuovo Rinascimento” hanno fatto discutere, così come il compenso che l’ex premier riceve da una fondazione saudita riconducibile a bin Salman.

Ma il vero motivo per cui l’intervista ha fatto scalpore è proprio il principe Mohammad bin Salman, che Renzi chiama “my friend”. Bin Salman è accusato dalla Cia di essere il mandate del terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, fatto letteralmente a pezzi all’interno del consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018. La nostra Roberta Rei ha provato a chiedergli se Renzi condanna non solo l’omicidio - cosa che ha già fatto in passato - ma anche colui che viene indicato come il mandante dalla Cia e dalle Nazioni Unite. La Iena ha anche parlato con Hatice, la vedova di Jamal Khashoggi, che ha una domanda per il senatore: “Davvero è più felice per questo lavoro, che da più importanza ai suoi interessi che alla libertà e ai diritti umani?”

Dopo molti tentativi, finalmente siamo riusciti a parlare con Matteo Renzi: “Non metto i miei interessi personali davanti ai diritti umani”, ha detto il senatore. “E’ una frase ingiusta, però detta da una donna che ha sofferto molto e a cui va il nostro rispetto”. 

Sull’omicidio, Renzi ci ha detto: “E’ una vicenda molto triste, che io ho già condannato negli anni scorsi”. E condanna anche il mandante? “Le decisioni su quello che è accaduto saranno prese dalle autorità competenti. Noi rispetteremo questo”.

Gli Stati Uniti guidati da Joe Biden hanno emesso il cosiddetto “Khashoggi ban”, un provvedimento che colpisce chi perseguita i dissidenti politici. L’amministrazione ha già individuato 76 persone che potrebbero essere sanzionate: “Tra questi non c’è il Principe bin Salman”, aggiunge Matteo Renzi. E’ giusto condannare l’omicidio, anzi è il minimo, gli esecutori e i mandanti saranno individuati dalle autorità che non sono io”.

Sul tema del presunto conflitto d’interesse per i suoi viaggi all’estero, Matteo Renzi ci dice: “L’attività da parlamentare è compatibile con l’andare a fare iniziative da ex presidente del Consiglio, da cittadino o da senatore, all’estero. Non vi è alcun conflitto d’interesse. Il conflitto d’interesse c’è quando tu metti al centro della tua attività qualcosa che non corrisponde all’interesse nazionale”. 

Sulla definizione di “my friend” per il Principe bin Salman, Matteo Renzi ci dice: “Io chiamo "my friend" una persona che conosco da anni, che è un mio amico”. Ma cosa ha provato quando ha sentito che potrebbe essere il mandante dell’omicidio Khashoggi? “C’è una piena ed evidente condanna dell’omicidio. Il mandante lei ha le certezze su chi è stato, come e quando, le faccio i complimenti. Non è così per l’amministrazione americana”. Alla fine dell’intervista Renzi riassume così la sua posizione: “Non sono in alcun conflitto d’interessi, sono convinto che il tema del "Rinascimento arabo" sia un tema molto interessante”. Dopo un lungo confronto in cui abbiamo capito che Renzi non rinnega nulla, Roberta Rei chiede al senatore un messaggio per la vedova di Jamal Khashoggi. “Ho già risposto tutto il tempo, dai”, replica lui. Per evitare nuove polemiche su presunti conflitti d’interessi di senatori che fanno anche altri lavori, approfittiamo di uno spunto: “Ove ci fosse una disciplina che impedisse ai parlamentari di fare altro, io ovviamente ne trarrei le conseguenze”, ha detto Matteo Renzi. “Finché la disciplina permette di far quello che noi stiamo facendo, io continuo a farlo”. E allora ci rivolgiamo direttamente al parlamento: perché non facciamo una legge sul conflitto d’interessi, che vieti a un parlamentare pagato dai cittadini di ricevere soldi da governi o fondazioni straniere?

"Contro di me odio e vendetta dei pm rossi orfani di Conte". Premessa: senatore Matteo Renzi, lei parla di vaccini, di giustizia, o d'altro, per non rispondere alle critiche per i suoi rapporti con l'Arabia Saudita? Augusto Minzolini - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale.

Premessa: senatore Matteo Renzi, lei parla di vaccini, di giustizia, o d'altro, per non rispondere alle critiche per i suoi rapporti con l'Arabia Saudita?

«È vero il contrario. Stanno strumentalizzando la tragedia di Kashoggi perché non hanno altro a cui aggrapparsi in Italia. Nel merito ho risposto su tutti i giornali, dal Financial Times a Le Monde: ciò che faccio può essere discusso da chiunque, ma è perfettamente lecito, pubblico e legittimo. La questione saudita è stata posta da quel noto statista di Di Battista, uno che apprezzava Maduro e definiva Obama golpista e non capisce che l'Arabia è il baluardo contro il fondamentalismo. E ovviamente dai più rancorosi del Pd. Credo di essere la loro ossessione. Se parlassero un po' più di idee e un po' meno di me, ci guadagnerebbero almeno in salute».

Il più duro, però, è stato uno degli esponenti di primo piano di Magistratura Democratica, Nello Rossi. È arrivato a dire che bisognerebbe «stringere un cordone sanitario» intorno a Matteo Renzi...

«Nello Rossi è uno degli esponenti più in vista di Magistratura democratica. Si può dire che ne è stato l'ideologo. Un personaggio che ha un lungo passato come magistrato. Ascoltatissimo ed influente non solo nella sua corrente. Non so, andrebbe approfondito, se nella sua carriera è mai venuto in contatto con il cosiddetto sistema Palamara, quello raccontato nel libro scritto con Sallusti. Ebbene, l'uso dell'espressione cordone sanitario nei confronti di una persona che ha un ruolo nelle istituzioni parlamentari, che ricopre una carica importante in un partito della maggioranza di governo e che in passato è stato anche presidente del Consiglio, lo trovo a dir poco allucinante. Resto allibito ma non sorpreso, perché avverto un clima di odio e di rabbia che cova in una parte dell'establishment di questo Paese rimasto legato agli equilibri del governo passato che non si dà per vinto...».

Dai veleni alle querele. Il caso Arabia Saudita scuote la maggioranza. Pd e grillini contro l'alleato Renzi per i rapporti con Riad. E lui denuncia Travaglio. Paolo Bracalini - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Con una maggioranza che va dal Pd alla Lega, passando per Forza Italia e Cinque stelle, il tasso potenziale di litigiosità è enorme. Le tensioni non sono ancora esplose in modo fragoroso ma agitano le acque fin dal primo giorno di insediamento di Draghi e si stanno facendo sentire in particolare sull'asse M5s-Iv-Pd. La presenza di Renzi, il disgregatore della precedente maggioranza di Conte, è un forte elemento perturbatore, soprattutto per i Cinque stelle alle prese con la scissione della corrente di Di Battista, ma con scosse anche dentro il Pd. Il punto è ancora il rapporto tra il leader di Italia Viva e l'Arabia Saudita, visto che Renzi svolge un incarico (retribuito) di conferenziere e membro dell'advisory board del FII Institute, un organismo controllato dal fondo sovrano saudita Saudi public investment Fund (Pif) presieduto dal principe Mohammad bin Salman. La vicenda è riesplosa dopo il rapporto della Cia che accusa espressamente il principe ereditario bin Salman per l'omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi. La nuova autodifesa di Renzi («L'Arabia Saudita è un baluardo contro l'estremismo islamico ed è uno dei principali alleati dell'Occidente da decenni») ha scatenato le critiche degli alleati, dal Pd («È irresponsabile dal punto di vista morale e istituzionale ricevere un compenso economico da una dittatura straniera mentre si svolgono le funzioni di Senatore» attacca Andrea Romano) e dai Cinque stelle che definiscono «una farsa» la spiegazione di Renzi e chiedono che «convochi formalmente una conferenza stampa per rispondere alle domande dei giornalisti, piuttosto che fare comodi monologhi» scrivono i deputati M5s della commissione Esteri. L'ex M5s Alessandro Di Battista chiede le dimissioni del leader Iv dalle colonne del Fatto, quotidiano vicino alla galassia grillina che titola: «Renzi d'Arabia si tiene i soldi insanguinati». Articoli che fanno partire l'ennesima querela del senatore di Rignano, che pubblica una foto con tenuta e casco da bici accompagnata dal commento: «Oggi è una giornata bellissima, con un sole che scalda il cuore. Non è il giorno giusto per fare polemica o per arrabbiarsi. È sempre il giorno giusto, invece, per citare in giudizio Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano vista l'ennesima aggressione di questa mattina. Non c'è da arrabbiarsi. Solo prendere nota, denunciare e aspettare le sentenze. Il tempo è galantuomo». La convivenza tra Renzi e grillini insieme nel governo Draghi si annuncia movimentata. Ma non c'è solo quello a far traballare la maggioranza, anche il passaggio di due big del Pd come Pier Carlo Padoan e Marco Minniti dalla politica rispettivamente a Unicredit e Leonardo-Finmeccanica, alimenta le polemiche sulle porte girevoli tra politica e interessi privati. Anche qui ad alimentarle è Di Battista, tornato alla carica come disturbatore dell'asse tra grillini e Pd, un nervo scoperto del Movimento sopratutto ora che i vertici intendono consegnare il M5s a Conte proprio con l'obiettivo di saldare l'alleanza a sinistra anche alle prossime scadenze elettorali. Un abbraccio con il «partito di Bibbiano» che è indigesto per molti elettori grillini, e sui cui soffia Dibba: «Due ex ministri del governo Gentiloni, prima Padoan e ora Minniti, sono passati dall'essere deputati a incarichi per imprese attive nei settori di cui si occupavano da ministri. È tutto a norma di legge, ma in un Paese normale non dovrebbe accadere».

Da ansa.it il 28 febbraio 2021. "Ricevo molti attacchi da PD, Leu e soprattutto Cinque Stelle che, strumentalizzando una tragedia come quella dell'uccisione del giornalista saudita Khashoggi, mi invitano a chiarire rispetto alla mia partecipazione all'evento 'Neo-Renaissance' di Riyad". Lo scrive Matteo Renzi sua enews, rispondendo alle polemiche. A chi gli chiede se svolga "attività stile conferenze o partecipazione ad advisory board o attività culturali o incarichi di docente presso università fuori dall'Italia", Renzi risponde che "sì" lo fa, che "sono previste dalla legge" e che riceve "un compenso sul quale pago le tasse in Italia. La mia dichiarazione dei redditi è pubblica. Tutto è perfettamente legale e legittimo", spiega. Poi, parlando del programma Vision2030, Renzi spiega che "rispettare i diritti umani è una esigenza che va sostenuta in Arabia Saudita come in Cina, come in Russia, come in tutto il Medio Oriente, come in Turchia. Ma chi conosce il punto dal quale il regime saudita partiva sa benissimo che Vision 2030 è la più importante occasione per sviluppare innovazione e per allargare i diritti". Riguardo la vicenda Khashoggi,  afferma ancora, "ho condannato già tre anni fa quel tragico evento -e l'ho fatto anche nelle interviste" e "su tutti i giornali del mondo. Difendere i giornalisti in pericolo di vita è un dovere per tutti. Io l'ho fatto sempre, anche quando sono rimasto solo, come nel Consiglio Europeo del 2015, per i giornalisti turchi arrestati. Difendere la libertà dei giornalisti è un dovere, ovunque, dall'Arabia Saudita all'Iran, dalla Russia alla Turchia, dal Venezuela a Cuba, alla Cina". "Sì. Non solo è giusto, ma è anche necessario. L'Arabia Saudita è un baluardo contro l'estremismo islamico ed è uno dei principali alleati dell'Occidente da decenni. Anche in queste ore - segnate dalla dura polemica sulla vicenda Khashoggi - il Presidente Biden ha riaffermato la necessità di questa amicizia in una telefonata al Re Salman. Ma Biden ha chiesto giustamente di fare di più. Soprattutto sulla questione del rispetto dei giornalisti", ha aggiunto Renzi.

Perché Md si occupa delle visite a Riad se non c’è nulla di illecito? Non solo M5S, Pd e Leu. Anche Magistratura democratica punta il dito contro Matteo Renzi per le conferenze saudite. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 2 marzo 2021. Non solo M5S, Pd e Leu. Anche i magistrati puntano il dito contro Matteo Renzi per le conferenze saudite. O meglio, una parte della magistratura organizzata, Md (la corrente di sinistra delle toghe) che sulla sua rivista on line Questione giustizia ospita un articolo dal titolo più che eloquente: «Legittimare un despota? E per un piatto di lenticchie?». A firmarlo è il direttore Nello Rossi, già avvocato generale presso la Corte di cassazione ed ex membro del Csm. «Se l’Italia vuole conservare un accettabile grado di credibilità nel contesto internazionale, deve stringere un cordone sanitario intorno a sortite come quella ‘ araba’ di Matteo Renzi, ricordandogli che essere stato presidente del Consiglio comporta oneri anche quando si è cessati dalla carica e che essere parlamentari di una Repubblica democratica non è compatibile eticamente e politicamente – con l’adulazione dei despoti», scrive il magistrato in quiescenza. Ma è proprio questo il punto: perché un magistrato, seppur in pensione, si occupa di politica e di etica sulla rivista di una corrente dell’Anm? Cosa sarebbe accaduto a parti invertite, se cioè fosse stato un politico, seppur non più in attività, ad attaccare un magistrato nel pieno delle sue funzioni? Il problema non riguarda il punto di vista di Nello Rossi, che può essere condivisibile o meno, ma l’opportunità delle parole pronunciate da chi non dovrebbe curarsi di questioni attinenti alla giustizia. Altrimenti i campi si mescolano fino a diventare indistinti e un potere costituzionalmente riconosciuto rischia di prevaricare su un altro. E come nel caso di Renzi a Riad: anche per Nello Rossi nulla di illecito, tanto di sconveniente.

Raphael Zanotti per "La Stampa" il 3 marzo 2021. Quando parliamo delle armi che l' Italia ha venduto all' Arabia Saudita durante il governo Renzi riportiamo cifre, citiamo report, mostriamo grafici. Ma la morte non è mai una somma aritmetica. Alle 3 del mattino dell' 8 ottobre 2016 la famiglia Al Ahdal stava dormendo nella sua abitazione a Deir Al-Hajari, piccola cittadina nello Yemen nord occidentale, quando una bomba sganciata da un caccia dell' aviazione saudita ha raso al suolo la loro casa. Husni, sua moglie Qaboul - incinta al quinto mese - e i figli Taqia, Fatima, Sarah e Mohammed sono morti nel sonno, dilaniati da un ordigno venduto all' Arabia Saudita. Tra i calcinacci e i giochi dei bambini sono stati trovati i resti di una bomba MK80. Il sistema di guida intelligente non ha saputo distinguere la casa degli Al Ahdal dal checkpoint militare che distava 300 metri dalla loro camera da letto. Un anello di sospensione, componente bellico necessario per caricare la bomba sull' aereo, riportava la sigla della Rwm Italia, la ditta autorizzata dal nostro governo a vendere a Riad ventimila bombe al prezzo di 411 milioni di euro. Da pochi giorni, per quelle morti, sono indagati i vertici della Rwm Italia e dell' Uama, l' autorità italiana che concede le autorizzazioni all' export di armamenti. È la prima volta che accade. Tanto che l' Italia è diventata un caso internazionale. L'indagine è condotta dalla procura di Roma ed è stata avviata grazie all' enorme lavoro di denuncia portato avanti da tre organizzazioni: la Rete italiana Pace e Disarmo, il centro europeo per i diritti costituzionali e umani Ecchr di Berlino e la Ong yemenita Mwatana che nell' aprile del 2018 avevano presentato un esposto lamentando la violazione delle norme italiane e internazionali nella vendita di armi ai sauditi. Inizialmente la procura aveva chiesto l' archiviazione nonostante avesse accertato che l' anello di sospensione era stato esportato nel novembre 2015. Il gip di Roma, tuttavia, ha rigettato l' archiviazione e ha disposto altri sei mesi di indagine per accertare le eventuali responsabilità italiane e della Rwm. L' Uama poteva non sapere che uso avrebbe fatto l' Arabia Saudita delle armi che le venivano vendute? Come mai i funzionari italiani non hanno tenuto in considerazione i rapporti sulla guerra in Yemen, che già all' epoca segnalavano la possibile commissione di crimini di guerra da parte della coalizione saudita? C' è un passaggio fondamentale nell' ordinanza del giudice di Roma, che forse spiega più di mille parole come si è giunti a questo punto. L' Uama, nel 2016, ha autorizzato la più grande commessa di bombe che il nostro Paese abbia mai avuto, sostenendo che si trattava di un' operazione «in linea con la legislazione nazionale e internazionale, in grado di generare un positivo indotto sul piano economico e sociale per l' Italia». Scrive il giudice: «Il pur doveroso, imprescindibile impegno dello Stato per salvaguardare i livelli occupazionali non può, nemmeno in astratto, giustificare una consapevole, deliberata violazione di norme che vietino l' esportazione di armi verso Paesi responsabili di gravi crimini di guerra e contro le popolazioni civili». È l' annientamento di uno dei meccanismi più perversi dell' industria bellica in generale: il mantenimento dei posti di lavoro o il doveroso sviluppo di un settore industriale strategico da parte di uno Stato non può in alcun modo giustificare la violazione dei diritti umani. L'indagine riguarda la Rwm e l' Uama, ma non possiamo chiudere gli occhi. Se tra il 2014 e il 2016, durante il governo Renzi, l'export delle armi italiane è sestuplicato, questo non può dipendere da funzionari o dalle abilità produttive di un attore privato. L'industria bellica non può prescindere dalle indicazioni in politica estera provenienti dal governo. E di tutto questo, forse, un giorno, dovremo rispondere alla famiglia Al Ahdal.

Ora si indaga sulle armi italiane vendute all’Arabia Saudita. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 4 marzo 2021. Il boom di armi italiane vendute ai sauditi durante il governo Renzi diventa un caso internazionale oltre che giudiziario. Come riporta La Stampa, infatti, risultato indagati i vertici della Rwm Italia, ditta autorizzata dal nostro governo a vendere a Riad 20mila bombe al prezzo di 411 milioni di euro, e dell’Uama, l’autorità italiana che concede le autorizzazioni all’export di armamenti. L’indagine, condotta dalla procura di Roma, è stata avviata grazie all’esposto presentato nell’aprile 2018 dalla Rete italiana pace e disarmo, dal centro europeo per i diritti costituzionali e umani Ecchr di Berlino e dalla Ong yemenita Mwatana: anche se in un primo momento la procura aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine, il gip l’ha rigettata e ha disposto altri sei mesi di indagine per accertare le eventuali responsabilità italiane e della Rwm. In particolare, va fatta chiarezza sull’attacco a Deir al-Hajari, nel nord-ovest dello Yemen, nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 2016. Lo si deve, fra gli altri, alla famiglia al-Ahdal, sterminata da un bombardamento della coalizione militare guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Come denuncia la Rete italiane Pace e Disarmo in un post pubblicato lo scorso 27 ottobre sul sito dell’organizzazione, “esistono ampie e affidabili prove che nella guerra nello Yemen vengano utilizzati equipaggiamenti militari prodotti in Italia, come gli aerei da combattimento Eurofighter Typhoon e Tornado (prodotti congiuntamente dal Consorzio Eurofighter, di cui Leonardo S.p.A. è uno degli azionisti) e le bombe della serie MK 80 (prodotte in particolare da RWM Italia S.p.A.), i cui resti sono stati trovati sul luogo di potenziali crimini di guerra in Yemen. Questo materiale viene esportato in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait”.

L’export di armi italiane verso Riad diventa un caso. In questo contesto, scrive sempre l’organizzazione che si batte contro l’esportazione delle armi italiane verso i Paesi del Golfo, l’11 dicembre 2019 è stata depositata una Comunicazione alla Corte Penale Internazionale da parte di ECCHR, Mwatana for Human Rights e delle loro organizzazioni partner, tra cui la Rete Italiana per il Disarmo (ora Rete Italiana Pace e Disarmo). La Comunicazione “sollevava la questione della responsabilità delle aziende italiane ed europee produttrici di armi, nonché delle autorità nazionali che rilasciano licenze di esportazione, nel conflitto yemenita. Queste organizzazioni della società civile internazionale chiedono un’indagine sulla presunta complicità dei dirigenti delle aziende in 26 attacchi aerei che hanno ucciso o ferito illegalmente civili e distrutto o danneggiato scuole, ospedali e altri luoghi protetti”.

“Gravi violazioni di diritti umani”. Infatti, in risposta alle gravi violazioni dei diritti umani commesse nello Yemen, nel luglio 2019 il Governo italiano ha sospeso fino a gennaio 2021 tutte le licenze per bombe aeree, missili e loro componenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Ma nonostante lo stop, denunciava in un altro post datato maggio 2020 l’organizzazione umanitaria, nei mesi scorsi “sono state rilasciate nuove autorizzazioni per quasi 200 milioni di euro e le consegne definitive certificate dalle Dogane hanno raggiunto i 190 milioni di euro” verso il regno saudita e gli Emirati (Guarda il reportage di InsideOver dallo Yemen). Le gravi violazioni commesse dalla coalizione a guida saudita in Yemen sono state denunciate da numerose organizzazioni internazionali. Nel 2019, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha presentato un rapporto a Ginevra mettendo in evidenza la possibilità che in Yemen si siano perpetrati “una serie di crimini di guerra”. Secondo le indagini condotte dal gruppo di esperti dell’Onu, le violazioni comprendono crimini commessi attraverso gli attacchi aerei, bombardamenti indiscriminati, uccisioni e detenzioni arbitrarie, torture e violenza sessuale. Secondo Amnesty International, dal 2015 in poi, la coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che appoggia il governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, continua a bombardare infrastrutture civili e a compiere attacchi indiscriminati, che uccidono e feriscono centinaia di civili. Inoltre, tutte le parti in conflitto hanno soppresso la libertà d’espressione ricorrendo a detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture. La stessa Ong aveva avviato una campagna per chiedere di interrompere l’export di armi verso l’Arabia Saudita.

Boom di export di armi durante il governo Renzi. Come già evidenziato da InsideOver, durante il governo Renzi (22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016) l’export di armi è schizzato alle stelle, grazie proprio alle generose commesse arrivate dall’Arabia Saudita. Nel 2013, prima dell’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi, il nostro Paese aveva autorizzato l’esportazione di armi per un valore di 2,1 miliardi di euro. Nulla in confronto al periodo nel quale Renzi era in carica, dove l’export è cresciuto del 581%, toccando i 14,6 miliardi di euro, come documentato da Giorgio Beretta del’Opal di Brescia, l’osservatorio permanente sulle armi leggere. Con Renzi al governo, secondo La Stampa, Riad ha ottenuto l’autorizzazione a ricevere oltre 855 milioni di euro in armamenti contro i poco più di 170 milioni del triennio successivo.

Alessandro Di Matteo per “La Stampa” il 28 febbraio 2021. In gergo militare si parlerebbe di "danni collaterali", addirittura di "fuoco amico". Il rapporto della Cia - diffuso dall'amministrazione Biden per lanciare una serie di messaggi ai principali protagonisti dello scacchiere medio-orientale - finisce per trascinare, di nuovo, nella bufera Matteo Renzi, che pure vanta buoni rapporti con il neo-presidente Usa e con il suo principale sostenitore, Barack Obama. Ad attaccare è Sinistra italiana, ma anche M5S e lo stesso Pd, cioè gli ex alleati del Conte bis. Il problema, per il leader di Iv, è che quelle quattro pagine della Cia chiamano in causa direttamente il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, per il brutale omicidio del giornalista Jamal Kashoggi. Proprio quel Bin Salman pubblicamente omaggiato da Renzi durante una conferenza a Ryad a fine gennaio, quando definì l'Arabia il teatro di un possibile «nuovo rinascimento». Evento per il quale il leader Iv ha anche percepito un compenso di decine di migliaia di euro come oratore. Tutto regolare, per l'ex premier. Ma non per i suoi ex compagni di coalizione. Ad affondare i colpi, stavolta, è anche il Pd. Gianni Cuperlo incalza: «Il senatore Renzi aveva annunciato che, una volta archiviata la crisi di governo, avrebbe offerto le motivazioni di quella sua iniziativa. È opportuno che lo faccia. Se possibile presto». Ma anche il vicecapogruppo alla Camera Michele Bordo: «Penso sia arrivato il momento che Renzi chiarisca fino in fondo la natura dei suoi rapporti con l'Arabia Saudita e con il principe ereditario». Addirittura, non esclude una «iniziativa parlamentare», anche se allo stato non è stata presa nessuna decisione al riguardo. Simili le parole di Maria Edera Spadoni, M5S: «Renzi deve chiarire la natura dei suoi rapporti col principe saudita Mohammed Bin Salman e quello con la fondazione Future investment iniziative». Ma, appunto, Renzi ritiene che non ci sia nulla da chiarire. Il leader di Iv replica attraverso la "enews", la sua newsletter settimanale. Per il leader di Italia viva «Pd, Leu e soprattutto Cinque Stelle stanno strumentalizzando una tragedia come quella dell'uccisione del giornalista saudita». La linea di difesa è la stessa usata un mese fa: a quell'evento in Arabia saudita, «la Davos del deserto», spiega, «partecipano regolarmente moltissimi leader della finanza e della politica provenienti da tutto il mondo». L'ex premier elenca tutte le interviste nelle quali, nell'ultimo mese, ha parlato della vicenda, quindi ripete che il compenso preso per la conferenza è «perfettamente legale e legittimo», mentre «il Pd sotto la mia gestione e Italia viva dalla sua nascita non hanno mai ricevuto denari da governi stranieri o strutture ad essi collegati». Renzi ricorda di avere «condannato già tre anni fa» l'omicidio di Kashoggi e ripete che mantenere rapporti con l'Arabia è «giusto e necessario», perché è un «baluardo contro l'estremismo islamico». Spiegazioni che non bastano ai suoi ex alleati. Bordo, al telefono, lo spiega chiaramente: «Deve chiarire meglio, non basta la "enews" settimanale. E non può essere lui a fare contemporaneamente le domande e le risposte».  Per l'esponente Pd non sono sufficienti nemmeno tutte le interviste citate da Renzi: «Quando le ha fatte non c'era ancora il rapporto della Cia. Oggi c'è un elemento di novità rispetto al quale un chiarimento è utile. Dice che i presidenti del consiglio vanno in Arabia? Ma lui non è presidente del consiglio, è un senatore che va a fare conferenze pagate 80mila euro». Solo accuse pretestuose, per Renzi: «Spiace solo che si utilizzi la vicenda saudita per coprire le difficoltà interne italiane e per giustificare un'alleanza dove - come spesso è accaduto a una certa sinistra - si sta insieme contro l'avversario e non per un'idea».

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 febbraio 2021. Caro Dago, pur dopo avere deciso di scriverlo sono molto a disagio per quello di cui ti sto scrivendo. Il fatto è che di politica estera ne so poco, forse pochissimo. Non sono mai stato in Arabia Saudita né ho letto particolarmente di quell’ambiente, di quel Paese, della personalità politica di Bin Salman, ossia di colui che guida e domina l’Arabia da molti anni e che probabilmente ha avuto una responsabilità diretta dell’avere i suoi sgherri maciullato il giornalista Jamal Kashoggi. Contemporaneamente a tutto questo, e del resto lo sai, io apprezzo molto Matteo Renzi, lo reputo uno che se ne mette in tasca dieci dei politici italiani del nostro tempo. L’ho fatta così lunga per dirti che ho letto con molto disagio il bell’articolo odierno sul ”Fatto” di Marco Lillo e gli altri articoli che su quel quotidiano gli stanno accanto. Lillo scrive che Renzi dovrebbe dimettersi da quel think tank di cui fa parte e per il quale riceve una paga annua. Ovvio che chiunque, da Obama a Tony Blair, può andare in giro per il mondo e fare tutte le chiacchiere che vuole ed esserne pagato. Ci mancherebbe altro. Però, ecco il punto, andare a dire nudo e crudo che il Paese di cui sei in quel momento un ospite pagato si trova in una fase “rinascimentale” della sua storia è un’affermazione troppo forte non dico per passare inosservata e bensì per essere dimenticata. No, quell’affermazione non va dimenticata. E’ troppo forte. Quando io l’ho ascoltata per la prima volta e ne sono allibito, ho pensato – ho sperato – che Renzi avesse delle informazioni di prima mano che escludessero la responsabilità del leader saudita nel martirio del giornalista, che lui volesse con quell’affermazione dare lustro al ruolo “riformista” di Bin Salman, un ruolo che sono in tanti a reputare tale. In politica è fondamentale “trattare”, trattare con chiunque, come svela benissimo la splendida serie “Occupied” attualmente su Netflix, quella in cui gli autori si immaginano che i russi semi-occupino la Norvegia e dunque che fare?, dato che affrontarli militarmente sarebbe un suicidio. In politica si tratta anche con il diavolo. Quando le forze alleate dovevano scegliere qualcuno del vertice politico/militare nazi con cui “trattare” la fine della guerra guerreggiata, scelsero Heinrich Himmler, il capo supremo tra quanti avevano portato a termine il massacro degli ebrei europei. Non c’è dubbio che vada preservato il ruolo dell’Arabia Saudita come Stato cuscinetto fra Israele e i Paesi che in quell’area le sono più drammaticamente avversi. Lo stesso Joe Biden non ha certo mandato dei marines a dare dei calci negli stinchi a Bin Salman, ha invece telefonato al padre. Ha fatto un distinguo intelligente e importante. Renzi ha sbagliato, ha sbagliato nettissimamente a usare quelle specifiche espressioni in quello specifico colloquio con quello specifico personaggio. Sbagliare è umano, in politica come negli altri campi. L’importante è non perseverare. Renzi deve prendere le distanze dal sé stesso di quel suo duetto di più e meglio di come abbia fatto finora. Molto di più e molto meglio. Glielo chiediamo noi che gli siamo amici e che lo stimiamo.

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 9 marzo 2021. Quando, ieri mattina, Matteo Renzi è atterrato all'aeroporto di Milano Malpensa, con un volo di linea Emirates proveniente da Dubai, non era solo. Con lui, su quell'aereo, ha viaggiato l'amico di una vita, l'uomo di cui è stato testimone di nozze, l'imprenditore Marco Carrai. Non era facile riconoscerlo, nascosto dietro la mascherina, mentre prendeva il bus interpista insieme al leader di Italia Viva. Ma lo hanno visto, era lui. Renzi e Carrai insieme a Dubai, quindi. Il motivo del loro viaggio non è chiaro, né sappiamo chi siano andati a incontrare. Certo è che entrambi, in questi anni, hanno sviluppato relazioni e interessi nella penisola araba. Per Carrai, uno su tutti: la Toscana Aeroporti, società di cui è presidente e che gestisce gli scali di Firenze e Pisa, ha come azionista di maggioranza la Corporacion America Italia, che entra nel capitale nel 2017, con la benedizione di Renzi e del Pd locale. Vale la pena qui ricordare che, prima di quell'acquisizione, tra il 2014 e il 2016, la stessa società aveva fatto due donazioni, per un totale di 75mila euro, alla fondazione Open, la cassaforte del renzismo, nel cui direttivo sedeva all'epoca lo stesso Carrai. In seguito, nel luglio del 2018, il 25% delle quote azionarie di CAI è stato rilevato dalla Mataar Holdings, società con sede ad Amsterdam, indirettamente controllata da Investment Corporation of Dubai, il principale fondo di investimento del governo degli Emirati, con asset totali del valore di 166 miliardi di dollari. L'amministratore delegato dell'ICD si chiama Mohammed Ibrahim Al Shaibani, che è anche nel consiglio di amministrazione di Corporacion America Italia, oltre che nel board di Dubai Aerospace Enterprise: la più grande compagnia di leasing aeronautico al mondo, creata dal fondatore e numero uno della Emirates, lo sceicco Ahmed bin Saeed al Maktoum, membro della famiglia reale. Ma il nome da tenere a mente è quello di Al Shaibani. L'uomo del regime ben inserito nel giglio magico fiorentino. Il trasporto aereo lo unisce a doppio filo con Carrai, che nel 2018 aveva anche costituito (come socio di minoranza) la filiale italiana di Iss Global Forwarding, colosso della logistica aeroportuale con sede nella zona franca dello scalo di Dubai. Il gruppo, che ha filiali in tutto il mondo, è di proprietà del solito fondo governativo ICD. Non stupisce, quindi, che l'imprenditore Carrai sia andato a Dubai per colloqui di lavoro, per parlare di affari, investimenti, progetti. Tutto legittimo. Il punto è cosa sia andato a fare il senatore Renzi, a che titolo abbia accompagnato l'amico e quale ruolo abbia giocato negli incontri che sicuramente i due hanno avuto durante le loro 48 ore scarse trascorse nell'emirato. Ma c'è un'ultima domanda che merita una risposta. La normativa anti-Covid prevede, per chi torna dall'estero, 14 giorni di isolamento fiduciario e sorveglianza sanitaria: Renzi e Carrai la stanno rispettando, visto che non rientrano in nessuna delle categorie esentate dall'obbligo?

Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 9 marzo 2021. Né per vacanza né per un lavoro retribuito. Chiuso nella sua magione fiorentina, infastidito dalle «polemiche surreali» (così la ministra Elena Bonetti) scaturite dal viaggio lampo a Dubai, Matteo Renzi non ha intenzione di dare spiegazioni. Convinto di non doverne a nessuno. E ai pochi che riescono a bucare il muro di silenzio dietro cui resta trincerato tutto il giorno spiega solo di aver avuto una buona ragione per volare negli Emirati Arabi. Dove, ha confidato, si è pagato tutto da sé: sia il biglietto di andata e ritorno su un volo di linea, sia la lussuosa suite affacciata sul mare dell' Hotel Burj Al Arab Jumeirah. E chi sosterrà il contrario, ribadisce, verrà querelato. La certezza è che a condurlo lì non è stato né uno speech di quelli che ha iniziato a tenere in giro per il mondo nella veste di ex premier italiano; né un weekend di piacere nel Paese di Khalfa Ahmad al-Mubrak, l' imprenditore emiratino presidente del Manchester City con cui intrattiene da anni rapporti amichevoli, tanto da essere anche andato in Inghilterra, prima della pandemia, per assistere alle partite della squadra britannica. Un viaggio di piacere, peraltro, non rientra fra le possibilità contemplate dalla rigida normativa anti-Covid in materia di spostamenti: in quel Paese consentiti solo per lavoro, studio, salute o assoluta urgenza. Il viaggio è un caso anche per la vicinanza alla contestatissima visita di Renzi in Arabia Saudita, con lodi al principe bin Salman e al "Rinascimento saudita", in quell' occasione parte di un rapporto di lavoro retribuito. Stavolta la ragione della missione resta avvolta dal mistero: escluso un ingaggio professionale o il viaggio di piacere, tra i fedelissimi si avanza l' ipotesi che l' ex premier abbia discusso di futuri incarichi di lavoro o abbia trattato questioni politico- diplomatiche, sebbene a titolo personale, come dimostra il pagamento delle spese di viaggio. La ministra Bonetti, all' oscuro della trasferta come la totalità di Iv, fa una difesa d' ufficio: «Nell' ambito del suo lavoro e delle sue attività, il senatore Renzi ha delle relazioni internazionali. E quando ha preso un compenso l'ha sempre fatto nella piena trasparenza e legalità». Ma «è proprio questo il punto», reagiscono con stizza i 5S: «Nei suoi viaggi fa gli interessi della nazione o svolge una consulenza retribuita per altri Paesi?». Una questione dirimente anche per l' eurodeputato Dino Giarrusso: «Ora gli restano solo due scelte: dimettersi da senatore e dedicarsi alla carriera privata, o interrompere subito ogni rapporto ambiguo con potenze straniere». Sarcastico il grillino Ferrara: «Mi auguro che sia andato negli Emirati in coincidenza con la Giornata della donna per promuovere la condizione femminile che lì è ancora molto critica. Sono certo che il leader di Iv chiarirà la natura dei suoi attuali rapporti con un Paese con il quale, da premier, ha patrocinato diversi affari di Stato poco chiari e poco vantaggiosi per l' Italia».

Da adnkronos.com il 9 marzo 2021. Matteo Renzi e il viaggio a Dubai nell'ultima enews del leader di Italia Viva, che accusa alcune testate di diffondere fake news e nella quale spiega come sia suo "dovere, non diritto, chiedere i danni". "A me dispiace fare azioni civili contro alcune testate. Ma dobbiamo essere chiari: le critiche servono e aiutano a crescere, le fake news no. Tutti possono criticare, nessuno può diffamare", scrive Renzi, che continua: "Per anni ho sottovalutato la montagna di accuse che mi venivano rivolte: da due anni ho deciso di cambiare stile: se qualcuno scrive falsità, è mio DOVERE, non diritto, chiedere i danni. Perché continuare a far finta di nulla sarebbe come ammettere di aver fatto qualcosa di illegale o di illecito - prosegue il leader di Iv -. Niente di personale, sia chiaro. Ma per troppo tempo ho sottovalutato l’alluvione di fake news contro di me. Adesso ho semplicemente deciso di reagire, colpo su colpo". "Nel frattempo, guardiamo il positivo: prima mi criticavano per le mie/nostre idee sull’Italia. Ora che finalmente il Paese sta cambiando passo e che molte delle nostre battaglie vengono riconosciute, nessuno ci critica più per la politica italiana (anzi, in molti ci danno ragione, anche se a bassa voce) ma si aggrappano ai miei viaggi. Prendiamola con allegria, amici, e senza mai arrabbiarsi: è il segno che sulle questioni italiane non hanno più nulla da criticare", sottolinea Renzi. "C’è un effetto Draghi anche sulla politica del nostro Paese. Il Pd deciderà cosa fare, dopo che il Segretario uscente Nicola Zingaretti ha detto di vergognarsi del proprio partito", continua il leader Iv nella enews. "I Cinque Stelle hanno organizzato un summit decisivo tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, nella casa al mare del comico genovese per rilanciare l’esperienza pentastellata in stretto raccordo col PD. Auguri a tutti -prosegue il leader di Iv-. La mia opinione è che per qualche mese ci sarà ancora da… ballare. Tutto ha iniziato a cambiare, ma molto ancora cambierà. I sondaggi di oggi tra un anno saranno un lontano ricordo per tutti. Per questo sarà fondamentale allenarsi come fosse una maratona, non come fossero i 100 metri". E sull'emergenza covid e i decessi in Italia, Renzi parla di "quota centomila. Devastante pensare al numero di decessi per Covid in questo anno, centomila solo in Italia. Non è una cifra, è una tragedia". "Ciascuno di noi ha un nome, un volto, un proprio caro da ricordare. Proprio quando, nel primo anniversario del lockdown, l’Italia supera questo tragico confine numerico, non possiamo che rilanciare l’appello per una campagna di vaccinazione organizzata in modo militare e dire grazie alla scienza che sta lavorando notte e giorno per sconfiggere la pandemia", prosegue il leader del Pd. "Vorrei che dedicassimo più attenzione anche alla questione dei anticorpi monoclonali, che sono un grande passo in avanti nella lotto contro il Coronavirus e dei quali, nelle prossime ore, tornerò a parlare su Facebook, Instagram e Twitter", aggiunge Renzi.

Otto e mezzo, Matteo Renzi a Dubai. Massimo Giannini sgancia un'altra bomba: "Chi c'era con lui". Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. "Matteo Renzi vuole querelarmi ma non so perché". Massimo Giannini sulla Stampa ha dato la notizia del viaggio a Dubai del leader di Italia Viva. L'ex premier ha chiarito di non esserci andato "né per lavoro né per vacanza", "ma ha confermato di esserci andato", sottolinea Giannini, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. "Quando all'alba ho ricevuto il suo messaggio sul mio cellulare che mi informava che avevamo scritto tutte sciocchezze, diciamo così, io ho temuto che ci fossimo sbagliati. Poi mi ha telefonato mentre era a Dubai, quindi non capisco più quali sono le ragioni che potrebbero portarci a giudizio né lui ha voluto darmele, dicendomi che le saprò quando arriverà l'atto di citazione". "Io continuo a pensare che le sue frequentazioni pericolose con quei regimi e quei mondi meriterebbero una spiegazione", incalza Giannini. "Abbiamo aggiunto che c'è forse un aspetto in più. Renzi a Dubai era con Marco Carrai, noto imprenditore toscano e amico intimo di Renzi che con la fondazione Open e le sue attività ha sostenuto molto le attività politiche dello stesso senatore di Italia Viva". "Forse questa è una pista? - domanda sibillino Giannini - Non lo so, perché Renzi continua a non spiegare. Secondo me invece dovrebbe spiegarlo non a me ma a gli elettori italiani ma da questo punto di vista non ci sente. Se la causa che faremo servirà a chiarire la situazione benvenga, io non so qual è il reato ma io sono pronto".

Renzi d'Arabia: la Cia accusa il principe “amico” bin Salman. Le Iene News il 09 marzo 2021. L’intervista di Matteo Renzi al principe saudita Mohammad bin Salman ha generato infinite polemiche politiche, sia per i temi trattati che per il compenso ricevuto dal senatore italiano. Ma soprattutto perché la Cia accusa bin Salman per l’efferato omicidio del giornalista Jamal Khashoggi: la nostra Roberta Rei ci racconta cosa è successo. Nelle scorse settimane la visita del leader di Italia viva e senatore Matteo Renzi in Arabia Saudita ha generato infinite polemiche politiche: l’ex premier si è recato a Riyadh per intervistare il principe dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman. Le sue dichiarazioni sul “nuovo Rinascimento” e sul costo del lavoro nel paese hanno fatto discutere, così come il compenso che l’ex premier riceve da una fondazione saudita riconducibile a bin Salman. Ma il vero motivo per cui l’intervista ha fatto scalpore è proprio il principe Mohammad bin Salman, che Renzi chiama “my friend”. Bin Salman è accusato dalla Cia di essere il mandate terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, fatto letteralmente a pezzi all’interno dell’ambasciata saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018. La nostra Roberta Rei, nel servizio che potete vedere in testa a questo articolo, ci racconta come è stato pianificato e realizzato quell’efferato omicidio. Jamal Khashoggi è stato ucciso perché era un giornalista libero, ben informato sugli affari della famiglia regnante in Arabia Saudita. La Iena intervista anche Bryan Fogel, regista premio Oscar che ha girato il documentario The Dissident, proprio sull’omicidio di Jamal Khashoggi. Roberta Rei ha provato a parlare anche con Matteo Renzi, senza però avere una risposta. E allora gli suggeriamo alcune domande, che potete vedere qui sopra. Tra queste ce n’è una che ci preme particolarmente: il Rinascimento si fa tagliando a pezzi i giornalisti e mettendoli nelle valigie?

Giacomo Amadori per "la Verità" il 23 marzo 2021. Lo avevamo soprannominato per primi Lawrenzi d' Arabia, dopo aver scoperto i suoi non rari viaggi nel Regno saudita. Ma da ieri il fu Rottamatore ha diritto a un nuovo soprannome: Renzi l' Africano. Infatti il leader di Italia viva in giro per il mondo non fa più solo il conferenziere a pagamento, ma anche l' accompagnatore (in inglese «escort» anche se con il tempo questo termine ha assunto un' accezione negativa). Infatti lunedì mattina è volato a Dakar insieme con otto persone, sette uomini e una donna, per lo più imprenditori del Bresciano o comunque del Lombardo-Veneto. Tra questi anche l' ad di una delle aziende leader del trasporto su gomma di sostanze chimiche e rifiuti industriali. Non sappiamo se il fu Rottamatore sia partito in veste di mediatore di affari o abbia deciso di introdurre gratuitamente industriali padani nelle stanze dei bottoni dell' Africa nera. In ogni caso anche per questa missione utilizzerà i rapporti che ha costruito da premier. A Dakar dovrebbe infatti incontrare il presidente Macky Sall e in Kenya il capo dello Stato Uhuru Kenyatta. La trasferta subsahariana era stata anticipata nei giorni scorsi dal Fatto quotidiano. Che aveva scritto: «Nelle sue escursioni africane, Renzi potrebbe non essere solo: è tutt' altro che infrequente, fa sapere, che nei suoi viaggi sia seguito da imprenditori interessati a "fare network" con gli interlocutori istituzionali dell' ex presidente del Consiglio. Ma in questo caso, la circostanza che il senatore possa essere accompagnato in Africa da alcuni imprenditori lombardi (come risultava al Fatto) è stata smentita da Renzi stesso». Dunque il leader di Italia viva ha negato quanto è in realtà accaduto. A trasportare il fu Rottamatore in Africa è stato un Cessna 680 Citation Sovereign (immatricolato come I-Taos) della compagnia privata Italfly aviation di Trento, anche se non sappiamo chi abbia pagato la costosa trasferta. La compagnia si vanta di avere tra i propri «clienti abituali», alcuni «fra i più prestigiosi gruppi industriali e finanziari del Nord-Est, ai quali siamo in grado di offrire un servizio di aerotaxi puntuale ed esclusivo». A bordo catering personalizzato su richiesta e anche «champagne per accompagnare importanti momenti in volo». La compagnia sul suo sito vanta «l' impiego di velivoli bireattori di ultima generazione» e l' aereo su cui ha viaggiato Renzi con i suoi compagni di avventura è un gioiellino lungo quasi 20 metri, capace di toccare la velocità di 850 chilometri l' ora, mentre «il comfort in cabina, allestita per ospitare fino a 12 passeggeri, è incrementato grazie ad uno studio di connessione performante, che permette ottimi spazi di lavoro e gestione di luci, temperature ed ombra direttamente da pannelli integrati». L'aeroplano, bianco e azzurro, è decollato dallo scalo di Brescia Montichiari con a bordo gli imprenditori alle 7 e 51 ed è atterrato a Malaga alle 9 e 51 per recuperare l' ex sindaco di Firenze. Infatti Renzi sembra abbia trascorso il week end sulla Costa del Sol, a pochi chilometri da Gibilterra, anche se non ha reclamizzato sui social la sua trasferta iberica. Proprio per questo non sappiamo se abbia declamato da lì il suo intervento streaming all'assemblea nazionale di Italia viva. Di certo in Spagna la sua partenza non ha destato la curiosità che avrebbe suscitato se fosse salito su un jet privato a Brescia insieme con la comitiva di imprenditori. Il Cessna, dopo una sosta di quasi un' ora, è ripartito da Malaga diretto a Dakar pochi minuti prima delle 11, ha sorvolato il Marocco e la Mauritania ed è finalmente atterrato alle 15 e 11 (14 e 11 ora locale) all' aeroporto internazionale Blaise Diagne. All'atterraggio passeggeri e operatori locali sono rimasti colpiti dal viavai di guardie del corpo. Evidentemente Renzi è stato accolto quasi come un capo di governo. In Senegal, come detto, il senatore di Rignano sull' Arno avrebbe messo in agenda una bella rimpatriata con il presidente Sall con il quale si era già scambiato un paio di visite ufficiali ai tempi di Palazzo Chigi. Sall, ingegnere geofisico, è stato eletto nel 2012 e in precedenza era stato primo ministro. Nel 2012 ha vinto al ballottaggio, mentre nel 2019 è stato riconfermato capo dello Stato con il 58 per cento dei voti. Probabilmente Renzi si farà spiegare come aumentare i consensi o forse sarà lui a dar lezione al politico senegalese di decrescita felice. Felicissima, considerata la capacità dell' ex segretario Pd di trasformare un' appannata immagine politica in un vincente brand commerciale. La trasferta in Senegal dovrebbe essere seguita da quella in Kenya. Ma i viaggi del senatore semplice con l' ambizione di «fare network» dovrebbero estendersi anche al di là dell' Atlantico: nelle prossime settimane il leader di Italia viva sarebbe pronto a partire per il Sudamerica (probabilmente in Argentina). A giugno, invece, avrebbe in programma una puntata in Grecia. Chissà se anche in questo tour africano collezionerà un' altra sesquipedale figuraccia come quella in cui straparlò di Rinascimento saudita e di invidiabile costo del lavoro duettando felice con il principe saudita Mohammed bin Salman, sospettato di essere il mandante dell' omicidio del giornalista Jamal Khasshoggi. In Senegal nel 2016 si lanciò in un discorso ufficiale in francese senza traduttore che divenne virale sulla Rete. A Nairobi, invece, nel 2015, si era fatto ben volere presentandosi in Parlamento con un giubbotto antiproiettile sotto la giacca. Il quotidiano Nairobi news definì l' episodio un' umiliazione, visto che la State house andava considerato il luogo «più protetto del Kenya» e aggiunse ironicamente: «Renzi non avrà preso troppo sul serio l' invito di Kenyatta a iniziare a occuparsi della sicurezza?». Magari questa volta Matteo l' Africano manderà avanti gli imprenditori.

Da lanotiziagiornale.it il 30 aprile 2021. Matteo Renzi è diventato editorialista di Arab News. Ovvero del quotidiano con sede a Riyad e considerato vicino al regime. Lorenzo Giarelli sul Fatto Quotidiano oggi racconta che dopo il “Nuovo rinascimento” e il Gran Premio di Formula 1 nel Bahrein il senatore di Italia Viva è ormai proiettato nella penisola arabica. Matteo Renzi diventa editorialista di Arab News. L’esordio è un articolo in lode ad AlUla. L’editoriale d’esordio di Renzi è di qualche giorno fa ed è disponibile nella versione online del quotidiano. Titolo: “AlUla can be the city of the future, as well as of the past”; AlUla può essere la città del futuro, così come del passato. L’articolo contiene una serie di elogi per la città saudita, al centro di un progetto di urbanistica green di cui si occupa la già menzionata Royal Commission. Renzi si affida subito alle citazioni, scegliendo di aprire le sue 5 mila battute con l’immarcescibile “la bellezza salverà il mondo”, prima di avventurarsi in un parallelo tra AlUla e la storia di Matera. Secondo Renzi “negli anni ‘50 Matera era povera e trascurata tanto che gli abitanti furono spostati in alcuni nuovi quartieri residenziali”, finché negli anni ‘80 non si decise per una “rinascita” attraverso “investimenti pubblici e privati”. Tutto questo per dire che oggi AlUla può seguire quel modello di città in cui “una comunità moderna vive in armonia con il suo passato”. AlUla è allora “una grande opportunità”, anche grazie all’irreprensibile lavoro della Corona: “AlUla e l’Arabia Saudita stanno seguendo un approccio community- inclusive e culture-first”. Il Regno, insomma, citato come esempio di inclusività sociale oltreché di attenzione per la cultura. Prepariamoci, perché nei prossimi decenni “AlUla sarà un museo vivente” e il progetto della Royal Commission di cui Renzi fa parte è “assicurare che gli abitanti della regione siano centrali nel successo a lungo termine della città”.

Niccolò Di Francesco per tpi.it. Matteo Renzi ricoprirebbe un incarico segreto direttamente per Mohammed bin Salman, principe reggente dell’Arabia Saudita: lo rivela in esclusiva il quotidiano Domani, secondo cui il leader di Italia Viva sarebbe direttamente coinvolto nel board che si occupa dello sviluppo di Alula, sito archeologico Patrimonio Unesco che il regime vorrebbe trasformare in una città verde e sostenibile. Secondo il giornale diretto da Stefano Feltri, dunque, l’ex presidente del Consiglio italiano non svolgerebbe solo attività di consulenza per il Future Investment Institute, l’ente del fondo arabo da cui il senatore di Italia Viva riceve un compenso annuale di 80mila euro e che ha già provocato diverse polemiche per i suoi continui viaggi in Medio Oriente durante uno dei quali ha parlato dell’Arabia Saudita come di un “centro di un nuovo Rinascimento“, ma lavorerebbe direttamente per il principe reggente Mohammed bin Salman. Matteo Renzi, infatti, avrebbe un incarico nell’advisory board della Royal Commission, che si occupa dello sviluppo della città verde e sostenibile di Alula, maxi progetto che, nelle intenzioni di bin Salman, “deve trasformare l’Arabia Saudita nel paese leader del turismo musulmano nell’età post-petrolifera”. Non è chiaro quale ruolo avrebbe Renzi all’interno del board ne a quanto ammonterebbe il suo compenso, ma l’incarico sarebbe stato scoperto dal quotidiano attraverso un evento mondano che si è tenuto l’8 aprile scorso proprio ad Alula. Secondo quanto scrive Domani, infatti, nel sito patrimonio dell’Unesco di Hegra, si è tenuto l’annuale concerto, organizzato da bin Salman per celebrare il progetto turistico, che quest’anno ha visto protagonista il tenore italiano Andrea Bocelli. L’evento, trasmesso in tv, ha visto la presenza di circa “300 amici”, tra cui quella di Matteo Renzi, così come confermato da una fonte presente al concerto. Il quotidiano rivela anche che il senatore di Italia Viva il 2 aprile scorso ha partecipato, via Zoom poiché in prossimità delle vacanze pasquali, a un evento della Royal Commission of Alula dal titolo: “Al bivio: persone e pianeta: può Alula dare inizio a un futuro sostenibile?”. L’incarico che Renzi ricoprirebbe per bin Salman accende nuovamente i riflettori sul possibile conflitto d’interessi dell’ex premier con il suo ruolo di parlamentare. A dimostrazione di ciò, Domani sottolinea che il 19 gennaio scorso, giorno del discorso di Matteo Renzi sulla sfiducia al governo Conte, il senatore di Italia Viva, tra le altre cose, parlò proprio del progetto di bin Salman: “Qualche giorno fa, ad Alula, la città recentemente visitata dal ministro degli Esteri, si sono siglati accordi impressionanti nel mondo arabo che hanno segnato una svolta, in particolar modo per la Libia”.

Renzi diventa editorialista di Arab News e elogia ancora Bin Salman. Le Iene News il 30 aprile 2021. Nuovo impegno in Arabia Saudita per il senatore ed ex premier Matteo Renzi con un quotidiano molto vicino al regime. E nuove lodi per la politica del principe ereditario, accusato dalla Cia e dall’Onu di essere il mandante del terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Noi con la nostra Roberta Rei vi parliamo da tempo di tutta questa storia. Tornano al centro di attualità e polemiche i rapporti tra Matteo Renzi e l’Arabia Saudita, e in particolare quelli con il principe ereditario e uomo forte del regime Mohammed bin Salman, che il senatore ha chiamato “my friend” in un’intervista e che è accusato dalla Cia e dall’Onu di essere il mandante del terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Un tema questo di cui ci siamo occupati spesso recentemente con la nostra Roberta Rei, come potete vedere qui sopra nell'ultimo servizio andato in onda. L’ex premier e attuale leader di Italia Viva è diventato ora, come riporta Il Fatto Quotidiano, editorialista di Arab News, quotidiano in lingua inglese con sede a Riyadh e considerato vicino al regime. L’esordio è in lode di AlUla, il progetto di una città verde ed ecosostenibile a cui Bin Salman tiene molto. Renzi, oltre a sedere nel board del Future investment institute controllato dal fondo sovrano Pif del governo saudita, secondo quanto riportato nei giorni scorsi dal quotidiano Domani farebbe parte anche dell’advisory board della Royal commission che si occupa proprio dello sviluppo di AlUla. Nel primo editoriale per Arab News, “AlUla can be the city of the future, as well as of the past”, “AlUla può essere la città del futuro, così come del passato”, loda il progetto di urbanistica green della città e la politica di inclusività sociale e attenzione alla cultura che verrebbe seguita secondo lui dalla corona. Toni molto simili insomma al “my friend” e al “nuovo Rinascimento” saudita lodato durante l’intervista a Riyadh di fine gennaio di Renzi a Mohammed Bin Salman che tante polemiche ha scatenato. Ricordiamo che il principe ereditario è accusato dalla Cia e dell’Onu di essere il mandante del terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, fatto letteralmente a pezzi all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018. Per questo più volte abbiamo cercato di contattarlo con la nostra Roberta Rei. La Iena ha anche parlato con Hatice, la vedova di Jamal Khashoggi, che ha una domanda per il senatore: “Davvero è più felice per questo lavoro (quello nel board saudita, ndr), che dà più importanza ai suoi interessi che alla libertà e ai diritti umani?”. Alla fine, come potete vedere dal servizio qui sopra, Renzi ha accettato di risponderci: “Non metto i miei interessi personali davanti ai diritti umani. È una frase ingiusta, però detta da una donna che ha sofferto molto e a cui va il nostro rispetto”. E l’omicidio di Khashoggi? “È una vicenda molto triste, che io ho già condannato negli anni scorsi”. Condanna anche il mandante? “Le decisioni su quello che è accaduto saranno prese dalle autorità competenti. Noi rispetteremo questo”. Gli Stati Uniti con il nuovo presidente da Joe Biden hanno emesso il cosiddetto “Khashoggi ban”, contro chi perseguita i dissidenti politici individuando 76 persone che potrebbero essere sanzionate. “Tra questi non c’è il principe Bin Salman, è giusto condannare l’omicidio, anzi è il minimo, gli esecutori e i mandanti saranno individuati dalle autorità, che non sono io”, dice Matteo Renzi che nega anche un conflitto d’interesse per i suoi viaggi all’estero. “L’attività da parlamentare è compatibile con l’andare a fare iniziative da ex presidente del Consiglio, da cittadino o da senatore, all’estero. Non vi è alcun conflitto d’interesse”. Difende invece quel “my friend” a Bin Salman: “Io chiamo ‘my friend’ una persona che conosco da anni, che è un mio amico”.

Matteo Renzi e il viaggio a Dubai, il contrattacco di Tpi: "Così l'ex premier prova a intimidirci". Libero Quotidiano l'8 marzo 2021. Dopo Massimo Giannini, anche la redazione di Tpi ha deciso di replicare alla querela di Matteo Renzi, che non ha preso bene la pubblicazione della notizia di un suo viaggio a Dubai del quale non si conoscono le motivazioni ufficiali. Il senatore di Rignano è sbarcato negli Emirati nella giornata di sabato 6 marzo e ha alloggiato nel lussuoso Burj Al Arab Jumeirah, hotel a forma di vela gigante che è situato su un’isola privata e comprende solo suites da almeno 1500 euro a notte. Già ieri, domenica 7 marzo, il direttore della Stampa non aveva nascosto lo stupore per la citazione in giudizio di Renzi: “Stamattina alle cinque e diciassette esatte del mattino mi ha mandato un sms sul telefonino. Diceva testuale ‘bastava un tuo messaggio e ti saresti risparmiato di scrivere tutte queste cazz***. Ci vedremo in tribunale’”. Inoltre Giannini ha svelato che, prima di pubblicare la notizia del “misterioso” viaggio a Dubai, ha parlato con il portavoce di Renzi che però era all’oscuro di tutto. Il senatore di Rignano non ha voluto chiarire il motivo del suo viaggio, anzi ha querelato anche Tpi. La cui redazione ora ha deciso di uscire allo scoperto, definendo “inaccettabile” questa prassi: “Andremo avanti e resisteremo. E continueremo a pubblicare notizie e fatti rilevanti sul suo conto perseguendo il fine della libera informazione. Non ci piegheremo a una simile condotta intimidatoria volta a impedire la pubblicazione di notizie di rilievo sul suo conto”. 

Da liberoquotidiano.it il 7 marzo 2021. A Matteo Renzi l’articolo pubblicato da La Stampa a firma di Niccolò Carratelli dal titolo, “Mistero sulla missione a Dubai” non è andato proprio giù. Tant’è che a metà mattinata annuncia con una nota di aver dato mandato ai propri legali di adire in giudizio in sede civile sia il direttore, Massimo Giannini che l’autore dell’articolo. A metà pomeriggio, però, è arrivata anche la replica di Massimo Giannini via twitter: «A proposito dei viaggi arabi di Renzi, stamattina ho parlato al telefono con il leader di Italia Viva che mi ha preannunciato querela. Ma mi ha anche confermato che in effetti è a Dubai. Per questo sono curioso di capire i motivi della sua querela».

Da liberoquotidiano.it il 7 marzo 2021. Matteo Renzi ha deciso di querelare il giornalista Niccolò Carratelli e il direttore Massimo Giannini per l’articolo pubblicato nell’edizione odierna de La Stampa dal titolo “Mistero sulla missione a Dubai”. La notizia arriva dall’ufficio stampa del senatore di Rignano, che però non ha voluto precisare le motivazioni dell’iniziativa legale: probabilmente sono legate alle allusioni pesanti sui suoi rapporti con gli Emirati, dato sono stati citati anche presunti rapporti finanziari degli anni passati fra soggetti economici con base negli Emirati e la Fondazione Open, in passato animata da amici e sostenitori dell’ex presidente del Consiglio. “Ritorno dagli sceicchi”, ha scritto La Stampa per rendere noto che Renzi è atterrato a Dubai con un volo privato nella giornata di sabato 6 marzo. “Alloggia nel lussuoso Burj Al Arab Jumeirah, hotel a forma di vela gigante, situato su un’isola privata: solo suites, letteralmente dentro al mare, da 1500 euro a notte”, si legge su La Stampa, che però ha precisato che “Il viaggio non è stato annunciato né pubblicizzato, il motivo della trasferta non è noto”. Ovviamente la notizia è stata ripresa da diversi “nemici” di Renzi, a partire da Gad Lerner: “Che ci fa, di grazia, il senatore al Burj Al Arab Hotel di Dubai? Lussuoso weekend di relax con gli amici del Golfo o ennesimo viaggio di lavoro?”. A difendere Renzi è sceso in campo Guido Crosetto: “Non mi interessa la simpatia o l’antipatia di Renzi e nemmeno la sua parte politica o la sua coerenza o le sue amicizie: quello lo giudicheremo con il voto. Ma saranno fatti suoi decidere dove andare in vacanza due giorni? Oppure deve essere autorizzato da Lerner?”.

Matteo Renzi vince la causa contro Tofalo (M5S) che lo aveva denunciato per diffamazione. La Repubblica il 10 marzo 2021. "E' andato a trattare in Libia con la parte sbagliata", così aveva detto durante una trasmissione tv il leader di Iv del deputato grillino, condannato a risarcire 13mila euro all'ex premier. Matteo Renzi ha vinto la causa contro il deputato del M5S Angelo Tofalo che lo aveva denunciato per diffamazione. La risale al 14 giugno 2017, quando, durante la trasmissione 8 e 1/2 , il senatore Renzi aveva affermato che il parlamentare grillino, esponente del Copasir "è andato a trattare in Libia con la parte sbagliata". Tofalo, è stato condannato al rimborso delle spese processuali: dovrà pagare 26 mila euro, oltre accessori di legge, di cui 13 mila a Renzi. La sentenza ha valutato "le affermazioni di Renzi come rispettose del diritto di critica e non diffamatorie - ha spiegato il legale di Renzi, Alessandro Pillitu - l'istruttoria ha infatti evidenziato come effettivamente il deputato M5S abbia incontrato l'ex premier libico Khalifa Ghwell, un uomo che il governo di Tripoli reputa vicino alle fazioni islamiche estremiste. Da qui - ha concluso il legale - il rigetto della richiesta di risarcimento per diffamazione". Dell'incontro tra l'ex premier islamista del governo di salvezza nazionale libico oppositore dell’esecutivo riconosciuto dall’Onu con l'esponente del parlamento italiano, lo stesso Tofalo - esperto di intelligence del Movimento 5 Stelle, nominato sottosegretario alla Difesa dopo cinque anni al Copasir - ha dovuto rendere conto anche alla Dda di Napoli che indagava su una coppia di imprenditori napoletani coinvolta in un'inchiesta su un commercio di armi con la Libia fra il 2011 e il 2015 in violazione dell'embargo. E del caso si era interessata anche l'Onu.

Matteo Renzi querela il giornalista del "Fatto" ma sbaglia persona: stangato, ora deve pagare 4.700 euro. Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Nella foga di querelare il Fatto Quotidiano Matteo Renzi ha sbagliato bersaglio. E così invece di denunciare la giornalista della testata diretta da Marco Travaglio, Ilaria Proietti, ha fatto notificare la citazione a un'omonima, anche lei giornalista. Adesso il senatore di Italia Viva sarà costretto a rimborsarle le spese legali pagando un risarcimento di 4.700 euro. A tal proposito il Fatto Quotidiano ha scritto: "L’equivoco non ci sarebbe stato se la citazione fosse stata notificata soltanto alla sede del giornale (e sarebbe stata valida comunque). Renzi però preferisce far notificare ai domicili privati dei giornalisti. Così forse i loro vicini di casa possono assistere alle procedure di consegna della citazione legale". La differenza tra le due Ilaria Proietti confuse dal leader di Italia Viva, inoltre, sta anche nella data di nascita. La cronista del Fatto, come riporta il quotidiano, è del 1973, mentre l'omonima del 1974. "Si è vista recapitare a casa la busta verde, gravido presagio di noie legali che tutti preferiremmo evitare. Immaginiamo la scena. Lo stupore", continua il giornale. I legali di Renzi, comunque, avrebbero provato a difenderlo dicendo che le Ilaria Proietti iscritte all’albo dei giornalisti sono quattro e che quelle che lavorano al Fatto Quotidiano sono due. Il giornale, però, ha controbattuto dicendo che da loro ce n'è una sola. "Secondo il giudice proprio le omonimie avrebbero dovuto indurre Renzi a verificare con scrupolo chi stava chiamando in causa. Se guarirà dalla querelite, farà più attenzione la prossima volta", continua il quotidiano di Travaglio. La querela del leader di Italia Viva era partita per via di un articolo del Fatto risalente al 28 febbraio scorso e intitolato "Renzi D'Arabia si tiene i soldi insaguinati", in riferimento alla conferenza che il senatore di Scandicci aveva tenuto in Arabia Saudita e al delitto del giornalista Jamal Khashoggi. Dopo essere venuto a conoscenza dell'articolo, Renzi aveva twittato: "Oggi è una giornata bellissima, non è il giorno giusto per arrabbiarsi. È sempre quello giusto invece per citare in giudizio Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano vista l’aggressione di stamani. Non c’è da arrabbiarsi. Solo denunciare e aspettare le sentenze. Il tempo è galantuomo".

Barbara Morra per lastampa.it il 14 luglio 2021. Era accusata di concorso nella bancarotta fraudolenta documentale di una società cuneese, la Direkta srl: il tribunale di Cuneo ha assolto oggi (mercoledì 14 luglio) pomeriggio Laura Bovoli, madre dell’ex premier Matteo Renzi. Tutto è cominciato dal fallimento, nel 2014, dell’impresa cuneese che si occupava di diffusione di volantini per la pubblicità della grande distribuzione. L’imprenditrice era alla guida della Eventi6 di Rignano sull’Arno, cliente di Direkta cui commissionava a sua volta lavori di distribuzione dei volantini. Il sostituto procuratore Pier Attilio Stea accusava Bovoli, insieme all’altro imputato Paolo Buono, titolare della Gest Espaces, anch’egli assolto,di aver collaborato con il titolare della Direkta Mirko Provenzato nel falsare in qualche modo i conti della società cuneese. La Eventi6 e la Gest Espaces di Buono in effetti inviarono delle lettere in cui sostenevano di aver subito dei “disservizi” da parte della ditta di Giorgio Fossati, che svolgeva lavori in subappalto per Direkta. Questi documenti consentirono a Provenzano (che ha patteggiato la bancarotta) di tentare di giustificare il ritardo nel pagamento a Fossati che reclamava un credito di un milione di euro. Secondo la Procura i disservizi furono un pretesto e le note che reclamavano penali sono un falso. I difensori di Bovoli e Buono, Stefano Bagnera e Dora Bissoni, hanno puntato tutto sul fatto che le lettere contestate dalla Procura non incisero in alcun modo sulla contabilità della Direkta e, quindi, sul suo fallimento. Una tesi che i giudici (presidente del collegio Marcello Pisanu) sembrano aver condiviso anche se i motivi dell’assoluzione saranno più chiari con il deposito della sentenza. Il tribunale ha assolto anche Franco Peretta, che per un periodo tenne la contabilità della società di Provenzano. 

"Il fatto non sussiste": assolta la mamma di Renzi. Federico Garau il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Laura Bovoli era accusata di bancarotta fraudolenta. L'ex premier su Twitter: "Scusami se hai dovuto subire tutto questo per colpa mia". Il tribunale di Cuneo ha deciso di assolvere dall’accusa di bancarotta fraudolenta Laura Bovoli, madre di Matteo Renzi. La donna era finita fra gli indagati dopo il crack di Direkta, società di pubblicità e distribuzione di volantini sita nel cuneese e fallita nell'oramai lontano 2012. La Bovoli, titolare di Eventi6 (azienda che commissionava gli incarichi a Direkta), avrebbe secondo l'accusa contribuito alla falsificazione dei conti della società. Una tesi che non è, tuttavia, riuscita a convincere appieno i giudici, i quali hanno deciso di assolvere sia la madre dell'ex segretario del Pd che l'altro imputato Paolo Buono, "perché il fatto non sussiste". "Il giudice si è espresso riconoscendo la totale estraneità della signora Bovoli nelle condotte dell’amministratore della società e nella bancarotta", ha dichiarato il legale della donna Stefano Bagnera, come riferito da Repubblica. "Dunque c’è profonda soddisfazione per una assoluzione piena, che non lascia spazio a dubbi sulle sue azioni".

Il commento di Renzi. L'ex sindaco di Firenze ha voluto commentare la notizia tramite il proprio profilo Twitter: "In tanti mi chiedono perchè sulle questioni della giustizia non uso un tono più aggressivo", esordisce Renzi. "Per un motivo molto semplice", spiega, "Io continuo nonostante tutto a credere nella giustizia. E nella verità. Per esempio oggi tutti i media sono scatenati sui miei avvisi di garanzia: sono curioso di capire quanto spazio verrà dato alla notizia di mia mamma oggi assolta dopo anni di indagini e processi".

Doppia inchiesta su Renzi dopo gli attacchi alle toghe. E in effetti ora è proprio Matteo, come da lui stesso spiegato, a trovarsi al centro di un'indagine per le conferenze tenute ad Abu Dhabi, a causa dell'emissione di fatture. Una notizia che arriva esattamente il giorno dopo la ricezione di un avviso di garanzia per presunto finanziamento illecito in un'indagine che coinvolge anche il manager Lucio Presta e riguarda il documentario su Firenze. "Assolta dall'accusa di Bancarotta a Cuneo", prosegue ancora Renzi verso la conclusione del suo post. "Perché? Perché il fatto non sussiste. La verità arriva, prima o poi. Tante sofferenze ma poi arriva. Continuino pure ad attaccarmi, io non mollo. E soprattutto: ti voglio bene, Mamma. Scusami se hai dovuto subire tutto questo per colpa mia".

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2021. Ancora un'inchiesta, per presunte fatture irregolari e reati fiscali, su Tiziano Renzi e Laura Bovoli, i genitori del leader di Italia viva ed ex presidente del Consiglio Matteo. Ma stavolta nella richiesta di rinvio a giudizio la procura di Firenze ha aggiunto anche il nome di Matilde Renzi, figlia di Tiziano e Laura e sorella di Matteo. Le indagini fanno riferimento a Eventi 6, una delle società di famiglia delle quali Tiziano Renzi, Laura Bovoli e Matilde Renzi erano rispettivamente l'amministratore e i legali rappresentanti. I reati ipotizzati sono dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni parzialmente inesistenti e dichiarazione infedele dei redditi. Nella richiesta di rinvio a giudizio si fa riferimento alle dichiarazioni dei redditi di Eventi 6 presentate tra il 2016 e il 2019 nelle quali sarebbero stati indicati passivi fittizi di oltre 5,5 milioni di euro con una presunta evasione fiscale di 1 milione e 200 mila euro. La cooperativa Marmovid, amministrata dai Renzi, utilizzata secondo l'accusa per gestire la manodopera per conto della Eventi 6, si sarebbe accollata tutti gli oneri previdenziali, contributivi e fiscali e sarebbe poi fallita. Il 20 maggio l'udienza preliminare.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2021. Ci sarà un altro processo per Tiziano Renzi e Laura Bovoli i settantenni genitori dell' ex presidente del consiglio e leader di Italia Viva, Matteo. E per la prima volta sarà giudicata anche la figlia Matilde, sorella del senatore fiorentino. Ieri il gup di Firenze, Federico Zampaoli, ha accolto le richieste della Procura (pm Antonino Nastasi), e ha rinviato a giudizio i tre con l' accusa di dichiarazione fraudolenta con uso di fatture per operazioni parzialmente inesistenti e dichiarazione infedele dei redditi. Le indagini hanno come elemento principe «Eventi 6», una delle società di famiglia delle quali Tiziano, Laura e Matilde erano rispettivamente l' amministratore e i legali rappresentanti. Nel rinvio a giudizio si fa riferimento alle dichiarazioni dei redditi di «Eventi 6» presentate tra il 2016 e il 2019 nelle quali sarebbero stati indicati passivi fittizi per oltre 5,5 milioni di euro con una presunta evasione fiscale di 1 milione e 200 mila euro. Al centro del presunto raggiro fiscale anche la cooperativa Marmovid, amministrata dai Renzi, utilizzata secondo l' accusa per gestire la manodopera per conto della «Eventi 6». Marmovid si sarebbe accollata tutti gli oneri previdenziali, contributivi e fiscali facendoli figurare come spese per servizi quando invece, secondo la Procura di Firenze, sarebbero stati costi derivanti da lavoro dipendente. Una manovra che avrebbe provocato, sempre secondo la tesi dell' accusa, il fallimento della cooperativa. Matilde Renzi, che entra per la prima volta in un procedimento penale, è sotto accusa solo per una dichiarazione dei redditi presentata nel 2018 che la Procura ha giudicato non veritiera. La difesa dei Renzi, sostenuta dall' avvocato Federica Bagattini, ha chiesto la riunione del processo con quello sul fallimento di tre cooperative (tra le quali anche la Marmovid), riconducibili a Tiziano Renzi e alla moglie Laura Bovoli. La prima udienza di questo processo (dove non compare Matilde) era stata fissata per l' 1 giugno. «La decisione del rinvio a giudizio era prevista - ha confermato l' avvocato Bagattini -. Ora cercheremo di unire questo filone al procedimento principale». In questo processo parallelo sono imputati Tiziano Renzi, la moglie Laura Bovoli e altre sedici persone. La prima udienza è stata fissata per il 7 marzo del 2022. Nell' autunno del 2019, dopo essere stati arrestati (ai domiciliari) per bancarotta fraudolenta, i coniugi Renzi erano stati condannati a un anno e nove mesi perché accusati di emissione di due fatture false.

A PROCESSO LA SORELLA ED I GENITORI DI MATTEO RENZI. Il Corriere del Giorno il 20 Maggio 2021. Tiziano Renzi e Laura Bovoli erano già stati condannati nell’ottobre del 2019 a 1 anno e 9 mesi per l’emissione di due fatture false. Nel febbraio dello stesso anno i genitori di Matteo Renzi vennero posti agli arresti domiciliari dal gip di Firenze dr.ssa Angela Fantechi con l’accusa di “bancarotta fraudolenta” ed “emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti”. I genitori di Matteo Renzi, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, e la sorella Matilde Renzi, verranno processati per reati fiscali in merito alla conduzione della società Eventi 6 srl controllata da tutta la famiglia del leader di Italia Viva. E’ quanto ha deciso il giudice Federico Zampaoli al termine dell’udienza preliminare durante la quale la Procura di Firenze ha ribadito le accuse di dichiarazione fraudolenta con uso di fatture per operazioni parzialmente inesistenti e dichiarazione infedele dei redditi percepiti. La prima udienza è fissata davanti al Tribunale di Firenze nel marzo del prossimo anno. “La decisione del rinvio a giudizio era prevista. Ora chiederemo la riunione di questo filone al procedimento principale”, ha dichiarato l’avvocato Federico Bagattini, difensore della famiglia Renzi, dopo il provvedimento del gup del tribunale di Firenze che ha disposto il processo. Il padre di Matteo Renzi, Tiziano verrà processato come “amministratore di fatto” della Eventi 6, società di servizi con sede a Rignano sull’Arno (Firenze), mentre la madre Laura Bovoli invece come legale rappresentante della società. Anche la sorella dell’ex premier, Matilde Renzi verrà sottoposta a giudizio come legale rappresentante, rispondendo di quanto accaduto nell’ anno 2018. Secondo la Procura di Firenze la società Eventi 6 srl, secondo le indagini effettuate dalla Guardia di Finanza, avrebbe documentato false passività per 5,5 milioni di euro evadendo imposte per 1 milione e 200 mila euro. Secondo l’impianto accusatorio le operazioni illecite sarebbero scaturite dai rapporti dei coniugi Renzi con la cooperativa Marmodiv, una impresa di servizi pubblicitari (successivamente fallita) con rapporti con la Eventi 6. Un procedimento penale parallelo sulla cooperativa Marmodiv che inizia il primo giugno, per il quale si svolgerà un processo con 18 imputati, tra i quali compaiono anche Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Tiziano Renzi e Laura Bovoli erano già stati condannati nell’ottobre del 2019 a 1 anno e 9 mesi per l’emissione di due fatture false. Nel febbraio dello stesso anno i genitori di Matteo Renzi vennero posti agli arresti domiciliari dal gip di Firenze dr.ssa Angela Fantechi con l’accusa di “bancarotta fraudolenta” ed “emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti”. I genitori dell’ ex-premier nel tempo sono stati amministratori di fatto di tre società cooperative, che sarebbero tutte legate alla “Eventi 6”, la società dei familiari di Matteo Renzi. 

Saranno processati i genitori e una sorella di Matteo Renzi. Tiziano, padre dell'ex premier, e la moglie Laura Bovoli rinviati a giudizio per reati fiscali: la prima udienza fissata a Firenze nel marzo 2022. La Repubblica il 20 maggio 2021. I genitori di Matteo Renzi, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, e la sorella Matilde Renzi, vanno a processo per reati fiscali  relativi alla conduzione della società di famiglia Eventi 6 srl. Lo ha stabilito il giudice Federico Zampaoli al termine dell'udienza preliminare dove la procura ha ribadito le accuse di dichiarazione fraudolenta con uso di fatture per operazioni parzialmente inesistenti e dichiarazione infedele dei redditi percepiti. La prima udienza davanti al tribunale di Firenze è fissata nel marzo del 2022. Tiziano Renzi va a processo come amministratore di fatto della Eventi 6, società di servizi con sede a Rignano sull'Arno (Firenze), la moglie Laura Bovoli invece come legale rappresentante della srl. Anche Matilde Renzi va a giudizio come legale rappresentante, ma solo per il periodo 2018. Secondo le indagini svolte dalla Guardia di Finanza Eventi 6 avrebbe documentato false passività per 5,5 milioni di euro evadendo imposte per 1 milione e 200 mila euro. Tali operazioni illecite, secondo l'accusa, sarebbero scaturite dai rapporti dei coniugi Renzi con la cooperativa Marmodiv, una impresa di servizi pubblicitari poi fallita con rapporti con la Eventi 6. Sulla Marmodiv è in corso un procedimento penale parallelo di cui sarà celebrato un processo con 18 imputati, tra cui Tiziano Renzi e Laura Bovoli, che inizia il primo giugno. I genitori di Renzi erano già stati condannati nell'ottobre del 2019 a un anno e nove mesi per l'emissione di due fatture false. Nel febbraio dello stesso anno la coppia fu messa agli arresti domiciliari dal gip di Firenze Angela Fantechi con l'accusa di bancarotta fraudolenta ed emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. I renzi sono stati nel tempo amministratori di fatto di tre società cooperative, che sarebbero tutte legate alla "Eventi 6", la società dei familiari dell'ex premier. "La decisione del rinvio a giudizio era prevista. Ora chiederemo la riunione di questo filone al procedimento principale", ha detto l'avvocato Federico Bagattini, difensore della famiglia Renzi, dopo il provvedimento di questa mattina del gup del tribunale di Firenze che ha disposto il processo per reati fiscali dei coniugi Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori di Matteo Renzi, e Matilde Renzi, sorella dell'ex premier.

Antonella Mollica per corriere.it il 10 marzo 2021. Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo Renzi, sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta per il fallimento di tre cooperative, la Delivery Service Italia, Europe Service e Marmodiv. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco, portò nel febbraio 2019 all’arresto dei coniugi Renzi. Il processo si aprirà il primo giugno. L’udienza preliminare per la bancarotta delle tre cooperative si è conclusa con il rinvio a giudizio per altri 14 imputati, rappresentanti delle coop. Tra loro c’è anche Roberto Bargilli, l’autista del camper con cui Matteo Renzi ha condotto la campagna elettorale per le primarie del Pd nel 2012. L’imprenditore genovese Mariano Massone, che fu arrestato insieme ai coniugi Renzi, ha invece patteggiato una pena a 6 mesi di reclusione.

L’inchiesta. L’inchiesta ha preso in esame la gestione di cooperative di servizi dedite in particolare al volantinaggio e alla distribuzione di materiale pubblicitario. Secondo le indagini, condotte dalla finanza e coordinate dal procuratore aggiunto Luca Turco, Tiziano Renzi e Laura Bovoli sarebbero stati amministratori di fatto delle cooperative indagate, tramite persone di fiducia o comunque condizionando le decisioni prese all’interno delle stesse società e ne avrebbero provocato il fallimento, omettendo di pagare imposte e contributi.

L’avvocato dei Renzi: «Decisione attesa». «La decisione del gup era attesa - si legge nel comunicato diffuso dal legale dei Renzi, l’avvocato Federico Bagattini - visto il tipo di vaglio a cui è chiamato per legge. È però emerso già dalle carte la prova della infondatezza del castello accusatorio, il cui accertamento necessariamente dovrà avvenire in dibattimento. Confidiamo quindi di poter confutare la tesi inquisitoria in tale sede».

I genitori di Renzi rinviati a giudizio. La difesa: «Accuse infondate». Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono accusati di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false nell'ambito dell'inchiesta per il fallimento di tre cooperative. Il Dubbio mercoledì 10 marzo 2021. Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier e leader di Iv Matteo Renzi, sono stati rinviati a giudizio nell’ambito dell’inchiesta per il fallimento delle cooperative “Delivery Service Italia”, “Europe Service” e “Marmodiv”, insieme ad altri 14 imputati. La richiesta accolta dal gup era stata avanzata dal procuratore aggiunto del tribunale di Firenze, Luca Turco. I reati ipotizzati sono: bancarotta fraudolenta e emissione di fatture false. La prima udienza del processo è stata fissata per il prossimo 1 giugno. Lo scorso 3 marzo, in apertura dell’udienza preliminare, il pm Luca Turco aveva depositato una memoria integrativa per rafforzare l’accusa nei confronti degli imputati. Per i reati loro contestati nel febbraio del 2019, Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli finirono anche agli arresti domiciliari. La procura di Firenze, che già li aveva indagati per false fatture, contestava loro le bancarotte di due società. Nel corso delle indagini ne fallì anche una terza. Delivery, Europe service, Marmodiv: tre cooperative considerate dall’accusa la “galassia Tiziano” e gestite di fatto dai genitori dell’ex premier Matteo, anche se ufficialmente non figuravano tra gli amministratori. Tutte operavano nel campo della distribuzione porta a porta di depliant pubblicitari. Tra i reati contestati ai genitori dell’ex premier anche quello dell’emissione di false fatture al fine di evadere le imposte sui redditi. L’indagine era partita dalla “Delivery Service Italia”, cooperativa dichiarata fallita a giugno 2015 e di cui Tiziano Renzi e Laura Bovoli sarebbero stati, per la Procura, amministratori di fatto fino a giugno 2010. In questo caso, sempre secondo i pm, i due coniugi, con altri, avrebbero cagionato «il fallimento della società per effetto di operazione dolosa consistita nell’aver omesso sistematicamente di versare gli oneri previdenziali e le imposte, o comunque, aggravando il dissesto». Per quanto riguarda la “Europe Service”, fallita ad aprile 2018, invece i coniugi Renzi – considerati dalla Procura «amministratori di fatto fino a dicembre 2012» – sono accusati, con altri, di aver sottratto «con lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, i libri e le altre scritture contabili». C’è poi il caso della “Marmodiv”, cooperativa fallita con sentenza del Tribunale di Firenze il 20 marzo 2019. La bancarotta fraudolenta in questo caso viene contestata oltre che a Tiziano Renzi e Laura Bovoli, anche a Giuseppe Mincuzzi «presidente del cda fino al marzo 2018» e a Daniele Goglio «amministratore di fatto fino a marzo 2018» della “Marmodiv”. In aula, nelle due parti dell’udienza preliminare iniziata la scorsa settimana, Tiziano Renzi e Laura Bovoli non sono mai comparsi. A rappresentarli, c’erano i loro avvocati, tra i quali Federico Bagattini. «La decisione del gup era attesa visto il tipo di vaglio a cui è questo chiamato per legge. È però emerso già dalle carte la prova della infondatezza del castello accusatorio, il cui accertamento necessariamente dovrà avvenire in dibattimento. Confidiamo quindi di poter confutare la tesi inquisitoria in tale sede», spiegano gli avvocati.

Bancarotta fraudolenta, rinvio a giudizio per i genitori di Renzi. Il processo si svolgerà il prossimo 1 giugno dinanzi al tribunale di Firenze. Federico Garau - Mer, 10/03/2021 - su Il Giornale. Rinvio a giudizio per il reato di bancarotta fraudolenta, per questo motivo Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori del leader di Italia Viva, finiranno alla sbarra dinanzi al tribunale di Firenze il prossimo 1° giugno. Ai due è imputato il crack di tre cooperative a loro riconducibili oltre che la contestazione di emissione di fatture false. Un procedimento, questo, che vede comunque coinvolti a vario titolo altri sedici imputati a causa dei medesimi capi di imputazione. Durante l'udienza preliminare, svoltasi lo scorso 3 marzo, il pubblico ministero Luca Turco aveva depositato agli atti una articolata memoria integrativa di circa 40 pagine con lo scopo di consolidare le accuse contastate agli imputati coinvolti nella vicenda. Vicenda che era partita dalle indagini condotte sulla prima delle tre cooperative in esame, vale a dire la Delivery Service Italia, dichiarata fallita nel giugno del 2015. Secondo il pm Turco, l'azienda sarebbe stata amministrata di fatto da Tiziano Renzi e Laura Bovoli fino al giugno del 2010: per loro, quindi, l'accusa di bancarotta fraudolenta che portò ai domiciliari i genitori dell'ex premier nel febbraio del 2019 (misura revocata dal tribunale del Riesame dopo appena 18 giorni). Coinvolto nella vicenda in quanto parte del Cda della cooperativa, tra gli altri, anche Roberto 'Billy' Bargilli, autista del camper con cui Renzi pubblicizzò la sua candidatura per la carica di segretario del Pd alle primarie del 2012. Agli imputati viene contestato "il fallimento della società per effetto di operazione dolosa consistita nell'aver omesso sistematicamente di versare gli oneri previdenziali e le imposte, o comunque, aggravando il dissesto". Secondo tassello delle indagini la Europe Service, fallita nell'aprile del 2018: "amministratori di fatto fino a dicembre 2012", i coniugi Renzi sono accusati di aver fatto sparire "con lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, i libri e le altre scritture contabili". Segue poi il fallimento della Marmodiv (20 marzo 2019 – sentenza del tribunale di Firenze): le contestazioni, oltre ai due, raggiungono anche Giuseppe Mincuzzi, "presidente del cda fino al marzo 2018" e Daniele Goglio, "amministratore di fatto fino a marzo 2018". Questi ultimi, unitamente a Tiziano Renzi e Laura Bovoli, secondo il pm Turco,"concorrevano a cagionare il dissesto della società esponendo, al fine di conseguire un ingiusto profitto, nel bilancio di esercizio al 31 dicembre 2017, approvato dall'assemblea dei soci il 27 giugno 2018 nell'attivo patrimoniale, crediti per 'fatture da emettere' non rispondenti al vero per un importo superiore a 370 mila euro, così iscrivendo a conto economico maggiori ricavi ed evitando di evidenziare una perdita d'esercizio". I responsabili, prosegue il capo di imputazione riportato da "LaPresse", potevano "cedere all'amministratore di fatto Daniele Goglio la cooperativa ormai fortemente indebitata e Goglio poteva tenere la condotta distrattiva contestata". I coniugi Renzi e gli altri 6 imputati nella vicenda Marmodiv sono accusati anche dell'emissione di fatture "per operazioni...in parte inesistenti...al fine di consentire alla Eventi 6 l'evasione delle imposte sui redditi". Quest'ultima società (di cui facevano parte la madre e le sorelle di Matteo Renzi, non inserite tra gli indagati) si occupava di distribuzione di giornali e volantini. Per le fatture false emesse da Eventi 6 srl (per 140mila euro Iva esclusa) e da Party srl (20mila euro più Iva), entrambe società gestite dai due coniugi, nell'ottobre del 2019 Laura Bovoli e Tiziano Renzi furono condannati a 1 anno e 9 mesi di reclusione (pena poi sospesa) dal tribunale di Firenze. L'imprenditore Luigi Dagostino, accusato di emissione di fatture false e di aver pagato i due per lavori inesistenti, subì una condanna a 2 anni. Dopo la notizia del rinvio a giudizio, il legale dei Renzi Federico Bagattini ha così commentato: "La decisione del gup era attesa visto il tipo di vaglio a cui è questo chiamato per legge. È però emerso già dalle carte la prova della infondatezza del castello accusatorio, il cui accertamento necessariamente dovrà avvenire in dibattimento. Confidiamo quindi di poter confutare la tesi inquisitoria in tale sede".

Maria Elena Boschi. Da Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2021. «Io sono sempre pacata, ma arriva un momento in cui bisogna dire basta. Voi avete creato la macchina del fango e noi la subiamo. Ma non ci fate paura, non ci avete fatto niente e siamo ancora qui». Così la deputata di Italia viva Maria Elena Boschi ha concluso il suo intervento alla Leopolda 2021 commuovendosi.

Boschi: «Stritolata nel fango mediatico per anni, ma sono ancora qui». Maria Elena Boschi si commuove sul palco della Leopolda: «La macchina del fango l’hanno fatta loro, i Casalino, Di Maio, "la bestia" di Morisi e Salvini, e noi l’abbiamo subita, ma non ci fanno paura». Il Dubbio il 21 novembre 2021. Un lungo applauso con standing ovation alla Leopolda per la chiusura dell’intervento di Maria Elena Boschi, che si è commossa per il tributo che ha ricevuto dalla platea. «C’ è un momento in cui si raggiunge un limite, basta. La macchina del fango l’hanno fatta loro e noi l’abbiamo subita. Ma non ci avete fatto niente. Continueremo a combattere, non ci arrendiamo», ha detto Boschi. «Vi ringrazio per l’affetto», ha commentato salutando «la comunità della Leopolda». «Sono stata massacrata per anni e ci sono delle responsabilità precise: i responsabili politici sono quelli che hanno lucrato su questo, i populisti. Qual era la verità lo sapeva la stampa e lo sanno i signori della politica che hanno ridotto Mps nelle condizioni in cui è, e sono gli stessi di quella sinistra che hanno fatto la guerra dentro e fuori, D’Alema e i suoi amici», ha detto la capogruppo di Iv alla Camera citando la vicenda del crac di Banca Etruria, nella quale il padre Pier Luigi è stato coinvolto, ma poi la sua posizione è stata archiviata. Boschi ha parlato di «macchina del fango di Casalino e Di Maio, fatta volontariamente e coscientemente». «La macchina del fango l’hanno fatta loro – ha ribadito – i Casalino, Di Maio, “la bestia” di Morisi e Salvini, e noi l’abbiamo subita, ma non ci fanno paura: siamo ancora qui e continueremo a batterci per le nostre idee. È l’ora di dire basta, Basta!». «La mia figura pubblica è stata compromessa, è irrecuperabile. Sono stata massacrata, stritolata nella gogna mediatica, attaccata dalla macchina del fango. Ma gli è andata male, perché siamo ancora qui – ha affermato tra l’altro Boschi – Noi non siamo come “la bestia”, noi non siamo bestie. C’è stata una campagna social organizzata scientificamente per screditarmi. Hanno cercato di massacrarmi come persona, come donna, perché non riuscivano ad attaccarmi come parlamentare. Ma la politica mi ha dato tanto, soprattutto grazie alla Leopolda». «Trovo un pò vigliacco il silenzio di qualche ingrato – ha aggiunto Boschi – però rispetto le loro scelte. Io sono ancora qua. Io la faccia ce la metto ancora, e siano ancora più convinti di stare dalla stessa parte con Matteo Renzi. Qualcuno dice che la Leopolda è un’associazione a delinquere. Io sono orgogliosa della Leopolda perché è un vivaio di idee e proposte per salvare il Paese».

"La macchina del fango dei populisti". Maria Elena Boschi, le lacrime dopo la gogna: “Massacrati da Salvini e Di Maio, mio padre archiviato”. Redazione su Il Riformista il 21 Novembre 2021. Prima la Bestia di Morisi e Salvini, poi quella di Casalino e Di Maio. E’ una Maria Elena Boschi che si commuove alla fine del suo intervento sul palco della Leopolda, nella giornata conclusiva dell’undicesima edizione dell’evento ideato e lanciato da Matteo Renzi. La capogruppo di Italia Viva alla Camera ripercorre il calvario giudiziario del padre e la gogna mediatica e le numerose fake news a cui è stata sottoposta nel corso degli ultimi anni dalle forze politiche rivali. “Chi vuole andare con Salvini e Meloni o con Conte e Taverna è libero di farlo, noi saremo sempre contro i populisti” ha chiarito. Poi rincara la dose tornando sul crac di Banca Etruria che ha coinvolto il padre (all’epoca vicepresidente per poco meno di un anno), la cui posizione è stata archiviata: “Sono stata massacrata per anni e ci sono delle responsabilità precise: i responsabili politici sono quelli che hanno lucrato su questo, i populisti. Qual era la verità lo sapeva la stampa e lo sanno i signori della politica che hanno ridotto Mps nelle condizioni in cui è, e sono gli stessi di quella sinistra che hanno fatto la guerra dentro e fuori, D’Alema e i suoi amici“. “Noi – chiarisce – i risparmiatori li abbiamo tutelati con la riforma delle banche popolari che era stata scritta 17 anni prima dal direttore generale del Tesoro, Mario Draghi e che era stata scritta dall’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. Noi l’abbiamo fatta – aggiunge – e la responsabilità per i risparmiatori e chi ci ha rimesso in quella situazione è della politica che non ha fatto le riforme negli anni precedenti, degli organi di controllo, e una parte della stampa che ha taciuto su questi scandali”. Secondo la ex ministra “era molto più facile dare la responsabilità a mio padre che è stato 11 mesi vicepresidente di una banca molto più piccola del territorio che era già in crisi. Ci sono voluti anni, ma mio padre è uscito da quei processi, è fuori da tutto, è stato assolto. Nessuno gli restituirà certi anni. Mio padre è uscito dai processi ma la sua dignità è stata compromessa in modo insuperabile“. “Una macchina del fango” portata avanti da “Casalino e Di Maio”, “fatta volontariamente e coscientemente per screditarmi“, aggiungendo che “hanno cercato di massacrarmi come donna e persona perché non ci riuscivano sul merito, sul mio lavoro parlamentare”. “Ma non ci fanno paura – ha aggiunto- siamo ancora qui e continueremo a batterci per le nostre idee. E’ l’ora di dire basta, Basta! Noi non siamo come ‘la bestia’, noi non siamo bestie“. “Trovo un po’ vigliacco il silenzio di qualche ingrato – ha proseguito la Boschi – però rispetto le loro scelte. Io sono ancora qua. Io la faccia ce la metto ancora, e siano ancora più convinti di stare dalla stessa parte con Matteo Renzi. Qualcuno dice che la Leopolda è un’associazione a delinquere. Io sono orgogliosa della Leopolda perché è un vivaio di idee e proposte per salvare il Paese”. Un lungo applauso ha accompagnato la chiusura del suo intervento.

Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 10 marzo 2021. Festa della donna amara per Maria Elena Boschi. L'ex ministro per le riforme costituzionali del governo Renzi, mentre l' Italia ricordava il ruolo delle donne e si indignava contro i femminicidi e i soprusi riservati al gentil sesso, con la massima riservatezza si è ritrovata costretta a presentare una denuncia per stalking. Mail sgradevoli, attacchi sul profilo Instagram e tentativi di chiamate presso la propria segreteria.

LE MOLESTIE. Da settimane la capogruppo di Italia Viva presso la Camera dei deputati si è ritrovata molestata da un personaggio per ora rimasto sconosciuto. Dopo il deposito della denuncia la Boschi come qualsiasi vittima di un reato di violenza di genere, è stata convocata dalla polizia giudiziaria. Ieri, entro i cinque giorni dalla presentazione della querela previsti dal Codice Rosso, l' ex ministra è stata ascoltata a piazzale Clodio, in presenza del magistrato titolare delle indagini, il pm Stefano Pizza.

IL PRECEDENTE. Non è la prima volta che l' ex ministra del governo Renzi nonché sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con Gentiloni si ritrova a denunciare di essere vittima di stalking. Un uomo che l' ha molestata a lungo nel 2017 è stato condannato a due anni e due mesi di carcere. Giuseppe Dragone, 45 anni, disoccupato di Pozzuoli, sosteneva di essere innamorato della bella politica, da lui mai vista di persona. Ma, in realtà, era spinto solo dalla rabbia, dal desiderio sfrenato di disturbare, tentare di provocare reazioni così l' aveva bersagliata di mail prima piene di avances e poi di minacce, sempre più deliranti. «Ti ho dato due numeri miei», aveva preso a scrivere, a fine 2015. «Se vuoi te ne posso dare altri. Spiegami. Chiariamoci. Ho visto che mi vuoi fare arrestare». Più di mille messaggi in pochi mesi. In questo caso la Boschi aveva deciso di denunciare l' ammiratore potenzialmente pericoloso solo quando le invadenze erano diventate farneticanti. «Tu sei il mio fiore. Ti amo», «Ma ti devo ammazzare». Oppure «Amore non posso credere a quello che hai fatto... tu sai che ti ho amata. Non metterti contro di me che hai la peggio... se mi chiedi scusa mi ridai la macchina...un bacio alla bambina».

L' ARRESTO. Il disoccupato innamorato era stato arrestato il 3 novembre 2016 a Firenze mentre già pendeva una misura di custodia cautelare nei suoi confronti. Il pm di Roma Maria Gabriella Fazi e l' ex aggiunto Maria Monteleone avevano richiesto la misura di divieto di avvicinamento e il divieto di contatti anche attraverso il web. I molestatori di personaggi pubblici, meglio se giovani e donne, sono diversi e in aumento. Lontane a livello politico, ma legate dallo stesso destino: anche Giorgia Meloni leader di Fratelli d' Italia, come Maria Elena Boschi, ha denunciato un suo persecutore e ne ha ottenuto la condanna a due anni, appena confermati in appello. Il quarantenne campano, Raffaele Nugnes, pretendeva che Giorgia Meloni lo incontrasse e lo riconoscesse come padre della figlioletta. E quindi pubblicava sui social video e messaggi nei quali lanciava appelli insensati: «Se non mi fai incontrare la bambina, sai che ti accadrà». In un caso ha persino confidato a un familiare che avrebbe fatto una strage.

I POST SU INSTAGRAM. La deputata Boschi si è ritrovata più volte bersaglio di hater. A febbraio, in suo soccorso, dopo post sgradevoli sul profilo Instagram, per una innocente foto in costume carnevalesco con la nipote, era accorso il fidanzato, l' attore Giulio Berruti con un cuoricino. Gli odiatori della rete pochi mesi prima invece si erano scatenati per una foto postata (non da lei) durante una gita in barca a Ischia. Nel mirino la frangetta e i pantaloncini. Ora il nuovo filone di indagine nei confronti di un molestatore divenuto troppo molesto.

"Ero insicura di andare a correre o a fare la spesa". Boschi racconta l’ossessione del suo stalker: “Si preoccupava della mia morte” Redazione su Il Riformista l'11 Marzo 2021. E’ iniziato tutto lo scorso settembre “con un messaggio cortese” ma poi “è stata una escalation”. Al Corriere della Sera Maria Elena Boschi, capogruppo di Italia viva, racconta la denuncia per stalking che qualche giorno fa è stata costretta a presentare alla procura di Roma per mettere fine all’ossessione di un uomo nei suo confronti. L’ex ministra riceveva “messaggi quotidiani e in molte occasioni anche vari nello stesso giorno e che mostrano uno scarso equilibrio di chi li scrive”. Messaggi che “variano molto, dalla preoccupazione ossessiva per la mia sicurezza alla pseudo attrazione fisica nei miei confronti, fino al pensiero della mia morte”. Dai messaggi alla presenza fisica, Boschi racconta: “Ho aspettato a lungo, ma a un certo punto la situazione si è aggravata. La molla è stata il fatto che si recasse nei luoghi che frequento a Roma e non solo a Roma. In questi casi è bene denunciare per bloccare un ulteriore peggioramento. Non si sa mai fino a che punto possano spingersi”. “Rispetto a molte altre donne sono sicuramente fortunata per l’attenzione che c’è sulla mia sicurezza personale, legata anche al ruolo pubblico che ricopro – afferma la Boschi – Tuttavia, non sentirsi sicure nel fare una corsa da sola la mattina presto o banalmente andare a fare la spesa al supermercato non è una bella sensazione. Sei costretta a cambiare la tua quotidianità. E io sono stata anche fortunata rispetto a tutte quelle donne che hanno dovuto subire di peggio, perché, purtroppo, non sempre chi molesta si ferma alle minacce. Negli ultimi anni ci sono stati vari episodi simili, più o meno gravi, di cui ho sempre cercato di non parlare, anche per evitare effetti emulativi. Anche stavolta avrei evitato se la notizia non fosse finita sui giornali e non certo per causa mia. Questa però può essere un’occasione per incoraggiare altre donne a non sottovalutare e a denunciare. Perché solo così si può cercare di porre fine alle persecuzioni”. ”Gli episodi di stalking che ho subito – conclude la Boschi – vanno avanti dal 2014, anche se con soggetti diversi. Ciò premesso, pensare che qualcuno sia legittimato per qualsiasi motivo a minacciarti e ossessionarti è assurdo e vergognoso. Finché si continuerà a pensare che le donne ‘se la cercano’ non cambieremo mai una cultura violenta e maschilista. E lo dico con preoccupazione non tanto per me, che sono comunque fortunata perché ho più possibilità di difendermi, ma per tante donne molto più fragili e sole”.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" l'11 marzo 2021. La capogruppo di Italia Viva, Maria Elena Boschi, qualche giorno fa ha presentato una denuncia per stalking alla procura di Roma: email, telefonate, attacchi al suo profilo Instagram da un uomo che lei non conosceva personalmente.

Onorevole, da quanto la perseguitava il suo stalker?

«Da inizio settembre. Ha iniziato, come spesso accade, con un messaggio cortese e, poi, è stata una escalation».

Erano messaggi inquietanti?

«Intanto erano messaggi quotidiani e in molte occasioni anche vari nello stesso giorno. E poi sono messaggi che mostrano uno scarso equilibrio di chi li scrive: variano molto, dalla preoccupazione ossessiva per la mia sicurezza alla pseudo attrazione fisica nei miei confronti, fino al pensiero della mia morte. Ho aspettato a lungo, ma a un certo punto la situazione si è aggravata. La molla è stata il fatto che si recasse nei luoghi che frequento a Roma e non solo a Roma. In questi casi è bene denunciare per bloccare un ulteriore peggioramento. Non si sa mai fino a che punto possano spingersi».

Ha avuto paura per la sua incolumità fisica?

«Rispetto a molte altre donne sono sicuramente fortunata per l'attenzione che c'è sulla mia sicurezza personale, legata anche al ruolo pubblico che ricopro. Tuttavia, non sentirsi sicure nel fare una corsa da sola la mattina presto o banalmente andare a fare la spesa al supermercato non è una bella sensazione. Sei costretta a cambiare la tua quotidianità. E io sono stata anche fortunata rispetto a tutte quelle donne che hanno dovuto subire di peggio, perché, purtroppo, non sempre chi molesta si ferma alle minacce».

Le era già successo un episodio di stalking? Secondo lei un personaggio pubblico, se è donna, attira più molestatori rispetto a un uomo?

«Purtroppo non è la prima volta. Negli ultimi anni ci sono stati vari episodi simili, più o meno gravi, di cui ho sempre cercato di non parlare, anche per evitare effetti emulativi. Anche stavolta avrei evitato se la notizia non fosse finita sui giornali e non certo per causa mia. Questa però può essere un'occasione per incoraggiare altre donne a non sottovalutare e a denunciare. Perché solo così si può cercare di porre fine alle persecuzioni. Non si deve restare inermi o aver paura di denunciare un uomo che entra in modo prepotente e violento nella propria vita. Mi rivolgo alle donne perché i numeri parlano chiaro: è molto più raro che la vittima di stalking sia un uomo».

Lei ha attirato molti hater anche sui social, e c'è chi a questo proposito la accusa perché la sua storia d'amore viene paparazzata.

«Io e il mio fidanzato veniamo spesso seguiti dai fotografi che aspettano sotto casa che usciamo, e quindi, a meno di non vivere chiusi in casa, non abbiamo molta scelta. Ad ogni modo, purtroppo, gli episodi di stalking che ho subito prescindono dalla mia relazione. Vanno avanti dal 2014, anche se con soggetti diversi. Ciò premesso, pensare che qualcuno sia legittimato per qualsiasi motivo a minacciarti e ossessionarti è assurdo e vergognoso. Finché si continuerà a pensare che le donne "se la cercano" non cambieremo mai una cultura violenta e maschilista. E lo dico con preoccupazione non tanto per me, che sono comunque fortunata perché ho più possibilità di difendermi, ma per tante donne molto più fragili e sole».

Ritiene che la legge sullo stalking sia una garanzia di sicurezza sufficiente?

«Avere questa legge, come quella sul femminicidio, è già un grande risultato. Il vero investimento però è quello sull'educazione alla parità di genere e al rispetto dell'altro in generale. Per questo, anche da ministra alle Pari opportunità, ho insistito per finanziare progetti nelle scuole. Solo superando la cultura maschilista e con il coinvolgimento anche degli uomini, fin da piccoli, potremo vincere questa battaglia».

Estratto dell’articolo di Antonella Mascali per il “Fatto quotidiano” il 12 marzo 2021. Antonella Manzione, una donna per tutti i governi in cui c'è Matteo Renzi. Da capo dei vigili urbani di Firenze, quando Renzi era sindaco, a Palazzo Chigi, e poi al Consiglio di Stato, quando Renzi era presidente del Consiglio, a breve dovrebbe diventare la responsabile dell'Ufficio legislativo del ministero delle Pari opportunità e della Famiglia, guidato dalla ministra Elena Bonetti di Italia Viva, il partito di Renzi, anche stavolta al governo. Sarà il plenum del Cpga, il Csm del Consiglio di Stato, a dover autorizzare Manzione. Nei giorni scorsi, come risulta al Fatto Quotidiano, la ministra Bonetti ha inviato la sua richiesta al presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi […] Dal 2010 al 2013, Manzione fu comandante della polizia municipale di Firenze, fedelissima dell'allora sindaco Renzi che poi la nominò, per un anno, direttore generale del Comune. Quando, nel 2014, Renzi diventa presidente del Consiglio, […] Antonella Manzione lo segue a Palazzo Chigi come potente capo dell'Ufficio legislativo e il fratello Domenico, magistrato, viene nominato sottosegretario all'Interno: evidentemente il renzismo è una passione di famiglia. Ma torniamo alla consigliera di Stato.  […] Ora Manzione si appresta a lavorare al ministero guidato dalla renziana Bonetti, senza neppure l'obbligo del fuori ruolo.  

Teresa Bellanova. Estratto dal "Corriere della Sera" il 18 marzo 2021. […] Teresa Bellanova, ex ministra renziana dell' Agricoltura nel Conte 2 e dimissionaria per innescare la crisi di governo, ha una storia forte da raccontare. Non di distruzione e autodistruzione ma di ribellione e crescita personale. Da bracciante nei campi a sindacalista di quel mondo e infine addirittura parlamentare e donna di governo. Ma spiega che non è meno sorprendente la sua storia privata, l' amore con Abdellah, giovane interprete marocchino incontrato a Casablanca. Che non esitò a lasciare tutto per volare in Italia e sposarla. […]

Da notizie.it il 18 marzo 2021. Terza donna nella storia alla guida del Ministero dell’Agricoltura, Teresa Bellanova ha un figlio nato nel 1991, Alessandro El Motassime. […] approdata in Cgil dopo aver iniziato a lavorare come bracciante cercando di contrastare la piaga del caporalato in Puglia, la Bellanova è sposata con Abdellah El Motassime, conosciuto proprio nel corso di una missione del sindacato in Marocco, dove l’uomo le faceva da traduttore. La coppia sembra molto affiatata, anche se Teresa Bellanova cerca di mantenere il più stretto riserbo sulla sua vita privata. Del figlio per esempio, come riporta l’Agi, “non parla molto e tantomeno ama vantarsi, perché (come ha dichiarato) non ritiene che essere genitori sia di per sé un merito”. In pochi quindi si sono accorti della presenza dei familiari di Bellanova il giorno del suo giuramento al Quirinale, visto che i più si sono concentrati soprattutto sul look scelto dal ministro. Tra i presenti c’era sicuramente anche Alessandro, che sembra aver colpito molto in particolare la giornalista Lilli Gruber la quale, alla prima occasione, quando Teresa Bellanova è stata sua ospite a Otto e Mezzo, non ha mancato di complimentarsi sottolineando: “E’ un gran bel figliolo”. Di Alessandro si sa quindi solo che studia medicina mentre il marito Abdellah El Motassime dovrebbe continuare a fare il lavoro di traduttore. Su Facebook l’uomo si limita a svelare che ha studiato presso la Facoltà di Scienze e Tecniche Psicologiche dell’Università del Salento, e naturalmente che è sposato con Teresa Bellanova.

Teresa Bellanova: "Con mio marito Abdellah un colpo di fulmine a Casablanca". Dall'abito azzurro del giuramento all'incontro col marito, passando per il lavoro nei campi: il racconto di Teresa Bellanova al Corsera. Francesca Galici - Dom, 21/03/2021 - su Il Giornale. Dai campi a Palazzo Chigi, passando per un viaggio improvvisato a Casablanca che le ha cambiato la vita. Si potrebbe riassumere così, per sommi capi, la vita di Teresa Bellanova, che a quasi due mesi dalle dimissioni dal governo Conte bis si è raccontata in una lunga intervista concessa al Corriere della sera per l'inserto Sette. Il "ministro con la terza media", com'è stata spesso chiamata, ha spiegato perché non ha proseguito gli studi: "Avrei dovuto iscrivermi alle superiori ma dopo gli esami di terza media mia mamma si ammala e, con mio papà in Svizzera a finire di pagare le cambiali del terreno in cui aveva iniziato a lavorare da mezzadro, devo badare a lei e al resto della famiglia". Non ha un ricordo del suo ultimo giorno di scuola ma ce l'ha dell'incontro a Casablanca con l'uomo che sarebbe poi diventato suo marito. Quello in Marocco era un viaggio di lavoro al quale lei non avrebbe dovuto partecipare ma la persona scelta dalla Federbraccianti, dove Teresa Bellanova ai tempi lavorava, rinunciò all'ultimo. Al congresso del sindacato del tabacco era attesa la delegazione italiana e così fu scelta l'ex ministro, che non poteva immaginare l'epilogo che avrebbe poi avuto quella vicenda. "Appena atterrata a Casablanca ad accogliermi, oltre alla delegazione del sindacato marocchino, c’è questo giovane interprete, figlio di un importante dirigente del monopolio nazionale del Marocco. Ci conosciamo, rimaniamo in contatto, io vado in Marocco per le vacanze ad agosto, stiamo insieme. Io però gli dico che non avrei voluto lasciare l’Italia", racconta Teresa Bellanova, che in Italia si stava facendo largo a suo di battaglie per i lavoratori all'interno del sindacato. Ma Abdellah El Motassime non si dà per vinto e così "qualche mese dopo, il 28 dicembre del 1989, tornerà in Italia con un biglietto di sola andata per stare con me". Un vero colpo di fulmine tra loro, anche se Teresa Bellanova non nega di aver avuto molte difficoltà nel primo periodo: "Abdellah ha lasciato una posizione di privilegi e una carriera già avviata per ricominciare lontano da casa sua insieme a me, senza poter fare affidamento su nulla. In Puglia ha ricominciato a studiare, partendo dalla licenza media. Non abbiamo mai chiesto favori, abbiamo vissuto con il mio lavoro. Qualche tempo dopo sono rimasta incinta del nostro gioiello, Alessandro". Prima di entrare nel sindacato, dopo aver lasciato la scuola, Teresa Bellanova ha iniziato a lavorare nei campi: "Sveglia all’alba, turni di lavoro interminabili, fino al tramonto. Diritti zero". Ha lavorato, poi, nei magazzini per l'incassettamento dell'uva, "Tutta la vita concentrata in pochi metri quadri: la frutta, le cassette, i letti del dormitorio e un fornello per cucinarsi qualcosa, tutto assieme. Non era detto che quello fosse il mio destino, sia chiaro". Oggi, Teresa Bellanova rivendica con orgoglio la militanza nel Pci, che l'ha quindi portata a sostenere Gianni Cuperlo al Congresso. Questo non le ha ostacolato l'ingresso come sottosegretario nel governo di Matteo Renzi e a proposito del leader di Italia viva, che Teresa Bellanova ha deciso di seguire uscendo dal Pd, l'ex ministro dell'Agricoltura ha ricordato la conferenza con la quale è di fatto iniziata la crisi del governo Conte: "Matteo ci chiede di intervenire per prime. E noi: no, introduci tu. Nessun atto di prepotenza, anzi. Forse sono stata poco lucida io in quel momento: avremmo dovuto parlare di più, o quantomeno iniziare noi la conferenza stampa come ci aveva chiesto". Se quella conferenza stampa ha sancito la sua uscita dal governo, Teresa Bellanova ha ricordato con il Corsera come tutto è iniziato: "I giornali avevano scritto che sarei diventata ministra anche dopo le dimissioni di Federica Guidi, anni prima. Io dicevo “guardate che non succede”, infatti non era successo. Poi, quando nasce il governo Conte, stessa storia. I giornali lo scrivono, io non ci credo". L'occasione per ricordare la chiamata di Matteo Renzi è l'ormai ben noto abito blu elettrico, che ha fatto molto discutere nel giorno del suo giuramento. "Chiama Renzi. 'Teresa, dove sei?'. 'A Lecce', rispondo, 'perché?'. E lui: 'Ma che ci fai a Lecce? Corri a Roma, devi giurare da ministra'. Mi precipito con Abdellah, entriamo in un negozio per comprare in fretta e furia un vestito ed eccolo là, lo vedo e me ne innamoro". L'abito piace a lei e a suo marito, così lo acquista per il giuramento: "Però mi sta largo, le maniche andrebbero sistemate ma tempo per fare correzioni sartoriali non ce n’è. 'Vabbè, lo metto così com’è'. Il resto lo conoscete".

·        Furono Radicali.

Una storia al plurale. Finalmente un libro sul Partito radicale che non racconta solo la vita di Pannella. Carmelo Palma su l'Inkiesta il 20 novembre 2021. Il libro di Gianfranco Spadaccia (pubblicato da Sellerio) non si limita a tracciare un profilo del più importante esponente di quell’area: dal 1955 al 2013 ci sono stati molti protagonisti e molte battaglie che hanno cambiato la società italiana, ma non erano mai state raccontate in questo modo. La storia del Partito Radicale dal 1955 al 2013, scritta da Gianfranco Spadaccia e pubblicata da Sellerio, è un libro molto personale, che nasce da una esigenza avvertita dall’autore come una mancanza oggettiva e una responsabilità soggettiva: la mancanza di una vera storia radicale, cioè di un libro che metta in ordine le vicende del partito che è stato, indiscutibilmente, di Pannella, ma non solo di Pannella; e la responsabilità di provvedervi da una posizione particolare e scomoda, quella di personaggio eminente della storia raccontata. Il libro inizia da un ricordo personale: la pubblicazione sul Mondo, nel 1955, dell’elenco dei promotori del Partito radicale, tra cui compariva proprio il ventenne Spadaccia, accanto ad alcuni padri nobili della sinistra liberale e della cultura azionista e insieme a molti dirigenti ed ex dirigenti dell’Ugi (Unione goliardica italiana), tra cui il venticinquenne Marco Pannella.

Da questa memoria si dipana una cronologia fittissima e spesso nudamente cronachistica: elenchi di nomi, di luoghi e di eventi, accompagnati da alcune impressioni, in genere poco più che abbozzate.

Spadaccia corrisponde insomma a questa urgenza e provvede a questo compito di raccontare la storia radicale senza la pretesa di imporre una lectio storiografica, ma con un metodo quasi annalistico e con un impegno documentario scrupolosissimo (assolto anche grazie alla preziosa collaborazione di Silvja Manzi).

Così emergono ed escono alla luce volti e personalità radicali note e meno note, ma essenziali per ricostruire il senso di una storia complessa, che in modo troppo sbrigativo la vulgata giornalistica riduce esclusivamente alla biografia politica pannelliana.

Ne viene fuori una immagine del Partito radicale lontanissima da quella di una mera propaggine organizzativa del leader carismatico o di una setta (altro stereotipo antipatizzante, usato contro i radicali), unita da rapporti di fedeltà e devozione personale e dilaniata da rivalità e inimicizie altrettanto personali.

La storia radicale infatti è stata, sia al proprio esterno che al proprio interno, una storia di rotture con fortissime motivazioni politiche e di polemiche che si possono considerare spesso eccessive, ma raramente pretestuose.

Lo scandalo che ripetutamente i radicali hanno rappresentato nella politica italiana si è riprodotto anche negli scontri interni al partito, che negli anni hanno allontanato definitivamente o temporaneamente da Pannella praticamente tutti i padri della storia radicale, compreso Spadaccia, con pochissime eccezioni: Angiolo Bandinelli e Sergio Stanzani, quelle più note.

L’imprinting – questo sì, specificamente pannelliano – della politica come forma di vita e della coincidenza tra passione e militanza ha sempre fatto sì che fra i radicali le divisioni politiche sfociassero in dissidi personali e ha reso impossibile separare le une dagli altri; ma dietro ogni eresia – posto che quella pannelliana potesse qualificarsi sempre come una ortodossia – si esprimeva una differenza politica autentica, una vera diversità di visione e di prospettiva.

Il fatto è che quello radicale, come diceva Pannella un po’ attingendo e un po’ facendo il verso al lessico gramsciano, è stato certamente un “intellettuale collettivo”, ma non nel senso leninistico del termine, bensì in quello individualistico di un insieme di personalità, spesso di fortissima caratura culturale e intelligenza politica, unite da un obiettivo comune, ma molto gelose della propria autonomia e delle proprie idee.

Questo scontro incandescente di figure e di caratteri ebbe inizio nel primo Partito radicale (1955 – 1963), quello a leadership non pannelliana, ad esempio con il contrasto violentissimo tra Mario Pannunzio e Ernesto Rossi sul caso Piccardi ed è proseguito fino alla morte di Pannella e anche in seguito, con quella sorta di sfratto politico e simbolico di Emma Bonino dalla sede storica di via di Torre Argentina (episodio assente nel libro, che si ferma al 2013, tre anni prima della morte di Pannella).

La partizione del libro segue la cronologia delle vicende radicali secondo un ordine tematico abbastanza canonico e coerente con l’autorappresentazione della storia radicale fatta più volte dallo stesso Pannella: la stagione del Mondo; quella dei diritti civili; la prospettiva dell’alternativa di sinistra e l’opposizione all’unità nazionale e al compromesso storico; la battaglia internazionale per i diritti umani e il passaggio al trasnazionale; la lotta per la giustizia giusta e la riforma antipartitocratica del sistema politico e delle istituzioni; la diaspora radicale, l’attraversamento della Seconda Repubblica e i rapporti con Berlusconi e con Prodi.

Infine c’è la fase più evidentemente profetica e (termine che Spadaccia rifiuterebbe) post-politica della leadership pannelliana, con le battaglie sui diritti dei detenuti e per il diritto alla conoscenza e la denuncia del cuore della crisi democratica nazionale e internazionale – poi sfociata nel trionfo populista e sovranista – nel ripudio dei fondamenti dello Stato di diritto e del principio del “conoscere per deliberare” da parte delle cosiddette élite democratiche.

Dopo la morte di Pannella, l’area radicale si è suddivisa in una pluralità di sigle e organizzazioni (il Prttn, Radicali italiani, Associazione Luca Coscioni, Nessuno Tocchi Caino, Non c’è pace senza giustizia…) ostili e non comunicanti, che già nell’ultima fase della vita di Pannella erano ormai prive di un punto di unità e che rendono quindi molto ragionevole la scelta di Spadaccia di concludere la sua ricostruzione storica in una data anteriore a quella della definitiva conflagrazione della “galassia radicale”.

Questa scelta ha comportato inevitabilmente il sacrificio del racconto e dell’analisi sul rapporto tra i radicali (e Pannella) e i fenomeni populisti e sovranisti che hanno caratterizzato la politica interna e internazionale dal 2013 in poi, ma in una appendice che chiude il libro e che è dedicata proprio alla «peste italiana» – come Pannella definiva la potenza contagiosa della degenerazione partitocratica – Spadaccia mette in guardia dal rischio di riconoscere nel populismo grillino un compagno di viaggio o un continuatore della lotta radicale contro la partitocrazia, per la legalità e lo stato di diritto.

Rischio che avverte incombente in una parte di quel che rimane oggi del mondo radicale organizzato, del quale Spadaccia denuncia, in tutte le sue componenti, «confusione di linguaggi e povertà di idee» che «in alcuni si manifesta con una fedeltà solo letterale alle analisi e ai giudizi del passato fino a volte a diventare fideistica, e, in altri, all’opposto, in una pericolosa deriva anarchicheggiante che sostituisce il rigoroso ancoraggio ai principi liberaldemocratici, che ha caratterizzato il nostro libertarismo in tutta la storia radicale».

Nel complesso, si può dire che dal libro di Spadaccia esca fuori una storia al plurale, molto più complessa di come è stata finora rappresentata e molto più popolata di quanto continua ad apparire ai più un partito sempre oscillante tra la vocazione minoritaria e solitaria e le ambizioni maggioritarie del suo leader. Questo è forse il contributo più prezioso che il volume offre rispetto a una materia giornalisticamente molto equivocata e storiograficamente, per la stessa ragione, ingiustamente negletta. 

Marcello Sorgi per “La Stampa” l'11 novembre 2021. Dici: radicali. E subito ti viene da pensare a Marco Pannella, il padre padrone, scomparso 5 anni fa, del piccolo partito che ha rivoluzionato la politica italiana. Divorzio, aborto, antimilitarismo, legalizzazione delle droghe leggere, umanizzazione delle carceri, lotta alla fame nel mondo, no al fermo di polizia: non basterebbe una pagina intera per ricordare tutte le battaglie in difesa dei diritti civili. Mancava, in effetti, una storia degli oltre sessant' anni del Partito radicale. E ora che Gianfranco Spadaccia ne pubblica una monumentale (Il partito radicale, Sellerio), la sorpresa è il malcelato tentativo di non ridurre tutto a una «Pannelleide». Non per lasciare in ombra Marco, ci mancherebbe. Ma l'obiettivo - assolutamente centrato - è rileggere la vicenda come tentativo di rompere la tenaglia conservatrice dei partiti tradizionali, in un momento in cui premeva il desiderio di cambiamento della società e una politica sorda, prigioniera dei propri schemi, al contrario frenava. A dicembre 1955 la nascita di quello che Paolo Mieli ha definito «l'unico partito liberale popolare e non elitario» si deve a un gruppo composto da tre ceppi: gli azionisti Valiani e Parri (presidente del Consiglio di uno dei primi governi post-fascisti), il gruppo della sinistra liberale, raccolto attorno al Mondo di Pannunzio, e i giovani provenienti dalle organizzazioni universitarie Ugi e Unuri, tra cui Pannella e, a diverso titolo, Craxi e Occhetto. Costruire un'alternativa laica e di sinistra, mandare all'opposizione la Dc, l'eterno e inamovibile partito di governo. E realizzarla, quest' alternativa, a partire proprio dalla modernizzazione del Paese e dalla piena attuazione della Costituzione, contro ogni resistenza e conservatorismo: questa, spiega Spadaccia, è sempre stata la strategia del Pr. Sembra utopia. I radicali, già nel '65, convocano un convegno a Roma per confrontarsi con tutta la sinistra sul divorzio e sull'ipotesi di usare lo scioglimento legale del matrimonio come grimaldello per creare le basi dell'alternativa. Ma il primo «no», il più pesante, viene dal Pci, preoccupato di guastare i rapporti con i cattolici e con il Vaticano. Eppure, solo 5 anni dopo, la legge sul divorzio sarà approvata in Parlamento con i voti di un largo fronte (Pri, Psdi, Psi, Pli e Pci), e la Dc e i neofascisti del Msi all'opposizione. Lo stesso schieramento, con l'inatteso aiuto dei «cattolici del No» e il mal di pancia dei comunisti, che avrebbero preferito evitare il referendum, otterrà la vittoria il 13 maggio 1974. È un'incredibile svolta, destinata a entrare nella storia. E a realizzare per la prima volta nelle urne il sogno della Dc in minoranza. L'uomo che sale sul palco di piazza Navona - dove a suonare e a cantare per il divorzio si sono avvicendati Guccini, Dalla, Venditti, De Gregori, Bennato, Battiato, Sorrenti, in una kermesse che anticipa l'impegno delle grandi star al fianco dei leader democratici di tutto il mondo - è l'ombra di sé stesso. Pannella si è autoimposto un digiuno di protesta contro il diritto negato - e più tardi simboleggiato dall'apparizione in video imbavagliato - di poter avere accesso alla Rai. A malapena si regge in piedi, dopo 42 giorni senza cibo. Ha appena fiato per dire, citando Rimbaud, che il gusto della politica sta «in un ragionevole sconvolgimento di tutti i sensi». Impiegherà settimane a riprendersi, mentre gli bolle già in testa la successiva campagna per gli otto referendum. In piazza, ma con minor entusiasmo, festeggia anche il Pci. «Ce tocca vince pure pe' sti stronzi», scrive Maurizio Ferrara in un sonetto dedicato a Paolo Bufalini, il dirigente comunista che fino all'ultimo, invano, in Vaticano, ha cercato un compromesso con i cardinali per evitare il voto. Le nuove consultazioni sono, da un lato, la logica prosecuzione del riconoscimento laico di diritti civili da conquistare, l'aborto e l'abolizione del Concordato tra Stato e Chiesa. Ma c'è anche la materia, resa incandescente dallo scandalo dei contributi occulti dei petrolieri, del finanziamento dei partiti; l'abolizione della Commissione Inquirente (in realtà uno schermo per processi solo politici a membri del governo) e della legge Reale che inasprisce il fermo di polizia, limitando le garanzie per gli imputati; la legalizzazione delle droghe leggere. I radicali, nel frattempo sono entrati in Parlamento: Pannella Mellini, Adele Faccio e Emma Bonino i primi deputati, record di ostruzionismo con interventi che durano giorni e notti intere, si presentano alle celebrazioni del trentennale della Costituzione. E sotto gli occhi sbigottiti di Moro e Berlinguer srotolano uno striscione: «La celebrate, ma l'avete tradita». Nel fuoco del durissimo scontro sull'aborto viene organizzato a Firenze un ambulatorio in cui, in aperta disobbedienza civile, si praticano interruzioni di gravidanza al prezzo politico di centomila lire. Spadaccia, Faccio, Bonino e il medico Conciani, che pratica materialmente gli interventi, finiscono in galera. Poco dopo anche Pannella si farà arrestare per aver fumato in pubblico marijuana. Nell'81 un nuovo referendum confermerà per sempre l'introduzione del diritto all'aborto. Così, andando avanti, e passando per lo straordinario arruolamento di Leonardo Sciascia nelle file radicali, si arriva ai tempi nostri. All'epoca del maggioritario, la realizzazione definitiva della logica radicale dell'alternativa. Ai tormentati (e viziati dal narcisismo quasi patologico che si portano dietro dall'epoca universitaria) rapporti di Pannella con Craxi e con Occhetto. Fino ai giorni attuali dei populisti e della morte annunciata della politica. Spadaccia, ragionando sulla capacità dei radicali di affermarsi e aver ragione, nella Repubblica dei partiti e del conservatorismo italiano, si chiede cosa gli abbia impedito, oggi, di imporsi sul populismo: «Forse è perché non siamo mai stati sfascisti», si risponde. Nel termine, che mette insieme «sfascio» con «fascisti» forse è racchiuso il senso di tutta questa storia.

Le idee e i diritti. La storia formidabile del Partito radicale, raccontata da un protagonista. Gianfranco Spadaccia su L'Inkiesta il 10 novembre 2021. Gianfranco Spadaccia, tra i fondatori del partito insieme con Marco Pannella, ricostruisce in un volume pubblicato da Sellerio le vicende e le battaglie che hanno cambiato la società italiana. Durante tutta la campagna del referendum abrogativo della legge Fortuna, sia la Lega Italiana per il Divorzio sia il Partito Radicale furono praticamente tagliati fuori da ogni manifestazione pubblica e da ogni confronto e dibattito televisivo riservato ai partiti e alle forze politiche favorevoli alla conferma della legge. Uniche eccezioni: due trasmissioni iniziali molto prima che la campagna entrasse nel vivo, una manifestazione di apertura al teatro Adriano, un grande concerto al Palazzo dello Sport dell’EUR con la partecipazione di Guccini, degli Area, della Premiata Forneria Marconi, di altri gruppi e rockstar, e la realizzazione di un enorme NO, che calammo dal Pincio proprio davanti al comizio conclusivo di Amintore Fanfani a piazza del Popolo e che il giorno dopo fu ripreso da tutti i giornali in prima pagina. La nostra esclusione dalla campagna elettorale era stata voluta dal PCI e personalmente da Enrico Berlinguer nella convinzione che, se si fosse lasciato troppo spazio a divorzisti e radicali, con i loro referendum (tra cui quello abrogativo del Concordato) da contrapporre al referendum clericale sul divorzio, si sarebbe corso sicuramente il rischio di perdere un confronto referendario che, secondo Berlinguer, aveva un esito assai incerto: era convinto che si sarebbe perso o vinto per uno o due punti o addirittura per qualche decimale. Noi invece eravamo sicuri che lo avremmo vinto con ampio margine di vantaggio, confortati in questo dai sondaggi.

A piazza Navona per la vittoria del NO

Ci comportammo, come direbbero i francesi, con «disciplina repubblicana» facendo buon viso perfino all’esclusione da una campagna di cui ci reputavamo, insieme a Loris Fortuna e a pochi altri, gli iniziatori e i protagonisti.

Ci premunimmo però di farci trovare pronti il giorno della vittoria, innalzando un grande palco della LID in piazza Navona e passando, in particolare Enzo Zeno e io, i due giorni precedenti a impaginare un numero unico di Liberazione, dal titolo «IL NO HA VINTO», da distribuire il pomeriggio del 13 maggio in tutta Roma.

Quel giorno, per festeggiare la definitiva vittoria del divorzio, oltre mezzo milione di romani venne a piazza Navona dove trovò sul palco Marco Pannella, già al venticinquesimo giorno di digiuno, che dava la parola equanimemente senza alcuna discriminazione ai dirigenti e parlamentari dei partiti divorzisti, oltre che agli esponenti della LID. E anche i comunisti dovettero partecipare a quella festosa manifestazione, perfino Maurizio Ferrara e Paolo Bufalini, come riferisce il primo in una sfottente e acida poesia scritta in romanesco in cui fa dire a «sor Paolo» (Bufalini), mentre ascolta Marco Pannella, «… ce tocca vince pure pe’ ’sti stronzi».

La lunga manifestazione si concluse a notte inoltrata – quando ormai da tempo era stato reso noto il risultato definitivo che assegnava al divorzio una maggioranza del 60% – con un lungo corteo che passò sotto la sede della direzione del PCI in via delle Botteghe Oscure, per proseguire lungo piazza Venezia, via del Corso e del Tritone fin sotto la sede de Il Messaggero, che il suo direttore Sandro Perrone con il consenso dell’intera redazione aveva fin dal primo giorno schierato a favore del divorzio e di cui si sapeva che, proprio per questo, aveva i giorni contati. Il resto della famiglia Perrone aveva infatti deciso di vendere la testata alla Montedison di Eugenio Cefis.

Mentre per i partiti dello schieramento divorzista rappresentati in Parlamento la vittoria del referendum rappresentava il momento conclusivo e vittorioso di un duro e non desiderato scontro politico, per i radicali invece era l’inizio di una prova difficile rivolta a evitare la definitiva cancellazione non solo del ruolo che avevamo avuto nell’imporre quel tema all’intero sistema politico ma della stessa possibilità di esistenza e di incidenza radicale sulla politica futura. Avevamo vissuto con frustrazione l’emarginazione e la cancellazione subita durante tutta la campagna referendaria.

L’unico strumento che avevamo avuto in quel mese era una pagina del settimanale Il Mondo, allora diretto dallo scrittore Renato Ghiotto, che l’aveva messa a disposizione di Pannella. Alcuni dei componenti della segreteria collegiale, di cui era primo segretario Giulio Ercolessi, si erano dimessi (Massimo Teodori, Giuseppe Ramadori).

Il digiuno di Marco, iniziato nel pieno dello scontro referendario, non aveva un valore simbolico e dimostrativo, non era un digiuno di protesta per una ingiusta esclusione, era invece un digiuno di lotta destinato a proseguire fino a quando non fossimo riusciti a interrompere la cortina di silenzio a cui sembravamo condannati e che già rendeva praticamente impossibile la raccolta delle firme per la promozione degli otto referendum radicali.

In Marco e in molti di noi c’era infatti la consapevolezza che con la vittoria del referendum si apriva una stagione di riforme possibili nel campo dei diritti civili, di cui sapevamo di essere, insieme a Loris Fortuna e a una parte dei socialisti, i naturali interpreti e protagonisti.

da “Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia”, di Gianfranco Spadaccia, Sellerio, 2021, pagine 764, euro 24

Il saggio per ricordare la borghese radicale. Chi era Adelaide Aglietta, la borghese radicale che si batté per il divorzio. Valter Vecellio su Il Riformista l'1 Luglio 2021. Storia comune a quella di tante donne del suo tempo: ma anche, se si vuole, un simbolo. Femminista senza forse neppure sapere di esserlo. Argentina Marchei – dice nulla questo nome? – era una popolana, trasteverina che fisicamente richiama l’Anna Longhi moglie di Alberto Sordi in Dove vai in vacanza? o la sora Lella, mitica nonna di Carlo Verdone in Bianco, rosso e Verdone. Così la ricorda Marco Pannella: «Argentina è una popolana romana di circa ottant’anni, quando la legge Fortuna viene approvata dal Parlamento, nella notte fra il 30 novembre e il 1 dicembre del 1970. Più di cinquant’anni prima, dopo pochi mesi di matrimonio, il marito se ne era andato, e non l’aveva più rivisto. Si era ricreata ben presto una famiglia, era ormai più volte madre e nonna, ma soprattutto “fuori-legge”. Il suo compagno era ormai malato, volevano sposarsi prima di andarsene, di separarsi definitivamente. Con le sue gambe piagate dalle vene varicose, inalberando la sua tessera comunista, del 1922, Argentina dal ’65 al ’70, e poi fino al ’74, fu in prima fila a tutte le manifestazioni, le marce, i digiuni della Lid e dei radicali». Una delle mille «vedove bianche», frequenti nel Meridione d’Italia, lo sanno bene Emanuele Macaluso e Girolamo Li Causi, Umberto Terracini e Fausto Gullo; a differenza di altri dirigenti del timoroso Pci, sanno che la maggioranza degli italiani è favorevole a questa legge di civiltà. Nel Sud profondo, ma anche nel “bianco” Veneto; nelle campagne, non solo nelle città. La legge Fortuna-Baslini è anche una conquista delle tante, anonime, Argentine Marchei: si possono liberare da una catena che lacera intere famiglie in una ipocrisia che non risolve i problemi; e impedisce di poter legalmente riprovare a ricostruire una famiglia. Senza nulla togliere all’impegno di Loris Fortuna, Antonio Baslini, Pannella, Mauro Mellini, quella legge forse dovrebbe chiamarsi “Marchei”. Non è la sola lacuna che una storiografia dei nostri tempi recenti dovrebbe colmare. Accanto alla “popolana” Marchei, per esempio, si rischia di perdere la memoria di un’apparente suo opposto, la medio-alta borghese Adelaide Aglietta. Questa volta, per fortuna, giunge in soccorso una recente pubblicazione di Marco Di Salvo: Adelaide Aglietta, una borghese radicale (edizioni Efesto, pp. 195, 13,50 euro); titolo accompagnato da una sorta di epigrafe da decrittare: “La prima donna”. Che significa, questo “prima donna”? Affetta da presenzialismo, come capita a chi raggiunge vette di notorietà? Un riferimento a presunte frequentazioni, atteggiamenti snob, il fasullo chic che scivola nel concreto cheap? No, quel “prima donna” ci sta tutto. Prima donna – molti lo dimenticano, o lo ignorano – a ricoprire la carica di segretaria di un Partito politico, quello Radicale. È il 4 novembre del 1976, 17esimo congresso radicale: Adelaide viene eletta a quella carica. Ma come meritoriamente Di Salvo ci ricorda, è stata anche la protagonista di alcune delle più importanti sfide per l’affermazione dei diritti civili in Italia negli anni ’70, tra le prime ad affrontare le tematiche ecologiche e ambientali nel nostro paese; una delle prime parlamentari europee impegnate sui temi della democrazia nei paesi dell’Est e nel post 1989, dell’integrazione politica (e non solo monetaria) continentale; in prima fila nella difesa di popolazioni oppresse da dittature odiose: a Cuba come in Tibet. Una tranquilla borghese di quella Torino che vive in villa in collina: «Vista da fuori, aveva tutto: una bella casa, un marito dirigente d’azienda, due figlie, una bella famiglia, insomma», scrive Flavia Fratello, nella nota introduttiva. C’è da difendere la legge sul divorzio (la legge per cui a Roma si batte Argentina Marchei); così «Adelaide scende dalla collina nel 1974, arriva alla sede radicale di Torino, pronta a confondersi con quella pattuglia squinternata, composta da freak della politica (di “froci e puttane”, avrebbe detto Pannella). Il luogo più distante dalla sua formazione di vita, visto dall’esterno. Ma forse, proprio per questo, il più affine a lei, in quanto portatrice di un’inquietudine profonda che lì ha modo di mettere a frutto, più di quanto avrebbe potuto fare in ambiti politici più rigidi, quali erano gli altri partiti dell’epoca…». È l’inizio di una storia e di un impegno che la segna per tutta la vita. C’è molto altro, nel libro di Di Salvo; il capitolo, per esempio, della pubblicità scandalosa per raggranellare denaro per il Partito e le sue campagne: qualcosa degno del miglior Oliviero Toscani. Tra i capitoli salienti, benissimo ricostruiti, quando Adelaide è sorteggiata come giurata per giudicare i capi storici delle Brigate Rosse (Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Paolo Maurizio Ferrari). Quel processo, secondo le intenzioni dei brigatisti non si deve fare. Ricorrono a ogni intimidazione violenta: il presidente degli avvocati Fulvio Croce “colpevole” di assicurare una difesa tecnica (i brigatisti ricusano i difensori), viene assassinato il 28 aprile 1977. Il processo è bloccato. Non si trovano giurati popolari e avvocati d’ufficio: attanagliati dalla paura, inviano certificati medici con le motivazioni più fantasiose. Il premio Nobel per la Letteratura Eugenio Montale, sul Corriere della Sera, ammette che anche lui, se sorteggiato, si sarebbe rifiutato. Scoppia la polemica, sul dovere al coraggio e il diritto alla paura, l’obbligo da parte degli intellettuali di difendere lo Stato: un anticipo di quello che sarebbe poi infuriato nei giorni del sequestro Moro. Ecco che viene estratta Adelaide. Anche lei ha paura; ma sente come dovere di superarla. Scelta non facile, quella di vincere la paura, superarla, per conservare la propria dignità: il dovere di assicurare anche ai terroristi quei diritti “borghesi” che loro per primi rifiutano e vorrebbero abbattere. Se il processo infine si celebra, e altri giurati accettano di far parte della giuria, si deve a quel “gesto” di Adelaide. Oggi più d’uno tende a dimenticarlo, nelle ricostruzioni di quei giorni. Merito di Di Salvo aver ricostruito, con acribia, tutta la storia. Argentina e Adelaide: campionesse dei diritti civili da conoscere, scoprire. Certamente non le sole. Prima o poi si dovrà fare un “catalogo” di queste persone cui tanti devono tanto…Al libro un solo appunto: nelle prossime augurabili edizioni, corregga la nota 11 di pagina 22: Cisa sta per Centro Informazioni Sterilizzazione Aborto; cos’è quel patriottardo “italiano”? Sembra piccola cosa, ma è importante: Adelaide e gli altri radicali si sono sempre battuti per la non punibilità dell’interruzione della gravidanza, ma anche – soprattutto – per una adeguata, capillare informazione in materia di anticoncezionali. Per una corretta NON “educazione”, ma “informazione” sessuale. Qui si potrebbe aprire un lungo discorso sull’uso delle parole e il loro significato. Un’altra volta.

Valter Vecellio

Dagospia. Dall'account facebook di Carmelo Palma il 15 marzo 2021. Molte persone (militanti, giornalisti, amici personali, curiosi) da ieri mi cercano e mi chiedono dello scontro interno a +Europa. Qualche giornale mi ha anche immeritatamente inserito tra gli esponenti di una “opposizione alla Bonino”, che è cosa che sopravvaluta offensivamente la mia stupidità e sottovaluta gravemente il mio senso della misura. Visto che, come ho detto ieri a chiunque mi cercasse, non intendo, né pubblicamente, né privatamente aggiungere nulla a quello che dico nelle riunioni degli organi di partito, che peraltro sono pubbliche, favorisco per gli interessati – giornalisti e no – il mio intervento all’Assemblea di ieri. Penso di avere spiegato abbastanza chiaramente perché io ritenga una impostura grottesca la rappresentazione dello scontro in atto negli organi di +Europa come una lotta tra chi difende i “diritti degli iscritti” a un immediato congresso pandemico e chi vorrebbe conculcare i loro sacrosanti diritti.

L’intervento è a 3h18m40s. Spoiler: +Europa non ha di fatto iscritti e non è mai stata in grado di trasformare un consenso diffuso (come si vede dai cospicui versamenti del 2 per mille) in una vera partecipazione politica. Le persone che si sono continuativamente iscritte a +Europa nei suoi tre anni di vita erano alla fine della scorsa settimana 376. Trecentosettantasei, non manca nessuno zero. +Europa ha solo, in occasione dei congressi, alcune migliaia di “tesserati” che compaiono e scompaiono nel firmamento europeista nel giro di qualche giorno, il tempo di rendere il servizio richiesto – il voto – al proprio capobastone. Il 90% di quelli che, iscrivendosi all’ultimo minuto, accorsero allo scorso congresso (assurto disonorevolmente, ma meritatamente alle cronache come il congresso dei “pullman di Tabacci”) non si sono iscritti l’anno successivo. L’80 per cento delle migliaia di tesserati che altrettanto prontamente si sono iscritti per il congresso che dovrebbe tenersi quest’anno non erano iscritti l’anno precedente. Il “tesseramento” di +Europa non è un indice di partecipazione politica, ma un mercato di anime morte. Secondo la mia modesta opinione di attivista, per un partito come +Europa vorrebbe essere (e come i suoi potenziali elettori vorrebbero che fosse) questo è un problema, e non può diventare l’alibi per smerdare la celebrata “democrazia interna” con logiche da partitocrazia primo-repubblicana, per di più in formato bonsai.

Tommaso Coluzzi fanpage.it il 14 marzo 2021. Emma Bonino lascia +Europa, e lo fa con delle parole pesanti contro il proprio partito. La stessa senatrice lo ha annunciato prima all'assemblea nazionale e poi confermato in una telefonata a Fanpage.it. Pesano le divisioni interne e la richiesta di una nuova leadership, con un documento "pseudoanonimo", come lo definisce la stessa Bonino, che chiede di sbarazzarsi dei vertici e propone una nuova dirigenza per il partito. "Non c’è stato dialogo, ma solo insulti con termini che non vorrei ripetere, sulle chat, in tutti i modi possibili e immaginabili", spiega Bonino. "Io personalmente non voglio stare più in questo partito, ma non è un grosso problema visto che faccio parte degli incompetenti e ignoranti". E continua: "Io non voglio partecipare a questo gioco al massacro, e me ne vado da sola a testa alta, fiera di quello che abbiamo fatto". Bonino lascia il partito con parole durissime, rimettendo a disposizione "anche il seggo al Senato". La senatrice attacca ancora: "La vostra cupidigia è senza limiti, ma è a disposizione non vi preoccupate". E poi continua: "È già pronta, con il passaggio farsa deciso da fuori, la nuova leadership plurale, ma se si presenta con queste credenziali da epurazione io fossi in voi ci penserei un po’". L'annuncio è chiaro: "Me ne vado a testa alta prima che mi facciate fuori voi, perché così va a finire". Emma Bonino, rivolgendosi direttamente all'assemblea, continua: "Vi libererete dell’altro incompetente Benedetto – Della Vedova ndr – e di tutta la sua cricca, come la chiamate voi". È pronta "una nuova leadership molto più bella che passa sulla rottamazione di tutto quello che c’è stato, di cui io vado fiera". E conclude: "Mi basta un segnale prima del congresso che il seggio del Senato vi viene restituito così come l’ho ottenuto. Voi riuscite a cacciare con ignominia per qualche leggerezza una persona infangandone la storia, l’immagine. Non mi resta che augurarvi buona fortuna e chiedervi se potete non disprezzare quello che ho fatto fin qui, se lo farete lo stesso ho le spalle larghe". Poco dopo le dichiarazioni di Emma Bonino, e il suo addio al veleno, è intervenuto anche il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova, che su Facebook ha annunciato le sue dimissioni: "Da molti mesi l’Assemblea di Più Europa non riesce a trovare un accordo sulle regole per celebrare il prossimo Congresso, che lo Statuto prevede che si svolga ogni due anni. C’è stata, nelle diverse sessioni dell’assemblea degli scorsi mesi, un’escalation di tensione interna che ha portato oggi Emma Bonino ad annunciare in queste condizioni il suo abbandono del partito – scrive Della Vedova – È un’escalation che sento il dovere di interrompere, consentendo che la parola torni ai nostri iscritti il più presto possibile. Rassegnerò quindi le mie dimissioni da Segretario, atto che prevede automaticamente la convocazione di un nuovo Congresso entro tre mesi". Il segretario dimissionario, però, annuncia che intende ricandidarsi.

Emma Bonino, dice addio a +Europa: "Non voglio partecipare a questo gioco al massacro". Libero Quotidiano il 14 marzo 2021. Emma Bonino lascia +Europa in dura polemica contro il proprio partito. Colpa delle divisioni interne e della richiesta di una nuova leadership. Un documento, senza una sostanza politica, dice la stessa  Bonino, in cui so chiede di fare piazza pulita dell'attuale vertice del partito di cui la Bonino è il principale leader.  "Non c’è stato dialogo, ma solo insulti con termini che non vorrei ripetere, sulle chat, in tutti i modi possibili e immaginabili", spiega. La Bonino è arrabbiata e delusa: "Io personalmente non voglio stare più in questo partito, ma non è un grosso problema visto che faccio parte degli incompetenti e ignoranti. Io non voglio partecipare a questo gioco al massacro, e me ne vado da sola a testa alta, fiera di quello che abbiamo fatto". Contro il partito la Bonino scaglia parole durissime, lasciando "anche il seggo al Senato". La sua contrarietà è evidentissima: La vostra cupidigia è senza limiti, ma è a disposizione non vi preoccupate. È già pronta, con il passaggio farsa deciso da fuori, la nuova leadership plurale, ma se si presenta con queste credenziali da epurazione io fossi in voi ci penserei un po’". E poi le parole finali che sono una sentenza e una rivendicazione della propria storia politica: "Me ne vado a testa alta prima che mi facciate fuori voi, perché così va a finire". Emma Bonino, rivolgendosi direttamente all'assemblea, continua: "Vi libererete dell’altro incompetente Benedetto – Della Vedova ndr – e di tutta la sua cricca, come la chiamate voi". È pronta "una nuova leadership molto più bella che passa sulla rottamazione di tutto quello che c’è stato, di cui io vado fiera". E conclude: "Mi basta un segnale prima del congresso che il seggio del Senato vi viene restituito così come l’ho ottenuto. Voi riuscite a cacciare con ignominia per qualche leggerezza una persona infangandone la storia, l’immagine. Non mi resta che augurarvi buona fortuna e chiedervi se potete non disprezzare quello che ho fatto fin qui, se lo farete lo stesso ho le spalle larghe". Dopo questo addio è intervenuto anche il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova, che su Facebook ha annunciato le sue dimissioni: "Da molti mesi l’Assemblea di Più Europa non riesce a trovare un accordo sulle regole per celebrare il prossimo Congresso, che lo Statuto prevede che si svolga ogni due anni. C’è stata, nelle diverse sessioni dell’assemblea degli scorsi mesi, un’escalation di tensione interna che ha portato oggi Emma Bonino ad annunciare in queste condizioni il suo abbandono del partito. È un’escalation che sento il dovere di interrompere, consentendo che la parola torni ai nostri iscritti il più presto possibile. Rassegnerò quindi le mie dimissioni da Segretario, atto che prevede automaticamente la convocazione di un nuovo Congresso entro tre mesi". Della Vedova però ha fatto sapere che si ricandiderà al posto di segretario. Da +Europa nessuna reazione ufficiale, ma dall'assemblea dle partito si parla di troppe iscrizioni non tracciabili e effettuate con modalità opache e irregolari in vista del Congresso, Ed è questa la ragione della bufera interna a +Europa. Nessuno vuole mettere in discussione la leadership di Emma Bonino, ma il discorso su cui si centra il dibattito è salvaguardare la democrazia interna in vista di importanti appuntamenti anche elettorali. E sul documento, citato dalla Bonino, si parla di una bozza di una mediazione. Ma il problema non sarebbe il documento, ma la sfiducia ad un tesoriere che non avrebbe permesso lo svolgimento del congresso secondo i dettami più logici.

Filippo Facci contro Emma Bonino: "Addio a +Europa? Perché non mancherà a nessuno". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 marzo 2021. Fu Marco Pannella, suo mentore, a dirle la cosa più cattiva, a demolire il suo protagonismo autocelebrativo. Emma Bonino, infatti, aveva appena annunciato che lei «aveva un tumore» ma che avrebbe eroicamente continuato le sue battaglie eccetera; e allora Marco, al Corriere Della Sera, disse così: «Io di tumori ne ho due», e il resto della frase (frase pannelliana, riportarla tutta brucerebbe l'articolo) stava a dire: ho due tumori e non rompo i coglioni, perché ci vuole coraggio. Poi d'accordo, i due erano in dissidio politico. Ma poi Pannella per quei tumori ci è morto, e resta politicamente immortale, la Bonino è viva ma politicamente è morta. Non esiste più. Non rappresenta più niente, le nuove e semi-nuove generazioni non sanno chi sia. Lei di questo non ha percezione, e sono cose che succedono a certi anziani pieni di sé, fa un po' pena, e speriamo che lei non legga questo articolo. Lo scriviamo a margine della presunta notizia che Emma Bonino e Benedetto Della Vedova hanno lasciato +Europa, che non è un canale televisivo ma uno dei partitelli riformatisi dopo il Big Bang dello storico Partito Radicale. La Bonino ha ventilato l'ipotesi di dimettersi da senatrice (ventilato e basta) mentre Benedetto Della Vedova, per cui lo scrivente ha la massima stima, e che di +Europa era il segretario, ha abbandonato la poltrona anche perché è diventato sottosegretario agli Esteri del governo Draghi. Nota: al prossimo congressino del partito, la Bonino e Della Vedova sarebbero stati fatti fuori lo stesso.

Le lotte - Ora, nel proseguire una cosiddetta narrazione su Emma Bonino, si tratta di far convivere il rispetto per le sue battaglie civili (condivise perlomeno da una parte di italiani e di lettori) con la trasformazione di Emma Bonino anzitutto in una donna di potere (tendenza voltagabbana) inconsapevole di essere perlopiù una reliquia di se stessa e della sua arroganza. Che fatichi a scendere dal proprio piedistallo è anche comprensibile. È stata una figura storica del femminismo italiano (quello vero) e più volte parlamentare, europarlamentare, Commissario europeo dal 1995 al 1999 (molto apprezzata) e ideatrice della Corte penale internazionale, delegata per l'Italia all'Onu, ministra del commercio internazionale, nel 2011 fu l'unica italiana inclusa da Newsweek tra le «150 donne che muovono il mondo», dopo Pannella è stata l'unica a veder ribattezzare una lista col suo nome («Lista Bonino») e a prendere anche dei voti. Da principio fondò associazioni abortiste e praticò personalmente aborti quando ancora erano illegali, cosa per cui molti cattolici la odiano ancora. Marco Pannella la trasformò in parlamentare a soli 28 anni. Partecipò alla disgraziata campagna contro il capo dello Stato Giovanni Leone, chiedendogli scusa quando lui compì 90 anni. Compartecipò a tremila iniziative per combattere la fame nel mondo, si fece arrestare dai comunisti polacchi per il suo sostegno a Solidarnosc, fece approvare mozioni contro le mine anti-uomo che mutilavano i civili, contribuì a istituire il Tribunale internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia, incontrò il Papa, il Dalai Lama, fu segretaria del Partito Radicale quando ancora esisteva, riuscì a farsi appoggiare dal governo Berlusconi per diventare commissario europeo, sconfinò in cento Paesi messi sotto embargo o colpiti da feroci dittature, contribuì a ridimensionare i disastri compiuti dal commissario europeo antidroga Pino Arlacchi, fece propaganda contro le mutilazioni genitali femminili (infibulazioni) e poi tornò alla politica romana, si candidò qua e là: la Bonino ne ha fatta una più del diavolo e di Marco Pannella, stratega di ogni cosa ma sempre un passo indietro. Pannella non diventò mai un uomo di potere, lei sì. Pannella non scese mai a compromessi, lei sì. Anche così ottenne incarichi e divenne «Emma for President». Lei probabilmente non rinnegherebbe nulla, ma non le piacerebbe che ri-mostrassero le foto in cui praticava aborti con una pompa per bicicletta e aspirava il feto in un barattolo di marmellata. Non le piacerebbe dover rispiegare come potè fare il ministro nel centrosinistra dopo esser stata eletta nel centrodestra. Come potè, cioè, essere eletta coi berlusconiani e prenderne i voti, lasciare il seggio per fare il commissario europeo sino a rientrare a Roma sulla sponda del centrosinistra, e passare a sostenere Romano Prodi che le offrì un ministero. E, anni dopo ancora, diventare una delle più convinte sostenitrici di Mario Monti e dell'ingresso della Turchia in Europa.

L'auto blu - Marco Pannella, negli ultimi tempi (suoi), di lei disse il peggio: «Ho parlato coi medici del suo tumore, e posso dire che non ha motivo per essere allarmata Il suo problema è quello di far parte del jet set internazionale Io vado in giro a piedi o in taxi, non ho auto nera o blu». Sempre negli ultimi tempi (suoi), Pannella disse che «Io e lei non ci consultiamo, non ci sentiamo mai, con me non parla Sono intervenuto io per farla inserire nel governo Letta, in tutte le sue nomine c'entravo sempre io. Lei invece lavora molto, ma mai con noi». Poi c'è un episodio che per qualche radicale è uno spartiacque: vedere Emma Bonino festeggiare l'anniversario del Concordato a Palazzo Borromeo, questo dopo che aveva combattuto il Concordato per tutta la vita, da anticlericale militante. Sino a poco tempo prima, ogni 20 settembre, Emma festeggiava la Breccia di Porta Pia coi compagni anticlericali. Poi eccola presenziare all'anniversario della firma dei Patti Lateranensi all'ambasciata italiana presso la Santa Sede: c'erano le più alte cariche ecclesiastiche e naturalmente il segretario di Stato Vaticano. Era ministro, certo, ma poteva mandare un sostituto. Ancora oggi, se andate sul sito dei Radicali, trovate tutto l'architrave della campagna storica contro i Patti Lateranensi e il Vaticano. I Radicali peraltro sono stati quelli che hanno portato al Parlamento Europeo il problema dell'Imu che il Vaticano non pagava. Chi è Emma Bonino? È una signora che nel 1979 manifestò davanti all'ambasciata dell'Iran contro l'imposizione del chador alle donne iraniane: e che il 21 dicembre 2012 però era in Iran e indossava il velo per incontrare le autorità iraniane. È una signora che incontrò il Dalai Lama ma che restò zitta quando il governo Prodi, di cui faceva parte, nel 2006 rifiutò di incontrare il Dalai Lama per non contrariare gli amici cinesi. Chi è la Bonino? La risposta peggiore è quella attuale, del 2021, perché non fa che riformulare la domanda: Emma Bonino? Chi è?

 Cinque anni senza il leader radicale. Chi era Marco Pannella, scandaloso galantuomo che ha governato più di De Gasperi. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 15 Maggio 2021. Raccontare Giacinto Pannella detto Marco, classe 1930, scomparso cinque anni fa, esattamente il 19 maggio 2016. Vasto programma: la sua vita personale, infatti, si è intrecciata con quella collettiva così tante volte da rendere impossibile stringerle tutte insieme. Inevitabile, dunque, sarà risalire solo alcuni dei tanti affluenti che hanno alimentato il fiume in piena della sua biografia politica. Ricordarlo, sia chiaro, non per farne un coccodrillo commemorativo né per censire tutte le battaglie radicali vinte o ancora da vincere. Qui interessa altro: cogliere alcuni dei tratti più innovativi e fecondi della sua prassi politica. Tentare, soprattutto, di individuare le costanti (culturali e di metodo) all’interno di quel carosello di battaglie di scopo di cui Pannella è stato protagonista. Riportarlo così tra noi, perché ancora contemporaneo. Come se fosse di nuovo qui, immerso tra le nubi tossiche di fumo pestilenziale che si addensavano sullo studio di Radio Radicale, che le memorabili conversazioni domenicali tra Pannella e Bordin trasformavano in una Seveso in sedicesimo. Parto dalla fine: Montecitorio, camera ardente allestita in onore del più volte deputato Pannella, luogo di fluviali omaggi (come lo fu la sua soffitta romana, in via della Panetteria a due passi da Fontana di Trevi, nei suoi ultimi cento giorni di vita). A spezzare l’onda di commozione generale è una battuta di Giuliano Ferrara, avvicinatosi al feretro: «Volevo accertarmi che fosse morto davvero, con Pannella non si sa mai». La prova regina che Pannella se n’era andato veramente è che in quei giorni – come è stato notato – sembrava quasi che il Partito Radicale avesse il 95% dei consensi, e non si sapeva. Una marea di riconoscimenti, messaggi, testimonianze, apprezzamenti da parte di tutto il mondo (politico e non) in memoria del leader radicale. La modifica dei palinsesti televisivi e le spaginate dei quotidiani a suo ricordo. L’elogio postumo delle sue battaglie politiche e delle sue preveggenti intuizioni. Santo subito («Santo subito un cazzo!» avrebbe reagito lui, come chiosò La Gazzetta del Mezzogiorno). Una situazione mai sperimentata in vita. Marco Pannella ha raccolto, in morte, affetto e rimpianto vastissimi, come se fosse un leader di popolo, non il capo di una piccola nave corsara le cui battaglie, spesso e a lungo, sono state considerate non notiziabili. Come spiegare, allora, una simile sarabanda? Certamente con l’«industria dolciaria degli estinti» (Francesco Merlo) e l’«ipocrisia italiota, che glorifica i morti e odia i vivi» (Dimitri Buffa). Sì, anche, ma non spiega tutto. C’era ben altro dietro quel corale congedo, come meglio di tutti seppe cogliere un altro grande vecchio, Emanuele Macaluso: il riconoscimento unanime di «una vita politica clamorosa, che risalta di fronte alla miseria politica del presente». Un’unicità anche umana diffusamente percepita, che spiega l’affetto autenticamente popolare che ha sempre circondato Pannella ben al di là della ristretta cerchia dei suoi compagni di lotta, un affetto che proveniva anche da chi, magari, in cabina elettorale non aveva mai votato per la Rosa nel Pugno. Tutto, di Marco Pannella, era eccessivo. A partire dal suo fisico: alto e massiccio, ma d’impressionante scheletricità durante i suoi digiuni, criniera candida raccolta in una curata coda di cavallo, cravatte carnevalesche, voce potente, bellissimi occhi azzurri penetranti, sorriso amaro e irridente, divoratore famelico di pastasciutta, tabagista oltremisura con certificato medico in tasca per poter fumare ovunque («Me lo ha detto anche il dottore: se smetto di fumare, muoio»), bisessuale dichiarato eppure legato per quarant’anni alla compagna di una vita, Mirella Parachini. Aveva il phisique du rôle del combattente, vinto solo dall’alleanza mortale tra un tumore al fegato e un altro al polmone. Attraverso il suo corpo, Pannella ha introdotto cinquant’anni fa la biopolitica in Italia, in un’epoca in cui il soma e la sua concretezza erano estranei a una politica dominata dalle ideologie e dalle filosofie della storia. Non è stato solo un fatto di costume. Ha segnato autentiche fratture politiche, rompendo appartenenze di partito e ricomponendo inedite alleanze su issues capaci – alla lettera – di dare corpo al diritto e alla politica: divorzio e aborto, diritti degli omosessuali e fame nel mondo, inizio e fine vita. Ha segnato anche una rivoluzione comunicativa, facendo del proprio corpo ora un tazebao, ora un megafono per torrenziali interventi parlamentari, imbavagliandolo per meglio parlare al pubblico televisivo, travestendolo in modi giullareschi dettati, in realtà, da un uso astuto e consapevole dei meccanismi dell’informazione nella società dello spettacolo. Così facendo, Pannella ha dato evangelicamente scandalo, «uno scandalo inintegrabile», come ebbe a scrivere Pier Paolo Pasolini. Eppure, l’ostensione del suo corpo è stata a lungo sbeffeggiata, tantissimo osteggiata e alla lunga ignorata, come se non meritasse attenzione. Accade ancora oggi ai radicali: come Rita Bernardini che, facendo le righe su e giù per via Arenula tra uno sciopero e l’altro della fame, cerca di tenere accesi i riflettori sui troppi corpi ammassati dietro le sbarre. Sembra di sentirlo, il rumore di sottofondo: «Che tedio!» questa smania di de-nutrire sé stessi per nutrire il dialogo con l’interlocutore, aiutato così a fare ciò che dovrebbe fare. Il solito «chiagni e fotti» dei radicali, insomma, secondo la garbata penna di Marco Travaglio. Per il sistema dell’informazione, l’uso nonviolento del proprio corpo è come la musica andina (per Lucio Dalla): una noia mortale. Preferisce di gran lunga, per ragioni di audience, il vaffanculo urlato in piazza, la minaccia truce, la violenza consumata, meglio ancora il martirio. Disinteressato al corpo smagrito di chi lotta digiunando, è invece sempre pronto a regalare la ribalta al corpo contundente che si scaglia contro qualcuno o qualcosa. È davvero una «normale bestialità» (il copyright è di Valter Vecellio) che, per notiziare una causa, serva esibirla con forza bruta. Marco Pannella è stato il primo in tante cose, senza mai sentirsi tale: nella sua visione politica, infatti, non esistevano avanguardie, ma solo persone un po’ in ritardo. Vedeva e pre-vedeva scenari che gli altri non riuscivano neppure a immaginare. Qualche esempio? In anticipo su tutti, ha intuito la crisi della rappresentanza politica e della democrazia parlamentare, cui ha cercato di porre rimedio prima con la Lega per l’uninominale, poi promuovendo – con Mario Segni e altri – i referendum elettorali degli anni novanta. Ha predicato e praticato la nonviolenza come forma dell’agire politico, quando – da una parte e dall’altra – si usavano le armi “dialettiche” della spranga e della chiave inglese, si praticava la lotta armata e la si fiancheggiava con irresponsabile sicumera. Isolato e inascoltato, già negli anni settanta si scagliava contro le pensioni-baby, proponeva (con Marcello Crivellini) un piano di rientro dal debito pubblico, teorizzava la necessità di protrarre la vita lavorativa per rendere sostenibile il sistema previdenziale. Prima di tutti, ha intuito la globalizzazione delle decisioni politiche, trasformando il Partito Radicale in un aggregato transnazionale e impegnandolo in battaglie di respiro universale: la lotta per la fame nel mondo, cioè contro un ordine economico in disequilibrio e per il diritto all’ingerenza umanitaria; la moratoria all’ONU delle esecuzioni capitali, in vista dell’integrale abolizione della pena di morte; l’istituzione della Corte penale internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità, perché non c’è pace senza giustizia; la sua ultima battaglia, ancora in corso, per il riconoscimento del diritto umano alla conoscenza e per la transizione verso lo Stato di diritto. Eresie, allora e per i più. Il problema è che essere visionari non aiuta mai in politica, se significa arrivare troppo in anticipo sugli altri. Si rischia di passare per stravaganti, raccogliendo così percentuali elettorali da prefisso telefonico. Salvo poi, ma solo molto tempo dopo, vedere le proprie proposte diventare patrimonio comune, eredità collettive. È accaduto anche a una delle creazioni pannelliane di maggior pregio, Radio Radicale, sopravvissuta alle tante radio libere che negli anni settanta facevano controinformazione militante. Nessuno, allora, avrebbe scommesso un’oncia sulla longevità di un’emittente che, piratescamente, trasmetteva le sedute parlamentari rendendole davvero pubbliche (come esige l’art. 64 Cost.). E poi – nel tempo – i processi, i congressi di partito, le assemblee sindacali, le più importanti sedute del Csm e della Corte costituzionale, migliaia di eventi politici e culturali diffusi: tutto, da ovunque, per tutti, direttamente. Dilatando i tempi e rallentando i ritmi chapliniani dell’odierna informazione, Radio Radicale ha sempre privilegiato la riflessione alla sparata provocatoria: perché l’informazione serve al cittadino per sapere, capire, farsi un’idea, non per alzare o rovesciare il pollice, come plebe nel circo mediatico e nell’arena dei social media. Pannella era dottore in Giurisprudenza, ma solo per sbaglio: si laureò nel 1955, a Urbino, con una tesi sui Patti lateranensi scritta non da lui, discussa animatamente per due ore, riportando il punteggio più basso conseguibile: 86/110. Eppure, giuridicamente, era un sapiente. Credeva nel diritto come violenza domata, nella legalità quale regola e limite al potere, nella democrazia come conflitto senza spargimento di sangue. Sono i fondamentali del costituzionalismo liberale, sui quali ha saputo edificare un metodo di lotta politica capace di usare il diritto (lex) in funzione dei diritti (jura). Due soli esempi, giusto per capirci. In un Paese dove la rappresentanza politica non è elettoralmente accessibile a tutti, Pannella ha avuto il grande merito di scoprire la seconda scheda, quella referendaria. L’ha messa in mano a ciascun elettore, chiamato a decidere se abrogare una legge o – con i quesiti manipolativi – addirittura riscriverla. Attraverso questo inedito canale di decisione politica, i referendum radicali hanno permesso al Paese di esprimersi su temi altrimenti sequestrati, come il divorzio e l’aborto, la depenalizzazione delle droghe leggere e la fecondazione assistita. Hanno posto al centro del dibattito pubblico il tema del finanziamento ai partiti, la politica energetica, la responsabilità civile dei magistrati, le libertà economiche e sindacali. Negli anni di piombo e della fermezza («La fermezza è stare fermi», denunciava, non a torto, Pannella), hanno messo in discussione le leggi emergenziali, l’infinita durata della custodia cautelare, il porto d’armi, l’ergastolo. L’altro strumento giuridico concepito da Pannella è l’uso della questione di costituzionalità come canale alternativo di riforma legislativa. Disobbedendo pubblicamente a una legge ingiusta, il militante radicale vuole andare a processo per chiedere al proprio giudice di impugnarla davanti alla Corte costituzionale. E poiché la Consulta risponde non al consenso popolare, ma alla legalità costituzionale, quella legge – se illegittima – sarà cancellata. È così che l’Associazione Luca Coscioni ha smantellato le ideologiche norme proibizioniste sulla procreazione assistita. È la strada che Marco Cappato ha percorso per smascherare l’incostituzionalità del reato, previsto nel codice penale fascista, che puniva qualunque forma di aiuto al suicidio al pari della sua istigazione. Il referendum e la quaestio: tecniche nonviolente perché normate dal diritto, che permettono così a una forza politica di minoranza (ma non d’élite) di esprimere un’inedita vocazione maggioritaria. È uno degli insegnamenti pannelliani più importanti, perché predicato e praticato. Ora come allora: vale per l’accertata incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, inseguita e ottenuta da Nessuno Tocchi Caino; vale per le imminenti campagne referendarie dell’Associazione Coscioni sulla depenalizzazione dell’eutanasia di soggetti “non vulnerabili”, e del Partito Radicale sui temi della giustizia. Ci sarà pure l’altra faccia della luna, nella prassi politica radicale? Per molti è nel suo tratto più discusso e discutibile, l’antipolitica, di cui Pannella sarebbe stato il precursore. La parola allora all’accusa, che sgrana il lungo rosario d’imputazioni a suo carico: la candidatura nelle liste radicali della pornostar Ilona Staller, eletta deputata nella X Legislatura, remake del pitale dannunziano lanciato da un biplano sul Parlamento. La “lista Pannella”, prima formazione politica a recare nella denominazione e nel simbolo il nome del suo leader, aurorale deriva dei tanti sciagurati partiti personali che verranno. Le campagne elettorali a favore dell’astensione, scaltro escamotage per acquisire consenso a buon mercato. L’abuso dello strumento referendario, in aperta contestazione alla delega parlamentare. I tratti predicatori presenti nella sua comunicazione politica, fino alla retorica populista contro la partitocrazia. Le accuse antisistema mosse a organi costituzionali (su tutte, la Corte costituzionale quale giudice referendario, «suprema cupola della mafiosità partitocratica»). L’abuso dei regolamenti parlamentari in chiave ostruzionistica contro la maggioranza politica, sabotata nel suo potere di decisione. Le disinvolte alleanze – di destra, di sinistra, di centro – viste come pratiche di trasformismo. Uno smisurato narcisismo, riassumibile nella frase attribuita a Pannella – ma in realtà di Franco Roccella – «Chi non è con me è contro di sé». La parola alla difesa. Totus politicus, Pannella non è mai stato un extraparlamentare, avendo una concezione quasi sacrale della politica e delle istituzioni. Il suo agire trasformando seguiva una propria coerente incoerenza in fatto di alleanze perché, per lui, contava solo la battaglia di scopo, non con chi la fai. La sua identità politica, infatti, non si è mai definita per opposizione a qualcuno, dunque poteva dialogare con tutti senza mai smarrirsi: stava dov’era meglio stare per far avanzare le proprie idee, contaminando gli altri senza mai corrompersi. Ecco perché vedere nel leader radicale un Beppe Grillo antemarcia è un abbaglio cognitivo, prima ancora che un incommensurabile e offensivo paragone. Oggi è il tempo dei politici a contratto, dei presidenti del Consiglio selezionati in base al curriculum, taroccato se necessario. Ecco quello di Pannella: deputato per quattro legislature (1976, 1979, 1983, 1987) ed europarlamentare per sei. Consigliere comunale a Trieste, Catania, Napoli, Teramo, L’Aquila, Roma, e consigliere regionale nel Lazio e in Abruzzo. Tra giugno e settembre 1992, per cento giorni, Presidente del Municipio di Ostia sciolto mesi prima per corruzione e infiltrazioni mafiose, dove lascia un segno (dalle ruspe dell’esercito chiamato ad abbattere le case abusive, al sorteggio anti-Cencelli delle commissioni): è stata, questa, la sua unica esperienza di amministratore. Negli ultimi vent’anni di vita non ricoprì più alcuna carica parlamentare, né fu nominato senatore a vita, pur avendone certamente i requisiti indicati dall’art. 59 Cost. Mai è stato chiamato a rivestire la carica di Ministro, neppure della Giustizia o degli Affari Esteri, o di Commissario europeo, per indicare tre sue evidenti vocazioni e dichiarate ambizioni. Eppure ha saputo realizzare più cose lui di più governi messi insieme. Un vero e proprio sperpero per il Paese, se confrontato alle improbabili biografie di tanti soggetti investiti di potere in questi anni, buoni a nulla capaci di tutto. Sappiamo però quale sarebbe stato il primo atto di un Pannella eletto al Quirinale: «Dimettermi, perché se il Paese mi eleggesse democraticamente vorrebbe dire che non ha più bisogno di me». A pensarci bene, è la situazione esattamente capovolta dell’ex Primo ministro del governo Di Maio-Salvini, elevato per caso alla presidenza del Consiglio proprio perché non c’era bisogno di lui. Resta da dire dell’eredità politica lasciata da Marco Pannella. Per farlo, serve citare l’antipatizzante Giovanni Negri, già segretario del Partito Radicale dal 1984 al 1988: «Conosci l’Okavango? È il fiume più bello del mondo. Ma non sfocia nel mare, finisce nel deserto. Pannella è l’Okavango della politica». È il rimprovero che molti gli fanno: non aver mai voluto incanalare la sua energia politica in una cornice di partito istituzionalizzato, lasciando così il Paese orfano di una significativa forza parlamentare, capace di rappresentare stabilmente un’area laico-democratica-riformatrice. È il limite di fondo dell’esperienza pannelliana anche secondo molti politologi (Angelo Panebianco, Massimo Teodori e Piero Ignazi, ad esempio), in tempi ormai remoti vicini ai radicali. La sua morte ha segnato anche la fine della storia radicale per come l’avevamo fin qui conosciuta. È il destino di qualsiasi comunità politica lasciata dal suo leader carismatico senza eredi, perché come lui nessuno più. Pannella, in fondo, al dopo non ci ha mai pensato, temendo gli apparati e la loro sclerosi. Ad essi ha sempre preferito una piccola, ma agguerrita comunità di compagni pronti a ricominciare ogni volta di nuovo, e ha sempre privilegiato la diaspora all’interno degli altri partiti di chi alla scuola radicale si era formato. Più e meglio della galassia radicale (implosa con inusitato e rancoroso livore, allo spegnersi del suo sole), è stata Radio Radicale a conservare indivisa l’eredità lasciata da Pannella: se ne rintracciano i segni nel palinsesto, nell’incredibile archivio audiovisivo, nelle battaglie di scopo di cui si fa emittente, nella pluralità di voci che non ne corrode la forte identità, testimoniata da quarantacinque anni di vita vissuta (e non sopravvissuta), ininterrottamente, nonostante tutto e tutti. E, come diceva Pannella citando Bergson, «La durata è la forma delle cose». La voce del silenzio che seguirebbe alla sua chiusura, ciclicamente minacciata dalla maggioranza di turno, non sarebbe solo interruzione di pubblico servizio (che è un illecito penale e non una scelta che «sta nella libertà del Governo fare», come ebbe a dire Vito Crimi, indimenticato gerarca minore del governo felpa-stellato). Sarebbe come zittire Pannella, silenziandone la voce. Nessuno ci è mai riuscito in vita, perché «Pannella sedato era una contraddizione in termini. Infatti non è durato nemmeno un giorno», come scrisse alla sua morte un altro radicale libero, Massimo Bordin. Marco Pannella era un galantuomo, spesso ispirato dal sole, che scaricava le sue pistole in aria e regalava le sue parole ai sordi. Per molti una spina di pesce, di quelle che ti vanno di traverso e di cui non ti puoi liberare. Era il Signor Hood della politica italiana, come lo ha cantato Francesco De Gregori nell’omonima canzone a Pannella dedicata («a M., con autonomia»). A chi – come me – ha ricevuto il grande dono di aver goduto della sua stima esigente e del suo affetto generoso e disinteressato, resta ancora oggi un di più di tristezza e di vuoto per la sua assenza. Da riempire, per quanto si è capaci, calpestando sempre nuove aiuole. Andrea Pugiotto

·        Che Guevara tra storia e mito.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 24 giugno 2021. Informazione globale, ignoranza pure. Siccome Napoli è una città senza problemi, il sindaco Luigi De Magistris ha pensato di ricevere la figlia di Che Guevara e di mostrarle il suo ufficio ridondante gadget della Rivoluzione cubana, estraendo questi due gioielli: «Ho più foto di tuo padre che di Mattarella», «Vorrei essere ricordato come il Che Guevara di Napoli». Speriamo di no, visto che il «Che» resta protagonista di un clamoroso equivoco storico ma resta la sacra icona non si sa di che cosa. Ernesto Che Guevara de la Serna, infatti, ha commesso almeno 144 omicidi tra quelli provati (fonte: Archivio Cuba) e nella sua autobiografia ha scritto di «odio come fattore di lotta», nei suoi «Diari della motocicletta» ha scritto della «scarsa abitudine dei negri a farsi il bagno», a un giornalista cubano disse che «dobbiamo eliminare tutti i giornali, non si può fare una rivoluzione con una stampa libera», era favorevole ai gulag per gli oppositori, durante la sua reggenza ordinò centinaia di esecuzioni, il New York Times nel 2017 ne stimò 528 in due mesi, lui precisando: «Li abbiamo fucilati senza sapere se fossero completamente colpevoli, la rivoluzione non può fermarsi per fare indagini», «non abbiamo bisogno di prove per giustiziare un uomo», «dobbiamo proseguire anche se questo costasse milioni di vittime atomiche». Insomma, Gigi Che Magistris: statti calmo.

Felice Cavallaro per il "Corriere della Sera" il 16 giugno 2021. L'ha rivista dopo 25 anni la Palermo di cui spesso si parla a Cuba. Sì, Aleida Guevara, la figlia del mitico Che, pediatra anestesista, arrivata in Sicilia con la voglia di confrontare la sanità italiana con quella della sua isola, confida che pure di Mondello e del mare palermitano si chiacchiera ai piani alti di Cuba. Con i Castro di Fidel e del fratello Raùl per parentele radicate proprio nella capitale dove lunedì il sindaco Leoluca Orlando le ha assegnato la cittadinanza onoraria, nel giorno del compleanno dell'eroico guerrigliero nato in Argentina 93 anni fa. Commossa per il padre combattente e fiera dell'accoglienza, in questo tour organizzato dall' associazione Italia-Cuba ha rivisto tanti luoghi e ne ha scoperti tanti altri. Compresa la Corleone di Totò Riina che i compagni della Camera del Lavoro le hanno mostrato come il simbolo del riscatto parlando di Placido Rizzotto, dei sindacalisti caduti e del sindaco buono, Bernardino Verro, che dalla sua statua controlla il giardino Falcone e Borsellino. «Un'altra Sicilia, mi sembra migliorata...», ha commentato attraversando i padiglioni della Fiera del Mediterraneo trasformata in un hub anti Covid, condotta per mano da Renato Costa, il medico e commissario regionale che 25 anni fa la accolse come altri «compagni». E lei si guarda intorno pensando alla sanità di casa sua: «Abbiamo un sistema pubblico equo per tutti, ma soffocato dai potenti, dagli Stati che, come gli Usa di Trump ma anche di Biden, con l'embargo ci impediscono di avere l'essenziale. Produciamo cinque vaccini e non abbiamo le siringhe...». Gli accompagnatori ufficiali, dall'avvocato Ninni Cirrincione che presiede l'associazione a Frank Ferlisi, altro vecchio compagno mezzo americano, si sorprendono per quell' equiparazione. Ma lei, cancellando per un momento il suo sorriso gioviale, parla di speranze finora deluse: «Quando venne Obama a Cuba la storia sembrò mutare. Poi tutta indietro, con Trump. E con Biden non s' è ancora mosso nulla». Parla di altro a Monreale visitando il Duomo e il chiostro con monsignor Michele Pennisi, il vescovo che picchia duro sulla mafia. Sorpreso, come don Cosimo Scordato, altro sacerdote di frontiera a Palermo, quando Aleida rivela «una proposta arrivata da qualcuno che parlava per conto del Vaticano: c' è chi a Roma ha pensato di fare beato mio padre». La beatificazione del Che?, chiedono tutti sbalorditi. Notizia che non sorprende la figlia Celia, trent'anni, anche lei medico. «Una signora che stava male a Cuba dice di essere stata salvata pensando a lui. E un'altra pure...». Non giurano sui miracoli. Ma padre Scordato ha studiato la teologia della liberazione e Aleida Guevara è felice di conoscere chi la apprezza ascoltando il racconto di un viaggio in Brasile con Maria Falcone. Storie che sembra conoscere da sempre la figlia del Che, rilassata la sera, desiderosa di assaggiare una arancina «come il commissario Montalbano, come l'amato Camilleri». E poi muovendosi ancora nella Palermo di cui si parla a Cuba perché una figlia di Raùl Castro ha sposato un palermitano doc con cui spesso torna a Mondello, in incognito, narrando di ogni viaggio a parenti e compagni.

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 maggio 2021. Caro Dago, ti confesso che per motivi generazionali ho una gran difficoltà a maneggiare il ricordo di Che Guevara e dunque il giudizio storico-politico su di lui, da quanto la sua immagine è stato un feticcio iconico della mia generazione. Da vivo ma anche da morto, stante la sua dignità e il suo coraggio innanzi a quelli che lo stavano assassinando. Non rinnego l’immagine che misi sulla copertina del numero 18 (inverno/primavera 1968) di “Giovane critica”, la rivista che si prese tutti interi i miei vent’anni. Era un disegno che raffigurava il “Che” e sotto il quale stava la seguente didascalia: “Yo les confieso che nunca me sentí extranjero. Ni en Cuba ni en cualquiera de todos los países que he recorrido, ho tenido una vida un poco aventurera”. Ora, ovvio che le colpe dei figli non ricadono sui padri. Certo che fa impressione la sequenza di idiozie che Aleida Guevara, la maggiore dei quattro figli del “Che” , ha pronunciato nel rispondere alle domande di Filippo Femia nell’intervista che pubblica oggi “La Stampa” alla pagina 17. Idiozie al limite della caricatura. Il bravo Femia le chiede che cosa ne penserebbe Guevara della Cuba di oggi e lei risponde esattamente così: “Non capirebbe mai le aperture al settore privato. Storcerebbe il naso vedendo i lavoratori autonomi. Li considererebbe un piccolo cancro nella società. Quando inizi a pensare alle tue tasche, lì cominciato i problemi per il popolo”. Ora va bene che da ministro dell’economia Guevara era stato di un assoluto fanatismo statalista e comunisteggiante, ma ne è passata di acqua sotto i ponti in oltre mezzo secolo perché noi si resti impassibili ad ascoltare tali puttanate. E ancora. Femia chiede “Come giudica gli arresti dei dissidenti a Cuba?”. E la figlia di Guevara, prontissima: “Se rispetti il popolo cubano, nessuno ti tocca, Ma se ricevi soldi dall’estero per destabilizzare il Paese, allora vai in carcere. Prigionieri politici? A Cuba non esistono”. Ma c’è una domanda ancora più drammatica. Pare che un’associazione di Rosario, la città argentina che ha dato i natali a Guevara e a Lionel Messi, vuole che si abbatta la statua di Guevara in città, e questo perché si tratta di un assassino lampante e riconosciuto. Femia chiede alla figlia che cosa ne pensi, ed è ovvio che si tratta una domanda cui è spaventoso rispondere da parte di una figlia. Lei risponde come può: “Mio padre era un guerrigliero, non un santo. Ha imbracciato le armi e lottato per un mondo migliore. Altrimenti la guerriglia a cosa serve? Quando in Italia si canta "Bella ciao", non è forse un inno ai guerriglieri che vi liberarono dal fascismo?”. Premesso che in punta di fatto il fascismo non venne sconfitto da poche migliaia di guerriglieri annidati nelle montagne e bensì dai bombardamenti alleati che distruggevano città italiane, dai carri armati angloamericani che irruppero sulla pianura padana dopo un inverno di stallo, dai soldati polacchi che per primi conquistarono l’abbazia di Monte Cassino. Premesso tutto questo, che Guevara sia stato un guerrigliero eroico a Cuba (laddove è stato un guerrigliero farneticante in una Bolivia in cui nessuno si accorse di lui salvo quelli che lo assassinarono), non v’ha dubbio. Che da ministro del governo comunista di Fidel Castro sia stato anche un assassino politico, io al momento non so rispondere. Vorrei leggere le carte che sono state proposte da quelli di Rosario che intendono buttar giù la statua. Vorrei tanto leggerle. Non che questo mi farebbe arrivare a scorticare Guevara dal pantheon della mia giovinezza. Questo no. Uno non può fare della propria giovinezza qualcosa di diverso da quello che è stata.

Filippo Femia per “la Stampa” l'8 maggio 2021. «Cambiano gli uomini, ma gli ideali della Revolución sono eterni». Aleida Guevara risponde al telefono dal Centro Studi, a L' Avana, intitolato al padre. L' ufficio dove è seduta ospitava la camera da letto dei genitori, Ernesto Guevara e Aleida March. Lei è la maggiore dei quattro figli della coppia. Nata un anno dopo la conquista del potere dei barbudos, quando il guerrigliero argentino è stato assassinato in Bolivia aveva sei anni. Medico come il padre (è specialista in allergologia pediatrica), difende l'ultima roccaforte socialista al mondo: «Per Cuba siamo tutti pronti a batterci: forse verrei assegnata alle retrovie, ma con il fucile ho ancora un'ottima mira».

Signora Guevara, l'ultimo dei Castro è andato in pensione. Cosa cambia?

«Nulla, è un cambio nel segno della continuità. Disgraziatamente gli uomini non sono eterni, ma gli ideali restano. Il presidente e segretario del partito Díaz-Canel è cresciuto e si è formato nella rivoluzione». 

Come vede Cuba tra 10 anni?

«Spero che l'embargo non ci sarà più, ma non dipende da noi. L' unica certezza è che Cuba nel 2030 sarà indipendente, libera e sovrana. Ma anche nel 2040 e nel 2050». 

L' isola sta attraversando la peggior crisi dal "período especial". Biden alla Casa Bianca può favorire il disgelo tra Cuba e Usa?

«È quello che tutti speriamo. Non vogliamo più che a 90 miglia dalle nostre coste ci sia un nemico come gli Stati Uniti. Ci piacerebbe che, a dispetto delle idee differenti, ci fosse rispetto. Speriamo che Biden elimini l'embargo: è una guerra criminale. Se non lo vivi, non puoi capirne neanche lontanamente l'impatto».

Provi con un esempio.

«Prendiamo qualcosa di attuale: la sanità. L' embargo ci impedisce di acquistare strumentazioni all' avanguardia o alcune medicine. Se un'azienda farmaceutica italiana vuole venderci un farmaco, Washington può decidere per ritorsione che non sarà venduto negli Usa. A volte compriamo medicine a prezzi esorbitanti perché per eludere le sanzioni passano da quattro o cinque intermediari». 

Cuba sta sviluppando il suo vaccino, cosa pensa delle aziende farmaceutiche che si oppongono alla liberalizzazione dei brevetti?

«Una scelta criminale. La vita degli esseri umani è diventata una merce: non si possono fare affari con la disperazione e il dolore umano. Mio padre diceva: "Meglio la vita di un bambino che tutto l'oro dell'uomo più ricco del mondo"». 

Se fosse vivo, come giudicherebbe la Cuba di oggi?

«Non capirebbe mai le aperture al settore privato. Storcerebbe il naso vedendo i "cuentapropistas" (lavoratori autonomi, ndr). Li considererebbe un piccolo cancro nella società: quando inizi a pensare alle tue tasche, lì cominciano i problemi per il popolo». 

Una battaglia che oggi combatterebbe?

«Sicuramente quella ecologica. Sessant' anni fa, nei suoi scritti, affrontava il tema della difesa della natura: sono certa che alzerebbe la voce contro le imprese che stanno distruggendo il pianeta. L' altro fronte sarebbe quello contro le disuguaglianze del mondo, che la pandemia ha acuito». 

Nel 2017 un'associazione di Rosario, città natale di suo padre, ha proposto di abbattere la sua statua sostenendo che omaggia un assassino. Cosa ne pensa?

«Sarebbe triste, perché quella statua è stata realizzata con oggetti di bronzo donato dai cittadini. Ma è, appunto, solo una statua: buttandola giù non si cancellerebbe l'immagine del Che, già interiorizzata da milioni di persone». 

E quell' accusa di essere un assassino?

«Il nemico proverà sempre a togliere i meriti a un uomo che evidentemente fa paura anche da morto. Mio padre era un guerrigliero, non un santo. Ha imbracciato le armi e lottato per un mondo migliore. Altrimenti la guerriglia a cosa serve? Quando in Italia si canta "Bella Ciao" non è forse un inno ai guerriglieri che vi liberarono dal fascismo? Mio padre amava la vita, per questo scelse la lotta armata. Se non l'avesse fatto, oggi Cuba non sarebbe un Paese libero».

Le ha insegnato a lottare contro le ingiustizie. Come giudica gli arresti dei dissidenti a Cuba?

«Se rispetti il popolo cubano, nessuno ti tocca. Ma se ricevi soldi dall' estero per destabilizzare il Paese, allora vai in carcere». 

Sono prigionieri politici?

«A Cuba non esistono». 

Cuba è una democrazia?

«La parola arriva dal greco, significa "potere del popolo". Nella nostra isola il potere è nelle mani del popolo». 

Un po' poco, l’etimologia: nelle democrazie esistono diversi partiti, a Cuba uno soltanto.

«Il partito comunista è l'avanguardia del popolo e rispetta le decisioni prese dalla gente.

Finché sarà così non ci sarà bisogno di elezioni».

Maddalena Pezzotti su Inside Over il 21 febbraio 2021. In ogni importante mobilitazione dell’era contemporanea, ispirata alla giustizia sociale, viene sventolata una bandiera con il volto del comandante Ernesto “Che” Guevara, ritratto da Alberto Korda nel 1960, in occasione dei funerali di stato dei morti in un attentato a opera di esuli anticastristi, orchestrato dalla Cia. L’immagine, regalata da Korda all’editore Giangiacomo Feltrinelli, è la più celebre del XX secolo, secondo l’istituto d’arte del Maryland. Questa è divenuta lo stendardo della ribellione, dalle black panthers all’intifada, passando per il movimento contro l’apartheid e il maggio francese, fino alle proteste di occupy Wall Street e degli studenti giapponesi. In un processo di ri-significazione permanente, la figura del Che condensa rivendicazioni e speranze collettive e galvanizza le masse. Se nelle parole del filosofo politico, José Carlos Mariátegui, il mito colloca l’umanità nella storia, e senza di questo l’esistenza non ha alcun senso storico, Ernesto Guevara rappresenta un linguaggio pervasivo che allude alla possibilità di affermazione delle aspirazioni di settori e identità sociali alla ricerca di un nuovo paradigma di convivenza. Pur in un contesto dove le ideologie sono decadute, la sua connotazione di eroe popolare mantiene vitalità e capacità di alimentare fenomeni transazionali. Jean-Paul Sartre incontrò il Che a Cuba nel 1960, a un anno dal rovesciamento del dittatore Fulgencio Batista, e i due si intrattennero in lunghe conversazioni. Alla notizia della sua scomparsa, Sartre lo definì “l’essere umano più completo del nostro tempo”. Forse a causa di ciò, la sua vicenda è stata sottoposta a molteplici interpretazioni, dispute e manipolazioni, come è toccato in sorte a pochi personaggi pubblici.

La mercificazione del corpo. Dal suo assassinato, nell’ottobre del 1967, il corpo di Ernesto Guevara fu oggetto di esposizione universale. Era alle redini dell’esercito di liberazione nazionale, sostenuto dall’Unione sovietica, contro il tiranno René Barrientos Ortuño, supportato dagli Stati Uniti. In piena guerra fredda, grazie a una delazione, venne catturato con altri combattenti, in un’imboscata sul Rio Grande, e fucilato, nel villaggio La Higuera. La sua caccia fu soprintesa da Félix Rodríguez, un agente della Cia, infiltrato a Cuba prima dell’invasione della Baia dei Porci, ed evacuato dopo il suo fallimento. Nonostante il parere contrario di Rodríguez, Barrientos, che dall’esordio del conflitto civile aveva annunciato che avrebbe affisso testa del Che su una picca nel centro di Laz Paz, informato degli eventi, ne ordinò l’eliminazione extragiudiziale e diffuse un comunicato in cui dichiarava che questi era caduto in battaglia. Il cadavere, che aveva gli occhi aperti, venne dato in pasto alla stampa sul piano di lavaggio dell’ospedale di Vallegrande, dove era stato trasportato in elicottero. Le fotografie fecero il giro del pianeta. Rodríguez sottrasse i suoi effetti, che negli anni avrebbe spesso mostrato come cimeli a giornalisti e curiosi. Il fatto che guardasse come fosse ancora vivo fece nascere leggende, come quelle di San Ernesto de La Higuera e El Cristo de Vallegrande, e persino un culto religioso intorno alla sua persona. Il corpo, mutilato delle mani per il riconoscimento delle impronte, e sepolto in segreto, venne rivenuto, nel 1997, da una missione di antropologia forense, composta da esperti argentini e cubani. I resti furono tumulati, con gli onori militari, in un mausoleo a Santa Clara, la città cubana la cui capitolazione nel dicembre del 1958, sotto il fuoco della colonna guidata dal Che, diede il via alla marcia sull’Avana, e fu decisiva per la vittoria finale della rivoluzione. Da quella data, la sua immagine è stata usata a fini commerciali per manifesti, adesivi, magliette, portachiavi, accendini, e qualsiasi cosa possa essere venduta su una bancarella. Un’esplosione di gadget ha luogo in occasione di ogni anniversario. Un paradosso ironico per qualcuno che poteva citare dai tre tomi de Il Capitale di Karl Marx.

L’edulcorazione dello spirito rivoluzionario. Nato nel 1928, a Rosario in Argentina, in un’abbiente e colta famiglia borghese, assorbe amore per la letteratura, con una speciale passione per la poesia, eccletticismo intellettuale, e spirito d’avventura. Si imbarca come infermiere su mercantili e petroliere in Brasile, Trinidad e Tobago e Venezuela. Nel 1950, intraprende un viaggio con un amico attraverso il Sudamerica, con la borsa del dottore, dal cui diario, si apprendono le riflessioni suscitate dallo schiavismo imposto ai minatori cileni, il maltrattamento inflitto agli indigeni peruviani, e il drammatico contrasto venezuelano fra ricchezza e miseria. Seguiranno trasferte in paesi della regione che attraversano cambiamenti sociali e politici. In Costa Rica e Guatemala si avvicina a circoli avversi al colonialismo economico della statunitense United Fruit Company e si presta come medico dei sindacati agricoli. Incontra gli esuli cubani che erano stati protagonisti dell’assalto alla Caserma di Moncada del 1953, organizzato da Fidel e Raúl Castro, che aveva portato all’incarcerazione di Fidel, dopo la celebre autodifesa in tribunale, ricordata con la frase “La storia mi assolverà”. É in Messico, che conosce i Castro – Fidel era stato amnistiato nel 1955 – e decide di aderire al progetto di abbattere il regime di Batista. Nel 1956, con 82 uomini, salpa sullo Granma, alla volta di Cuba. Attaccati allo sbarco, i 12 sopravvissuti riparano sulla Sierra Maestra per allestire l’offensiva. Sebbene avesse ricevuto addestramento militare, all’inizio si occupa di assistenza sanitaria e dentistica, il giornale El cubano libre e Radio rebelde, e compiti di collegamento e coordinazione. Si dedica a insegnare a leggere e scrivere ai giovani contadini che venivano ingrossando le truppe. L’animo inquieto, l’eccentricità delle scelte per un rampollo benestante, e l’impegno da medico degli oppressi, gli hanno conferito un’aria bohémien. Questa lettura ha condotto alla canonizzazione del Che in un idealista che lottò contro la disuguaglianza e l’esclusione, vittima della propria ingenuità o eccesso di zelo. Il tentativo è stato quello di depotenziarlo, spogliandolo di ogni contenuto rivoluzionario, che potesse essere incendiario. Alcuni, soprattutto nel suo paese natale, lo hanno catalogato come un ben intenzionato che poco comprendeva di politica.

Il discredito personale e politico. Un racconto divergente lo dipinge come un omicida sanguinario e privo di scrupoli. Distintosi per l’audacia nel combattimento, gli viene attribuita l’uccisione diretta di oltre 500 persone. Ci sono biografi che lo dipingono alla stregua di uno squilibrato mentale, aggressivo e dispotico, con un profilo psicologico dominante, che non ammetteva essere contraddetto, e a cui solo Fidel Castro teneva testa. É certo che quando entrò a pieno nel teatro bellico fu a capo delle azioni più pericolose e di squadre suicide. Questa linea enfatizza il ruolo istituzionale, ricoperto dal Che negli anni sessanta, i più duri nella Cuba post rivoluzionaria, in arresti, confische di beni materiali, esili forzati, e fucilazioni, di oppositori politici; così come l’incarico di direzione del primo campo di lavoro per la correzione di quanti avevano deviato dalla “morale rivoluzionaria”. La sua ideologia viene, inoltre, appianata, sull’articolo, pubblicato dall’organizzazione della solidarietà dei popoli d’Africa, Asia e America Latina, che si riferisce all’“odio come fattore di lotta” e al rivoluzionario come “un’efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”. Il suo eclissamento dalla vita pubblica nel 1965, dopo una prominente agenda internazionale, è stato divulgato come la risultante di un ostracismo dettato dal presunto fiasco dei suoi incarichi nell’istituto per la riforma agraria e il ministero dell’industria, la sua preferenza per il comunismo cinese in un momento in cui si acutizzava la frattura tra Mosca e Pechino, e le polemiche contro l’Unione Sovietica, che dirigenti del Cremlino avrebbero discusso in forma confidenziale con Castro. Associata a questa teoria è anche la supposizione che il Che sia stato persuaso, o addirittura indotto, ad appoggiare la sollevazione marxista, prima in Congo e dopo in Bolivia, forse con la promessa di un colpo di stato in Argentina, per allontanarlo dagli affari interni. Le stesse semplificazioni si lanciano nella tessitura di un complotto ai danni del Che in Bolivia, concretato da mappe false proporzionate dall’intelligence cubana e il mancato invio dall’Avana delle armi e gli approvvigionamenti necessari per gli operativi. Il discredito coinvolge Fidel Castro, come mandante dell’esecuzione, per liberarsi di un rivale sul piano del consenso popolare, e un collaboratore scomodo agli occhi di un alleato imprescindibile, da cui l’economia di Cuba era diventata dipendente. Per tale narrativa, il Che non fu mai d’accordo con la posizione sovietica di “coesistenza pacifica”, per evitare provocazioni durante la guerra fredda, e sarebbe stato a favore di uno scontro nucleare, nella crisi dei missili del 1962. Non v’è dubbio che Guevara fosse un simpatizzante della strategia maoista dell’America Latina e guardasse alla campagna cinese del “grande balzo in avanti” come un modello plausibile per l’industrializzazione di Cuba. É altrettanto vero che percepì come un tradimento la decisione di Nikita Chruščёv, presa senza consultare Castro, di ritirare i missili da Cuba. Tuttavia, entrambi sostenevano e lavoravano all’idea di un fronte unico fra Unione Sovietica e Cina, dato che, sul lungo termine, l’incerto futuro dell’isola sarebbe stato meglio garantito da una coesione delle due principali potenze comuniste. Il Che aveva visitato sia l’Asia, per l’apertura di mercati, sia la Jugoslavia, per capire il sistema aziendale dell’autogestione delle fabbriche da parte degli operai.

L’eredità del pensiero. L’attualità di Ernesto Guevara non risiede nell’iconografia, ma nell’asse centrale del suo pensiero sul potere e la rivoluzione. Le sue analisi erano avanzate rispetto alla realpolitik dell’epoca. Aveva, infatti, cominciato a vedere l’emisfero settentrionale, pilotato a ovest dagli Stati Uniti e a est dall’Unione Sovietica, come unica entità prevalicatrice dell’emisfero meridionale ed era convinto che i paesi socialisti avessero il dovere etico di dare un taglio netto alla loro tacita complicità con i paesi occidentali. Guevara rimane il politico radicale e visionario più autorevole dell’America Latina. Ogni generazione dialoga con la sua eredità, ricreandola da problemi, dubbi, mancanze, sfide e sogni diversi: gli insorti colombiani, i piqueteros argentini, gli zapatisti del Chiapas, il bolivarismo in Venezuela, i contadini senza terra brasiliani, il movimento indigeno boliviano. Il suo solo nome racchiude concetti complessi, come la coscienza di classe, la lotta contro l’alienazione e lo sfruttamento, la disamina dei grandi poteri, il confronto e la critica delle istituzioni e la burocrazia; ed evoca una rinnovata cultura della partecipazione, la democrazia e la cittadinanza, e un genuino internazionalismo.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Gli amici Terroristi.

«Guido Rossa, l’operaio ucciso perché contro le Br. Una tragedia che ha cambiato gli anni di piombo». Da alpinista a sindacalista e comunista disciplinato. Nella biografia dell’operaio ucciso dai terroristi rossi c’è un viaggio nell’Italia e nella sinistra del dopoguerra, ricostruito da Sergio Luzzatto. Marco Damilano su L'Espresso il 24 Novembre 2021. Di Guido Rossa operaio, sindacalista, si ricorda, almeno per chi non ha perso la memoria degli anni Settanta, la tragica fine, ucciso sotto casa a Genova il 24 gennaio 1979, nella sua Fiat 850, dalle Brigate rosse, dopo che aveva denunciato in solitudine l’impiegato Francesco Berardi che distribuiva in fabbrica i volantini dell’organizzazione terroristica. Una storia che si chiude nel momento conclusivo, come è successo a tante altre vittime degli anni di piombo, a cominciare da Aldo Moro.

Heinrich Oberleiter. Marco Angelucci per corrieredelveneto.corriere.it il 10 dicembre 2021. «Scusi ma devo dormirci sopra». Sono le 20.30 e Heinrich Oberleiter ha da poco ricevuto la telefonata della figlia che gli annuncia la lieta notizia. Quella che aspettava da anni. Adesso che è arrivata la grazia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Oberleiter può tornare nella sua valle, in Alto Adige, da uomo libero. Quella valle Aurina da cui è fuggito alla fine degli anni ‘60 inseguito da un mandato di arresto della giustizia italiana. Non ha mai fatto un giorno di carcere ma adesso è un altro uomo, nella sua seconda vita in Germania si è occupato di disabili e oggi si gode la pensione. E la grazia del presidente Mattarella. Inizialmente non ha voglia di parlare ma si trasforma in un fiume in piena evocando ricordi di un passato con cui l’Alto Adige ancora fatica a fare i conti. Era il 9 luglio del 1971 quando i giudici della Corte d’Assise d’appello di Firenze lessero la sentenza che condannava Heinrich Oberleiter e tutto il gruppo dei «Puschtra Buibn» all’ergastolo. Le accuse erano strage continuata, banda armata e attentato all’integrità dello Stato. 

Oberleiter, è contento della grazia?

«Certamente ma devo ancora dormirci sopra. Non ho ancora realizzato bene cosa significa». 

Significa che può tornare in Alto Adige. Arriverà per Natale?

«Non credo che le cose vadano così veloci. Io sono sempre uno che ha fatto le cose giuste al momento giusto. Non ho mai agito d’impulso. E questo mi ha portato fortuna». 

Allora diciamo che arriverà nel 2022?

«Ho una certa età e, specialmente in questo tempo di pandemia non bisogna fare programmi a lungo termine». 

La prima cosa che vorrebbe fare appena torna?

«Vorrei riabbracciare i miei cari. Ho ancora molti amici e familiari. Sono il quarto di dodici figli, fin da piccolo mi sono occupato molto dei miei fratelli e sorelle. Forse è stato questo che mi ha spinto ad occuparmi dei disabili. Un mio fratello, a Gais, ha seguito la stessa strada e ha lavorato a lungo al Sägemüllerhof». 

In questi anni non li ha mai visti?

«Si, sono venuti a trovarmi. E anch’io in realtà sono tornato diverse volte, in incognito. Senza farmi scoprire».

Andare avanti e indietro tra Italia e Austria senza farsi scoprire è sempre stata una specialità...

«Beh sì. Mi piacerebbe farmi un giro per le mie montagne. Ma ho una certa età, non posso andare ovunque. Allora ci muovevamo solo a piedi».

Mattarella con la grazia ha riconosciuto che lei non ha ucciso nessuno. Per lei che è stato condannato per strage è una riabilitazione. Lo Stato riconosce che la giustizia non è stata così giusta con voi...

«Ce n’è voluto di tempo. Noi Puschtra Buibn siamo stati incolpati di tutto quello che lo Stato non riusciva o non voleva spiegare». 

Non è che eravate proprio dei santi. Attentati ne avete fatti anche voi...

«Non volevamo causare tanta sofferenza ma ci hanno accusato di cose che non abbiamo commesso».

Come l’omicidio del carabiniere Vittorio Tiralongo?

«Assurdo, eravamo a 150 chilometri di distanza. E allora ci si muoveva solo a piedi. Sono state fatte delle ricostruzioni fantasiose. Karl Joosten (un collaboratore dei servizi che infiltrava gli ambienti del Bas testimone in diversi processi, ndr) passava le informazioni alla stampa della Sera e avevano fatto una vignetta con le ricostruzioni di come era avvenuta la strage di Malga Sasso. Sostenevano che avevamo tirato su la bomba con una corda e l’avevamo buttata nel camino. Assurdo: Malga Sasso era sorvegliatissima». 

Effettivamente sembra un po’ fantasiosa...

«Tutte menzogne. Guardi io non ho niente contro gli italiani, ne ho conosciuti diversi. Ho fatto anche il militare a Verona». 

Un secessionista sudtirolese con la divisa dell’esercito italiano?

«Sì, sono stato buono, parlavo poco e mi hanno mandato negli alpini. Vicino a casa. Chi si esponeva lo spedivano in Sicilia, ho amici che sono finiti a Trapani. Se lo immagina: gli italiani allora erano molto nazionalisti, si comportavano come i conquistatori romani. Per questo ci siamo ribellati».

Però con la grazia la questione è chiusa. Non crede?

«Io non conservo rancore e non voglio vivere nell’odio ma sono stato fortunato. Non ho mai varcato la porta della caserma, alcuni dei miei amici che lo hanno fatto sono morti per le torture subite. C’è ancora molto da raccontare. Lo Stato italiano dovrebbe aprire gli archivi».

Come ha maturato la scelta di chiedere la grazia?

«Mia figlia e mia nuora hanno insistito tanto. E hanno trovato un valido appoggio nell’avvocato Karl Zeller che ha spiegato che nel diritto italiano non sono previste le amnistie e che comunque non ce ne sarebbero state».

Paolo Maurizio Ferrari. Jacobo Iacoboni per “La Stampa” il 24 ottobre 2021. No, Paolo Maurizio Ferrari, "il rosso” (non perché comunista, ma perché aveva «i capelli rossi come un diavolo», disse un suo compagno tanto tempo fa), o semplicemente “Mau”, non è stato un brigatista qualunque. Ieri, a reggere lo striscione d’apertura del corteo No Green Pass a Milano, c’era nientemeno lui, davvero incredibile Italia, il più irriducibile degli irriducibili delle Br, uno dei tre fondatori dell’organizzazione, che fu arrestato nella stessa stagione di Renato Curcio e Margherita Cagol, s’era fatto trent’anni di galera, era uscito, per poi farsi riarrestare sette anni dopo, nel 2011, per gravissimi disordini No Tav a Chiomonte, in Val Susa. Sono tutte storie diverse, lo sappiamo benissimo, ma lui aveva e ha ancora la voglia di entrare in tutte, elemento di un passaggio e testimone di staffette che forse ormai vedeva solo lui. L’Irriducibile. Piazza Fontana, via Larga, corso Venezia, poi, dopo aver percorso corso Buenos Aires, piazzale Loreto, il corteo dei No Green Pass percorreva – certamente senza neanche più saperlo – nomi che sono di per sé un pezzo (spesso tragico) di storia d’Italia, e che chissà se risuonavano nella mente dell’anziano terrorista, ormai settantaseienne, che ha trascorso trent’anni, senza sconti, senza mai parlare coi giudici, senza mai pentirsi, o dissociarsi, o anche solo aprirsi, e meno che mai dare interviste ai giornalisti, quegli stessi giornalisti ai quali - ironia delle storia – ai cortei No Green Pass viene gridato «giornalisti terroristi/giornalisti terroristi». Ferrari è stato insomma uno dei personaggi più tenaci e incredibili della storia della lotta armata e dell’illusione della rivoluzione comunista in Italia, quel gigantesco autoinganno collettivo che dal mito dalla “Resistenza tradita” e delle armi partigiane sotterrate in montagna arriva ad armarsi a freddo contro lo stato, in quella che nonostante tutto era una democrazia. E Ferrari a questa storia ci aveva creduto a tal punto da fottercisi la vita. Era stato arrestato a Firenze il 28 maggio del 1974, agli albori della stagione del terrorismo rosso, nelle prime Br – quelle Curcio-Cagol, appunto, non quelle di Moretti, Ferrari non ha compiuto personalmente reati di sangue – eppure il suo curriculum criminale racconta di quanto fosse già centrale nell’organizzazione: si era fatto ventun anni per reati di terrorismo più nove anni per la rivolta del 1979 nel carcere dell’Asinara, era stato accusato di aver partecipato al sequestro del sindacalista della Cisnal Bruno Labate, del dirigente della Fiat Ettore Amerio, e al sequestro del giudice Mario Sossi. Tanti anni dopo, nel 2020, raccontò in un libro com’era stato catturato: «Vengo preso pochi giorni dopo la fine dell’azione Sossi. Il mio arresto è avvenuto in un modo semplicissimo: Sono andato in un posto dove non dovevo andare, senza gli accorgimenti necessari e nonostante questo sono riuscito anche a scappare. C'era la polizia lì, ma non l'avevo vista, avevo visto una macchina strana, sono entrato lo stesso. I poliziotti li ho sentiti salire e quando stavano per entrare nell’appartamento mi sono buttato fuori, loro erano solo due, erano in borghese, mi sono buttato in mezzo e sono riuscito a scappare. Ho fatto le scale di corsa, avevo ventott’anni e poi ho saltato un muro, ho attraversato un giardino e sono sbucato in un’altra via, poi sono salito sulla moto di un compagno - sai, all’epoca, ma anche adesso, compagni, compagne, li riconosci, non c'è bisogno di spiegarlo. Lui si è fermato, proprio bloccato. Sirene spiegate, è arrivata la pantera e mi hanno preso. Era maggio, erano le sette di sera, c'era la gente sul marciapiede che mi guardava, e ho detto: “mi sono rivendicato l'appartenenza alle BR”. Alché i poliziotti mi sono saltati addosso, mi avevano già ammanettato, bloccato. Poi, da Firenze mi hanno portato a Torino, dato che il mandato di cattura proveniva dalla procura di quella città (che in questo era anche allora, come oggi, dispiegata più di Milano)». E lui alla fine dalle parti di Torino era tornato a vivere in questa sua vecchiaia. Se ricordate i comunicati dei brigatisti letti nelle udienze del processo al nucleo storico delle Br, celebrato a Torino nel 1978 nella caserma La Marmora, ecco, quei comunicati li leggeva un tizio abbastanza spiritato coi capelli folti e fulvi, un colore così diverso da tutti gli altri, la barba e i baffi: Paolo Maurizio Ferrari. Nel 2006, uscito di galera, era stato ricondannato nel maxiprocesso ai no tav per gli scontri del 27 giugno e del 3 luglio 2011. Dove c’era un bastone, lui andava. Dove vedeva secondo lui un’ingiustizia, pigliava e partiva. Senza il minimo senso delle misure dell’ingiustizia e della violenza delle conseguenze, o delle sue stesse azioni. Era nato anche lui (come Enrico Franceschini) in Emilia, ma non a Reggio (quelli del “gruppo dell’appartamento”), bensì a Modena, orfano di padre, cresciuto in comunità, poi il grande salto al Nord industriale, prima brevemente a Torino, alla Magneti Marelli, ma a Torino c’erano militanti che a lui apparvero sempre figli di papà, Lotta Continua, quindi a Milano, dove finì a lavorare (e fondare il collettivo operaio) in Pirelli. In carcere non ha mai chiesto un permesso, e quando gliene davano uno, rispondeva laconico: «Io sono un prigioniero proletario. Non chiedo i vostri permessi». Franceschini, con cui forse sono stati davvero vicini, almeno per un periodo, disse una volta, quando Ferrari era dentro e si rifiutava di firmare qualunque atto che potesse abbreviargli la detenzione in carcere: «Dopo 30 anni di carcere l’ideologia diventa un alibi e intorno al suo ruolo politico di rivoluzionario irriducibile Ferrari ha costruito le sue abitudini. Anche il carcere diventa un’abitudine. Temo che si sentirebbe spaesato, non sarebbe più nulla. Per questo dico che potrebbe essere il primo a voler restare in carcere». Si sbagliava – a giudicare dalle successive gesta No Tav e No Green Pass di “Mau”. O forse no, e tutto fa parte dell’eterna coazione a ripetere di una tragedia personale e nazionale.

Achille Lollo. Da adnkronos.com il 4 agosto 2021. E' morto ieri Achille Lollo, unico arrestato per il Rogo di Primavalle. A darne notizia è il blog di Ugo Tassinari, ricercatore storico, giornalista e scrittore con un passato nella sinistra extraparlamentare, esperto di terrorismo e anni di piombo. Con altri due militanti di Potere Operaio, Marino Clavo e Manlio Grillo, che poi si diedero alla latitanza, la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973, Lollo diede fuoco alla porta dell'appartamento di Mario Mattei, all'epoca segretario della sezione "Giarabub" di Primavalle del Msi, causando la morte di due dei sei figli di Mattei, Stefano e Virgilio, di 8 e 22 anni. Scappato in Brasile con l'aiuto del Soccorso rosso dopo la condanna in I grado, Lollo era rientrato in Italia nel 2010, alcuni anni dopo la prescrizione della sua condanna a 18 anni. E' morto ieri all'ospedale di Bracciano. "E' inutile commentare la morte di un assassino. Provo però del dispiacere perché si è portato molte verità scomode nella tomba", ha detto all'Adnkronos Giampaolo Mattei, il fratello di Virgilio e Stefano. E' il 16 aprile 1973. Sono le 3.20 di lunedì quando, nel quartiere romano di Primavalle, in via Bernardo di Bibbiena numero 33, lotto 15, scala D, terzo piano, un gruppo di giovani di Potere Operaio lascia davanti alla porta di un appartamento una tanica di benzina con un innesco artigianale. Attivano la miccia e fuggono via. Qualche secondo e poi lo scoppio, potentissimo. La porta è avvolta dalle fiamme, che nel giro di qualche minuto si estendono a tutta la casa. E' l'appartamento di un ex netturbino, Mario Mattei, che all'epoca aveva 48 anni, segretario della sezione 'Giarabub' del Msi, Movimento sociale italiano, in via Svampa. Ha sei figli: quando si accorge dell'incendio, si getta giù da un balcone. La moglie Anna e i due figli più piccoli, Antonella di 9 anni e Giampaolo di soli 3 anni, riescono a fuggire dalla porta principale quando il fuoco comincia a diffondersi. Lucia di 15 anni grazie al padre si cala nel balconcino del secondo piano e da lì si butta, presa al volo da Mattei già a terra nonostante le ustioni sul corpo. Silvia, 19 anni, si getta dalla veranda della cucina: batte la testa sulla ringhiera del secondo piano, la schiena sul tubo del gas, viene trattenuta per qualche istante dai fili del bucato e quindi finisce sul marciapiede del cortile riportando la frattura di due costole e tre vertebre. Gli altri due figli, Virgilio di 22 anni, militante missino dei Volontari Nazionali, e il fratellino Stefano di 8 anni, invece, non riescono a gettarsi dalla finestra per scampare alle fiamme. Intrappolati, riescono ad affacciarsi e provano a chiedere aiuto. Alcune foto dell'epoca ritraggono Virgilio proprio mentre, completamente annerito e con il volto già devastato dalle fiamme, cerca di gridare aiuto. Muoiono bruciati vivi nel giro di pochi minuti. I vigili del fuoco li trovano carbonizzati e abbracciati vicino alla finestra che non erano riusciti a scavalcare. Per la strage di Primavalle Achille Lollo viene condannato con Marino Clavio e Manlio Grillo a 18 anni di reclusione, condanna poi prescritta avendo i tre evitato l'arresto fuggendo all'estero: Clavo e Grillo prima del processo e Lollo dopo il I grado, quando, in attesa dell'appello, viene rilasciato.

La storia e la morte di Achille Lollo. Rogo di Primavalle, parla Oreste Scalzone: “Lollo ha pagato più di altri”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Agosto 2021. Dopo la morte di Achille Lollo, condannato per il rogo di Primavalle, abbiamo intervistato Oreste Scalzone tra i fondatori di Potere operaio e Autonomia operaia.

Scalzone, che cosa è stato il rogo di Primavalle?

Una tragedia. Anzi: un concatenamento di tragedie.

Solo una tragedia?

Quale altra parola può esservi associata?

Ma lei rivendica di aver aiutato i compagni del gruppo a sottrarsi all’arresto, e fuggire.

Potrei dire che l’accusa lanciata da tribunali mass-mediatici e Procure non era che un sospetto, e che nello stesso lèssico giuridico formale (che lo si consideri o meno una “nov-langue” nel senso di Orwell) si conclama che la presunzione d’innocenza vige fino a sentenza definitiva: la “verità giudiziaria” assunta per forzosa convenzione come coincidente con quella “storica”. Ma vado oltre. Ho sempre rivendicato a viso aperto il fatto che negli anni ho continuato – ovviamente con altri – ad aiutare questi compagni nel restare al riparo dal “braccio violento della Legge’’.

Come lo giustifica?

Per noi, il riflesso solidale immediato, effetto d’empatia, viene prima di qualsiasi giudizio di merito. “Krinomai” è ambivalente: significa “critica” nel senso che amiamo, “radicale” nel senso che punta ad approssimare la radice delle cose; ma significa anche “giudizio” nel senso di chi “giudica e manda”. In odio a quest’ultima accezione, val la pena di sospendere il tutto… Mi sovviene Artaud, “Pour en finir avec le Jugément de Dieu!” (che poi è un ‘“Giudizio d’IO”, che surrettiziamente si stende sul mondo, volendosi imporre come misura e Norma universale). Di questo mio/nostro modo di “esserci” è costitutivo il “tentare di non lasciarsi mai estorcere una confessione d’innocenza”: ché l’accedere alla dialettica dell’Innocenza e della Colpa scivola in colpevolizzazione attiva, che esporta addosso ad altrui il sentimento della propria.

E dunque decise di aiutare Clavo e Grillo a lasciare il Paese.

Fui attivamente tra chi decise di rompere questo concatenamento penale per cui l’unica via è aggiungere male al male. L’ossessione di privilegiare la logica detta “retributiva” è ormai divenuta universale, pressoché totalitaria. Se c’è persona fuggiasca, stigmatizzata, maledetta, inseguita da una muta di linciatori nel senso fisico, o anche verbale, prima di pensare di chi si tratti, e anche di quali siano i contesti d’ogni tipo, il mio primo gesto è quello di interpormi. Vi furono tesi complottistiche di ogni tipo… Non associo a “Primavalle’’ la parola “Affaire”. Ne ho scritto e detto a iosa, con scrupolo spasmodico di “parresìa”, la piccola verità, veridicità, senza pretesa di Aletheia, la Grande Verità, “Pravda”… Ma la parresìa è uno sforzo, si veda il lavorìo per ricostruire durate, sequenze, cronologie. Si deve sempre cominciare dal dubitare anche di sé… Ora poi, che sempre più si annega nel simulacro, e nella simulazione di simulacro…

Cosa intende per simulacro?

Prendiamo il rogo di Primavalle. Il sopravvento è stato preso da quella foto, tremenda (il corpo carbonizzato di Stefano Mattei contro la finestra, ndr), che diventa una icona inappellabile. Mi viene in mente “Storia di una foto” di Umberto Eco, a proposito di un’immagine di anni dopo…

Morirono un ragazzo e un bambino innocenti.

Mi corre l’obbligo di dire che la “verità giudiziaria”, cioè la sentenza ultima della Cassazione, stabilì essersi trattato di “omicidio pretereintenzionale”, comminando una condanna a 18 anni.

Poi venne aperto il fascicolo per strage, procedimento che poi, bisogna dire, nel 2010 fu dichiarato inagibile.

Appunto. La strage è definita un “reato di pericolo”, talché non esiste il capo d’imputazione di “tentata strage”. Come afferma Foucault, «La Giustizia – e dunque ogni sentenza – è un dispositivo di produzione di effetti di verità». In questo specifico caso la “verità giudiziaria” ha alla fine attenuato la qualificazione dei fatti. Ma il punto è: o uno si prende – dentro il paradigma corrispondente – per Dio, oppure come può dire di detenere la Verità Assoluta? E chi sarebbe l’interprete supremo della “Vox Dei”? L’espressione “vox populi, vox dei” è minata: quanti “popoli”? Ognuno, persona o gruppo umano, si tiene la sua verità, eppoi la pretende Norma Universale.

L’interposizione fu quella di aiutare a riparare Clavo e Grillo in Svizzera?

Certo. Anche partecipando di persona.

Perché in Svizzera e non in Francia?

Solo sette-otto anni dopo arriverà quella che impropriamente sarà chiamata “Dottrina Mitterrand’’. E poi la Svezia, dove esisteva un “asilo umanitario”, che fu concesso a Clavo e a Grillo.

Parliamo di Lollo. Perché esfiltrare gli altri e lasciare lui solo, qui?

Ma era in galera! Non si era mosso da casa. Credo, per una sorta di soprassalto di fedeltà al gruppo cui aveva appartenuto. Per dare una prova psicologico-morale d’innocenza e così anche ostacolare la criminalizzazione del gruppo. Visto che era nella rete, sviluppammo una campagna accanita per tirarlo fuori. Umberto Terracini riprese la toga per difenderlo. Ci fu un accanimento furibondo dall’una e dall’altra parte. Già dalla prima udienza successe di tutto: vetrate rotte, pandemonio, scontri e sparatorie in piazza Cavour e nelle vie adiacenti, uccisione di Mantakas…

Da parte sua, nessuna dissociazione?

Impensabile. Anche se qualcuno vuol pensare che questa sia una impennata di orgoglio identitario dico: non si troverà mai in tutta la pubblicistica nostra una riga in cui si accetti di sconfessare, “dare in pasto ai cani” chicchessia, appartenuto al nostro gruppo o ad altri o a nessuno. Al contempo, ci siamo battuti contro il coinvolgimento, a buon bisogno penale, di giornali, testate, “gruppi dirigenti” quali mandanti morali, istigatori…

Ci fu una forte pressione da parte di altri…

Ci si intimava di dissociarci dal destino di queste persone, pena l’essere associati al loro nell’obbrobrio. Non potemmo non scegliere di condividere l’obbrobrio.

Vogliamo entrare nei fatti? Come maturò l’azione?

Penso che all’origine ci fosse tra l’altro un sopravvenuto disamoramento di quel piccolo gruppo rispetto al “primo amore-Potere Operaio”… “l’amore che strappa i capelli è finito ormai/non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza”. (canta, ndr). Comunque: quell’azione era un gesto di tipo intimidatorio, volevano sbruciacchiare una porta.. Accadevano migliaia di episodi del genere. Si può dire che il fuoco non si controlla, certo. Ma che dietro a quella porta ci fossero accatastati quintali di barattoli di vernice e di liquidi infiammabili – come poi è stato inequivocabilmente stabilito – chi poteva saperlo? Sono più le sequenze casuali che accadono “sotto le stelle”, che non quelle causali.

Qual era il contesto?

Quello specifico che, colpo contro colpo, era in corso una – piccola, ma neanche tanto – guerra civile tra “fascisti” e “compagni”. Ci furono decine di episodi anche terribili. Ma tutti si gettarono su “Primavalle’’, per un effetto d’icona, e anche per chiuderla con quella che sembrava “una nefasta utopia di Potere Operaio”: cioè non lanciare “slogan”, canti, fino all’idolatria, per tutto quanto di “guerrigliero” fosse accaduto o accadesse lontano nel tempo e/o nella geografia, e stigmatizzarlo a morte se “qui e ora”.

Achille Lollo ha pagato per tutti?

No. Ha pagato più di altri, ma poi è stato sottratto a un destino.

Giocare in modo alterno, o ibridare, determinismo sociale e colpevolizzazione morale mi sembra un gioco abietto in cui tanti si esercitano. Noi, No. “Non ci sono angeli di luce e idoli di fango”… Nelle pieghe infinite della persona di ognuno c’è di tutto.

Che ricordo personale ha di Achille Lollo?

Ricordo il ragazzo generoso di quegli anni. Poi, in alcuni suoi testi recenti ho dovuto cogliere una componente – probabilmente sviluppatasi reattivamente – di una sorta di mitomania un po’ megalomane. Tutte quelle Presidenze, tra Angola e Brasile… Compresa la candidatura, qualche anno fa, a Rio, come capolista della lista elettorale degli italiani all’estero… Ne ho una vena di tristezza…

Come possiamo rileggere la violenza di quegli anni alla luce della storia?

I cosiddetti “anni di piombo” non ci apparivano gonfî della violenza che c’è oggi nel mondo. Oggi, appare in piena luce, abbagliante, una vocazione sterminatrice e sterministica dei poteri costituiti, poteri statali, simil-statali… Regimi, civiltà, paesi, città sono destinati ad essere ingoiati : d’altronde, sono caduti imperi e regni che fino a un minuto prima si sentivano invulnerabili. Sono finite specie biologiche di ogni genere. La “razza umana” può finire e forse sta finendo, prima ancora che “fisicamente”, mentalmente, sentimentalmente…

Un ottimo motivo per lottare e impegnarsi per il futuro. Ma un giudizio su quegli anni?

Direi, lottare nel e per il presente. Prendiamo gli “omicidi bianchi”: vite “spremute e buttate”. “Usa e getta”. E in più, “giudica e manda”…

Il rogo di Primavalle fu la fine di Potere Operaio?

Mah, ci sono fini che sono meno peggio che una sopravvivenza, come dire, da “zombie”. È un po’ il paradosso dei dolorosamente “Happy few’’ della chiusa della “Certosa di Parma”, no?

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Morto Achille Lollo. Porta con sé i segreti di Primavalle. Stenio Solinas il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Aveva 70 anni, militante di Potere operaio, era uno degli autori del bestiale rogo del '73. Il rogo e la tentata strage di Primavalle del 16 aprile 1973 avevano una firma, con tanto di rivendicazione: «Brigata Tanas Guerra di classe -Morte ai fascisti- la sede del Msi Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria». Era talmente mirata e giusta quella giustizia che storpiava persino il nome di uno dei bersagli: Schiaoncin, braccio destro di Mario Mattei, era quello vero e il particolare, come vedremo, è significativo. Gli assassini nascosti dietro quella sigla si chiamavano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, tre militanti di Potere operaio, ma, come titolerà Lotta continua a cadaveri appena bruciati, «La provocazione fascista oltre ogni limite è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Quanto al Manifesto: «È un delitto nazista. Fermato un fascista»...Quasi mezzo secolo dopo, di quel rogo tragico e bestiale nella sua stupidità ancora non si sa tutto, anche se si sa molto. Ma fra il primo processo del 1975, conclusosi con un'assoluzione per insufficienza di prove, e un secondo d'appello che rovescia il verdetto passeranno undici anni e ce ne vorranno ancora venti prima che Lollo, espatriato come gli altri pressoché da subito, ammetta dal Brasile che sì, quella sera, davanti a quella porta c'erano loro, e non solo loro: erano addirittura in sei, i componenti di un collettivo creato qualche mese prima e dove aspiranti proletari e veri borghesi si davano la mano. C'era Diana Perrone, la figlia di Ferdinando Perrone e la nipote di Sandro Perrone, gli allora proprietari del quotidiano Il Messaggero; c'era Elisabetta Lecco, che poi diverrà un'affermata gallerista; c'era Paolo Gaeta, futuro gestore di enoteche... In quel 2005 in cui verranno tirati in causa, reagiranno con lo sdegno di classe e di censo che gli è proprio: quel Lollo è un poveraccio, un borgataro, brutto, sporco e cattivo, insomma...Adesso che Achille Lollo è morto settantenne in un ospedale di Bracciano, si può convenire con Giampaolo Mattei, il fratello di Virgilio e Stefano Mattei che morirono bruciati vivi, sul fatto che «si è portato molte verità scomode nella tomba», e tuttavia, il Rogo di Primavalle resta emblematico per il clima intellettuale che si creò intorno a esso. Potere operaio curò un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si parlava «di un oscuro episodio, nato e sviluppatosi nel verminaio della sezione fascista del quartiere». Come era scritto nell'introduzione, avevano contribuito «alla realizzazione di questa contro-inchiesta un gruppo di giornalisti democratici» e del resto da Alberto Moravia a Dario Bellezza, da Elio Pecora a Ruggero Guarini, la crème dell'intellighentia di sinistra romana dell'epoca, saranno tutti lì ad alzare il calice nella casa di Fregene dei genitori di Lollo al tempo del primo processo...Quarant'anni dopo sarà proprio Guarini a raccontare come quel libretto era nato. Ci aveva lavorato lui, capo dei servizi culturali del Messaggero, insieme con due colleghi, un redattore capo e un inviato, aiutando quelli di Potop «a spazzolare stilisticamente un testo che avevano messo in piedi, scritto in un sinistrese indigesto». Lo aveva fatto perché degli amici del Movimento con cui la sera giocava a poker gli avevano detto: «Credi davvero che dei ragazzi colti, intelligenti, preparati come noi, dei marxisti che leggono i Gundrisse di Karl Marx, possano individuare in un povero netturbino, segretario di sezione dell' Msi di Primavalle, un nemico di classe?». Infatti Lollo, Clavo e Grillo, la parte per il tutto potoppino, erano talmente a loro agio con il tedesco dei «Gundrisse» da non saper nemmeno scrivere correttamente, come abbiamo ricordato all'inizio, il nome italiano di uno dei missini da abbattere...Guarini dirà allora che lui all'innocenza di Lollo e compagni ci credeva: peccato non ci credessero proprio gli amici del Movimento andati a chiedere il suo aiuto. In La generazione degli anni perduti, uno di essi, Lanfranco Pace, dirà trent'anni dopo: «Fummo costretti ad assumerne le difese nonostante la loro colpevolezza e così montammo una controinchiesta. Perché? Perché non c'erano alternative». E ancora: «Non ricordo tanta comprensione né tanta solidale vicinanza come quella volta che predicammo il falso». Superficialità, arroganza intellettuale, il gusto di civettare con la rivoluzione, senza firmarsi, non si sa mai, ma emotivamente e culturalmente sentendosi militanti dell'Idea, anche questo fu, fra una partita di poker e l'altra, il giornalismo italiano dell'epoca, un correre in aiuto del vincitore senza troppo preoccuparsi se il vinto rimasto morto sul terreno meritasse almeno una pietosa e onorevole sepoltura. È anche per questo che ogniqualvolta sento parlare di controinformazione metto idealmente mano al revolver che non ho. Stenio Solinas

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 agosto 2021. Caro Dago, la morte di Achille Lollo e dunque la rievocazione del suo destino di delinquente politico (coautore dell’agguato alla casa romana di un missino nel cui rogo morirono bruciati vivi due dei suoi figli) rimanda alla tragedia forse la più cocente della mia generazione. Quella di avere abbracciato ed esaltato la teoria dell’“antifascismo militante”, una boiata psicotica in ragione della quale a centinaia e centinaia si sono scaraventati contro i loro coetanei fascisti all’insegna della volontà di bissare la guerra civile del 1943-1945 - in cui tra italiani ci si ammazzò come cani - e questo trent’anni dopo che il fascismo storico era morto e sepolto. Non che i giovani fascisti a loro volta scherzassero, o per lo meno molti di loro non hanno scherzato negli anni Settanta. Ad esempio Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, che oggi sono miei buoni amici e che un paio di sere fa sono venuti a cena a casa mia, dov’era ospite anche Maurice Bignami, uno dei capi politici e militari di Prima linea (l’organizzazione terroristica consorella delle Brigate Rosse), uno che è stato tra gli artefici della riconversione morale e intellettuale alla democrazia degli ex terroristi e che ne ha scritto in un suo libro molto bello. Gli ex nemici mortali degli anni Settanta se ne sono stati seduti assieme a un tavolo conviviale di casa mia. Certo che non scherzavano i giovani fascisti o molti di loro, ma la responsabilità maggiore nell’avere creato quel clima infame dov’era possibile cantare che “uccidere un fascista non è un reato” l’hanno avuta gli “antifascisti militanti” miei compagni di generazione. (Per quanto mi riguarda non ho mai minacciato con un mignolo nessuno né mai nessuno mi ha minacciato con un mignolo. Quando vent’anni fa mi si è ripresentato davanti Benito Paolone, che negli anni Sessanta era stato a Catania il leader politico degli universitari fascisti, l’ho abbracciato. Avevamo entrambi al tempo della nostra giovinezza recitato la nostra parte in commedia. Vent’anni fa di quella commedia non esisteva più nemmeno una scena minore, nemmeno una pulsione minore. Quella commedia s’era bell’e conclusa. Purtroppo nel sangue di molti.) La vicenda dei tre giovani militanti di Potere operaio che furono subito individuati come i responsabili dell’agguato e del rogo è esemplare nel suo orrore. I tre spergiuravano di essere innocenti. Circolò a Roma un testo stilato da un notissimo intellettuale e giornalista romano dov’era messo per iscritto che il rogo era dovuto a una faida interna tra missini. A queste ignobili fandonie abboccarono persino figure esemplari della sinistra storica, dal comunista Umberto Terracini al socialista di sinistra Riccardo Lombardi. Alla prima udienza nel tribunale romano finì a scontri tra gli estremisti di sinistra che giuravano sull’innocenza dei loro compari e giovani missini che volevano (giustamente) che gli assassini venissero puniti. In quegli scontri Daniele Panzieri (un giovane dell’estrema sinistra romana con cui avevo giocato a ping-pong) colpì a morte un Mikis Mantakas, un ventitreenne universitario di destra greco. Le prove erano purtroppo schiaccianti. E con tutto questo il sentir comune della sinistra del tempo era tale che anche quella volta vennero organizzati affollatissimi cortei romani di gente arcisicura dell’innocenza di Panzieri. Io mi vergogno di avere scritto sulla prima pagina del “Paese Sera” un “taglio basso” in cui a mia volta mi dicevo sicuro di quell’innocenza. Uscito dal carcere Panzieri si diede latitante, credo in Sudamerica, e tale è rimasto. Anni atroci, zeppi all’inverosimile di ideologia e dunque di teorie fasulle sulla realtà com’è. Quanto alla responsabilità dei tre militanti di Potere operaio, il mio amico Valerio Morucci (che a quel tempo era il responsabile del servizio d’ordine di Potere operaio e che da lì si trasferì purtroppo alle Brigate Rosse) mi ha raccontato una volta com’erano andate le cose. Siccome i tre militanti continuavano a negare, lui andò nella casa dove si erano rifugiati da latitanti. E siccome a Valerio piacevano i modi spicci, depose la sua rivoltella sul divano e chiese loro di spiattellare la verità. Confessarono. Avrebbero detto più tardi che la tanica di benzina loro l’avevano messa per intimidire, non per uccidere. Per essere degli assassini erano dei disavveduti. Che c’entra con “l’antifascismo” di Giacomo Matteotti e Antonio Gramsci dar fuoco alla benzina alle soglie di una casa dove stanno riposando padre, madre, padre e sei figli? Che diavolo c’entra, razza di bastardi e di idioti? Uno dei figli Mattei sopravvissuti l’ho avuto accento in un paio di conversari romani. Una persona civilissima che non trasumava odio da ogni poro. In uno di quei conversari c’era anche Valerio, lui pure uno di quelli che ha dato vita alla riconversione morale e intellettuale di una generazione.

I “compagni” di Achille Lollo infuriati: volevano “silenziare” la morte dell’assassino di Primavalle. Lucio Meo giovedì 5 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. I “compagni” di Achille Lollo piangono commossi la sua morte e s’infuriano con chi (uno di loro, tra l’altro) ha divulgato la notizia sul web, notizia poi ripresa dal giornalista Ugo Maria Tassinari, curatore del blog di ricerca e documentazione storica “Fascinazione”. Tassinari, il giorno dopo la notizia della scomparsa dell’assassino di Primavalle, il militante comunista che partecipò alla vigliacca azione contro la famiglia Mattei, viene preso di mira dai redattori della rivista comunista “Contropiano” e accusato di aver esposto la morte del loro amico alle “gazzarre dei fascisti” provocando sofferenze della sua famiglia (quella di Lollo, eh, non quella dei Mattei…) anche in virtù di un curriculum del giornalista, un tempo militante della sinistra ma oggi – a loro avviso – colpevole di dialogare con la destra. Un assist, anzi due, una doppietta di gaffe a disposizione di Tassinari, che ha gioco facile: prima stigmatizza il primato della notizia, elemento logico e quasi naturale di chi svolge la sua stessa professione, poi fa notare come la fonte fosse stata, in realtà, proprio un redattore della stessa rivista, di cui pubblica lo screen shot, così come sul sito riporta il post di “Contropiano” contro di lui per replicare…

La replica di Tassinari sulla notizia di Achille Lollo. “Che dire? Troppa grazia. Mi corre però l’obbligo di informare la redazione di Contropiano che non sono stato io a rendere nota la notizia. Io mi sono limitato a rilanciarla, ieri pomeriggio, avendola appresa la sera prima, dalla bacheca di un redattore napoletano di Contropiano”. Poi, in uno dei commenti, Tassinari precisa di aver pubblicato la notizia della morte di Lollo dopo averla verificata attraverso una seconda fonte: “Avessi saputo della volontà dei familiari di Lollo ci avrei fatto un pensiero. Ma evidentemente non la conoscevano neanche tutti i redattori di Contropiano…”.

Il rogo di Primavalle, il 16 aprile del 1973. E’ il 16 aprile 1973. Sono le 3.20 di lunedì quando, nel quartiere romano di Primavalle, in via Bernardo di Bibbiena numero 33, lotto 15, scala D, terzo piano, un gruppo di giovani di Potere Operaio lascia davanti alla porta di un appartamento una tanica di benzina con un innesco artigianale. Attivano la miccia e fuggono via. Qualche secondo e poi lo scoppio, potentissimo. La porta è avvolta dalle fiamme, che nel giro di qualche minuto si estendono a tutta la casa. E’ l’appartamento di un ex netturbino, Mario Mattei, che all’epoca aveva 48 anni, segretario della sezione “Giarabub” del Msi, Movimento sociale italiano, in via Svampa. Ha sei figli: quando si accorge dell’incendio, si getta giù da un balcone. La moglie Anna e i due figli più piccoli, Antonella di 9 anni e Giampaolo di soli 3 anni, riescono a fuggire dalla porta principale quando il fuoco comincia a diffondersi. Lucia di 15 anni grazie al padre si cala nel balconcino del secondo piano e da lì si butta, presa al volo da Mattei già a terra nonostante le ustioni sul corpo. Silvia, 19 anni, si getta dalla veranda della cucina: batte la testa sulla ringhiera del secondo piano, la schiena sul tubo del gas, viene trattenuta per qualche istante dai fili del bucato e quindi finisce sul marciapiede del cortile riportando la frattura di due costole e tre vertebre. Gli altri due figli, Virgilio di 22 anni, militante missino dei Volontari Nazionali, e il fratellino Stefano di 8 anni, invece, non riescono a gettarsi dalla finestra per scampare alle fiamme. Intrappolati, riescono ad affacciarsi e provano a chiedere aiuto. Alcune foto dell’epoca ritraggono Virgilio proprio mentre, completamente annerito e con il volto già devastato dalle fiamme, cerca di gridare aiuto. Muoiono bruciati vivi nel giro di pochi minuti. I vigili del fuoco li trovano carbonizzati e abbracciati vicino alla finestra che non erano riusciti a scavalcare. Per la strage di Primavalle Achille Lollo, morto ieri a Trevignano Romano, viene condannato con Marino Clavio e Manlio Grillo a 18 anni di reclusione, condanna poi prescritta avendo i tre evitato l’arresto fuggendo all’estero: Clavo e Grillo prima del processo e Lollo dopo il I grado, quando, in attesa dell’appello, viene rilasciato.

Nadia Desdemona Lioce. Marcello Ianni e Stefano Dascoli per "il Messaggero"  il 27 luglio 2021. La storia si ripete da 16 anni. Da quando, cioè, la brigatista Nadia Desdemona Lioce è stata rinchiusa nel carcere dell'Aquila perché condannata all'ergastolo per gli omicidi dell'allora consulente del Ministero del Lavoro Massimo D'Antona (1999) e del giuslavorista Marco Biagi (2002), nonché per la sparatoria sul treno Roma-Firenze del 2 marzo 2003 in cui rimase ucciso l'agente di polizia ferroviaria Emanuele Petri. La storia si ripete, si diceva, perché anche stavolta la Lioce non potrà uscire dal 41bis, il regime di carcere duro a cui è sottoposta. Dal 5 settembre scatterà il rinnovo per un ulteriore biennio: prima il Tribunale di Sorveglianza di Roma (novembre 2020) e poi la Corte di Cassazione (lo scorso 4 maggio) hanno respinto il reclamo contro l'applicazione della misura decisa dal Ministero della Giustizia. Attraverso i propri legali, Carla Serra e Caterina Calia, la Lioce ha presentato ricorso in Cassazione dopo che il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto il reclamo contro la proroga del 41bis decisa dal Ministero il 5 settembre del 2019. Sostenendo, in sintesi, l'insussistenza di un reale pericolo per la sicurezza pubblica, correlato a possibili collegamenti con l'organizzazione criminale di riferimento e criticando l'assunto, che emerge dall'ordinanza, del «pericolo della ripresa del terrorismo, considerato un fenomeno irreversibile». Insomma, secondo la Lioce e in base al ricorso presentato, l'operatività delle Br sarebbe tutt' altro che confermata dagli accertamenti delle Procure distrettuali. La Cassazione ha giudicato il ricorso inammissibile. Ribadendo «l'approdo ormai pacifico della giurisprudenza costituzionale» secondo cui il 41bis mira a contenere la pericolosità dei singoli detenuti impedendo in particolare i collegamenti con i membri delle organizzazioni criminali che si trovino in libertà. Molto ruota sul concetto di «operatività» dell'organizzazione. La Cassazione ribadisce che si tratta di «un accertamento prognostico», che ha l'obiettivo di prevenire.

IL PERICOLO «Il mero decorso del tempo - hanno scritto i giudici della prima sezione penale, presidente Monica Boni - non costituisce elemento sufficiente a escludere o attenuare il pericolo di collegamenti con l'esterno», anche in assenza di «un pieno accertamento della condizione di affiliato». A pesare, inoltre, sempre secondo i giudici, è la posizione apicale di «capo carismatico» che aveva rivestito la Lioce e il suo atteggiamento «irriducibile, mantenuto fermo». Uno dei legali della Lioce, Caterina Calia, non ci sta e rilancia la possibilità di un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo, finora reso difficile dalle tempistiche dei provvedimenti: «Bisogna porre il problema dei 41bis rinnovati a prescindere. Una misura che dovrebbe essere applicata per interrompere i rapporti con organizzazioni esistenti. E di questa non si ha traccia».  

Giuseppe Taliercio, un uomo giusto ucciso dalle Br in un’Italia sbagliata. Pierluigi Vito su L'Espresso il 28 giugno 2021. Il direttore del Petrolchimico di Porto Marghera fu assassinato il 5 luglio 1981, dopo 47 giorni di prigionia. Ma il suo posto era accanto agli operai. Questa è la storia di un uomo giusto, vissuto e morto in un’Italia sbagliata. Per raccontarla bisogna tornare a quarant’anni fa, a mercoledì 20 maggio 1981 quando, all’ora di pranzo, alla porta di un appartamento in via Milano, a Mestre, si presentano quattro uomini. Il più anziano (se così si può dire di un trentaseienne) veste una divisa della Guardia di Finanza; gli altri tre, più giovani, sono in borghese. Alla donna che viene ad aprirgli dicono di aver bisogno di parlare con il marito per mostrargli dei documenti. Lei li fa accomodare, chiede se gradiscono un caffè quand’ecco che spuntano le pistole e due parole ben note e lugubri: “Brigate Rosse”. Uno dei figli presenti in casa, il maschio, si fa avanti per difendere il padre, ma basta uno schiaffo per metterlo da parte; un’altra figlia si mette a pregare. Intanto il padrone di casa viene infilato a forza in una cassa e portato via dai suoi famigliari, stesi a terra incatenati e imbavagliati. Non rivedranno più da vivo il loro marito e padre, Giuseppe Taliercio. Chi era costui? A dirla in breve, il direttore del Petrolchimico di Porto Marghera. E queste poche parole trasmetterebbero l’idea di una persona di cui aver poca considerazione: colui che mandava avanti una fabbrica di veleni, quella che già negli anni ’70 veniva definita come un “crimine di pace” e la cui azienda proprietaria vedeva storpiato il proprio nome in “Mortedison”. Perché di vittime quello stabilimento se n’era già lasciate dietro parecchie, in particolare nel decennio precedente ai fatti appena narrati, per le intossicazioni dovute a quasi quotidiane fughe di gas che investivano i lavoratori, culminate nell’esplosione del 22 marzo 1979 che fece tre morti e dodici feriti. E per ogni “incidente” i comunicati dei piani alti parlavano di “mera fatalità” o di “errore umano”. C’era poi l’avvelenamento delle acque e dell’atmosfera: nel 1998, quando partirono le procedure per la bonifica di Porto Marghera, nell’area del Petrolchimico vennero identificati 1.498 camini da cui venivano immesse annualmente nell’aria 53mila tonnellate di 120 sostanze tossiche. E per finire le tensioni legate a licenziamenti, cassa integrazione e blocco del turnover costanti, anno dopo anno, capaci di rendere la pianta organica sempre più anziana e sempre più arrabbiata. In questo clima Giuseppe Taliercio, entrato in Montedison 25 anni prima da giovanissimo neolaureato in ingegneria, accettò l’incarico di direttore del Petrolchimico. Forse, in cuor suo sapendo che si stava mettendo davanti al mirino di tanti nemici. A cominciare proprio dalle Brigate Rosse che, pochi giorni dopo la sua nomina, uccisero il suo vice, Sergio Gori, freddato sotto casa il 29 gennaio 1980. Qualche mese dopo le Br colpirono di nuovo: ancora in un agguato nei pressi della propria abitazione cadde il 12 maggio il commissario Alfredo Albanese, responsabile dell’antiterrorismo a Venezia, che si stava avvicinando ai colpevoli del delitto Gori, la Colonna veneta “Annamaria Ludmann – Cecilia”. Che aspettò altri 12 mesi prima di passare all’azione contro il più alto dirigente dello stabilimento dei veleni, la vittima sacrificale per mostrare alle masse in fabbrica un orizzonte rivoluzionario, insomma il bersaglio più grosso. Il bersaglio sbagliato. Perché Giuseppe Taliercio non era un burocrate appassionato di tagli del personale e di massimizzazione del profitto. Era un tecnico e come tale sentiva che il suo posto era accanto agli operai, lì dove passavano le loro giornate, respirando la stessa aria, preoccupandosi per le loro condizioni. Anche al di fuori dell’orario di lavoro. Con la Società della San Vincenzo De’ Paoli (organizzazione caritativa cattolica) si recava in visita agli operai vittime di infortuni e più di una volta si premurò di far avere a chi ne aveva bisogno costose cure mediche. Si sforzò di aggiornare le procedure di sicurezza nei reparti, di incentivare le bonifiche degli scarichi, di chiedere all’azienda nuove forze per poter mandare avanti la produzione. E di fronte all’inanità dei propri sforzi chiese e ottenne la rimozione dall’incarico. Era in procinto di andarsene, finalmente. Allora perché le Br scelsero di colpire lui? «Quando si decise di passare all’azione fu naturale puntare su Taliercio, perché era il direttore, ma noi non sapevamo niente di lui», ricorda Gianni Francescutti, l’uomo con la divisa da finanziere il 20 maggio del 1981. Il rapimento venne ideato da Mario Moretti nell’ambito della Campagna delle Fabbriche, che doveva riportare le Brigate Rosse più vicine alle masse operaie, e viceversa. Ma Moretti venne arrestato un mese prima di dare il via al sequestro. Che a quel punto venne gestito dai membri superstiti dell’Esecutivo brigatista: Barbara Balzerani, Luigi Novelli e Antonio Savasta. Fu quest’ultimo a guidare il commando che fece irruzione nell’appartamento di via Milano, l’ultimo ad andarsene da quella casa, mentre il prigioniero era già sulla via di Tarcento, nei pressi di Udine, dove venne rinchiuso in una soffitta, incatenato a una brandina, per 47 giorni. Sparì dalla vista degli uomini, Giuseppe Taliercio, e piano piano anche dall’attenzione dell’opinione pubblica. C’era troppo da raccontare in quei giorni del 1981, troppo per cui indignarsi o preoccuparsi. Solo una settimana prima, il mondo era rimasto col fiato sospeso per la sorte di Giovanni Paolo II: in piazza San Pietro, tra la folla radunatasi per l’udienza generale del mercoledì un killer turco (armato dai servizi segreti del blocco sovietico) aveva sparato contro il primo Papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo; ricostruzioni, indagini e bollettini medici invasero i giornali. Come pure, dal 21 maggio, la diffusione degli elenchi degli appartenenti alla loggia massonica P2, scoperti a marzo in una perquisizione nella villa di Licio Gelli e rimasti per due mesi nei cassetti di Palazzo Chigi, all’epoca guidato da Arnaldo Forlani, e resi pubblici solo il 21 maggio. Ne seguì una crisi di governo, un tentativo di reincarico a Forlani e infine la nomina del primo Presidente del Consiglio non democristiano della storia repubblicana, Giovanni Spadolini. E poi l’Italia finì nel pozzo di Vermicino, che non inghiottì solo la vita del piccolo Alfredo Rampi, ma pure la trepidazione di un’intera nazione collegata per tre giorni di fila con un angolo di campagna romana presidiato da forze dell’ordine, vigili del fuoco e perfino dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, coro tragico intorno a una famiglia il cui tormento tenne a battesimo la tivù del dolore in un’estenuante diretta. Come poteva la sorte di un oscuro dirigente di un’odiata fabbrica di veleni confinata in un angolo di Nordest appassionare un Paese logorato dallo stillicidio della violenza terroristica? Senza dimenticare che quelle settimane del 1981 furono l’apice della concorrenza tra le diverse ramificazioni delle Brigate Rosse, ognuna occupata a gestire un sequestro. Se Taliercio venne preso dalla Colonna veneta, facente capo al Centro Romano, quella milanese, la “Walter Alasia”, il 3 giugno rapì il direttore della produzione Alfa Romeo, Renzo Sandrucci; mentre già dal 27 aprile l’assessore della Regione Campania Ciro Cirillo era nelle mani del Partito Guerriglia di Giovanni Senzani. Il quale, il 10 giugno, organizzò il rapimento di Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito delle Br. Quattro uomini nelle mani dei terroristi rossi, solo due fecero ritorno a casa: Sandrucci e Cirillo. Peci cadde nel delirio di una vendetta trasversale di stile mafioso. E Taliercio? Pagò l’abbandono da parte del mondo del Petrolchimico: da un lato la Montedison, che non si premurò di creare iniziative per la sua liberazione; dall’altro gli operai, in maggioranza accecati dal rancore per le condizioni di lavoro patite, per la stanchezza e il malessere accumulato in uno stabilimento malsano e vecchio. Ma pure Taliercio scontò la propria incapacità di alzare la voce: mai da dirigente lo aveva fatto, cercando piuttosto la mediazione e il consenso; l’unica lettera uscita dalla “prigione del popolo” è indirizzata al Sindacato dei dirigenti d’azienda, contiene parole smussate, stranianti di fronte al dramma che stava vivendo. Un dramma in cui gli stessi brigatisti persero il proprio ruolo, incapaci di intravedere le ragioni di quanto si stava compiendo: «Che cos’è un rapimento se non un’azione propagandistica?», rimugina ancora nel suo mea culpa Francescutti: «Però un rapimento che finisce con un assassinio significa che tu non sai più cosa fare, non hai un obiettivo, non riesci a dialettizzarti in una lotta politica». Ed è così che muore Giuseppe Taliercio, abbandonato da chi non seppe ascoltare le suppliche dei suoi famigliari (fatta eccezione per Radio Radicale): la moglie Gabriella, i figli Elda, Bianca, Lucia, Cesare e Antonio. A loro provava a scrivere Taliercio dalla sua prigione e poi, disfatto, stracciava tutto; e loro ricordava nelle sue preghiere, di cattolico devoto a un Dio di misericordia. Una misericordia che non provarono i suoi carcerieri, che negli ultimi giorni di rapimento lo lasciarono digiuno a consumarsi alla catena. Fino al momento di infilarlo nuovamente nella stessa cassa di 47 giorni prima e ucciderlo con 17 colpi di pistola, per farlo ritrovare nel bagagliaio di un’auto all’alba di domenica 5 luglio nei pressi del Petrolchimico. La domenica diversi giornali, allora, non lavorarono. Così pubblicarono la notizia dell’assassinio di Taliercio due giorni dopo, il 7 luglio, occupando solo metà delle prime pagine. Ed è una memoria dimezzata quella che è rimasta di un uomo che, al pari di altre vittime degli anni di piombo (Moro, Bachelet, Ruffilli, solo per citarne alcuni) che rappresentavano le migliori energie dell’Italia, anime di dialogo e di visione profonda che con la loro mitezza minacciavano le strategie di odio e di violenza. Ma la storia va avanti. Con l’arresto, i processi e le condanne dei rapitori di Taliercio. Tra loro Antonio Savasta, colui che premette il grilletto 17 volte contro quel che rimaneva del prigioniero, e che scrisse nel 1985 una lettera alla vedova, Gabriella: «Suo marito, in quei giorni, è stato come lei lo descrive: pacato, pieno di fede, incapace di odiarci, e con una dignità altissima. È vissuto serenamente, anche se i suoi pensieri e le sue preoccupazioni andavano a voi. Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita e io, in particolare, non capivo dove prendesse la forza per sentirsi sereno, quasi staccato dalla situazione drammatica che viveva. Ha lottato per affermare anche a noi, che parlavamo un linguaggio di morte, il diritto alla vita, suo e di tutti. Lo so, signora, che questo non le restituirà molto. Ma sappia che dentro di me ha vinto la parola che portava suo marito».

La guerra è finita. Così è caduta la dottrina Mitterrand. La parabola di Cesare Battisti e i retroscena della cattura degli ex terroristi italiani riparati a Parigi. Carlo Bonini (coordinamento multimediale e testo) Anais Ginori e Massimo Pisa. Coordinamento multimediale di Laura Pertici su La Repubblica il 10 giugno 2021. All'alba del 28 aprile 2021, la magistratura francese dà corso alle richieste di estradizione della magistratura italiana - di fatto rimaste lettera morta per oltre trent'anni - nei confronti di ex appartenenti alle sigle del terrorismo rosso italiano condannati in via definitiva a pene detentive. A Parigi, vengono per questo arrestati Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi (tutti ex militanti della Brigate Rosse), Giorgio Pietrostefani, ex di Lotta Continua condannato come mandante dell'omicidio Calabresi, e Narciso Manenti, dei Nuclei Armati contro il Potere Territoriale.

Il pasticcio dell’amministrazione Obama e i soldi ad Al Qaeda. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 30 dicembre 2020. Con l’avvallo dell’amministrazione Obama, l’organizzazione evangelica umanitaria senza scopo di lucro World Vision United States ha negoziato in maniera impropria, nel 2014, con l’Islamic Relief Agency (Isra) inviando fondi governativi a un’organizzazione sanzionata per terrorismo e legata ad al-Qaeda. Come riporta Yahoo News, il presidente della commissione per le finanze del senato, il repubblicano, Chuck Grassley, ha recentemente pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio i risultati di un’indagine iniziata dal suo staff nel febbraio 2019 circa il legame tra World Vision e l’Isra. L’indagine ha rilevato che World Vision non era a conoscenza del fatto che l’Isra fosse stata sanzionata dagli Stati Uniti dal 2004 dopo aver inviato circa 5 milioni di dollari a Maktab al-Khidamat, fondata da Osama Bin Laden.

200mila dollari all’associazione che ha finanziato al-Qaeda. “World Vision lavora per aiutare le persone bisognose in tutto il mondo e quel lavoro è ammirevole”, ha detto Grassley in una dichiarazione. “Anche se potrebbe non essere a conoscenza del fatto che l’Isra fosse sulla lista delle associazioni sotto sanzione o che fosse nell’elenco a causa della sua affiliazione al terrorismo, avrebbe dovuto farlo. L’ignoranza non può bastare come scusa. I cambiamenti di World Vision nelle pratiche di controllo sono un buon primo passo e attendo con impazienza i suoi continui progressi”. L’indagine è partita dopo che Sam Westrop, direttore dell’Islamist Watch del Middle East Forum, ha pubblicato un articolo su The National Review nel quale spiegava come l’amministrazione Obama avesse avvallato una donazione di 200.000 dollari all’Isra.

“Mancanza di controllo”. In buona sostanza, il rapporto del senatore repubblicano accusa l’organizzazione umanitaria – e di conseguenza l’amministrazione Obama, che avrebbe dovuto vigilare attentamente – di non aver prestato sufficiente attenzione nell’assicurarsi che l’Isra non fosse un’organizzazione già sanzionata dagli Usa per finanziamento al terrorismo. Non c’è la volontarietà, insomma, ma è totalmente mancato il controllo. World Vision ha scoperto che l’Isra era stata sanzionata solo dopo che l’organizzazione umanitaria evangelica senza scopo di lucro ha discusso una collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) su un progetto umanitario separato in Sudan. Nell’eseguire un controllo di routine di World Vision e dei suoi partner, l’Iom ha scoperto che l’Isra era sotto sanzioni e ha contattato il team di conformità dell’Office of Foreign Assets Control (Ofac) per comunicare la cosa. Come spiega il rapporto del senatore Chuck Grassley, l’Islamic Relief Agency (Isra) ha sede a Khartoum, in Sudan, e dispone di oltre 40 uffici in tutto il mondo. Il governo degli Stati Uniti ha imposto sanzioni all’Isra nel 2004 dopo che quest’ultima aveva incanalato circa 5 milioni di dollari a Maktab Al-Khidamat, controllata da Osama Bin Laden.

Che cos’è al-Qaeda? Come spiega Alberto Bellotto su InsideOver, al-Qaeda nasce ufficialmente l’11 agosto del 1988. Si tratta di un’organizzazione terroristica di stampo sunnita. Il nome può essere tradotto con “la base”. È nota soprattutto per essere stata la responsabile degli attacchi dell’11 settembre condotti contro gli Stati Uniti che costarono la vita a quasi 3mila persone. Per anni il suo nome è stato legato a quello di Osama Bin Laden che la guidò fino alla sua morte nel 2011. Oggi il network di sigle che la compone è sotto la supervisione di Ayman al-Zawahiri.

Il blitz che ha portato alla morte di Osama Bin Laden. Mauro Indelicato su Inside Over il 2 maggio 2021. Una forte esplosione nel cuore della notte, un rumore di elicotteri in grado di far tremare per diversi minuti anche le abitazioni della città e la sensazione che qualcosa di importante in quel momento stava per accadere: sono state queste le prime impressioni riportate dagli abitanti di Abbottabad il 2 maggio 2011. A riportarle su Twitter, poco dopo la mezzanotte, un cittadino svegliato dalle deflagrazioni. Nessuno poteva immaginare in quel momento che in questo centro residenziale, a pochi chilometri dalla capitale pakistana Islamabad, si stava scrivendo la storia. I boati che hanno svegliato i cittadini di Abbottabad infatti erano dovuti al blitz dei Navy Seal americani che hanno catturato Osama Bin Laden, il numero uno di Al Qaeda.

Quando è iniziato il raid per uccidere Osama Bin Laden. Prima di arrivare alla storia del blitz di Abbottabad è bene riavvolgere il nastro all’indietro di almeno un decennio. L’11 settembre 2001 gli Stati Uniti vengono sconvolti da uno degli attentati più cruenti di sempre: a New York e a Washington almeno tre aerei si schiantano sulle Torri Gemelle e sul Pentagono. Le vittime sono più di duemila, gli obiettivi colpiti rappresentano i simboli più importanti del Paese. Si tratta dunque di un vero e proprio atto di guerra. Pochi giorni dopo gli investigatori americani non hanno dubbi: la regia dietro gli attacchi è di Osama Bin Laden. Quest’ultimo, fondatore di Al Qaeda, è già in cima alla lista dei principali ricercati. Con la sua rete terroristica ha già colpito in precedenza obiettivi Usa, ma principalmente all’estero: in nome dell’ideologia islamista propagandata dai miliziani, Bin Laden mette la firma sugli attacchi contro le ambasciate statunitensi di Nairobi e Dar Es Salam nel 1998 e contro la nave Uss Cole in Yemen nel 2000. Dopo aver portato la jihad nel cuore del territorio americano, il leader di Al Qaeda diventa il nemico numero uno della Casa Bianca. La caccia al terrorista parte con la guerra in Afghanistan avviata da Washington con i raid del 7 ottobre 2001. L’operazione comporta la caduta dei talebani, ma di Bin Laden non si trovano le tracce. Per gli Usa il conflitto afghano si rivela un pantano da cui ancora oggi, a distanza di 20 anni, fatica realmente ad uscire. I prigionieri catturati dagli americani fanno però emergere un dettaglio: Bin Laden, per proteggere i suoi spostamenti e la sua latitanza, si affida unicamente a dei corrieri. La Cia e tutti i servizi di sicurezza impegnati nella cattura del terrorista da questo momento iniziano a creare liste di potenziali corrieri.

Chi era Abu Ahmad al Kuwayti. Tra le persone di fiducia vicine a Osama Bin Laden, sembra esserci in particolar modo un uomo in grado di parlare correntemente sia arabo che pashtun, la lingua di buona parte dei talebani. Dai prigionieri interrogati nella base di Guantanamo Bay e in altre carceri statunitensi, già dal 2002 viene più volte fatto il nome di un membro di Al Qaeda, noto con il nome di battaglia di al Kuwayti. Per anni sull’identità di questo presunto corriere si è cercato, all’interno degli ambienti della Cia, di fare chiarezza. La svolta arriva nel 2007: gli inquirenti identificano infatti al Kuwayti. Quest’ultimo è un cittadino kuwaitiano ma da anni oramai residente in Pakistan. Per questo sa parlare tanto l’arabo quanto il pashtun. Da alcuni prigionieri è anche indicato come vicino sia a Bin Laden che a Khalid Shaykh Muhammad, uno degli architetti degli attacchi dell’11 settembre. Secondo quanto emerso da WikiLeaks però, un rapporto della Cia dato gennaio 2008 lo dà per morto a seguito di ferite procurate in battaglia.

Come è stato trovato l’ultimo rifugio di Bin Laden. In realtà al Kuwayti è vivo e, nel 2009, la stessa Cia presenterà un rapporto che contraddice quello dell’anno prima. Il terrorista viene citato in quell’anno da altri prigionieri di Guantanamo: molti di loro lo additano come principale uomo di fiducia di Bin Laden. I servizi di intelligence Usa apprendono inoltre che al Kuwayti vive nella cittadina pakistana di Abottabad. Il nome di questa località inizia quindi a destare un certo interesse negli inquirenti sulle tracce di Bin Laden. Nell’agosto del 2010 arriva un’altra svolta: la National security agency rintraccia infatti una chiamata che lo stesso al Kuwayti rivolge ad alcuni familiari in Kuwait. Questo permette la localizzazione della residenza del terrorista. Le immagini satellitari mostrano un compound apparentemente residenziale, tuttavia al suo interno risultano evidenti anche estreme misure di sicurezza. Per la Cia questa è la prova che, nel complesso abitativo, si nasconde qualcuno di importante. E visto che al Kuwayti è considerato oramai il principale braccio destro di Bin Laden, per la prima volta dal 2001, la sicurezza Usa ha la consapevolezza di essere sulle tracce del fondatore di Al Qaeda.

Il ruolo del medico Shakil Afridi. In questo contesto emerge anche una storia molto particolare. È quella del medico Shakil Afridi. Così come ricostruito dalla Bbc, la Cia avrebbe contattato il professionista per provare a raccogliere il Dna di alcuni abitanti di Abbottabad e, in particolare, di coloro che vivono dentro il compound segnalato. L’escamotage viene rappresentato dalla conduzione di un programma di vaccinazione anti poliomielite. In tal modo i servizi di sicurezza Usa riescono ad ottenere il Dna di presunti parenti di Bin Laden. Ancora oggi però non è stato stabilito se questa operazione si sia realmente rivelata utile prima del blitz. Afridi per il Pakistan è un traditore ed attualmente è in carcere dove sta scontando una pena di 33 anni, seppur per reati non connessi alle operazioni di cattura di Bin Laden.

Neptune Spear, l’operazione che ha portato alla morte di Bin Laden. Nel 2011 da Washington si decide di passare alla fase operativa. Per settimane, anche grazie all’aiuto delle immagini satellitari, viene sondato il terreno e alla fine si decide di intervenire nella notte del 2 maggio. Si arriva così alle ore dove elicotteri e mezzi delle forze speciali cingono d’assedio Abbottabad. Il nome dato all’operazione è quello di Neptune Spear. L’autorizzazione viene data dall’allora presidente Usa Barack Obama il 29 aprile: quest’ultimo segue il blitz dalla situation room della Casa Bianca assieme ai più stretti collaboratori. Secondo il New York Times in totale sono 79 i soldati prendono parte all’operazione, tutti trasportati sul posto. Tra questi, 25 sono del reparto dei Navy Seals. Una volta dentro il compound, Bin Laden viene subito riconosciuto. Pur se disarmato cerca di opporre resistenza e, da qui, la scelta di ucciderlo. Insieme al fondatore di Al Qaeda muiono all’interno della residenza anche uno dei figli di Bin Laden, così come il corriere al Kuwayti, un parente di quest’ultimo e la moglie. A Washington sono le 23:35 quando Obama dà l’annuncio alla nazione del blitz di Abbottabad e dell’uccisione di Bin Laden. L’operazione sarebbe durata mezz’ora, al termine della quale una delle mogli del terrorista avrebbe poi riconosciuto il suo cadavere. Proprio per la donna, i Navy Seals avrebbero sparato a Bin Laden prima che quest’ultimo riuscisse ad entrare in possesso delle armi che aveva a disposizione. Da qui le polemiche circa la reale volontà degli Stati Uniti: se cioè si è cercato di eliminare preventivamente il terrorista oppure se si è provato a catturarlo vivo. La versione ufficiale fornita da Washington ha sempre parlato della volontà iniziale di non uccidere Bin Laden.

La falsa foto di Bin Laden. Come principale prova della morte del fondatore di Al Qaeda, durante la notte tra il primo e il 2 maggio viene subito diffuso uno scatto. Nell’immagine si vede raffigurato il volto straziato di un uomo appena ucciso, somigliante a Bin Laden. Poche ore dopo però è la stessa Cia a d affermare che quello ritratto non era il leader jihadista e che la foto era stata ritoccata. Questo ha da subito creato imbarazzo negli Usa, così come ha fatto sorgere speculazioni sulla veridicità delle informazioni trapelate da Abbottabad. Ufficialmente il corpo di Bin Laden viene portato sulla Uss Carl Vision e sepolto nel mar Arabico. Per Washington sarebbero in tal modo state rispettate le procedure di sepoltura musulmane, ma per molte autorità religiose islamiche tale rito non sarebbe in realtà il più appropriato.

Le reazioni alla morte di Bin Laden. Negli Stati Uniti, alla notizia della morte di Bin Laden, scoppiano vere e proprie celebrazioni, soprattutto nei luoghi degli attacchi dell’11 settembre. Buona parte degli attori internazionali commenta l’uccisione del terrorista come un’occasione per ridimensionare la portata della minaccia jihadista. Dopo il blitz invece sorgono alcune dispute diplomatiche tra Usa e Pakistan: Islamabad infatti critica la violazione della sovranità nazionale a seguito dell’operazione di Abbottabad. Al Qaeda, tramite i propri canali web, confermato la morte di Bin Laden il 6 maggio.

Gabriele Carrer per "la Verità" il 12 maggio 2021. È stata condannata a 4 anni di carcere per associazione a delinquere con finalità di terrorismo internazionale Alice Brignoli, la foreign fighter italiana arrestata il 29 settembre 2020 in Siria, dove era scappata con il marito, Mohamed Koraichi, e i figli. Lo ha deciso ieri la gup di Milano Daniela Cardamone, che ne ha disposto anche 5 anni di interdizione dai pubblici uffici. Il giudice ha stabilito inoltre una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 5.000 euro per ognuno dei quattro figli della donna. Nel processo con rito abbreviato, i pm Alberto Nobili e Francesco Cajani avevano chiesto una pena a 5 anni. Le motivazioni saranno esse note tra 30 giorni. La difesa, invece, aveva chiesto l' assoluzione perché non sarebbe provata la sua partecipazione allo Stato islamico. Per la pubblica accusa quella di Alice Bignoli, diventata Aisha e ribattezzata «mamma Isis», è una storia di «fanatismo». Un viaggio iniziato nel settembre 2015, a pochi mesi dalla proclamazione della nascita dello Stato islamico, quando con il marito di origine marocchina e i tre figli di 2, 4 e 6 anni partirono da Lecco per raggiungere la Siria. Una «scelta strategica», quella di portare i figli «per farli diventare futuri combattenti, come è successo al più grande dei loro bambini». Aisha non era vittima dell' estremismo del marito. Era convinta della sua scelta radicale, di quei progetti che con il marito condivideva: «Con grande entusiasmo, addestra e indottrina i figli in tenera età ed è talmente fiera che la sua foto profilo di Whatsapp mostra i tre figli vestiti da combattenti con il dito alzato», ha spiegato l' accusa. Ma non è tutto. La donna avrebbe «cercato di convertire la madre e altri familiari», hanno ricostruito gli inquirenti. Il magistrato Nobili, a capo del pool dell' antiterrorismo milanese, ha spiegato che la donna «ha ringraziato noi e il Ros che si è attivato con tutte le sue forze e con il massimo dell' impegno non solo personale ma anche tecnologico, informatico e strategico», per individuare, tra oltre 4.000 persone, lei e i suoi figli in un campo, come quello di Al-Hol in Siria. Un luogo «in cui è complesso parlare di futuro e in cui ci sono realtà veramente dure anche perché la politica internazionale si muove con diverse prospettive e omogeneità. Non tutti seguono la linea italiana di recupero dei cittadini all' estero». E infatti, ha aggiunto il magistrato, «lei stessa si è resa conto di quanto sia stato importante il suo ritorno in Italia per la sua vita e per il suo futuro». Prima della sentenza, la donna ha reso alcune dichiarazioni spontanee dicendosi «una persona diversa rispetto a come mi descrivono: non ho mai avuto intenzione di fare soffrire i miei figli e vorrei ripartire da capo con loro se mi venisse data la possibilità di farlo». «Brignoli ha iniziato un percorso» per uscire dalla radicalizzazione e per «recuperare la sua identità che secondo le sue stesse parole era stata smarrita per strada», ha sottolineato il pm Nobili. «Nel suo percorso», ha continuato, «è molto aiutata» dal rapporto con i quattro figli, «che quotidianamente le è consentito di sentire e di chiamare». «La condanna non fa bene a nessuno», ha aggiunto. «L' obiettivo non era quello, speriamo davvero invece che questo inizio di percorso di recupero della Brignoli possa concludersi in modo positivo». Quella di Aisha è una storia non soltanto di fanatismo. Ma anche di cooperazione internazionale. Infatti, è stato grazie al coinvolgimento di curdi, Fbi, ministero degli Affari esteri e Aise che è stato possibile «riportare alla vita quattro ragazzini e la mamma», come aveva spiegato il pm Nobili.

Gli scatti segreti del reporter: cosa c'è dietro questa foto. Rosa Scognamiglio e Francesca Bernasconi il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Il 14 maggio del 1977, durante gli scontri di via De Amicis, l'agente Antonio Custra fu ucciso da alcuni militanti dell'Autonomia Operaia. "La verità era in una serie di fotografie tenute nascoste", racconta a ilGiornale.it il magistrato Guido Salvini. Un colpo sordo di Beretta 7,65 alla fronte. Fu così che Antonio Custra, vicebrigadiere del 3° Reparto Celere della Polizia di Milano, perse la vita all'età di soli 25 anni durante gli scontri di Via De Amicis del 14 maggio del 1977. Ad aprire il fuoco contro l'agente furono alcuni militanti delle file armate di Autonomia Operaia, il collettivo della sinistra extraparlamentare che ridusse a ferro e fuoco il capoluogo lombardo, mietendo numerose vittime durante gli Anni di piombo. "Furono anni terribili per noi della polizia, rischiavamo la pelle ogni giorno. I cortei armati e le manifestazioni violente erano quasi di routine. Bastava poco per scatenare l'inferno e trasformare una piazza qualunque in teatro di guerra. Talvolta accadeva che i manifestanti ci sparassero addosso senza alcun motivo, da un momento all'altro. Vivevamo in un clima di tensione a dir poco angosciante, in stato perenne di massima allerta", racconta a ilGiornale.it Carmine Abagnale, uno degli agenti del 3° Reparto Celere schierati in Via De Amicis durante gli scontri. Ma chi sparò al vicebrigadiere Custra? "Quella di via De Amicis è una storia di fotografi e fotografie. L'identità degli sparatori rimase irrivelata fino a quando, qualche anno dopo la sparatoria, recuperammo il rullino che conteneva la foto decisiva per inchiodare i responsabili dell'assalto", spiega alla nostra redazione il magistrato Guido Salvini, giudice istruttore nel seconda fase delle indagini per l'omicidio Custra.

Gli albori del terrorismo milanese. Cortei armati, assalti alle sedi istituzionali e scontri di piazza. Verso la fine degli anni '70 una scia di violenza implacabile investì Milano, anticipando di misura il periodo del "terrorismo rosso" dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) e delle forze brigatiste. Le tensioni tra i rappresentanti dello Stato e le milizie eversive si esacerbarono nella primavera del 1977, quando vi fu la massima espansione dell'Autonomia Operaia e di frange estremiste della sinistra extraparlamentare. Un anno dopo, il 9 maggio del 1978, Aldo Moro fu assassinato a Roma. "Il 1977 fu un anno contrassegnato dalle contestazioni universitarie ma anche da eventi molto tragici - spiega il magistrato Guido Salvini - C'erano i cosiddetti 'cortei armati', ovvero collettivi autonomi dotati di armi (generalmente pistole) che colpivano le sedi degli industriali e gli obiettivi istituzionali. I punti di forza di queste frange eversive dell'Autonomia, ovvero le città dove ottenevano maggior numero di adesioni, erano Roma, Bologna e Milano. E fu proprio in queste 'grandi piazze' che accaddero degli episodi molto gravi. Nel marzo del'77 a Bologna rimase ucciso uno studente legato all'Autonomia, Francesco Lo Russo. Il 21 aprile 1977 a Milano, durante gli scontri tra la polizia e gli studenti dell'università, fu ucciso l'agente di pubblica sicurezza Settimio Passamonti. In questo clima di tensione si inserirono, qualche settimana più tardi, gli scontri di Via De Amicis".

La manifestazione del 14 maggio 1977. Per il pomeriggio del 14 maggio del 1977 è stata indetta dai gruppi dell'estrema sinistra, con l'adesione dei collettivi dell'area dell'Autonomia milanese, una manifestazione di protesta contro "la repressione" e, in particolare, per l'arresto degli avvocati di Soccorso Rosso Sergio Spazzali e Giovanni Cappelli, in seguito condannati entrambi per associazione sovversiva. Il corteo si muove alle ore 16,30 da Piazza Santo Stefano ed effettua il giro del centro cittadino di Milano. All'altezza dell'incrocio tra via San Vittore e via Olona, circa 500 giovani dell'area dell'Autonomia Operaia si staccano dal grosso del corteo lasciando le forze dell'estrema sinistra che concludono la manifestazione senza incidenti. I rimostranti dell'Autonomia, invece, decidono di percorrere le vie adiacenti il carcere (Via San Vittore, Corso di Porta Vercellina, Viale Papiniano), lanciando slogan al di fuori delle mura della casa circondariale. "Fino a quel momento il corteo era avanzato senza particolari scontri - prosegue ancora il magistrato - Poi però a un certo punto il corteo si biforca. I gruppi più legalitari proseguono la manifestazione pacificamente concludendo la giornata con un comizio vicino all'università. Gli autonomi invece cominciano a girare attorno al carcere di San Vittore. Già lì, si notano degli atteggiamenti bellicosi: qualcuno ha delle pistole nascoste sotto la giacca, altri lanciano slogan contro le mura carcerarie. Tuttavia non accade nulla. Giunto all'angolo tra via Olona e via De Amicis, i manifestanti vedono una colonna della polizia che avanza da via Molino delle Armi, dal lato opposto di via De Amicis. Ovviamente alla vista del corteo i poliziotti si attestano ma senza alcuna volontà di attaccare i manifestanti. Dal corteo si staccano alcune decine di militanti delle strutture più pericolose dell'Autonomia e soprattutto di un collettivo di quartiere, il Romana Vittoria, che tra le sue file conta alcuni dei personaggi che entreranno nel terrorismo vero e proprio degli anni successivi. Inizialmente viene incendiato un autobus, poi vengono lanciate bottiglie incendiarie da alcuni rimostranti. A un certo punto però accade l'imprevedibile. I 'militanti duri', quelli dotati di armi (P38, pistole da tiro e fucili a canna mozza), aprono il fuoco contro gli agenti ferendo a morte il vicebrigadiere Antonio Custra".

"Romana Fuori": fuoco sulla polizia in Via De Amicis. Improvvisamente un gruppo di manifestanti si fa avanti in direzione della polizia. Qualcuno dal fondo della strada grida "Romana fuori", dando inizio alla sparatoria. In men che non si dica via De Amicis si trasforma in una polveriera a cielo aperto. Da un lato ci sono i militanti armati del Collettivo Romana che esplodono colpi di P38 e simili, dall'altro gli agenti del 3° Reparto Celere che, dopo aver tentato invano di sedare le tensioni, sono costretti a rispondere al fuoco. La guerriglia dura poco più che una manciata di minuti, quel tanto che basta a uccidere il vicebrigadiere Antonio Custra, ferito mortalmente alla fronte con una Beretta 7,65. "Noi eravamo in piazza del Duomo di “pronto impiego”, cioè, pronti a intervenire in caso di necessità – spiega l'ex capo del 3° Celere Carmine Abagnale che il 14 maggio del '77 era schierato in via De Amicis – Dalla centrale ci segnalarono che alcuni manifestanti stavano transitando dal carcere di San Vittore e quindi ci chiesero di andare sul posto per accertare che non vi fossero scontri. Dal momento che corso Magenta era occupato da alcuni partecipanti al corteo, decidemmo di deviare per via De Amicis in modo da raggiungere agevolmente la casa circondariale. Giunti all'angolo tra via Molino delle Armi e via De Amicis, notammo la presenza di un numero sparuto di dimostranti – saranno stati una ventina – venire nella nostra direzione. Mentre provavamo a capire cosa stesse accadendo, fu dato alle fiamme un autobus proprio davanti ai nostri occhi. A quel punto, ci rendemmo conto che la situazione stava degenerando e, nonostante avessimo tentato invano di non rispondere all'attacco, fummo raggiunti dagli spari. Custra stava scendendo dalla camionetta quando improvvisamente si accasciò al suolo. Non capimmo subito che fosse ferito perché c'era fumo ovunque e soprattutto una grandissima concitazione. Dopo pochi minuti, quando si esaurirono gli spari, notammo che Custra era gravemente ferito. Ci attivammo per allertare i soccorsi ma, nonostante il trasporto in ospedale, non vi fu nulla da fare. Morì all'alba del giorno, a soli 25 anni, lasciando la moglie incinta al settimo mese di gravidanza. Quella sparatoria durò pochi minuti ma ebbe un esito drammatico. Non credo lo dimenticherò mai".

Le prime indagini e la foto "iconica" di Giuseppe Memeo. La polizia scientifica reperta in via De Amicis 11 bossoli e 5 proiettili di una calibro 7,65. Tuttavia non viene annotato il punto esatto in cui ogni colpo è stato rinvenuto, circostanza che impedisce di ricostruire l'esatta dinamica dell'assalto. Una parziale svolta nelle indagini giunge grazie all'acquisizione del materiale fotografico fornito da due fotografi freelance che, per ragioni professionali, hanno seguito il gruppo di attaccanti per un ampio tratto del lato destro di via De Amicis. I fotoreporter Dino Fracchia e Paolo Pedrizzetti mettono a disposizione degli inquirenti due serie di immagini che immortalano le fasi salienti della sparatoria. Molte fotografie infatti raffigurano gli aggressori sia durante la fase di attacco che di ritirata. Alcuni sono in posizione di sparo come la foto "iconica" di Giuseppe Memeo – terrorista di spicco dei Pac coinvolto nell'omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani – che diventerà l'immagine-simbolo degli Anni di Piombo. "La foto di Giuseppe Memeo, accucciato che spara contro la polizia con una calibro 22, è stata iconica del '77 - spiega il magistrato Salvini - Tuttavia non è questo lo scatto decisivo della vicenda di Via De Amicis. In realtà l'immagine di Memeo che spara si colloca nel momento successivo alla morte del vicebrigadiere Custra, quando il collettivo Romana Vittoria sta già battendo in ritirata. Dunque non è stato lui a sparare al vicebrigadiere e neanche i tre studenti del Cattaneo che sono stati arrestati nei giorni successivi all'assalto, per quanto 'complici morali' dell'omicidio". Al termine della prima fase di indagine, vengono arrestati tre giovani studenti dell'Istituto Cattaneo. Si tratta di Maurizio Azzolini, Massimo Sandrini e Walter Grecchi, minorenni i primi due e di poco maggiore il terzo. L'accusa nei confronti dei tre ragazzi è di concorso in omicidio, tentato omicidio e altri reati annessi ai fatti di Via De Amicis. I risvolti successivi delle investigazioni proveranno che gli studenti hanno partecipato alla manifestazione e aperto il fuoco contro la polizia ma non hanno ucciso Custra. La sentenza d' appello, che li prosciolse per i reati più gravi (omicidio volontario e tentato omicidio), fu annullata dalla Cassazione. Nel 1982 i tre vengono di nuovo condannati: 14 anni e 7 mesi per Grecchi, 9 anni e 11 mesi per gli altri due. La vicenda giudiziaria si chiude senza il nome del vero colpevole.

La verità in un rullino tenuto nascosto. Qualche anno più tardi il magistrato Guido Salvini decide di riaprire il caso. La chiave di volta del giallo è contenuta in un rullino fotografico mai rinvenuto durante la prima istruttoria. Si tratta delle immagini scattate dal fotoreporter Antonio Conti, freelance vicino agli ambienti di estrema sinistra, che consentono di individuare il volto e la posizione esatta degli sparatori di Via De Amicis. Fino a quel momento "non si era mai saputo chi erano i veri sparatori, ovvero il 'gruppo dei duri' che si era lanciato contro la polizia - spiega il magistrato - Quando ho ripreso in mano il caso, agli inizi degli anni '80, è emersa una nuova verità. A un certo punto, un testimone – il fotografo Marco Bini – mi fece notare che nelle fotografie scattate dagli altri reporter si vedeva un fotografo, parzialmente nascosto da un albero, che non era mai stato identificato. Si trattava di Antonio Conti, un freelance vicino agli ambienti dell'Autonomia, che non aveva mai consegnato i suoi rullini alla polizia. Dunque decidemmo di perquisire la sua abitazione, ove ritrovammo delle foto molto importanti degli scontri di via De Amicis. Una in particolare risultò decisiva per ricostruire identità e posizione degli sparatori, ossia quella in cui il gruppo avanzava verso la polizia proprio nel momento in cui moriva Custra. Da quegli scatti fu possibile quindi individuare chi aprì il fuoco: da Marco Barbone ad altri che, successivamente ai fatti del maggio 1977, passarono nelle vere e proprie milizie armate degli anni di terrore".

Chi ha ucciso Custra? I nomi degli sparatori. Quasi tutti i militanti intercettati dal magistrato Guido Salvini confessano di aver partecipato agli scontri di via De Amicis. Si tratta perlopiù degli esponenti di spicco dell'Autonomia che, negli anni successivi, passeranno alla lotta armata. "Chi non confessa è Pietro Macini, uno dei capi dell'Autonomia che fuggirà in Brasile e non pagherà mai il suo conto con la Giustizia - prosegue il giudice – Nega di aver partecipato all'assalto anche Raffaele Ventura, uno dei dieci ex terroristi per cui è stata recentemente chiesta l'estradizione e che vive impunito a Parigi da circa trent'anni". Nel maggio del 1992 vengono emesse ben 9 condanne per concorso in omicidio. Tra i condannati a vario titolo ci sono: Luca Colombo e Maurizio Gibertini (10 anni e 8 mesi), Giancarlo De Silvestri (10 anni), Raffaele Ventura (7 anni) Pietro Mancini (5 anni) Mario Ferrandi e Giuseppe Memeo (4 anni), Marco Barbone (1 anno e due mesi), oltre a Corrado Alunni, il grande pentito di Prima Linea, condannato in questo processo per aver procurato armi ai dimostranti. Tutti i dati processuali indicano in Mario Ferrandi il responsabile del colpo mortale all'agente Custra. Con una Beretta 7,65, Ferrandi avrebbe sparato ad altezza d'uomo contro il cordone di polizia da una distanza di circa 40 metri. "Al processo vengono tutti condannati - conclude Salvini - Certo è che se queste fotografie fossero saltate fuori prima, se queste indagini fossero state condotte in maniera più incisiva, le persone incriminate per i fatti di via De Amicis non sarebbero entrate nei gruppi armati e probabilmente lo sviluppo della lotta armata milanese, durante gli anni del terrorismo vero e proprio, si sarebbe evitato. Purtroppo è stata fatta giustizia ma tardivamente".

È possibile chiudere i conti con gli “anni di piombo”? Le Iene News l'11 maggio 2021. Pochi giorni fa a Parigi sono stati arrestati 9 ex terroristi rossi, dopo una lunghissima latitanza in Francia. Il nostro Gaetano Pecoraro ci parla delle loro storie e degli “anni di piombo”, chiedendosi se e come è possibile chiudere i conti con quel periodo storico. Narciso Manenti è uno dei 9 ex terroristi italiani arrestati a Parigi pochi giorni fa dopo una lunghissima latitanza. “Vivo qui dal 1983”, dice al nostro Gaetano Pecoraro. “Ho vissuto più qui che in Italia io”. La notizia dei fermi ha fatto parlare tutto il paese ed è riemerso l’interrogativo su come chiudere definitivamente i conti con gli “anni di piombo”. Il nostro Gaetano Pecoraro è andato a Parigi, per cercare di parlare con gli ex terroristi. Marina Petrella, giudicata responsabile di diversi sequestri e omicidi per cui è stata condannata all’ergastolo in Italia, ci ha detto: “Esprimo il mio profondo dolore, ma non sono in grado di sostenere un’intervista”. A parlare con la Iena è stato anche Narciso Manenti, condannato all’ergastolo per l’omicidio del carabiniere Giuseppe Gurreri. “C’è stata una commissione parlamentare che è durata 14 anni che ha scritto tutto, decine di migliaia di pagine”, dice Manenti a Gaetano Pecoraro. Senza però ascoltare molti dei protagonisti: “Ne hanno avuti abbastanza in Italia di protagonisti, no? Gliene servono dieci, dieci vecchietti malati?”. Tutti gli arrestati dovranno attraversare l’iter giudiziario in cui sarà stabilito se la Francia davvero concederà l’estradizione richiesta dall’Italia. Al di là della questione giudiziaria però, molti - tra cui il presidente Mattarella - sostengono la necessità di fare piena luce sugli “anni di piombo”. “Cossiga ha definito quel periodo ‘guerra civile di bassa intensità’”, dice Manenti. L’ex presidente della Repubblica, ministro dell’Interno al tempo dell’uccisione di Aldo Moro, arrivò a sostenere che i giovani che combattevano quella specie di guerra civile lottavano “non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”. E non disse solo questo, come potete riascoltare nel servizio di Gaetano Pecoraro in alto. C’è un punto fondamentale da risolvere per chiudere definitivamente i conti con gli “anni di piombo”: tutte quelle persone che presero le armi per uccidere o essere uccise erano solo criminali da rinchiudere nelle patrie galere o come diceva Cossiga giovani figli della Resistenza che sentivano essere stata tradita? Non è solo una differenza teorica: riconoscere in loro una posizione politica implica per esempio la responsabilità di chi gliel’ha insegnata. E, non ultima cosa, “ogni guerra civile è seguita da un’amnistia qualche anno dopo”, sostiene Manenti. Del resto questo è esattamente quello che accadde dopo la Seconda guerra mondiale, quando nel 1946 Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista e all’epoca ministro della Giustizia, varò un’amnistia che finì per graziare migliaia di ex fascisti per riappacificare il Paese. Marina Petrella uscendo dal tribunale aveva parlato di dolore e compassione per tutte le vittime. Un tema che gli ex brigatisti sono sempre stati restii ad affrontare pubblicamente. Come la pensa Manenti? “Ha ragione. Lasciamoli tranquilli, altrimenti le ferite si riaprono. Ogni 10 anni, ogni 5 anni…. basta”. Una risposta simile l’avevamo avuta anche da Alvaro Lojacono, l’ex brigatista che avevamo incontrato due anni fa. Oltre alla dimensione privata del pentimento e del dolore per le vittime, c’era un’altra cosa che vi aveva detto Lojacono: “Non c’è mai stato niente di personale con nessuna delle vittime. Era simbolico e funzionale: hai quella posizione lì dentro una struttura gerarchica, per esempio che comanda le carceri speciali, c’era la convinzione - terribile quanto ti pare - che eliminandolo mettevi in crisi il sistema. Sarà truce e drammatico, ma quella era la dimensione”. Una dimensione che i familiari delle vittime di quegli anni ovviamente non potranno mai accettare e nemmeno i tribunali che decidono le pene, ma il cui riconoscimento è al centro del dibattito di cui abbiamo parlato prima. Queste persone sono solo delinquenti come un rapinatore che uccide per rubare dei soldi, o sono qualcosa di diverso? E se sono qualcosa di diverso, come devono essere trattati?

Le troppe “verità nascoste” degli anni di piombo: le ambiguità da sciogliere per fare chiarezza. Mario Bozzi Sentieri mercoledì 12 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. C’è veramente voglia di verità rispetto al detto e non detto degli anni di piombo? In occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato la necessità di fare piena luce sui troppi angoli oscuri che hanno segnato quegli anni. L’arresto, a Parigi, di sette ex terroristi, quasi tutti brigatisti rossi, condannati per gravi crimini di sangue, ben oltre i singoli, gravissimi casi, è un invito a squarciare la coltre di silenzio sulle connivenze e sulle ambiguità di una sinistra storicamente divisa tra riformisti e massimalisti.

Quella “zona grigia” della sinistra. A denunciare la “zona grigia” di chi silenziosamente approvava la lotta armata, appoggiandola o meno, arriva ora la testimonianza di Carlo Castellano, vittima, a Genova, di un agguato terroristico nel 1977. All’epoca dirigente dell’Ansaldo e iscritto al Pci, Castellano, intervistato dall’inserto genovese de la Repubblica, parla senza mezzi termini: «In Italia la sinistra è sempre stata dilaniata tra massimalismo e riformismo. E in qualche modo dentro al Pci, al Psi, nei sindacati e nell’intellighenzia, ma anche nei gruppi cattolici c’era il filone della lotta di classe e di rivoluzione, e qualcuno ha inteso che questa lotta dovesse essere armata».

Il “caso Genova”. Genova, in questo ambito, è stata una delle città-simbolo del terrorismo rosso: la città, per citare alcuni episodi, del Gruppo XXII ottobre (prima organizzazione terroristica della Sinistra extraparlamentare, attiva in città, dal 1969 al 1971); del rapimento del giudice Sossi da parte delle Brigate Rosse; dell’uccisione, nel 1976, sempre ad opera delle Br, del Procuratore generale Francesco Coco con la sua scorta. E poi, nel 1979, dell’operaio Guido Rossa, “reo” di avere denunciato un fiancheggiatore delle Br intento a distribuire volantini brigatisti all’interno dell’Italsider. Genova è stata anche, non va dimenticato, la città in cui il Pci svolse, più che altrove, una metodica azione egemonica, saldamente radicata in un’esperienza partigiana sanguinosa, che andò ben oltre il 25 aprile 1945, e che esplose, nel 1948, in occasione del ferimento di Palmiro Togliatti, allorquando il capoluogo ligure divenne, per diversi giorni, lo scenario di duri scontri a fuoco tra i rivoltosi comunisti e le forze dell’ordine.

Il legame tra vecchi partigiani e giovani extraparlamentari. Quello di Genova non è però un esempio isolato. Emblematico quanto accadde alla fine degli Anni Sessanta in Emilia, dove, come rivelò Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, era stretto il rapporto tra i vecchi partigiani ed i giovani extraparlamentari di sinistra, ideali continuatori della vecchia Resistenza. Lo stesso Franceschini ebbe modo di descrivere la sua visita a un deposito di armi creato dai partigiani fuori Reggio, in campagna, con trenta, quaranta mitra Sten che funzionavano alla perfezione oltre vent’ anni dopo il 25 aprile. Alcune di queste armi verranno poi sequestrate dalla polizia, nel 1982, durante un’irruzione in un covo brigatista.

L’ala massimalista del Pci. All’interno del Pci era, del resto, ben presente e rappresentata ai massimi livelli un’ala militarista e massimalista, i cui personaggi di spicco erano Pietro Secchia e Pietro Longo, impegnata a continuare, dopo il 1945, la Resistenza, per abbattere la “causa reale” del fascismo, il sistema capitalistico e i “nuovi servi” democristiani.

I rapporti tra Br, servizi segreti dell’Est e altri terroristi. Ultimo, ma non meno rilevante aspetto, essenziale per fare piena luce sugli anni di piombo e sul ruolo del terrorismo rosso, sono i rapporti tra le Br e i servizi segreti dell’Est comunista, a partire dal Kgb. Gli archivi di Mosca e di Berlino hanno peraltro già rivelato come uomini delle Br siano stati in rapporti sia con altri gruppi terroristici, sia con agenti dell’Est comunista, sia con uomini dell’ala massimalista del Pci. Il 9 marzo 1982, durante un’udienza del processo per il rapimento del generale americano James Lee Dozier, il brigatista Antonio Savasta ammise: «Il rappresentante dell’Olp chiarì che il contatto con noi puntava a costruire un fronte di lotta contro Israele da noi, e con la Raf, in Germania. In seguito a ciò, l’Olp ci inviò armi e esplosivo plastico».

Il tempo della chiarezza sugli anni di piombo. Su questo insieme di rapporti, connivenze, condivisioni ideologiche è tempo di fare finalmente piena luce. A cominciare da quello che Castellano identifica come «le ragioni di quel processo durissimo che ha investito un pezzo di sinistra, in particolare i più giovani, ma anche quella sinistra rivoluzionaria che si rifaceva al racconto della Resistenza tradita». Ha sottolineato il presidente Mattarella: «La completa verità sugli anni di piombo è un’esigenza fondamentale per la Repubblica». Ora è tempo di passare dagli auspici ai fatti. Per chiudere veramente una stagione di odio e di sangue e aprirne, finalmente, una fatta di verità e di piena assunzione di responsabilità.

Condanne di Bergamin prescritte: “Motivazioni della Pm Blasco non sono convincenti”. Frank Cimini su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Per la seconda volta la corte d’Assise di Milano ha dichiarato prescritte le condanne inflitte a Luigi Bergamin uno dei rifugiati politici in Francia per i quali l’Italia chiede l’estradizione. La corte ha rigettato l’opposizione della procura rispetto alla prima decisione spiegando che le motivazioni addotte dalla pm Adriana Blasco non sono convincenti. La procura ricorrerà in Cassazione alla quale si era già rivolta ma la Suprema Corte aveva derubricato il ricorso a opposizione alla prescrizione rimandando gli atti in corte d’Assise. In estrema sintesi la decisione del Tribunale di Sorveglianza che aveva dichiarato Bergamin “delinquente abituale” non c’entra nulla con la questione della prescrizione. Va considerato che lo status di “delinquente abituale” non è definitivo perché il difensore Giovanni Ceola ha proposto ricorso per Cassazione. L’abitualità non era diventata definitiva entro il termine di 30 anni che scadeva l’otto aprile del 2021. Comunque il tutto è ancora subjudice perché se ne riparlerà in Cassazione dal momento che la procura non si rassegna nemmeno davanti al trascorrere del tempo tanto è vero che si aggrappa a una “delinquenza abituale” decisa oltre 40 anni dopo i fatti per i quali Bergamin era stato condannato. Evidentemente per quanto riguarda la prescrizione nelle storie degli anni ‘70 i tempi scaduti sono “mobili” come dimostra il caso di Maurizio Di Marzio dove il secondo arresto li proroga addirittura al 2049 secondo una interpretazione restrittiva al massimo. Insomma una storia senza fine perché la politica non ha voluto trovare una soluzione al conflitto sociale di tanti decenni fa. Frank Cimini

I rifugiati politici in Francia. Ex terroristi, la procura di Milano si accanisce con Bergamin. Frank Cimini su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Non sembra avere limiti la fantasia della procura di Milano nel tentativo di ottenere l’estradizione dalla Francia di una sorta di banda dei nonni per fatti di lotta armata avvenuti oltre quarantanni fa. La pm Adriana Blasco ha presentato ricorso in Cassazione contro la declatoria di estinzione della pena e di prescrizione decisa dalla corte d’Assise di Milano per Luigi Bergamin uno dei nove fermati il 27 aprile dalla gendarmerie e poi rimessi in libertà dalle autorità d’Oltralpe. Nelle righe fittissime di 19 pagine con una trentina di documenti allegati la pm si concentra soprattutto sulla «condizione di latitanza protrattasi da quasi quattro decenni con l’assenza di qualsivoglia forma di resipiscenza e di ripudio delle pregresse condotte devianti» di Luigi Bergamin oggi 73 enne. Per la procura la corte d’Assise avrebbe violato una lunga serie di norme giuridiche non motivando sufficientemente il provvedimento di prescrizione. I magistrati stanno combattendo una battaglia con dedizione degna di miglior causa e non tengono conto che persino dal punto di vista tecnico Bergamin rimesso fuori dal carcere dai francesi che avevano ricevuto documentazione dall’Italia non può essere ritenuto un latitante. Oggi inoltre la pm Blasco insisterà davanti al tribunale di sorveglianza per ottenere che lo stesso Bergamin venga dichiarato delinquente abituale sperando, nonostante siano passati decenni dai fatti, che la circostanza possa influire sul procedimento di estradizione. La dottoressa Blasco inoltre veste anche i panni della “storica” ricostruendo le vicende dei “Proletari armati per il comunismo” l’organizzazione della quale fece parte Bergamin. I magistrati che si occuparono dei Pac all’epoca avevano accertato che ideologo e fondatore fu Arrigo Cavallina. Successivamente quando si trattava di ottenere la consegna di Cesare Battisti fu ingigantito il ruolo di quest’ultimo. Adesso tocca a Bergamin il ruolo del deus ex machina. Siamo anche oltre la storia scritta dai vincitori. Siamo approdati alle ricostruzioni sulla lotta armata secondo le convenienze e le opportunità del momento. Comunque secondo la mitica procura di Milano Bergamin non può avere la prescrizione solo perché non si è pentito. Per cui anche i calcoli aritmetici relativi al passare del tempo vanno a farsi benedire. Nei prossimi giorni a Parigi riprenderanno le udienze relative ai nove rifugiati dei quali l’Italia chiede la consegna. Si tratta di procedimenti che si preannunciano lunghi anche perché tra l’altro i dossier inviati dalle autorità del nostro paese risulterebbero incompleti. Poi finito il lavoro dei giudici la decisione spetterà al presidente Macron il quale sembra aver messo la faccia in questa vicenda al fine della sua propaganda sulla sicurezza per arginare Marine Le Pen. C’è da dubitare che l’elettore medio francese sappia chi è Giorgio Pietrostefani al punto da farsene influenzare al momento del voto. La storia poi rischia di allungarsi al tal punto nel tempo che magari a decidere non sarà nemmeno Macron. Ma e per fortuna di questo la pm Blasco non scrive niente. Frank Cimini

Sentenza scandalo. Non commette reati da 40 anni, ma per la procura è un “delinquente abituale”: prosegue l’accanimento contro Bergamin. Frank Cimini su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Il Tribunale di sorveglianza di Milano rigettando il ricorso della difesa ha confermato la dichiarazione di “delinquenza abituale” per Luigi Bergamin uno dei nove rifugiati politici in Francia fermati il 28 aprile scorso poi rimessi in libertà e che l’Italia chiede siano estradati. Per la prima volta nella nostra storia giudiziaria un provvedimento del genere viene emesso a oltre quarant’anni dai fatti per i quali erano state pronunciate sentenze di condanna, gli omicidi di un maresciallo Antonio Santoro e di un agente di polizia Andrea Campagna che risalgono al 1978 e al 1979. Da allora Bergamin a Parigi non aveva più commesso reati rifacendosi una vita e ottenendo un dottorato di ricerca, come affermato dall’avvocato Giovanni Ceola. Ma le parole del legale non sono state prese minimamente in considerazione dai giudici che hanno sposato la tesi della pm Adriana Blasco. I giudici aggiungono che Bergamin aveva dimostrato «prontezza nel disattendere le prescrizioni limitative della libertà personale nel sottrarsi in tal modo al rispetto del principio di legalità dimostrando di essere in grado di avvalersi di una rete di protezione da parte di persone disponibili in caso di necessità a sostenerlo e aiutarlo a sottrarsi all’esecuzione della pena». Ma c’è di più. Da parte dei giudici di sorveglianza di Milano c’è in sede di motivazione una sorta di “rimprovero” alle autorità francesi che non avrebbero indagato sui comportamenti di Bergamin nel violare le prescrizioni limitative della libertà personale. I giudici di Milano cioè vanno anche oltre il loro compito “sentenziando” in pratica quello che le autorità parigine avrebbero dovuto fare e non hanno fatto. Il Tribunale di sorveglianza sottolinea che la stessa decisione di costituirsi a fine aprile sarebbe stata strumentale a sfuggire all’esecuzione della pena considerando che la situazione non era mutata rispetto al 1986. Secondo l’avvocato Ceola invece Bergamin si è sempre presentato una volta la settimana all’ufficio della gendarmeria vicino casa sua. Il provvedimento di delinquenza abituale per Bergamin sembra comunque rivolto soprattutto alle autorità francesi affinché incida in merito alla decisione sull’estradizione che sarà discussa a partire dal prossimo 30 giugno e che comunque è prevista in tempi molto lunghi come per gli altri rifugiati. Il prossimo 23 giugno sarà discussa la posizione di Giorgio Pietrostefani condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Pietrostefani in caso di estradizione rischia di scontare la pena a 50 anni dal fatto che risale al 17 maggio del 1972. Un altro record in questa operazione “Ombre rosse” che in realtà è la caccia alla banda dei nonnini di Parigi nel segno della vendetta. Frank Cimini

Il caso dell'ex terrorista. Caso Bergamin, la Pm impugna la prescrizione ma sbaglia indirizzo…Frank Cimini su Il Riformista il 30 Giugno 2021. La mitica procura di Milano appare sempre più in confusione tra processi che smentiscono le sue tesi e i suoi teoremi, pm indagati a Brescia e ufficio spaccato tra il cerchio magico del capo Francesco Greco e il resto della truppa. Succede che adesso la procura manda le sue impugnazioni dove la procedura non lo prevede affatto. Il pm Adriana Blasco che da diversi anni ormai si occupa di esecuzioni della pena aveva impugnato la dichiarazione di prescrizione della corte d’Assise per Luigi Bergamin, uno dei nove rifugiati in Francia fermati e poi rilasciati in attesa della decisione sull’estradizione. Il pm Blasco si era rivolta alla Cassazione che a stretto giro di posta ha fatto presente alla rappresentante della procura di aver sbagliato indirizzo. Il pm può solo opporsi alla prescrizione rivolgendosi alla stessa corte d’Assise che l’aveva decisa. Il percorso è stato avviato e la corte ha fissato l’udienza per il prossimo 13 luglio con la procura che sembra avere scarse probabilità di ottenere soddisfazione. Insomma non accade tutti i giorni che una procura sbagli indirizzo. Il difensore di Bergamin intanto ha presentato ricorso in Cassazione contro la dichiarazione di “delinquenza abituale” decisa dal Tribunale di Sorveglianza sia in primo grado sia rigettando l’appello. È la prima volta nella nostra storia giudiziaria che un imputato subisce una sorte simile a quaranta anni e più dai fatti per i quali è stato condannato. Ma la procura ha scelto questa strada nella speranza di incidere sulla decisione delle autorità francesi in tema di estradizione. Secondo il pm milanese infatti lo status di delinquente abituale vanificherebbe del tutto la prescrizione. Cioè siamo sempre lì. Oggi pomeriggio alle 16 a Parigi è fissata l’udienza assolutamente interlocutoria considerando i tempi lunghi previsti dalla procedura sul tema dell’estradizione di Bergamin. Si preannunciano scintille a seguito di quanto accaduto la settimana scorsa nell’udienza relativa ad altri rifugiati. Si tratta della partecipazione dell’avvocato rappresentante dello stato italiano contestata dalle difese che è poi un francese iscritto al bureau d’Oltralpe. La presenza di questo legale è stata però appoggiata dall’avvocato generale, figura che fa parte del sindacato della magistratura che, comunque, dall’altro lato ha reclamato insieme ai difensori le richieste all’Italia di ulteriori chiarimenti, sostenendo che ci sarebbero dei buchi nei dossier inviati dalle autorità del nostro paese. Ha destato sorpresa invece l’affermazione dell’avvocato francese in rappresentanza dell’Italia il quale ha invitato a concedere l’estradizione perché poi i rifugiati sarebbero processati di nuovo per i fatti di tantissimi anni fa. Una posizione che non è assolutamente quella ufficiale dell’Italia. Frank Cimini

Terrorismo: Corte Milano, prescritta pena Bergamin.  (ANSA l'11 maggio 2021) La Corte d'Assise di Milano ha dichiarato l'estinzione della pena per prescrizione per Luigi Bergamin, il terrorista che si è costituito in Francia dopo il blitz delle Forze dell'Ordine di fine aprile che ha portato all'arresto in totale di nove ex esponenti degli anni di piombo. Lo ha appreso l'ANSA. La Corte ha accolto il ricorso del difensore Giovanni Ceola. (ANSA). La Corte (presidente Ilio Manucci Pacini, a latere Ilaria Simi De Burgis) ha dichiarato, come si legge nel provvedimento appena depositato, "estinta la pena detentiva inflitta a Luigi Bergamin" con sentenza "divenuta irrevocabile" l'8 aprile del 1991. Il legale Giovanni Ceola, difensore di Bergamin, aveva sollevato incidente di esecuzione davanti alla Corte milanese proprio per chiedere la dichiarazione di prescrizione della pena che, aveva fatto notare, si è prescritta "l'8 aprile scorso". Bergamin, ex militante dei Pac, doveva scontare 16 anni e 11 mesi per concorso morale negli omicidi del maresciallo Antonio Santoro e dell'agente della Digos di Milano Andrea Campagna, avvenuti nel 1978 e 1979. Per il pm Adriana Blasco, Bergamin invece avrebbe dovuto scontare anche due anni in più. La Procura, tra l'altro, aveva sostenuto che con la dichiarazione di "delinquenza abituale" per Bergamin, richiesta dal pm e decisa dalla Sorveglianza il 30 marzo, la prescrizione si era interrotta. Non così, a detta del difensore, dato che "la dichiarazione di delinquenza abituale - aveva chiarito ieri in aula - diventa definitiva dopo 15 giorni dal deposito della decisione e, dunque, sarebbe diventata irrevocabile il 14 aprile, ma nel frattempo l'8 aprile la pena si è prescritta". E lo stesso 14 aprile, tra l'altro, il difensore aveva pure impugnato davanti alla Sorveglianza il provvedimento del giudice Gloria Gambitta. Per Bergamin, 73 anni, intanto, era stata fissata l'udienza in Francia sul procedimento di estradizione, sulla base del mandato d'arresto europeo trasmesso dall'Italia, per il 30 giugno. Ora la decisione della Corte milanese che ha dichiarato per lui l'estinzione della pena per prescrizione.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 12 maggio 2021. Luigi Bergamin, il 72enne esponente dei «Pac-Proletari armati per il comunismo» costituitosi in Francia fra i 10 terroristi rossi per i quali il governo di Macron ha avviato il 28 aprile le procedure di estradizione negate per decenni all' Italia, è di nuovo un uomo libero in Francia, e anzi, se ora volesse, libero potrebbe essere e restare anche in Italia. Per la Corte d' Assise d' Appello di Milano, che ha accolto il ricorso del difensore trentino Giovanni Ceola, troppo tardi è infatti arrivata il 30 marzo quella «dichiarazione di delinquenza abituale» potenzialmente in grado di sottrarre in extremis alla trentennale prescrizione il 9 aprile i residui 16 anni e 11 mesi di pena per l' assassinio il 6 giugno nel 1978 del comandante degli agenti di custodia di Udine, Antonio Santoro: e ciò perché i 15 giorni di tempo, dopo i quali la dichiarazione il 30 marzo di delinquenza abituale di Bergamin avrebbe smesso di essere impugnabile e dunque sarebbe diventata definitiva producendo i propri effetti costitutivi, non erano ancora esauriti quando l' 8 aprile è invece maturata la prescrizione della pena per il delitto Santoro. Bergamin negli anni '80 fu processato con Cesare Battisti per quattro omicidi: Santoro; Lino Sabbadin, macellaio veneziano il 16 febbraio 1979; il gioielliere Pier Luigi Torregiani lo stesso giorno a Milano; e il poliziotto della Digos di Milano, Andrea Campagna, il 19 aprile 1979. Mentre per Torregiani e Sabbadin il terrorista fu assolto già in primo grado, fu invece condannato per Santoro e Campagna con sentenze divenute irrevocabili l' 8 aprile 1991. Ma «il legislatore» - ricorda ieri la Corte presieduta da Ilio Mannucci Pacini - ha ritenuto che, dopo 30 anni dall' irrevocabilità di una sentenza che infligge una pena temporanea, «debba ritenersi venuto meno l' interesse dello Stato a eseguirla». Ieri la pm Adriana Blasco chiedeva di rilevare un errore nel 2008, allorché la prescrizione delle altre sentenze di Bergamin (delitto Campagna, banda armata e procurata evasione) inglobò anche i 4 anni di aumenti in continuazione per il delitto Campagna (2 anni) e per i reati satelliti (2 anni), tesi che per il delitto Campagna avrebbe virtualmente fatto rivivere almeno il minimo per omicidio, 21 anni. Ma la Corte valuta che in realtà si sia prescritta (dall' 8 aprile) già anche la pena residua per il delitto Santoro, perché la giudice Gloria Gambitta, su istanza il 19 febbraio della pm Blasco, ha dichiarato Bergamin «delinquente abituale» (il che avrebbe avuto l' effetto di fermare la prescrizione della pena) il 26 marzo con deposito il 30 marzo: ma con 15 giorni alla difesa per impugnare, l' 8 aprile il provvedimento non era definitivo e non poteva ancora modificare lo status del condannato. «Se i giudici ritengono di aver applicato la legge non ho nulla da dire, ma è la legge che è sbagliata», commenta a caldo Maurizio Campagna, fratello del poliziotto ucciso.

Il caso degli arresti di Parigi. Lotta armata, per Bergamin la pena è prescritta…Frank Cimini su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Nel giro di poche ore è scattata la prescrizione dei reati per i quali erano stati condannati in relazione a fatti di lotta armata degli anni ‘70 Maurizio Di Marzio e Luigi Bergamin. Entrambi facevano parte della lista consegnata dal governo italiano a quello francese, vicenda che aveva portato il 28 aprile scorso al fermo di nove persone a Parigi. Dalla mezzanotte di ieri beneficia dei tempi scaduti Di Marzio che non era stato trovato in casa il 28 aprile e che si era allontanato in attesa del 10 maggio, la data fissata per la prescrizione. La sorte di Bergamin è stata decisa invece ieri pomeriggio dalla corte d’Assise di Milano che ha accolto il ricorso del difensore Giovanni Ceola. Il legale si era opposto all’escamotage individuato dalla procura generale del capoluogo lombardo. Bergamin era stato dichiarato “delinquente abituale” in modo da sospendere i termini della prescrizione nella speranza di supportare l’arresto ai fini dell’estradizione dalla Francia. L’iniziativa della procura generale appariva subito singolare perché decisa a oltre 40 anni dai fatti per cui Bergamin era stato condannato. Dubbi venivano espressi anche in Francia e non solo dal difensore Irene Terrel ma anche dai funzionari della gendarmerie e dai magistrati. La scelta della corte d’Assise taglia la testa al toro. La procura generale aveva pensato di procedere allo stesso modo anche per Di Marzio per poi ritornare sui propri passi, considerando le critiche espresse in relazione al percorso fatto per Bergamin. La corte milanese ha spiegato che è venuto meno l’interesse dello Stato all’esecuzione della pena dato il tempo trascorso. I giudici hanno preso atto dell’inesistenza di una particolare condizione di pericolosità sociale del condannato. Si tratta di una motivazione che dovrebbe valere per tutti i fermati dell’operazione pomposamente denominata “ombre rosse” e che ha costretto un po’ tutti a fare un salto indietro nel passato. L’iter per le estradizioni degli altri sette proseguirà nel prossimo mese di giugno davanti alla corte d’appello di Parigi con le decisioni che potrebbero arrivare a distanza di molti mesi se non di anni. Gli avvocati dei rifugiati hanno diverse carte da giocare e la possibilità di altri ricorsi prima dell’ultima parola che spetterà al presidente Macron. Magari in un momento in cui non avrà più bisogno di alimentare il bisogno di “sicurezza” al fine di sottrarre consensi alla signora Lepen. Frank Cimini

Terrorismo: Corte, dopo 30 anni cade interesse eseguire pena. (ANSA l'11 maggio 2021) Sono "trascorsi non solo più di quarant'anni dai gravissimi fatti di reato per cui Bergamin è stato ritenuto responsabile, ma soprattutto più di trenta anni dall'irrevocabilità della pronuncia di condanna" e l'8 aprile è "ormai decorso il termine massimo previsto". Lo scrive la Corte d'Assise di Milano nell'ordinanza con cui ha dichiarato l'estinzione per prescrizione della pena di 16 anni e 11 mesi per l'ex militante dei Pac che si trova in Francia. La Corte fa notare che "il legislatore" ha stabilito che decorsi 30 anni dalla sentenza che infligge una pena temporanea viene meno "l'interesse dello Stato all'esecuzione della stessa".

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" l'11 maggio 2021. Sempre introvabile e, da mezzanotte di ieri, libero. Maurizio Di Marzio il decimo nome sulla lista degli ex terroristi che l'Italia ha chiesto di estradare dalla Francia sarà probabilmente cancellato: la data della prescrizione, 10 maggio, è passata e da oggi potrebbe tornare libero cittadino, libero di rientrare a lavoro al suo ristorante a Parigi, la Taverna Baraonda, di riprendere a suonare la batteria col suo gruppo. Libero in teoria anche di tornare in Italia. Di Marzio, 60 anni, ex Brigate Rosse, non si era fatto trovare all'alba del 28 aprile, quando è scattata l'operazione Ombre rosse per riportare in Italia dieci fuoriusciti degli anni di piombo. Altri due assenti quel mattino, Raffaele Ventura e Luigi Bergamin, si erano però presentati spontaneamente il giorno dopo davanti al magistrato della Corte d'Appello. A Di Marzio, condannato a 14 anni per il tentato sequestro del vice capo della Digos Nicola Simone nell'82, restavano da scontare 5 anni e nove mesi. La prescrizione potrebbe salvare anche Bergamin, 73 anni, ex membro dei Pac, i Proletari Armati per il Comunismo, il gruppo di Cesare Battisti: era stato condannato nell'88 a 26 anni di carcere per concorso morale negli omicidi del maresciallo Antonio Santoro e dell'agente della Digos Andrea Campagna, avvenuti nel 1978 e nel 1978. La condanna era stata poi ridotta a 16 anni e 11 mesi. La sua prescrizione è scattata l'8 aprile. È comunque restato sulla lista dei dieci da estradare - a differenza di Ermenegildo Marinelli, prescritto nel 2020, tornato libero - perché la Procura di Milano ha chiesto e ottenuto il 30 marzo dalla giudice di sorveglianza di dichiararlo «delinquente abituale», cosa che ha un effetto sospensivo sulla prescrizione.

DELINQUENTE ABITUALE Davanti alla Corte d'Assise di Milano, ieri, i legali di Bergamin hanno sostenuto la non validità del provvedimento, in quanto, avvenuto fuori tempo massimo: «La dichiarazione di delinquenza abituale diventa definitiva dopo quindici giorni dal deposito della decisione hanno spiegato e dunque sarebbe diventata irrevocabile il 14 aprile, ma nel frattempo, l'8 aprile, la pena si è prescritta». La corte si pronuncerà tra quattro giorni. «Bergamin si è presentato spontaneamente davanti al giudice in Francia, ha un casellario giudiziario vergine dal 1982, come si può definire un delinquente abituale? Questo è accanimento» ha commentato da Parigi, Irène Terrel, avvocata di Bergamin e di altri cinque ex terroristi in attesa di estradizione: «La prescrizione fa parte del diritto. È lo stesso diritto che condanna, che decide anche la prescrizione, non ci sono interpretazioni possibili». Stesso discorso vale per Di Marzio: «È prescritto, non c'è nient' altro da dire». Senza contare, rileva ancora la legale, che su Di Marzio la Francia si è espressa già tre volte contro l'estradizione, e non solo politicamente, in base alla famosa Dottrina Mitterrand che ha garantito rifugio agli ex militanti italiani, ma anche dal punto di vista giuridico. Se diverse fonti vicino al dossier considerano Bergamin e Di Marzio ormai fuori dalla lista, la procedura va avanti per gli altri otto: Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani, Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Sergio Tornaghi, Narciso Manenti e Ventura. Dopo la prima udienza alla Chambre de l'Instruction della Corte d'Appello di Parigi, il 5 maggio, durante la quale tutti si sono opposti all'estradizione e si sono dichiarati innocenti, ogni richiesta verrà esaminata singolarmente. Le prossime udienze sono previste a fine giugno ma i tempi saranno in realtà molto più lunghi: «A meno di pareri sfavorevoli, ci saranno molte richieste di informazioni supplementari assicura Irène Terrel e non solo da parte della Difesa, ma anche del pubblico ministero: i dossier italiani sono molti incompleti».

Luca Fazzo per "il Giornale" l'11 maggio 2021. Chissà cosa pensano i familiari di Andrea Campagna, agente della Digos, ammazzato a venticinque anni dai Proletari armati per il Comunismo, quando leggono che lo Stato valuta la vita di questo suo servitore con due anni di carcere: come un furto da nulla. Eppure questo sta scritto nelle sentenze che ieri fanno irruzione nel caso dei latitanti di lungo corso del terrorismo rosso finalmente arrestati in Francia due settimane fa, e forse prossimi alla consegna all' Italia. Ma uno di loro forse la scamperà. Ed è proprio uno degli assassini di Campagna, il fondatore dei Pac Luigi Bergamin. Se la scamperà, non sarà solo grazie alla generosa accoglienza offertagli per decenni dalla Francia della «Dottrina Mitterrand». Sarà soprattutto grazie alla inspiegabile indulgenza con cui la giustizia italiana lo ha trattato nei lunghi anni della sua latitanza. Salta fuori tutto ieri mattina nell'aula della Corte d' assise di Milano che affronta il caso Bergamin. Lo scorso 28 aprile, il giorno della retata, il 73enne fuggiasco non era stato trovato. Si era costituito l'indomani, e come gli altri era stato liberato alla fine di una udienza surreale, con i vecchi brigatisti che rivendicavano come imprese rivoluzionari i loro delitti da macellai. Anche Bergamin era lì. Consapevole che il suo destino è appeso a un filo. Perché si gioca tutto su una domanda: la pena che gli è stata inflitta, 27 anni di carcere, è ormai prescritta dal tempo trascorso? Un dettaglio apparentemente tecnico ma che ieri apre una finestra su un tema poco esplorato: il trattamento quantomeno indulgente che i terroristi rossi ricevettero da parte dei giudici chiamati a processarli. Pochi anni dopo che i magistrati inquirenti - Coco, Alessandrini, Galli e altri - venivano ammazzati, i loro colleghi giudici riconoscevano le attenuanti ai loro assassini. E le conseguenze si vedono adesso. Il documento choc lo porta ieri in aula il pm milanese Adriana Blasco. È stata lei, mentre i colloqui segreti tra Italia e Francia stringevano la rete intorno ai latitanti, a chiedere e ottenere in tempi record che Bergamin venisse dichiarato delinquente abituale, unica strada per evitare che la sua condanna del 1990 non venisse prescritta. Ma quella dichiarazione non è definitiva, Bergamin potrebbe farla franca. Perché nonostante il sangue di cui si è macchiato il totale della pena da scontare è quasi ridicolo: sedici anni, al più diciotto. Come è possibile? Ecco il documento della Blasco. Bergamin, dicono le carte, è il fondatore di «Senza Galere», la rivista intorno cui nascono i Pac, progettando una saldatura tra criminalità comune e lotta armata. La saga dei Pac dura un anno ma il bilancio delle sue imprese è impressionante. Bergamin viene condannato per una sfilza di reati: banda armata, quattro delitti con finalità ideologiche, nove rapine, tre gambizzazioni, due omicidi. Per avere ammazzato il maresciallo Antonio Santoro, comandante del carcere di Udine, viene condannato a 23 anni: appena due anni sopra il minimo della pena, grazie alla concessione chissà perché delle attenuanti generiche. Ma a lasciare di sasso è il resto: per tutti gli altri reati gli vengono rifilati, grazie al criterio della continuazione, solo due anni. Eppure dentro c' è di tutto: i tre ferimenti, agguati che hanno rovinato la vittima a cittadini inermi come i due medici Diego Fava e Giorgio Rossanigo, definiti «medici sbirri», o all' agente di custodia del carcere di Verona Arturo Nigro. E altri due anni per l'assassinio a sangue freddo del poliziotto milanese Andrea Campagna, colpevole di abitare nel quartiere popolare della Barona come gli estremisti su cui indagava. Totale ventisette anni. Poi arrivano gli indulti del 1990 e del 2006, e questi non sono colpa dei giudici ma del Parlamento, che consente anche ai terroristi irriducibili di godere dello sconto di pena. Ma la decisione cruciale, quella che ora rischia di consentire a Bergamin di non fare neanche un giorno di carcere, la prende il tribunale di Milano nel 2008: il terrorista è latitante da diciott' anni, nel 1990 i francesi lo hanno liberato per l'ultima volta. Eppure i giudici dichiarano estinta la pena per l'assassinio dell'agente Campagna. Per la legge è come se il poliziotto non fosse mai stato ucciso, anche se riposa sotto due metri di terreno. È questa la decisione che ora rischia di far prescrivere tutto. Entro cinque giorni la Corte d' assise di Milano deciderà se Luigi Bergamin può tornare a ridere in faccia alla giustizia italiana.

(ANSA il 19 luglio 2021) La polizia francese ha arrestato questa mattina a Parigi anche l'ultimo ex terrorista, per cui l 'Italia chiede l'estradizione, Maurizio Di Marzio, sfuggito all'operazione di fine aprile. Il provvedimento depositato l' 8 luglio dalla Corte d'Assise di Roma ha stabilito infatti che non è ancora prescritta la sua pena. Lo rendono noto fonti di via Arenula. (ANSA).

Arrestato a Parigi l'ex br Di Marzio: è possibile chiudere i conti con gli “anni di piombo”? Le Iene News il 19 luglio 2021. L’ex brigatista è stato arrestato a Parigi dove aveva da anni un ristorante italiano. Maurizio Di Marzio era l’ultimo che era riuscito a sfuggire al blitz della primavera scorsa. Proprio allora con Gaetano Pecoraro ci siamo chiesti, partendo anche dalle parole Cossiga, se e come si può voltare pagina dopo uno dei periodi più dolorosi della storia d’Italia. È stato arrestato a Parigi Maurizio Di Marzio, 61 anni, ex brigatista rosso e ultimo che era ancora ricercato dopo il blitz in Francia del 28 aprile scorso di cui vi abbiamo parlato anche noi nel servizio di Gaetano Pecoraro che vedete qui sopra. Il blitz era stato effettuato dalle forze dell’ordine francesi con la collaborazione dell’intelligence italiana e aveva portato alla cattura di nove ex terroristi condannati per reati commessi durante gli anni di piombo. Di Marzio era riuscito finora a fuggire ed era uno dei principali obiettivi dell'operazione. Le ricerche erano ripartite dopo che l’8 luglio scorso la Corte di Assise di Roma ha stabilito che la sua pena non è prescritta: deve ancora scontare cinque anni e nove mesi di carcere per banda armata, associazione, sequestro di persona e rapina. Nel 1981 Di Marzio partecipò all’attentato contro il dirigente dell’Ufficio provinciale di collocamento di Roma, Enzo Retrosi. L’anno dopo partecipò al tentato sequestro del vicecapo della Digos di Roma, Nicola Simone, che fu colpito da tre pallottole al volto. Era stato arrestato una prima volta a Parigi nell’agosto 1994. L’Italia presentò la prima domanda di estradizione, valutata favorevolmente dai magistrati. Il governo francese non ha dato seguito a quella pratica e alle stesse nel 2002, 2007 e 2013. Risale al gennaio 2020 l’ultima richiesta italiana, che ha portato all’operazione dell’aprile scorso. Di Marzio gestiva da decenni un ristorante italiano nella capitale francese. Non si era mai arrivati al suo arresto in osservanza della cosiddetta “dottrina Mitterand”, voluta nel 1985 dall’allora presidente francese. Di fatto si prevedeva l’accoglienza in Francia degli ex militanti che avessero rinunciato alla lotta armata. Il blitz e gli arresti annunciati in aprile dallo stesso attuale presidente francese Macron sembrano aver chiuso con quella “dottrina”. Con Gaetano Pecoraro ci eravamo chiesti, proprio dopo quell’operazione, se e come fosse possibile chiudere davvero con gli anni di piombo. La Iena, come vedete qui sopra, ha parlato anche con Narciso Manenti, uno dei destinatari dei nuovi provvedimenti, condannato all’ergastolo per l’omicidio del carabiniere Giuseppe Gurreri. “Vivo qui dal 1983”, dice. “Ho vissuto più qui che in Italia io. C’è stata una commissione parlamentare che è durata 14 anni che ha scritto tutto, decine di migliaia di pagine. Ne hanno avuti abbastanza in Italia di protagonisti, no? Gliene servono dieci, dieci vecchietti malati?”. “Cossiga ha definito quel periodo ‘guerra civile di bassa intensità'”, prosegue Manenti. L’ex presidente della Repubblica, ministro dell’Interno al tempo dell’uccisione di Aldo Moro, arrivò a sostenere che i giovani che combattevano quella specie di guerra civile lottavano “non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”. E non disse solo questo, come potete riascoltare nel servizio di Gaetano Pecoraro. C’è un punto fondamentale da risolvere per chiudere definitivamente i conti con gli “anni di piombo”: tutte quelle persone che presero le armi per uccidere o essere uccise erano solo criminali da rinchiudere nelle patrie galere o, come diceva Cossiga, in qualche modo figli della Resistenza che sentivano essere stata tradita? “Ogni guerra civile è seguita da un’amnistia qualche anno dopo”, sostiene Manenti. Il riferimento è in particolare a quello che accadde dopo la Seconda guerra mondiale, quando nel 1946 Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista e all’epoca ministro della Giustizia, varò un’amnistia che finì per graziare migliaia di ex fascisti per riappacificare il Paese. Marina Petrella, giudicata responsabile di diversi sequestri e omicidi per cui è stata condannata all’ergastolo in Italia, ci ha detto: “Esprimo il mio profondo dolore, ma non sono in grado di sostenere un’intervista”. Un tema che gli ex brigatisti sono sempre stati restii ad affrontare pubblicamente. Come la pensa Manenti? “Ha ragione. Lasciamoli tranquilli, altrimenti le ferite si riaprono. Ogni 10 anni, ogni 5 anni…. basta”. Una risposta simile l’avevamo avuta anche da Alvaro Lojacono, l’ex brigatista che avevamo incontrato due anni fa. Oltre alla dimensione privata del pentimento e del dolore per le vittime, c’era un’altra cosa che vi aveva detto Lojacono: “Non c’è mai stato niente di personale con nessuna delle vittime. Era simbolico e funzionale: hai quella posizione lì dentro una struttura gerarchica, per esempio che comanda le carceri speciali, c’era la convinzione - terribile quanto ti pare - che eliminandolo mettevi in crisi il sistema. Sarà truce e drammatico, ma quella era la dimensione”. Una dimensione che i familiari delle vittime di quegli anni ovviamente non potranno mai accettare e nemmeno i tribunali che decidono le pene, ma il cui riconoscimento è al centro del dibattito di cui abbiamo parlato prima. Queste persone sono solo delinquenti come un rapinatore che uccide per rubare dei soldi, o sono qualcosa di diverso? E se sono qualcosa di diverso, come devono essere trattati?

Arrestato l'ex br Maurizio Di Marzio. Era sfuggito a blitz "Ombre rosse". Federico Garau il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Convinto di poter raggiungere la prescrizione, l'uomo non si era fatto trovare a casa lo scorso aprile, ma il provvedimento della Corte d'Assise di Roma ha scombinato i suoi piani. È stato finalmente tratto in arresto Maurizio Di Marzio, l'ultimo ex terrorista per cui l'Italia aveva chiesto l'estradizione. Secondo quanto riferito da alcune fonti di via Arenula alle principali agenzie di stampa, l'uomo sarebbe stato fermato questa mattina a Parigi dalle autorità locali. Riuscito a sfuggire all'operazione che lo scorso aprile aveva portato al fermo di nove ex brigatisti condannati in Italia e fuggiti in Francia, Di Marzio era risultato introvabile. Non solo. Per le autorità italiane era addirittura svanita la possibilità di estradizione del soggetto in caso di cattura, dato che il 10 maggio era scattata la prescrizione. Il provvedimento depositato lo scorso 8 luglio dalla Corte d'Assise di Roma, tuttavia, ha stabilito che la pena nei confronti dell'ex Br non era ancora prescritta, motivo per cui la questione è stata riaperta.

Chi è Di Marzio. 59 anni, di origini molisane, era stato condannato per i reati di banda armata, associazione sovversiva, sequestro di persona e rapina. Sfuggito all'operazione "Ombre rosse" scattata lo scorso 28 aprile, aveva fatto perdere le proprie tracce. Lo scorso 10 maggio, inoltre, per i reati a lui ascritti era prevista la prescrizione, motivo per cui l'uomo aveva buone ragioni per ritenersi ormai fuori pericolo. Il provvedimento della Corte d'Assiste ha tuttavia scombinato i suoi piani. Stando a quanto riferito dalle autorità, il nome di Maurizio Di Marzio è collegato all'attentato del 1981 che portò alla morte del dirigente dell'ufficio provinciale del collocamento di Roma Enzo Retrosi. Non solo. Di Marzio partecipò anche al tentato sequestro del vicecapo della Digos della capitale Nicola Simone, nel 1982. "Un brigatista travestito da postino, con divisa e blocchetto delle ricevute in mano, bussò verso le 15. Simone guardò prima attraverso lo spioncino poi aprì, ma in pugno aveva la sua 38 special perché non si fidava", aveva raccontato il quotidiano L'Unità, come ricordato da Ansa. Fuggito in Francia, l'ex Br si era rifatto una vita, pur avendo già subito, su richiesta dell'Italia, un arresto nel 1994."Ho fatto un mare di sciocchezze e non le ripeterei, ma sono cambiato", è quanto aveva raccontato nel corso di un'intervista concessa a Panorama. A Parigi, Di Marzio ha infatti era divenuto il titolare di un ristorante, il Baraonda. Lo scorso 28 aprile, per evitare l'arresto ed arrivare all'agognata prescrizione, l'ex brigatista si era allontanato dalla propria abitazione, ed aveva scelto di abbandonare lì il proprio telefono cellulare. Oggi, finalmente, la cattura da parte delle autorità transalpine. 

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Il caso. Perché è stato arrestato Maurizio Di Marzio, l’ex brigatista fermato a Parigi. Frank Cimini su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Le condanne per fatti di lotta armata inflitte a Maurizio Di Marzio non erano prescritte in data 10 maggio scorso come avevano calcolato i suoi difensori e originariamente anche i funzionari del ministero della Giustizia. Per questa ragione l’ex brigatista è stato arrestato e comparirà domani mattina in udienza davanti alla corte d’Appello di Parigi dove inizierà l’iter per l’estradizione come già avvenuto per gli altri otto rifugiati politici nell’ambito dell’operazione “Ombre Rosse”. Di Marzio deve scontare ancora 5 anni e 9 mesi su una condanna complessiva a 14 anni di reclusione per l’attentato al dirigente dell’ufficio di collocamento di Roma Enzo Petrosi e per il tentato sequestro del vicecapo della Digos capitolina Nicola Simone. Di Marzio era sfuggito al blitz del 28 aprile proprio in attesa del 10 maggio data in cui sarebbe scattata la prescrizione. I calcoli invece secondo quanto è stato accertato successivamente vanno modificati perché c’era stato un arresto a fini di estradizione nel 1994 che formalmente faceva ripartire da zero il termine di 28 anni dai fatti, cioè il doppio della condanna ricevuta. La procura di Roma ha vinto il ricorso in corte d’Assise che ha annullato la prescrizione decisa in precedenza. Per cui si arriva alla prescrizione a luglio-agosto dell’anno prossimo. Ma non è finita. Il nuovo arresto di ieri mattina sempre a fini estradizionali fa ripartire il conteggio di altri 28 anni per cui arriviamo al 2049. C’è però il rischio di una interpretazione restrittiva perché retroattiva il che potrebbe portare a ridiscutere la questione. Le udienze per gli altri rifugiati riprenderanno il prossimo 27 settembre. I giudici dovranno decidere alcune questioni di costituzionalità e inoltrare in Italia richieste di altra documentazione a supporto delle estradizioni dal momento che i dossier attualmente risultano incompleti. Finora non si è assistito a udienze tranquille a Parigi. I legali dei rifugiati contestano la presenza del legale francese William Julié in rappresentanza dell’Italia perché non prevista dalla procedura. Julé in uno dei suoi interventi aveva dichiarato di essere il suggeritore delle mosse della procura di Milano al fine di ottenere lo status di delinquenza abituale per Luigi Bergamin e di contestare anche in questo caso l’avvenuta prescrizione decisa dalla corte d’Assise. Dall’Italia sull’arresto di Di Marzio dichiarazione sopra le righe di Antonio Tajani di Forza Italia che parla di “straordinaria cooperazione” mentre Matteo Salvini stoppa in anticipo “le proteste dei radical chic”. Il problema è prettamente politico e continua a sottolinearlo l’avvocato francese Irene Terrel lamentando che a distanza di oltre 40 anni non si sia trovata una soluzione. “Situazione assurda” sono le sue parole. Frank Cimini

Tutto finito dopo una notte. Maurizio Di Marzio, l’ombra rossa è libero: avrà l’obbligo di firma ogni 15 giorni. Frank Cimini su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Si mettano il cuore in pace i politici, i partiti e i giornali che avevano gioito per l’arresto a Parigi di Maurizio Di Marzio, ex Br, perché il gestore della Taverna Baraonda è tornato in libertà e dovrà solo firmare il registro in gendarmerie ogni 15 giorni. Tajani aveva parlato o meglio straparlato del frutto di una brillante operazione e di grande collaborazione internazionale. Salvini aveva invitato i radical chic a non protestare. Tutto finito dopo una notte. Per Di Marzio viene avviato l’iter per l’estradizione al pari degli altri rifugiati fermati il 28 aprile e poi rilasciati nell’ambito dell’operazione “Ombre rosse”. Ci vorranno mesi se non anni prima della decisione. Era stato arrestato Di Marzio con una interpretazione molto restrittiva e retroattiva delle norme sulla prescrizione utilizzando un fermo a fini estradizionali del 1994 che allungava la scadenza fino al 2022. Seguendo la stessa logica col nuovo arresto si arriverebbe addirittura al 2049 facendo ripartire da zero i 28 anni, il doppio della condanna a 14 anni per fatti di 40 anni fa. Insomma sugli anni ‘70 la prescrizione è mobile perché la ministra Marta Cartabia santificata da alcune anime belle perché parla appunto a parole di “meno carcere” ha scelto di artigliare persone rifugiate in Francia da tempo. In omaggio al suo mentore Mattarella che il giorno del rientro di Cesare Battisti ripreso dagli smartphone di Bonafede e Salvini aveva urlato: “E adesso gli altri….”. Insomma siamo ben lontani da quella soluzione politica che tra gli altri viene invocata da Irene Terrel l’avvocato francese dei rifugiati. L’Italia vuole vendicarsi di un periodo storico sul quale non ha voluto e continua a non voler aprire una discussione seria. E cercando di vendicarsi rivalendosi su chi partecipò decenni fa al più serio tentativo di rivoluzione nel cuore dell’Europa lancia un messaggio a chi si oppone oggi. A iniziare dai NoTav e dai lavoratori della logistica. Il messaggio è fin troppo chiaro: “Se non la smettete sarete perseguiti e perseguitati fino a 90 anni”. Con la promessa aggiuntiva di prendere loro il Dna anche a 43 anni dai fatti. Frank Cimini

Il caso. Si è tolto la vita due anni fa ma per Repubblica deve essere arrestato: il caso di Enrico Villimburgo. Frank Cimini su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella continua a tacere sul Csm e le procure alle prese con la loggia Ungheria e il caso Davigo ma utilizza l’anniversario della morte di Aldo Moro al fine di alimentare la campagna sui misteri inesistenti dei cosiddetti anni di piombo. Mattarella riguardo alla giustizia si trincera dietro le indagini in corso ma come spesso accade l’aspetto penale è quello meno interessante e lui dovrebbe intervenire come presidente del Csm sul significato politico di fatti inquietanti. Il capo dello Stato sostiene la necessità di indagare ancora “per conoscere tutta la verità” facendo in pratica carta straccia di tonnellate di atti processuali che hanno escluso l’esistenza e l’attività di entità esterne alle Brigate Rosse. Mattarella poi pone in relazione le presunte verità mancanti con l’indispensabilità di ottenere l’estradizione dei rifugiati politici a Parigi fermati il 28 aprile dalla gendarmerie e in attesa dei procedimenti instaurati oltralpe. La dozzina di nonnetti condannati per fatti avvenuti tra 40 e 50 anni fa sarebbero depositari di chissà quali segreti e vengono invitati non solo da Mattarella “a parlare”. Va sempre ricordato che Mattarella insieme al suo predecessore Giorgio Napolitano riservò ben altro trattamento ad altri condannati dalla giustizia italiana, gli agenti della Cia ritenuti responsabili del sequestro e delle torture inflitte all’imam Abu Omar. In cinque beneficiarono della grazia presidenziale. Allora si poté derogare dalla giustizia in nome della politica e della ragion di Stato o meglio degli Stati, considerando che c’erano di mezzo gli Stati Uniti d’America. A Mattarella provvede a dare man forte Walter Veltroni anche lui al pari del capo dello Stato intervistato dal quotidiano Repubblica nonostante di mestiere faccia attualmente l’articolista del grande concorrente Corriere della sera. “Clemenza in cambio di verità” è il messaggio di Veltroni, il quale ribadisce che quello del compromesso storico era il migliore dei mondi possibili e che Moro pagò con la vita il fatto di essere malvisto per la sua politica sia dagli Usa che dall’Urss. Però spiega Veltroni di non annoverarsi tra i dietrologi perché le Brigate Rosse erano le Brigate Rosse anche se le loro azioni “furono usate da poteri marci”. Repubblica nella sua insistenza per la consegna all’Italia dei rifugiati inserisce nell’elenco dei latitanti anche il povero Enrico Villimburgo, ex militante delle Br morto suicida nei mesi scorsi a Parigi lanciandosi da un palazzo perché gravemente ammalato. Evidentemente la necessità di avere dei corpi da esibire decenni dopo come trofei di guerra fa in modo che non ci si fermi neanche davanti a chi non c’è più. Nell’elenco stilato da Repubblica ci sono anche Vendetti e Giorgieri i cui reati sono da tempo prescritti. La doppia morale non è solo un problema italiano. Il ministro francese della giustizia Dupont-Moretti che di recente ha paragonato le Br ai responsabili della strage del Bataclan, autentica gaffe sul piano storico e politico, da avvocato aveva difeso jihadisti condannati per attentati. Tutto il mondo è paese, recita il vecchio adagio. Frank Cimini

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 9 maggio 2021. Che idea triste, macabra e irrispettosa nei confronti di tutte le donne a cominciare proprio da lei, Mara Cagol, inserire il nome di una terrorista caduta sparando contro i carabinieri, dopo avere sequestrato con violenza un essere umano, ripetendo l'impresa della cattura del giudice Mario Sossi, il primo ostaggio delle Brigate Rosse. Con sorpresa nauseata, scopriamo che è stato questo il curriculum, anzi fedina penale, che le è valso un posto spensierato fra le donne trentine meritevoli di menzione nell'albo d'oro dal giocoso titolo «Trentatré trentine». Il primo sentimento che questo nome evoca è un'angoscia terribile. Con Mara Cagol e suo marito Renato Curcio cominciò la storia più sanguinosa dell'Italia repubblicana, generata dall'idea demenziale e arrogante secondo cui la classe operaia dovesse insorgere in armi contro la democrazia: un'idea che è costata un migliaio di morti innocenti. Negli anni Settanta al posto dell'anarchia si era consolidata questa idea coltivata specialmente nella Università di Trento e nella sua facoltà di Sociologia che la rivoluzione fosse a portata di mano, che fosse soltanto una questione organizzativa che richiedesse un gruppo di avanguardie intellettuali e militari in grado di convincere le masse a prendere le armi contro lo Stato. Lì nacque questo gruppetto formato dalla Cagol, Curcio, Alberto Franceschini ed altri decisi si dovesse passare dalle armi della politica alla politica delle armi. Quel che sappiamo noi a distanza di mezzo secolo è che quella insurrezione in parte cervellotica più che utopica e in buona parte fondata sul disprezzo della vita altrui, ma nel caso di Mara Cagol anche nel disprezzo della propria vita perché quella donna fu una dei pochi a pagare nel proprio sangue la sciagura insurrezionale di cui fu promotrice, è che il gruppo insurrezionale diventò immediatamente l'oggetto dell' attenzione di entità esterne e straniere fortemente interessate alla manipolazione e all' uso di personale terroristico con cui compiere azioni coperte da motivazioni ideologiche apparentemente genuine. Essendo stato per quattro anni presidente di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla penetrazione dello spionaggio sovietico in Italia, proposi una rogatoria per conto del Parlamento per una missione nella procura generale di Budapest, il cui procuratore generale mi aveva comunicato di possedere la documentazione sui terroristi delle Brigate Rosse, come agenti della Stasi tedesco-orientale e del Kgb sovietico, sotto il comando del terrorista Ilich Ramirez Sanchez noto come Carlos the Jackal. Quando chiesi al procuratore generale di Budapest se i documenti riguardassero anche il rapimento di Aldo Moro, la risposta fu: «Sì, e sono i documenti più importanti». Vedemmo una valigia con le carte che però non ci furono consegnate perché la Repubblica ungherese non poteva disporne senza il consenso della Federazione russa. Da allora, benché il fatto faccia parte degli atti del Parlamento, non un solo magistrato ha sentito il bisogno di esigere con gli strumenti diplomatici necessari quanto fu negato alla Commissione parlamentare. Fu la prova della cosiddetta «etero-direzione» che legava una parte dei seguaci di Mara Cagol e di Renato Curcio, ad agenzie straniere. Il nome di Mara Cagol è stato inserito in un volume edito dalla Provincia autonoma di Trento, sotto il leggiadro titolo «Trentatré trentine», che elenca altrettante donne che hanno onorato la città. «Abbiamo scelto di riportare anche questa biografia - così hanno spiegato i curatori - per sottolineare che la forza delle donne può anche essere distruttiva se non è ispirata a valori quali la convivenza pacifica e la non violenza». Francamente una motivazione che non sta in piedi davanti a una scelta immorale, storicamente offensiva: proporre come modello una persona insorta in armi contro lo Stato. Della pubblicazione (promossa da un ente istituzionale come la Provincia e non da un privato) è stato chiesto il ritiro da Fratelli d'Italia. Alessandro Urzì, consigliere regionale e provinciale a Trento e coordinatore regionale di Fdi di è netto: «Mara Cagol è un esempio negativo. Quell'opera va ritirata. E non si faccia finta di non capire la gravità dell'episodio». L'insurrezione e la fine sanguinosa della Cagol non possono essere equiparate al coraggio delle donne che combattevano contro i tedeschi durante l'occupazione nazista. La proposta di farne e un fulgido esempio femminile e persino femminista, ci sembra triste e codardo: non è questione di destra o di sinistra, ma di rispetto per la Repubblica, per le vittime del terrorismo. Pietà per chi è morto, ma non a prezzo dell'onore della Repubblica e di coloro che la servono.

Dagospia il 9 maggio 2021. Nel 1980 Giampiero Mughini con l’inchiesta giornalistica "Nero è bello” esplora gli ambienti giovanili, i circoli intellettuali e i sodalizi della destra neofascista italiana. In apertura di servizio la premessa: “Avevamo chiesto ai dirigenti del Fronte nazionale della gioventù di poter essere intervistati, ma hanno risposto che la trasmissione non era di loro gradimento ed era squilibrata. Volevano che alla fine della trasmissione Giorgio Almirante potesse commentarla, una sorta di benedizione. Noi che siamo laici, benedizioni non ne accettiamo da nessuno”. Quindi ecco una radiografia che i giovani di destra fanno di sé stessi, sulla base dei dati raccolti a un corso tenuto a Cascia: età media dei presenti 19 anni, giornale più letto Il Secolo d’Italia seguito da Il Tempo e dal Corriere della sera. Il 40% delle famiglie dei giovani di destra è di destra. Il 60% è cattolico, gli autori più letti sono Gentile, Pareto, Spengler ed Eliade e il 71% dei presenti al corso di Cascia era per la pena di morte. Nelle librerie e nei circoli di destra Mughini spiega che “vi si legge Tolkien, l’autore del Signore degli anelli divenuto per la nuova destra un vero e proprio libro da capezzale”. Ma ci sono anche dei volumi sul nazismo, di Hitler e di Goebbels. Un giovane, interpellato, risponde: “Il nazionalsocialismo è stato uno dei fenomeni più importanti del nostro secolo, è un punto di partenza dal quale non si può prescindere per capire la nostra epoca, è giusto studiare queste cose”. Ma ci sono aspetti di questa esperienza che sono da ispirazione? “No, sono cose con le quali non abbiamo nulla a che fare. Analizziamo questi fenomeni per capire noi stessi”. Poi un’ulteriore spiegazione, con semi-lapsus incluso: “E’ più importante analizzare il fenomeno del nazionalsocialismo dal punto di vista ideologico che un singolo fatto di guerra, come il presun… il genocidio degli ebrei”. Secondo Giano Accame, redattore de “Il Settimanale”, “purtroppo questi fenomeni neonazisti nei ventenni che oggi vanno a destra ci sono. Per colpa della condizione di libertà condizionata in cui ha vissuto la destra italiana i giovani si ispirano a pericolosi modelli nordici”.

La retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. La verità storica non si conquista con le manette. Paolo Persichetti su Il Riformista il 5 Maggio 2021. La richiesta di una verità ancora mancante è stata una delle giustificazioni più richiamate nell’orgia di commenti che hanno accompagnato la notizia della retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. Tra le voci più autorevoli si è distinta quella della nuova ministra della Giustizia Cartabia. La pagina storica degli anni 70 non può ancora essere chiusa – sostengono questi nuovi soldati della verità – senza che prima non sia fatta chiarezza sui fatti della lotta armata. Di pari passo questo accertamento della verità non può essere separato dalla esecuzione della pena, unico modo – par di comprendere – per arrivare alla verità. Affermazione dalla portata inquietante: ritenere che la verità sia ontologicamente legata alla punizione apre scenari totalitari che non sembrano tuttavia aver creato allarme. Chi chiede verità in questo modo non sta promuovendo un percorso di conoscenza ma semplicemente una conferma, per giunta autoritaria, del proprio pregiudizio. Una verità precostituita a cui i colpevoli dovrebbero adeguarsi. L’esatto contrario della verità storica che invece è un processo libero da condizionamenti, dove si scava alla ricerca di fonti nuove e si rielaborano e si confrontano nello spazio pubblico quelle note. Quello che invece viene proposto dalle milizie della verità punitiva è un mercato della verità, il mercato delle verità contrapposte, verità che cambiano col cambiar delle maggioranze e dei colori politici. La cosa più assurda è vedere la massima autorità della Giustizia promuovere la richiesta di estradizioni, per giunta utilizzando tutti i sotterfugi possibili per aggirare le prescrizioni lì dove l’inesorabile decorso del tempo le ha già sancite (vedi l’invenzione della delinquenza abituale), sulla base di sentenze che ricostruiscono una verità giudiziaria con pesanti conseguenze penali, e subito dopo sentir dire che quei colpevoli devono ancora dire la verità, una verità che dunque non può che essere diversa da quanto sancito nelle sentenze. Ma se così stanno le cose, che legittimità hanno delle richieste di estradizione fondate su sentenze che non dicono il vero? In carcere, dopo la mia estradizione, rivolsi la stessa domanda al magistrato di sorveglianza che erigendosi a quarto grado di giudizio mi chiedeva la verità, altrimenti si sarebbe sempre opposta alla concessione di qualsiasi misura alternativa. «Se lei mi fa questa domanda – risposi – vorrei sapere in base a quale verità giudiziaria sono stato condannato?». Sembrava una di quelle pagine di Lewis Carrol in Alice e il paese delle meraviglie, «prima la condanna poi l’accertamento dei fatti». Ovviamente finì nel peggiore dei modi. Chi dice che ci sono ancora misteri abbia almeno la coerenza di pretendere l’annullamento delle vecchie condanne e dei vecchi processi. Non può al tempo stesso chiedere una nuova verità e confermare quelle vecchie colpe. Paolo Persichetti

Cristiana Mangani per "il Messaggero" il 30 settembre 2021. Quando ad aprile la Francia ha dato l'ok al rientro in Italia degli ex brigatisti che avevano trovato rifugio a Parigi e dintorni, la decisione è stata definita di portata storica. Con il passare delle ore, però, sono emerse tutte le difficoltà che il dossier avrebbe incontrato tra giudici e burocrazia. E ieri, la previsione, puntualmente, si è avverata. La Chambre de l'Instruction della Corte d'Appello di Parigi, che si è riunita per valutare le richieste della difesa dei 10 ex terroristi che avevano sollevato questioni preliminari di costituzionalità, ha deciso di rinviare tutto al 12 gennaio 2022. Ancora tre mesi e mezzo per studiare il caso, ma, in contemporanea, per ottenere dall'Italia un supplemento di informazioni sulle domande di estradizione, così come sollecitato dalla procura e dalle difese. La giudice, infatti, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dagli avvocati, che contestavano in particolare lo status dell'avvocato che rappresenta lo stato italiano, William Julié, che poteva intervenire nel corso delle udienze ma che non prendeva parte alla procedura. Ma ha confermato la carenza di informazioni nella documentazione italiana. «Un dato che sorprende - ha affermato l'avvocata Irene Terrel, che assiste sei dei nove ex terroristi fermati a fine aprile - soprattutto per il tempo che lo Stato italiano ha avuto a disposizione per preparare i dossier». Secondo la procura e la difesa, il ministero della Giustizia nel raccogliere gli elementi contro gli ex br «ha violato l'articolo 12 della procedura europea di estradizione».  Un articolo della Convenzione europea firmata a Parigi il 13 dicembre 1957 e che prevede, in particolare, l'originale o la copia autentica sia della sentenza di condanna esecutiva sia del mandato di cattura o di qualsiasi altro atto avente la stessa efficacia; una esposizione dei fatti per i quali l'estradizione viene richiesta. Il tempo e il luogo della loro consumazione, la loro qualificazione giuridica e i riferimenti alle disposizioni di legge loro applicabili saranno indicati con la massima possibile esattezza. Insomma, cose parecchio scontate e note. Dopo anni di lavoro, di ricerca di informazioni e di strategia da adottare, quanto inviato dal ministero della Giustizia non ha dunque soddisfatto la giudice francese, titolare del caso. Terrel ha poi ammesso che era prevedibile da parte del magistrato «il non accoglimento della richiesta dei legali. Ammettendo in precedenza l'intervento dell'avvocato che rappresenta lo Stato italiano - ha aggiunto - era prevedibile che non si sarebbe ricreduto». Gli elementi sollevati in aula si fanno ancora più complessi se si pensa che ogni posizione degli ex br è diversa, ognuno fa caso a sé. Ieri erano assenti all'udienza per malattia Sergio Tornaghi e Giorgio Pietrostefani. Per quest' ultimo, l'avvocata Terrel ha fatto presente che si trova ancora in ospedale e che le sue condizioni sono gravi. Tanto che la giudice ha deciso di stralciare la sua posizione rinviando al 5 gennaio l'udienza nei suoi confronti. Mercoledì 6 ottobre, invece, è stato convocato Maurizio Di Marzio, arrestato a Parigi il 19 luglio e per il quale è scattata la prescrizione lo scorso 10 maggio. Si «è estinta» sempre per prescrizione anche la pena di 16 anni e 11 mesi che avrebbe dovuto espiare Luigi Bergamin, 73 anni, ex militante dei Proletari armati per il comunismo. E l'elenco di rimpatri difficili potrebbe allungarsi ancora.  Ora l'Italia, come richiesto dalla Corte, ha tempo fino al 5 dicembre per fornire il supplemento di informazioni. E questo conferma come, sostanzialmente, il tema sia ancora la procedura di estradizione. Non appena i dossier verranno completati, o almeno la giudice li riterrà completi, passerà a valutare le posizioni caso per caso, con il rito tradizionale. Si potrà arrivare fino al ricorso in Cassazione. E alla fine, toccherà al primo ministro firmare un decreto di estradizione, che però potrà essere a sua volta impugnato per un ricorso amministrativo davanti al Consiglio di stato. Insomma, una strada ancora molto lunga.

L'appello del fondatore di Potere Operaio. Estradizione ex Br, udienza blindata. Scalzone: “Il 29 mobilitiamoci”. Frank Cimini su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Il 29 settembre nel palazzo di giustizia di Parigi, superblindato a causa del processo per i fatti del Bataclan, riprendono anche le udienze in cui la corte d’Appello di Parigi dovrà decidere sulle richieste di estradizione formulate dalle autorità italiane a carico di dieci ex militanti di gruppi della lotta armata condannati per episodi relativi a quaranta, anche cinquanta anni fa. Secondo Oreste Scalzone punto di riferimento dei rifugiati politici italiani in Francia «in ragione delle misure di sicurezza per l’attentato al Bataclan sarà non facile accedere all’aula dove verrà trattata la questione che riguarda i nostri compagni». Ma Scalzone ribadisce la necessità della mobilitazione e di essere presenti per solidarietà. «L’operazione “Ombre Rosse” vuole inviare un pugno di esseri viventi umani in celle-tombe dell’esecuzione di condanne a morte lenta: crudeltà come fine. Chi intende giudicare e mandare è il Moloc che decreta l’orrido spettacolo geo-strategico-politico e la macelleria sociale in corso». Gli ex militanti erano stati fermati alla fine di aprile e quasi subito rimessi in libertà in attesa delle decisioni dei giudici alla fine di un iter che si annuncia lungo e complesso e che verrà successivamente valutato dal governo francese, al quale spetta l’ultima parola sulla consegna all’Italia. Parliamo dei casi di Maurizio Di Marzio, Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi delle Brigate Rosse, Narciso Manenti dei Nuclei armati contro il potere territoriale, di Luigi Bergamin dei Proletari Armati per il comunismo, Raffaele Ventura condannato per l’omicidio del vicebrigadiere Custra e di Giorgio Pietrostefani condannato come mandante dell’uccisione del commissario Luigi Calabresi, datato 17 maggio 1972: mezzo secolo fa. Attualmente sono tutti in libertà con obblighi di firma da rispettare. Secondo Scalzone «il “Pubblico” è una parte del rito. Se mai nell’udienza del 29 settembre la Chambre dovesse comunicare di aver giudicato “ricevibili” le richieste di estradizione che in punto di diritto formale sono allucinanti, questo “pubblico” in aula o fuori, virtuale», deve farsi sentire. «Dai “Palazzi” devono già sentire voci, immaginarsi gesti, magari solo un digiunare, bruciare i propri documenti di identità, avanzare contro i lanciatori di flash-ball puntati. 29 settembre: esserci». Secondo l’avvocato Giovanni Ceola, difensore di Bergamin, «non c’è da aspettarsi mercoledì prossimo decisioni importanti, dal momento che anche la procura generale aveva chiesto all’Italia di completare i dossier relativi ai singoli casi». Le condanne di Bergamin sono state dichiarate prescritte dalla corte d’Assise e dalla corte d’appello di Milano anche se pende il ricorso in Cassazione della procura. In Cassazione c’è anche il ricorso della difesa contro la dichiarazione di delinquenza abituale che secondo la procura potrebbe influire sull’estradizione. Va ricordato che il 29 settembre sull’asse politico-giudiziario Italia Francia è fissata un’altra udienza, quella in cui la corte d’appello di Torino dovrà decidere se estradare o meno in Francia il militante NoTav Emilio Scalzo in relazione a scontri con la gendarmerie a Claviere. Infine la corte europea di Strasburgo, investita dalla giustizia francese, deve decidere sul caso di Vincenzo Vecchi condannato in Italia a 12 anni di reclusione per devastazione e saccheggio. L’Italia ne chiede l’estradizione, ma il reato non esiste nel codice francese. I giudici di Strasburgo sono chiamati a risolvere la questione che, come al solito, non è esclusivamente giuridica. Frank Cimini

Oreste Scalzone pronto a tutto per i 9 “compagni” terroristi: “Scendiamo in piazza per non farli estradare”. Redazione giovedì 6 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Oreste Scalzone, co-fondatore di Potere Operaio da sempre strenuo difensore dei terroristi che con lui soggiornano impuniti a Parigi grazie alla copertura delle autorità francesi, difende i 9 “compagni” terroristi. E propone di andare oltre con ogni iniziativa pubblica. Sit in, manifestazioni, presidi per dire no all’estradizione dei nove terroristi italiani fermati a Parigi. Scalzone, da sempre punto di riferimento dell’azione in difesa della comunità degli ex aderenti alla lotta armata in Italia rifugiati in Francia, sostiene e propone iniziative simboliche per affermare il no all’estradizione “delle persone, compagne e compagni, oggi minacciate”.

Oreste Scalzone è stato leader di Potere Operaio. “Mi va benissimo – osserva all’Adnkronos Scalzone – che nascano, si aggreghino e coordinino, reti, comitati, e anche mobilitazioni e appelli di cosiddette personalità intellettuali. Certo, a patto che non si utilizzino argomenti che non solo sono spuntati, ma hanno un effetto che si usa chiamare “boomerang”. Esempio, il chiamar ‘dottrina’ – così irrigidendola e dando il destro per una guerra di citazioni di frasi disparate e contraddittorie che risulta a nostro danno – quella che è stata una politica inaugurata da Mitterrand in materia. Politica poi seguita, per ragioni di realistica lungimiranza, dai successivi Presidenti fino a ieri. Occorre che anche le persone più benintenzionate e al contempo Savant, esprimano concetti rigorosi, che non possano essere utilizzati per corroborare discriminazioni che portino danno a qualcuno”.

“Una balla dire che eravamo manipolati dai poteri occulti”. “Occorre inoltre aprire un dibattito pertinente sul fatto che si possa passare ad un grado successivo e ulteriore di persecuzione infinita”. Scalzone spiega: “Così come sin dall’epoca della Roma antica esisteva, oltre la morte, la ‘damnatio memoriae’, oggi, ulteriormente oltre, c’è il tentativo di imporre un vero e proprio ‘suicidio dell’anima’, che dovrebbe confermare la ‘Verità Assoluta’ che si pretende sentirsi dire: di esser stati e state, consapevolmente o meno, delle marionette manipolate da una concatenazione di ‘poteri occulti’… L’idea-forza è quella di dichiarare che, dal secondo dopoguerra e alle nostre latitudini, ogni gesto di rivolta sia im-pen-sa-bi-le – scandisce Scalzone – se non come manipolato dall’alto, cioè il contrario di quello che enuncia. Neanche più ‘follìa criminale’, mostruosa, ma proprio ‘tutto il contrario”’.

“Lo Stato italiano non li avrà mai”. Pensando agli ex aderenti alla lotta armata, Scalzone osserva: “Non è vero che alcuno abbia sofferto il carcere, o che non abbia avuto compassione per i familiari di persone ferite o uccise. Nessuno ha espresso sghignazzo compiaciuto, o fatto il miles gloriosus”. Quanto alla richiesta dei nove terroristi italiani di non essere estradati, Oreste Scalzone insiste. “Ci possono essere e ci sono stati casi rarissimi di persone per le quali l’estradizione significa comunque avere una condizione per esempio detentiva meno peggiore e che perciò l’hanno accettata. Ma in generale direi….’ci mancherebbe che non la rifiutassero’. Io penso che alla fine Stato italiano e parti lese non avranno i loro corpi. Assistiamo ad un incrocio tra le parti civili e lo Stato. Come un incastrarsi e un legarsi le mani a vicenda. Lo Stato, almeno a parole, non avrebbe come ‘committente’ la parte lesa. Lo Stato, nella forma della giustizia penale, ha come compito assegnatagli dalla giuridicità formale quello di risarcire il vulnus apportato al corpo sociale….”.

Il Fatto Quotidiano vomita odio su Sergio Ramelli. Meloni: «Vergognoso. Travaglio prenda le distanze». Stefania Campitelli giovedì 6 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il titolo è già un’istigazione all’odio nel nome dell’antifascismo militante. Senza se e senza ma. Che non risparmia giovani vittime degli anni di piombo, massacrate a colpi di chiave inglese, come nel caso di Sergio Ramelli. Con l’unica colpa di essere anticomunista.

Il Fatto Quotidiano insulta la memoria di Ramelli. “Come si può inserire a scuola uno spazio per il fascio Ramelli?” È il titolo emblematico di un articolo grondante fango a firma Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano di Travaglio. Vietato commemorare l’assassinio di Ramelli a opera di un gruppo di ‘democratici’ militanti di Avanguardia Operaia. I ragazzi di destra uccisi dal piombo degli anni ’70, secondo il ‘blasonato’ giornalista, meritano l’oblio. Evidentemente dopo mezzo secolo qualcuno ha nostalgia del triste motto ‘uccidere un fascista non è reato’. Con una tesi a dir poco imbarazzante.

Era un fascio e non merita spazio nelle scuole. Che si respira sin dall’inizio del pezzo. Per ‘attualizzare’ la materia l’autore arriva a equiparare gli ex brigatisti arrestati in Francia pluriomicidi al giovane militante del Fronte della Gioventù. Il quale non può essere considerato un eroe ” perché – udite udite – in vita professava un’ideologia fascista che giustifica l’uccisione della libertà e dei diritti di ciascuno. Ha diritto, questo sì, alla giustizia che lui stesso non avrebbe concesso agli avversari, ma eroe, per favore, no”. Parole che testimoniano anche la scarsa conoscenza dei fatti da parte di Barbacetto. Che evidentemente ignora, o finge, di ignorare l’immacolata biografia di Ramelli, il ‘ragazzo con il Ciao’. Un giovane di 19 anni, morto il 29 aprile di 46 anni fa, dopo una lunga agonia. Ad aggredirlo 47 giorni prima sotto casa un gruppo di militanti di Avanguardia operaia. Sergio fu preso di mira a scuola per aver scritto un tema contro le Brigate rosse. Nel quale si soffermava anche sull’indifferenza delle istituzioni per l’omicidio, proprio a opera delle Br, degli esponenti del Msi padovano Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Ecco la sua colpa. Aver ‘criticato’ i brigatisti rossi. Ecco la pericolosa ideologia fascista.

La proposta di FdI per ricordare lo studente di destra. L’attacco ad alzo zero alla memoria dello studente milanese di destra prende le mosse da una proposta del capogruppo di Fratelli d’Italia in regione Lombardia Franco Lucente. Quella di portare nelle scuole progetti e iniziative per la ricorrenza della morte di Ramelli e Pedenovi. “Perché purtroppo – spiega Lucente –  ancora molti giovani non sono a conoscenza di quello che successe”. Un progetto discusso e approvato in Regione ormai due anni e mezzo fa. Sul quale il consigliere di FdI ha osato chiedere aggiornamenti con un’interrogazione. Una richiesta gravissima per il Fatto Quotidiano. Perché Ramelli era un fascio e in quanto tale non merita cittadinanza nel ricordo collettivo. Insomma, quasi quasi se l’è cercata. Infatti, scrive, gli aggressori ‘volevano solo dargli una lezione. E invece lo uccisero”. E poi perché alle commemorazioni per la sua morte qualcuno ha osato fare il saluto romano.

Meloni: editoriale vergognoso. Travaglio si scusi. Un linciaggio ‘vergognoso’ alla memoria. Che ha fatto infuriare Giorgia Meloni. Che in un post su Facebook chiede al direttore Travaglio di prendere le distanze dall’articolo. “In un vergognoso editoriale de Il Fatto Quotidiano viene infangata gratuitamente la memoria di Sergio Ramelli. Giovane studente di destra ucciso a colpi di chiave inglese dall’odio rosso durante gli anni ‘70. Mi chiedo – scrive la leader di Fratelli d’Italia – con quale dignità e coraggio si possano pensare. O scrivere frasi così misere e vergognose nei confronti di un giovane ammazzato. Spero che il direttore Travaglio prenda le distanze da tali indegne parole pubblicate sul suo giornale“.

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 6 maggio 2021. «Ho vissuto questi anni con grande dolore» dice Marina Petrella arrivando alla Corte d'Appello di Parigi. Nell'aula 5, quella della Chambre de l'Instruction, comincia ufficialmente la procedura di estradizione per gli «ultimi latitanti» di Francia. Arrivano alla spicciolata, Giorgio Pietrostefani, Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Sergio Tornaghi, Luigi Bergamin, Narciso Manenti, Raffaele Ventura. Arrivano per sentirsi ripetere i capi di accusa che pesano su di loro in Italia, omicidi, associazione sovversiva, concorso morale, banda armata.

ACCOMPAGNATI. Arrivano quasi tutti accompagnati: chi le figlie, chi la moglie, chi un amico. Un gruppetto, c'è anche Oreste Scalzone. Sono venuti a sostenerli silenziosamente fuori, sulla piazza davanti al palazzo di Giustizia sull'Ile de la Cité. I nove vanno dritti dagli avvocati che li aspettano davanti all'aula, cercando di evitare i giornalisti. Il decimo nome sulla lista di quelli per cui l'Italia chiede l'estradizione continua a essere latitante: Maurizio Di Marzio (ex brigatista, 14 anni per tentato sequestro) ha fatto perdere le tracce dal 28 aprile. Per lui la prescrizione sta per arrivare: scade il 10 maggio. Roberta Cappelli (ex Brigate Rosse, ergastolo per associazione con finalità di terrorismo, concorso in omicidio e rapina) non cede ai cronisti, sussurra: «è impossibile parlare adesso, non si può spiegare tutto con poche parole, con una dichiarazione». Marina Petrella (ex Brigate Rosse, ergastolo per concorso in omicidio) si ferma prima di entrare a palazzo di Giustizia. Ci sono le figlie, una «collega» che lavora con lei come assistente sociale nel 20simo arrondissement. Cerca le parole, preferisce il francese, anche se dopo trent'anni resta forte l'accento italiano, anzi romano: «So che ogni mia parola varrà l'accusa di essere arrogante, che arriveranno invettive. Siamo alla fine: tengo a dire che ho vissuto tutti questi anni con grande dolore. Dolore e compassione per le vittime, tutte le vittime, per tutte le famiglie coinvolte, compresa la mia». «Sono stata condannata sulla base dell'assunzione di responsabilità collettiva», spiega a qualche giornalista Petrella, «quest'assunzione di responsabilità resta, ma alla giustizia spetta condannare in base a chi ha fatto cosa, e questo non è stato fatto. Gli ergastoli erano a palate. Ci sono state tante vittime, e ci sono stati tanti compagni che hanno pagato con l'ergastolo per quelle vittime, che non sono rimaste impunite, senza memoria. E' stato uno scontro duro per tutti». «Da parte mia, ho fatto 10 anni di carcere, fra Italia e Francia. E 30 di esilio, un'espiazione quotidiana che dura tutta la vita, una pena senza sconti e senza grazie. Che ti impedisce di tornare nella terra natale, di dare sepoltura ai tuoi morti. Anche qui un passaggio nel dolore e nella lacerazione». Trovare finalmente un linguaggio comune, le sembra ancora «impossibile». C'è una sfera «intima» per il perdono della quale, dice, «non parlerà mai» - e poi c'è quella della vita pubblica, dell'impegno civico. «Forse non è un caso se faccio il lavoro che faccio, un lavoro in cui posso essere utile socialmente, fare qualcosa di bene, una sorta di riscatto simbolico».

«PARAGONE OSCENO». In compenso, le parole del ministro della Giustizia francese Dupont Moretti, che ha paragonato i fuoriusciti italiani in Francia ai terroristi del Bataclan, le sembrano «oscene»: «il paragone semmai lo poteva fare con piazza Fontana, Brescia, Bologna, Reggio Calabria». Davanti all'aula dell'udienza, che dà il via a una procedura che su questo sono tutti d'accordo sarà lunga, forse addirittura lunghissima, c'è anche William Julié, che rappresenta lo stato italiano: chiede al magistrato di poter essere presente durante tutta la causa. Questo darà all'Italia la possibilità di pesare di più sull'intero iter giudiziario. Davanti al magistrato sfilano uno per uno gli ex latitanti: tutti con le stesse risposte, no, non accettano la richiesta di estradizione, e sì, si dichiarano innocenti.

Italia, Francia e lo Stato di diritto. Ex terroristi, a chi fa comodo punire un gruppo di pensionati dopo 40 anni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Se tratti l’Italia degli anni settanta come il Cile di Pinochet e quello di oggi come un regime che vuol mettere le manette a un gruppo di pensionati dopo quarant’anni dai processi solo per usarli “come spaventapasseri” a fine di politica interna, come ha fatto un gruppo degli intellettuali francesi, il minimo che ti possa capitare è di beccarti la risposta piccata non di un fascista sovranista, ma di un liberale come Angelo Panebianco, sul Corriere della sera. E se la ministra Marta Cartabia, cioè colei che fin dal primo giorno della sua nomina si è distinta da ogni predecessore guardasigilli per aver indicato i limiti dell’uso della pena come identificazione con il carcere, stipula un accordo con il suo omologo francese per ottenere l’estradizione di un gruppo di condannati italiani per fatti di 40-50 anni fa in nome di un’astratta “giustizia” e della necessità di “fare chiarezza” per poi poter giungere alla “riconciliazione”, non può che aspettarsi che qualcuno metta i puntini sulla “I” sul senso della pena. Ci pensa il professor Giovanni Fiandaca, sul Foglio. Non è stato un fatto da poco, quello che si è aperto nei giorni scorsi con il fermo, subito convertito in libertà vigilata, a Parigi, di un gruppo di italiani che negli anni Settanta erano stati protagonisti di fenomeni di lotta armata e in seguito condannati per gravi reati. Cui va aggiunto il caso particolare di Giorgio Pietrostefani, che, oltre a essere il più anziano del gruppetto, con il terrorismo non c’entra niente e deve rispondere dell’omicidio Calabresi in seguito a un processo fondato esclusivamente sulla parola del pentito Marino. Non è un fatto da poco, quel che è successo, ed è sorprendente che il governo Draghi e la ministra Cartabia siano riusciti a creare una smagliatura nella famosa “dottrina Mitterand” che si era perpetuata in seguito con altri tre Presidenti, di destra e di sinistra, fino a Macron. Vedremo se e in che modalità e in che misura questo fatto modificherà le relazioni tra Italia e Francia e forse anche gli stessi rapporti di forza all’interno dell’Unione Europea. Sicuramente il peso specifico di un personaggio come Mario Draghi è stato determinante. Angelo Panebianco coglie l’occasione della lettera che gli intellettuali francesi hanno inviato al presidente Macron per fare il punto sulla solidità dell’Unione europea. Il testo, firmato da famosi scrittori, registi, filosofi, liscia non poco il pelo al proprio governo, esibendo il “ma quanto siamo bravi noi” rispetto a un Paese come l’Italia che ha condotto processi ingiusti (vero) nei confronti della sinistra, mentre i due terzi dei fatti terroristici sarebbe imputabile alla destra (e questo è falso, le proporzioni vanno rovesciate). Ma soprattutto ricorda il fatto che la “dottrina Mitterand” ha consentito a queste persone rifugiate a Parigi di cambiare vita e anche di diventare, loro e i loro figli, dei bravi cittadini francesi. Panebianco ritiene che questi argomenti, un po’ sciovinisti, ma anche i sentimenti di non amore nei confronti dell’Italia che ne emergono, siano da noi ricambiati (insieme all’odio anti-tedesco, forse rimasuglio dei ricordi di guerra) e siano la dimostrazione della debolezza dell’Unione Europea. La cui fragilità sarebbe dimostrata dall’insorgere di tanti partiti e movimenti sovranisti in vari Paesi europei. Panebianco non è un giurista e non entra nel merito dell’operazione politico-giudiziaria portata a termine dalla ministra Cartabia e dal suo omologo Eric Dupond- Moretti. Si intuisce però una sua perplessità critica nei confronti della scelta fatta un tempo dal presidente Mitterand. Che sottintendeva non solo la necessità di avere in casa persone non portate a delinquere (obiettivo raggiunto), ma anche un giudizio negativo sul metodo con cui i tribunali italiani amministravano (e tuttora amministrano, possiamo aggiungere) la giustizia. È questo un punto di cui pare che né i magistrati né i governi italiani di diverse parti politiche paiano voler prendere atto. Così, invece dell’auspicato cambio di passo dell’Italia, assistiamo oggi, come riconosce lo stesso professor Fiandaca (che pare dare un valore positivo all’evento), alla novità che «la Francia sia ormai disposta a riconoscere che pure l’Italia ha le carte in regola come stato di diritto». Sarà forse perché ormai anche il governo di Macron ha messo mano a leggi speciali antiterrorismo. Ma purtroppo le nostre carte non sono in regola, o almeno non lo sono del tutto. Gli stessi processi ai terroristi, giudicati da contumaci, spesso condannati solo sulla base della parola dei pentiti, sono lì a dimostrarlo. Per non parlare di quel che è accaduto, e continua ad accadere, nelle inchieste di mafia, e sorvolando sugli anni di tangentopoli e di Mani Pulite. Il ragionamento svolto comunque nel suo articolo sul Foglio da Giovanni Fiandaca è uno di quelli che, se seguito e reso ricco di conseguenze pratiche dal governo, dal parlamento e dalla stessa magistratura, sicuramente condurrebbe per mano l’Italia verso una maggiore osservanza delle regole di un vero Stato di diritto. Il caso dei terroristi fermati in Francia, dopo 40-50 anni dai fatti per cui sono stati condannati, pone la domanda: a che cosa serve punirli oggi? Cioè punire persone nei cui confronti lo scopo stesso della pena come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione è già stato raggiunto con il loro perfetto reinserimento nella società? Se la pena ha un fine soprattutto di “utilità sociale”, cioè di prevenzione dei reati, il discorso è già chiuso. Ma se invece si dovesse tornare alla teoria, oggi minoritaria negli studiosi del diritto, della funzione “retributiva” della pena (cioè ti sanziono perché tu devi ricambiare allo Stato e anche alle vittime il male che hai fatto, il dolore che hai prodotto), allora anche la retata parigina avrebbe un senso. Che però somiglierebbe molto alla vendetta. A un’idea di giustizia che parrebbe dover essere il contrario della filosofia dichiarata e dimostrata nella sua attività alla Corte Costituzionale da Marta Cartabia. Però, osserva Giovanni Fiandaca, le dichiarazioni della Guardasigilli all’indomani dei fermi di Parigi sembrano più essere inscritte nel concetto di giustizia “retributiva”. Ha detto la ministra che le estradizioni sono necessarie per “fare chiarezza”, come preludio alla “conciliazione”. Ma in concreto che cosa avrebbero ancora da chiarire questi pensionati? Pietrostefani dovrebbe ribadire la propria dichiarazione di innocenza e di estraneità all’omicidio Calabresi, e gli altri dovrebbero confermare la propria commissione di reati come ha fatto Cesare Battisti? Oppure dovrebbero contestare le accuse e aprire un gioco di specchi infinito che avrebbe il compito di ritrarre persone sempre più vecchie, incollando le loro immagini a quelle di quarant’anni fa? Dovrebbero venire in Italia e poi sperare che qualche parente delle vittime sia disponibile, come qualcuno ha già fatto, a un percorso di “conciliazione” tra anziani? E poi veramente il nostro Paese non aspetta altro che vedere, tra qualche anno (i tempi non saranno brevi) gli ottantenni sopravvissuti sbarcare a Malpensa o Fiumicino davanti alle telecamere? Perché i casi sono solo due, e non hanno nulla a che fare con la giustizia. O quella retata di pensionati è servita a rafforzare i rapporti tra Italia e Francia e lo stesso ruolo del nostro Paese in Europa, e lo scopo è forse stato raggiunto. Oppure è stata solo un fatto mediatico, e allora chiudiamola lì.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Che cosa ci dice sull’Italia la vicenda degli ex terroristi latitanti. Giovani Cominelli il 4/5/2021 su L'Inkiesta. Non pare che la questione dei post-terroristi italiani latitanti sia al centro dell’attenzione in Francia, a parte un articoletto su Le Monde e l’Appello a favore lanciato da un gruppo di su Libération. Ai francesi di questi tempi interessa ben altro: il ritorno tragico degli attentati islamisti, ultimo dei quali l’assassinio di un’impiegata del commissariato di polizia a Rambouillet; l’Appello firmato da una ventina di generali in pensione, da un centinaio di alti gradi e da un migliaio di ufficiali in servizio, che denunciano «un certo antirazzismo che divide la comunità» e il radicalismo islamista e che difende le proteste dei gilet gialli; le elezioni regionali e dipartimentali del prossimo 20/27 giugno. La sicurezza è già al centro della lunga campagna delle elezioni presidenziali del 2022. È il dente che duole di Macron. È questo contesto che spiega l’accordo tra Macron-Dupond/Moretti e Draghi-Cartabia sul via libera al rimpatrio dei latitanti italiani, condannati in Italia per atti di terrorismo o di violenza sanguinosa. È la fine della Dottrina Mitterrand, molto simile al Lodo Moro, statuito da Moro con il Fplp di George Habbash: i terroristi palestinesi liberi di muoversi sul territorio nazionale, ma senza fare danni. Sul merito giuridico della vicenda, c’è solo da dire che “la giustizia giusta” deve fare il suo corso e i latitanti devono tornare a casa a fare i conti con quella italiana. Vero è che il verminaio scoperchiato dal caso Palamara e dal caso Davigo non favorisce la massima fiducia nella capacità della magistratura di praticare una giustizia giusta. Tuttavia, non si tratta qui solo di una partita privata tra vittime e carnefici, che la giustizia è chiamata ad arbitrare. È una partita civile e pubblica, c’entra la storia del Paese. Infatti: siamo qui ancora a chiederci come sia stato possibile. Perché il Sessantotto è durato dieci anni? Perché ha generato – anche – la pianta velenosa della lotta armata, con centinaia di morti e migliaia feriti? Per rispondere a queste domande, meglio non infilarsi nelle scorciatoie del perdonismo cieco, del vendettismo maramaldesco, delle parate trionfalistiche, già sgradevolmente esibite in occasione del “ritorno a casa” di Cesare Battisti. Tuttavia, sotto le domande ne scorre una carsica: ha ancora senso interrogarsi? Non è meglio per le generazioni più coinvolte lasciare “il lavoro sporco” agli storici e guardare avanti, al poco tempo che resta loro, libere da ciò i più giovani potrebbero legittimamente classificare come le ossessioni e i perditempo di una generazione, che sta uscendo rapidamente di scena, Covid adjuvante? Sì, forse sarebbe meglio. Certamente, c’è un che di densamente autobiografico in tutto questo tormento. Ma continuo a pensare che sia in gioco anche l’autobiografia della Repubblica. Se i misteri sono stati tutti svelati – affare Moro a parte – le carte ideologiche che giacciono nel doppiofondo della valigia della Repubblica devono essere tutte quante esposte sul tavolo pubblico. Dunque: perché il nostro scontento è durato dieci inverni? E perché, come la vecchia benzina a un certo punto, molto presto, già nel 1969, il nostro tempo ha avuto l’acre odore del piombo? Die Bleierne Zeit, come filmò Margarethe von Trotta…In primo luogo, perché, di fronte alle domande di cambiamento delle culture, degli apparati di Stato, della Chiesa e dei partiti, che provenivano da una insorgente nuova soggettività delle nuove generazioni, la classe dirigente dell’epoca, che veniva dal parziale fallimento del centro-sinistra, alternò cariche della polizia e pacche sulla spalla. E Piazza Fontana. E il tentativo di golpe Borghese. Le carte desecretate in Inghilterra rivelano che quest’ultimo non fu affatto una pièce da operetta. Per capire, basta uno sguardo comparativo oltralpe. Nel mese di maggio del ‘68, De Gaulle ordinò al Prefetto di Parigi di disoccupare la Sorbona, armi in pugno, carri armati compresi. Il Prefetto rispose di no. Allora De Gaulle fece appello al Paese e portò un milione di persone sui Champs-Élysées contro i sessantottardi. Ma negli anni successivi la Francia procedette alle riforme e all’integrazione dei nuovi venuti nel sistema di potere culturale, universitario, economico e mass-mediatico del Paese. In Italia non è avvenuto. Oh, certo, anche da noi i sessantottini, allenati nelle assemblee e nelle piazze, sono corsi, ciascuno per conto proprio, a conquistare i posti in società e nella politica. Sono arrivate riforme civili – si pensi allo Statuto dei lavoratori, al divorzio, al diritto di famiglia – ma l’infrastruttura politico-partitica, istituzionale e amministrativa, no, è rimasta chiusa su se stessa. Sono arrivate le Regioni. Ma hanno funzionato da moltiplicatore dei centri di spesa e degli apparati politico-partitici. Dal 1976 è incominciata l’irresistibile ascesa del debito pubblico. L’idea della spallata armata è stata una reazione alla “desperatio reformandi” che respirammo all’epoca. In secondo luogo, la domanda di cambiamento e di inclusione – si direbbe oggi – e di accesso ai consumi di massa e ai benefici di un nuovo Welfare fu catturata immediatamente da culture e ideologie, che, come l’Angelus Novus descritto nella Tesi Nona di Filosofia della Storia di W. Benjamin, avevano «il viso rivolto al passato». A parte un’influenza originaria, già nel corso dei primi anni ’60, dell’ideologia americana espressa dal Manifesto di Port Huron – antiautoritarismo, individualismo, consumismo, autodeterminazione, secolarizzazione – e dagli Students for a Democratic Society di Berkeley, in Italia il movimento ribelle subì già nel 1969 una torsione rivoluzionaria ottocento-novecentesca. Si incominciò con il messianismo del Cristianesimo rivoluzionario e con il marxismo cristiano della teologia della liberazione di Padre Girardi, per perderci quasi subito nel labirinto degli archivi del movimento operaio antico e recente. Fu qui che i leader delle mille assemblee e manifestazioni incontrarono una straordinaria varietà di marxismi. Provando a contarli, non bastano le dita di due mani: il materialismo storico e dialettico di Marx-Engels; il Giovane Marx; i Consigli di Antonio Gramsci e di Rosa Luxembourg e, poi, di Rossana Rossanda; il marxismo utopico di Georgy Lukacs, di Karl Korsch, di Walter Benjamin, di Ernst Bloch; il freudo-marxismo di Otto Fenichel e di Wilhelm Reich; la Scuola di Francoforte di Max Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse; lo strutturalismo di Althusser; l’operaismo di Toni Negri, Mario Tronti, Asor Rosa e del primo Cacciari; il marxismo di Mao; il marxismo di Breznev; il crocio-marxismo di Togliatti e il Testamento di Yalta. Insomma, da far girare la testa. Da quel calderone sono usciti i gruppi della sinistra “rivoluzionaria”, tra cui anche i gruppi del partito armato. Alcuni, le BR, ma non solo, sostenevano che stava tornando il fascismo, sempre sulle ali della borghesia imperialistica multinazionale: il fascismo era, di nuovo, il suo frutto maturo. Altri, da Autonomia operaia a Prima linea, vedevano spuntare fiori di comunismo ovunque dalla società civile: il comunismo era maturo. Anche per Il Manifesto. Così in nome di un antico modello di comunismo da realizzare o di uno nuovo da far fiorire, si incominciò ad uccidere. A ucciderne più d’uno per educarne più di cento. A uccidere per spianare la strada al cambiamento. E ora? Le armi hanno finalmente taciuto, anche se non possiamo dimenticare gli ultimi omicidi: D’Antona e Biagi. Ma il pensiero del cambiamento ha continuato ad essere prigioniero dell’antico schema di base: c’è un sistema capitalistico da abbattere – possibilmente senza armi – e un altro sistema alternativo da costruire. L’idea del riformismo è un’altra: che l’economia di mercato è il modo migliore di impiego e di sviluppo delle forze produttive. E la sfida è quella di governarla in libertà e giustizia, non a beneficio dell’umanità che verrà, ma da subito, a beneficio di ciascuno, qui e ora.

L'esultanza italiana e le leggi d'emergenza. Arrestare i rifugiati politici non ci fa chiudere i conti con la storia del terrorismo italiano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Gli arresti di Parigi e la nostra smemoratezza. Abbiamo lasciato aperto un capitolo tragico della nostra storia, quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dopo aver chiuso a fatica, e non del tutto, quello del fascismo. Neppure quando fu arrestato e processato l’ex capitano delle SS Enrich Priebke, il nostro Paese e il nostro sistema giudiziario seppero dimostrare la capacità di fare i conti con la propria storia. Perché non si seppe capire né far capire che non si stava giudicando una persona responsabile (per ordini ricevuti o dati) di migliaia di morti, ma un vecchio di 84 anni che aveva già da solo dato un orientamento diverso della propria vita. Lo aveva capito e realizzato Palmiro Togliatti con l’amnistia del 1946. Dopo di lui non ci sarà più un ministro di Giustizia capace di tenere insieme il proprio vissuto soggettivo, la propria memoria e i conti con la storia. Il contrario di quel che fece Togliatti è stata – è ancora – la politica delle emergenze. L’Italia ha vissuto il fascismo e la resistenza (all’interno della quale ci furono anche atti individuali crudeli, violenti e ingiusti), e poi, negli anni Settanta, che, non dimentichiamolo, furono anche momenti di grandi iniziative riformatrici, la sovversione sociale, una cui parte divenne terrorismo. Non si possono trattare il rapimento e uccisione di Moro e della sua scorta, gli assassinii e ferimenti di decine di uomini politici, magistrati e giornalisti come singoli episodi da giudicare nei tribunali. Il terrorismo è stato un fenomeno tragico della politica e della società. Ripeto, della società. Lo ha capito bene uno che non è certo stato amico di coloro, in gran parte di sinistra, che avevano preso le armi, come Vittorio Feltri, che ha ricordato un tragico applauso in un’assemblea di lavoratori alla notizia del rapimento di Moro. Purtroppo ho anch’io un ricordo analogo, di singole persone, in un ambiente di sinistra non estremistica come era quella de il Manifesto. Fare i conti con il proprio passato, anche il più negativo, il più drammatico, vuol dire aiutare a ricucire lo strappo che qualcuno ha attuato nei confronti della propria comunità. Ricucire per ricostruire non c’entra niente con il perdono, che è un fatto individuale e intimo e che attiene alla relazione di una persona con un’altra. È anche il contrario della cancel culture, che è invece un gesto di violento revisionismo, portato solo a distruggere, a separare, quasi a straniare anche il proprio vissuto. La politica della ministra Marta Cartabia, nella sua attività di costituzionalista, la sua consapevolezza del fatto che non possa essere il carcere la soluzione di ogni lacerazione, fino al punto di dare battaglia all’ergastolo ostativo, è un insegnamento per tutti. Poi, certo, nella nostra memoria, esiste anche un fatto generazionale. Chi ha cinquant’anni o meno può essere indotto a pensare che la storia delle leggi speciali, la proclamazione di continui stati di emergenza siano iniziati con le stragi di mafia, con gli anni Novanta e con le uccisioni dei magistrati Falcone e Borsellino. Se così non fosse, forse la guardasigilli Cartabia non potrebbe dire che i rifugiati arrestati nei giorni scorsi in Francia, sulla cui estradizione lei stessa insieme al Presidente del consiglio Draghi si è particolarmente impegnata, sono stati giudicati con processi giusti e con tutte le garanzie. Purtroppo non è così. Il che non significa affatto che stiamo parlando di innocenti. Non lo era, dal punto di vista processuale, Cesare Battisti, e probabilmente non lo è la gran parte di coloro che sono stati fermati e poi rimessi in libertà vigilata in questi giorni in Francia. Il problema è un altro. E cioè che le leggi speciali non sono in grado di fare giustizia. E non l’hanno fatta con le lunghissime custodie cautelari nelle carceri speciali di persone che saranno poi assolte, né con le leggi sul pentitismo, che pure hanno aiutato a sconfiggere il terrorismo sul piano puramente militare. Ma è stato ben più significativo il gesto del cardinal Martini quando ha ricevuto le armi da Ernesto Balducchi, un militante dell’Autonomia che era stato protagonista di quel fenomeno di “dissociazione” dalla lotta armata con cui centinaia di ex militanti avevano preso le distanze dalla violenza, senza la necessità di denunciare i propri compagni. Un’altra forma di quella giustizia riparativa che sta a cuore alla ministra. E che sarebbe un ottimo programma di governo. È quello che stanno attuando, passo dopo passo, formazioni politiche come Nessuno tocchi Caino e che ha portato alla realizzazione del documentario Spes contra spem di Ambroglio Crespi nel carcere di Opera. E siamo arrivati alla seconda emergenza, quella dei reati di mafia. Non è cambiato molto, rispetto al metodo con cui si svolgevano le inchieste per i fatti di terrorismo. Leonardo Sciascia fu critico anche nei confronti del maxiprocesso di Palermo voluto da Giovanni Falcone. Chiariamo naturalmente che nessuno sta paragonando le persone, né i fatti, né le ideologie, laddove ci fossero. Ma processare i contumaci, contestare i concorsi morali (a Renato Curcio o a Totò Riina, il concetto è lo stesso), esibire come prove la sola parola dei pentiti: che cosa ha a che fare tutto ciò con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Se poi fosse per caso arrivata notizia in terra d’oltralpe delle raccapriccianti controriforme prodotte negli ultimi anni dalla subcultura dei grillini e dell’ex ministro Bonafede, tese a equiparare i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli del terrorismo e della mafia, si capirebbe a maggior ragione perché la giustizia italiana sia vista con tanto sospetto negli altri Paesi dell’occidente. Un’ultima osservazione desidero indirizzare alla ministra Cartabia, nel nome della grandissima stima che ho personalmente nei suoi confronti. Lei si è spesa molto perché le autorità francesi mettessero in qualche modo le manette molto rapidamente ai polsi di dieci persone (sulle duecento italiane ancora rifugiate a Parigi e dintorni) condannate per fatti di sangue, appena prima che i reati cadessero in prescrizione, dopo quaranta o cinquant’anni dagli accadimenti. Le domando se ciò abbia un senso. Le domando se ciò sia coerente con quella “possibilità di rieducazione e conciliazione” che lei giustamente vorrebbe concedere a chiunque, qualunque delitto abbia commesso. Ma quale miglior dimostrazione di rieducazione e conciliazione queste dieci persone (e tutte le altre) devono dare ancora, oltre al fatto di aver rispettato alla lettera per qualche decennio le condizioni poste dal presidente Mitterrand (e poi Chirac, Sarkozy e Hollande) non commettendo nessun reato e integrandosi perfettamente, mettendo su famiglia e lavorando, e sempre rigando diritto? O qualcuno pensa che deportare in Italia un gruppetto di pensionati e far loro assaggiare un po’ di galera serva a riparare il danno fatto e a far finta di niente su quei conti politici ancora aperti? Certo, signora ministra, sarebbe tutto più facile se anche noi del Riformista ci comportassimo come stanno facendo in questi giorni da una parte i quotidiani più schierati con il centrodestra che applaudono con gli occhi chiusi purché vengano mandati in galera quelli di sinistra. E dall’altra parte il quotidiano più forcaiolo della sinistra, cioè il manifesto che, con un bell’editoriale di Tommaso Di Francesco, bolla la retata parigina come “la vendetta”. E riscopre improvvisamente, ma solo nei confronti della sinistra, il garantismo di un tempo, ahimè, antico. Noi non siamo così. Noi siamo quelli del “metodo Cartabia”. Fino a tre giorni fa, e speriamo ancora per il futuro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L'esponente della lotta armata “nera” torna in cella. “Sbattete quel vecchio fascista in cella”, il PD "grillizzato" vuole il carcere per Tuti. David Romoli su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Un detenuto in semilibertà può ritrovarsi con la licenza revocata e tornare dietro le sbarre, col rischio di vedersi revocata la semilibertà, per aver assistito a un raduno legale e autorizzato? Sì in un’Italia malata di integralismo e passione per la galera può succedere. Anzi è successo. A Mario Tuti, 75 anni, in carcere da 46 anni, è stata revocata due giorni fa la licenza di cui godeva e potrebbe dover restare in cella a tempo pieno sino a ottobre, quando si dovrebbe discutere la possibile revoca anche della semilibertà e poi, se dovesse scattare la deroga, a tempo indefinito. Fino alla morte. Capo d’accusa: l’aver partecipato, in veste di spettatore, al Campo nazionale del Blocco Studentesco, l’associazione giovanile di CasaPound, dal 16 al 18 luglio nel viterbese. Tuti, esponente della lotta armata fascista negli anni di piombo – condannato a due ergastoli per l’omicidio di due agenti di polizia nel gennaio 1975 a Empoli, e per l’uccisione, nel 1981, in carcere, di un altro detenuto di estrema destra, Ermanno Buzzi – non è stato sorpreso ad arringare i giovani del Blocco, magari esortandoli a delinquere. In realtà, anzi, nessuno aveva neanche notato la sua presenza tra gli spettatori. Era stato però casualmente ripreso, sul prato, da una troupe Rai per il documentario Prima della strage di Andrea Palladino, e la sua presenza tra gli spettatori era stata così “segnalata”. In più si è fatto fotografare con alcuni militanti del Blocco che erano andati a trovarlo, provocando una furiosa reazione del Pd toscano. Appena le foto incriminate sono state diffuse sui social, un gruppo di parlamentari ha presentato un’interrogazione alle ministre degli Interni e della Giustizia con firmatario Luca Sani, primo tra i non eletti nel 2018 ma entrato alla Camera dopo le dimissioni di un altro deputato. L’interrogazione è stata sottoscritta da altri 7 deputati, tra cui Filippo Sensi, ex portavoce di Renzi. “La presenza di un detenuto, seppur in regime di semilibertà ma che ha ucciso in nome dell’ideologia fascista, in un raduno giovanile di estrema destra è francamente inammissibile. E’ necessario che venga rispettata la Costituzione e va assolutamente impedito che assassini senza scrupoli possano propagandare gli ideali fascisti nei confronti delle giovani generazioni”, spiega Sani. All’iniziativa si accoda subito la sindaca di Empoli Brenda Barnini, che scrive al prefetto per segnalare l’inopportunità della “presenza di un terrorista a un’iniziativa di un’organizzazione giovanile”. Illustrando l’iniziativa, la sindaca è meno paludata: “Sapere che esistono centri estivi neofascisti e che nessuno fa niente per impedire che questo avvenga mi pare gravissimo. In più si aggiunge l’offesa per la nostra città e per la memoria delle vittime del terrorista nero Mario Tuti”. Il fatto che l’organizzazione in questione sia legale e la manifestazione debitamente autorizzata è un particolare irrilevante per i deputati del Pd e per la sindaca. Lo è anche per il magistrato di sorveglianza, che lunedì ha revocato la licenza che sarebbe dovuta arrivare fino al 31 dicembre, motivando la decisione col fatto che il detenuto ha frequentato persone legate all’ambiente neofascista. Non è ancora chiaro se, fino a che non sarà ridiscussa la semilibertà in ottobre, Tuti dovrà restare in carcere a tempo pieno o no. Dall’interruzione forzata delle comunicazioni telefoniche e sui social disposta dal magistrato si direbbe di sì. Tuti, imputato per la strage del treno Italicus dell’agosto 1974 e assolto, è uno dei pochissimi protagonisti del terrorismo rosso e nero degli anni ‘70 ancora in carcere da quasi mezzo secolo. Non dipende dalla gravità dei crimini commessi: sono gli stessi per i quali sono stati condannati moltissimi ex terroristi. Non dipende neppure dalla persistente pericolosità sociale: nei 16 anni di semilibertà l’ex fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario si è sempre occupato di assistenza sociale senza mai badare al colore della pelle e quando, per una mancata firma, fu chiesta alcuni anni fa la revoca della semilibertà il direttore del carcere lo descrisse come un detenuto modello. Tuti, peraltro, ha più volte espresso rammarico per le sue azioni di decenni fa. Il problema è che, come sul fronte opposto l’ex Br Mario Moretti, si rifiuta di rinnegare la sua storia. Continua a definirsi fascista. Rifiuta quegli “atti di sottomissione” che lo Stato, pur sapendo che si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di formalità burocratiche, ritiene indispensabili. E’ possibile che pesi anche la rivolta di Porto Azzurro, nell’agosto 1987, quando 6 ergastolani guidati da Tuti presero in ostaggio 25 persone tra guardie carcerarie e personale del carcere incluso il direttore. La rivolta si concluse dopo una settimana con la resa dei detenuti, senza spargimento di sangue, ma forse l’affronto non è mai stato dimenticato. Tuti ha ottenuto la semilibertà solo dopo 10 anni da quando ne avrebbe avuto diritto, gli fu negato il permesso di visitare la madre in fin di vita, resta in carcere da decenni dopo che quasi tutti gli altri ex terroristi sono usciti. Sino all’aberrazione di questi giorni. David Romoli

Il caso dell'ex leader della lotta armata. Sepolto vivo in carcere da mezzo secolo, il riarresto di Mario Tuti è un’infamia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 26 Agosto 2021. Revocare qualche minuto diritto carcerario a un vecchio imprigionato da mezzo secolo, senza che il provvedimento restrittivo sia giustificato da documentate ragioni di sicurezza, è già un’infamia inemendabile. Ma farlo, come si vuole con Mario Tuti, ex leader della lotta armata di estrema destra, perché quel sepolto vivo, ormai provatamente innocuo, ha partecipato a un pur discutibile raduno politico, rappresenta un supplemento di ingiustizia che degrada l’ordinamento a un livello di inciviltà vergognosa. In un sistema decente, il carcere duraturo sarebbe ammissibile solo finché durano condizioni di pericolosità del condannato che sconsiglino di liberarlo, e già questo principio è messo nel nulla quando, al contrario, si assiste all’uso del carcere e alla mancata concessione di qualche parziale soluzione alternativa nel caso di persone certamente non più pericolose. Ma che le mezze libertà, i piccoli permessi, la riduzione delle durezze detentive costituiscano premi di buona condotta democratica, riconoscimenti di redenzione ideologica, insomma concessioni del potere punitivo che si auto-limita davanti alla rieducazione morale del condannato, ecco, questo può pensarlo soltanto chi ha un concetto dell’umana convivenza anche più barbaro della violenza che pretende di punire. Il condannato ha il dovere, come chiunque, di non nuocere. Non quello di meritarsi qualche simulacro di libertà coltivando l’idea che piace al giudice di sorveglianza o ai guardiani della democrazia carceraria. Perché se fosse così – ed è angosciante che non si capisca – vorrebbe dire che neppure lo si tiene in prigione per quel che ha fatto, ma per quel che pensa. Iuri Maria Prado

I casi Tuti e Moretti. Ex terroristi da oltre 40 anni in carcere non sono un pericolo, liberateli! Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Aprile 2021. La maggior parte dei parlamentari che oggi siede alla Camera non era nata o andava alle elementari quando furono arrestati il fascista Mario Tuti e poi il comunista Mario Moretti. La maggior parte dei magistrati che oggi giudicano, forse, andava alle medie o al liceo. Da allora Tuti e Moretti hanno sempre dormito in cella. Mario Moretti è stato un personaggio importantissimo, tragicamente importante, negli anni 70, perché ha guidato una formazione sovversiva e potentissima come le Brigate Rosse, che riuscì a terremotare e a condizionare la politica italiana, a devastare la Democrazia cristiana a mettere alle strette il partito comunista. Seminò morte. Uccise e condivise omicidi e rapimenti. Anche Tuti, che ebbe un ruolo molto minore nella politica italiana, si macchiò di terribili delitti. Oggi sono due persone completamente diverse da allora. Dobbiamo lasciare che muoiano dietro le sbarre? Dobbiamo fare in modo che lo Stato si dimostri feroce e vendicativo e che nella sua ferocia dia e trovi la giustificazione della ferocia di allora? Uno stato liberale non è spietato e non confonde mai la giustizia con la ritorsione e la revanche. 40 o 45 anni di carcere sono uno sfregio al senso del Diritto. Moretti e Tuti non costituiscono nessun pericolo per la società. L’ergastolo è un abominio. L’ergastolo è il passato. Dimentichiamocelo.

"Ridateci i 14 terroristi che vivono in Francia". Pressing italiano alla vigilia delle prescrizioni. Oggi incontro virtuale tra la ministra Cartabia e il Guardasigilli francese. Francesco De Remigis - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Magistrati che traccheggiano, funzionari che indugiano. E una politica che anziché dare una scossa si gira dall'altra parte. È così che le «Primule rosse» scorrazzano impenitenti sotto la Tour Eiffel. Sono almeno 14. Nonostante sia dietro l'angolo la prescrizione relativa ad alcuni terroristi degli Anni di Piombo, riparati Oltralpe in anonime province dell'Esagono, l'Italia ha finora ottenuto ben poco da Parigi. Briciole di attenzione e pure qualche sberleffo. Una serie di eventi ha impedito di procedere all'estradizione di chi era in cima alla lista. Non ultimo, lo slittamento dell'incontro tra la neo ministra della Giustizia Marta Cartabia e il Guardasigilli francese Éric Dupond-Moretti, che doveva tenersi il 1° aprile: «Rimandato dalla Francia», fanno sapere da Via Arenula, consapevoli della gravità del dossier. Nonostante l'Italia abbia recentemente chiesto a Parigi di effettuare le estradizioni «nessuno può negare che alcuni vedranno cadere le accuse», ammettono al ministero. Lo ricordava ieri pure Le Figaro, sottolineando «lentezza e scarsa volontà francese». Cartabia e il collega d'Oltralpe si parleranno finalmente stamani, da remoto «causa Covid»: non vis-à-vis e con un ritardo francese - voluto o meno che sia - che assomiglia a un favore ad almeno un ex membro dei Proletari armati per il comunismo, Luigi Bergamin, che potrebbe svangarla per primo. Arrestato a fine Anni '80 e liberato poco dopo, la prescrizione per lui scatterebbe già oggi. Cartabia ha a cuore il dossier, assicurano da Via Arenula. Si cerca una soluzione last-minute. Se per Bergamin, compagno di lotta di Cesare Battisti nei Pac, sembra difficile arrivare alla quadra, per le pratiche di estradizione pendenti degli altri latitanti d'Oltralpe si potrebbe far valere la convenzione di Strasburgo e ricalcolare i termini di prescrizione. A partire dall'ex brigatista Maurizio Di Marzio, la cui domanda si estinguerà il 10 maggio. Oggi si vedrà che peso avrà l'input politico del nuovo governo Draghi sulle pratiche pendenti degli altri «liberati lungo la Senna» dalla dottrina Mitterand: «C'è tutto l'interesse a ricordare questa questione». Parigi ha glissato fino all'ultimo, tanto che gli sherpa d'Oltralpe, per oggi, volevano solo un'agenda light di cooperazione, dalla confisca dei beni ai mafiosi alla gestione dei minori stranieri non accompagnati. Ma nel giorno in cui Bergamin potrebbe farla franca, condannato in via definitiva a 17 anni e 11 mesi per omicidio, «l'Italia farà quello che è in suo potere per sbloccare la questione in minor tempo possibile». Anche chiamando in causa l'Eliseo per ostacoli «di esecuzione» in un intricato sottobosco in cui si perdono le pratiche. La pressione politica è nulla, se non viene «tradotta in concreto e messa in atto dalle autorità francesi», filtra dal governo italiano: «Non dipende da noi». D'altronde Sarkozy negò l'estradizione dell'ex br Marina Petrella nel 2008 per «motivi di salute». Macron si è girato finora dall'altra parte senza trasmettere «materialmente» gli input di Roma.

L’Italia torna a chiedere alla Francia la loro estradizione. La Cartabia chiede l’estradizione degli ex terroristi, dopo 40 anni vuole sbattere in prigione degli ottantenni. Frank Cimini su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Quando venne estradato in Italia Cesare Battisti, al di là dei ministri armati di smartphone a Fiumicino perché evidentemente quel giorno non avevano niente di meglio da fare nell’esercizio del loro mandato, il messaggio forte arrivò dal Capo dello Stato Sergio Mattarella con le parole: “E adesso gli altri…”. E infatti siamo qui a registrare una nuova formale richiesta italiana alla Francia affinché consegni una decina di ex militanti di gruppi della lotta armata alle nostre prigioni. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha incontrato il suo omologo d’Oltralpe che ha detto di sì, ricordando però che tutto dipenderà dall’istanza politica superiore cioè da Macron. Dunque non è sufficiente la riforma del trattato di Dublino che rispetto alle regole precedenti fa prevalere la legge del paese che chiede le estradizioni e non più quella del paese che riceve le richieste. Cartabia, che da presidente della Corte Costituzionale già aveva insistito sulla necessità di superare il carcere come sanzione penale ribadendo poi il tutto da ministro, evidentemente ritiene che invece per responsabilità relative a fatti di oltre quarant’anni fa non si debba transigere. Dalla Francia Irene Terrel, storico difensore di moltissimi rifugiati italiani, spiega: «Non capisco come in Italia non si riesca, come è successo in altre questioni storiche, a concedere l’amnistia per delle vicende così vecchie. È incomprensibile, ci vuole una pacificazione servono misure di amnistia». «Se si guarda al diritto francese sono tutti casi prescritti – aggiunge l’avvocato – Non capisco come si possa tornare su tutte queste questioni, sarebbe un errore giuridico e sarebbe scandaloso. C’è la prescrizione, c’è un accanimento ricorrente. L’amnistia permetterebbe di pacificare questo periodo politico che è stato estremamente doloroso per molte persone, ma c’è un momento in cui bisogna voltare pagina. I tempi giudiziari sono passati». L’Italia non ha mai voluto fare i conti con la sua storia in relazione agli anni ‘70 per responsabilità di tutti gli schieramenti politici, a cominciare dalla sinistra che considera tuttora indigeste le parole di Rossana Rossanda sull’album di famiglia. Per cui le autorità italiane continuano a cercare di artigliare in giro per il mondo una serie di corpi appartenenti a ultrasettantenni quasi ottantenni da esibire poi come trofei di guerra, di una guerra finita da tempo. La lotta armata e il terrorismo politico da decenni non costituiscono più un pericolo per le istituzioni. Eppure si rischia di veder finire in carcere, tanto per fare un esempio, Giorgio Pietrostefani condannato per l’omicidio Calabresi quando sono passati in pratica cinquantanni. Quel delitto in Francia è prescritto da tempo, in Italia lo sarà nel 2027. Nel nostro paese, ma anche in Francia ci sono giornali che danno conto anche dei sospiri in questa battaglia per ottenere le estradizioni. Si tratta di giornali pronti a criticare la magistratura e l’eccessivo peso del processo penale in merito ad altre vicende giudiziarie. Gli anni ‘70 invece restano tabù. Sarebbe necessario un minimo di equilibrio e pure di civiltà. Purtroppo non c’è.

L'assist francese all'Italia. "I vostri terroristi rossi come quelli del Bataclan". Francesco De Remigis il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Mercoledì prima udienza, affondo del ministro Dupon-Moretti. Ma i legali: "Processi da rifare". Mutata la «consapevolezza» politica - parola chiave con cui il governo francese ha scelto di scardinare l'approccio utilitaristico alla dottrina Mitterrand - tocca guardare i dossier dei 10 ex terroristi da estradare: caso per caso, pratica per pratica. A farlo saranno i giudici d'Oltralpe, da mercoledì, con gli occhi della Francia di oggi. E cioè di un Paese che nei decenni scorsi esaminava quasi con sconcerto condanne in contumacia, e che invece nel 2021, vivendo il terrorismo in casa, ha cominciato a comprendere - e a fare propria - la necessità di dare giustizia alle vittime istituendo processi anche in assenza dell'imputato. È stato il tribunale speciale per gli attentati del gennaio 2015, quelli contro il settimanale Charlie Hebdo e l'Hyper Cacher, a condannare a 30 anni di reclusione, per esempio, Hayat Boumeddiene, la compagna del killer del supermarket, Amedy Coulibaly. Giudicata in contumacia (perché in fuga dai giorni delle stragi), la condanna ha rispecchiato le richieste dell'accusa, che in due mesi di processo (settembre-dicembre 2020) ha dimostrato il suo «ruolo» nella preparazione degli attacchi, prima che riparasse in Siria in anticipo rispetto alla devastante entrata in azione in Francia dei terroristi. Ieri è stato il guardasigilli Éric Dupond-Moretti a rincarare la dose: «Se i terroristi del Bataclan fossero fuggiti da quarant'anni in Italia, cosa avremmo detto? Lo avremmo accettato?». Lo domanda al leader dell'estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon, tacciato di «vecchio gauchismo con una morale curiosa», ché difende ancora la dottrina Mitterrand. E, con essa, i cavilli con cui Irène Tirrel, legale di sei ex terroristi italiani riparati Oltralpe, punta a scongiurare l'estradizione: «Sono già in libertà, abbiamo molti argomenti e li useremo tutti». L'analogia tra jihadisti e protagonisti degli anni di piombo è però inedita (e forse provvidenziale). Inquadra in una nuova luce la fuga nell'Esagono di ex brigatisti (e non solo) condannati per «crimini di sangue». E la mutata sensibilità «politica» transalpina può avere un peso per le toghe, nel leggere (o rileggere) le carte tradotte da Roma. I super-avvocati delle 9 «ombre rosse» sembrano intenzionati a giocare sporco. Per scongiurare l'estradizione, ora annettono «motivazioni giuridiche e non politiche»: per esempio per l'ex colonna milanese delle Br Sergio Tornaghi, 63 anni, già comparso due volte alla Camera dell'Istruzione di Parigi che all'epoca rigettò la sua estradizione, che dovrebbe scontare l'ergastolo per l'omicidio del manager Renato Briano; o su Narciso Manenti, 64 anni, anche lui arrestato mercoledì, sul cui dossier la Francia aveva espresso dubbi sulle prove testimoniali. Nonostante sia stato condannato all'ergastolo nel 1986 per l'omicidio del carabiniere Giuseppe Gurrieri a Bergamo il 13 marzo 1979, Manenti non ha scontato un giorno di carcere, protetto dalla «dottrina» (di cui non c'è traccia nei codici) e dalla valutazione francese, il cui ordinamento in passato non ha riconosciuto l'istituto della contumacia. Macron ha messo le cose in chiaro: il «contesto cambiato» obbliga Parigi ad agire affinché le decisioni dei tribunali «vengano eseguite». L'Eliseo si è schierato con le richieste di Mario Draghi e Marta Cartabia. E anche sul latitante 63enne Maurizio Di Marzio - l'ultimo delle diedci «Ombre» a mancare all'appello - si lavora a una soluzione. Se non si acciuffa entro il 10 maggio, quando scatterà la prescrizione, si punta a dare «valore sospensivo» al mandato d'arresto emesso il 28 aprile. Dichiarare il fuggitivo «delinquente abituale», si presterebbe a obiezioni. E ce ne sono già troppe sul piatto.

La scure sui terroristi rossi: presi sette ex Br. Gabriele Laganà il I fermati, ex Br, sono stati condannati in Italia per atti di terrorismo commessi negli anni '70 e '80. Maxi-operazione operazione antiterrorismo in Francia. Su richiesta dell'Italia sono stati fermati sette ex membri delle Brigate Rosse italiane, condannati nel nostro Paese per atti di terrorismo commessi negli anni '70 e '80, che risiedono nel Paese transalpino. Altre tre persone, invece, sono ancora ricercate. Queste ultime, secondo le prime informazioni, si sarebbero dati alla fuga poco prima di essere individuati e fermati. Lo ha riferito l'Eliseo, secondo quanto riporta Le Figaro. La decisione di trasmettere alla giustizia i dieci nomi, sulle 200 persone che l'Italia da anni reclama dalla Francia, è stata presa dal presidente Emmanuel Macron e, come hanno spiegato ancora fonti dell’Eliseo, "si inserisce rigorosamente" nella dottrina francese di concedere asilo agli ex brigatisti ad eccezione che per i reati di sangue. Gli ex terroristi italiani arrestati nell'ambito dell'operazione “Ombre rosse”, sono Giovanni Alimonti, ex Br che deve scontare una pena di 11 anni, 6 masi e 9 giorni; Enzo Calvitti, ex Br condannato a 18 anni, 7 mesi e 25 giorni; Roberta Cappelli, ex Br condannata all'ergastolo; Marina Petrella, ex Br condannata all'ergastolo; Giorgio Pietrostefani, ex Lotta Continua che deve scontare 14 anni, 2 mesi e 11 giorni; Sergio Tornaghi, ex Br condannato all'ergastolo; Narciso Manenti, ex Nuclei Armati Contropotere Territoriale condannato all'ergastolo. Il blitz, ancora in corso, è il frutto della collaborazione tra le polizie dei due Paesi ed è stata condotta dall'Antiterrorismo italiano in collaborazione con l'antiterrorismo della polizia nazionale francese (lo Sdat), attraverso il Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia della Criminalpol (Scip), e l'Esperto per la sicurezza della polizia italiana a Parigi. "La Francia, essa stessa colpita dal terrorismo, comprende l'assoluta necessità di giustizia per le vittime". Con queste parole l'Eliseo ha spiegato la decisione di fermare e trasmettere alla giustizia alcuni ex brigatisti rossi rifugiatisi in Francia dopo gli anni di piombo. Il presidente Macron "ha voluto risolvere la questione come l'Italia chiede da anni", si legge ancora nella nota diffusa dall'Eliseo.

Altri tre sarebbero in fuga. Chi sono i brigatisti arrestati in Francia: anche Pietrostefani e Petrella nell’operazione “Ombre Rosse”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Sette arresti, tre i ricercati. È scattata in Francia un’operazione contro ex terroristi di sinistra, considerati colpevoli di atti duranti gli Anni di Piombo, tra gli anni ’70 e ’80. Appartenenti alle Brigate Rosse, agli ex Nuclei Armati Contropotere Territoriale e Lotta Continua. Non un colpo di scena: della questione ne aveva parlato poche settimane fa la ministra della Giustizia Marta Cartabia con il suo omologo francese. Il dossier aperto in Francia era stato chiamato “Ombre Rosse”, come il titolo – tradotto in italiano – di un celebre film western del 1939 diretto da John Ford. Operazione che arriva a venti giorni dall’incontro in videoconferenza della ministra della Giustizia Marta Cartabia con il suo omologo francese Eric Dupond-Moretti. La Guardasigilli aveva sollecitato il collega affinché “gli autori degli attentati delle Brigate Rosse possano essere assicurati alla Giustizia”. Gli ex terroristi arrestati sono Giovanni Alimonti, Enzo Calvitti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Giorgio Petrostefani, Narciso Manenti. Quattro di questi condannati all’ergastolo. A dare la notizia il quotidiano francese Le Figaro che cita l’Eliseo. Altri tre ex terroristi sarebbero in fuga e tuttora ricercati. I tre sarebbero Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura, ma la notizia non è stata ancora confermata. Il blitz, avvenuto stamane, frutto della collaborazione tra le due polizie, il Servizio di cooperazione internazionale di polizia (Scip) della Criminalpol e l’Esperto per la sicurezza della polizia italiana in Francia. Più nello specifico, il profilo degli arrestati: Giovanni Alimonti appartenente alle Brigate Rosse, deve scontare una pena di 11 anni, 6 mesi e 9 giorni più 4 anni di libertà vigilata, condannato per il tentato omicidio del vice dirigente della Digos di Roma Nicola Simone; Enzo Calvitti, Brigate Rosse, 18 anni, 7 mesi e 25 giorni e 4 anni di libertà vigilata; Roberta CappelliMarina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti appartenenti alle Brigate Rosse, ergastolo; Giorgio Pietrostefani, Lotta Continua, deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni per l’omicidio del commissario Calabresi; Narciso Manenti, Nuclei Armati Contropotere Territoriale, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’appuntato dei Carabinieri Giuseppe Gurrieri e per ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi, associazione sovversiva. Cappelli è condannata per gli omicidi del generale Galvaligi, dell’agente di polizia Michele Granato, del vice questore Sebastiano Vinci e dei ferimenti di Domenico Gallucci e di Nicola Simone. Petrella è condannata per l’omicidio del generale Galvaligi, il sequestro del giudice D’Urso, l’attentato a Nicola Simone, il sequestro dell’Assessore Ciro Cirillo. Tra i reati contestati a Tornaghi l’omicidio del direttore generale della Ercole Marelli. La Repubblica Francese si sarebbe mossa sulla scia della dottrina Mitterand e quindi la lista dei 10 nomi, frutto di collaborazione bilaterale, accorda “l’asilo agli ex brigatisti, eccetto ai responsabili di reati di sangue”. Al colloquio di una ventina di giorni fa tra Cartabia e Dupond-Moretti sarebbe seguito quello tra il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e il Presidente francese Emmanuel Macron. Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(ANSA il 28 aprile 2021) - I brigatisti arrestati in Francia questa mattina sono in attesa di essere presentati al giudice per la comunicazione della richiesta di estradizione da parte dell'Italia. Secondo quanto apprende l'ANSA da fonti investigative francesi, si tratta di Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse; di Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e di Narciso Manenti dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale.  Sono Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura gli ex br in fuga dopo l'operazione della polizia francese scattata questa mattina. Lo apprende l'ANSA.

(ANSA il 28 aprile 2021) - La decisione di procedere all'operazione che ha portato all'arresto di 7 ex brigatisti italiani (altri 3 sono ricercati) è stata presa direttamente dal presidente francese Emmanuel Macron, secondo quanto riferito dall'Eliseo. La presidenza sottolinea che Macron ha deciso di "trasmettere alla Procura i 10 nomi sulla base di domande italiane che riguardavano in origine 200 persone.

 (ANSA il 28 aprile 2021) – “Ombre rosse”: così è stato chiamato dalle autorità francesi e italiane il dossier riguardante gli ex terroristi italiani arrestati questa mattina in Francia. Dei 7 fermati, quattro hanno una condanna all'ergastolo: Roberta Capelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi - tutti e tre ex appartenenti alle Brigate Rosse - e Narciso Manenti, dei nuclei armati contropotere territoriale. Per Giovanni Alimonti ed Enzo Calvitti, anche loro delle Br, la pena da scontare è rispettivamente 11 anni, 6 mesi e 9 giorni e 18 anni, 7 mesi e 25 giorni. Giorgio Pietrostefani, ex di Lotta Continua, deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni.  Sono stati arrestati tutti a Parigi i sette ex brigatisti fermati dalle autorità francesi su richiesta dell'Italia. L'operazione, secondo quanto si apprende da fonti italiane, è stata condotta dall'Antiterrorismo della polizia nazionale francese (Sdat) in collaborazione con il Servizio di cooperazione internazionale della Criminalpol e con l'Antiterrorismo della Polizia italiana e con l'esperto per la sicurezza della polizia italiana nella capitale francese.

Da huffingtonpost.it il 28 aprile 2021. Sette ex membri delle Brigate Rosse, accusati in Italia di atti di terrorismo commessi negli anni ’70 e ’80, sono stati arrestati questa mattina in Francia, su richiesta dell’Italia. Altri tre sono ricercati. Lo ha riferito l’Eliseo, secondo quanto riporta Le Figaro. Secondo quanto apprende l’Ansa da fonti investigative francesi, si tratta di Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse; di Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e di Narciso Manenti dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale.  L’operazione, secondo quanto si apprende da fonti italiane, è stata condotta dall’Antiterrorismo della polizia nazionale francese (Sdat) in collaborazione con il Servizio di cooperazione internazionale della Criminalpol e con l’Antiterrorismo della Polizia italiana e con l’esperto per la sicurezza della polizia italiana nella capitale francese. I brigatisti arrestati in Francia questa mattina sono in attesa di essere presentati al giudice per la comunicazione della richiesta di estradizione da parte dell’Italia. L’operazione, riporta l’Ansa, era stata preparata da diversi giorni ed è stata realizzata in cooperazione dagli ufficiali di collegamento della polizia italiana a Parigi, che hanno operato in stretto contatto con la direzione antiterrorismo francese.

L'operazione "Ombre Rosse". Chi sono i tre ex terroristi rossi in fuga e ricercati: Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura. Vito Califano su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Fine della dottrina Mitterand, si è scritto, con l’arresto in Francia di sette ex terroristi di sinistra per i quali l’Italia aveva chiesto l’estradizione. Altri tre sono ancora in fuga. Gli arrestati: Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, delle Brigate Rosse, Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e Narciso Manenti dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale. Un’operazione condotta dall’Antiterrorismo della polizia nazionale francese (Sdat) con il Servizio di cooperazione internazionale della Criminalpol e con l’Antiterrorismo della Polizia italiana e con l’esperto per la sicurezza della polizia italiana nella capitale francese. Una questione che si è sbloccata a inizio aprile con il colloquio tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e l’omologo francese Eric Dupond-Moretti. Per tutti gli arrestati si ferma il corso della prescrizione. L’operazione chiamata “Ombre Rosse”. Dei 7 fermati, quattro hanno una condanna all’ergastolo: Capelli, Petrella, Tornaghi e Manenti. Per Alimonti e Calvitti, la pena da scontare è rispettivamente 11 anni, 6 mesi e 9 giorni e 18 anni, 7 mesi e 25 giorni. Pietrostefani deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni. La nota del Presidente del Consiglio Mario Draghi: “Il governo esprime soddisfazione per la decisione della Francia di avviare le procedure giudiziarie, richieste da parte italiana, nei confronti dei responsabili di gravissimi crimini di terrorismo, che hanno lasciato una ferita ancora aperta. La memoria di quegli atti barbarici è viva nella coscienza degli italiani. A nome mio e del governo, rinnovo la partecipazione al dolore dei familiari nel ricordo commosso del sacrificio delle vittime”. I tre in fuga e ancora ricercati sono Luigi BergaminMaurizio Di Marzio e Raffaele Ventura. Bergamin è tra gli ideologi dei Pac, il gruppo armato del quale ha fatto parte anche Cesare Battisti, arrestato in Bolivia. Bergamin è stato condannato per due omicidi, tra cui quello del macellaio Lino Sabbadin. Di Marzio è un ex brigatista e partecipò al tentativo di sequestro del poliziotto Nicola Simone. Per lui il 10 maggio scatta la prescrizione. Raffaele Ventura è stato condannato insieme ad altri 8 per l’omicidio del vice brigadiere Antonino Custra il 14 maggio del 1977 a Milano, durante una manifestazione indetta dalla sinistra extraparlamentare.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Ex terroristi arrestati: una generazione di fuggitivi, tra mito dell'esilio e necessità di evitare il carcere. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 28 aprile 2021. Il retropensiero di continuare una lotta, specie quella armata, in verità poi continuava assai poco, anzi per niente; e comunque pochissimo si poteva fare dall'estero a sostegno dei compagni e dei camerati che stavano dentro o che tutti i giorni rischiavano la pelle fuori. Macellai, visionari, tonti, canaglie, avventurieri, romantici, fresconi... Non c'è generazione che non accolga in sé per risputare fuori dai confini i suoi fuggitivi. Questa affermatasi in Italia negli anni di piombo - i Settanta, grosso modo, con coda bifida e prolungata nel decennio seguente - concepiva l'idea della fuga all'insegna di un'ambiguità tutta nazionale: da un lato inseguendo il mito in parte anche melodrammatico dell'esilio, dal Risorgimento all'emigrazione degli antifascisti negli anni '20 e '30, almeno per quelli di sinistra; dall'altro lasciandosi guidare dalla necessità, pure comprensibile anche se assai meno eroica, di non rovinarsi la vita in carcere, una sorta di diserzione necessitata, magari offerta e giustificata anche a se stessi con il retropensiero che...    

I “bolliti della P38”. Quei latitanti ridotti a fantasmi tra bistrot e librerie. Francesco Merlo su La Repubblica il 29 aprile 2021. Avevano già fatto la fine anonima del “marziano a Roma”, ma a Parigi. Erano “i bolliti della P38”, detriti depositati dal fiume di una storia italiana che forse è persino più vecchia di loro. Eppure avevano aspettato per più di tre decenni la fase suprema del capitalismo nei bistrot di Saint Michel, al vecchio Passepartout e al Baraonda. E c’è stato un tempo non lontano in cui tastavano il polso alla società digitale nel...

Giustizia, non vendetta. Benedetta Tobagi su La Repubblica il 29 aprile 2021. Sette ex terroristi rossi arrestati, finalmente, decenni dopo i gravi delitti per cui sono stati condannati in via definitiva, e altri tre sono in fuga. Le foto segnaletiche vintage che riempiono i principali siti d'informazione sembrano davvero fantasmi del passato e suscitano domande scomode: che significato hanno questi arresti tardivi, dopo così tanto tempo, dopo che gli interessati hanno smesso da lungo tempo di delinquere? È davvero giustizia o una tardiva vendetta co...

Le Ombre Rosse di Parigi. In sette catturati all’alba. Carlo Bonini su La Repubblica il 28 aprile 2021. La Francia arresta gli ex terroristi italiani condannati in via definitiva per fatti di sangue negli anni di piombo. Tra loro Giorgio Pietrostefani, responsabile dell’omicidio di Luigi Calabresi. Tre ricercati in fuga. Il Novecento di piombo italiano e la sua pagina strappata, il sangue dei morti e la memoria e il diritto dei vivi, si ricompongono alle 6 del mattino di un’alba parigina dal cielo grigio e compatto. Con un’operazione di polizia per la quale è stato scelto un nome – “Ombre Rosse” – che non è un omaggio all’epica western di John Ford, alla diligenza da Tonto a Lordsburg, agli Apache di Geronimo. Ma alle sette Ombre – cinque uomini e ...

Terrorismo, ecco chi sono i sette italiani arrestati in Francia: tra loro anche brigatisti rossi. Conchita Sannino su La Repubblica il 28 aprile 2021. Si tratta di Giovanni Alimonti; Enzo Calvitti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani, Sergio Tornaghi e Narciso Manenti. Sette su dodici. Più della metà dei profili individuati dal dossier italo-francese finiscono - dopo decenni - nella rete della giustizia italiana. I due ministri lo avevano ribadito poche settimane fa: "È venuta l'ora".  E l'impegno di Marta Cartabia, dal Palazzo di via Arenula, e dell'omologo Éric Dupond-Moretti dagli uffici di place Vendôme, si è concretizzato nel blitz Ombre Rosse, messo a segno dalla polizia francese del servizio antiterrorismo Sdatgrazie al lavoro di cooperazione dello Scip italiano, l'organismo interforze guidato dal generale dell'Arma Giuseppe Spina, sotto la Direzione centrale della polizia criminale coordinata dal prefetto Vittorio Rizzi.

"Riconoscere il trauma degli Anni di Piombo". Una svolta che Macron preparava da tempo, l'accelerazione con l'arrivo di Draghi.  Anais Ginori su La Repubblica il 29 aprile 2021. La questione è stata sollevata anche a margine di una telefonata tra i due leader. L'Eliseo: "Così rafforziamo l'identità comune europea". E' una svolta che si preparava da tempo all'Eliseo ma l'accelerazione è stata data con l'arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Il premier ha infatti chiamato Emmanuel Macron mercoledì scorso per affrontare una serie di questioni. A margine della telefonata i due leader hanno discusso anche delle richieste di estradizioni degli italiani condannati per reati di terrorismo e latitanti in Francia da decenni.

Terrorismo, dall'omicidio di Guido Rossa all'agguato a Della Rocca: è ancora caccia al brigatista Lorenzo Carpi. Massimo Razzi su La Repubblica il 28 aprile 2021. Condannato a due ergastoli, da tempo ha fatto perdere le sue tracce. Fu l'autista delle azioni più tragiche della colonna genovese tra il 1978 e il 1980. Tutte le volte che si parla dei Br in fuga, nella lista c’è il nome di Lorenzo Carpi, genovese, oggi sessantottenne, due ergastoli per omicidio, autista in quasi tutte le azioni più tragiche compiute dalla colonna genovese tra il 1978 e il 1980. C’è il suo nome, con pochissime note e nessuna idea di dove si trovi (sempre che sia ancora vivo) e sono 41 anni che non se ne sa più nulla.

Fine di una ideologia ignorante e romantica. Stefano Zurlo il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Forse, un peso determinante l'hanno avuto le confessioni di Cesare Battisti. Quando l'hanno finalmente acciuffato, dopo una fuga rocambolesca e interminabile in mezzo mondo, l'ex terrorista dei Pac ha confessato i suoi crimini. Forse, un peso determinante l'hanno avuto le confessioni di Cesare Battisti. Quando l'hanno finalmente acciuffato, dopo una fuga rocambolesca e interminabile in mezzo mondo, l'ex terrorista dei Pac ha confessato i suoi crimini: non era una vittima della polizia canaglia tricolore, ma un soldato in guerra contro lo Stato. Uno che aveva sparato e ucciso. Game over. Altro che scrittore perseguitato a Milano e coccolato a Parigi da un chilometrico parterre de roi di scrittori, giornalisti, politici, intellettuali. Tutti accecati dal pregiudizio e dalla propria abbagliante ignoranza, spacciata per alta accademia. Tutti pronti a idealizzare quella catena orrenda di delitti, agguati e aggressioni in una lotta coraggiosa contro le ingiustizie, le storture, le disuguaglianze della nostra società. Tutti, soprattutto, lontanissimi dal riconoscere quel che era accaduto, e ostinati nel costruire una bolla dentro cui ambientare la favola del terrorismo tricolore che l'Italia avrebbe combattuto e vinto con leggi speciali, torture e metodi sudamericani, sacrificando i diritti e le garanzie alla più sporca delle guerre. Sappiamo che non è andata così: che i processi si sono fatti con i sacri crismi e anzi c'era il terrore di finire nelle giurie popolari delle corti d'assise, esponendosi a ritorsioni e rappresaglie. Sappiamo che l'eversione è stata sconfitta nel rispetto delle regole democratiche. Sappiamo anche che in Francia un paio di generazioni di pistoleri sciagurati sono state protette e quasi idealizzate oltre ogni vergogna. C'era quell'alone di romanticismo - come l'ha chiamato Marc Lazar in un'intervista a Repubblica - che tutto tollerava e capovolgeva, in un susseguirsi di bugie e travisamenti senza fine. La patria dell'Illuminismo e dei diritti umani leggeva con gli occhiali dell'ideologia e dell'orgoglio pagine di storia intrise di dolore, di sofferenza, di umiliazioni. C'era la dottrina Mitterrand, formulata con la giusta ambiguità negli anni Ottanta dall'Eliseo: «Diamo asilo, salvo a chi ha commesso fatti di sangue». Frase detta nella sua coda in modo intermittente e mai diventata realtà. Quelle foto in bianco e nero dei duecento e passa ricercati sono invecchiate con noi, in un eterno girotondo, fra memoria e impotenza. Si sono persi decenni e molta credibilità perché quel che qua appariva persino banale nella sua semplicità, di là assumeva, fra le menti raffinate della gauche e non solo, altri significati: come se l'Italia dovesse farsi perdonare un qualche peccato originale e fosse fuori discussione il no ad ogni estradizione. I muri dell'Europa sono caduti uno a uno, ma quello che correva sulle Alpi ha resistito alla dialettica fra destra e sinistra e pure al tarlo del tempo. Ci sono state mezze svolte, annunciate e puntualmente naufragate, ma nulla è cambiato per anni e anni, con la grancassa dell'indignazione sempre veloce nel far sentire ogni volta la stessa colonna sonora e nel seguire lo spartito della nostalgia e della controdenuncia di chissà quali anomalie e forzature del nostro sistema. C'era stata, eccezione solitaria, l'estradizione di Paolo Persichetti, l'unico ad essere rispedito nel nostro Paese. Ci voleva un Macron, lontano dagli schemi della vecchia Francia, per rompere quel meccanismo. Forse hanno contato i nuovi equilibri e speriamo i nuovi valori dell'Europa, l'asse Roma-Parigi, con l'avvento di Draghi e il declino, almeno temporaneo, di Berlino. Finalmente Parigi abbandona quel nucleo di leggende e voci, quell'epopea di cartapesta alimentata dai profeti della cultura e dalla superbia dei suoi leader. Nelle scorse settimane l'ex presidente brasiliano Lula aveva chiesto scusa, per aver concesso la grazia l'ultimo giorno del suo mandato proprio a Battisti, promosso sul campo - equivoco doloroso e inammissibile - rifugiato politico. Come solo qualche giorno fa Le Monde aveva battezzato, con una spolverata di romanticismo fuori tempo massimo, «esuli politici» quella pattuglia di latitanti. A Parigi hanno agito nel segno della concretezza: via gli scudi che tutelavano i vecchi compagni che hanno sbagliato, e invece le manette ai polsi di quelle foto ingiallite. Parigi apre gli occhi, l'Italia invece prova a chiudere i conti con il suo passato. Stefano Zurlo

Carnefici senza scuse. Anzi, fanno le vittime. Alessandro Gnocchi il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Il mondo intellettuale dovrebbe riconoscere la sua "ignoranza e arroganza". Invece "non c'è ombra di autocritica per il sostegno offerto ai terroristi giunti in Francia". Il mondo intellettuale dovrebbe riconoscere la sua «ignoranza e arroganza». Invece «non c'è ombra di autocritica per il sostegno offerto ai terroristi giunti in Francia». Gli intellettuali non hanno imparato niente dalla vicenda di Cesare Battisti. Lo hanno considerato un perseguitato dalla giustizia italiana. Dopo la resa, però, Battisti ha confessato quattro omicidi... Così Marcelle Padovani, giornalista, saggista, corrispondente de Le Nouvel Observateur ha commentato con l'agenzia Adnkronos la notizia dell'arresto dei sette terroristi italiani latitanti in Francia (altri tre sono in fuga). La retata fa cadere i teoremi, a dire il vero deboli, degli intellettuali di sinistra: gli «esuli» non sono terroristi ma militanti di una guerra civile, il metodo dei giudici era discutibile, ogni conflitto ha i suoi caduti, ci vorrebbe un'amnistia generale. La Francia di Macron ha cambiato idea: sono assassini. Scrittori, artisti e commedianti francesi dovrebbero ammettere di aver sbagliato. Dovrebbero ammetterlo anche scrittori, artisti e commedianti di casa nostra, da cinquant'anni dalla parte sbagliata. Non accadrà. I nostri «pensatori» sono sempre pronti a rispolverare il lessico da corteo anni Sessanta. Soprattutto i più abili nel barattare la rivoluzione con una posizione nella società. Gli integratissimi ribelli, quando si guardano allo specchio, vedono forse un volto segnato dal senso di colpa per aver tradito la causa e dal sospetto della propria mediocrità. Credono di rifarsi una verginità sostenendo tesi tanto radicali quanto insensate. L'intellettuale impugna un'arma nota a tutti: il manifesto accompagnato da firme eccellenti. Prendiamo proprio il caso di Cesare Battisti. Nel febbraio 2004, parte l'appello della rivista online Carmilla, fondata da Valerio Evangelisti con Giuseppe Genna e Wu Ming 1. L'arresto di Cesare Battisti è definito «uno scandalo giuridico e umano» e si chiede la liberazione. In una settimana firmano in 1500. Ricordiamo Pino Cacucci, Tiziano Scarpa, Massimo Carlotto, Nanni Balestrini, Giorgio Agamben, Antonio Moresco, Marco Mueller (pentito) e uno sconosciuto Roberto Saviano, che prima aderisce e, anni dopo, già famoso, ritira la firma. Poi Battisti confessa. Nessuno dei firmatari trova qualcosa di intelligente da dire. Riparte la litania della guerra civile nonostante Battisti sia più simile a uno spietato borseggiatore che a un eroico partigiano. Caso Calabresi. Il padre di tutti gli appelli. Questo è il peccato originale, quello che retrocede il mondo della cultura ufficiale e dei grandi media ad acefala appendice della peggiore politica, sconfinante nell'eversione. Lotta continua lancia una campagna contro il commissario Luigi Calabresi che ha condotto gli interrogatori dell'anarchico Pinelli, accusato di conoscere i fatti inerenti alla bomba di Piazza Fontana, a Milano. Pinelli vola dalla finestra della questura e muore tragicamente. Calabresi, in quel momento, è fuori dalla stanza ma è indicato quale colpevole da tutti gli estremisti d'Italia. Nel maggio 1972, un commando di Lotta continua uccide il commissario, sparandogli alle spalle. Calabresi si era trovato isolato dopo la lettera aperta dell'Espresso in cui era definito «torturatore». Chi aveva firmato? Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Alberto Moravia, Toni Negri, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Bocca, Furio Colombo e può bastare, anche se le firme sarebbero 757. Eugenio Scalfari ha chiesto scusa nel 2007. Non aveva fretta. Poi c'è la storia, brutta, triste, delle Brigate rosse. Negli anni di piombo fu asserito dalle migliori (ehm) menti del Paese che i terroristi rossi fossero estranei alle logiche del Partito comunista, fino a quando non fu accertato l'esatto contrario. Come se non bastasse, saltò fuori anche che tra certa borghesia meneghina e radicalismo di sinistra non c'era soluzione di continuità. Gli intellettuali chiederanno scusa? No. Neppure capiranno. Nella loro logica allucinata, la richiesta di giustizia coincide con la vendetta dello Stato. Le vittime sono loro, i carnefici. Basta leggere la dichiarazione dello scrittore napoletano Erri De Luca, ex servizio d'ordine di Lotta continua: «L'unico mio commento è la strofa di una canzone di De André: Cos'altro vi serve da queste vite?». No, non si riferisce alle esistenze spezzate dei morti ma a quelle degli assassini costretti alla fuga in Francia. Adriano Sofri, mandante dell'omicidio Calabresi assieme a Giorgio Pietrostefani, imprigionato ieri, ribadisce con candore il concetto: «Che ve ne fate di questi ex terroristi?». E il terrorismo che cosa se ne sarà fatto delle vite strappate a innocenti durante una guerra immaginaria? Oreste Scalzone osa addirittura parlare di «assassinio dell'anima» dei poveri arrestati. A loro, l'assassinio dell'anima, dopo cinquant'anni di protezione. Alle loro vittime, l'assassinio e basta.

Ma mancano ancora troppe verità (e nomi). Paolo Guzzanti il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Sarà davvero concluso il capitolo degli anni di piombo con la riconsegna di sette ex brigatisti riacciuffati a Parigi dove vivevano protetti e ora invecchiati ma sempre sporchi di sangue? Sarà davvero concluso il capitolo degli anni di piombo con la riconsegna di sette ex brigatisti riacciuffati a Parigi dove vivevano protetti e ora invecchiati ma sempre sporchi di sangue? Sono sette quelli catturati ieri mattina e messi a disposizione dell'Italia, ma ce ne sono altri tre che hanno subodorato il cambio di linea del governo francese e se la sono data a gambe. Il fatto è di per sé enorme, perché la Francia aveva applicato fino a ieri, all'Italia, un trattamento colonialista: voi italiani siete selvaggi incapaci di rispettare i diritti dell'uomo e noi proteggiamo i vostri fuggiaschi che si rifugiano da noi. La storia dell'ospitalità francese per criminali e politici è antica quanto la Francia rivoluzionaria, che cominciò a dare asilo ai dannati della terra e seguitò a farlo anche per rimpinguare le file dei reggimenti svuotati dalle guerre e della Legione Straniera che è stata un suo braccio armato molto utile a basso costo, fatto di coscritti autorizzati a dimenticare il proprio nome e seppellire il passato. Oggi la Francia sta affrontando una sollevazione di militari che operano per lo più nell'Africa Occidentale francofona dove Parigi seguita a mantenere un esercito e amministrare un impero con fruttuosi ricavati, ma resta impelagata in guerriglie islamiche con jihadisti che costringono il suo personale in primissima linea, come sa chi ha seguito la fortunata serie Le Bureau. Per noi italiani i problemi francesi sono meno importanti e ci chiediamo chi siano oggi questi vecchi eversori per lo più assassini, riacciuffati a trenta o anche a quaranta anni dai fatti, invecchiati, talvolta malati e in varia misura disperati. Ieri mattina sono stati presi all'alba Giorgio Pietrostefani, Marina Petrella, Enzo Calvitti, Roberta Cappelli, Giovanni Alimonti, Narciso Manenti e Sergio Tornaghi, tutte persone che hanno ricevuto condanne definitive per aver sparato, ferito, ucciso e anche per aver partecipato a sequestri di persona negli anni Settanta e Ottanta. La domanda che tutti ci facciamo è: che tipo di persone saranno questi vecchi relitti strappati alla dolce latitanza francese? Alcuni di loro si proclamano irriducibili, altri no, ma più che altro non è chiaro perché la notizia non viene neppure discussa nei rapporti governativi, se costoro sono disposti a ripagare la società che hanno ferito e gli esseri umani cui hanno tolto la vita, fornendo qualche pezzo in più delle verità che si sono portati nella loro memoria blindata. Chi fra questa gente è implicato nel rapimento di Aldo Moro potrebbe finalmente parlare, ma sappiamo anche che una tale speranza è remota. Sarebbe tuttavia una notizia buona un impegno dei magistrati italiani per avere nuove e importanti informazioni da queste persone e il loro passato, facendo loro osservare che averla fatta franca non è un titolo di merito e che anzi il loro debito è cresciuto. Le vittime, le loro famiglie, senza esultare sono comunque soddisfatte: la giustizia è lenta, ma alla fine porta a casa il risultato. Ieri Le Monde avvertiva i propri scettici lettori che per decenni si erano sentiti i protettori dei latitanti italiani in Francia come se fossero stati delle vittime e non dei carnefici del fatto che Macron aveva cambiato idea e più che altro aveva cambiato la linea inaugurata dal presidente Mitterrand, secondo cui la Francia avrebbe ospitato tutti i fuggiaschi a condizione che non avessero ucciso o ferito nessuno. Poiché il gruppo di dieci ex terroristi è fatto solo di persone che hanno colpito, ucciso o ferito, la radio francese e i telegiornali ieri si sono molto preoccupati di rassicurare i francesi sul fatto che la linea guida del vecchio presidente socialista che dava asilo anche agli assassini italiani, era stata rispettata. E, ha detto pubblicamente il presidente Macron contraddicendosi, abbiamo così concesso all'Italia ciò che ci chiedeva da molti anni. La contraddizione sta nel fatto che se era già stabilito secondo la linea Mitterrand che assassini e feritori non avrebbero dovuto avere diritto d'asilo, allora perché gli era stato concesso, respingendo in maniera piuttosto oltraggiosa le ripetute domande della giustizia italiana? Il fatto è, sembra di capire, che l'Italia di Draghi non è più l'Italia dei leader non rispettati in Europa e che dunque si doveva finalmente concedere ciò che si sarebbe dovuto dare subito. Il caso più clamoroso - lo ricordiamo - è stato quello di Cesare Battisti, che ha vissuto come un esule famoso e riverito, coccolato dall'Eliseo e presentato come una vittima della repressione italiana e poi fuggito in Brasile dal presidente Lula che adesso ammette, anche lui, di avere sbagliato. Qui sbagliano tutti, sono tutti compagni che sbagliano, presidenti che sbagliano. Sarebbe dunque questo il momento di far vedere dietro e oltre questo evento positivo una volontà politica coincidente con gli interessi della giustizia: la magistratura ha dei cittadini latitanti che devono scontare una condanna e può ancora far molto per conquistare pezzi di verità. E forse sarebbe auspicabile una iniziativa di giustizia che rendesse in qualche modo vantaggioso per questi vecchi terroristi riacciuffati all'alba dopo una latitanza dorata, finalmente parlare e raccontare ciò che sanno.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 29 aprile 2021. Marina Petrella, arrestata a Parigi, non è una terrorista qualsiasi, non è uno dei tanti. Gli inquirenti si imbattono nell’esistenza della Petrella, nome di battaglia “Virginia”, ai vertici della colonna romana delle Brigate Rosse, guidata da Barbara Balzerani, a motivo di alcuni documenti rinvenuti nel famosissimo covo di Via Gradoli, che fu la cabina di regia del sequestro di Aldo Moro. Covo frequentato (secondo i brigatisti) solo dalla Balzerani e da Mario Moretti, il capo storico delle Br, ma che negli ultimi anni, si è scoperto, è stato il teatro di altre presenze. Le impronte digitali trovate dalla Polizia scientifica negli ultimi 5 anni, hanno accertato che quell’appartamento era frequentato da altri uomini e donne. Soprattutto si è scoperto che uno stock di moduli in bianco di carte di identità italiane originali (non contraffatte) sono state riempite con le generalità di ignari cittadini italiani realmente esistenti, per dare una copertura a terroristi anche stranieri. Come Elisabeth von Dyck, membro della Rote Armee Fracktion (le BR tedesche, sospettate di aver dato un sostanziale apporto “militare” in Via Fani) ) e un altro “compagno” tedesco Rolf Heibler. Anche nel loro caso, inoltre, gli italiani cui era stata rubata l’identità, lavoravano presso la scuola media “Bruno Buozzi” sulla Cassia (dalle parti di via Gradoli) dove la Petrella era impiegata come segretaria. Carte d’identità dello stesso stock furono trovate anche a casa di Giuliana Conforto, quando lì vennero arrestati Valerio Morucci e Adriana Faranda e sequestrata una delle due armi che uccisero Moro, la mitraglietta Skorpion. Marina Petrella, è responsabile, in base alle condanne ormai definitive, oltre che del sequestro del giudice Giovanni D’Urso, (12 dicembre del 1980), e dell’assessore regionale della Dc Ciro Cirillo, (27 aprile del 1981) anche dell’omicidio del generale dei Carabinieri Enrico Galvaligi (31 dicembre 1980), per cui è stata condannata anche Roberta Cappelli, un’altra delle arrestate in Francia. Galvaligi non era uno dei tanti generali dei Carabinieri, ma il braccio destro del generale Dalla Chiesa, numero due di SICURPENA, l’organismo del Ministero dell’Interno di controllo delle carceri, tra cui quelle di massima sicurezza, di Cuneo, Trani, Bad’e Carros. In base alla testimonianza raccolta, pochi mesi prima di morire, nei locali della questura di Torino, il 7 marzo 2016, dal maresciallo Angelo Incandela, all’epoca, comandante del carcere di massima sicurezza di Fossano (Cuneo), a Cuneo venne nascosto il 1 ottobre 1978 il Memoriale di Moro, ritrovato a via Montenevoso (Milano), che tra l’altro conteneva rivelazioni su una struttura (allora supersegreta della NATO (stay behind). Il generale Galvaligi fu la fonte di alcune rivelazioni sul Memoriale di Moro, scritte da Giorgio Battistini su “Repubblica”, e confermate dall’allora direttore e fondatore di “Repubblica” Eugenio Scalfari, in tribunale.

Caso Cirillo, la figlia dell'ex assessore Dc rapito 40 anni fa: "Ora la Br Petrella dica ciò che sa sul sequestro". Dario del Porto La Repubblica l'1 maggio 2021. Cirillo nel letto di casa dopo il rilascio nel luglio 1981: accanto a lui i figli Bernardo e Maria Rosaria. Intervista a "Repubblica" di Maria Rosaria Cirillo: "La terrorista racconti chi c'era davvero dietro il rapimento di mio padre e a chi andarono i soldi del riscatto. Anche noi vogliamo la verità sull'omicidio del capo della squadra mobile Antonio Ammaturo". Torre del Greco - Lo schizzo è disegnato a matita, raffigura un fantino a cavallo e due uomini a piedi. In basso c’è una dedica: «A Ciro Cirillo, per trent’anni avversario e amico cortese. Giugno 1980». Firmato, Maurizio Valenzi. «Questo era mio padre. Un uomo stimato e rispettato da tutti. Anche da chi politicamente era schierato dalla parte opposta come il primo sindaco comunista di Napoli».

Così Le Monde ha "nascosto" gli arresti degli ex br. Mariangela Garofano il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. In Francia, all'indomani dell'arresto dei sette brigatisti rifugiati nel paese d'Otralpe, il quotidiano Le Monde sembra voler nascondere la notizia, infilandola in un trafiletto in quarta pagina. Sette membri delle Brigate Rosse sono stati arrestati in Francia, il paese che gli aveva concesso asilo politico, grazie alla “dottrina Mitterrand”. L’ex presidente francese stabilì che tutti coloro che non si erano macchiati di delitti di sangue non dovessero essere estradati. La Francia diventò così refugium peccatorum di decine di terroristi nostrani. Ma il vento è cambiato e grazie ad una complessa operazione antiterrorismo, l’Eliseo ha annunciato la cattura il 28 aprile di Giovanni Alimonti, Enzo Calvitti, Marina Petrella, Roberta Cappelli, Giorgio Pietrostefani, Sergio Tornaghi e Narciso Manenti. I sette brigatisti sono accusati di aver preso parte ad atti di terrorismo negli anni 70 e 80, i cosiddetti Anni di Piombo. L’arresto dei fuggiaschi, che in Francia avevano trovato un porto franco in cui rifarsi una vita, è una grande vittoria per l’Italia e ancora prima, per i parenti delle loro vittime. Si, perché i signori sopracitati non sono esenti dall’aver commesso reati di sangue, ma hanno tutti partecipato direttamente ad omicidi, tentati omicidi e rapimenti, per i quali ora dovranno rispondere alla giustizia italiana, sebbene con un notevole ritardo. Assassini a sangue freddo, come Roberta Cappelli, responsabile dell’omicidio del generale dei carabinieri Enrico Calvaligi, dell'agente di polizia Michele Granato e del vice questore Sebastiano Vinci. O come Narciso Manenti, che uccise l’appuntato Giuseppe Gurrieri. Tutti i sette terroristi si sono macchiati di crimini di sangue in cui mogli, padri o fratelli hanno perso uno dei propri cari. Ma sul quotidiano francese Le Monde del 29 aprile, la vicenda appare come una notizia di serie B. Il giornale relega la cattura dei brigatisti italiani in un trafiletto in quarta pagina, come se non valesse uno spreco d’inchiostro, come a voler sminuire la gravità delle azioni commesse dai militanti di estrema sinistra. Il quotidiano francese, che da sempre strizza l’occhio a sinistra, si è limitato a inserire la notizia in uno specchietto che verrà letto da pochi attenti lettori. Il titolo scelto dai cronisti recita così: “Arresto in Francia di ex membri delle Brigate Rosse” e prosegue con un sintetico riassunto della cattura dei terroristi, senza spendere una parola per i crimini da loro commessi. La notizia non spicca nel mare di titoloni su Boris Johnson e la Turchia. La parola “Italie” sembra lillipuziana in confronto ai caratteri ben visibili delle altre notizie internazionali. La fastidiosa sensazione che si prova leggendo lo striminzito articolo è quella della cattura di ormai “ex brigatisti”, messi in galera per dei crimini appartenenti ad un’epoca passata, come se bastasse il prefisso “ex” a rendere i loro reati meno gravi. “Compagni che sbagliano”, la cui cattura non merita un posto d’onore tra le notizie, ma solo una menzione nascosta tra le pagine, quasi a sperare che venga ignorata.

Fausto Biloslavo per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2021. Un filo rosso lega le coperture francesi dagli anni di piombo a oggi fino a quando Parigi ha deciso di voltare pagina con l'arresto dei terroristi, che devono scontare la pena in Italia. Una rete di protezioni, soldi e un patto segreto per non fare emergere le verità ancora nascoste. «I latitanti italiani in Francia erano decine fin dagli anni settanta. Il filo rosso è il soccorso per i terroristi da allora a oggi, che ha avuto inizio con la scuola di lingue Hyperion a Parigi», spiega Giovanni Fasanella, autore di libri come Intrigo internazionale sul ruolo della Francia con l'ex magistrato Rosario Priore. Hyperion venne fondata nel 1977 dal trio Corrado Simioni, Duccio Berio e Vanni Mulinaris legati all' ala dura delle Brigate rosse. «Era una copertura del terrorismo internazionale. L'ho scritto nero su bianco in un rapporto al Sisde ancora secretato», rivela al Giornale uno degli uomini di punta dei nostri servizi segreti di allora. «I francesi sapevano tutto. E a Parigi c'era una banca utilizzata dal Kgb (l'intelligence sovietica, nda), che serviva a finanziare il terrorismo internazionale», sostiene la fonte. Alberto Franceschini, uno degli ex capi della lotta armata, nel libro scritto con Fasanella Cosa sono le Br rivela un dettaglio importante su Giorgio Pietrostefani, uno dei latitanti arrestato in Francia. Durante un incontro con lui, allora esponente di spicco di Lotta continua, si era schierato sulla linea più radicale, quella di Simioni fondatore di Hyperion con la protezione del famoso Abbè Pierre. Non è un caso che proprio Simioni sia stato decorato dal presidente francese Jacques Chirac «per i servizi resi alla Francia dal 1967», tre anni prima della fondazione delle Br. A Giovanni Senzani, altro brigatista di spicco, era stato sequestrato un documento che delineava la creazione di «una colonna estera» in Francia, che «avrebbe dovuto fungere da base di rifugio per latitanti, ricerca di armi, fondi e rifornimenti». Anche se la prima via di fuga era la Svizzera il magistrato Carlo Mastelloni, che si è occupato di 130 casi di terrorismo negli anni di piombo, ricorda che «si parlava di una colonna esterna, che curava l'espatrio clandestino e talvolta il proseguimento via Portogallo verso il Sud America». Nel 1981, quando le Br cominciano a cedere, arriva all' Eliseo Francois Mitterrand che «ci mette una pezza con la sua dottrina del garantire rifugio a chi rinuncia alla lotta armata, ma la Francia ospitava terroristi fin dagli anni settanta», fa notare Fasanella. I latitanti nel corso degli anni diventano 200 con casi eclatanti come quello di Cesare Battisti. Alla vecchia guardia di Hyperion si sostituisce una nuova rete della sinistra al caviale. Il filosofo Bernard-Henri Lévy, la scrittrice Fred Vargas, i «Verts» (ambientalisti), la Lega dei diritti umani e organizzazioni come France Libertés e Attac, che hanno difeso a spada tratta Battisti. I legali, che non costano poco, sono ultra schierati e pronti a dare battaglia. Irène Terrel rappresenta 6 dei 10 terroristi italiani e parla di un «tradimento indicibile da parte della Francia». Non solo si è fatta le ossa difendendo gruppi di estrema sinistra, ma era avvocato di Cesare Battisti e aveva fatto scarcerare Marina Petrella, una delle terroriste finite in manette. «La rete che continua ad appoggiare i cosiddetti fuoriusciti potrebbe scatenare assieme a qualche frangia italiana la battaglia contro la vendetta, che non sussiste, per evitare l'estradizione in Italia dei dieci di Parigi», spiega Fasanella. Secondo Mastelloni la «rete» si è sfilacciata, ma «esiste qualcosa di impalpabile fra gli ex terroristi, che riguarda i loro tesoretti" sulle domande ancora senza risposte - spiega il magistrato da poco in pensione -. In nome di un patto indicibile continuano a tacere. Il caso Moro è un esempio. E per quelli della Francia temo che sarà lo stesso».

Vittorio Feltri: i brigatisti rossi furono protetti perché popolari. Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Sono passati molti anni, troppi, e la memoria purtroppo si è offuscata, ma non del tutto. Vari brigatisti rossi e generi affini sono stati arrestati in Francia dove erano stati accolti come prigionieri politici, grazie a una legge iniqua che a lungo li ha protetti. Ci si domanda ancora perché l'Italia, pur avendoli condannati legittimamente, non fosse mai riuscita a estradarli affinché scontassero la giusta pena. Difficoltà burocratiche e diplomatiche? Non scherziamo, gli assassini comunisti armati hanno sempre goduto in patria della simpatia dei compagni e ciò li ha agevolati, al punto da ricevere a Parigi e dintorni una accoglienza basata su una sorta di internazionalismo del movimento marxista. Quando i criminali agivano dalle nostre parti e spargevano sangue senza requie, una buona fetta dell'opinione pubblica tifava per loro. Quando fu rapito Aldo Moro, mi trovavo per motivi di lavoro giornalistico in un cinema di Bergamo, ENAL, dove si svolgeva un convegno sindacale. A un dato momento sale sul palco un tizio della organizzazione e annuncia ai presenti che il presidente della Dc è stato sequestrato da un commando di terroristi scatenati, i quali, già che c'erano, avevano abbattuto la scorta del politico. Il silenzio nella sala fu immediatamente rotto da uno scrosciante applauso. Questo per segnalare il clima dell'epoca. La sinistra estrema non soltanto era di moda, godeva altresì di un massiccio appoggio popolare. Ecco perché fu relativo lo scandalo suscitato dall'uccisione del commissario Luigi Calabresi, avvenuta nel 1972 e caldeggiata in un comunicato pubblicato da un giornale e firmato da una pletora di cosiddetti intellettuali, di cui non facciamo i nomi per pietà, essendo trascorsi lustri durante i quali molti si pentirono di aver sottoscritto la pena capitale per il poliziotto. Mi pare che questi brevi racconti siano sufficienti per comprendere in quale abisso fosse sprofondato il Paese allorché dominavano le falci e i martelli. La copertura di cui usufruirono i signori omicidi si spiega facilmente: essi erano tutelati sia a livello nazionale sia internazionale. La Francia, in particolare, offriva ospitalità a chiunque si fosse macchiato di un delitto a sfondo ideologico. Anche Battisti, del resto, in Sud America, ebbe un trattamento di favore che gli consentì di rimanere a piede libero per una vita. C'è poco da stupirsi se i brigatisti arrestati abbiano trascorso decenni Oltralpe senza che gli fosse torto un capello. Ci sono voluti il governo Draghi e in particolare la ministra Cartabia per fare tardivamente giustizia, e di ciò non possiamo che essere grati. Qualcuno prova pietà per Giorgio Pietrostefani, oggi settantottenne e malandato, e costretto a trascorrere l'ultimo tratto di esistenza in gattabuia, tuttavia non bisogna dimenticare che quest' uomo è stato il mandante della esecuzione di Calabresi, accusato senza prove di aver lanciato l'anarchico Pinelli dalla finestra della questura. Una imputazione fantasiosa che grida vendetta adesso come allora.

Vittorio Feltri, l'inchiesta Ombre rosse e il ruolo di Emmanuel Macron sulla dottrina Mitterand. Vittorio Feltri Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Proprio ieri su queste colonne ho scritto un articolo così intitolato: "I brigatisti rossi furono protetti perché popolari". Sbagliato. Essi sono ancora protetti e pure popolari, tanto è vero che tutti i criminali arrestati in Francia e teoricamente destinati a essere estradati in Italia sono già stati scarcerati e posti in libertà vigilata in attesa che si compiano le pratiche burocratiche relative al loro rimpatrio con decenni di disgustoso ritardo. Cosicché ci eravamo illusi che la giustizia, pur tardivamente, fosse arrivata al traguardo. Non è così. Di fatto gli assassini comunisti godono ancora di molte simpatie e tutele, non solo a Parigi la cui stampa solidarizza con gli ex combattenti ora a riposo, ma altresì nel nostro Paese che fu inondato di sangue dai manovratori della P38. Tutto questo è ripugnante eppure va segnalato. Molti tifosi e forse fiancheggiatori dei terroristi dichiarano apertis verbis che Pietrostefani e amici di sparatorie non meritano la cattura poiché ormai vecchi e malridotti fisicamente. Come se non bastasse, non manca chi aggiunge che da quando costoro sono "esuli", sottrattisi alla condanna, non hanno più commesso reati. I compagni in pratica si perdonano fra loro adducendo che certi delitti avvennero quando i delinquenti in questione erano giovani, acqua passata, non vale la pena catturarli e sbatterli in galera. Adesso sono animati da profonda umanità e vanno perdonati, cioè assolti. È assurdo. Insomma, quelli del partito armato rintracciati da Macron per gioco non dovrebbero essere perseguiti perché ora vanno in giro col pannolone, poco conta il fatto che in passato abbiano commesso delle stragi. Rimaste impunite. Indubbiamente gli omicidi sono oramai inoffensivi, tuttavia nessuno intende condannarli perché hanno messo la testa a posto, bensì per le loro malefatte ai tempi in cui erano freschi e prestanti, condotte per le quali non hanno pagato il fio. C'è poco da discutere su coloro che si sono ravveduti e hanno cessato di abbattere cristiani, confidino il loro pentimento al parroco ma non implorino quella pietà che hanno negato alle proprie vittime, in favore delle quali si sono svolti tuttalpiù funerali solenni. Troppo poco. Di questo si dovrebbero convincere anche le autorità transalpine invece di attaccarsi a questioni legali per trattenere, chissà fino a quando, i reduci della lotta armata, i quali al momento di dover rispondere delle loro pessime azioni hanno vilmente tagliato la corda. Ai cosiddetti intellettuali del menga, che ancora in questi giorni dimostrano vicinanza agli eversori amanti di falce e martello, chiediamo soltanto di stare zitti e di accontentarsi di averla fatta franca. Non possiamo dimenticare la lettera che scrissero sollecitando l'ammazzamento del commissario Luigi Calabresi. Le nostre parole non invocano vendetta, bensì un minimo di serietà.

Hanno tutti ragione. Il caso Calabresi e i danni dell'innocentismo cieco. Stefano Cappellini su La Repubblica il 30 aprile 2021. Avevo 14 anni quando arrestarono per la prima volta Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, chiamati in correità da Leonardo Marino con l’accusa di essere mandanti ed esecutori dell’omicidio del commissario Calabresi. Erano tutti dirigenti o militanti di Lotta continua, movimento di estrema sinistra fondato nel 1969 e sciolto nel 1976. Non credo all’epoca avessi mai sentito nominare Lotta continua o comunque non ne sapevo granché.

Francesca Pierantozzi per il Messaggero il 2 maggio 2021. «Con questi dieci nomi l'affare è chiuso» scandiscono all' Eliseo. In realtà l'«affare» del rientro in Italia dei latitanti degli anni di Piombo è appena cominciato e rischia di essere lungo. «Lunghissimo» ha confermato ieri Irène Terrel, avvocata storica degli ex terroristi che furono accolti dalla Dottrina Mitterrand e che da tre giorni sono in attesa di estradizione. Oltre ai tempi normalmente lunghi della procedura (almeno tre anni) i dossier dei nove che da 48 ore sono stati rimandati a casa, con misure cautelari, in attesa che tutto cominci davanti alla Chambre de l'Instruction il 5 maggio, sono complessi. Dentro c' è un pezzo di storia italiana, ci sono gli incartamenti dei processi («una massa enorme di documenti da tradurre, mi aspetto lunghe udienze», diceva ieri Antoine Comte, avvocato di Sergio Tornaghi, ex brigatista, condannato all'ergastolo), per molti le vecchie richieste di estradizione sempre respinte («e per motivi giuridici, non politici» dicono gli avvocati) poi ci sono le condizioni di salute, per alcuni gravi da tempo, come Giorgio Pietrostefani o Marina Petrella, quelle umanitarie, la prescrizione. È in realtà scattata l'8 aprile quella per Luigi Bergamin, membro dei Proletari Armati per il Comunismo di Cesare Battisti e condannato a 16 anni e undici mesi come mandante dell'omicidio del maresciallo Antonio Santoro. La manovra della procura di Milano per neutralizzare la prescrizione dichiarandolo «delinquente abituale» sembra avere scarse probabilità di successo presso la corte francese. «Una ridicola manovra dilatoria» l'ha definita Irène Terrel. Diverse fonti giudiziarie meno «coinvolte» la pensano come lei. Sul filo della prescrizione anche Maurizio Di Marzio, l'ultimo latitante, l'unico che non si è fatto trovare a casa la mattina del 28 aprile e che non si è nemmeno presentato spontaneamente il giorno dopo davanti alla procuratrice della Corte d' Appello che ha notificato a tutti la richiesta di estradizione.

L' ULTIMO LATITANTE. Di Marzio - che secondo alcune fonti francesi e italiane era il nome più importante della lista per gli uomini dell'operazione «Ombre Rosse» - continua a essere «irreperibile». Ex brigatista diventato ristoratore, condannato a 14 anni di carcere («di cui sei già scontati» ripeteva spesso) la sua condanna arriva a prescrizione il 10 maggio. La battaglia è già aperta per stabilire se il mandato di arresto scattato il 28 aprile è sospensivo della prescrizione, oppure se la mancata notifica della richiesta di estradizione a Di Marzio continua a far correre il calendario. Per gli altri, le prescrizioni cominceranno ad arrivare nel 2022 e nel 2023, quando le procedure saranno sicuramente ancora in corso. Ogni situazione verrà esaminata caso per caso, individualmente. Gli ex terroristi si presenteranno accompagnati dal loro avvocato.

LE POSSIBILITÀ. La Chambre de l' Instruction passerà al vaglio tutto, incluse «le condizioni nelle quali la giustizia italiana ha preso le sue decisioni». Questo significa che alcuni degli «esuli» francesi potrebbero chiedere la revisione del processo in Italia e un nuovo giudizio. Molti sono stati infatti giudicati in contumacia, assenti perché già latitanti - al processo o al momento della sentenza. Cosa impossibile per il diritto francese, che prevede invece di rifare un nuovo processo. «Le cose sono molto cambiate» ha già detto l'avvocato William Julié, che rappresenta lo stato italiano nella procedura di estradizione. Non la pensano così nemmeno all' Eliseo, visto che fanno sapere che «tra le persone arrestate ce ne saranno sicuramente che potranno chiedere di beneficiare di un nuovo processo in Italia». Il parere motivato della Chambre de l'Instruction potrebbe arrivare in autunno. Da lì cominceranno i ricorsi davanti alla Cassazione. In caso di conferma, si passerà al capitolo «politico» con la richiesta di estradizione che arriverà sul tavolo del Primo Ministro, che dovrà firmare insieme con il ministro della Giustizia. Saremo già al prossimo mandato Presidenziale (le elezioni ci sono tra un anno, il mandato dura quattro anni) ma per alcuni potremmo essere addirittura al mandato successivo. Difficile dunque sapere quale sarà l'umore del momento, e comunque, anche in caso di richiesta firmata, gli ex terroristi non saranno costretti a partire subito per l'Italia: potranno tentare l'ultimo ricorso amministrativo davanti al Consiglio di Stato. Senza escludere una deviazione verso la Corte per i Diritti Umani. Irène Terrel insiste: «Sarà lunghissima». Si vede fin dall' inizio: «Sono stati rimessi tutti in libertà ha detto ieri Questo è importantissimo perché trasforma tutta la tempistica del procedimento: se le persone sono detenute, tutto diventa urgente, mentre i tempi con le persone libere non sono gli stessi. Abbiamo molti argomenti, li useremo tutti».

Emmanuel Macron e l'appello in difesa degli ex Br. Tra le firme quella dell'italiana Valeria Bruni Tedeschi. Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Emmanuel Macron aveva dato il via libera al loro arresto, ma adesso le cose potrebbero cambiare. Complice un plotone di intellettuali. È di qualche giorno fa la notizia dell'arresto di dieci ex terroristi rossi, oggetto della richiesta da parte del governo italiano alla Francia di estradizione. Ma se in un primo momento sembrava fatta, con il passare del tempo l'entusiasmo va scemando. Molti dei fermati hanno infatti ottenuto diversi gradi di libertà vigilata. Per tutti. Niente carcere. Obbligo di firma in procura o presenza in casa in certi orari. Primi a essere rilasciati, Enzo Calvitti e Sergio Tornaghi, Primule rosse della colonna romana e milanese delle Brigate rosse. Insomma l'iter sembra andare per le lunghe con l'Italia dalle mani legate, almeno per tre anni. Ma se i più festeggiano per il cambio di passo apportato dal presidente francese, c'è anche qualcuno che si oppone. Si tratta di diversi intellettuali che - prima su Le Monde, poi su Libération - al suon di "Presidente, rispetti l'impegno della Francia nei confronti degli esiliati italiani". Tra questi c'è Valeria Bruni Tedeschi, longa manus della mancata estradizione di Marina Petrella nel 2008, negata dal cognato Nicolas Sarkozy, all'epoca presidente. Irène Terrel, legale di 5 dei "10" da estradare. Ed è proprio lei a non andarci per il sottile: "La richiesta di estradizione dell'Italia è irricevibile, sia dal punto di vista giuridico che politico, serviva un'opera di riconciliazione".  I firmatari sono poi: Agnès B., Jean-Christophe Bailly, Charles Berling, Irène Bonnaud, Nicolas Bouchaud, Valéria Bruni-Tedeschi, Olivier Cadiot, Sylvain Creuzevault, Georges Didi-Huberman, Valérie Dréville, Annie Ernaux, Costa-Gavras, Jean-Luc Godard, Alain Guiraudie, Célia Houdart, Matthias Langhoff, Edouard Louis, Philippe Mangeot, Maguy Marin, Gérard Mordillat, Stanislas Nordey, Olivier Neveux, Yves Pagès, Hervé Pierre, Ernest Pignon-Ernest, Denis Podalydès, Adeline Rosenstein, Jean-François Sivadier, Eric Vuillard, Sophie Wahnich, Martin Winckler.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2021. A confidare a Marina Petrella in ospedale che la Francia avrebbe rinunciato a estradarla, mercoledì 8 ottobre 2008, fu Valeria Bruni Tedeschi assieme alla sorella Carla Bruni Sarkozy, moglie dell'allora presidente francese. Sarkozy annunciò ufficialmente la sua decisione, «per ragioni umanitarie», quattro giorni dopo. Nel giugno precedente il premier François Fillon aveva firmato il decreto di estradizione, e Sarkozy l'aveva confermata. Poi le due sorelle intervennero e convinsero il presidente a cambiare idea, difendendo le ragioni di tutti gli ex terroristi, in particolare Cesare Battisti. L' avvocata di Petrella, Irène Terrel, salutò una decisione «umana, necessaria e legittima» dello Stato francese. Sono passati 13 anni, e il presidente della Francia è cambiato: al posto di Sarkozy c' è Macron che ha deciso di accogliere finalmente le richieste italiane. Ma il clima culturale che ha accompagnato il soggiorno in Francia degli ex militanti della lotta armata sembra immutato, almeno a leggere certi interventi. Marina Petrella è di nuovo in attesa di estradizione, Irène Terrel continua ad assisterla e a dirsi «indignata», e Valeria Bruni Tedeschi difende di nuovo Petrella e gli altri «esuli», come vengono definiti in un lungo appello pubblicato ieri da Libération. «Presidente Macron, rispetti l'impegno della Francia nei confronti degli esuli italiani», è il titolo del testo. Tra i firmatari ci sono importanti nomi del mondo intellettuale francese, che già allora si erano schierati a favore di Battisti e compagni: i cineasti Jean-Luc Godard e Costa-Gavras, la scrittrice Annie Ernaux, l'attrice e regista Valeria Bruni-Tedeschi, come si è detto, più nuovi protagonisti della letteratura come Edouard Louis o Éric Vuillard, prix Goncourt 2017. Due giorni fa, nel commentare la svolta di Emmanuel Macron, fonti dell'Eliseo hanno evocato una specie di inizio di mea culpa francese, calando l'arresto dei dieci in una prospettiva storica: «Si tratta di una presa di coscienza da parte della Francia, dopo anni di tentennamenti e anche di una certa compiacenza, della realtà storica dell'Italia, cioè il trauma costituito da attentati, omicidi, rapimenti. Questo bisognava riconoscerlo». Ma, fuori dall' Eliseo, il caso Battisti - che in carcere in Italia ha poi riconosciuto quattro omicidi in Francia sempre negati, ammettendo di fatto di avere ingannato i suoi amici francesi - sembra passato invano. I firmatari del nuovo appello a Macron ricordano la dottrina Mitterrand, che garantiva accoglienza in Francia a chi abbandonava la lotta armata, e soprattutto il suo contesto: la «strategia della tensione ancora vivace in Italia» e «i giuristi francesi spesso perplessi rispetto alle leggi speciali alla base delle procedure italiane». Tornano i soliti argomenti di chi dipingeva l'Italia degli anni di piombo come una specie di dittatura sudamericana, con gli scappati in Francia avvolti dalla stessa considerazione dovuta ai perseguitati di Pinochet. Il nuovo appello a Macron sottolinea che quegli italiani hanno deposto le armi e in Francia si sono rifatti una vita. «C' è chi adesso in Italia li strumentalizza per obiettivi di politica interna che non ci riguardano - si legge ancora -. La loro campagna equivale ad accusare decine di funzionari dei nostri servizi amministrativi, polizia e giustizia di avere, per quarant' anni, protetto degli assassini». Per i firmatari, «tenere in maggior conto il punto di vista dei nostri partner europei non deve portarci alla confusione storica e all' abbandono dei meccanismi fondamentali della giustizia». Seguono citazione dell'Orestea di Eschilo - «Vuoi passare per giusto piuttosto che agire con giustizia» - e l'accusa definitiva a Macron, quella di «fare quel che avrebbe fatto al suo posto un rappresentante del Rassemblement National», il partito di Marine Le Pen.

Alessandro Gnocchi per "il Giornale" il 30 aprile 2021. Il mondo intellettuale dovrebbe riconoscere la sua «ignoranza e arroganza». Invece «non c' è ombra di autocritica per il sostegno offerto ai terroristi giunti in Francia». Gli intellettuali non hanno imparato niente dalla vicenda di Cesare Battisti. Lo hanno considerato un perseguitato dalla giustizia italiana. Dopo la resa, però, Battisti ha quattro omicidi... Così Marcelle Padovani, giornalista, saggista, corrispondente de Le Nouvel Observateur ha commentato con l'agenzia Adnkronos la notizia dell'arresto dei sette terroristi italiani latitanti in Francia (altri tre sono in fuga). La retata fa cadere i teoremi, a dire il vero deboli, degli intellettuali di sinistra: gli «esuli» non sono terroristi ma militanti di una guerra civile, il metodo dei giudici era discutibile, ogni conflitto ha i suoi caduti, ci vorrebbe un'amnistia generale. La Francia di Macron ha cambiato idea: sono assassini. Scrittori, artisti e commedianti francesi dovrebbero ammettere di aver sbagliato. Dovrebbero ammetterlo anche scrittori, artisti e commedianti di casa nostra, da cinquant' anni dalla parte sbagliata. Non accadrà. I nostri «pensatori» sono sempre pronti a rispolverare il lessico da corteo anni Sessanta. Soprattutto i più abili nel barattare la rivoluzione con una posizione nella società. Gli integratissimi ribelli, quando si guardano allo specchio, vedono forse un volto segnato dal senso di colpa per aver tradito la causa e dal sospetto della propria mediocrità. Credono di rifarsi una verginità sostenendo tesi tanto radicali quanto insensate. L' intellettuale impugna un'arma nota a tutti: il manifesto accompagnato da firme eccellenti. Prendiamo proprio il caso di Cesare Battisti. Nel febbraio 2004, parte l'appello della rivista online Carmilla, fondata da Valerio Evangelisti con Giuseppe Genna e Wu Ming 1. L' arresto di Cesare Battisti è definito «uno scandalo giuridico e umano» e si chiede la liberazione. In una settimana firmano in 1500. Ricordiamo Pino Cacucci, Tiziano Scarpa, Massimo Carlotto, Nanni Balestrini, Giorgio Agamben, Antonio Moresco, Marco Mueller (pentito) e uno sconosciuto Roberto Saviano, che prima aderisce e, anni dopo, già famoso, ritira la firma. Poi Battisti confessa. Nessuno dei firmatari trova qualcosa di intelligente da dire. Riparte la litania della guerra civile nonostante Battisti sia più simile a uno spietato borseggiatore che a un eroico partigiano. Caso Calabresi. Il padre di tutti gli appelli. Questo è il peccato originale, quello che retrocede il mondo della cultura ufficiale e dei grandi media ad acefala appendice della peggiore politica, sconfinante nell' eversione. Lotta continua lancia una campagna contro il commissario Luigi Calabresi che ha condotto gli interrogatori dell'anarchico Pinelli, accusato di conoscere i fatti inerenti alla bomba di Piazza Fontana, a Milano. Pinelli vola dalla finestra della questura e muore tragicamente. Calabresi, in quel momento, è fuori dalla stanza ma è indicato quale colpevole da tutti gli estremisti d' Italia. Nel maggio 1972, un commando di Lotta continua uccide il commissario, sparandogli alle spalle. Calabresi si era trovato isolato dopo la lettera aperta dell'Espresso in cui era definito «torturatore». Chi aveva firmato? Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Alberto Moravia, Toni Negri, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Bocca, Furio Colombo e può bastare, anche se le firme sarebbero 757. Eugenio Scalfari ha chiesto scusa nel 2007. Non aveva fretta. Poi c' è la storia, brutta, triste, delle Brigate rosse. Negli anni di piombo fu asserito dalle migliori (ehm) menti del Paese che i terroristi rossi fossero estranei alle logiche del Partito comunista, fino a quando non fu accertato l'esatto contrario. Come se non bastasse, saltò fuori anche che tra certa borghesia meneghina e radicalismo di sinistra non c'era soluzione di continuità. Gli intellettuali chiederanno scusa? No. Neppure capiranno. Nella loro logica allucinata, la richiesta di giustizia coincide con la vendetta dello Stato. Le vittime sono loro, i carnefici. Basta leggere la dichiarazione dello scrittore napoletano Erri De Luca, ex servizio d' ordine di Lotta continua: «L' unico mio commento è la strofa di una canzone di De André: Cos' altro vi serve da queste vite?». No, non si riferisce alle esistenze spezzate dei morti ma a quelle degli assassini costretti alla fuga in Francia. Adriano Sofri, mandante dell'omicidio Calabresi assieme a Giorgio Pietrostefani, imprigionato ieri, ribadisce con candore il concetto: «Che ve ne fate di questi ex terroristi?». E il terrorismo che cosa se ne sarà fatto delle vite strappate a innocenti durante una guerra immaginaria? Oreste Scalzone osa addirittura parlare di «assassinio dell'anima» dei poveri arrestati. A loro, l'assassinio dell'anima, dopo cinquant' anni di protezione. Alle loro vittime, l'assassinio e basta. 

Mario Ajello per "il Messaggero" il 29 aprile 2021. L' astrattezza dei presunti sapienti, la vacuità degli intellettuali italiani e francesi abituati a vedere idealismo nella criminalità di sinistra, è stato un ingrediente fondamentale nell' epopea dei terroristi ospitati a Parigi per decenni come perseguitati politici e vezzeggiati dalla crema della cultura o meglio dell'ignoranza militante. Ora il pluriomicida Cesare Battisti è in carcere in Italia, ma quando era Oltralpe il riverito saggista Bernard Henry Lévy - per non dire di Daniel Pennac o della giallista Fred Vargas o di Fanny Ardant o di Carla Bruni, di sua sorella attrice Valeria Bruni Tedeschi e di centinaia di altri intellò da rive gauche - ne parlava come di un partigiano minacciato dalla violenza vendicativa e «fascista» della giustizia italiana. Un sindaco socialista di Parigi mise Battisti persino sotto la «protezione» del consiglio comunale perché quei barbari del governo italiano si erano permessi di chiedere l'estradizione di un «pensatore illuminato». Una sorta di esodo della sinistra estrema italiana inseguita (ma svogliatamente) dalla nostra giustizia c' è stato in direzione Francia. Perché «questo Paese - parola di Franco Piperno, che è stato un rifugiato - è la seconda patria di ogni uomo libero». Fungeva da protezione per gente come lui, come Toni Negri, come la Petrella e gli altri appena arrestati, la cosiddetta dottrina Mitterrand sul diritto d' asilo. Si trattò soltanto di una dichiarazione del presidente francese, il 23 febbraio 1985, al termine di un colloquio con il premier italiano Bettino Craxi all' Eliseo. Da lì è nato un lungo equivoco, abilmente sfruttato dall' Italia e dalla Francia. Mitterrand aveva detto con estrema chiarezza che andava escluso dai benefici dell'asilo chi aveva compiuto atti di sangue. Ma il comportamento della République (fino all' estradizione nel 2002 del brigatista Persichetti condannato a 22 anni per l'assassinio del generale Giorgieri e all' arresto di Battisti nel 2004) è stato diverso. La tipica doppiezza di Mitterrand ha giovato ai rifugiati. L' uso improprio della dottrina Mitterrand fu tacitamento favorito dai governi italiani. Gilles Martinet, celebre ex ambasciatore francese in Italia, raccontò che Craxi stesso aveva chiesto a Mitterrand di tenersi Toni Negri ed evitarli il carcere. Meglio farli stare in Francia che averli da noi a fare danni: questo in fondo l'approccio di Bettino verso gli estremisti di sinistra. Verso i quali i nostri socialisti, anche in chiave anti-Pci, hanno avuto qualche debolezza.

LE CONVENIENZE Per non dire delle infatuazioni modello Carlà. Quel mondo parigino dell'ignoranza militante tendeva a vedere nei terroristi e affini arrivati dall' Italia il capro espiatorio della nostra giustizia inquisitoriale e prevenuta contro le «idee ribelli» d' origine sessantottina. Una bufala, naturalmente, questo modo di vedere. Il fascino verso la figura del rivoluzionario fuggiasco è diventato così un sottogenere pseudo-letterario, a prescindere dalle colpe spesso molto gravi di cui si sono macchiati questi anti-eroi. Naturalmente nessuno crede alla Bruni quando dice: «Non sono mai intervenuta presso mio marito Sarkozy per favorire Battisti». Ma chissà. Quel che è certo è che la dottrina Mitterrand ha funzionato. Era già stata anticipata dallo smaliziatissimo presidente francese in un discorso del 1 febbraio 85 al Palais des Sports di Rennes: «Mi rifiuto di considerare a priori come terroristi attivi e pericolosi - così disse quel monarca repubblicano - quelle centinaia di uomini che sono venuti nel nostro Paese, in particolare dall' Italia, e che sono ormai fuori dal giro delle violenze». Una sottile, reciproca, convenienza, si è stabilita in questi decenni tra Italia e Francia. In realtà il nostro governo non chiedeva mai a quello di Parigi di restituire i latitanti. Soltanto De Mita lo fece con insistenza. Molto più tardi, nel 2001, il Guardasigilli del governo berlusconiano, il leghista Castelli, ha tentato di scardinare la dottrina Mitterrand, con un accordo con il collega Perben sulla chiusura definitiva della pratica dei rifugiati, in cui si pretendeva la restituzione di quelli condannati per omicidio (una dozzina di persone). Ma non se ne fece niente. Sarkozy non si è liberato dalla dottrina Mitterrand, al punto che Battisti, dopo essere scappato in Brasile, ha raccontato che 007 francesi avevano collaborato alla sua fuga.

TRA PERDONISMO E RETORICA Un po' tutti, in questa storia italo-francese di ipocrisia e di malinteso concetto di libertà ridotta a macchietta (i libertari sarebbero gli assassini, libertaria anche la Francia che dà loro una patria, mentre da questa parte delle Alpi una sorta di regime liberticida costringeva i suoi poeti all' esodo), hanno contribuito a scriverla tra perdonismo, disumanità e retorica rivoluzionaria fuori tempo massimo. Quanti Erri De Luca (e nel caso di Battisti anche Roberto Saviano) hanno protetto la parte peggiore dell' Italia in Francia. Ma ora, finalmente, il secco «grazie» di Draghi a Macron.

La fuga in Francia di Toni Negri, conteso tra il realismo di Craxi e il simbolismo di Pannella. Bettino Craxi agevolò la fuga di Toni Negri, Marco Pannella ne voleva fare un simbolo delle battaglie del Partito radicale. Francesco Damato su Il Dubbio l'1 maggio 2021. Una volta tanto hanno attribuito a Bettino Craxi una cosa meno clamorosa o grave – dal loro punto di vista- di quella effettivamente compiuta: di avere da presidente del Consiglio, nel 1983, chiesto al presidente francese e amico Francois Mitterrand di tenersi al sicuro a Parigi Toni Negri. Che infatti riparò in Francia insegnando per alcuni anni alla Sorbona e riscuotendo regolarmente, con la dovuta procura, l’indennità di deputato perché eletto alla Camera nelle liste radicali, pur avendo pendenze giudiziarie assai pesanti che gli avevano procurato l’arresto. Assolto dall’originaria accusa di terrorismo rivoltagli dal giudice di Padova Pietro Calogero nel famoso processo che prese il nome dalla data – 7 aprile 1979 – di una sostanziale retata di esponenti di Autonomia sospettati di lotta armata e simili, il professore universitario di filosofia Toni Negri fu condannato per associazione sovversiva e concorso morale in una rapina ad Argelato, nel Bolognese. Di originaria militanza socialista, Negri aveva scritto di tutto e di più, e vagato fra associazioni estremistiche prestandosi alla fama appiccicatagli dagli inquirenti di cattivo maestro. Qualcuno addirittura pensò che fosse lui il famoso “grande vecchio” delle brigate rosse e, più in generale, del terrorismo rosso in Italia. Finito in prigione, il professore fu politicamente adottato da Marco Pannella, che volle farne un simbolo di come la magistratura – anticipando in qualche modo la vicenda di Enzo Tortora presunto camorrista – potesse scambiare lucciole per lanterne e il legislatore adottare nella sacrosanta lotta al terrorismo leggi per niente garantiste, comunque esposte alle applicazioni peggiori. In questa ottica il leader radicale nel 1983 candidò alla Camera il detenuto Negri. Che, una volta eletto, fu liberato e andò a ritirare la medaglietta parlamentare a Montecitorio, salutato sul portone dal militare di turno con tutti gli onori dovuti agli onorevoli rappresentanti del popolo.

La magistratura tuttavia azionò immediatamente le procedure per chiedere e alla fine ottenere l’autorizzazione all’arresto del deputato. Che però, sottraendosi anche ad uno stravagante scenario predisposto per lui – come vedremo – dall’immaginifico Pannella, tagliò in tempo la corda, diciamo così. Egli insomma scappò in Francia. Dove comunque, essendo di pasta obiettivamente diversa dagli altri sottrattisi oltr’Alpe alle loro responsabilità e ai loro debiti con la giustizia, il professore non rimase più di tanto. Già alla fine della legislatura, peraltro durata un anno meno dell’ordinario per lo scioglimento anticipato delle Camere voluto nel 1987 dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita spedendo a Palazzo Chigi Amintore Fanfani per sloggiare Craxi, il professor Negri patteggiò il suo rientro in Italia. Dove sarebbe tornato in carcere per restarvi a regime pieno sino al 1999, e in semilibertà per qualche anno ancora, sino ad uscirne definitivamente nel 2003. A sentire i ricostruttori della vicenda attualizzata in qualche modo dall’operazione “Ombre rosse” appena scattata in Francia con l’arresto di nove condannati definitivi per reati di terrorismo e dintorni, essendo stata per esempio risparmiata al più anziano di loro, Giorgio Pietrostefani, per il delitto del commissario Luigi Calabresi l’aggravante del terrorismo; a sentire, dicevo, i ricostruttori della vicenda Negri, allora il presidente del Consiglio italiano avrebbe quindi chiesto a Mitterrand di tenersi stretto il nuovo ospite. Nossignori, nemici di Craxi, al quale siete tornati – fra l’altro – ad attribuire indulgenze agli estremisti “in chiave anti- Pci”, cui i terroristi rimproveravano l’imborghesimento e il tradimento degli ideali della rivoluzione. L’allora presidente socialista del Consiglio fece ben più di quello che ora gli rimproverate anche da morto. Come una volta mi raccontò personalmente, egli autorizzò l’allora suo ministro democristiano dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, che gliene aveva chiesto il “parere”, ad allentare la sorveglianza di Negri mentre la Camera si accingeva ad autorizzarne l’arresto, anzi il riarresto. Più ancora di una fuga del professore essi concordarono nel ritenere un danno per lo Stato e le istituzioni lo scenario allestito da Panella, col quale peraltro avevano entrambi buoni rapporti personali e politici. Esso contemplava il deputato Negri di giorno a Montecitorio con le dovute autorizzazioni del magistrato di turno, chiamato a valutare perciò l’importanza dei lavori parlamentari – e del detenuto Negri di notte, salvo sedute notturne della Camera. Mi sono chiesto maliziosamente – lo ammetto – se quella vicenda non avesse poi pesato sull’atteggiamento curiosamente giustizialista di Pannella messo giustamente a nudo da Filippo Facci – non Paolo, come ho scritto l’altro ieri, per cui mi scuso – nel suo libro appena uscito sul linciaggio delle monetine del 30 aprile 1993. In particolare, Pannella annunciò il voto a favore delle autorizzazioni a procedere contro Craxi, pur solidarizzando poi con lui per le conseguenze. Cose che solo Pannella sapeva fare, e solo Craxi in fondo perdonargli.

Biografie diverse con una cosa in comune. Da Pietrostefani alla Petrella, perché erano ricercati i rifugiati politici arrestati in Francia. David Romoli su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Neppure il più cauto difensore dell’ordine pubblico potrebbe mai sostenere che le sette persone arrestate ieri a Parigi e i tre latitanti costituiscono una minaccia sia pur minima per la sicurezza. Sono tutte persone che da decenni, spesso da ancor prima delle condanne definitive, si sono lasciate alle spalle le ideologie per cui, un tempo, scelsero la strada della lotta armata. Non solo in molti Paesi i loro crimini sarebbero ormai prescritti ma, per tutti, i mandati cattura europei stavano per scadere. Per la maggior parte di loro il termine era tra il dicembre di quest’anno e i primi mesi dell’anno prossimo, ma anche le scadenze più lunghe non andavano oltre il 2023. Quella del governo italiano è stata una corsa contro il tempo. Degna di miglior causa. Il nome più noto tra gli arrestati di ieri, Giorgio Pietrostefani, peraltro la scelta della lotta armata non la ha mai fatta. È stato tra i fondatori e tra i principali dirigenti di Lotta continua, dove incarnava la linea più dura, quella della “centralità operai” contrapposta alle istanze innovative, soprattutto delle donne e dei giovani, che alla fine portarono la principale organizzazione della sinistra extraparlamentare degli anni ‘70 all’implosione, nel 1976. Nel gruppo Pietrostefani era stato anche responsabile del servizio d’ordine, non però della struttura clandestina che pure per una certa fase c’era stata. Dopo lo scioglimento del gruppo aveva abbandonato la politica, denunciato come “fanatismo” molte delle opinioni precedenti e letteralmente passato dall’altra parte della barricata in veste di dirigente d’azienda alle Officine meccaniche reggiane. La denuncia contro di lui, Sofri e Bompressi da parte dell’ex operaio di Lc Leonardo Marino per l’omicidio Calabresi, di 16 anni prima, lo sorprese in queste vesti. Pietrostefani, che oggi ha 79 anni ed è molto malato, a differenza di Sofri riparò all’estero dopo la denuncia di Marino. Tornò in Italia per il processo, fuggì di nuovo nel 2000, prima della nuova condanna. A Parigi non ha mai frequentato la cerchia degli esuli italiani e, come i coimputati, si è sempre professato innocente. La lotta armata è stata invece una scelta consapevole per Marina Petrella, oggi di 66 anni, brigatista, moglie del dirigente brigatista morto l’anno scorso Luigi Novelli e sorella di Stefano Petrella, uno dei br condannati per l’uccisione del fratello del pentito Patrizio Peci. Venivano tutti, come molti militanti della colonna romana delle Br, dal gruppo Viva il comunismo e Marina è stata a sua volta dirigente della colonna romana. Condannata per l’omicidio del generale dei carabinieri Galvaligi e per il sequestro Cirillo a Napoli, nella scissione delle Br si era schierata con la fazione Partito comunista combattente il che rende per lo meno dubbia la partecipazione al sequestro Cirillo, che costò la vita a due agenti e fu gestito dalla fazione opposta quella del “partito guerriglia”. Marina Petrella è fuggita in Francia, dopo aver scontato anni di custodia cautelare prima della sentenza di Cassazione del maxi-processo alla colonna romana Moro-ter. A quel punto aveva già abbandonato ogni forma di militanza politica. Petrella fu arrestata nell’agosto del 2007 e anche allora l’estradizione sembrava inevitabile, nonostante fosse in quel momento seriamente malata. Si mosse e la salvò, a sorpresa, la moglie italiana dell’allora presidente Sarkozy, convincendo il marito a negare l’estradizione “per ragioni di salute” in base alla convenzione umanitaria Italia-Francia del 1957. Sarkozy scrisse anche al presidente italiano Napolitano chiedendogli di concedere una grazia che Napolitano non solo non concesse ma diramò una nota piuttosto dura, di fatto chiedendo al francese di non impicciarsi degli affari italiani. Come Marina Petrella anche Roberta Cappelli, sempre di 66 anni, viene dalla colonna romana delle Br, condannata per tre omicidi, e anche lei aveva già abbandonato la militanza politica quando fu condannata in via definitiva. Incinta al momento dell’arresto, era stata costretta a partorire con gli agenti armati in sala parto: una di quelle aberrazioni, peraltro rara nel mondo, che suscita scandalo quando capita altrove e sembrò a tutti normalissima nell’Italia delle leggi d’emergenza. Giovanni Alimonti, all’epoca centralinista della Camera e condannato per il ferimento di un dirigente della Digos nel 1982, era già rifugiato in Francia quando fu raggiunto dalle altre militanti della colonna romana. Tra gli altri arrestati, due brigatisti, Sergio Tornaghi, milanese, ed Enzo Calvitti, a cui carico non risultano in realtà reati di sangue nonostante le affermazioni del presidente Macron e un militante dei Nuclei armati per il contropotere territoriale, Narcisio Manenti. Persone diverse, con percorsi, biografie e responsabilità distinte ma con una cosa in comune: mandarli in galera adesso, a decenni di distanza dai fatti, in una situazione storica completamente diversa da quella ella quale operarono le loro scelte, persone ormai diversissime dai giovani rivoluzionari di allora non è giustizia. È vendetta. David Romoli

L'operazione "Ombre Rosse". Chi sono i tre ex terroristi rossi in fuga e ricercati: Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura. Vito Califano su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Fine della dottrina Mitterand, si è scritto, con l’arresto in Francia di sette ex terroristi di sinistra per i quali l’Italia aveva chiesto l’estradizione. Altri tre sono ancora in fuga. Gli arrestati: Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, delle Brigate Rosse, Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e Narciso Manenti dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale. Un’operazione condotta dall’Antiterrorismo della polizia nazionale francese (Sdat) con il Servizio di cooperazione internazionale della Criminalpol e con l’Antiterrorismo della Polizia italiana e con l’esperto per la sicurezza della polizia italiana nella capitale francese. Una questione che si è sbloccata a inizio aprile con il colloquio tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e l’omologo francese Eric Dupond-Moretti. Per tutti gli arrestati si ferma il corso della prescrizione. L’operazione chiamata “Ombre Rosse”. Dei 7 fermati, quattro hanno una condanna all’ergastolo: Capelli, Petrella, Tornaghi e Manenti. Per Alimonti e Calvitti, la pena da scontare è rispettivamente 11 anni, 6 mesi e 9 giorni e 18 anni, 7 mesi e 25 giorni. Pietrostefani deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni. La nota del Presidente del Consiglio Mario Draghi: “Il governo esprime soddisfazione per la decisione della Francia di avviare le procedure giudiziarie, richieste da parte italiana, nei confronti dei responsabili di gravissimi crimini di terrorismo, che hanno lasciato una ferita ancora aperta. La memoria di quegli atti barbarici è viva nella coscienza degli italiani. A nome mio e del governo, rinnovo la partecipazione al dolore dei familiari nel ricordo commosso del sacrificio delle vittime”. I tre in fuga e ancora ricercati sono Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura. Bergamin è tra gli ideologi dei Pac, il gruppo armato del quale ha fatto parte anche Cesare Battisti, arrestato in Bolivia. Bergamin è stato condannato per due omicidi, tra cui quello del macellaio Lino Sabbadin. Di Marzio è un ex brigatista e partecipò al tentativo di sequestro del poliziotto Nicola Simone. Per lui il 10 maggio scatta la prescrizione. Raffaele Ventura è stato condannato insieme ad altri 8 per l’omicidio del vice brigadiere Antonino Custra il 14 maggio del 1977 a Milano, durante una manifestazione indetta dalla sinistra extraparlamentare.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Fabio Poletti per "la Stampa" il 29 aprile 2021. L'anno prossimo saranno cinquant'anni dall' omicidio del commissario Calabresi, quaranta dalle azioni delle Brigate Rosse. Chi ha vissuto quegli anni, si interroga sugli arresti dei loro ex compagni di un tempo. Adriano Sofri, condannato a 22 anni di carcere come mandante dell'omicidio del commissario, è preoccupato per le condizioni di salute del suo ex compagno di cella: «A Giorgio Pietrostefani la Francia ha dato ospitalità e un fegato di ricambio. La sua condizione sanitaria è cronicamente arrischiata. "Pietro" vive di lunghi ricoveri e ha in programma un intervento in ospedale a Parigi. Ho paura che muoia». Ma questa non è l'unica preoccupazione del leader di Lotta Continua, che si interroga pure sul senso dell'operazione di polizia che ha portato agli arresti così tanti anni dopo: «Questa sporca decina è il fondo del barile. Li avete presi ma ora che ve ne fate? Non uno, non uno dei condannati ha commesso un reato in Francia. Questa era una condizione della loro accoglienza. Oggi si esclude perfino la possibilità di discutere apertamente il problema di una nuova misura politica. Fino a quando?». La stessa domanda che si pone Oreste Scalzone, ex leader di Autonomia Operaia, ex «latitante sovversivo» come si definisce, che risponde al telefono da Parigi. Scalzone smentisce che ci sia mai stata una copertura della Francia dei latitanti: «Giustizia sacrosanta? È solo pura foia di vendetta. Non c' è mai stata una dottrina Mitterand che proteggeva gli esuli. Era solo la scelta politica di chi aveva capito che se ci fosse stata anche solo una estradizione, i cinquecento o mille che erano a Parigi sarebbero andati ad ingrossare le fila di gruppi armati, non avendo altra scelta. L' unica risposta vera che si può dare è un taglio amnistiale o un indulto generalizzato». Anche Sergio Segio, che ha scontato 22 anni di carcere per la sua militanza in Prima Linea, crede che questi arresti non facciano i conti con la storia: «Gli arresti di persone anziane, in alcuni casi gravemente malate come Giorgio Pietrostefani, a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti per i quali sono stati condannati, sono l'effetto del diritto alla vendetta. Si continuano a trattare quegli anni come cronaca, inseguendo ai quattro angoli del mondo uno sparuto gruppetto di persone anziane, e da decenni pur faticosamente integrate, affinché non la facciano franca». Da Sergio Segio una considerazione anche per i famigliari delle vittime, ma con una precisazione: «Le ferite personali di chi è stato direttamente o indirettamente colpito esigono rispetto, ma non devono e non possono trasformarsi in vendetta». Silvio Viale allora era un giovane dirigente di Lotta Continua a Torino, oggi è un noto medico: «Sono altre persone, hanno chiuso con il passato. Dopo un certo tempo ci vuole clemenza da parte dello Stato».

Il piagnisteo di Sofri: "Con sporca decina è il fondo del barile". Federico Garau il Il commento dell'ex leader di Lotta Continua su Il Foglio: "Avete preso 7 ex terroristì a Parigi. Bravi! E adesso che ve ne fate?" Continua a far discutere la notizia della cattura dei sette ex brigatisti arrestati questa mattina a Parigi dalle autorità francesi ed italiane: sulla vicenda è voluto intervenire anche il giornalista ed attivista, nonché ex leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, che ha scritto un commento a caldo sul Foglio.

Fra i nomi dei fermati si trova, fra l'altro, anche quello di Giorgio Pietrostefani, confondatore di Lotta Continua condannato insieme a Sofri per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi (1972). Tanta l'amarezza espressa dallo scrittore ed attivista triestino che, raggiunto da uno dei giornalisti di AdnKronos, ha così dichiarato: "Perderesti il tuo tempo, non voglio commentare".

Lo sfogo. Col passare delle ore, tuttavia, è arrivata la reazione dell'ex leader di Lotta Continua, che ha deciso di affidare le proprie parole alle pagine de Il Foglio"Una retata, in ora antelucana, come da regolamento, ha portato all'arresto di 7 ex terroristi a Parigi. Bravi! E adesso che ve ne fate?", ha esordito Sofri, senza celare dell'ironia spicciola. E ancora: "La sporca decina che oggi fa i titoli di testa è il fondo del barile". Nel suo intervento, Sofri ha spiegato di avere delle osservazioni da fare in merito alla cattura degli ex brigatisti ed alle indagini che hanno portato al loro arresto"La prima, sul numero dei ricercati: 11 (undici), ridotti nel giro di pochi giorni a 10 (dieci) forse perché per uno di loro era intervenuta la prescrizione, imminente anche per altri", ha spiegato l'attivista. "Gli italiani riparati in Francia durante o dopo gli anni cosiddetti di piombo erano stati alcune centinaia. Dove sono andati a finire? Non sono abbastanza al corrente della questione. Alcuni, pochi, vennero spontaneamente a consegnarsi in Italia, come Toni Negri. E la moltitudine restante? Molti sono stati prescritti, alcuni sono morti di vecchiaia o di malattia, uno si è ucciso poco fa buttandosi giù da una finestra".

Commento su Pietrostefani. Quanto all'ex cofondatore Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni, Sofri ha definito il suo arresto come "piatto forte" del blitz avvenuto in Francia. "I titoli ne sono così inebriati da dimenticare ancora una volta che i giudici del nostro processo, pur temerari, rinunciarono a invocare nei nostri confronti l'aggravante del terrorismo", ha commentato l'ex leader di Lotta Continua. "Da quando ho ricevuto la notizia del suo arresto sono combattuto fra due sentimenti opposti, quasi cinici", ha proseguito l'attivista, "La paura che muoia nelle unghie distratte di questa fiera autorità bicipite transalpina e cisalpina, e un agitato desiderio che torni in Italia. Un desiderio da vecchio amico, e anche lui è vecchio, forse ce l'ha anche lui un desiderio simile". Sofri ha inoltre affermato che le condizioni di salute di Pietrostefani sono abbastanza serie, motivo per cui il legale che lo assiste provvederà presto ad informare anche il giudice. Pietrostefani, fra l'altro, avrebbe in previsione un intervento chirurgico da effettuare in un ospedale francese.

La dottrina Mitterrand. Quanto alla politica relativa al diritto d'asilo in Francia enunciata da François Mitterrand, Sofri ha affermato che questa dottrina, adottata poi anche da Chirac, Sarkozy, Hollande fino ad arrivare a Macron, "ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua", ossia "il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente".

Amnistia, altro che estradizione. Rifugiati politici in Francia, che senso ha arrestare ed estradare degli ottantenni? Frank Cimini su Il Riformista il 28 Aprile 2021. «C’è anche in programma una visita di Stato in Francia del presidente Sergio Mattarella e dovrebbe essere firmato il Trattato Quirinale per rafforzare i rapporti bilaterali. In questo contesto Macron potrebbe dare il via libera alle estradizioni chieste alla Francia dalla ministra Marta Cartabia nell’ultima riunione con il suo omologo francese». Intervistato da Repubblica lo scrittore francese Marc Lazar risponde alla domanda su un possibile cambiamento di linea del governo d’Oltralpe sulla presenza a Parigi di persone condannate in Italia per fatti di lotta armata. Lazar polemizza con gli intellettuali francesi che avevano nei giorni scorsi firmato un appello a favore della dottrina Mitterand «perché sul tema c’è ancora troppa ignoranza». Eppure a proposito di cambiamenti di linea va registrato che Lazar dieci anni fa intervistato da Paolo Persichetti sul quotidiano Liberazione aveva detto: «Dopo la dietrologia e le commissioni parlamentari di inchiesta ora è il tempo degli storici». Quindi ora non sarebbe più il caso di storicizzare ma di consegnare all’Italia una dozzina di protagonisti di una stagione politica lontanissima e di portarli in carcere adesso che hanno tutti un’età più vicina agli 80 che ai 70.
Lazar aggiunge che dietro la scelta di Macron che lui ipotizza ci potrebbero essere anche ragioni di politica interna. «Forse lui pensa di lanciare un messaggio agli elettori di destra come sta facendo su altri temi come sicurezza e laicità. Macron è già in campagna per la sua rielezione e concentra la sua strategia su questo elettorato». Lazar afferma che i suoi connazionali difensori dei rifugiati politici italiani «non prendono quasi mai in considerazione il punto di vista delle vittime del terrorismo». Dieci anni fa Lazar voleva affidare la questione agli storici mentre adesso invita a tener conto della posizione dei parenti delle vittime mostrando almeno un po’ di invidiare le repubbliche islamiche dove i familiari decidono anche le pene dei colpevoli. Lazar accusa gli intellettuali suoi connazionali di essere ideologici, ma anche lui non scherza. Anzi. Il riferimento alla visita prossima di Mattarella a Parigi non è casuale. Il giorno del rientro in Italia di Cesare Battisti, aveva detto: «E adesso gli altri», parlando di altri condannati e rifugiati all’estero. Il presidente della Repubblica è un politico di grandissima esperienza. Non è un caso che insieme a Giorgio Napolitano suo predecessore al Quirinale abbia fatto prevalere le ragioni della politica firmando la grazia a cinque agenti della Cia condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar. In quel caso Mattarella mise in secondo piano gli anni di carcere da scontare. C’era di mezzo la ragion di Stato o meglio degli Stati perché dall’altra parte c’era il governo degli Stati Uniti d’America. Per le vicende dei cosiddetti “anni di piombo” invece non sarebbe possibile una deroga, una soluzione politica, un provvedimento di amnistia che chiuda un periodo storico, come era scritto nell’appello degli intellettuali francesi che avevano sposato la proposta dell’avvocata Irene Terrel. Terrel aveva spiegato di trovare assurdo l’accanirsi e la vendetta a decenni di distanza. È pura ideologia in fondo anche il non voler prendere atto dell’impossibilità di una memoria condivisa. A Milano in piazza Fontana ci sono due lapidi. In una si legge che l’anarchico Pinelli morì innocente, nell’altra che venne ucciso. Una al fianco dell’altra. La storia la scrivono i vincitori ma gli sconfitti non sono obbligati a condividere.

Francesca Marangoni: “L’arresto non ci ridà papà. Ho detto no all’incontro chiesto dal suo assassino”.  Ilaria Carra su La Repubblica il 29 aprile 2021. Parla la figlia del medico ucciso dalle Br: "Io penso a lui tutti i giorni, mi manca sempre, in maniera diversa. Se fosse vivo in questi momenti l’avrei portato a fare il vaccino". "Faceva più impressione, prima, pensare che persone condannate potessero non essere estradate. Non è una soddisfazione perché non ci riporta indietro rispetto alla perdita, non cambia il dolore, ma dà un senso di giustizia". Francesca Marangoni, medico, oggi ha 57 anni e ne aveva 17 quando nell'81 suo padre, Luigi, venne ucciso dalle Brigate Rosse. Luigi Marangoni era il direttore sanitario del Policlinico e venne ucciso sotto la casa dove viveva con la moglie Vanna e i due figli Francesca e Matteo, in via don Carlo Gnocchi, alle 8,20 del 17 febbraio.

PiazzaPulita, Paolo Mieli sulla firma all'appello contro Calabresi: "Mi vergogno per quello che ho fatto". Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Il caso dei terroristi rossi arrestati in Francia tiene banco a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7, la puntata è quella di giovedì 29 aprile. Ospite in studio ecco Paolo Mieli, che nel 1971 firmò l'appello su L'Espresso per la destituzione di Luigi Calabresi. Un appello che è una delle pagine più vergognose della recente storia italiana, appello che piovve due anni dopo la morte dell'anarchico Pinelli: Calabresi venne additato come maggiore responsabile per quella morte e finì con l'essere ammazzato da un commando rosso il 17 maggio 1972, sotto la sua casa. I firmatari di quell'appello erano più di 500, compresi Umberto Eco, Eugenio Scalfari, Norberto Bobbio. E Formigli chiede a Mieli: "Perché lo ha fatto? E cosa ha pensato anni dopo di questo". Encomiabile la risposta di Mieli: "So che fa strano dirlo, ma in quegli anni pensavamo davvero che ci fosse la mano della Stato ovunque, anche se i conti in certi casi non tornano neppure ora. Le stragi, pensavamo che Pinelli fu scaraventato giù dalla finestra, c'era un clima da vigilia di colpo di Stato", premette. Dunque, Mieli aggiunge: "Anni dopo ho fatto più di autocritica. Io mi vergogno, non provo a rivendicare quanto accaduto: facemmo un errore. Erano gli anni di Pasolini: io so chi è stato, non ne ho le prove ma lo so. Non voglio paragonarmi a Pasolini. Da quella volta, però, mi sono dato un comandamento: prima di dire io so ma non ho le prove, devi riflettere. Se sei un intellettuale o un giornalista serio, prima le cerchi quelle prove". Insomma, da parte di Paolo Mieli un'analisi senza distinguo, senza se, senza ma. 

Giorgia Peretti per iltempo.it il 30 aprile 2021. Mi vergogno di quell’appello”. Questo il commento di Paolo Mieli ai microfoni di Piazzapulita sulla vicenda del commissario Luigi Calabresi ucciso per mano delle Brigate Rosse. La puntata di giovedì 29 aprile, del talk di Corrado Formigli, dedica ampio spazio alle ultime notizie che arrivano dalla Francia sull'arresto degli ex terroristi nell'operazione "Ombre rosse". Dopo una lunga intervista con Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi, dove ripercorre la tragica vicenda del padre è il momento dello storico giornalista. Paolo Mieli nel 1971, scrisse un appello assieme ad altri 500 firmatari de L’Espresso in cui si chiedeva la destituzione del commissario Calabresi, due anni dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Mieli, dopo anni, torna sulla vicenda dell’appello e sembra pentito della sua posizione sui fatti: “In quegli anni pensavamo che veramente ci fosse la mano dello stato dietro le stragi. Che Pinelli fosse stato scaraventato giù da una finestra e a quelle stragi se ne stavano accompagnando altri. C’era un clima di tensione, eravamo alla vigilia di un colpo di stato” racconta il giornalista. “Io anni dopo l’appello sono stato uno tra quelli che ha fatto pubblica critica. Io mi vergogno delle cose che sto dicendo, non provo a rivendicarle, facemmo un errore abbiamo dato una colpa a qualcuno con una scusa. Dicevamo: io so chi è stato non ho le prove. Ma so chi è stato” continua Mieli. Il conduttore gli sottolinea come ci sia stato un furore ideologico attorno al commissario Calabresi, come questo omicidio fosse nell’aria. E che Calabresi fosse una vittima predestinata. Mieli ribatte così: “Mi sono dato un comandamento ma non ho le prove, rifletti prima di dire una frase di questo tipo, oppure cercale le prove. A fare: ‘io so ma non ho le prove tanto poi pagano altri.’ Tanto poi a sparare sono altri e io poi vado avanti e ridirò la stessa cosa: ‘io so, ma non ho le prove’. Beh, io mi vergogno davvero di quella cosa. Non è una bella pagina della mia vita” conclude lo storico.

L'intervento del giornalista dopo i 7 arresti in Francia. Calabresi su Pietrostefani, arrestato per l’omicidio del padre: “Nessuna soddisfazione per un anziano malato in carcere”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Nel giorno in cui la Francia di fatto cestina la dottrina Mitterand, la politica avviata dall’ex presidente francese che garantiva ospitalità e sicurezza a cittadini italiani responsabili di azioni violente, purché questi avessero lasciato la lotta armata e la violenza, c’è chi da “protagonista” delle vicende che hanno portato oggi all’arresto di sette ex terroristi rossi prende una posizione che nell’Italia del ‘pensiero unico’ è quantomeno scomoda. Mario Calabresi, giornalista ed ex direttore di Repubblica, ma soprattutto figlio di quel Luigi Calabresi ucciso da Lotta Continua nel 1972 perché ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, non riesce a provare “soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo”. Il riferimento è all’arresto a Parigi di Giorgio Pietrostefani, tra i fondatori di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio Calabresi, del quale si è sempre dichiarato innocente. Pietrostefani dopo aver scontato due anni di pena fuggì in Francia, protetto dalla dottrina Mitterrand. Fino ad oggi, quando la polizia francesi ha arrestato lui ed altri sei ex terroristi rossi, accusati in Italia di atti di terrorismo commessi negli anni ’70 e ’80: tra questi Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse, e Narciso Manenti, dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale. Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo. Dall’altra parte Calabresi sottolinea anche che con la ‘retata’ odierna “è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso” e che “la giustizia è stata finalmente rispettata”.

L’OMICIDIO CALABRESI – Luigi Calabresi fu ucciso il 17 maggio 1972 a Milano. Era accusato dall’opinione pubblica di sinistra di essere il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla finestra della Questura in una misteriosa circostanza. Secondo la sentenza definitiva Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, entrambi militanti di Lotta Continua, uccisero il commissario durante un agguato, il primo materialmente sparò il colpo mortale, il secondo guidava l’auto per la fuga. I mandanti dell’omicidio furono invece Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. La condanna si basò sulle dichiarazioni di Marino, l’unico ad aver ammesso dopo essersi pentito le responsabilità nell’omicidio, raccontando la sua versione dei fatti. Marino fu inizialmente condannato a 11 anni di carcere per poi veder ridotta la sua pena dopo essersi pentito, fino a che questa non cadde in prescrizione perché le more dei ricorsi del processo fecero scattare la prescrizione. Pietrostefani ai tempi della condanna già risiedeva in Francia. Tornò in Italia il 1997 per prendere parte al processo e lì fu arrestato. Scarcerato nel 1999 per la revisione del processo e condannato ancora nel 2000, per sottrarsi all’esecuzione della condanna definitiva si rifugiò in Francia dove fino ad ora gli era stata accordata la protezione giuridica della dottrina Mitterrand.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Mario Calabresi per "Altre Storie" il 29 aprile 2021. “Passato o Futuro?”, è la domanda che faccio a chiunque si iscriva a questa newsletter e, fin dall’inizio, il passato è in leggero ma costante vantaggio sul futuro. Forse perché è più rassicurante, non contiene incognite e i ricordi spesso tengono compagnia. Ci voleva una donna che sta per compiere 92 anni, Natalia Aspesi, per darmi una risposta diversa: il presente. «Quello che conta è il presente. Il passato sarà stato anche meglio ma il presente non sbaglia mai». Sono tornato da Natalia, che avevo raccontato qui a novembre, perché volevo intervistarla ancora per avere la sua voce nel mio podcast (se cliccate qui potete ascoltarla). Per chiederle qual è il segreto per arrivare a 92 anni con lo spirito che ha lei. Mi ha risposto decisa: «La curiosità» e mi ha raccontato che continua a coltivare il futuro e che la cosa che la fa più arrabbiare è che «siamo sempre lamentosi». «Quello che mi impressiona è la mancanza di voglia di speranza. Cioè nessuno è più positivo, nessuno è più ottimista, tutti vedono il nero». Ecco alcuni passaggi dell’intervista, proprio sul tema che a me e a lei sta più a cuore.

Per te che cos’è il futuro?

«Beh, intanto cosa mangerò stasera che è già un problema, ci devo ancora pensare. Ma poi, sai, i sogni li faccio lo stesso. Io, in fondo, penso di averlo il futuro, sapendo che non ce l’ho, ma sono due cose che stanno insieme».

Quanto tempo occupano i ricordi e il passato nelle tue giornate?

«Io non ricordo niente, nulla: non solo ho dimenticato nel vero senso della parola, ma poi per me il passato è passato, non mi interessa».

Forse è questa la tua forza, che vivi nel presente e nel futuro.

«Chissà il futuro. Il presente di sicuro. Io non mi metto mai a dire: “Oh come era bello”».

Non li rimpiangi mai “i bei tempi perduti”?

«No, non li ho perduti, li ho avuti. Non li ricordo ma ci sono stati e fanno parte anche del mio presente, di quello che sono. Però non ho tempo per i ricordi».

Ma davvero c’erano, secondo te, i bei tempi?

«Sai io credo che ognuno li abbia, sono i tempi della giovinezza. Io, per esempio, sono felicissima di essere vecchia, perché ho vissuto la guerra che mi ha forgiato, mi ha insegnato a essere sicura di me perché mia madre mi abbandonava, in quanto doveva lavorare, e io andavo in giro da sola nella Milano bombardata. Poi la fine della guerra, l’inizio della ricostruzione, la gioia della libertà. Gli anni anche duri, che sono stati quelli del terrorismo. Però c’era lo stesso tantissima speranza e, soprattutto, è nato il femminismo».

A questo punto parliamo delle conquiste del femminismo e delle critiche ripetute che lei fa a quello che definisce il “femminismo vittimista” che perde di vista le cose importanti e qui torna a parlare dell’importanza del presente.

«È il presente che conta, non come lo vedo io, ma come lo vive la gente. Quando io faccio questi discorsi sulle donne, io so di sbagliare. Li faccio perché voglio mantenere il mio pensiero, ma io so che ha ragione chi fa altro, lo so, perché il presente è più forte e deve essere più forte del passato. Il passato sarà stato anche meglio ma il presente non sbaglia».

Nella lunga intervista per il podcast mi parla del suo amore per i libri, che invadono ogni angolo della sua casa, delle migliaia di lettere della “Posta del cuore” del Venerdì di Repubblica che ha conservato, e del colpo di fulmine per il cinema, scattato quando aveva cinque anni e la mamma, per lavorare, la lasciava insieme alla sorella al cinema ogni pomeriggio.

Infine, parliamo dei suoi sogni dopo il lockdown, dopo un anno passato in casa.

«Ho un sogno: andare alla Rinascente. Sto pensando di comprarmi uno di quei seggiolini che usano i vecchi signori che giocano al golf per andare alla Rinascente e potermi fermare davanti ai banchetti di lenzuola, di posate, di tutto ciò che riguarda la casa. Un’altra cosa che vorrei assolutamente fare è andare al Victoria and Albert Museum e poi, sempre a Londra, alla Tate Modern e visitarle per l’ennesima volta. Sì, quello è un mio desiderio e poi tornare giù nella mia casetta in Salento, a vedere i nuovi alberi che ho piantato».

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021.

Mario Calabresi, cosa ha pensato quando è arrivata la notizia?

«Confesso di essere rimasto sorpreso. Se n' era parlato molto negli ultimi due anni, ma non pensavo che sarebbe mai accaduto».

È corretto dire che ci sperava?

«Più come italiano che come privato cittadino. Ho sempre pensato che il rispetto delle sentenze che condannavano queste persone sarebbe stato un gesto molto importante per tutti noi».

Per chiudere davvero con gli anni di piombo?

«Non solo. Ho sempre trovato odioso e grave che la Francia non rispettasse le sentenze italiane. La dottrina Mitterrand prevedeva di dare asilo a chi non aveva le mani sporche di sangue. Poi, negli anni, è accaduto qualcosa».

La famosa interpretazione estensiva?

«Era piuttosto un lassismo che fu applicato per compiacere un mondo intellettuale francese che si divertiva a dipingere l'Italia degli anni Settanta come il Cile di Pinochet. E questo ha di fatto sempre protetto e tutelato chi aveva ucciso altri esseri umani».

Ieri la dottrina Mitterrand è stata sconfessata per sempre?

«Tutt' altro. Per una volta è stata invece applicata alla lettera, ristabilendo così un principio fondamentale ignorato per quasi quarant' anni. Ieri tra Italia e Francia è stata scritta una pagina importantissima per il rispetto delle verità storica e giudiziaria del nostro Paese».

Invece qual è il suo sentimento privato e personale?

«Come mia madre e i miei fratelli, non riesco a provare alcuna soddisfazione. L' idea che un uomo anziano e molto malato vada in galera non è di alcun risarcimento per noi».

La fuga in Francia non è stata una scelta ben precisa?

«Come no. Durante il processo di revisione a Mestre, un giorno mio fratello Paolo si rivolse a mia madre. Guardalo bene, le disse, che secondo me non lo rivedi più. Sapevamo che sarebbe successo».

Perché due anni fa decise di incontrarlo?

«Era giunto il tempo di guardarlo in faccia. Di fare una cosa per me stesso. Fu la prima cosa che gli dissi quando ci vedemmo in un hotel a Parigi. Sono qui non come giornalista, non come scrittore, ma come figlio del commissario Calabresi».

Ha trovato le risposte che cercava?

«Il nostro colloquio di quel giorno rimarrà sempre una questione privata, tra me e lui. Per me è stato un momento di pacificazione definitiva, che mi è servito molto. Credo che a livello emotivo non sia stato facile neppure per lui».

Che impressione le fece?

«Un uomo stanco e malato. Molto diverso dalla persona spavalda vista durante i processi. Oggi non provo livore o rancore nei suoi confronti».

Proprio Pietrostefani ha detto una volta che la verità storica sull' omicidio del commissario Calabresi non esiste.

«Penso che tutte le persone munite di onestà intellettuale debbano riconoscere che sulla morte di mio padre verità storica e verità giudiziaria coincidono».

Firmerebbe una eventuale domanda di grazia?

«Non siamo nel Medioevo. Non sono le famiglie delle vittime a dover decidere, ma le istituzioni. Si tratta di un percorso e di decisioni da prendere nell' interesse generale. Al netto delle condizioni di salute di Pietrostefani, penso piuttosto a un provvedimento generale, che arrivi alla fine di un percorso collettivo. Qualcosa di simile alla Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta da Desmond Tutu in Sudafrica. Clemenza, in cambio della verità su quegli anni».

O dell'ammissione delle proprie colpe?

«Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro responsabilità».

E se lo facessero?

«Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle persone in galera per il resto della loro vita. All' improvviso abbiamo una occasione inattesa e irripetibile per fare un bilancio compiuto, con il contributo degli ultimi latitanti arrestati in Francia. Se si riuscisse a coglierla, sarebbe quasi doveroso un provvedimento che sancisca la fine di quella stagione».

La sua testimonianza ha contribuito a cambiare quel bilancio?

«Se fosse così, ne sarei fiero. Quando nel 2007 scrissi il libro che parlava di mio padre e della mia famiglia, per me era cambiare la narrazione su quegli anni, dove mancava del tutto il punto di vista delle vittime. Mai avrei immaginato di avere così tanto riscontro».

Quante volte le hanno chiesto se era convinto della colpevolezza delle persone condannate per l' omicidio di suo padre?

«Meno di quanto si possa credere. Al termine di un iter giudiziario lunghissimo, senza precedenti nella storia repubblicana in quanto a garanzie per gli imputati, non penso che qualcuno possa più avere dubbi».

A guardare indietro, c' è qualche dettaglio che più di altri le fa ancora male?

«Il giorno dopo l'omicidio di mio padre, sul Corriere della Sera apparve un solo necrologio firmato da un privato cittadino. Fatico a pensare alla solitudine che lo circondò anche da morto. Era tanto tempo fa, erano tempi feroci».

Passa spesso da via Cherubini?

«Ogni tanto ci vado. Mi fermo davanti alla lapide in pietra di montagna che ricorda mio padre. Ci sono sempre dei fiori e dei bigliettini portati dai milanesi. La gente capisce, e non dimentica. E questa per me è la cosa più importante».

Da “Altre/Storie” di Mario Calabresi il 30 aprile 2021. Negli anni, ogni volta che mia madre ha voluto parlarci di qualcosa di delicato o che le stava particolarmente a cuore, ci ha offerto un caffè al tavolo rotondo della sua cucina. Poteva capitare a uno solo di noi fratelli, i suoi figli, ma anche che ci convocasse tutti insieme. In quest’ultimo caso significava che il messaggio era davvero importante. Potrei chiamare quei caffè “gli insegnamenti della cucina”. Negli ultimi tempi ho pensato che avrei voluto fare una cosa strana: intervistarla. Non è cosa usuale un figlio che intervista sua madre, ma mi sono convinto che quei dialoghi della cucina meritassero di essere raccolti e condivisi. Perché non hanno valore soltanto privato, sono riflessioni sul senso della giustizia, sulla memoria, sul tempo che passa e ci chiede di essere capaci di lasciare andare, sull’importanza di avere uno sguardo positivo sulle cose. Così, non senza difficoltà, l’ho convinta a registrare un podcast, che pensavo potesse uscire intorno al 17 maggio, quarantanovesimo anniversario dell’omicidio di mio padre. Poi, mercoledì mattina, la notizia dell’arresto in Francia di quel gruppo di ex terroristi condannati per reati di sangue, che a Parigi avevano trovato da decenni accoglienza e coperture, mi ha spinto a concludere il nostro dialogo, che potete ascoltare qui, partendo proprio dall’attualità e ad anticiparne l’uscita pensando che le sue parole potessero essere una risposta – la sua risposta- ai tanti sentimenti che questo arresto ha smosso tra le persone. Abbiamo parlato del valore della giustizia, anche quando arriva in grande ritardo, della verità storica, ma soprattutto di come si fanno i conti con qualcosa che continua a visitare i sogni, anche dopo mezzo secolo. Per mia madre, Gemma Capra, la vita ha preso una nuova strada dopo la morte di mio padre, e una ancora diversa dopo la pubblicazione del suo necrologio. Ecco alcuni passaggi del nostro incontro, questa volta non davanti a un caffè, ma a due microfoni.

Mario: «Hai detto che la memoria cammina, ha le gambe. E partiamo da quel necrologio particolare che apparve sul Corriere della Sera. Che cosa diceva?».

Gemma: «Il necrologio erano le ultime parole di Gesù sulla croce e cioè “Padre, perdona loro” rivolgendosi ai suoi assassini “perché non sanno quello che fanno”. Ecco, io in quel momento non sarei riuscita a scegliere una frase del genere e quindi l’ha scelta per mia mamma, tua nonna, che era una donna di grande fede. Io però, quando lei me l’ha proposta, l’ho accettata molto volentieri, pensando che era giunto il momento di spezzare questa catena di odio, di rancore e di violenza, con una frase d’amore. E quindi ho accettato di scriverla».

Mario: «L’hai accettata ma poi tu come hai vissuto quei primi anni? Io ero così piccolo che mi ricordo solo i dettagli, tu che piangevi con la testa tra le mani alla scrivania, noi che andavamo per la strada e c’erano i fotografi che ci inseguivano».

Gemma: «È stato un periodo veramente difficile, molto difficile. Siamo andati ad abitare a casa dei nonni e avevamo comunque tanto affetto, l’affetto dei miei fratelli, le mie sorelle, l’affetto delle persone care e quindi riuscivamo comunque anche a ridere. Questo sì, io me lo ricordo. Ecco, si viveva. Se tu ti ricordi, io ho scelto da subito di farvi vivere non nel rancore e nell’odio. Poi io mi sono messa a insegnare religione alla scuola elementare e devo dire che, insegnando ai bambini, che sono una cosa meravigliosa, spontanei, avevo la sensazione quasi di tradirli. Perché quando io spiegavo il Vangelo o parlavamo dell’amicizia, del rispetto, del perdono, io poi avevo la sensazione a volte di tradirli. Io gli insegno il perdono ma io in realtà assolutamente non ho perdonato perché tu scopri che il perdono non lo dai con la testa, con l’intelligenza, lo dai solo col cuore e quindi non puoi prenderti in giro. O sei sicuro o niente da fare insomma».

Mario: «Pensi di essere arrivata dove volevi arrivare?».

Gemma: «Penso di sì. Ho dei momenti ancora magari difficili. Però io volevo arrivare a pregare per loro e io riesco a farlo. Ogni giorno nelle mie preghiere, io prego perché loro abbiano la pace nel cuore. Questa cosa mi dà pace, mi dà serenità, mi dà anche gioia e io ci tengo a dire che il perdono non è una debolezza. Voglio dirti che il perdono è una forza, ti fa volare alto».

Mario: «Tu hai avuto il coraggio, non senza alcune critiche, di risposarti, di darci un padre, che è stato un passo fondamentale, così è arrivato Tonino, Tonino Milite, che era un tuo collega di scuola, maestro di scuola elementare, pittore e poeta. Si può ben dire che ci hai fatto un gran regalo perché per quanto tu facessi, non è che fossimo bambini allegri».

Gemma: «No, le foto tue poi… Gli altri forse già di più, ma le foto tue erano proprio di un bambino triste».

Mario: «E invece Tonino ha colorato le nostre vite. Ci ha fatto ridere ci ha fatto fare la lotta, ci ha ridato anche quello che significa un padre, con tutto quello che ne consegue. Anche gli scontri. Io ricordo nella mia adolescenza scontri epici con Tonino. Però la storia di Gigi ha continuato a essere in te in un certo senso tutti i giorni. Come hai fatto a gestire le due cose? Come ha fatto Tonino?».

Gemma: «Tonino è stato veramente generoso perché lui ha abbracciato la nostra causa. Per cui ci ha seguito nei processi, ci ha aiutato quando dovevamo fare qualche intervista, ci è stato veramente vicino e quindi è stato importantissimo per noi. Ci siamo sentiti anche appoggiati e poi lui ha portato una ventata di giovinezza, anche se giovani eravamo, e ha tolto quel senso di cupo dalla nostra casa, vi ha fatto ridere, ha inventato un sacco di giochi, è stato importante. Io, ovviamente ho continuato a essere la signora Calabresi, anche quando ero con lui e dicevo Milite. Ricordo un giorno, quando mi presentarono come la signora Calabresi, e quando venne il suo turno lui disse: “Io sono il fantasma”».

Un passaggio fondamentale del suo racconto sono gli incontri con Licia, la vedova di Giuseppe Pinelli, avvenuti a Roma e a Milano, l’ultimo grazie al presidente Mattarella nel giorno del cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana.

Gemma: «Ci siamo salutate, ci siamo prima date la mano, ci siamo guardate e poi dopo ci siamo abbracciate e io l’ho fatto con tanto amore. Ho pensato che anche in quella casa, un giorno, il papà non è più rientrato e che quindi quel dolore lì ci accomunava. Ecco perché potevamo… Anche se due vite diverse, ecco perché potevamo abbracciarci, capirci. E la vedova Pinelli mi ha detto “Peccato non averlo fatto prima” una frase bellissima. Poi ho incontrato le figlie a volte nella Giornata della Memoria e ultimamente, proprio vicino a casa mia, in bicicletta, ho incontrato una delle figlie. Non potevamo abbracciarci, perché avevamo le mascherine, però ci siamo salutate con molto affetto».

Alla fine della registrazione del nostro podcast, mia madre si è accorta che nello studio c’era una batteria, allora ha cominciato a muovere le mani nell’aria come se stesse suonando, così ho scoperto che a 17 anni, con il suo primo stipendio, andò da Ricordi a Milano e comprò una batteria. La regalò a suo padre. La suonavano insieme la sera accompagnando i dischi, soprattutto quelli del suo gruppo preferito: i Beatles. Non ce lo aveva mai raccontato.

Estratto dell’articolo di Mario Calabresi per "la Repubblica" il 30 aprile 2021.

(…) Mario: Ti avevo chiesto di fare questa intervista per l'anniversario del 17 maggio, volevo ragionare con te su questo mezzo secolo, su tutto ciò che ci hai insegnato e sul percorso di pacificazione che ti sta a cuore. Adesso però la cronaca è tornata prepotentemente nelle nostre vite. A Parigi è stato arrestato Giorgio Pietrostefani, insieme ad altri condannati per terrorismo. E allora non posso che partire da lì e chiederti qual è la prima sensazione che hai avuto quando hai sentito la notizia?

Gemma: Un fulmine a ciel sereno, una cosa che non mi aspettavo più.

Mario: Ma che sentimento prevale in te in questo momento?

Gemma: Molteplici sono i sentimenti. Prima di tutto un chiaro e forte segno di giustizia e anche di democrazia. Certo, avrebbe avuto un altro senso per la nostra famiglia se fosse accaduto una ventina di anni fa. Tuttavia, penso che, da un punto di vista storico, quello che è successo sia veramente fondamentale.

Mario: Credo anche io che con questo gesto sia stata finalmente sanata una ferita tra l'Italia e la Francia, una ferita che era aperta da troppo tempo. Anche perché la dottrina Mitterrand non è stata sconfessata da Macron con questi arresti, ma finalmente interpretata correttamente. Perché il presidente francese aveva previsto l'accoglienza e l'asilo in Francia per chi lasciava l'Italia, ma non per chi si era macchiato le mani di sangue. E quindi oggi questo è stato ribadito.

Gemma: È per questo che dico che è un segno di democrazia, perché la Francia, che ha ospitato e tutelato degli assassini per troppi anni, oggi finalmente riconosce e accetta le sentenze dei tribunali italiani. Ricordo che durante il processo di revisione a Mestre tuo fratello Paolo mi disse: "Guarda bene Pietrostefani perché da domani non lo vedrai più". Era chiaro a tutti che sarebbe scappato in Francia.

Mario: Però hai detto che dentro di te ci sono molteplici sentimenti. Il primo è un senso di giustizia. Cos' altro senti, cos' altro provi?

Gemma: Oggi io sono diversa, ho fatto un mio cammino, ma credo che anche loro non siano più gli stessi. E tra l'altro sono anziani e malati.

Mario: Cosa significa per te questo?

Gemma: Che oggi non mi sento né di gioire né di inveire contro di loro, assolutamente.

Mario: Ti aspetti qualcosa adesso?

Gemma: Non voglio illudermi ma penso che sarebbe il momento giusto per restituire un po' di verità. Sarebbe importante che a questo punto delle loro vite trovassero finalmente un po' di coraggio per darci quei tasselli mancanti al puzzle. Io ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e sono in pace. Adesso sarebbe il loro turno.

Mario: Come hai fatto a fare questo cammino?

Gemma: Io ho scelto da subito di farvi vivere non nel rancore e nell' odio, ma ho fatto il possibile per darvi la gioia di vivere e di credere ancora nell' umanità, nell' uomo e nelle persone, nonostante tutto.

Mario: Avevi 25 anni e vedevi l'uomo che amavi e che consideravi una persona per bene, che non c'entrava nulla con le accuse che gli venivano mosse, che subisce questa campagna di linciaggio, le minacce, le scritte sui muri, le lettere minatorie. Poi viene ammazzato sotto casa. Come facevi ad avere ancora fiducia negli esseri umani?

Gemma: Io non l'ho mai persa, devo dire la verità. Perché quelle persone lì non rappresentavano l'umanità, non rappresentavano l'Italia. Io ho ricevuto centinaia e centinaia di lettere di solidarietà, lettere di affetto, io non mi sentivo sola. Per me la minoranza erano quelli che avevano deciso di ucciderlo, erano quelli che per un'ideologia sbagliata hanno costruito a tavolino un mostro al quale non corrispondeva assolutamente Gigi.

Mario: Incredibile la solidarietà che ho visto. Quasi cinquant' anni dopo la gente ti ferma ancora al mercato.

Gemma: Sì, è bello. Mi ha aiutato a vivere questo. Io dico sempre "Non ce l'ho fatta, ce l'abbiamo fatta". Perché io ce l'ho fatta grazie a tutte le persone che mi vogliono bene, ancora oggi. (…)

Mario: Ma torniamo a te, quante volte ti viene in mente quel giorno di 49 anni fa?

Gemma: Ci sono dei periodi che mi viene in mente spessissimo. Ho dei sogni ricorrenti. Sogno che lui viene ucciso. Per esempio, l'ultimo: siamo al ristorante e si sente tipo un boato in lontananza e io dico "è una bomba, scappiamo" e lui dice "ma no, ma stai tranquilla, aspetta". Poi, a un certo punto, io so che sono fuori, all' aperto, come se fossi scappata e c' è un altro boato forte, una bomba che distrugge tutto e lui muore. Oppure noi scappiamo, siamo rincorsi, però già sappiamo che lui non ce la farà. Non so, c' è questa sensazione nel sogno. Ecco, questo non mi ha mai abbandonato, poi magari per dei mesi non lo sogno e poi ritorna.

Mario: E c' è lui? Te lo ricordi bene?

Gemma: Sì sì sì, c' è lui. Lo rivedo. Lui è giovane, è questo il guaio. Però nel sogno sono giovane anch' io.

Mario: cosa ti sta più a cuore oggi?

Gemma: Voglio lasciare a voi una testimonianza positiva della vita. Io vi dico una cosa: senz' altro è stata una vita pesante, ma sapete che non la cambierei? Perché è stata una vita intensa, ricca e piena di affetti, di amore, di gente che mi vuole bene. Eh, se io guardo gli altri, no, non mi cambierei. Qualche volta mi viene un po' di rabbia quando vedo le persone anziane ancora insieme per mano, allora lì ho un attimo di debolezza, ma è bene così, è bella così. La mia vita comunque è stata bella.

IL GIUDICE SPARÌ A ROMA NEL 1994. Paolo Adinolfi, la rabbia della figlia: «Calabresi e gli altri trattati come eroi, ma mio padre giudice?». Lettera aperta di Giovanna Adinolfi, avvocatessa: «Oggi è facile prendere anziani ex terroristi a Parigi. Difficile è risolvere questioni aperte... Papà fu vittima delle infiltrazioni criminali in Tribunale, nel silenzio di di Csm e Anm». Giovanna Adinolfi su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2021. Paolo Adinolfi, giudice a Roma, scomparso nel 1994 a 52 anni e mai più ritrovato. «Mio padre è stato un giudice della Repubblica italiana...» È rimasta defilata per quasi tre decenni. Con il suo dolore e la sua amarezza. Ha delegato alla mamma e al fratello, Lorenzo, avvocato come lei, un compito arduo: tentare di ottenere la verità sulla fine di suo padre, Paolo Adinolfi, giudice del tribunale fallimentare di Roma negli anni Ottanta del secolo scorso, scomparso il 2 luglio 1994, mentre svolgeva delle commissioni nel centro di Roma, tra il quartiere Prati e il Flaminio. Le indagini si conclusero con un nulla di fatto, dopo la riapertura ottenuta nel 1996 dalla famiglia in base alle parole di un pentito. Ma il magistrato di Perugia che firmò la seconda archiviazione parlò di «azione delittuosa» da mettere in relazione alla «delicatezza degli affari trattati dalla Fallimentare», alla «notevole rilevanza degli interessi economici coinvolti» e alla «asprezza delle reazioni suscitate» nei soggetti criminali colpiti. Eliminato perché con il suo rigore dava fastidio, insomma. Un giudice alto servitore dello Stato, vittima di «lupara bianca» nel cuore del capitale, negli anni in cui imperversavano potentati economici e criminali (banda della Magliana) ben introdotti negli apparati dello Stato. Il corpo in quasi 27 anni non è stato trovato. E adesso la figlia maggiore, Giovanna Adinolfi, avvocatessa civilista, per la prima volta rompe il silenzio con questa «lettera aperta» sgorgata dal cuore, all’indomani degli arresti degli ex terroristi italiani in Francia. È l’analisi amara di una figlia colpita dalla tragedia di veder sparire il proprio papà a vent’anni, di una cittadina indignata per l’isolamento in cui è stata lasciata la sua famiglia e di una professionista del diritto quasi incredula di fronte alla sconfitta della giustizia. (fabrizio peronaci)

Caro direttore, mi piacerebbe dire che li invidio, ma non sarebbe vero. L’invidia, senza alcun merito, non ce l’ho nel Dna, come gli occhi azzurri e le gambe lunghe. Razionalizzando, se fossi una persona invidiosa sarebbe comunque assurdo provare invidia per chi è orfano da tanto tempo. Per chi ha sofferto tanto. A voler trovare una cosa buona nella disgrazia, ho imparato a rispettare sempre il dolore altrui come assoluto, anche quando il peso che portano gli altri mi pare tanto più leggero del mio. Fastidio però oggi ne provo tanto, anche se ovviamente non è colpa delle vittime e delle loro famiglie. Benedetta Tobagi. Mario Calabresi. Gli altri, meno famosi, figli e parenti delle vittime. Oggi la signora Calabresi dice che finalmente può “sperare nella verità”. I giornali dicono che le vittime del terrorismo hanno avuto giustizia. Giustizia contro distinti signori settantenni che non si ricordano neppure le facce delle vittime, che tra gli omicidi e oggi hanno vissuto un’altra vita, ma pur sempre giustizia. Negli anni passati invece queste famiglie hanno avuto un nemico. Facce barbute di ragazzini ventenni che giocavano a fare la rivoluzione con le pistole vere. Hanno avuto qualcuno da perdonare. Da combattere. Da inseguire. Da odiare, volendo. Dei loro padri si è parlato, spesso come di eroi (di Calabresi non sempre), e nessuno li ha dimenticati. Sono andata a guardare su wikipedia le onorificenze del Commissario Calabresi, le opere dedicate a Walter Tobagi, le medaglie ai carabinieri ed agenti uccisi dai terroristi. Immagino siano un conforto. E oggi in Italia è festa. Mario Draghi è soddisfatto. I perfidi terroristi sono stati arrestati. Mio padre, anche se ormai lo ricordano in pochi, è stato un giudice della Repubblica Italiana. Come i padri di Tobagi e Calabresi e di tanti altri, è uscito per andare a lavorare. Come questi padri non è mai tornato a casa. A differenza loro, però, non ha mai avuto un funerale. I suoi nemici non erano ragazzini barbuti ed armati. Erano colleghi. Erano avvocati. Erano politici. Era la maledetta mafia/camorra/banda della Magliana che negli anni ’80 e ‘90 era infiltrata nel Tribunale di Roma, oramai lo sappiamo tutti. E quando papà non è tornato a casa, lo Stato non ha fatto nulla. Quando non ha trovato le amanti, le ballerine brasiliane, i conti nascosti, quando non si è riusciti a sputtanarlo nonostante ci abbiano provato in tutti i modi (persino la tesi delle manie religiose è stata spazzata via in due giorni) ci hanno detto di accontentarci, era stato fatto il possibile. Non si trova, Forse (?) si è suicidato. Tutto nel silenzio dell’Associazione Nazionale Magistrati, del Consiglio Superiore della Magistratura, e dei colleghi. Un solo giudice coraggioso del Tribunale di Perugia lo ha cercato con dedizione, ma (non per colpa sua) è intervenuto troppo tardi. Con il suo provvedimento di archiviazione, lo Stato ha finalmente preso posizione, e si è arreso. Le ragioni della scomparsa di papà sono nel suo lavoro, ma lo Stato ammette di non essere stato capace di trovare i responsabili. Facile andare a prendere a Parigi degli anziani che vivono lì da tanti anni senza nascondersi. Difficile andare a risolvere questioni ancora aperte, disturbando persone potenti ancora vive, o i loro figli. Mio fratello ed io non crediamo più nello Stato. Nella giustizia umana non abbiamo mai creduto, e paradossalmente ce lo ha insegnato proprio papà, che diceva sempre che il diritto e la giustizia sono due cose diverse. Oggi però siamo infastiditi e un po’ più tristi perché una volta di più emerge che in Italia ci sono morti e morti, e che nessuno farà per papà quello che è stato fatto per altri servitori dello Stato. Dopo 27 anni non abbiamo speranze, e come ci suggerì uno dei giudici che (non) indagò all’epoca, non ci resta che sperare nella pietà di chi ha ucciso Paolo Adinolfi, ed implorarlo di farci sapere dov’è. E’ troppo tardi per medaglie, comprensione, empatia e manifestazioni di affetto. Non ci interessa avere giustizia, e tutto sommato anche alla verità possiamo rinunciare. Vogliamo solo portargli un fiore.

28 aprile 1977: così moriva Fulvio Croce, che prima della vita mise il diritto. Avvocato ed ex partigiano, Fulvio Croce fu assassinato 44 anni fa in un agguato delle Brigate Rosse. Le stesse che cinque giorni dopo avrebbe difeso in Aula. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 aprile 2021. L’avvocato è necessario, anche quando è sgradito. Fulvio Croce di questo doveva essere certo quando decise di presentarsi in Tribunale con un bersaglio sopra la testa. L’allora presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino morì per mano di coloro che lui stesso avrebbe difeso, le Br, e offrì con la vita l’unica risposta possibile al cortocircuito giudiziario che si veniva creando: lo Stato di diritto prevale, ci insegna Croce, sopra lo Stato stesso e su chi gli si oppone. Questa parte di Storia che dura ancora finì per chi la scrisse un pomeriggio di 44 anni fa, il 28 aprile 1977: Fulvio Croce – settantasei anni, civilista, ex partigiano – sta rientrando al suo studio in via Perrone, Torino. Scende dall’auto e si avvia a piedi sotto una pioggia scrosciante. Lo accompagnano due segretarie, trattenute con una scusa poco prima di superare l’androne. Un giovane urla “Avvocato!”: Croce fa per voltarsi quando cinque colpi di arma da fuoco lo raggiungono al torace e alla testa. Muore sul posto. I suoi assassini, tre uomini e una donna in tutto, si allontanano rapidamente su una Fiat 500 che li attende con un quarto uomo alla guida. Si trattava di Rocco Micaletto, riconosciuto come autore materiale, Lorenzo Betassa e Angela Vai, suoi complici, e Raffaele Fiore, l’autista.  I proiettili erano partiti da una Nagant M1895, la stessa arma di costruzione cecoslovacca che sette mesi dopo avrebbe ucciso il vicedirettore de “La Stampa” Carlo Casalegno. Alla “Stampa” arrivò anche la notizia: quello stesso pomeriggio di aprile le Brigate Rosse rivendicarono con una telefonata l’omicidio. E il movente fu chiaro a tutti: cinque giorni dopo Croce avrebbe dovuto difendere in Aula gli imputati del maxiprocesso ai “capi storici” delle Brigate Rosse, violando così l’ordine che l’organizzazione aveva impartito. «Gli avvocati nominati dalla corte sono di fatto degli avvocati di regime. Essi non difendono noi, ma i giudici. In quanto parte organica ed attiva della contro- rivoluzione, ogni volta che prenderanno iniziative a nostro nome agiremo di conseguenza», recitava la sentenza di condanna che gli imputati avevano pronunciato un anno prima, all’udienza del 25 maggio 1976, ricusando la difesa. Il processo era iniziato il 17 maggio 1976, e in occasione della prima udienza, il “compagno Mao” Maurizio Ferrari lesse per conto degli altri 44 imputati – tra i quali Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari – un comunicato: «Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse, e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo, gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori, hanno da difendere la pratica criminale, antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se difensori dunque devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa, e li invitiamo nel caso fossero nominati di ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale, e per questo lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d’ordine: portare l’attacco al cuore dello Stato». La dichiarazione ottenne l’effetto sperato: il processo si impantanò in una dolorosa palude, gli ingranaggi della giustizia scricchiolarono fino a fermarsi. Nessuno, dei difensori d’ufficio che furono nominati, volle l’incarico. E al presidente della Corte non restò che assegnare il mandato al presidente del Consiglio dell’Ordine, come prevedeva l’articolo 130 comma 2 dell’allora codice di procedura penale. Croce accettò, così ripristinando la grammatica processuale e la funzione stessa dell’avvocato con “lealtà, onore e diligenza”, come sancisce l’articolo 8 della legge professionale forense. Il processo fu rinviato, la nuova udienza fissata al 3 maggio 1977. Ma quel giorno in Aula Croce non poté presentarsi. Il Foro di Torino insorse: chi, all’interno del Consiglio dell’Ordine, avrebbe accettato l’incarico dopo quell’efferato omicidio? Seguirono ancora rinvii, anni bui di sangue ed esecuzioni. Nel 1978 il processo finalmente riprese e si concluse il 23 giugno di quello stesso anno. Al collegio di difensori si aggiunse volontariamente il nuovo presidente del consiglio dell’Ordine di Torino, Gian Vittorio Gabri. Degli imputati, 29 furono condannati, 15 assolti. Il 20 febbraio 1980, fu arrestato a Torino e condannato a tre ergastoli Rocco Micaletto. Il suo complice, Lorenzo Betassa, morì pochi mesi dopo a Genova, in uno scontro a fuoco con la polizia. Angela Vai, la donna che aveva il compito di allontanare le segretarie, venne fermata nello stesso anno, processata e condannata all’ergastolo.

Scopelliti e Croce, quei destini incrociati di due servitori dello Stato. Il magistrato Antonino Scopelliti e l'avvocato Fulvio Croce furono entrambi uccisi, il primo dalla mafia e il secondo dalle Br, perché avevano deciso di difendere la Costituzione e la giustizia fino in fondo. Francesco Napoli su Il Dubbio il 29 aprile 2021. Quando in sede di riunione della commissione di manutenzione del Palazzo di Giustizia, fu avanzata la proposta di intitolare l’Aula della Corte d’Assise del nostro Tribunale alla memoria del Dott. Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, barbaramente assassinato il 9 agosto del 1991, espressi immediatamente, senza tentennamenti e con convinzione, il mio consenso. Senza tentennamenti e con convinzione, perché ritenni quella proposta un fatto simbolicamente significativo ed importante non soltanto per la nostra Sede giudiziaria ma anche, se non soprattutto, per questa martoriata terra di Calabria. Condivisi pienamente quella proposta, perché pensai che in questo territorio difficile, pieno di contraddizioni, dove sempre maggiore è l’espansione della criminalità organizzata e della illegalità diffusa, è vieppiù fondamentale che le Istituzioni facciano la loro parte, promuovendo la mobilitazione delle coscienze dei singoli e della collettività per imporre, come atto di costume, il fondamentale rispetto delle reciproche libertà e delle istituzioni che le garantiscono e le disciplinano, nonché  rendendosi  autori di un messaggio di speranza, di coesione ma anche di fermezza,  che deve essere raccolto dai cittadini calabresi onesti – che sono la stragrande maggioranza – per quantomeno  tentare di uscire da una spirale oppressiva che inquina l’aria e soffoca iniziative e progresso. Consentitemi, a questo punto, di fare una similitudine tra il Dott. Antonino Scopelliti, Magistrato calabrese di straordinaria preparazione giuridica, di grande professionalità e dedizione verso la funzione che svolgeva con fermezza e rigore, che non amava i riflettori mediatici ed anzi, è stato definito il “giudice solo”, universalmente apprezzato per le sue qualità umane, le sue capacità professionali e il suo impegno civile, e l’Avv. Fulvio Croce, Presidente del Consiglio dell’Ordine Forense di Torino che, per rivendicare ed esaltare i valori di libertà e di giustizia, che esprimeva quotidianamente non solo nell’intensità dell’esercizio professionale, ma soprattutto nell’esplicazione delle sue funzioni di rappresentante dell’Ordine, delle quali avvertiva, fino allo spasimo, la responsabilità e la delicatezza, è caduto, trucidato dalle Brigate rosse, al suo posto, per il doveroso svolgimento della sua funzione. Un Magistrato ed un Avvocato, dunque, entrambi caduti per lo svolgimento delle loro funzioni. Così se ne sono andati tanti altri magistrati, avvocati, professori universitari, uomini politici; così sono scomparsi gli umili, i rappresentanti delle forze dell’ordine, tutti coloro che sono al servizio dello Stato non per combattere una guerra, dove il sacrifizio della vita è rischio normale, ma per garantire a tutti, in pace, l’ordinata e pacifica convivenza. A tal proposito ed in relazione ai gravissimi ed inqualificabili episodi criminosi prima enunciati, accaduti nel nostro Paese, non posso non dire, con estrema franchezza, che le varie espressioni di solidarietà formale che sono state, nel tempo, date non possono essere ritenute –tanto più oggi, dove il fenomeno trasgressivo è incalzante- sufficienti: devono andare oltre il limite delle semplici espressioni verbali di un sentimento pure intensamente avvertito; la solidarietà deve esprimersi con comportamenti di coerenza e di fermezza che valgano a fare intendere a tutti che soltanto attraverso tali comportamenti si può innalzare e difendere la intangibilità della funzione di Giustizia. Perché è inconcepibile che in una società che ritiene di avere adottato un ordinamento democratico a salvaguardia di tutte le libertà fondamentali dei cittadini, debba assistersi al sacrifizio della libertà degli onesti. E’ inconcepibile che non si sappia o non si voglia procedere alla individuazione degli strumenti perché i valori essenziali, attraverso i quali la civiltà di un popolo si esprime e si misura, possano svolgere in libertà la loro alta funzione. Ed è, invero, dolorosamente allarmante che il Paese non riesca, il più delle volte, ad andare oltre le mere e vacue frasi di circostanza, rinchiudendosi infine in sconcertante egoismo, generato spesso da paura, che deteriora il costume e si pone, nella sua effettualità, accanto alla distruttiva componente della violenza. L’intervento dell’avvocato Francesco Napoli – straordinariamente attuale – è stato pronunciato il 20 febbraio del 2012, da Presidente del C.O.A. di Palmi, in occasione della Cerimonia di intitolazione dell’Aula della Corte di Assise del Tribunale di Palmi alla memoria del Dott. Antonino Scopelliti, alla presenza del Guardasigilli di allora.

Tg1, il giornalista Angelo Figorilli sul caso Calabresi: "Una vendetta". Difende gli ex Br, un caso in Rai. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Guai in arrivo per Angelo Figorilli, giornalista del Tg1. L'amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini ha chiesto di avviare un'istruttoria sulle sue affermazioni. In un post pubblicato sul suo profilo Facebook, si legge in una nota di viale Mazzini, Figorilli avrebbe difeso Giorgio Pietrostefani, condannato come mandante dell'omicidio Calabresi e arrestato mercoledì scorso in Francia, parlando di "vendetta". Il caso era stato segnalato da Lega e Forza Italia. “Giorni fa – oveva osservato Maurizio Gasparri facendo riferimento alla bufera sul caso di Angelo Polimeno Bottai – si è fatto un grande clamore su un post di un giornalista del Tg1. Ora vorrei io rilevare la gravità di una uscita sui social di Angelo Figorilli giornalista del Tg1, che prende le pubbliche difese di Pietrostefani, uno dei condannati per l’omicidio del commissario Calabresi, definendo ‘vendetta’ anziché giustizia l’azione giudiziaria che l’ha colpito". Quindi Gasparri si era chiesto: "Il capo azienda della Rai, subito intervenuto nell’altro caso che dirà ora di un suo dipendente che considera una vendetta l’arresto di un omicida? Starà zitto perché chi ha ucciso Calabresi è intoccabile?”. Il caso in cui l’ad Rai Fabrizio Salini era prontamente intervenuto riguardava appunto un post di Angelo Polimeno Bottai, vicedirettore del Tg1 e nipote di Giuseppe Bottai. In occasione del 25 aprile aveva pubblicato la scheda elettorale del 1929 con il solo simbolo del fascio littorio e il commento: “C’era poco da scegliere”. Un post che semmai voleva sottolineare la dittatura e non certo difenderla. Allora la Rai aveva preso le distanze annunciando appunto un'istruttoria sul caso. E ora la Rai interviene anche sul caso di Figorilli.

Francesco Severini per secoloditalia.it l'1 maggio 2021. Gad Lerner difende la sua militanza giovanile in Lotta Continua. E respinge la tesi dei moltissimi che ormai riconoscono che attorno ai crimini del terrorismo rosso esisteva un clima compiacente di complicità per il quale nessuno ha pagato o si è scusato. Ecco, Lerner è uno che non si pente e che ritiene di non doversi scusare di nulla. Del clima di quegli anni, dove c’era chi istigava e copriva e che non ha mai pagato, neanche moralmente, per questo, ha parlato Umberto Croppi a proposito della fuga dell’assassino di Mikis Mantakas, Alvaro Lojacono. “Lojacono mai estradato? – dice Croppi – Viviamo in un’epoca diversa ora, lontana da quei fatti. Gli autori materiali di quei crimini non li giustifico e non li assolvo minimamente, ma hanno agito esponendosi in prima persona e, tutto sommato, pagando. Con la galera o venendo sradicati dalla loro vita. Mentre c’è un mondo che li ha spinti, sostenuti, giustificati e difesi che non è mai stato sfiorato da nessun tipo di giustizia, non dico solo quella penale, ma soprattutto morale. Non hanno mai provato riprovazione per quello che hanno fatto”.

Gad Lerner: Lotta Continua non è accostabile al terrorismo. “Repubblica – si lamenta Lerner oggi nel suo pezzo sul fatto quotidiano –  insieme a quasi tutti gli altri media, ha inserito Lotta Continua tra le sigle del terrorismo, al pari delle Brigate Rosse. Pazienza se ciò stride con l’aver ospitato per un decennio fra i suoi editorialisti Adriano Sofri, il coimputato di Pietrostefani…”.

Gad Lerner: Lotta Continua si dissociò dal delitto Casalegno. E continua: “Ho militato in Lotta Continua dal 1973 fino al 1976. Poi, per altri tre anni, ho scritto sull’omonimo quotidiano. Ricordo bene la raccomandazione rivoltami da Claudio Rinaldi, uno dei più bravi direttori della mia generazione, anche lui passato dall’esperienza di Lc: “Se vuoi fare il giornalista devi dimostrare di aver posto fine a quel sodalizio e non esitare a raccontarne le pagine oscure”. Respinsi il consiglio di Claudio e ci guardammo in cagnesco per un bel po’, salvo vivere una riconciliazione durante la dolorosa malattia che se lo portò via troppo presto. Nel 1993, arrivato a La Stampa da vicedirettore, mi fu assegnata la stanza di Carlo Casalegno, assassinato dalle Br. A proposito di quel delitto nel 1977 avevamo scritto parole inequivocabili su Lotta Continua. Ci valsero minacce dall’ala militarista del movimento, che si prolungarono negli anni seguenti. Per certi versi, segnarono il nostro passaggio all’età adulta, il ripudio della violenza rivoluzionaria come strumento di emancipazione. Ma cosa volete che importi ciò a chi oggi identifica Lotta Continua con il terrorismo?”.

Mughini: l’errore di LC fu la mostruosa campagna contro Calabresi e poi l’agguato. Dunque, secondo Lerner, Lotta Continua evitò a molti giovani la deriva terroristica. Ma davvero la visione caramellosa di Lerner corrisponde alla realtà? Secondo Giampiero Mughini Lotta Continua “era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia”.

Gad Lerner difende Lotta Continua: macché terrorismo, non mi pento della mia militanza. Francesco Severini sabato 1 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Gad Lerner difende la sua militanza giovanile in Lotta Continua. E respinge la tesi dei moltissimi che ormai riconoscono che attorno ai crimini del terrorismo rosso esisteva un clima compiacente di complicità per il quale nessuno ha pagato o si è scusato. Ecco, Lerner è uno che non si pente e che ritiene di non doversi scusare di nulla. Del clima di quegli anni, dove c’era chi istigava e copriva e che non ha mai pagato, neanche moralmente, per questo, ha parlato Umberto Croppi a proposito della fuga dell’assassino di Mikis Mantakas, Alvaro Lojacono. “Lojacono mai estradato? – dice Croppi – Viviamo in un’epoca diversa ora, lontana da quei fatti. Gli autori materiali di quei crimini non li giustifico e non li assolvo minimamente, ma hanno agito esponendosi in prima persona e, tutto sommato, pagando. Con la galera o venendo sradicati dalla loro vita. Mentre c’è un mondo che li ha spinti, sostenuti, giustificati e difesi che non è mai stato sfiorato da nessun tipo di giustizia, non dico solo quella penale, ma soprattutto morale. Non hanno mai provato riprovazione per quello che hanno fatto“. “Repubblica – si lamenta Lerner oggi nel suo pezzo sul fatto quotidiano –  insieme a quasi tutti gli altri media, ha inserito Lotta Continua tra le sigle del terrorismo, al pari delle Brigate Rosse. Pazienza se ciò stride con l’aver ospitato per un decennio fra i suoi editorialisti Adriano Sofri, il coimputato di Pietrostefani…”. E continua: “Ho militato in Lotta Continua dal 1973 fino al 1976. Poi, per altri tre anni, ho scritto sull’omonimo quotidiano. Ricordo bene la raccomandazione rivoltami da Claudio Rinaldi, uno dei più bravi direttori della mia generazione, anche lui passato dall’esperienza di Lc: “Se vuoi fare il giornalista devi dimostrare di aver posto fine a quel sodalizio e non esitare a raccontarne le pagine oscure”. Respinsi il consiglio di Claudio e ci guardammo in cagnesco per un bel po’, salvo vivere una riconciliazione durante la dolorosa malattia che se lo portò via troppo presto. Nel 1993, arrivato a La Stampa da vicedirettore, mi fu assegnata la stanza di Carlo Casalegno, assassinato dalle Br. A proposito di quel delitto nel 1977 avevamo scritto parole inequivocabili su Lotta Continua. Ci valsero minacce dall’ala militarista del movimento, che si prolungarono negli anni seguenti. Per certi versi, segnarono il nostro passaggio all’età adulta, il ripudio della violenza rivoluzionaria come strumento di emancipazione. Ma cosa volete che importi ciò a chi oggi identifica Lotta Continua con il terrorismo?”. Dunque, secondo Lerner, Lotta Continua evitò a molti giovani la deriva terroristica. Ma davvero la visione caramellosa di Lerner corrisponde alla realtà? Secondo Giampiero Mughini Lotta Continua “era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia”.

Giampiero Mughini per Dagospia il 29 aprile 2021. Caro Dago, te la faccio breve dato che chi ha comprato i quotidiani di oggi ha già letto sull’argomento i magnifici articoli di Francesco Merlo (“Repubblica”), Aldo Cazzullo (“Corsera”) e la straziante intervista di Mario Calabresi a quella donna meravigliosa che è sua madre Gemma, vedova del commissario trentatreenne Luigi Calabresi ucciso dal militante di Lotta continua Ovidio Bompressi con due colpi di revolver, uno alla schiena e uno alla nuca. Vent’anni fa, alla fine della presentazione di un mio libro a Cortina, me la trovai innanzi e la abbracciai furiosamente. Te la faccio breve, e comincio con una domanda. Dopo trent’anni che i nostri cugini francesi facevano lo gnorri, ossia fingevano di non capire che cosa fosse stato il terrorismo rosso in Italia, dopo decenni e decenni durante i quali in Francia non avevano voluto accogliere un Bettino Craxi il cui discorso in Parlamento (lo ricorda Filippo Facci nel suo libro) era stato giudicato da Marco Pannella un “discorso che aveva onorato il Parlamento” e avevano invece accolto e talvolta osannato delinquenti di strada quali Cesare Battisti, i sette arrestati di ieri a Parigi sono “feccia” o “ex feccia”? Che fossero la “feccia” della nostra generazione quando andarono ad ammazzare alle spalle magistrati e poliziotti non v’ha dubbio, che in più alcuni di loro l’hanno fatta franca perché si erano dati alla fuga non v’ha dubbio, che nei loro destini non ci sia un briciolo di giustificazione ideale che li nobiliti non v’ha dubbio. Epperò gli arrestati di ieri quanto coincidono con gli assassini che erano stati quarant’anni fa? Una giustizia che chiede di saldare il conto dopo quasi mezzo secolo non finisce purtroppo per somigliare a una vendetta? Tutto qui, e non è poco. E quanto alla necessità di un’ “amnistia” dei crimini politici degli anni di piombo - un’amnistia che Adriano Sofri rivendica con quella sua consueta smorfia impudente -, ricordo con quanta passione la richiedesse su mia sollecitazione l’Antonello Trombadori medaglia d’argento al valore militare della Resistenza in un’intervista che gli feci la bellezza di quarant’anni fa su “Pagina”, una gran bella rivista che conoscono in pochi. Sì, per quanto ributtanti siano ai miei occhi figure come quelle di Marina Petrella o come gli ex brigatisti che bussarono alla porta del generale Enrico Riziero Galvaligi (ex braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) e lo uccisero come un cane, quella “amnistia” va decisa, va attuata. Persino le colpe le più efferate non durano quasi mezzo secolo, è impossibile che durino tanto. Ho trovato bellissime le parole di Mario Calabresi, il quale ha detto di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani (il regista dell’agguato mortale a suo padre, uno dei sette arrestati di ieri) un paio d’anni fa, che si sono parlati e che per lui dopo quel colloquio è come se i conti fossero stati saldati. Il Pietrostefani di oggi è malato, credo non abbia neppure un’oncia del “Pietrostalin” raccontato con la consueta sapienza da Cazzullo. Sì, possono essere amnistiati. Indipendentemente da questo (non in cambio di questo) devono chiedere perdono in ginocchio, lo devono chiedere all’umanità, alle famiglie delle vittime ma anche alla mia generazione che hanno insozzato e non me ne dà pace. Feccia erano, nient’altro che feccia.

Federico Di Bisceglie per formiche.net l'1 maggio 2021. Erano anni di piombo e sangue. La spina dorsale del paese era prona alla barbarie del terrorismo. Perpetrato con la pulsione ideologica di militanti e millantatori di leadership, prima che con le pallottole. La Francia, che prima li ha accolti, ora li consegna. I sette terroristi che parevano destinati al cono d’ombra della storia, sono tornati ad essere di attualità, scompaginando un equilibrio radicato nella dottrina Mitterrand. Da Giovanni Alimonti, passando per Roberta Cappelli e Marina Petrella. Narciso Manenti, Maurizio Di Marzio. C’è un po’ di tutto: ex Brigate Rosse, Nuclei Armati per il contropotere territoriale. E, soprattutto, l’ex leader di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani. Su quest’ultimo pesa un ordine di esecuzione di pena emesso nel luglio 2008 dalla procura di Milano. Quattordici anni, due mesi e undici giorni, per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Sono nomi come tanti, questi sette, figli di ricordi in bianco e nero, sanpietrini e ideali tramontati. Chi all’epoca c’era e riesce a dare una lettura non scontata dell’operazione d’oltralpe è senz’altro Giampiero Mughini. Giornalista, conduttore, scrittore ed ex direttore del giornale del movimento Lotta Continua, che lanciò la campagna contro il commissario Calabresi. Quando nel 1987 scrisse Compagni, addio, e fu il primo a rompere davvero con la sinistra degli anni ’70, fu emarginato da quella che lui chiama “la lobby di Lotta Continua”.

Mughini, iniziamo a fare un po’ di chiarezza. Che cos’è, in realtà, la ‘dottrina Mitterrand’?

Penso che fosse un’operazione abile e astuta con cui il presidente francese si presentava bene al cospetto di una parte dell’elettorato di sinistra. Non solo. La dottrina Mitterrand consegnava l’immagine della Francia come uno Stato adatto a ospitare gli esuli politici. Una nazione, insomma, particolarmente attenta ai diritti civili degli imputati. In realtà, qualcuno di quei cosiddetti rifugiati politici non solo venne accolto, venne anche osannato.

Che cosa intende dire?

Basti pensare che una persona come Toni Negri – che terrorista non era, ma che flirtò a lungo con il terrorismo – è riconosciuta come una sorta di autorità morale, e questo la dice lunga. Cesare Battisti: né più né meno di un delinquente di strada, venne trattato come fosse un perseguitato secondo la narrazione dei fatti che lui stesso diede. In realtà, poi, si scoprì che era un pluriassassino.

Bompressi, Sofri, Pietrostefani. L’accostamento generalmente è questo, come una sorta di trinità inscalfibile e indivisibile. Che responsabilità hanno, secondo lei, i tre nell’omicidio Calabresi?

Innanzitutto va chiarito che sono tre persone completamente diverse e ognuno di loro ha avuto ruoli differenti nell’affaire Calabresi. Sofri, a mio giudizio, non ha organizzato l’agguato tanto più che quando accadde il fatto si trovava a Napoli, dove curava il giornale ‘Mò, il tempo si avvicina’ del quale se non ricordo male, ero io il direttore responsabile. Sebbene fosse un giornale pieno di fregnacce. Sofri è stato assolto dall’opinione pubblica di sinistra e, comunque, differentemente da altri si è fatto un bel po’ di anni di galera.

Giorgio Pietrostefani è il nome più altisonante della retata francese. L’ha conosciuto?

Non l’ho conosciuto negli anni più fulgidi della sua militanza milanese. Ho avuto modo di incontrarlo più tardi per motivi professionali. Meno che mai ho conosciuto Bompressi, sincero amico dei proletari a cui venne dato il triste incarico di premere il grilletto alle spalle del commissario.

Poi, in carcere, crollò.

Certo: non aveva l’armatura intellettuale che poteva vantare Adriano Sofri. Non era più il guerrigliero romantico del ’72, e il carcere logora. Ed è anche per questo che sono stato contento quando il presidente Napolitano gli concesse la grazia.

Il figlio del commissario Calabresi, Mario, ha scritto che non riesce a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo. Che cosa ne pensa?

Sono d’accordo, in pieno. La questione è bina. Da un lato c’è da considerare che, alcuni di quelli che hanno ucciso allora non hanno ancora pagato. D’altro canto, c’è da considerare che persone di oltre sessant’anni, pagherebbero colpe di trenta o quarant’anni fa. Ci vorrebbe in buona sostanza una forma di amnistia che attenui le situazioni processuali di queste persone. C’è da dire che nessuno dei retori che oggi pongono questioni sull’età dei terroristi intercettati in Francia, si è mai pronunciato, ad esempio, sul caso di Erich Priebke, che aveva quasi cento anni quando venne condannato per un processo in cui lui era solamente un ufficialetto del bestiale esercito occupante.

Secondo lei l’operazione Draghi-Macron scuoterà le coscienze?

Non penso. Anche perché, soprattutto per giovani generazioni, quei sono nomi non evocano nulla. Senza dire che c’è una vulgata di persone che continua a reputarli combattenti romantici figli di quell’epoca. Temo che si riproponga ancora una volta il refrain dei "compagni che sbagliano". Laddove molti di loro, non sono altro che feccia. La feccia della nostra generazione.

Che cos’era realmente Lotta Continua?

Era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia.

Che cosa è rimasto di tutto questo?

La lobby di Lotta Continua c’è ancora ed è compatta. Purtroppo credo che continuerà a mancare all’appello una fetta di verità su quegli anni che per vigliaccheria e opportunismo non verrà mai a galla.

I comunisti che stavano con le Br hanno fatto carriera… Calabresi accusa i compagni omertosi. Vittoria Belmonte lunedì 16 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Mario Calabresi accusa: gli anni di piombo sono lontani, ma molti, troppi, non si sono ancora assunti la responsabilità piena dell’odio seminato. Della violenza spalleggiata. Sono i compagni, gli ex, che hanno fatto carriera e hanno rimosso tutto. E che dovrebbero parlare e dire ciò che sanno. Per rimettere a posto le tessere di un mosaico che è ancora sfocato e impreciso.

Calabresi e il suo atto d’accusa. A parlare così è appunto Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi ucciso nel 1972 da Lotta Continua. Le sue riflessioni le riporta il Corriere, sottolineando che quello di Calabresi è un vero e proprio atto di accusa. «Qualcuno a sinistra si è offeso perché pensa che l’omertà sia legata solo alla mafia. Io vorrei che i ragazzi di quella generazione, che ora sono dei nonni, uscissero dal loro silenzio. Penso che non abbiano mai voluto raccontare la verità per un motivo: hanno voluto difendere le loro carriere».

I compagni hanno fatto carriera e preferiscono non parlare. E ancora: «Alcuni hanno fatto carriera in aziende e nel mondo della comunicazione: come potevano spiegare che stavano dalla parte dei brigatisti? Come lo giustificavano davanti ai figli e ai nipoti? Possiamo anche non rivangare il passato, ma c’è un passaggio fondamentale — dice Calabresi —: l’utilizzo della violenza e il rapporto tra politica e violenza. La violenza ha causato solo distruzione e nessun cambiamento sociale. Il terrorismo ha chiuso ogni possibilità di cambiamento, quella stagione ha liberato germi che vivono ancora oggi».

Calabresi: a tre di loro non ho stretto la mano. Poi Calabresi rivela un dettaglio inedito: “Per l’omicidio di mio padre sono stati condannati in quattro: il mandante morale, il capo del servizio d’ordine di Lotta continua — ancora latitante a Parigi —, chi ha sparato e chi ha guidato l’auto. Ma sappiamo anche chi ha acquistato le armi, chi le ha custodite, chi ha fatto i sopralluoghi, chi faceva il palo, chi ha seguito per giorni l’auto di mio padre. Questi non sono mai stati processati perché mancavano gli elementi. Ma non hanno nemmeno mai parlato. A tre di loro ho rifiutato la stretta di mano”.

L’ultimo libro di Calabresi: la vicenda di Carlo Saronio. L’occasione di questo j’accuse di Calabresi è la presentazione del suo ultimo libro, Quello che non ti dicono, che narra la tragica vicenda di Carlo Saronio. Saronio era un attivista di Potere Operaio e venne rapito e ucciso da un gruppo di estrema sinistra: il riscatto chiesto alla famiglia doveva servire per finanziare il Fronte Armato Rivoluzionario Operaio. Una vicenda che risale al 1975 e che offre a Calabresi lo spunto per denunciare un clima di complicità con l’estrema sinistra di molti ex che poi si sono integrati alla grande, senza mai chiedere scusa per il loro passato filo-brigatista.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 30 aprile 2021. Nella notte in cui Cesare Battisti, condannato all'ergastolo per quattro omicidi, evaso dal carcere nell' 81 e rimasto latitante fino al 2019, fu estradato dal Brasile, Giuseppe Corasaniti, capo del Dipartimento Affari di giustizia, fece una telefonata. «Italo, è come se tu fossi qui con noi». Il suo interlocutore era Italo Ormanni, ex procuratore aggiunto di Roma che aveva guidato il dipartimento dal 2008 al 2010, quando ministro della Giustizia del governo Berlusconi era Angelino Alfano. E sul caso Battisti, Ormanni, aveva lavorato per mesi. Così come per riportare in Italia dalla Francia i dieci rifugiati Oltralpe per i quali è stato firmato un provvedimento di fermo due giorni fa. Allora Ormanni era arrivato a un passo, sembrava fatta. Ma entrambe le pratiche furono bloccate per precise scelte politiche.

Cosa era accaduto?

«Avevamo fatto un lavoro enorme. Nel 2009, sono stato tra Roma e Brasilia per seguire le udienze del supremo Tribunal federal, che doveva decidere sulla richiesta di estradizione che il governo aveva avviato nei confronti di Battisti, contemporaneamente sotto processo perché era entrato nel paese con documenti falsi. Tra l'altro lo stesso Battisti dichiarò di averli avuti da elementi dei servizi francesi, perché noi da tempo avevamo avviato le pratiche in Francia. Il Tribunale si pronunciò per l'estradizione, ma l'allora ministro della Giustizia Tarso Genro rifiutò di emanare il decreto. Il presidente, all' epoca, era Lula. La procura federale brasiliana impugnò il provvedimento davanti al Tribunale supremo federale, dopo una serie di udienze che si svolsero tra febbraio e settembre di quell' anno e alle quali ho partecipato accolse il ricorso, annullò il provvedimento del ministro e dichiarò l'estradizione di Battisti. La sentenza doveva essere eseguita con un decreto del presidente della Repubblica, Lula si era dimesso, ma Dilma Rouseff rifiutò di firmarlo. La storia è nota. La firma che ha fatto rientrare Battisti in Italia è di Bolsonaro».

E in Francia?

L' elenco dei dieci da estradare è al ministero da anni. Preesisteva addirittura al mio incarico. Ritengo che l'avesse stilato la Digos di Roma, all' epoca guidata da Franco Gabrielli, oggi sottosegretario, al dossier lavoravano due funzionari, Lamberto Giannini, che intanto è diventato capo della polizia, e Carmine Belfiore. A Parigi avevamo un ambasciatore molto combattivo ed energico. Sembrava fatta, l'attività diplomatica di Giovanni Caracciolo di Vietri era stata energica e l'allora presidente Nicolas Sarkozy avrebbe solo dovuto firmare. E invece all' improvviso si fermò tutto».

C' è chi sostiene che dopo tanto tempo gli arresti non abbiano più senso. Anche perché l'obiettivo dello Stato è quello di rieducare attraverso il carcere. Ma i dieci, in questi anni, non hanno commesso altri reati.

«Risponderei con Kant: la legge morale è valida a priori, per sè stessa, è un imperativo categorico. E va rispettata. Quell' osservazione sarebbe giusta se il trascorrere del tempo fosse addebitabile a lungaggini o altre pastoie burocratiche ascrivibili allo Stato. In questo caso, sono loro a essersi sottratti volontariamente alla pena irrogata dallo Stato. Allora il processo a Eichmann, arrestato dai servizi segreti israeliani e condannato negli anni Sessanta, non avrebbe avuto senso. Ma se io mi sottraggo a questa richiesta punitiva dello Stato e del privato, vittima del reato, non posso poi dire sono passati 40 anni. Queste persone hanno violato un equilibrio etico e sociale».

Nel dopoguerra, in nome di una pacificazione sociale si scelse l'amnistia. Qual è la differenza?

«Allora ci fu un intervento dello Stato, una scelta politica. Lo Stato può rispettare il minimo etico e allora stabilì di uscire da un conflitto politico per ricostruire il Paese, con un'amnistia, che è un istituto previsto dalla legge, come quello che dà allo Stato il potere punitivo».

Perché, secondo lei, dopo tanti anni, che l'Italia fa pressioni da tempo, solo adesso sono state avviate le procedure per l'estradizione?

«Direi fortunatamente adesso. Il perché non me lo chiedo. Dico solo Meno male».

«Le leggi speciali non erano ingiuste, ma la loro applicazione fu sommaria». Intervista ad Alessandro Gamberini, difensore di Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri: «La giustizia entra in campo per evitare la vendetta. Questi arresti sono la celebrazione di una vendetta tardiva». Simona Musco su Il Dubbio il 30 aprile 2021. «La giustizia entra in campo per evitare la vendetta. Ma con questa scelta ci troviamo davanti alla celebrazione di una vendetta tardiva». A parlare è Alessandro Gamberini, difensore di Giorgio Pietrostefani, uno dei sette ex terroristi arrestati mercoledì a Parigi. Convinto della sua innocenza per il delitto Calabresi, il legale contesta oggi l’applicazione di quelle leggi che portarono alla sua condanna. «I meccanismi applicativi – spiega al Dubbio – hanno valutato la responsabilità penale a volte in modo sommario».

Avvocato, cosa ne pensa di questi arresti?

Mi fa una cattiva impressione quando assisto a retate di settantenni. C’è un rapporto che lega la memoria alla giustizia e alla storia: quando sono passati tanti anni da avvenimenti che hanno portato a delle condanne l’intervento della giustizia non si rapporta più ad un fatto, ma ad una valutazione storica. E la storia richiede un altro approccio rispetto a quello dell’applicazione meccanica della pena. A distanza di 50 anni la condanna storica non vale nulla dal punto di vista del significato della giustizia. Mi appare come la celebrazione di una vendetta tardiva. Tanto più questa cosa mi meraviglia rispetto alla Francia.

Perché?

La Francia ha deciso decenni fa, non da poco, di dare asilo a queste persone. Sono decenni che queste persone vivono alla luce del sole, hanno un lavoro, hanno riformato una famiglia. La Francia poteva decidere, legittimamente, di non dare asilo. Ma una volta che è stato dato, revocarlo, trattando le persone come pacchi postali, viola l’articolo 8 della Cedu. Il tema non si pone solo rispetto alle condanne, ma anche rispetto al fatto che sono state radicate aspettative di vita che vanno tutelate. E lo dico perché la Corte europea lo ha affermato più volte rispetto alle espulsioni: non sono possibili se determinano una violenza assoluta nei confronti delle relazioni familiari. L’Italia ha perseguito a fasi alterne queste persone ed è normale che esprima soddisfazione, perché l’ordinamento italiano che ha espresso quelle condanne ha trovato conforto. Ma è un conforto che ha dei limiti: queste vicende non appartengono più alla giustizia.

Tornando a quegli anni, secondo lei si poteva combattere il terrorismo senza creare leggi speciali?

Ho vissuto quel periodo come avvocato e come docente di diritto penale. Dando un giudizio in chiave storica, con la freddezza che oggi ci consente di fare una valutazione, non penso che ci siano state norme palesemente incostituzionali che abbiano sospeso lo Stato di diritto in Italia. Quelle norme poi sono state aggravate da tutte quelle successive in maniera di terrorismo o di mafia, con una serie di enunciazioni che hanno coperto tutto il possibile scenario di queste vicende. In questi casi il problema è un’applicazione che è al limite dello Stato di diritto. I meccanismi applicativi – e succede anche ora nei processi per mafia – hanno valutato la responsabilità penale a volte in modo sommario. La valutazione della prova è stata non sempre individualizzata e spesso volta a fornire rassicurazioni all’opinione pubblica attraverso condanne, anche esemplari, e attraverso valutazioni sommarie. Credo che non sia stata la normazione, ma l’applicazione di quelle norme, in una situazione drammaticamente conflittuale, a portare la Francia alla dottrina Mitterrand. Una dottrina che emerse – con riferimento ai condannati non per delitti di sangue – sul presupposto che questo conflitto andasse riparato in sede politica e non in sede giudiziaria. Fu un tentativo anche di giocare a ridosso di un Paese amico, l’Italia, per aiutarlo a risolvere queste vicende. E in sede politica si sarebbe potuto risolvere con amnistia e indulto. Non per i delitti di sangue, ovviamente, ma buona parte di quelle persone poteva essere ricondotta nell’alveo della vita civile senza bisogno di passare sotto le forche caudine della galera, perché sotto il punto di vista della pericolosità, finito quel fenomeno, tutti sono tornati alla civiltà.

Il concorso morale è una categoria sostenibile?

Nel nostro ordinamento è una categoria conosciuta e applicata. Ovviamente è una questione delicatissima: quando non c’è la prova della partecipazione diretta non c’è alcun riscontro e quindi si è senza difesa. Questo strumento va usato con assoluta prudenza, tant’è che in materia di concorso esterno in associazione mafiosa le stesse sezioni Unite nella sentenza Mannino dissero che non poteva essere usata la categoria del concorso morale. In un contesto in cui tutto viene utilizzato in maniera forzata è ovvio che questa è la categoria che, più di altre, può rappresentare un passepartout per avere delle condanne ingiustificate.

Gemma Capra, moglie di Luigi Calabresi, ieri ha affermato che non si tratta più delle stesse persone e che non si sente di gioire.

Ho apprezzato anche la dichiarazione del figlio Mario, rispetto a Pietrostefani, di cui sono difensore, che ha affermato che a distanza di tanto tempo non avverte questa cosa come un successo. Apprezzo sempre quando persone che hanno subito un dolore tanto atroce riescono a dire cose del genere. Non ho capito, però, cosa intenda quando dice che sarebbe il momento giusto per restituire un po’ di verità. C’è stato un processo e la famiglia Calabresi ha sempre ritenuto che quella fosse la verità e che i mandanti fossero Pietrostefani e Sofri. A meno che la famiglia Calabresi non ritenga che la verità sia un’altra. Io che li ho difesi continuo a dire che sono innocenti, ma le sentenze dicono un’altra cosa. Se si ritiene giusta la sentenza questa è la verità che chiude il cerchio.

Oggi l’Italia chiude i conti con il passato?

Non ci riesce. Capisco che non sia semplice, ma 50 anni dopo, un capitolo chiuso sotto ogni punto di vista, nonostante le ferite, potrebbe diventare storia. La soluzione politica poteva essere invocata da tempo, ma farlo in questo Paese è complicato. Qualcuno ha evocato la soluzione adottata da Togliatti nel dopoguerra, aspramente criticata da molti perché consentì a molti repubblichini che si erano macchiati di delitti di cavarsela dal punto di vista giudiziario. Ma volle dire anche chiudere un capitolo e impedire che questo meccanismo di giustizia si infiltrasse in vicende storico-politiche chiuse. È ovvio che questa cosa possa provocare dolore per le vittime. Ma la giustizia entra in campo per evitare le vendette. L’aspetto fondante della scelta sarebbe stato quello di collocare nella storia e non rivangare la memoria di questioni ormai cristallizzate negli albi delle cronache.

Aldo Cazzullo per corriere.it il 28 aprile 2021. Quando, per gioco, i capi di Lotta Continua si divertivano a immaginare la composizione del governo dopo che fossero andati al potere, il ministero dell’Interno veniva invariabilmente assegnato a Giorgio Pietrostefani (arrestato oggi a Parigi). Un po’ perché era figlio di un prefetto. Un po’ perché lo chiamavano Pietrostalin, per la sua durezza. Un giorno disse a una futura leader del femminismo italiano, che era entrata nella stanza delle riunioni senza preavviso: «Adesso esci, bussi, chiedi permesso, ed entri». E a una scrittrice di successo intimò di non presentarsi più in collant, «che mi distrai gli operai». In carcere, al don Bosco di Pisa dove era rinchiuso con Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani indossava una tuta con un maglione verde, e gli accadeva di passare ore in parlatorio a raccontare la sua storia. All’Aquila era compagno di scuola di Bruno Vespa. Era arrivato a Pisa da studente a diciannove anni, nel 1962, quando il Sessantotto era di là da venire. «L’università fu occupata per la prima volta nel 1964. Io naturalmente votavo per proseguire l’occupazione; per riaprire l’ateneo furono mobilitati gli studenti dei collegi delle monache e gli iscritti al Pci. Così mi iscrissi al Pci pure io. Ero più a sinistra, ma pensavo che bisognasse stare “dentro e contro”. Entrai anche nell’Unione goliardica: il capo era Franco Piperno, c’era anche una ragazza che sarebbe diventata mia moglie, Fiorella Farinelli. I momenti più attesi erano quando arrivavano i tre santoni: Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri. Non si faceva altro che parlare di classe operaia, avevamo la religione della classe operaia, l’operaio era Dio fatto uomo, ma non ne vedevamo uno; solo qualche ex, divenuto funzionario del partito o del sindacato». «Gli operai veri, anima e sangue, li incontrammo un paio di anni dopo, quando irruppe nella nostra vita Adriano Sofri, che allora insegnava nelle scuole. Ci propose di fare insieme un giornale, “Il Potere operaio”, da distribuire in tutte le fabbriche del litorale toscano. Adriano era stato espulso dal Pci; così ci facemmo cacciare tutti: “fuori e contro”, senza compromessi e mediazioni. A Pisa vivevamo in pratica a casa sua: c’erano due bambini, quindi tutto funzionava regolarmente, il frigorifero era sempre pieno, si mangiava tre volte al giorno; per noi, che a volte non sapevamo neppure dove andare a dormire, era un paradiso. In casa Sofri giravano anche i sottoproletari della stazione, che prima venivano regolarmente pestati dai paracadutisti: noi li prendemmo sotto la nostra protezione e finimmo per assorbirli».

La perdita dell’innocenza. «L’inizio di tutto fu la Bussola. Avevamo stampato in mezza Toscana manifesti a lutto con la scritta: “Il 31 dicembre a Viareggio faremo la festa ai padroni”. Adriano si arrabbiò molto con Paolo Brogi e con me per quella che gli pareva una caduta di stile. La notte di San Silvestro del 1968 ci tesero una trappola. Noi strappavamo i papillon e tiravamo i pomodori ai malcapitati che andavano a festeggiare il capodanno, qualcuno aveva riempito sacchetti di vernice rossa (altri, esagerando, di escrementi) che lanciava contro le signore in lungo. Noi tiravamo sassi ai carabinieri schierati di fronte alla Bussola. D’un tratto, su una di quelle barricate improvvisate, cadde un ragazzo. Vedevamo le fiammate delle pistole, qualcuno gridò: “Sappiamo che sparate a salve, non ci fate paura!”. Invece erano proiettili veri. Soriano Ceccanti rimase paralizzato. Fiorella e altri furono arrestati e fecero mesi di carcere. Io evitai il rastrellamento nascondendomi in un cespuglio».  Nel 1969 Pietrostefani è a Milano. «Non avevamo i soldi per mangiare, un giorno un compagno, Tonino Lucarelli, che era un po’ acrobata, cominciò a camminare sulle mani, e io feci la questua con il cappello. Quando esplose la rivolta di Mirafiori andai a Torino, dove c’era già Sofri, che viveva a casa di Luigi Bobbio, il figlio di Norberto, il più importante intellettuale italiano: corso Turati 63. Suonammo, ma non rispose nessuno. Allora Tonino si arrampicò lungo la parete e mi aprì. Il frigo era pieno. Lo saccheggiammo. Poi arrivò Adriano che distribuì i compiti: lui a Mirafiori, Tonino al Lingotto, io a Rivalta. Partecipai alla riunione del 2 luglio, quella in cui si decise il corteo di corso Traiano. Una cosa da pazzi, l’autonomia operaia che avevamo vagheggiato con Tronti e Asor Rosa ce l’avevamo sotto gli occhi: operai che non avevano studiato, che non sapevano neppure parlare decidevano scioperi con cui bloccavano le carrozzerie Fiat, una fabbrica da 15 mila lavoratori. Ma alla battaglia di corso Traiano non partecipai: non mi è mai piaciuto fare a botte a casa d’altri». Dopo le ferie, i militanti di Lotta Continua sono i primi a tornare in città. «Ci trovammo il 16 agosto al teatro Alfieri. Davano “Spartacus” di Kubrick, il film sulla rivolta degli schiavi. Ogni volta che veniva proiettato andavamo a vederlo con i compagni operai, perché era un film sulla rivoluzione. Alla fine si accesero le luci: c’eravamo tutti. Alle cinque del mattino del 17 eravamo puntuali ai cancelli delle fabbriche con il primo volantino. Quelli di Potere Operaio si fecero le vacanze e tornarono a fine agosto; per due settimane fummo i padroni dell’assemblea operai-studenti. In fondo a un manifesto scrissi: “Vinceremo”. Adriano si arrabbiò moltissimo. Io mi difesi dicendo che pure il Che finiva così i suoi appelli. Lui invece volle che si scrivesse sempre: “La lotta continua”. Vedere buttare giù le cancellate di Mirafiori era impressionante: decine di operai che afferravano le sbarre e cominciavano a farle vibrare, sempre più forte, finché saltavano i cardini e il cancello piombava sull’asfalto in un rumore assordante…». Poi Pietrostefani torna a Milano. «Passai la selezione per essere assunto all’Alfa Romeo, negando di avere la laurea in architettura e parlando dialetto abruzzese. Pensavo di partecipare alle lotte operaie dal di dentro. Rinunciai dopo piazza Fontana, quando scoprimmo che la priorità era la controinformazione, l’antifascismo, la politica».

Fascisti, comunisti e infiltrati al bar Magenta. A Milano Lotta Continua era forte più alla Cattolica che alla Statale. «Tutto ruotava attorno al bar Magenta, che era il bar della Cattolica, dei trafficanti e della polizia. Il proprietario era missino ma gli stavamo simpatici, ci dava il seminterrato per incontrarci e ci passava pure qualche soldo. Infiltrarci era un gioco da ragazzi, infatti le nostre riunioni erano piene di poliziotti. Due si sedevano sempre accanto a me, alle manifestazioni erano puntualissimi, con spranga ed elmetto. Mi ero fatto l’idea che fossero missini pure loro. Così un giorno li feci seguire e scoprimmo che la sera andavano a dormire in caserma a Sant’Ambrogio. Li presi da parte e gli dissi: “Ragazzi vi abbiamo beccati, non venite più””. «Quasi ogni settimana venivo convocato per il rito del giovedì dal questore Allitto Bonanno, che mi trattava con grande cortesia, forse perché mio padre era prefetto in carica, ad Arezzo, la città di Fanfani, contro cui facevamo una campagna durissima. Il commissario Allegra preparava il caffè e Allitto mi chiedeva: “Allora, sabato cosa succede?”.  Fino a quando, il 12 dicembre 1972, arrivammo alla contrapposizione totale. Volevamo manifestare a piazzale Loreto per il secondo anniversario di piazza Fontana. Allitto fu durissimo: “Potete fare un comizio a Città Studi. Ma attorno ci metterò tanta di quella polizia che non uscirete neanche con i carri armati”. All’uscita sfilammo praticamente in colonna, fotografati uno a uno. Un disastro».

L’incontro con Curcio. Molti cominciano a pensare alla clandestinità. Nella Milano dei primi anni 70 ci sono anche Renato Curcio e Alberto Franceschini, i fondatori della Brigate Rosse. Nel libro-intervista scritto con Mario Scialoja, “A viso aperto”, Curcio racconta di aver incontrato nel 1971 Pietrostefani, che gli avrebbe proposto di far confluire la sua organizzazione (che ancora non aveva ferito né rapito nessuno) dentro Lotta continua, per rafforzarne il servizio d’ordine. A un secondo incontro sarebbe stato presente anche Franceschini, ma la trattativa sarebbe finita in una rissa. Al processo Calabresi, Pietrostefani ha negato, Franceschini ha nicchiato: “Pietrostefani è più grosso di me, se mi avesse messo le mani addosso me ne ricorderei…”. Ma quando le Br sequestrano e fotografano con una pistola puntata sul viso e un cartello al collo Idalgo Macchiarini, capo del personale della Sit-Siemens, il comitato milanese di Lotta Continua scrive un volantino di approvazione: mandato di cattura per tutti. «Io ero in Germania – raccontava Pietrostefani -, ero stato dai compagni che facevano intervento tra gli operai emigrati. Tornai a Milano, vidi questo comunicato e mi arrabbiai moltissimo: “Cos’avete combinato?”. Fu un errore politico e un disastro per l’organizzazione: dovemmo tutti sparire per un po’». Il resto è storia: il 17 maggio 1972 viene assassinato il commissario Luigi Calabresi. Nell’estate 1988 verranno arrestati Ovidio Bompressi come esecutore del delitto, Leonardo Marino come complice, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani come mandanti. Pietrostefani stava per diventare amministratore delegato di un’azienda dell’Iri. Ha sempre negato ogni addebito. A Parigi è arrivato il 24 gennaio 2000, alla vigilia della nona sentenza, quella della condanna definitiva. «Ho quasi sessant’anni e mi tocca giocare a nascondino» diceva. Lo incontrai nell’agosto 2002. Pantaloni bianchi, camicia azzurra, giacca blu, occhiali di tartaruga. Si era avvicinato alla fede, si definiva «quasi credente», diceva che «la sinistra in Italia è rappresentata da Cofferati e dal Papa», che era ancora Wojtyla: «Sono gli unici a occuparsi dei deboli». Aveva riallacciato i rapporti con Toni Negri: «Sono d’accordo con molte sue intuizioni. La fine della democrazia, l’uso autoritario delle nuove tecnologie». Dell’Italia diceva: «Mi immalinconisce lo spettacolo del qualunquismo giustizialista. Quand’ero ragazzo, il manifesto del qualunquismo giustizialista era una rivista di destra che si chiamava “Candido”, e attaccava Giacomo Mancini chiamandolo “lader”. Non era una cosa di sinistra. Berlusconi? In Francia non sarebbe mai andato al governo, qui pure per fare il parrucchiere ci vuole il diploma da parrucchiere». Erano gli anni dei no global e dei girotondi, «ma Pancho Pardi e Agnoletto proprio non me li ricordo, all’epoca non contavano nulla. E quando guardo Nanni Moretti, penso che una volta avevamo Fellini e Antonioni». Aveva però un bel ricordo di Massimo D’Alema: «A Pisa era sempre nel movimento. In minoranza, magari, ma c’era: alle assemblee, alle manifestazioni. Ma non è vero quello che ha raccontato: D’Alema non ha mai tirato una molotov, perché di molotov nel Sessantotto a Pisa non ce n’erano. Al massimo uno dava una spinta a un poliziotto e l’altro si metteva a gattoni dietro di lui per farlo cadere». A Parigi non aveva molti contatti con gli altri fuoriusciti: «È una pagina che dopo tanti anni andrebbe finalmente chiusa. L’hanno fatto tutti i Paesi del mondo, tranne il nostro». La cifra dell’Italia gli appariva «la viltà»: «La gente si adegua, non discute, è acritica. Non rischia, non gioca con la propria pelle, se non in autostrada. Esiste anche la viltà delle istituzioni, e io l’ho sperimentata». Il passato gli era venuto dietro. A Parigi era andato a trovarlo Erri De Luca, che era il capo del servizio d’ordine di Lotta Continua a Roma quando Pietrostefani comandava a Milano. A una mostra di Morandi gli era parso di riconoscere la Natura Morta che Giovanni Pirelli aveva staccato dal muro per donarla a Lc, «e se me la fossi tenuta anziché venderla per la causa avrei risolto tutti i miei problemi».  Aveva incontrato Daniel Cohn-Bendit, e avevano rievocato quando Godard aveva donato ai giovani aspiranti rivoluzionari i soldi ricevuti per girare un western, «eravamo a Trastevere e contavamo le banconote sul materasso». In quei giorni stava leggendo un libro di Dürrenmatt, «Il sospetto», che parla della morte di un commissario di polizia. Ma qui le strade divergevano. Perché Pietrostefani, alle domande sull’omicidio, rispondeva che «la verità storica non esiste». Dürrenmatt sostiene invece, ne «La morte della Pizia», che la verità esiste, eccome; e «resiste in quanto tale se non la si tormenta».

Bruno Vespa: "Il mio compagno di scuola e di tennis Pietrostefani: il padre vice prefetto e il suo carattere turbolento". Giovanna Casadio su La Repubblica il 30 aprile 2021.  Il giornalista: "Lo intervistai in carcere a Pisa nel 1997, ma ci sono tante omissioni. Quando ci si avvicina alla sera della propria vita, certi pesi bisognerebbe toglierseli. Ora mi aspetto che racconti davvero ciò che successe negli Anni di piombo". "Non mi faccio illusioni, ma sarei contento se Giorgio, tornando dalla latitanza in Francia, dicesse ciò che è accaduto veramente negli Anni di Piombo. Nel colloquio che avemmo nel 1997 nel carcere di Pisa lo racconta, ma ci sono tante omissioni. Resta un buco nero in questa storia. Quando ci si avvicina alla sera della propria vita, certi pesi bisognerebbe toglierseli".

(ANSA il 28 aprile 2021) "A Giorgio Pietrostefani la Francia ha dato ospitalità e anche un fegato di ricambio,salvandogli la vita con un trapianto in un'età che in Italia non lo avrebbe consentito. La sua condizione sanitaria è cronicamente arrischiata, e il suo avvocato provvederà, o avrà già provveduto, a documentarla al giudice". Così Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua, su Fb parla di Giorgio Pietrostefani, uno dei brigatisti arrestati. "Pietro vive di lunghi ricoveri regolari e improvvisi ricoveri d'urgenza, oltre che di quotidiani farmaci vitali. Ha in programma di qui a poco un intervento di riparazione nel suo ospedale parigino", spiega Sofri (ANSA).

(ANSA il 28 aprile 2021) "Si trattava di riacciuffare finalmente persone dichiarate colpevoli da tribunali italiani di reati commessi fra i 50 e i 40 anni fa". Così Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua, commenta su Fb gli arresti di oggi in Francia. "Molti sono stati prescritti, alcuni sono morti di vecchiaia o di malattia, uno si è ucciso poco fa buttandosi giù da una finestra (il riferimento è ad Enrico Villimburgo, suicidatosi a Parigi nel 2019 - ndr). La sporca decina che oggi fa i titoli di testa è il fondo del barile", ha aggiunto Sofri riferendosi agli arrestati in quello che definisce "il blitz". "Nei decenni trascorsi - aggiunge - dopo il rifugio in Francia, non uno, se non sbaglio, non uno dei condannati ha commesso un solo reato. Questa era del resto una condizione alla loro accoglienza, ma non è la spiegazione. La spiegazione sta in un radicale passaggio di pensieri, linguaggi, sentimenti e stati d'animo, come avviene dopo ogni guerra, anche le guerre più immaginate. Come avviene “la mattina dopo”". E infine conclude: "Ieri ne è venuta fuori un'amnistia indiscriminata, oggi si esclude perfino la possibilità di discutere apertamente il problema di una nuova misura politica. Fino a quando?

Jacopo Iacoboni per la Stampa il 28 aprile 2021. L’arresto dei sette ex estremisti rossi condannati per omicidi e atti di terrorismo in Italia e riparati in Francia è, forse, la vera fine di un grande equivoco determinato da quella che fu chiamata la “dottrina Mitterrand”, il riconoscimento del diritto di asilo anche a ex terroristi, a certe condizioni. A Rennes nel 1985, al Palais des Sport, le président la enunciò per la prima volta, spiegando anche chi ne avrebbe beneficiato: «I rifugiati italiani che hanno preso parte in azioni terroristiche prima del 1981, hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita, si sono integrati nella società francese (...) Ho detto al governo italiano che erano al sicuro da qualsiasi sanzione di estradizione». Torneremo poi su chi fosse il governo italiano allora, intanto bisogna dire che si aprì subito una discussione infinita, che andò molto oltre gli anni ottanta, su quanto estensiva dovesse essere l’interpretazione e l’applicazione della “dottrina”: che Mitterrand enunciò in forme orali, anzi con varie formulazioni, e con capi di governo, ma lasciandola sempre un po’ nel vago. Forse deliberatamente. Inizialmente pensata solo per chi non avesse condanne per reati di sangue, quella che prevalse fu poi una linea massimamente estesa, quasi sfacciatamente celebrativa, che arrivò a giustificare la presenza, sul suolo francese, anche di gente (soprattutto ex terroristi italiani) che aveva commesso diversi omicidi – una equivoca magnanimità che Mitterrand non dimostrò mai, né lui né i successori, contro il terrorismo francese di Action Directe, per esempio, i cui capi finirono in galera con pene durissime, sebbene l’estensione e la portata del fenomeno in Francia non sia stata minimamente paragonabile agli anni di piombo in Italia. Per dire, quando Cesare Battisti – il terrorista dei Proletari armati per il Comunismo, condannato per quattro omicidi, a due dei quali aveva partecipato direttamente – riparò in Francia, e poi scappò dalla Francia nel Brasile di Lula, nacque a Parigi (e in Italia) una mobilitazione intellettuale che ne faceva una specie di eroe romantico perseguitato da un regime (la descrizione dell’Italia degli anni settanta come una specie di Cile di Pinochet), e processato senza garanzie. Si rispolverarono fisarmoniche. Si cantò “Addio Lugano bella”. Si potevano di nuovo fare le fiaccolate al chiaro di luna. La cosa ovviamente lasciava sgomenti e amareggiati i familiari delle vittime del terrorismo, di solito le ultime a essere prese in considerazione, ma anche tantissime persone a sinistra. Fatto è che già il primo ministro Raffarin decise di restituire all’Italia l’ex brigatista Paolo Persichetti, nel 2002. La vicenda di Battisti infiammò però l’opinione pubblica francese assai di più di quella di Persichetti, o di Marina Petrella (brigatista anche lei, tra gli arrestati odierni). E vennero fuori alcuni atteggiamenti e tic a dir poco irritanti, tra gli intellò parigini, e tra alcuni italiani. Almeno di tre tipi. Lo storico Marc Lazar li descrisse così a La Stampa: «Alcuni intellettuali - rappresentati dalla figura di una grande scrittrice, Fred Vargas - sono convinti in buona fede che il caso Battisti sia un nuovo caso Dreyfus, il caso di un uomo ingiustamente perseguitato.  C'è poi una seconda area - diciamo guidata da Bernard Henry Lévy - che non entra nel merito della colpevolezza di Battisti, si limita a proporre un'interpretazione estensiva della dottrina Mitterrand, che amplia il diritto d'asilo a tutti gli ex terroristi. Infine una terza schiera di scrittori ha l'idea che negli anni settanta in Italia ci fosse una guerra civile, e Battisti fa parte di una lunga fila di vittime di questa guerra. È l'idea che sostiene, per esempio, Philippe Sollers». Mitterrand, sostennero allora gli avvocati di Battisti, aveva incluso anche il caso di Battisti tra quelli protetti dalla “dottrina”, e lo comunicò a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Come che sia, adesso questo groviglio, giuridico e morale, si ripropone. Probabilmente il caso che farà più discutere, per la densità e la risonanza storica italiana del crimine a cui è legato, è quello di Giorgio Pietrostefani, uno dei fondatori di Lotta Continua, condannato a 22 anni per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi (Ovidio Bompressi e Leonardo Marino furono gli autori materiali, Pietrostefani e Adriano Sofri furono condannati come mandanti). Prima della sentenza della Corte d’appello di Venezia, quindicesima in dodici anni, che confermò la condanna a Pietrostefani, lui fuggì a Parigi. Aveva avuto problemi di salute e un trapianto al fegato. Da anni tutti sapevano dove vivesse, spesso frequentava persino giornalisti, ma nessun governo dall’Italia lo aveva mai chiesto indietro. Mario Calabresi, il figlio del commissario assassinato sotto casa a Milano il 17 maggio del 1972, conclude il suo libro “Spingendo la notte più in là” proprio andando a Parigi: «Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è stato condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre. Lo ricordo ai processi, la faccia dura, mai una parola, mai un’emozione. Un oggetto misterioso, sembrava fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava molto disagio». Prima di questo incontro, la signora Gemma Capra, la vedova di Calabresi, aveva detto al figlio: «Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita».

Ai reduci del terrore la scelta di non passare tutta la vecchiaia in cella. Una legge sul pentimento tardivo per sapere dai brigatisti rimpatriati dalla Francia tutto sulle stragi e gli attentati. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 29 aprile 2021. Il vento sull’Italia è cambiato e dunque è cambiata anche la politica francese nei nostri confronti: ieri all’alba sono stati catturati sette brigatisti Rossi o terroristi di altre organizzazioni come Lotta Continua come rifugiati e che sono in via di consegna alla magistratura italiana affinché possano scontare quel che resta delle condanne cui si sono sottratti grazie alla compiacenza francese. È stato il presidente Macron a darne notizia ieri con impeccabile faccia tosta: ha detto infatti che essendo state molto pressanti e continue le richieste italiane per avere i latitanti condannati per terrorismo, l’Eliseo aveva deciso di concedere all’Italia quanto richiesto, contribuendo così ad una migliore politica comune e tutte le altre chiacchiere di circostanza. Il fatto è che l’Italia finora era stata beffata e che soltanto adesso si vede trattata come un paese di serie A. Ciò dipende – supponiamo – dalla presenza di Mario Draghi al governo e anche dal fatto che Macron è in campagna elettorale contro Marie Le Pen. È anche un fatto notevole è che un altro presidente, il brasiliano Lula, appena scarcerato dopo aver passato un periodo di detenzione per accuse di malversazioni, abbia detto di essersi sbagliato quando concesse fraterna ospitalità al brigatista terrorista Cesare Battisti, il quale dopo aver passato molti anni di vita serena a Parigi protetto dalla intellettualità della capitale francese, aveva preferito tagliare la corda perché sentiva puzzo di bruciato. Battisti, nel frattempo era già stato assicurato alla giustizia. Dunque, molte cose stanno cambiando ma non abbiamo la più pallida idea se Giorgio Pietrostefani, Marina Petrella, Enzo Calvitti, Roberta Cappelli e Sergio Tornaghi, coloro che sono stati per ora messi a disposizione delle autorità italiane, apriranno bocca o la terranno chiusa per sempre. Alcuni di loro hanno già detto di essere irriducibili, cioè non pentiti e non collaborativi, di essere pronti a stare e morire in carcere, senza cedere un solo centimetro o minuto. Non sappiamo ancora se davvero lo faranno e quanti prenderanno questa posizione.

Sarebbe interessante – e ci permettiamo di suggerirlo ai deputati e senatori che fanno le leggi – provare a fornire ai nostri magistrati uno strumento di pentimento tardivo: poiché adesso siete qui, siete vecchi, e dovreste passare una infernale vecchiaia in catene, potreste provare a barattare come hanno fatto gli altri pentiti una parte della vostra libertà in cambio della verità su tutto ciò che è accaduto negli anni Settanta e Ottanta? Prima di tutto il rapimento, l’interrogatorio, l’esecuzione di Aldo Moro dai suoi carcerieri, chiede di essere conosciuto perché tuttora è largamente ignoto. Io personalmente nella veste di presidente di una commissione bicamerale d’inchiesta del Parlamento della Repubblica italiana sono andato nel 2006 a Budapest per una missione internazionale, nel corso della quale ho raccolto insieme agli altri membri della commissione le informazioni del procuratore generale di quel paese magiaro secondo cui gran parte dei brigatisti Rossi italiani avevano vissuto e operato a Budapest agli ordini del terrorista venezuelano Carlos, oggi all’ ergastolo nelle carceri francesi. La magistratura ungherese non fu in grado tecnicamente di concederci documenti che ricadevano nella giurisdizione dell’attuale governo russo, ma la cosa che a mio parere grida vendetta è che nessun magistrato, pur trovandosi in presenza di eventi documentati, abbia mai preso l’iniziativa di sapere come andarono le cose nel rapimento Moro, viste dalla tana dei fuggiaschi delle BR. Tra gli arrestati c’è Giorgio Pietrostefani che faceva parte del gruppo di Lotta Continua a cui è stato attribuito il delitto veramente infame e spietato del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato in strada davanti ai figli che stava per accompagnare a scuola. Calabresi era stato l’oggetto di una campagna di stampa forsennata guidata da Lotta Continua in cui fior di intellettuali per non dire tutti gli intellettuali a cominciare da Umberto Eco e fino a Norberto Bobbio, per non dire i giornalisti di grido dell’epoca firmarono allora un manifesto proclama che assegnava a Luigi Calabresi la patente di torturatore. Il fatto si riferiva alla morte dell’anarchico Piero Pinelli, fermato all’ indomani della strage del 12 dicembre in piazza Fontana a Milano, il quale pensando che i suoi compagni anarchici del ponte della Ghisolfa fossero coinvolti nell’attentato, si gettò per disperazione dalla finestra. La verità completa non si è mai saputa, salvo un dettaglio: e cioè che il commissario Luigi Calabresi non era presente quando l’anarchico Pinelli volò dalla finestra della questura. Ma Calabresi fu assassinato e i suoi presunti assassini, accusati dal pentito Marino, furono condannati. In Italia, la condanna di Adriano Sofri come istigatore suscitò un aspro dibattito. Tuttavia, le condanne furono espresse da un tribunale della Repubblica e per quello che riguarda Giorgio Pietrostefani, ancora la sentenza non era stata applicata a uno dei presunti responsabili. Tira aria nuova dicevamo all’inizio perché evidentemente è stato dichiarato estinto o non più usabile quel tipo di clima intimidatorio che i radical chic parigini hanno sempre usato nei confronti dei governi italiani, anche quando erano guidati dalle sinistre, proteggendo qualsiasi rapinatore o terrorista cercasse asilo sulle rive della Senna. A loro si applicava una cosiddetta “linea Mitterrand” che consisteva nell’autorizzare la concessione dell’asilo coloro che non si fossero macchiati di delitti di sangue. In realtà, la “linea Mitterrand” era poi applicata a tutti. Le persone che sono state ieri rese disponibili per la giustizia italiana sono tutte accusate e condannate per fatti di sangue e dunque non avrebbero mai dovuto godere di alcuna protezione neanche in Francia, neanche seguendo la morbida linea del presidente Francois Mitterrand. C’è stato un cambio di linea vistoso, perché la Francia ha rinunciato ad uno dei suoi specialissimi diritti che applica fin dai tempi della rivoluzione, quando a partire dalla dittatura di Robespierre la Repubblica francese e poi l’impero e poi la monarchia e poi di nuovo l’impero e poi di nuovo la Repubblica, pratica sempre a sua discrezione: la libertà di mantenere le porte aperte per chi voleva rifugiarsi in Francia e magari andare a rimpinguare le file dei suoi eserciti e della legione straniera. Questo è sempre stato un vezzo francese, uno dei molti motivi per cui la Francia ha marcato la propria diversità. In questo momento la Francia sta vivendo una crisi che in un altro paese europeo sarebbe impensabile: molti generali francesi stanno minacciando il governo e il presidente Macron di insurrezione militare perché dicono di sentirsi minacciati dalla jihad, dai movimenti terroristici islamici a causa dell’impegno militare francese nell’Africa occidentale in tutti i paesi che facevano parte del suo impero e ne fanno ancora parte sia pure in maniera truccata. La Francia quindi ha dei problemi suoi di grande piccola potenza europea ed africana, ha una politica estera che non coincide con quella europea, così come molti altri fattori identitari e militari che la rendono sdegnosamente unica. Concedendo all’Italia ciò che ha concesso, la Francia ha rinunciato a un frammento di questa sua sovranità. Lo ha fatto attraverso parole d’ufficio come quelle usate dal presidente Macron quando ha detto che la liberazione, anzi, la consegna dei detenuti italiani alle autorità della nostra Repubblica costituiva semplicemente uno sviluppo delle buone relazioni fra i due paesi per la comune lotta contro il terrorismo. Così si chiude il primo capitolo di una nuova storia e speriamo che presto si scrive il secondo capitolo: quello in cui gli uomini e le donne che finora hanno vissuto tranquillamente in un paese che li ospitava, vedendo aprirsi la porta delle patrie galere possono avere finalmente la tentazione, e l’interesse di vuotare il sacco.

Paolo Colonnello per "la Stampa" il 29 aprile 2021. L'ultima volta che prese la parola per questa storia fu nel lontano aprile del 1990 e fu per chiedere la condanna a 22 anni di reclusione degli assassini del commissario Luigi Calabresi. Poi Ferdinando Pomarici, già allora magistrato di punta nella lotta al terrorismo oggi in pensione, di questo processo che si protrasse per altri 9 anni e 14 sentenze (tra annullamenti, ricorsi, conferme), non volle più parlare. «Non mi voglio mescolare alle tante voci inutili che affollano i talk show». Ma ieri, l'arresto di Giorgio Pietrostefani, l'unico dei tre imputati (gli altri erano Adriano Sofri e Ovidio Bompressi) fuggito nel 2002 per rifugiarsi a Parigi, ha cambiato qualcosa, ha chiuso un ciclo. Perché nella visione "olistica" della giustizia di un magistrato tutto d' un pezzo come Pomarici, un processo non può essere separato dalla pena né dalla redenzione dell'eventuale condannato.

«Così come prevede la Costituzione: ora gli arrestati, se sapranno dimostrare di aver cambiato vita, potranno accedere ai benefici di legge che il giudice di sorveglianza vorrà concedergli».

Si chiude un'epoca dunque e si archivia anche la famosa "dottrina Mitterand" che permise ai molti terroristi nostrani di riparare in Francia.

«Non confondiamo: la dottrina Mitterand in questa storia non c' entra nulla perché il suo presupposto era che per rimanere in Francia non bisognava aver commesso fatti di sangue. Invece quelli arrestati ieri erano tutti stati condannati per omicidio. E dunque avrebbero potuto essere tranquillamente estradati 40 anni fa».

E perché non accadde?

«Credo per comodità, per pigrizia, per quieto vivere. Per non dover affrontare i giornalisti, per un'ipocrisia di fondo della classe politica e degli intellettuali di questo paese».

Parole dure, procuratore.

«Dico solo quello che penso: chi avrebbe dovuto procedere non ha voluto affrontare il problema. Certo, si sarebbe esposto a polemiche, dovendosi assumere le proprie responsabilità. Si preferì non farlo. Oggi che l'aria è cambiata, scopriamo che ci sono persone che hanno commesso omicidi che da 40 anni stavano in libertà».

Per tutti questi anni non si è potuta rendere giustizia alle vittime di una stagione di cui si è preferito nascondere la polvere sotto il tappeto. È così?

«Come sempre in Italia manca un vero dibattito sulle grandi questioni, che non ci può essere se prima non c' è un aspetto punitivo e risarcitorio. Perché esiste lo Stato? Per impedire che la vedova Calabresi o il figlio Mario, o qualunque famigliare di una delle vittime di quella stagione, un domani prendano un mitra e vadano a sparare agli assassini riconosciuti dei loro cari. Ma se lo Stato rinuncia a questa possibilità come ha fatto per anni, quale dibattito si può aprire?».

Per qualcuno questi arresti sono in realtà più una vendetta dello Stato debole che un atto di giustizia. In fondo, a 40 anni dai fatti, che senso ha mettere in carcere una persona che sicuramente non è più la stessa?

«Infatti la tragedia è proprio questa: aver rinunciato al loro arresto tanti anni fa, significa da una parte averli condannati a una vita di menzogna e averli privati nel contempo della possibilità di chiedere alla magistratura i benefici concessi a chi dimostra di aver cambiato vita. E non sono io a dirlo, ma la Costituzione che detta i tempi giusti. E che prevede l'espiazione in carcere. Poi c' è l'aspetto rieducativo della pena che è altrettanto importante di quello punitivo ma arriva dopo. Se saltiamo a piè pari questi passaggi, non potremo mai aprire la strada a una valutazione dell'emenda del reo».

Dottore, però dopo 40 anni come si fa a giudicare la coscienza di un individuo?

«Non è questo il punto. Se si sottrae allo Stato la possibilità di valutare l'intervenuto cambiamento di una personalità come quella, ad esempio, di Pietrostefani, si sottrae la funzione della giustizia di un Paese democratico. Tra Pietrostefani e Sofri, trovo che alla fine sia stato molto più serio Sofri».

Rimase sorpreso della fuga di Pietrostefani?

«No, lui era già un manager quando venne arrestato la prima volta, e si era completamente de-ideologicizzato. Per cui era diventato estraneo a qualunque forma di tenuta sul punto di ciò che era stata Lotta Continua».

Come giudicherebbe oggi quell' organizzazione?

«Non certo terroristica, Lotta Continua anzi fu sciolta dal suo interno perché ci fu chi si rese conto che stava dando luogo ad organizzazioni terroristiche».

Che figura ci fanno i francesi?

«Di connivenza. La loro è stata boria, perché si ritenevano il sistema giudiziario migliore d' Europa e non accettavano l'idea che potessero esserci condanne in contumacia».

E per lei, che significato hanno questi arresti?

«Il fatto che tutti i colpevoli siano stati consegnati alla giustizia mi dà una sensazione di vittoria personale, ma non verso gli imputati bensì per aver onorato un impegno verso le vittime. È la soddisfazione di un percorso ultimativo della giustizia». 

Marco Galluzzo per il Corriere della Sera il 29 aprile 2021. Ministra Cartabia, dopo decenni le autorità francesi accolgono le nostre richieste e arrestano i terroristi italiani che si sono rifatti una vita in Francia.

Lei come titolare della giustizia ha gestito questa ultima fase. Cosa è cambiato rispetto al passato?

«Questa vicenda si protrae da oltre quattro decenni. Dietro questa svolta c' è un lavoro che ha coinvolto negli anni vari soggetti a più livelli. Sin dal mio primo colloquio col ministro della Giustizia francese ho percepito una chiara sensibilità alla portata storica e politica del problema, un'umana partecipazione al dolore delle vittime e una netta determinazione ad impegnarsi per porvi rimedio. Non so se le origini italiane del ministro Dupond-Moretti, di cui va molto fiero, possano aver giocato un ruolo. Decisivo è stato anche il fatto che, mai come ora, tutte le nostre istituzioni si sono mosse in modo compatto e tempestivo. Una modalità d' azione, a cui ispirarsi sempre».

L'Eliseo ha confermato la dottrina Mitterrand, ma ha concesso quello che prima negava. Perché?

«Nel colloquio con Dupond-Moretti ho ribadito con fermezza l'importanza del fattore tempo, avendo ben presente il calendario delle imminenti prescrizioni. La prossima sarebbe stata il 10 maggio. E ho voluto anche fare chiarezza una volta per tutte sul duplice equivoco, che per anni ha ostacolato la concessione delle estradizioni: anzitutto stiamo parlando di persone condannate in via definitiva per reati di sangue e non processate per le loro idee politiche; in secondo luogo le condanne sono state pronunciate all' esito di processi celebrati nel pieno rispetto delle garanzie difensive del nostro ordinamento. Come in questi anni più volte è stato ricordato, con le parole di Sandro Pertini, "l'Italia ha sconfitto gli anni di piombo nelle aule di giustizia e non negli stadi"».

L'amicizia fra Draghi e Macron ha avuto un ruolo?

«So per certo che c' è stata una telefonata, ai miei occhi decisiva, tra il presidente Draghi e il presidente Macron».

Quanto ci vorrà per l'effettiva estradizione in Italia?

«Difficile fare previsioni precise, anche perché si tratta di fascicoli complessi. Di certo, io direi non dobbiamo aspettarci un rientro a breve, nei prossimi giorni. Gli arresti di ieri servivano a scongiurare il pericolo di fuga. Ora i giudici valuteranno se convalidarli e se applicare misure cautelari. Poi inizieranno i procedimenti, per valutare caso per caso la sussistenza dei presupposti per la concessione dell'estradizione. E poi ancora, come sempre avviene in queste procedure, l'ultima parola è dell'autorità politica».

Cosa garantisce che queste persone arrivino in Italia? Negli anni 80 a diversi arresti in Francia non è seguita poi l'estradizione.

«Come accennato poco fa, la procedura è ancora molto lunga e articolata e soggetta a specifiche valutazioni che terranno conto dei singoli casi. Per questo, gli esiti sono ora tutti nelle mani dell'autorità giudiziaria francese. Certamente, il clima in cui questa svolta è avvenuta mi pare molto diverso rispetto ad allora».

Che giustizia è quella attuata con tanto ritardo sui fatti contestati?

«Nessun ordinamento giuridico può permettersi che una pagina così lacerante della storia nazionale resti nell' ambiguità, e resti irrisolta. La storia offre numerosi esempi di giudizi celebrati e di vicende giudiziarie portati a compimento a molti anni di distanza. La nostra volontà di riproporre la richiesta delle estradizioni non risponde nel modo più assoluto ad una sete di vendetta, che mi è estranea, ma ad un imperioso bisogno di chiarezza, fondamento di ogni reale possibilità di rieducazione, riconciliazione e riparazione, fini ultimi e imprescindibili della pena».

Si può ancora parlare di rieducazione della pena a distanza di 40 anni?

«Qualunque processo di rieducazione e anche di riconciliazione personale e sociale, specie dopo ferite particolarmente profonde, non può non partire dal riconoscimento di ciò che è accaduto e da un'assunzione chiara di responsabilità. Non a caso, in Sud Africa, dopo l'Apartheid, è stata costituita una commissione denominata "verità e riconciliazione". Questo è forse il primo rilevante esempio di giustizia riparativa, che tra l'altro ha ispirato un analogo percorso qui in Italia tra protagonisti della lotta armata e i familiari delle vittime».

La vicenda di Battisti e la confessione finale di diversi delitti, negati quando stava in Francia e in Brasile, può aver avuto un ruolo?

«Sicuramente questa vicenda ha contribuito a dare una visione più corrispondente alla realtà degli anni di piombo e quindi a creare anche in Francia un clima più favorevole all' accoglimento delle richieste italiane».

Terrorismo: Francia, si costituisce anche Raffaele Ventura. (ANSA il 29 aprile 2021) Anche Raffaele Ventura, uno dei ricercati nell'operazione 'Ombre Rosse', si è costituto oggi a Parigi: è quanto riferiscono fonti della giustizia francese citate dalla France Presse.  (ANSA) Luigi Bergamin, uno dei 3 ex terroristi rossi in fuga dopo l'ondata di arresti di ieri mattina in Francia, si è presentato a palazzo di Giustizia di Parigi assieme al suo avvocato per costituirsi. Lo ha appreso l'ANSA da fonti inquirenti. Luigi Bergamin, ex militante dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo), deve scontare una pena di 16 anni e 11 mesi di reclusione come ideatore dell'omicidio del maresciallo Antonio Santoro, capo degli agenti di polizia penitenziaria ucciso a Udine il 6 giugno 1978 da Cesare Battisti. L'8 aprile per Bergamin sarebbe scattata la prescrizione, ma i termini sono stati interrotti dal magistrato di sorveglianza milanese Gloria Gambitta su richiesta del pm Adriana Blasco, che ha dichiarato Bergamin "delinquente abituale". La vicenda giudiziaria di Bergamin e degli altri italiani è stata seguita direttamente in Francia dalla magistrata di collegamento italiana a Parigi, Roberta Collidà, in stretta cooperazione con i colleghi francesi. Oggi la Collidà si trova a Roma per una riunione al ministero di Giustizia, destinata a fare il punto sull'operazione "Ombre Rosse" e i suoi sviluppi nei prossimi giorni. (ANSA il 29 aprile 2021) "E' una buona notizia, si è costituito, vuol dire che ha capito, è un'ammissione. Adesso potrà scontare le proprie colpe". E' il commento di Adriano Sabbadin, il figlio del macellaio Lino Sabbadin, ucciso nel 1979 dai Pac, nell'apprendere che l''ex terrorista rosso Luigi Bergamin si è costituito alle autorità francesi a Parigi. Sull'operazione che ha visto la collaborazione tra Italia e Francia Sabbadin ha aggiunto: "io non ho mai avuto dubbi sulla giustizia italiana".

(ANSA il 29 aprile 2021) E' l'unico ancora libero e se riuscirà a sfuggire all'antiterrorismo e a rimanere nascosto per altri dieci giorni lo sarà per il resto della vita: sui 5 anni e 9 mesi di reclusione che ancora deve scontare per banda armata, associazione sovversiva, sequestro di persona e rapina, il 10 maggio piomberà la prescrizione e a quel punto non sarà più perseguibile dalla giustizia italiana. E' una corsa contro il tempo quella degli investigatori francesi e italiani per localizzare Maurizio Di Marzio, l'unico degli ex terroristi rifugiati in Francia ancora latitante dopo che Luigi Bergamin e Raffaele Ventura si sono costituiti. I contatti tra l'antiterrorismo dei due Paesi sono costanti, con un continuo scambio di informazioni e il monitoraggio di tutte le persone in Francia e in Italia che in qualche modo possano aver avuto o avere ancora oggi legami con lui. Romano, appartenente all'ala militarista delle bierre, per Di Marzio sarebbe il secondo arresto in Francia: lo presero già una volta nell'agosto del 1994, sempre su richiesta dell'Italia, e l'anno dopo la Corte d'Appello espresse parere favorevole all'estradizione. Ma il decreto governativo non fu mai firmato e l'ex terrorista tornò libero. Negli anni successivi, ricordano gli investigatori che non hanno mai mollato la caccia agli ex terroristi, si è sposato, ha aperto il ristorante 'Baraonda' e ha partecipato a diverse iniziative in favore dei rifugiati in Francia. Negli archivi di polizia, il suo nome è legato all'attentato al dirigente dell'ufficio provinciale del collocamento di Roma Enzo Retrosi, nel 1981, e soprattutto al tentato sequestro del vicecapo della Digos della capitale Nicola Simone il giorno della Befana del 1982. "Un brigatista travestito da postino, con divisa e blocchetto delle ricevute in mano, bussò verso le 15 - scriveva il quotidiano L'Unità una settimana dopo -. Simone guardò prima attraverso lo spioncino poi aprì, ma in pugno aveva la sua 38 special perché non si fidava. Secondo la prima ricostruzione il terrorista avrebbe sparato contro il funzionario di polizia, il quale avrebbe avuto la forza di reagire esplodendo a sua volta due colpi. Stando alla nuova versione, invece, altri componenti del commando Br erano appostati sul pianerottolo e avrebbero cercato di aggredire Simone per immobilizzarlo e rapinarlo. Allora il vicecapo della Digos avrebbe aperto il fuoco per primo, ferendo con due colpi uno dei terroristi e poi sarebbe caduto a terra ferito a sua volta da tre proiettili al volto". Tra i rifugiati a Parigi quell'agguato è contestato oltre che a Di Marzio anche a Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli e Marina Petrella. A Nicola Simone - che dopo la lotta alla Br è stato il primo direttore dell'Interpol Italia, del Servizio centrale operativo e a capo della missione interforze in Albania alla fine degli anni Novanta - lo Stato italiano ha conferito la medaglia d'oro al valore civile: "Vittima di un tentativo di sequestro da parte di alcuni terroristi armati penetrati con inganno nella sua abitazione - si legge nella motivazione - con estremo coraggio e decisione reagiva prontamente con l'arma in dotazione. Sebbene gravemente ferito, colpiva a sua volta un criminale, e messi in fuga gli altri aggressori ne consentiva poi l'individuazione e l'arresto". Il vicequestore, diventato poi prefetto, è morto poco più di un mese fa ad Avezzano. Dieci giorni dopo l'attentato, gli investigatori individuarono a Marino, vicino Roma, una villetta che doveva essere la prigione del popolo, come via Montalcini fu per Moro: all'interno c'era una tenda canadese, una branda, catene, lucchetti, armi, munizioni, targhe e documenti.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 29 aprile 2021. Procuratore, adesso tanti diranno che sono passati decenni, gli individui sono cambiati, e i loro crimini vanno calati nel contesto dell'epoca... «Per adesso io mi concentro sul fatto che questi signori come la normativa impone siano portati qui e le pene siano eseguite». In carceri di massima sicurezza? «Visti i reati di cui sono accusati, direi proprio di sì». Francesca Nanni, procuratore generale a Milano, sul tavolo ha due fascicoli alti una spanna: sono quelli di due tra i più in vista dei sette terroristi arrestati poche ore prima a Parigi, Giorgio Pietrostefani e Sergio Tornaghi. Sono ore febbrili, in attesa di notizie dalla Francia, ma con la convinzione che una caccia durata decenni ai responsabili di delitti orrendi sta per concludersi. Anche se intorno agli ex fuggiaschi sta muovendosi una pattuglia di legali decisi a ostacolare in ogni modo la loro riconsegna all’Italia. «Bloccheremo l'estradizione - tuona da Parigi il legale Irene Terrel - sono indignata e non ho parole per descrivere questa operazione». In realtà, come si spiega negli ambienti giudiziari, perché i sette arrivino materialmente da questa parte delle Alpi non serve un provvedimento di estradizione, poiché la Francia ha aderito alla convenzione sul Mandato d'arresto europeo (Mae), uno strumento semplificato che consente la consegna rapida di ricercati tra i paesi membri. Saranno necessari ancora alcuni passaggi che ritarderanno l'operazione, ma nel giro di una o due settimane la comitiva dei refugé dovrebbe approdare in Italia: senza, garantiscono al ministero della Giustizia, che questo diventi uno show mediatico come accadde per il loro compagno Cesare Battisti. La vera domanda che in queste ore cerca una risposta è: cosa accadrà dei sette una volta rientrati in Italia? A rendere il tema complicato c'è il tempo trascorso dai fatti e dai processi che li hanno visti protagonisti e condannati. Il codice penale prevede infatti che le condanne si prescrivano una volta trascorso il doppio del loro importo, e comunque entro trent'anni. Fa eccezione la condanna all'ergastolo, che non si prescrive mai. Per i tre condannati in via definitiva al carcere a vita, dunque, il problema non si pone. Sono Tornaghi, la Petrella e Manenti: carcere del circuito As (Alta sorveglianza) e uniche speranze di tornare in circolazione affidate ad una eventuale istanza di conversione della pena. Ci provò già Battisti e gli andò male, e anche nel loro caso la lunga fuga all'estero non contribuirà ad un trattamento indulgente. Diverso è il caso per gli altri quattro, condannati a pene tra i dieci e i vent'anni, che potrebbero venire dichiarate prescritte. Nelle scorse settimane da Parigi era emerso che per due dei ricercati dall'Italia, Luigi Bergamin e Maurizio Di Marzio, la prescrizione della pena era stata calcolata «tra l'8 aprile e il 10 maggio». Siamo, come si vede, quasi fuori tempo massimo, e proprio questo ha portato probabilmente ad accelerare la retata. Sono temi che comunque andranno affrontati in fase di esecuzione della pena, una volta che i sette (e, si spera, i tre che mancano ancora all'appello) saranno tornati in patria. E a quel punto a togliere almeno ad alcuni dei condannati le possibilità di annullare l'arresto potrebbe essere proprio la scelta di fuggire: «La prescrizione della pena - spiega infatti Francesca Nanni - decorre dalla condanna definitiva o dal momento in cui ci si dà alla latitanza». Nel caso per esempio di Giorgio Pietrostefani, condannato per il delitto Calabresi, il calcolo partirebbe dal 24 gennaio 2000: quando, dopo essere stato scarcerato in attesa del processo di revisione, si diede alla macchia un'ora prima della sentenza. «Voglio le scuse del Paese», aveva detto l'ex capo dell'ala militare di Lotta Continua prima della sentenza. Quando andarono a cercarlo dopo la condanna, i carabinieri non trovarono neanche lo spazzolino da denti. È durata vent'anni.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2021. Dunque è durata una notte, la detenzione degli ex terroristi degli anni Settanta arrestati all' alba di mercoledì in Francia. Ma nella strategia italiana la decisione dei magistrati francesi non rappresenta una sorpresa e tantomeno un intoppo. Il blitz e gli arresti erano necessari per interrompere il decorso della prescrizione, evitando così che per sei dei dieci rifugiati Oltralpe - i non ergastolani - di qui a poco tempo l'Italia non potesse nemmeno più chiedere la riconsegna. Compiuto questo atto, e considerando che i tempi per le procedure in tutti i loro passaggi saranno piuttosto lunghi (si prevedono un paio d' anni, anche se la prima udienza davanti alla Chambre d'accusation è stata fissata per mercoledì prossimo) era prevedibile che gli estradandi non restassero in prigione. Anche perché il vaglio preventivo effettuato dal Bureau del ministero della Giustizia francese ha riguardato solo l'ammissibilità delle istanze giunte da Roma, non il merito. Domande accettate, ma risposte non scontate. Dei dieci condannati che l'Italia reclama, solo su tre la giustizia francese non s' è mai pronunciata in precedenza; si tratta dell'ex brigatista Enzo Calvitti, di Narciso Manenti (ergastolano per un delitto firmato Guerriglia proletaria) e dell'ex dirigente di Lotta continua Giorgio Pietrostefani, condannato per l'omicidio Calabresi. Per loro è la prima volta che si apre una procedura di estradizione, mentre per gli altri sette si era sempre bloccata, per un motivo o per l'altro. Proprio esaminando il fascicolo di Pietrostefani, il rappresentante della Procura che ha firmato il provvedimento d' arresto aveva già anticipato che in sede di convalida avrebbe chiesto la scarcerazione, a causa delle sue precarie condizioni di salute. Ancora alla salute è legato il precedente che riguarda Marina Petrella, l'ex br condannata all'ergastolo che nel 2007 fu arrestata per essere rimpatriata, ma dopo un anno di carcere ottenne dall' ex presidente Nicolas Sarkozy la concessione dell'asilo per motivi umanitari. Stava male, la prigionia aveva peggiorato la situazione, e dall' Eliseo venne applicata la norma che consente di negare l'estradizione se questa mette a rischio la salute fisica e mentale del condannato. Ora il presidente è cambiato, ma quel provvedimento è ancora valido? Nell' istanza ripresentata dall' Italia si sostiene che dopo 13 anni sarebbe opportuno riverificare se le condizioni della donna, oggi sessantacinquenne, siano ancora incompatibili con la detezione. Ma è possibile che prima ancora di affrontare la validità dell'atto di clemenza, il giudice francese debba rivalutare il suo dossier dall' inizio, e dunque pronunciarsi nuovamente sulla richiesta di riconsegna. Stessa cosa per gli altri (Roberta Cappelli, Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin), che avevano avuto il parere favorevole della Chambre d' accusation, ma per i quali non era mai arrivato il «via libera» politico da parte del capo del governo. Sergio Tornaghi invece, già brigatista della colonna milanese che dovrebbe scontare l'ergastolo per l'omicidio del dirigente d' azienda Renato Briano, è già comparso due volte davanti alla Chambre, e per due volte la domanda italiana è stata respinta. Ora bisogna stabilire se è possibile tornare su quelle decisioni oppure no. E un caso ancora diverso è quello di Raffele Ventura, ex militante delle Formazioni comuniste combattenti, al quale in passato fu notificato un mandato di arresto europeo poi annullato perché inapplicabile per i reati commessi prima della sua istituzione. Altra complicazione è che Ventura nel frattempo ha ottenuto la cittadinanza francese. «Lui rifiuta la domanda di estradizione e vuole rimanere qui, dove vive da quarant' anni», ha spiegato ieri il suo avvocato Jean-Pierre Mignard. La Divisione antiterrorismo parigina, in collegamento con la polizia italiana, aveva verificato già da qualche giorno prima del blitz che Ventura, come Bergamin e Maurizio Di Marzio, non tornavano più a dormire nelle loro abitazioni. S' erano allontanati, probabilmente subodorando la retata, ma poi gli avvocati hanno convinto Ventura e Bergamin a presentarsi la mattina dopo, anche per non compromettere la scarcerazione degli altri. Che nelle aspettative del governo italiano non pregiudica l'esito della nuova offensiva. Ora si tratta di superare l'ostacolo giudiziario, perché il vaglio politico che in passato ha frenato alcune estradizioni, stavolta è stato affrontato prima. E Macron, dopo la promessa fatta a Draghi, s' è persino preoccupato di non ritardare troppo i tempi del blitz, rallentati dall' attentato jihadista avvenuto a Rambouillet il 23 aprile. Così gli arresti sono scattati subito.

Intrighi e giudici di parte: Parigi fa scudo ai terroristi. Francesco De Remigis l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo gli arresti inizia la lunga partita nei tribunali La rete ideologica si è attivata. E l'Italia resta vigile. Il secondo round non si combatte più tirando jab di natura politica. Come Rocky e Apollo Creed che un tempo se le suonavano, e infine la storia cinematografica li porta a una vincente collaborazione, Italia e Francia sono oggi fianco a fianco per dare «giustizia» alle vittime del terrorismo «rosso» degli Anni di Piombo. Per settimane, governi e sherpa hanno lavorato per l'estradizione di 10 italiani la cui pena era vicina alla prescrizione. Emmanuel Macron ha «ordinato» blitz parigini all'alba: acciuffati 7 dei ricercati; altri 2, irreperibili, si sono presentati spontaneamente 24 ore dopo, ottenendo, tutti, vari gradi di libertà vigilata. Ora il governo italiano è in una «vigile attesa» che potrebbe riservare più d'una sorpresa. Perché la Francia ha una lunga tradizione di intrighi, e intrecci vari che negli anni hanno permesso agli ex terroristi di rifarsi una vita, senza che nessuno (o quasi) andasse a chieder loro conto di condanne e sentenze passate in giudicato. Soprattutto, manca ancora all'appello Maurizio Di Marzio, tra i più giovani del gruppo da estradare, tuttora latitante. A 63 anni, è forse l'unico a cui conveniva non farsi trovare (fu arrestato una prima volta nel '94); tanto meno costituirsi, e affrontare un percorso giudiziario che punta a riportarlo in Italia dove deve scontare 5 anni residui per tentato sequestro. Ha «solo» 9 giorni per consegnarsi. Poi non sarà più perseguibile: la prescrizione scatterà il 10 maggio. Senza l'arresto, la sua non si è infatti «congelata» come le altre. In una «stretta cooperazione» Roma-Parigi, si cerca dunque l'unico «irreperibile», con l'antiterrorismo in prima fila: non in banlieue ma nel «Triangolo d'Oro» della Ville Lumière, tra Champs Elysées e avenue George V. La rete ideologica di appoggi - ancora efficiente nonostante il pronunciamento di Macron in rottura col passato - snobba la periferia e opera nei palazzi. Con occhi e orecchie un po' ovunque, anche nei tribunali: Luigi Bergamin e Raffaele Ventura si sono consegnati solo dopo aver annusato aria di libertà vigilata. E Di Marzio, per cui tirava un vento diverso, è sparito con ancora in tasca i documenti. Superato l'ostacolo che era (ed è sempre stato) tutto «politico», legato a una «dottrina Mitterrand» applicata all'uopo da presidenti socialisti e pure di destra (Sarkozy negò l'estradizione della Petrella annettendo ragioni di salute che erano piuttosto «di famiglia»), per i 9 la battaglia si gioca ora in un'arena «mista», quella giudiziaria. Accusa e difesa. Ministri ed Eliseo non possono intervenire, non alla Camera dell'Istruzione della Corte d'appello di Parigi che in un mese «valuterà» in autonomia e indipendenza entità e motivazioni delle condanne in Italia. Grazie al pressing del premier Draghi e dalla Guardasigilli Cartabia, le estradizioni sono riemerse dal sottobosco, ma tocca vedere con quanta arbitrarietà i francesi leggeranno le carte italiane. Possono chiedere un supplemento d'indagine su ogni pratica. E, se pure diranno «Sì» (caso per caso), i super-legali dei terroristi possono far ricorso e allungare i tempi fino a 3 anni; oltre a parlare di «tradimento della Francia», come già hanno cominciato a fare cercando di orientare la decisione. Mercoledì a Parigi si aprirà dunque un incontro di boxe: giustizia Vs ideologia. Tra timori di politicizzazione (anche) delle toghe e tempi dilatati che potrebbero portare qualche «Ombra rossa» a lasciare il Paese clandestinamente al primo sentore amaro (come fece Cesare Battisti). Dalla Parigi di governo, c'è l'impegno a firmare le estradizioni: ma solo quando (e se) arriverà l'ok delle toghe transalpine. Una maratona giudiziaria. Mille variabili in mezzo. Roma incrocia le dita. I magistrati di collegamento hanno già provveduto a «spiegare» i singoli casi, tradotto tutti i fascicoli delle sentenze di ciascuno, istruendo la pratica al meglio. Dando, però, supporto «tecnico» dall'esterno. Purtroppo, senza funzione propulsiva. Non salgono cioè sul ring francese. Non possono: neppure suonare a campana.

Per l'estradizione percorso lungo. Gli ex terroristi arrestati in Francia tornano in libertà (vigilata): appello degli intellettuali a Macron. Fabio Calcagni su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Sono tutti nuovamente in libertà, ma sotto controllo giudiziario, gli ex terroristi rossi arrestati mercoledì in Francia. Accolte dunque le richieste presentate dall’avvocato Irène Terrel, che difende Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Narciso Manenti, Giorgio Pietrostefani e Marina Petrella, che aveva chiesto per i suoi assistiti misure alternative al fermo e consentire così il ritorno a casa. A questi vanno aggiunti Enzo Calvitti e Sergio Tornaghi, i primi ad essere stati rilasciati nella giornata odierna. Stessa sorte anche per Luigi Bergamin e Raffaele Ventura, che proprio oggi si sono consegnati alle autorità transalpine dopo essere sfuggi ieri all’arresto. Per i nove le misure di controllo giudiziario variano dall’obbligo di firma a quello di residenza. Il tutto ovviamente in attesa dell’inizio delle udienze davanti alla Chambre de l’Instruction per l’estradizione in Italia. Resta invece ancora a piede libero Maurizio Di Marzio, che partecipò nel 1982 al tentativo di sequestro del poliziotto Nicola Simone.

L’APPELLO DEGLI INTELLETTUALI – Personalità del mondo della cultura hanno rivolto un appello al presidente francese Emmanuel Macron affinché “mantenga l’impegno della Francia per gli esuli italiani” e si opponga all’estradizione degli ex terroristi arrestati in Francia. La lettera aperta è stata pubblicata sul quotidiano Liberation e sottoscritta da intellettuali e artisti come Valéria Bruni-Tedeschi, Jean-Luc Godard e Annie Ernaux. “Signor presidente, è per volontà di un presidente della Repubblica, François Mitterrand, che gli attivisti italiani di estrema sinistra impegnati nella violenza politica negli anni ’70 sono stati accolti nel nostro Paese con l’espressa condizione di abbandonare ogni attività illegale. Potresti non aver preso quella decisione ma il contesto era diverso, la “strategia della tensione” ancora viva, i giuristi francesi spesso erano perplessi sulle “leggi speciali” che regolavano le procedure italiane. E qualunque cosa si pensi di questa eredità, concorderai sul fatto che non si può tornare indietro nel tempo né cambiare gli eventi del passato”, si legge nella lettera, “Quarant’anni fa, diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi” e “Tutti hanno mantenuto il loro impegno a rinunciare alla violenza”. “Queste persone hanno oggi tra i 65 e gli 80 anni, hanno problemi legati all’età, di salute, dipendenza, invecchiamento, alcuni in Italia li usano come spaventapasseri per scopi politici interni che non ci riguardano”, scrivono gli intellettuali nell’appello, ricordando che in Francia solo i crimini contro l’umanità sono “imprescrittibili”.

L’ITER PER L’ESTRADIZIONE – Tutti i nove arrestati, come prevedibile, rifiuteranno l’estradizione. Per l’eventuale rientro in Italia quindi i tempi si faranno particolarmente lunghi, probabilmente due o tre anni. Se infatti la Corte d’Appello francese emetterà sentenza favorevole all’estradizione, i legali difensori potranno fare appello alla Corte di Cassazione. In caso di ‘successo’ dell’accusa nei vari gradi di giudizio, toccherà poi al primo ministro firmare il decreto di estradizione, ma i nove ex terroristi rossi potranno in questo caso fare ricorso presso il Consiglio di Stato.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Alberto Mattioli per “La Stampa” il 30 aprile 2021. È bene non farsi troppe illusioni. Per riportare in Italia gli "esuli" di Parigi ci vorrà molto tempo e anche molta pazienza. Irène Terrel, avvocata di sei dei dieci terroristi (Giorgio Pietrostefani, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Narciso Manenti, Luca Bergamin e Giovanni Alimonti) annuncia una battaglia processuale dura e soprattutto lunghissima.

Andiamo con ordine. Intanto, può confermare che questa sera (ieri per chi legge, ndr) i suoi assistiti sono tornati a casa?

«Sì, tutti».

E adesso cosa succederà?

«Mercoledì ci sarà un'udienza per le notifiche, ma è un passaggio puramente formale».

E poi?

«E poi ogni singolo caso sarà discusso davanti alla Corte d' Appello di Parigi. Poiché si tratta di questioni giuridiche delicate, saranno "affaires" molto complessi».

Tempi per la sentenza?

«Impossibile prevederlo».

Grosso modo: settimane, mesi, anni?

«Mesi, sicuramente. Forse anche anni».

Se la Corte deciderà che sono estradabili, lo saranno subito?

«No. Ci sarà il ricorso alla Corte di Cassazione, poi eventualmente ci sono il Consiglio di Stato e la Corte europea dei Diritti dell'uomo».

Il fatto che molti siano anziani o malati peserà?

«Certamente. E anche che da quarant' anni e più vivono in Francia dove si sono rifatti una vita, hanno coniugi, figli, nipoti francesi e hanno rispettato le leggi».

Secondo lei, perché la Francia ha deciso di cambiare politica sulla giustizia?

«La giustizia in questo caso c' entra nulla. Quella presa dal governo francese è una decisione politica e solo politica, anzi di bassa politica. In Francia si dice di politique politicienne».

Ma i dividendi di Macron quali sarebbero?

«Non sono nella testa di monsieur Macron. Io faccio l'avvocato e posso dire che questi arresti sono irricevibili sia dal punto di vista politico che giuridico. Sono la negazione dello Stato di diritto e di norme giuridiche elementari, come la prescrizione».

Anche le famiglie delle vittime aspettano giustizia da quarant' anni.

«A differenza di quel che ho letto su qualche giornale, ho la massima compassione per le vittime e rispetto per le loro famiglie. Ma in questa vicenda ci sono due problemi. Il primo è che le storie di queste persone non sono più valutabili dal punto di vista giudiziario, ma soltanto da quello storico. Serve un'opera di pacificazione e di riconciliazione. Ricordo che in Francia ci sono state delle amnistie per sanare vicende molto laceranti, come la guerra di Algeria».

E la seconda?

«La Francia non può tradire la parola data. Dal 1982 la République ha garantito asilo alle persone di cui parliamo e questa politica è stata seguita per i quattro decenni successivi da tutti i presidenti e da tutti i governi, sia di destra che di sinistra. Perché il diritto di asilo non era una concessione di François Mitterrand, ma della Francia. Infatti Nicolas Sarkozy, che sicuramente ha ben poco a che spartire con Mitterrand, a suo tempo respinse la domanda di estradizione per madame Petrella».

La dottrina Mitterrand, però, non dava copertura a chi si fosse macchiato di crimini di sangue.

«È assolutamente falso e mi stupisce che in Italia si continui a credere a una circostanza che non è suffragata da nulla. Basta andare a rileggere il discorso di Mitterrand al congresso della Lega di diritti dell'uomo, credo nel 1985. Il Presidente disse che l'asilo era concesso a chi avesse rinunciato alla lotta armata e rispettato le leggi francesi. Non ha mai parlato di crimini di sangue».

Gianmarco Aimi per mowmag.com l'1 maggio 2021. Non si spengono i riflettori sugli arresti in Francia dei nove ex brigatisti e appartenenti alla sinistra extraparlamentare per i quali l’Italia da anni chiede l’estradizione. Salutato come un momento storico, con il passare delle ore si sta però riducendo alla sfera puramente simbolica. Anche perché per loro il giudice ha già deciso vari gradi di libertà vigilata. Resta ancora ricercato soltanto Maurizio Di Marzio. Per comprendere meglio che cosa rappresenta questo strascico degli Anni di Piombo – da un punto di vista molto aderente a quello degli arrestati a Parigi -, abbiamo avuto la possibilità di intervistare Geraldina Colotti. Nata a Ventimiglia, classe 1956, è stata militante delle Brigate Rosse e per questo nel 1987 è stata condannata a 27 anni di carcere. Nell’aprile del 1996 ha ottenuto il permesso al lavoro esterno presso la redazione del quotidiano “il Manifesto”, e successivamente il regime di semilibertà. In seguito, ha pubblicato libri di poesie, un romanzo e i racconti Certificato di esistenza in vita, in cui ha descritto le dure condizioni del carcere e le torture che verrebbero inflitte ai prigionieri politici. Non si è mai pentita. Non ha mai ritrattato. A fronte della sua storia personale, sull’operazione francese denominata Ombre Rosse, quindi, ha pochi dubbi: “Si tratta di una emergenza infinita tirata fuori a seconda del bisogno”. Da parte "di chi ha fatto carriera sulle nostre vite, su centinaia di ergastoli e processi politici che sono stati un grande affare. E loro continuano a dispetto della logica a lanciare fango sulla nostra dignità di rivoluzionari. La borghesia ne ha ancora paura”. Non terroristi ma rivoluzionari, ha tenuto a precisare: “Il terrorismo in Italia c’è stato: quello fascista e stragista”. Così come ha voluto chiarire la sua visione sulle vittime: “Non si è trattato di una faccenda di vittime e di carnefici, ma di una guerra di classe, di uno scontro per il potere”. Anche per questo, convinta di un “uso della magistratura contro i movimenti” in quest’ultima operazione vede “il messaggio rivolto ai giovani: non ci provate”.

Come hai interpretato gli arresti in Francia?

Si tratta di un’”emergenza” infinita, che viene tirata fuori a seconda del “bisogno”, nei momenti di particolare instabilità. Siamo in piena crisi pandemica, un capitolo in più della crisi strutturale del capitalismo che lascerà senza lavoro milioni di persone in tutto il mondo. Occorre cooptare i settori popolari intorno a false bandiere come quella della sempiterna “unità nazionale contro il terrorismo”, buona per tutte le stagioni. Lo abbiamo visto con la vergognosa “caccia” a Cesare Battisti da parte dell’ex ministro dell’Interno che si metteva le divise di tutti i corpi di polizia per imprimere un segno preciso alla società italiana. Poi è stato riportato a più miti consigli, come avviene sempre nella storia: la borghesia prima si serve del fascismo, poi quando esagera se ne distanzia. Ma è accaduto un altro fatto altrettanto preoccupante.

Quale?

Il giorno prima dell’arresto di Battisti, in tanti hanno commemorato De André, cantando i suoi versi libertari contro il carcere, versi di rivolta contro la società borghese. Il giorno dopo, però, si sono trasformati in una muta inferocita giustizialista. Pare che alla “balcanizzazione” del mondo, sia seguita anche quella delle coscienze, dei cervelli, che agiscono in modo scomposto senza più conseguenza e responsabilità.

E qual è il ruolo della Francia? Perché sono passati dalla “Dottrina Mitterrand” a questa retata?

Di sicuro vi sono motivi politici di carattere interno e, più in generale di ridefinizione dei margini della nuova società disciplinare. La Francia è un paese coloniale, che si comporta in modo imperialista all’esterno, partecipando all’economia di guerra e allo spoglio delle risorse del sud globale, e agisce in modo coloniale anche al suo interno, come si vede dagli scoppi di rabbia delle sue periferie. Gli attentati di matrice islamista sono frequenti, l’estrema destra di Marine Le Pen soffia sul fuoco della xenofobia per aumentare i consensi e cerca di far apparire Macron un chierichetto al riguardo. C’era bisogno di mostrare i muscoli con poca spesa.

In Italia questi arresti sono stati salutati come un momento storico.

Un gruppo di ultra sessantenni e un quasi ottantenne malato che erano lì da anni a lavorare, apertamente, che pericolo potevano rappresentare? Non sono mica tornati a combattere come abbiamo fatto noi anche nel pieno della sconfitta delle organizzazioni armate, finendo poi per essere arrestati? L’unica cosa che il nemico ha sempre dovuto riconoscere alla guerriglia, è stata la coerenza: abbiamo sempre messo in pratica quel che dicevamo. Quindi, di quale momento storico si vuol parlare? È grottesco.

Ho sentito un tuo intervento radiofonico e hai parlato di “uso della magistratura contro i movimenti. Contro chi cerca di cambiare le cose”.

Se dovessimo pensare solo alla nostra esperienza in quel ciclo di lotta vissuto nel Novecento, e che si è concluso, se non vi fossero conseguenze generali che pesano sul presente perché quel periodo così importante non è stato elaborato collettivamente, si potrebbe dire “chi se ne frega”. La maggior parte di noi è anziana, molti sono morti, altri non sono più comunisti, quelle organizzazioni armate sono state sconfitte. Ha vinto la visione forcaiola da parte di persone che hanno fatto carriera sulle nostre vite, su centinaia di ergastoli e processi politici che sono stati un grande affare. E loro continuano a dispetto della logica a lanciare fango sulla nostra dignità di rivoluzionari. Invece in quel ciclo storico, quando in Italia c’era il Partito Comunista più forte d’Europa ma anche l’estrema sinistra più forte d’Europa, si è giocata una partita determinante, che non si può liquidare con i tribunali e la dietrologia. La borghesia ne ha ancora paura. Non è un caso che la nostra storia e il ritornello “tornano gli anni di piombo” vengono usati come “deterrente” contro chi, pur non avendo legami diretti con quella storia, cerca di combattere questo sistema ingiusto e feroce.

Quindi eravate dei rivoluzionari, non dei terroristi?

Certo! Il terrorismo in Italia c’è stato: quello fascista e stragista che non è mai andato in galera. Abbiamo agito in un contesto generale in cui i rivoluzionari come Che Guevara cercavano di infiammare le praterie. Purtroppo, non ce l’abbiamo fatta e quello splendido rivoluzionario è stato trasformato in una icona inoffensiva, addirittura pacifista, in questo paese senza memoria. Gli ideali sono rimasti gli stessi. Oggi più che mai, il socialismo è nelle cose, è l’unica bandiera efficace e necessaria per il riscatto delle classi popolari. La pandemia lo ha dimostrato una volta di più. Per questo è importate ricorrere alla storia recente, la storia del comunismo e dei tentativi rivoluzionari che, quanto più hanno volato alto, quanto più hanno fatto davvero paura alla borghesia, tantopiù sono stati repressi, tantopiù devono essere dannati e demonizzati. La borghesia, quando vince, ricomincia a reprimere chi viene dopo dal punto più alto in cui ha represso i movimenti precedenti. E la prima cosa che fa, distrugge la memoria storica delle giovani generazioni. E, come in questa retata francese, il messaggio rivolto ai giovani è: “non ci provate”. Basta ricordare Genova, di cui quest’anno ricorre il ventennale. Una manifestazione pacifica nella quale è stato ucciso un ragazzo, Carlo Giuliani, si è torturato nella caserma di Bolzaneto. Da dove arrivavano quelle torture, quel gigantesco “riflesso d’ordine”? Dal ciclo di lotta precedente, durante il quale si è torturato e anche ucciso a sangue freddo, come in Via Fracchia, a Genova. La democrazia borghese, quando viene attaccato lo Stato, anche se a mani nude, mostra la sua vera natura.

Quindi dalle Brigate Rosse ai movimenti successivi di varia natura vedi un filo rosso? È solo la violenza della reazione che vi unisce?

Il filo rosso è quello della lotta di classe, che cambia forma e protagonisti, ma lascia intatte le ragioni, gli obiettivi e il nemico da combattere. La borghesia ce l’ha ben presente, e cerca di imporsi anche a livello simbolico, di cooptare gli oppressi attraverso i suoi apparati ideologici di controllo. Ieri, a vergognarsi erano i fascisti e i repressori, perché l’egemonia era quella della classe operaia rivoluzionaria. Oggi, il coltello dalla parte del manico, anche nel simbolico, ce l’ha la borghesia. Nel tentativo di resettaggio del capitalismo che cerca di produrre una nuova fase di accumulazione, tutto l’armamentario della stagione dell’”emergenza” – dissociazione, pentitismo, dietrologia, vittimizzazione – viene riciclato per formattare una nuova società disciplinare, che ha come motore la filosofia dell’impresa e l’economia di guerra. In questo quadro, anche la retata di Parigi e la montatura che ne segue, serve a far credere che esista una “giustizia giusta contro i cattivi totali”, e uno Stato forte, quando il fallimento delle sue politiche è evidenziato dalla grande ingiustizia sociale.

In passato Barbara Balzerani, altra appartenente alle Brigate Rosse, ha fatto scalpore quando disse: “La vittima è diventato un mestiere...". Recentemente, il cantautore Gianfranco Manfredi, in una nostra intervista ha dichiarato: “Quale sistema legale consente che sul giudizio pesino i familiari? Quello islamico”. Sei d’accordo con loro?

Ancora una volta, occorre riferirsi alla storia del secolo scorso, il secolo delle rivoluzioni. Occorre chiamare le cose con il proprio nome. Non si è trattato e non si tratta di una faccenda di vittime e di carnefici, ma di una guerra di classe, di uno scontro per il potere. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica, questo era un dato acquisito anche nelle grandi istituzioni internazionali. Basta riascoltare i discorsi di Che Guevara o di Fidel Castro all’Onu. E persino negli anni ’80 il discorso sulla Palestina di Craxi, quando ancora l’Italia aveva una posizione diversa sul Medio Oriente. Dopo il sequestro dell’Achille Lauro, per quelle parole oggi lo metterebbero in carcere. E sto parlando di Craxi…Poi, si è passati al paradigma della vittima, all’operaio ridotto a caso umano, alla retorica dei diritti umani, eccetera. Un furto di dignità degli oppressi che è andato di pari con il furto di linguaggio per impedire ai nuovi movimenti di ri-declinare la rabbia e la rivolta. Li si spinge a interiorizzare la censura. E quando ad autocensurarsi sono i giovani, gli artisti, gli intellettuali, una società diventa arida e cattiva. Nel secolo scorso, anche in Italia, c’è stata una guerra di classe tra il comunismo e le forze del grande capitale internazionale che hanno messo in campo ogni mezzo possibile per vincere: lo abbiamo visto in America Latina, con i dittatori al soldo di Washington, i desaparecidos, le torture, il Plan Condor. In Italia con le stragi, i tentativi di colpo di stato, una struttura come Gladio che accompagnava le trame occulte di allora. Il proletariato si organizzava, anche con la guerriglia. I colpi si davano e si prendevano. I morti c’erano da entrambe le parti.

Perché la sinistra avrebbe rinunciato a dialogare con voi e con i movimenti successivi?

Perché la famosa corsa al centro ha reso sempre più simili i suoi programmi a quelli della destra. Perché ci vogliono far credere che non esistano alternative al capitalismo, per cui l’esempio di chi si è speso senza riserve per cercarla, è assai disturbante. Si devono inventare storie, presunti scheletri negli armadi, presunti misteri ancora da “scoprire”, eccetera. Ma ci sono quintali di atti processuali, testimonianze dei pentiti, centinaia di ergastoli comminati, oltre 5.000 prigionieri politici. Sono tutti da buttar via? Uno dei massimi dirigenti delle Brigate Rosse, Mario Moretti, sta ancora in carcere dal 1981.

C’è chi lo definisce un infiltrato…

Ovviamente, è una calunnia schifosa, priva di fondamento su un rivoluzionario specchiato che sta facendo più galera di Mandela. Che cosa ci avrebbe guadagnato?

·        Sante Notarnicola.

Davide Falcioni per fanpage.it il 23 marzo 2021. È morto all'età d 82 anni Sante Notarnicola, militante politico, poeta e scrittore, ma anche "bandito", come si definì lui stesso il giorno in cui venne arrestato, dopo otto giorni di latitanza, per aver preso parte – il 25 settembre 1967 – all'assalto al Banco di Napoli in largo Zandonai, a Milano, a seguito del quale persero la vita quattro persone, tutte innocenti. Notarnicola partecipò alla rapina insieme ai compagni della Banda Cavallero e venne catturato, dopo otto giorni di latitanza insieme a Pietro Cavallero e ad altri complici, nei pressi di un casello ferroviario abbandonato, nelle campagne alessandrine vicino a Villabella, a pochi chilometri da Valenza Po. Nato a Castellaneta – in provincia di Taranto – il 15 dicembre del 1938, Sante Notarnicola trascorre la sua infanzia tra miseria ed emarginazione e all'età di 13 anni, dopo essere stato abbandonato da suo padre e rinchiuso in un Istituto per l’Infanzia Abbandonata, raggiunge sua madre a Torino: nella capitale industriale italiana Notarnicola inizia a frequentare gruppi di operai e di ex partigiani e con loro milita inizialmente nella FGCI, poi nel PCI: "Sono gli anni del dopoguerra – scrive nella sua biografia – anni in cui negli ambienti della sinistra italiana si continuano a nutrire speranze rivoluzionarie, e in modo particolare il sogno di continuare la lotta condotta durante la Resistenza, per portare a termine quella trasformazione che si era bruscamente interrotta con la fine della seconda guerra mondiale". Quelli però sono anche gli anni in cui il PCI perde la sua spinta rivoluzionaria per istituzionalizzarsi sempre di più ed è questa la molla che spinge Notarnicola, nel 1959, ad aderire a posizioni sempre più estremiste; inizia con alcuni compagni una serie di espropri proletari, organizzando rapine in banche e gioiellerie per raccogliere denaro a favore dei movimenti di liberazione dal colonialismo in alcuni tra i paesi più poveri del mondo; ed è proprio una di queste azioni (la sanguinosa rapina al Banco di Napoli) che, nel 1967, viene arrestato, insieme a Pietro Cavallero e altri due compagni, per poi essere successivamente condannato all’ergastolo. Il suo, nel 1978, fu il primo della lista di tredici nomi indicati dalle Brigate Rosse  come detenuti da liberare in cambio del rilascio di Aldo Moro. Nel gennaio del 2000 torna in libertà; Notarnicola ha vissuto a Bologna gli ultimi anni della sua vita e nel capoluogo emiliano ha gestito fino a qualche anno fa un pub, il Mutenye, nella storica via del Pratello, dando vita a numerosi progetti sociali, solidali e culturali. Negli ultimi mesi era riuscito a sopravvivere al Covid, ma è morto a seguito di complicanze sopraggiunte in seguito. Lascia la moglie, Delia, e i tanti amici e compagni bolognesi che amavano ritrovarsi nel suo locale; nella sua vita ha composto diverse opere in prosa e poesia, molte delle quali sono state pubblicate.

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 24 marzo 2021. «Comunque, se do fastidio, io posso anche andarmene». Scandendo la frase ai giudici, proteso in avanti come un arbitro o un cavaliere, Sante Notarnicola non provocava né millantava, pur sapendo dell' impossibilità dell' azione, chiuso com' era nella gabbia del tribunale dove, in quel 1971, si celebrava il processo d' appello a lui e al resto della banda. La banda Cavallero, dal nome del capo, Pietro Cavallero, anche se per più di un investigatore il vero comandante - laddove si debba far pesare il dono di natura dell' intelligenza - era proprio Notarnicola, ucciso a 82 anni dalle complicazioni di un' influenza, successiva al Covid. Restiamo su quella frase al processo. Definito forse con eccessiva facilità e maggiore indulgenza, dimenticando reati e delitti, un «autentico spirito libero», Notarnicola ha avuto, questo sì, un' irrequietezza corrosiva, nutrendo la convinzione d' essere nel posto sbagliato, dunque sentendosi legittimato per coerenza e pace con se stesso, e come rifiuto di colpe non sue, a chiuderla lì, salutare e levarsi di torno. Un anarchico, un vagabondo, un nomade. Oppure no, e un velo di verità potrebbe esserci in un articolo. Ottobre 1967, due settimane dopo la rapina al Banco di Napoli in largo Zandonai, terrore e tre morti a Milano, uno dei maggiori polizieschi italiani in real time: ebbene, a Dino Buzzati, posizionato nelle vicinanze dei banditi fotosegnalati e interrogati nella caserma dei carabinieri, oltre la «barbetta embrionale» e gli occhi «malinconici» quel Nortanicola fece venire in mente «un bambino messo in castigo e imbronciato». Ché poi a maggior ragione nell' esistenza di quest' uomo, condannato all' ergastolo e tornato in libertà nel Duemila, è dirimente l' infanzia. Nato a Castellaneta, trenta chilometri da Taranto dove l' unica industria, aveva scritto lui, autore di libri e poeta, era quella dell' emigrazione, finì in un istituto per l' infanzia dopo che il papà aveva lasciato la famiglia per un' altra donna, e la mamma era emigrata a Torino. «Mio padre era estremamente severo... Quando se ne andò non perse il mio affetto, che non aveva potuto nascere, ma il mio rispetto; tutta la sua austerità era naufragata miseramente». A tredici anni, Notarnicola abbandonò l' istituto, salì su un treno, scese a Torino, cercò il buco in periferia dove la madre aveva preso a vivere, e frequentò la strada.

Gli operai. Le idee politiche. Ex partigiani, comunisti, sindacalisti. La commedia umana, tra solidarietà e disperazioni, rabbia e malattie. Con Cavallero, che abitava negli stessi sobborghi, fu intesa immediata. Si conobbero per caso, si trovarono per forza. A ulteriore conferma, la legge degli innamorati unì due personalità e persone forse perfino antitetiche. Il ghigno di Cavallero, l'espressione corrucciata, a tratti mesta, di Notarnicola, che si è spento lunedì nella casa di Bologna, la moglie al fianco. Non aveva mai accettato la rappresentazione cinematografica, quei «Banditi a Milano» di Carlo Lizzani, anzi aveva attaccato il regista per la sudditanza allo stereotipo dei pazzi sanguinari, per la banalità della narrazione; Lizzani aveva replicato di raccontare la realtà. E la domanda rimane: chi davvero sia stato il personaggio pubblico Sante Notarnicola. Un rivoluzionario? Fu l' allora giovane magistrato Nino Scopelliti a redigere a Milano la requisitoria contro la banda Cavallero. Cinquemila pagine che includevano le accuse di trenta lesioni gravissime a cittadini e agenti, venticinque rapine, venticinque furti di auto, sei tentati omicidi, dieci violenze private aggravate, cinque sequestri di persona, sette lesioni gravissime...Ma non ci fosse stato questo passato, ripetono i suoi sostenitori, non pochi, compagni di chiacchiere e bevute e aneddoti per portici e osterie compresa la sua, non ci sarebbe stato il Notarnicola detenuto, rabbioso combattente nelle denunce contro le limitazioni, capopopolo quando quei penitenziari divennero carceri speciali: letti fissati al pavimento, piatti e bicchieri di carta, innovativi sistemi di allarme. I brigatisti parlarono di «colpo di Stato in carcere». Già, i brigatisti. L' hanno avvicinato ai terroristi, sceneggiando un ruolo nella genesi dell' estremismo. Stava già dentro. Pensava a come uscirne. Tentò di evadere da Favignana. Lo riportarono indietro. Tornò a cercare con gli occhi chiari i gabbiani, forse più aspirazione che consolazione da galeotto. Come da una sua poesia: «...infine vollero sbarrare il cielo/non ci riuscirono del tutto/altissimi/guardiamo i gabbiani che volano».

Il personaggio. Chi era Sante Notarnicola: bandito dolce e feroce o forse poeta…David Romoli su Il Riformista il 24 Marzo 2021. Non c’era bisogno di cercare il “grande vecchio” negli anni ‘70, non certo nella farneticante accezione che danno al termine i cacciatori di complotti, bensì in quella del maestro rispettato da tutti nella sinistra rivoluzionaria italiana, armata e non. Quando la rivolta incendiò le fabbriche e le università, Sante Notarnicola, l’uomo a cui meglio si attaglia quella definizione, era già in carcere dal 3 ottobre 1967 e non era un “vecchio”, se non per la maggiore esperienza di vita e di lotta rispetto ai ragazzi di allora. Aveva 29 anni ed era considerato un bandito feroce dopo la rapina del 25 settembre a Milano finita con un inseguimento vertiginoso e tre passanti uccisi. Quell’immagine sanguinaria e spietata era quanto di più distante dalla verità di Notarnicola, come anche dei suoi compagni di banda, Pietro Cavallero, Adriano Rovoletto e il giovanissimo Donato Lopez. Notarnicola era invece il campione perfetto di quella rabbia proletaria contro l’ingiustizia che poco dopo il suo arresto avrebbe spazzato le fabbriche d’Italia e in particolare della sua Torino. Era nato nel 1938 a Castellaneta, vicino Taranto, il paese d’origine di Rudy Valentino: “Uno di quei paesoni agricoli tipici del sud, né villaggio né citta, poverissimo, ricco solo di bocche da sfamare. L’unica industria era l’emigrazione”. Notarnicola emigra, ma solo dopo aver passato la sua parte di calvario negli istituti per bimbi poveri e abbandonati, dopo la fuga del padre con un’altra donna. Parte a 13 anni, con l’allora classica “valigia di cartone” che ricorderà in una delle sue poesie. Arriva a Barriera di Milano, il quartiere ghetto operaio, roccaforte rossa, sede della più forte e agguerrita sezione del Pci. Milita nella Fgci, poi entra nel partito e capisce che non è più quella l’appartenenza adatta per chi sogna la rivoluzione, per i giovani immigrati come lui che nelle fabbriche fanno una vita d’inferno e in città subiscono, oltre al salasso degli affitti, il disprezzo razzista che la città riserva ai terroni. Nel 1959 inizia a rapinare banche e gioiellerie, con l’obiettivo di raccogliere soldi per le organizzazioni armate del Terzo mondo. Nel 1962 è tra gli operai che a piazza Statuto inaugurano il ventennio di insubordinazione operaia assaltando la sede della Uil, rea di aver firmato un contratto separato, e per tre giorni ingaggiano una vera battaglia con la polizia. Anni dopo ricorderà che in piazza c’era anche il leggendario dirigente del Pci Giancarlo Pajetta. Arrivato per calmare le acque, dopo le cariche della polizia finì per spingere gli operai allo scontro: “Il giorno dopo ci chiamò fascisti”. Non era uno dei tanti che in quegli anni si erano politicizzati in carcere, Sante Notarnicola. C’era entrato con una formazione già in buona parte compiuta, cantando “Figli dell’officina”, come avevano fatto in aula lui Cavallero e Rovoletto dopo la lettura della sentenza, in pieno ‘68. Coi pugni alzati a sfidare la corte. Ma in carcere studia, legge, affina una intelligenza già acuta. Soprattutto scrive: prima un libro uscito nel 1972, che diventa uno dei testi sacri del Movimento, L’evasione impossibile, poi altri libri e soprattutto molte poesie. Studia, scrive e lotta. Pochi detenuti hanno fatto più di lui per rendere meno bestiale il circuito carcerario italiano. Negli anni armati Notarnicola fu vicinissimo alle Br, che avevano messo il suo nome in testa alla lista dei prigionieri da liberare in cambio della vita di Aldo Moro. Ma considerarlo un brigatista sarebbe improprio e riduttivo. Come fuori dal carcere aveva riassunto un’intera generazione di giovani operai immigrati e ribelli, così in galera diventò il modello dei detenuti comunisti che per un po’ resero anche le galere uno dei fronti principali del conflitto sociale in Italia. Sante era semilibero dal 1995, libero dal 2000. Aveva aperto un pub a Bologna, frequentatissimo. Continuava a scrivere, era un punto di riferimento per chiunque volesse conservare memoria non del passato ma della necessità del conflitto anche oggi e anzi come diceva lui, “oggi ancora più che nel passato”. A modo suo, un maestro per molti.

La storia. Banda Cavallero e la strage in seguito alla rapina al Banco di Napoli. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Marzo 2021. È morto Sante Notarnicola che era il numero 2 del Cavallero, nel senso del bandito. Per avere un’idea, andate su YouTube e guardate restaurato e gratuito il film di Carlo Lizzani Banditi a Milano. La versione in rete ha di buffo che è stata restaurata per i tedeschi e si vedono i milanesi che dal giornalaio leggono giornali tedeschi sui “Banditen”. Ma i Banditen di allora erano diversi e strani. Sante Notarnicola fu anche un poeta, ma anche un quasi brigatista rosso, nato ragazzo di ringhiera delle case per emigrati a Torino, lui che veniva dalla Puglia e che scrisse in versi stringati e potenti la sua “valigia di cartone”. Le valigie di cartone puzzavano di mortadella e arance sbucciate con le mani, l’alito sapeva di aglio, la polizia inseguiva con le Giulia dell’Alfa in color verde militare, i poliziotti sembravano tutti messicani e avevano l’accento del Sud come “el brutt terùn” della canzone “Ma mì” di Giorgio Strehler, dove il brutt terùn era il commissario collaborazionista. Le rapine furono in serie, finirono male con morti ammazzati a caso in una Milano che ancora ignorava la droga, era sindacalizzata in giacca e cravatta, quasi alle soglie del ’68, quando erano ancora vivi quelli che avevano fatto la guerra e vivi molti partigiani di cui Cavallero si sentiva consanguineo e Notarnicola anche. Nel film di Lizzani, Cavallero è Gian Maria Volonté. Un Volonté bello e sfacciato che predicava una filosofia fatalista un po’ rivoluzionaria ma anche reazionaria. Era l’epoca in cui la violenza e la pratica delle armi accomunava rossi e neri, benché la tregua durasse ormai da vent’anni. Notarnicola prese l’ergastolo per tre morti inutili, figli di mamma e di mamme ce n’erano anche altrettante e tutte piangevano in coro, anche le madri giovani della Milano bene con la capigliatura alla Audrey Hepburn e le minigonne alla Mary Quant. Femminismo, zero, tutta politica a chiacchiere, ma era l’epoca in cui la criminalità era ancora “la mala” e Ornella Vanoni cantava con passione sociale e voce sexy “senti, come la vosa la sirena, guarda come viene giù el Nicolèn”. Era una Milano ma era anche Torino, due città così vicine che da sempre gli amanti si danno appuntamento all’uno e all’altro capolinea. Era una Milano del boom economico ma ancora immersa in una antica temperanza, e chi faceva il gradasso aveva ancora un retroterra meneghino della mala, così com’era un’altra mala quella raccontata da Simenon o quella dei Duri a Marsiglia di Giancarlo Fusco. Roma aveva avuto il suo Gobbo del Quarticciolo e la Magliana era ancora in fieri. Ma la mala milanese era già razziale – Nord e Sud – era politica con gli ex partigiani e gli ex fascisti, piccolo borghese con una prateria di figli di papà e di mamma anche se rapinatori, ma gentili in casa, con i capelli ben riavviati e giocavano a calcio nei campetti e si organizzava un colpo come si mette su una fabbrichetta. Anche a Sante, ormai dietro i suoi boccali di birra, nel pub che aveva aperto a Bologna, l’ha ammazzato il Covid e aveva 82 anni e certamente a lui nessuno gli aveva fatto uno straccio di vaccino, perché i vaccini – se vogliamo stare al gioco letterario – se li son presi prima i signori avvocati e giudici e generali, e i soliti conti e contesse e sindacati e corporazioni, come sempre in Italia. Non è che il vaccino lo dai a chi crepa perché ha l’età in cui si crepa e Notarnicola è crepato con beffa, nel senso che era sicuro di avercela fatta, sembrava in vita ed era morto. Qualche anno fa aveva commosso Primo Levi, la potete leggere qui la lettera che gli inviò lo scrittore, qualche anno prima di morire, alla fine degli Ottanta. Bellissima. Aveva sofferto, Sante, inferto dolore e patito dolore. Per questo ci aveva provato: aveva provato a fare squadra con il superstite di Auschwitz che lo aveva respinto, cioè aveva respinto le sue tesi, e però si era commosso: i versi appartengono a chi soffre, come te – gli aveva detto – gli altri versi sono gratuiti ed inutili. Se vogliamo capire quei fatti, quel clima – siamo nel 1967, è quello l’anno della grande rapina a Milano – e dunque anche l’uomo che ieri se ne è andato ancora bello e barbuto, dobbiamo agire sulla nostra macchina del tempo. L’Italia di allora era uscita dalla crisalide della guerra ed era diventata operosa, elegante, sempliciotta, appena un po’ viziosa. Ma neanche tanto. Più sbruffona che cinica. E Money Heist, o Le grisbì in francese, insomma il malloppo, il bottino, il colpo perfetto era ancora un mito ai confini del letterariamente lecito La differenza nella banda Cavallero stava nell’uso delle armi: giustificato perché si agiva anche in una (molto vaga, ma sempre d’effetto) guerra di classe. Durante i giorni del rapimento Moro, i brigatisti chiesero la liberazione di tredici criminali comuni fra cui Cavallero e Notarnicola. Ma erano tutti i giacca e cravatta, rasati e senza barba, i ragazzi con il ciuffone, le ragazze con l’arietta sperduta elegantina, una brezza di identità femminile sotto tutela. Lo Stato non trattò. Loro restarono dentro ancora parecchi anni. Uscito di galera Sante aveva sentito il nuovo mondo intorno a sé. L’attrazione per il sociale, ma anche sotto forma di osteria. La vanteria diventava poesia, spesso di pregio e comunque autentica. Prima delle vere rapine si era anche dato agli espropri proletari in cui si rubava e rapinava, ma sempre con giustificazione della maestra Rivoluzione. Gli andò malissimo, a lui e Cavallero la grande rapina al Banco di Napoli del 25 Settembre del 1967, che per loro era come il bancomat (ma il bancomat ancora non esisteva). Sbruffoni, spavaldi, a quell’epoca si lasciavano impronte e qualcuno prese il numero della targa. Niente cellulari, niente GPS, tutto a naso, stridore di gomme tra la folla, bambini terrorizzati nel parco: la banda Cavallero che corre spavalda con la millecento e fa a gara con “madama” (la polizia) alle spalle, e la madama era impiegatizia e panzona, poco esperta, mentre una gang come quella di Notarnicola e Cavallero era moderna. Futurista, leninista, tutto. Sante aveva raggiunto dal paese pugliese, Castellaneta, la madre a Torino che era ancora ragazzo. Era come arrivare ad Ellis Island New York e finire a Little Italy. Le case di ringhiera sono la sua Brooklyn e, come nella New York di Sacco e Vanzetti, così a Torino si parla molto di rivoluzione, attentati, la classe operaia che non va in paradiso (Gian Maria Volonté è memorabile per la sua versione dell’operaio alla carena di montaggio in cui scandiva i tempi con il ritornello “un culo – un pezzo – un culo – un pezzo…”. Era un’epoca in cui i ragazzi stavano un po’ con gli ex partigiani, ma anche nella Fgci e poi nel Pci, sempre con la storia delle rivoluzione che s’ha da fare quando invece Togliatti ha detto di no, che non s’ha da fare e loro invece a sognare se non la rivoluzione, almeno una sorda ma dichiarata – dunque gloriosa, malloppo a parte – lotta di classe dei poveri contro i ricchi, perché in fondo è anche questo un modo di stare dalla parte del bene, salvo incidenti e comunque mi considero un prigioniero politico, ma chiedo umanità e delicatezza con la mia vecchia mamma e cara moglie. La rivoluzione dietro l’angolo era ancora un paravento, una speranza, un alibi, una quinta di teatro buona per tutti gli usi, basta ripiegarla e conservarla in magazzino fino alla prossima rapina. Così andò a Sante Notarnicola che poi non si pentì mai ma cambiò strada, si mise al passo con i tempi, capì che aveva fatto soffrire e che aveva sofferto. E quel bar, o pub, di Bologna era il suo piccolo limbo, o infernetto in cui condividere versi, ricordi, parole e vecchie emozioni era diventato la sua ultima dimora prima della morte che ieri ne ha reclamato la rottamazione, e se ne è andato. Il pub si chiama Mutenye in via Pratello e lì si faceva un sacco di sociale, sogni e birra artigianale, amicizia nostalgica e una tenera rudezza nel cuore. Ha scritto molti libretti di poesia e prosa ed ha avuto premi, è stato riconosciuto come campione di criminale politico inquadrato nel tempo e nei suoi sogni, illusioni e malavita. Non era un santo, neanche come bandito della mala: il 16 gennaio del 1967 durante una rapina a Cirié aveva ucciso di sua mano un povero medico che non aveva fatto niente, forse lo aveva ammazzato per dare l’esempio, ma lo aveva proprio ucciso ed era il dottor Giuseppe Gajottino e quando la polizia arrivò ci fu un conflitto a fuoco alla disperata ci lasciarono la pelle in tutto quattro persone. Dunque, nessuna meraviglia o particolare pietà per Notarnicola e Cavallero che ebbero l’ergastolo nella sentenza dell’8 luglio 1968 (un solo anno di processo). Sante aveva 30 anni. Poi si era dato al sociale come molti ex di quella parte: consapevoli ma mai fino in fondo del male fatto. Un grande psicoanalista italiano, Piero Bellanova, in quegli ani mi raccontò che molti terroristi chiedevano aiuto alla psicoanalisi per lenire i tormenti del “senso di colpa” per le morti provocate. E gli psicoanalisti rispondevano che non si trattava di “sensi di colpa”, cioè fantasie di colpe non commesse, ma di rimorso per colpe reali il cui dolore non è medicabile.

·        Cesare Battisti.

Il caso dell'ex terrorista. Ho incontrato Cesare Battisti, ecco come sta e il perché della sua protesta. Enza Bruno Bossio su Il Riformista il 29 Giugno 2021. Cesare Battisti è stato trasferito da Rossano Calabro a Ferrara. Nella giornata precedente a quella in cui è stato disposto e poi, conseguentemente, è avvenuto il trasferimento, ho fatto visita alle carceri di Rossano Calabro e ho potuto, personalmente, constatare quanto fosse drammatica la sua condizione. Ho incontrato una persona assai sofferente e provata. Le ragioni della sua protesta erano effettivamente fondate. Una persona costretta per lunghi mesi in una condizione di isolamento che la condanna inflittagli non contempla. Un uomo a cui non venivano garantiti i livelli minimi di civiltà penitenziaria, privato dal godimento dei diritti carcerari riconosciuti dalla legge e dall’ ordinamento costituzionale. Una sottile forma di tortura detentiva. Ieri l’annuncio di una buona notizia, quella della sospensione dello sciopero della fame. Il fatto che Battisti abbia inteso assumere questa decisione solo dopo aver varcato la soglia del carcere ferrarese, potrebbe indurre a ritenere che il trasferimento possa essere una misura atta a determinare la cessazione di una illegale condizione carceraria. Nella nostra breve conversazione avvenuta venerdì durante la visita al carcere, ho notato la sua insistenza rivolta non a chiedere sconti o trattamenti di favore per un detenuto “speciale”, ma ad invocare il rispetto di diritti primari che anche la condanna all’ergastolo non sopprime. È da ritenersi, dunque, che la detenzione a Ferrara non sia di continuità con il carattere illegalmente sanzionatorio di quella vissuta prima ad Oristano e poi a Rossano. Battisti chiede di scontare la sua condanna nella legalità. E non a caso la richiesta primaria che avanza insieme al suo legale è quella di poter conoscere le motivazioni che il DAP ha dato per la classificazione del detenuto da assegnare in Alta Sicurezza. Non è ammissibile che in risposta alle istanze presentate si possa attestare che “la documentazione richiesta è stata sottratta al diritto all’accesso”. Un modo per impedire, persino, l’esercizio del diritto alla difesa. È davvero incomprensibile che, in questo Paese, si possa giustificare e apprezzare la scarcerazione di Giovanni Brusca come un atto dovuto in applicazione della legge e poi, contestualmente, gridare invece allo scandalo per Cesare Battisti che protesta perché è sempre quello stesso Stato che si fa promotore di evidenti violazioni e, così, impedisce che la pena possa essere scontata nel pieno rispetto delle norme vigenti. Nel colloquio in carcere ho notato momenti in cui il “duro” Battisti si è commosso: quando ha ricordato gli occhi di un bambino presente, ahimè, in uno di quei raid degli anni di piombo, e quando mi ha mostrato la foto del piccolo Raul, il suo bambino. Comunque, il tema non è il giudizio etico-politico sul terrorista Battisti, paradossalmente, invece, in questo caso è quello sullo strabismo da parte dello Stato che riconosce a Brusca il diritto del cittadino che in base alla legge riacquista la libertà e a Battisti nega la espiazione di una condanna nelle forme legali. Ciò contribuisce ad alimentare il sospetto che la gestione della detenzione di Battisti sia improntata alla ritorsione e ad uno spirito vendicativo. Insomma, la pena diventa vendetta. Enza Bruno Bossio

Il caso dell'ex terrorista. Battisti torturato, ma l’avete letta la Costituzione? Redazione su Il Riformista il 28 Giugno 2021. È inaccettabile e ingiustificabile il trattamento carcerario a cui è sottoposto Cesare Battisti. Si tratta di una persona che non ha più a che fare con la lotta armata da decenni. La formazione armata di cui faceva parte non esiste più da altrettanto tempo e non si capiscono le ragioni di sicurezza per cui sarebbe privato persino della luce del sole da più di nove mesi. Tutti sanno che negli ultimi decenni Cesare Battisti ha vissuto scrivendo romanzi e che non vi è alcuna rete terroristica da cui tenerlo isolato. Questo trattamento disumano costituisce una vendetta che contrasta con l’articolo 27 della nostra Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che pare nel Palazzo e nei media pochi abbiano letto. Li ricordiamo a chi li ha dimenticati: «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il comportamento del Dap nei confronti di Battisti rafforza l’idea della fondatezza della scelta di Mitterrand di offrire asilo a chi fuggiva dal nostro paese. Gli pseudo-garantisti che siedono in Parlamento e al Governo non hanno nulla da dire? Forse non essendo condannato per corruzione Battisti non merita le loro attenzioni? Il silenzio delle forze politiche presenti in parlamento e del governo sulla vicenda del detenuto in isolamento Cesare Battisti è assordante anche più della grancassa mediatica con cui sono stati celebrati il suo arresto e la sua estradizione in Italia. Quanto sta accadendo disonora la Repubblica italiana e non ha nulla a che fare con la giustizia. Cesare Battisti ha inviato dal carcere una lettera ai suoi figli in cui annuncia la sua decisione di andare avanti a oltranza con lo sciopero della fame fino all’esito estremo se non sarà data risposta alle sue richieste di un trattamento carcerario umano. In Italia secondo la Costituzione “non è ammessa la pena di morte”. Vale anche per Battisti?

Luca Fazzo per il Giornale il 27 giugno 2021. Via dal carcere bunker di Rossano Calabro, ai margini estremi della Penisola. Una nuova cella novecento chilometri più a Nord, a Ferrara, a ridosso delle regioni in cui quarant' anni fa la sua banda di terroristi rossi seminò la morte. Cesare Battisti, il leader dei Proletari armati per il Comunismo estradato dalla Bolivia nel 2019 dopo decenni di coccolata latitanza, ha ottenuto la prima vittoria dopo due anni di battaglie contro lo Stato italiano. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, la struttura del ministero della Giustizia che gestisce le carceri, ha disposto il suo trasferimento dalla struttura calabrese alla casa di reclusione emiliana. La decisione è stata presa d' intesa con il ministro della Giustizia Marta Cartabia, e fonti di via Arenula motivano il provvedimento con ragioni di sicurezza. Ma è un dato di fatto che il trasloco del criminale arriva dopo giorni in cui lo sciopero della fame di Battisti, finalizzato proprio a ottenere il trasferimento, ha raccolto appoggi nell' opinione pubblica progressista, con fonti autorevoli arrivate a definirlo «una vittima». Per Battisti il trattamento carcerario continua a essere il cosiddetto As2, ovvero il circuito di alta sicurezza appena inferiore rispetto ai detenuti più pericolosi. Il ministero della Giustizia fa presente che la declassificazione di Battisti avrebbe richiesto una serie di pareri positivi che non sono arrivati anche a causa dell'atteggiamento tenuto dal pluriomicida dopo il suo rientro in Italia, privo di qualunque espressione di pentimento e nemmeno di autocritica rispetto ai delitti di cui è stato ritenuto colpevole. E allora perché Battisti è stato trasferito? In qualche modo è stato proprio il leader dei Pac ad aprire la strada, con la sua campagna mediatica dei giorni scorsi. Il detenuto, tramite i suoi legali, aveva segnalato che nel carcere di Rossano gli unici altri detenuti sottoposti al regime As2 erano dei terroristi islamici, e questo rendeva incompatibile la convivenza. In realtà questa carta era stata tentata da Battisti già nell' ottobre scorso, quando aveva sostenuto di avere ricevuto minacce durante l'ora d' aria a causa di non meglio precisate minacce che gli integralisti islamici gli avrebbero rivolto, postumi di contrapposizioni risalenti all' epoca in cui Battisti viveva in Francia protetto dalla «dottrina Mitterrand». In ottobre le affermazioni di Battisti erano state giudicate campate in aria dal Dap e dalla Procura di Milano. E Battisti era stato lasciato a Rossano. Ora, a quanto pare, lo scenario è cambiato. Proprio a seguito delle lamentele trasmesse ai media, il pluriergastolano sarebbe stato «avvicinato» in carcere da detenuti legati all' integralismo islamico. Non si parla di minacce vere e proprie, ma di avvisaglie che il ministero ha ritenuto di non poter sottovalutare: si parla di un «clima di contrapposizione seguito anche da episodi specifici». Così è partito l'ordine di trasferimento, anche perché se dopo gli endorsement a suo favore a Battisti fosse successo davvero qualcosa, ne sarebbe scaturito un mezzo finimondo. Così l'altro ieri è stato prelevato a Rossano e trasferito al Nord. Non è un cedimento, dicono al ministero. Ma intanto Battisti ha sospeso lo sciopero della fame.

Battisti trasferito da Rossano al carcere di Ferrara per motivi di sicurezza. La Repubblica il 26 giugno 2021. L'ex terrorista era in sciopero della fame dal 2 giugno per protestare contro il collocamento presso la sezione del carcere calabrese destinata ai terroristi islamici. Cesare Battisti è stato trasferito dal carcere di Rossano (Cosenza) a quello di Ferrara. Battisti era in sciopero della fame dal 2 giugno per protestare contro il collocamento presso la sezione del carcere calabrese destinata ai terroristi islamici. "Cesare Battisti - afferma Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe - probabilmente anche grazie al sostegno politico ricevuto, è stato traferito dal carcere di Rossano, istituto a lui non gradito, a quello di Ferrara. Ricordiamo che tra gli omicidi commessi da Battisti vi è anche quello del maresciallo Santoro, allora comandante del carcere di Udine. Speriamo che adesso sconti la pena prevista, cioè l'ergastolo, considerato che per tanti anni si è sottratto alla giustizia e che per i famigliari delle vittime ci sia il giusto risarcimento". Il trasferimento rientra anche in una più generale riorganizzazione del circuito alta sicurezza a livello nazionale, nei mesi scorsi ostacolata dal perversare della pandemia e dalle conseguenti limitazioni ai trasferimenti. Anche a Ferrara Battisti sarà sottoposto all'alta sicurezza. Battisti, dunque, non è stato declassificato, cioè "retrocesso" al circuito dei detenuti "comuni" (media sicurezza): questa procedura prevede - oltre all'istanza della direzione (anche a richiesta del detenuto) - il parere del Gruppo di osservazione e trattamento dell'istituto penitenziario, che valuta essenzialmente l'adesione del detenuto al percorso di rieducazione nel corso del tempo. Se questo primo parere è favorevole, vengono chiesti ulteriori pareri alle Procure competenti, dopo di che il Dap decide sulla declassificazione. Nel caso di Battisti, il percorso si era interrotto già al primo passaggio, considerando l'esiguo lasso temporale trascorso in detenzione dallo stesso e l'atteggiamento serbato finora nel corso della detenzione. Al suo arrivo nel carcere di Ferrara Cesare Battisti ha annunciato che sospende lo sciopero della fame. L'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo Cesare Battisti sta scontando l'ergastolo per quattro omicidi commessi alla fine degli anni '70. Dopo l'arresto in Bolivia nel 2019 dopo 37 anni di latitanza, è stato detenuto dal gennaio 2019 nel penitenziario di Massama (Oristano). Poi, dopo proteste per il regime di isolamento, a settembre 2020 è stato trasferito nel carcere di Rossano (Cosenza).

Cesare Battisti trasferito da Rossano a Ferrara. L’onorevole Bruno Bossio commenta così a caldo la notizia: «Sono soddisfatta di questo trasferimento ma mi auguro che adesso a Ferrara possa vivere una detenzione dignitosa, in un regime ordinario. Se così non fosse mi impegnerò a conoscere le motivazioni di un'assegnazione diversa da quella del regime ordinario». Valentina Stella su Il Dubbio il 26 giugno 2021. Cesare Battisti è stato trasferito dal carcere di Rossano a quello di Ferrara. Lo fa sapere il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). «Cesare Battisti – afferma Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe – probabilmente anche grazie al sostegno politico ricevuto, è stato trasferito dal carcere di Rossano, istituto a lui non gradito, a quello di Ferrara. Ricordiamo che tra gli omicidi commessi da Battisti vi è anche quello del maresciallo Santoro, allora comandante del carcere di Udine. Speriamo che adesso sconti la pena prevista, cioè l’ergastolo, considerato che per tanti anni si è sottratto alla giustizia e che per i familiari delle vittime ci sia il giusto risarcimento». L’uomo, come vi avevamo raccontato proprio ieri a seguito di un incontro che ha avuto con la deputata dem Enza Bruno Bossio, era in sciopero della fame dal 2 giugno per protestare contro le sue condizioni di detenzione e per non conoscere i motivi della sua assegnazione nel reparto Alta Sicurezza 2 del carcere calabrese di Rossano, dove di fatto era in una condizione di isolamento, essendo tutti gli altri detenuti dei jihadisti.  L’onorevole Bruno Bossio commenta così a caldo la notizia: L’onorevole Bruno Bossio commenta così a caldo la notizia: «Sono soddisfatta di questo trasferimento ma mi auguro che adesso a Ferrara possa vivere una detenzione dignitosa, in un regime ordinario. Se così non fosse mi impegnerò a conoscere le motivazioni di un’assegnazione diversa da quella del regime ordinario». Invece lo storico avvocato di Cesare Battisti, Davide Steccanella, ci dice: «Mi dispiace che sia stato necessario ridursi allo stremo fisico per il rispetto di un minimale diritto, ringrazio come cittadino e non come avvocato di Battisti Mattia Feltri per il coraggioso articolo che ha rotto un silenzio imbarazzante contro una palese ingiustizia nel silenzio dei tanti ‘sdegnati democratici’ a parole del nostro paese e l’onorevole Bruno Bossio per il suo impegno e mi rattrista leggere che la notizia del trasferimento di un detenuto in sciopero della fame da molti giorni venga data all’Ansa dal sindacato di polizia penitenziaria prima ancora della famiglia a riprova che in Italia la strada per arrivare a una vera democrazia rispettosa delle garanzie costituzionali è ancora lunga». Battisti era stato finora ristretto in una sezione Alta sicurezza 2 presso l’Istituto di Rossano, sezione popolata – oltre che da italiani – da molti detenuti islamici. Fino a questo momento, nonostante lo stesso Battisti avesse esposto preoccupazioni per la sua sicurezza proprio a causa della presenza di islamici, la sua collocazione era stata ritenuta del tutto sicura, anche alla luce dei pareri espressi dalle Procure competenti. Nell’ultimo periodo – anche in conseguenza delle espressioni di Battisti sulla presenza degli islamici e delle sue doglianze riprese da vari organi di stampa – si era creato in sezione un clima di possibile contrapposizione e tensione che, sfociato anche in alcuni episodi specifici, ha indotto a rivedere – anche in questo caso sulla base di pareri emessi dall’A.g. – la sua collocazione. Il trasferimento rientra anche in una più generale riorganizzazione del circuito alta sicurezza a livello nazionale, nei mesi scorsi ostacolata dal perversare della pandemia e dalle conseguenti limitazioni ai trasferimenti. Nel nuovo istituto Battisti sarà sottoposto al medesimo circuito penitenziario, quello dell’alta sicurezza. La maggiore presenza di detenuti italiani attenuerà la possibile contrapposizione e creerà anche maggiori occasioni di possibile socialità.Battisti non è stato declassificato, cioè “retrocesso” al circuito dei detenuti “comuni” (media sicurezza): questa procedura prevede – oltre all’istanza della direzione (anche a richiesta del detenuto) – il parere del Gruppo di osservazione e trattamento dell’istituto penitenziario, che valuta essenzialmente l’adesione del detenuto al percorso di rieducazione nel corso del tempo. Se questo primo parere è favorevole, vengono chiesti ulteriori pareri alle Procure competenti, dopo di che il Dap decide sulla declassificazione. Nel caso di Battisti, il percorso si era interrotto già al primo passaggio, considerando l’esiguo lasso temporale trascorso in detenzione dallo stesso e l’atteggiamento serbato finora nel corso della detenzione.

«Umiliato e isolato: così Battisti subisce una vendetta di Stato». Enza Bruno Bossio in visita nel carcere dove è detenuto: «Una delle ragioni del suo digiuno è che viene tenuto nell’alta sicurezza 2, dove ci sono solo jihadisti». Valentina Stella su Il Dubbio il 26 giugno 2021. «Cesare Battisti è in sciopero della fame dal 2 giugno, sta molto male fisicamente e psicologicamente, e a mala pena si regge in piedi. Le motivazioni per cui lo fa sono molto serie e giustificate». A riferirlo al Dubbio è stata l’onorevole del Pd Enza Bruno Bossio che ieri mattina, nell’ambito dell’attività ispettiva propria di un parlamentare all’interno degli istituti di pena, ha visitato il carcere di Rossano, in provincia di Cosenza, dove ha anche incontrato l’ex terrorista dei Pac e ne ha verificato le condizioni di salute e detenzione. «Una delle ragioni del digiuno, che ormai dura da 24 giorni, è che l’uomo viene tenuto nell’alta sicurezza 2, dove ci sono solo terroristi jihadisti, e un solo italiano ma che comunque ha aderito all’Islam. La loro socializzazione esclude automaticamente Battisti. Non è una questione di razzismo, come hanno scritto su Libero, ma di aggregazione. Lui è sostanzialmente isolato e non è in grado di avere una socialità. Ha con sé dei libri e da poco gli è stato dato un computer ma che non si può ricaricare in cella per problemi di voltaggio. L’ora d’aria la fa in una specie di quadrato sostanzialmente un po’ più grande della cella piccolissima dove vive. Non ha ricevuto neanche la visita del cappellano, pur avendola richiesta a suo dire. A ciò si aggiunge il fatto che i parenti sono lontani e hanno difficoltà a raggiungerlo lì». Battisti vorrebbe sapere inoltre, prosegue Bossio, «quali sono le motivazioni per cui il Dap lo ha assegnato all’alta sicurezza 2, considerato che esse sono state secretate e non sono state comunicate mai nemmeno al suo avvocato. Nei suoi confronti non si sta applicando la legge. Si badi bene: lui non rifiuta il carcere, ha commesso dei crimini di cui si è assunto la responsabilità. Ma pretende una carcerazione dignitosa e legale. Questa è la battaglia che sta facendo e la porterà avanti fino a quando lo Stato non gli darà una risposta. Lo sciopero della fame non vuole essere un ricatto ma una richiesta di chiarezza. È legittimo quello che sta subendo o qualcuno vuole farlo “marcire” in carcere? Esiste, come mi ha detto, un “regime speciale Battisti”? Io voglio sostenerlo in questa sua battaglia. Mi impegnerò, anche attraverso una interrogazione, perché si conoscano le motivazioni fino ad ora ignote del trasferimento. L’Italia con Cesare Battisti può dimostrare di essere uno Stato di Diritto. C’è invece la preoccupazione che nei suoi confronti lo Stato sia vendicativo e non lo può essere nei confronti di nessuno. Non lo è stato nei confronti di Brusca, non capisco perché dovrebbe esserlo nei confronti di Battisti». Insieme all’onorevole Bossio c’era anche l’avvocato Adriano D’Amico, in rappresentanza del Comitato di Solidarietà Internazionale a Cesare Battisti: «Battisti sta subendo una vera e propria vendetta. È di fatto in un regime ostativo e temo seriamente per la sua vita. Eppure una ordinanza della Corte di Appello di Milano ha stabilito che Battisti deve scontare la sua pena in un regime ordinario di detenzione con diritto ai benefici, non essendogli applicabile l’articolo 4bis». Qualche giorno fa Battisti, difeso dall’avvocato Davide Steccanella, in una lettera aveva spiegato ai suoi familiari le ragioni sottese al digiuno: «Il 2 giugno ho iniziato uno sciopero della fame, sapendo che non sarei tornato indietro, perciò cosciente di recarvi un grande dolore. Ma avendo la certezza che voi converreste con me che questo era l’atto più degno che potessi fare per evitare di morire in ginocchio, dopo essere stato spremuto e usato per ogni scopo ignobile del potere. Sarebbe così tradire i valori di un passato in cui ho creduto, fino alla deriva armata. Non mi sono mai sentito un criminale allora, né mi sento di esserlo oggi pur nella consapevolezza di aver sbagliato. Seguivo, come tanti altri, dei valori fondamentali di diritto per la persona, non posso permettermi di tradirli sulla linea di arrivo. Ecco perché vi chiedo un’ultima volta di aiutarmi ad essere me stesso e di perdonarmi per il dolore che vi reco». L’uomo aveva indirizzato una lettera anche alla ministra Cartabia: «nel rispetto delle leggi e della Costituzione chiedo di essere ascoltato almeno una volta senza il filtro o l’ostruzione derivante dall’immagine del “mostro”. Senza attizzare polemiche, provocare ingiurie o suscitare sentimenti deplorevoli, da ovunque essi vengano. Invito solo a concentrarsi sulle garanzie, i diritti e i doveri propri di una democrazia repubblicana della quale lo Stato è garante. Le leggi esistono per essere applicate, indifferentemente dalla personalità o il carattere politico culturale dell’individuo che le ha infrante. Non è umano né legalmente accettabile continuare a trattarmi da nemico in un Paese che non è in guerra; è trascorso mezzo secolo!». Proprio la ministra Cartabia, senza mai citare il nome di Battisti, rispondendo domenica scorsa alla sollecitazione di Benedetta Tobagi nel corso del dialogo su “Un punto di giustizia” a Taobuk di Taormina, aveva detto: «Ho già da tempo chiesto di fare delle verifiche sulle condizioni e la situazione complessiva dell’esecuzione della pena in quella situazione. Come deve esserlo di fronte a tutte le persone che hanno una certa età, una certa storia, condizioni di salute e quant’altro».

Era in sciopero della fame dal 2 giugno. Cesare Battisti trasferito a Ferrara dopo l’isolamento disumano: rischi per la sicurezza. Redazione su Il Riformista il 26 Giugno 2021. Cesare Battisti lascia il carcere di Rossano, in Calabria. L’ex membro dei Proletari armati per il comunismo è stato infatti trasferito nel penitenziario di Ferrara. A renderlo noto è stato il Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Dal 2 giugno scorso Battisti era in sciopero dalla fame contro il collocamento presso la sezione del carcere calabrese destinata ai terroristi islamici, dove era sottoposto al regime di stretto isolamento che avrebbe dovuto concludersi nel giugno del 2019. Al suo arrivo nel carcere di Ferrara Battisti ha annunciato la sospensione dello sciopero della fame. Battisti, secondo quanto riferisce l’Ansa, è stato trasferito a Ferrara a causa di alcune condizioni di potenziale rischio della sua sicurezza. Nell’ultimo periodo, infatti, nella sezione in cui era recluso si era creato un clima di possibile tensione sfociato anche in alcuni episodi specifici che hanno portato alla decisione del trasferimento. Battisti anche a Ferrara sarà sottoposto all’alta sicurezza. Battisti, dunque, non è stato declassificato, ovvero “retrocesso” al circuito dei detenuti “comuni”. Battisti sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi commessi alla fine degli anni ’70. Arrestato in Bolivia nel 2019 dopo 37 anni di latitanza, è stato recluso prima nel penitenziario di Massama (Oristano) e poi in quello di Rossano, in provincia di Cosenza. Nei giorni scorsi i suoi legali avevano reso noto una lettera scritta dallo stesso Battisti dopo il rigetto dell’istanza presenta dai legali Gianfranco Sollai e Davide Steccanella per il trasferimento in un altro carcere. L’ex Pac, come denunciato da Steccanella, ha perso 10 chili di peso in venti giorni, mentre i suoi parametri medici sono rapidamente peggiorati. Nella lettera Battisti contestava le tesi del Dap che hanno respinto il ricorso, ovvero che il regime AS2 di alta sicurezza sia comunque un percorso teso alla rieducazione e al reinserimento del condannato. Non è così per Battisti. “L’AS2 di Rossano – scriveva l’ex membro dei Pac – è una tomba, lo sanno tutti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone ‘Antro Isis’ è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme”, denuncia Battisti. Nella lettera quindi Battisti ammetteva di aver riposto “speranze” nell’ultima istanza poi bocciata dal Dap, immaginando che “dopo oltre due anni in condizioni estreme, le autorità non infierissero oltre, considerata la mia età e il mio precario stato di salute. Ma anche e soprattutto per aver mostrato grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata degli anni ’70, con particolare riferimento alle famiglie delle vittime”. Battisti si definiva “l’unico detenuto non legato al terrorismo islamico” a Rossano, costretto all’isolamento da 27 mesi, “dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta”. Redazione

“Basta crudeltà contro Cesare Battisti”. Parola di Vittorio Feltri. La sorprendente difesa di Vittorio Feltri nei confronti di Cesare Battisti: "Imploro la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di provvedere ad eliminare certe gratuite crudeltà, che contrastano con le caratteristiche di un Paese civile". Il Dubbio il 25 giugno 2021. “Tutti dovremmo aver letto la Costituzione, peccato che poi ne dimentichiamo i contenuti. Tanto è vero che lo sciopero della fame di Cesare Battisti, detenuto dopo la tribolata estradizione dal Brasile, è stato commentato con espressioni acide dai media italiani. Il noto brigatista protesta contro il trattamento disumano che gli viene riservato in carcere. Ha ragione lui di lamentarsi in quanto costretto a campare come un topo in gabbia, quando la nostra Carta prevede per i galeotti la privazione della libertà, non la privazione della loro dignità di esseri simili a noi, nonostante abbiano commesso dei reati gravi”. Inizia così l’editoriale che Vittorio Feltri ha dedicato alla situazione carceraria di Cesare Battisti, in sciopero della fame da 23 giorni in segno di protesta per le condizioni in cui è costretto a vivere. “Personalmente – chiarisce Feltri nel suo articolo – non posso nutrire nei confronti di Battisti sentimenti di stima e simpatia, tuttavia ciò non mi impedisce di pretendere che anche un pluriomicida debba godere di una esistenza non umiliante. Viceversa egli è obbligato a trascorrere le giornate in condizioni pietose. Non chiediamo per lui dei premi o dei favori, però le nostre leggi affermano che un recluso debba essere rieducato, non bistrattato e torturato. L’autorità vigilante non ha margini di discrezionalità nell’infliggere punizioni più o meno severe a coloro che sono in cella, ma deve attenersi ai criteri dettati appunto dalla citata Costituzione, tanto decantata da qualsiasi partito politico. Ogni comportamento tenuto in galera che sia lesivo di coloro che vi sono ristretti va sanzionato senza esitazioni. Battisti quando in Italia ha commesso reati gravissimi, ha ucciso tre persone, meritava di essere blindato. Per anni è riuscito ad evadere e non ha scontato la giusta pena prevista dal codice penale, per cui ora che è blindato in prigione ritengo sia la fine congrua che doveva aspettarsi. Ma un conto è soggiornare dietro le sbarre e un altro è patire privazioni che contrastano col dettato costituzionale. Se i cittadini sono tutti uguali, pure i carcerati sono tutti uguali e non vanno discriminati in base alla loro connotazione politica. Lo stesso discorso vale per i mafiosi condannati al cosiddetto 41 bis che infligge vari patimenti anche fisici.”. Poi l’appello finale: “Imploro la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di provvedere ad eliminare certe gratuite crudeltà, che contrastano con le caratteristiche di un Paese civile”.

Il caso dell'ex terrorista. Battisti prenda esempio da Pannella: una battaglia non violenta non può essere fino alla morte. Sergio D'Elia su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Ho deciso di aderire allo sciopero della fame a staffetta per Cesare Battisti promosso da Folsom Prison Blues e coordinato da Umberto Baccolo ed Elisa Torresin. Sperando – forse, contro ogni speranza – che lui cambi il segno e il senso della sua lotta. Un digiuno – per motivi politici o per motivi di salute – non può essere fatto contro qualcuno o contro qualcosa, meno che mai può essere “fino alla morte”. Quindi, aderisco per chiedere a Cesare Battisti di convertirlo in sciopero “fino alla vita”, la sua vita, la vita dei suoi carcerieri, in poche parole, la vita del diritto. Braccato in giro per il mondo come la più grave minaccia alla pace e alla sicurezza del nostro paese. Catturato come un criminale di guerra in uno dei paradisi penali per i veri criminali di guerra. Deportato in Italia in spregio a regole e convenzioni sui diritti umani. Esposto alla gogna e al pubblico ludibrio nel passaggio coatto sotto le forche caudine di Via Arenula e del Viminale. Sottoposto al regime di isolamento in un carcere sperduto e privato dei significativi contatti umani che le Regole di Mandela considerano essenziali per evitare la tortura dei detenenti e la pazzia del detenuto. Alla fine, tolto dall’isolamento e messo in socialità – ironia della sorte o legge del contrappasso – insieme a detenuti per terrorismo di matrice islamica. Cesare Battisti è il “tipo d’autore” perfetto per un processo in contumacia che continua anche quando la contumacia è finita. È un caso emblematico di uso integrale e spietato del “diritto penale del nemico” che ha segnato il regime di emergenza che, al di là di ogni emergenza, vige in Italia da quasi mezzo secolo. Ma, di fronte a tanta ingiustizia e inimicizia, la risposta non può essere di segno uguale e contrario: la lotta “fino alla morte” contro la morte per pena; l’arma di un corpo morto scagliato contro il nemico che lo ha sequestrato e deprivato dei più elementari sensi umani.

Il carcere è strutturalmente un luogo di pena, dolore, deprivazione. Non può essere migliorato. A voler essere umani va solo abolito. Ciò nonostante, anche – innanzitutto – in carcere, di fronte ai “cattivi” è giusto diventare “buoni”. Capire che, nel dare corpo alle idee di giustizia, di pace e di libertà, occorre operare prefigurando nell’oggi il domani che vuoi realizzare. Capire che i mezzi devono essere coerenti coi fini, che il corpo occorre darlo alla felicità, al dialogo, all’amore, alla gente e al diritto, non immolarlo, il corpo altrui e il proprio, sull’altare di un’etica del sacrificio e della morte, liberatrice e redentrice. Fare lo sciopero della fame “fino alla morte” è l’opposto della nonviolenza, è la continuazione della violenza con altri mezzi. Non v’è coerenza, non vedo coraggio. L’unica coerenza che occorre osservare in sé ed esigere dagli altri non è quella di chi non cambia mai idea, sentimenti, comportamenti. È quella che crei e t’imponi tra mezzi e fini. L’unico coraggio che bisogna avere nella vita non è quello di combattere fino alla morte, ma quello di amare fino alla vita… anche del tuo nemico. Così Marco Pannella interpretava lo sciopero della fame: un atto d’amore, unilaterale, gratuito, nei confronti dell’avversario, del potere dal quale esigere il rispetto, non della tua volontà, ma delle sue stesse leggi. Questa è la nonviolenza che ho capito: la forza sottile e invisibile, tagliente come la luce di un laser e dura come un filo d’acciaio, che distingue e tiene insieme, che rispetta e lega le persone più diverse. La nonviolenza è la forza del cambiamento, della coscienza, del dialogo, dell’amore, non è mai “contro” qualcosa o qualcuno, ma sempre “per” e “con”. Quando – nel mondo che ti circonda e nel tuo mondo interiore – sembrano prevalere disperazione, indifferenza e rassegnazione, è allora che devi essere tu stesso speranza e perciò creare, anticipare la fine dell’isolamento, essere la realtà diversa che vuoi per te e per le persone che ami e ti amano. Su questo, Ambrogio Crespi ha realizzato un’opera straordinaria, “Spes contra Spem – Liberi dentro”, che racconta il mondo carcerario dove vige ancora l’isolamento e il “fine pena mai”, il 41 bis e l’ergastolo “ostativo”. Le storie dei condannati a vita testimoniano che il carcere può annientare ma anche rigenerare, può essere un luogo e un tempo in cui ci si può perdere per sempre, ma anche il luogo e il tempo in cui è possibile ritrovarsi per sempre, rinascere a nuova vita. Sul senso – creativo, il contrario di mortifero; religioso, l’opposto di diabolico – del digiuno, Mariateresa Di Lascia ha scritto parole bellissime che, Cesare, ti regalo. “Non si può usare in politica uno strumento come il digiuno senza avere amore per l’avversario, senza avere la consapevolezza che la crescita, se ci sarà, avverrà dentro e fuori di noi… Il successo di un digiuno in terapia come in politica è legato alla capacità di liberare la parte migliore di sé, di perdonare e di perdonarsi, di percepirsi come protagonista autentico della propria vita, in una parola: di amare”. Sergio D'Elia

Il caso e le polemiche. Cesare Battisti sta ricevendo un trattamento disumano, ecco perché. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 23 Giugno 2021. Caro direttore, Non sempre do ragione a Luigi Manconi ma questa volta sulla questione Cesare Battisti sono del tutto d’accordo con lui. Certamente Cesare Battisti è un pessimo soggetto che ha provocato la morte di alcune persone per di più con motivazioni aberranti. Però egli è stato assicurato alle carceri italiane. Già al momento del suo arrivo a Roma, lo spettacolo offerto dai ministri Salvini e Bonafede è stato indegno: andarono a riceverlo a Ciampino con tanto di televisione al seguito e con una cerimonia disgustosa che aveva il senso grottesco di esaltare il ruolo di cacciatori che si esibivano per avere catturato la preda. Insomma Salvini e Bonafede in versione Bounty killer all’italiana. Adesso Battisti è un carcerato che va trattato rispettando rigorosamente tutte le regole che ispirano il nostro sistema e non violandole perché si tratta di un “malvagio” per il quale vale il motto “buttare la chiave”. D’altra parte sono tutti buoni a fare i bulli con chi è ristretto in carcere. Diversamente da altri, noi non abbiamo mai apprezzato né Battisti quando faceva il furbo a Parigi e si esibiva come un perseguitato politico, pur avendo ucciso alcune persone, né gli intellettuali francesi che hanno anche inventato una situazione repressiva in Italia che era inesistente, mettendoci anche un pezzo di snobismo razzista nei nostri confronti. Adesso, però, evitiamo – per la stupidità di chi gestisce il Dap o di chi manda direttive dal ministero di Grazia e Giustizia – di dare ad essi ragione. Privare una persona delle due ore d’aria quotidiane e restringerla in una condizione anti igienica è un’autentica forzatura, inaccettabile anche perché disumana. Dio ci scampi dagli arroganti e dai cretini: quando poi le due qualità si combinano assieme gli effetti sono disastrosi. Ci auguriamo che l’attuale direzione del Dap non ci faccia rimpiangere Basentini, dimessosi perché Giletti dava in escandescenze contro di lui in televisione per la mancata nomina del suo protetto Di Matteo. Invece manteniamo la valutazione positiva sulla firma data da Salvini sui referendum dei Radicali. Manconi non ha ragione a polemizzare con lui su questo e invece dovrebbe polemizzare con gli esponenti del Pd che non lo stanno facendo per la loro permanente subalternità ad una magistratura che sta offrendo di se stessa un pessimo spettacolo non rendendosi conto che la corda si è spezzata. Fabrizio Cicchitto

Lo sciopero della fame e il trattamento illegale. Cesare Battisti torturato in cella, sottoposto a un regime speciale illegale. Luigi Manconi su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Gentile Direttore, l’adesione della Lega all’iniziativa referendaria promossa dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha diffuso nell’aria un certo clima mondano, così riassumibile: «dopotutto, signora mia, siamo tutti un po’ garantisti». Provvidenzialmente sono i fatti, duri come pietre, a sottoporre a verifica quell’autocertificazione garantistica, costituendo altrettanti ineludibili test di verità. Uno di questi ha la voce, senza dubbio sgradevole per tantissimi, di Cesare Battisti. Nel gennaio del 2019, Battisti venne estradato in Italia e ristretto nel carcere di massima sicurezza di Oristano, scontando qui i sei mesi di isolamento previsti come pena accessoria della condanna all’ergastolo. Successivamente, il trasferimento al carcere di Rossano Calabro, dove si sarebbe rinnovato e perpetuato fino a oggi un regime de facto di isolamento, trovandosi Battisti all’interno di una sezione interamente popolata da presunti terroristi islamisti (finora ne hanno scritto solo, se non sbaglio, Giulia Merlo sul Domani e Mattia Feltri su La Stampa, oltre a questo giornale). Le condizioni dell’istituto di pena calabrese sono pessime: «L’AS2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti – scrive in una lettera lo stesso Battisti – è l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede». E gli ultimi otto mesi sono stati trascorsi dal detenuto senza che mai potesse godere «dell’esposizione alla luce solare diretta». Nella stessa lettera Battisti anticipava l’intenzione di attuare lo sciopero della fame, poi iniziato il 2 giugno scorso, come atto di protesta, contro quello che considera un «isolamento abusivo, senza alcun contatto con altri detenuti». È una situazione, la sua, che può portare a uno stato di “deprivazione sensoriale”, che la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani ha definito, in più di una sentenza, come trattamento inumano e degradante e, in determinate circostanze, vera e propria tortura. Infatti, una condizione di prolungato isolamento totale può portare un individuo alla perdita o alla riduzione della capacità di percepire uno o più sensi. È questa la ragione per la quale misure come l’isolamento devono avere sempre una durata temporanea circoscritta e prevedibile. E il loro eventuale prolungamento deve essere tassativamente motivato in maniera circostanziata e per cause eccezionali. Quale è, oggi, la ragione di questo “regime speciale” al quale si trova sottoposto Cesare Battisti? Dal momento che dal detenuto non si attendono ulteriori informazioni relative a reati commessi da lui stesso o da altri (e sarebbe comunque una misura illecita), l’unica spiegazione di questo trattamento risiede nella volontà di rendere maggiormente afflittiva la sua pena. Ma questo è, né più né meno, che illegale. E costituisce, se vogliamo, un vero e proprio oltraggio al garantismo e la sua totale negazione. Proprio perché il garantismo è un assoluto, vale sempre e comunque, si applica agli amici e agli avversari e, ancor prima, agli innocenti e ai colpevoli. E si applica anche agli autori dei crimini più efferati e a quelli maggiormente riprovevoli: proprio perché si afferma, così, la superiorità giuridica e morale dello Stato e delle sue leggi, rispetto ai propri nemici. Mi auguro, di conseguenza, che il segretario della Lega, Matteo Salvini, che da Ministro dell’Interno gioì per l’arresto del latitante, in una maniera che forse oggi vorrà giudicare incontinente, si dichiari favorevole all’applicazione di un regime ordinario per Battisti. Ma il discorso non riguarda solo lui, ho un ricordo particolare. Quando dieci anni fa iniziammo a mobilitarci perché sulla morte di Stefano Cucchi si indagasse con la necessaria serietà, dell’intero schieramento di centro-destra si mobilitarono giusto tre persone: Melania Rizzoli, Renata Polverini e Flavia Perina. In questa circostanza, ci saranno almeno altrettanti esponenti del centro-destra e un certo numero di parlamentari del centro-sinistra, tra i tanti che si autocertificano come garantisti, che vorranno dire qualcosa? Oppure Cesare Battisti è troppo brutto, sporco e cattivo per sollecitare la nostra attenzione? Vengono in mente le parole di Friedrich Dürrenmatt: «È antipatico: e ciò equivale già a un sospetto, ma questo è un elemento soggettivo, signori miei, non criminologico: e non deve influenzare la nostra opinione». (In La Promessa, Adelphi – Emons audiolibri, letto da Lino Musella). Luigi Manconi

Cesare Battisti, isolato con i terroristi islamici, si sta lasciando morire. Appello dell’Associazione Yairaiha Onlus alle massime istituzioni per Cesare Battisti che a Rossano ha iniziato lo sciopero della fame e delle terapie contro il mancato rispetto dell'ordinanza dei giudici di Milano. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 14 giugno 2021. Cesare Battisti si sta lasciando morire. Non per chiedere di non scontare la pena, ma per il fatto di essere recluso nel carcere di Rossano in una sezione composta esclusivamente da detenuti appartenenti al terrorismo islamico. Ciò gli crea un grave isolamento, impedendogli di svolgere perfino l’ora d’aria.

Non viene rispettata l’ordinanza della corte d’appello di Milano. Una condizione, di fatto, illegale, anche perché non viene rispettata l’ordinanza emessa a carico della corte d’appello di Milano dove spiega che Battisti non è ostativo e ha diritto ad un percorso trattamentale.

L’appello dell’Associazione Yairaiha Onlus. Per questo motivo, l’Associazione Yairaiha Onlus ha lanciato un appello rivolto al presidente della repubblica Sergio Mattarella, la guardasigilli Marta Cartabia, al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, al Vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Davide Ermini, al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, al Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza, al Consiglio nazionale di Magistratura Democratica, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, al provveditore regionale della Calabria Guerriero, al direttore della Casa di Reclusione di Rossano, al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, all’Ufficio di sorveglianza di Cosenza, al Garante Nazionale Mauro Palma, al Garante regionale Siviglia, all’onorevole Roberto Giachetti e al Comitato europeo per la prevenzione della tortura.

Dal 2 giugno è in sciopero della fame e delle terapie. Dal 2 giugno scorso, Cesare Battisti, detenuto presso il carcere di Rossano nel circuito AS2, ha iniziato lo sciopero della fame e delle terapie per manifestare il proprio disagio avverso «all’illegittimo – si legge nell’appello – e immotivato protrarsi della sua collocazione nel circuito AS2 che, nel caso specifico dell’istituto calabrese, è destinato a detenuti afferenti al cosiddetto “terrorismo islamico”, e contro il mancato rispetto dell’ordinanza n. 3/19 Reg. Ord. emessa a suo carico dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano». Come osserva l’associazione Yairaiha nell’appello, i circuiti ex E.I.V. sono stati istituiti con circolare DAP n. 3479 del 9.7.1998 con l’obiettivo di separare i detenuti di particolare spessore criminale e gli ex 41bis dai detenuti di alta e media sicurezza. A seguito di diversi pronunciamenti della Corte europea , e di seguenti atti di sindacato ispettivo e interrogazioni parlamentari , il Dap, con la circolare 3619/6069 del 21 aprile 2009, riformula la denominazione dei circuiti E.I.V. suddividendo l’Alta Sicurezza in tre sotto circuiti e assegnando gli ex E.I.V. ai circuiti AS1 e AS2, per «superare la sua denominazione foriera di fraintendimenti, evitando che essa possa far pensare, sia pure solo in via teorica ad osservatori esterni, ad una condizione maggiormente afflittiva», ribadendo al tempo stesso che «La gestione dei detenuti ed internati che, allo stato, sono inseriti nel circuito E.I.V. per le ragioni esposte, continuerà ad essere di esclusiva competenza dipartimentale. Continuerà pertanto ad essere onere delle direzioni segnalare il comportamento di tali detenuti ed internati, che verranno di conseguenza gestiti dalla direzione generale dei detenuti e del trattamento».

La gestione dei detenuti assegnati ai circuiti di sicurezza rimane di competenza del Dap. Anche con la circolare del 2009, si è di fatto aggirata la condanna, ribadendo che la gestione dei detenuti assegnati a tali circuiti rimane di competenza del Dap (organo amministrativo) in stretta collaborazione con le Direzioni distrettuali antimafia (organi investigativi). Il problema è che si sono venuti a creare gruppi misti del tutto incompatibili tra loro e la magistratura di sorveglianza, teoricamente, non può influire sulla scelta della gestione in mano al Dap.Immaginare gli ex terroristi di matrice marxista o anarchica convivere con quelli di matrice islamica è ovviamente problematico.

Cesare Battisti è costretto a isolarsi. A maggior ragione se si ritrova, come nel caso di Battisiti, da solo con loro. Accade quindi che Cesare Battisti è costretto ad auto isolarsi. Ciò gli impedisce l’ora d’aria, la socialità e anche di essere ascoltato dal cappellano che non ha mai incontrato, nonostante le numerose richieste. L’ordinanza della corte d’appello di Milano ha invece ribadito che «sarà la magistratura di sorveglianza a valutare se e quando Cesare Battisti – a cui non risulta applicabile il regime ostativo – potrà godere dei benefici penitenziari, in virtù di una progressione trattamentale, che è diretta attuazione del canone costituzionale della funzione rieducativa della pena anche per i condannati all’ergastolo (come ribadito dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 149/20185): primo fra tutti il beneficio della liberazione anticipata ai fini del calcolo del termine per poter chiedere permessi premio e misure alternative alla detenzione, avendo riguardo anche ai periodi di custodia cautelare espiata all’estero (secondo l’orientamento di cui alla sentenza n. 21373 della Cassazione Sez 1 19.4.2013».

Chiede di poter scontare la sua condanna secondo le norme. Quello che chiede Cesare Battisti è di poter scontare la sua condanna secondo le norme e la sentenza. «Chiede – si legge nell’appello dell’associazione Yairaiha Onlus – di poter partecipare attivamente alla vita della comunità penitenziaria, contribuendo attivamente alla stessa anziché essere relegato nell’infimo concetto, caro a certa politica, del “buttiamo via la chiave” che condanna le persone ad essere recluse nel tempo vuoto di una pena fine a sé stessa senza alcuna prospettiva oltre quella di “marcire in galera”».

L'ex terrorista ha iniziato sciopero della fame e delle cure. Battisti sepolto vivo in cella, respinta istanza di trasferimento da Rossano: “Isolato da 27 mesi, carcere tabù anche per i preti”. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Cesare Battisti, detenuto da quasi un anno in regime di alta sicurezza, non merita il trasferimento dal carcere di Rossano Calabro a un altro istituto di pena. L’istanza presentata dai suoi legali, Gianfranco Sollai e Davide Steccanella, è stata rigettata nei giorni scorsi secondo quanto appreso dall’AdnKronos. L’ex terrorista dei Pac, condannato all’ergastolo, ha quindi iniziato uno sciopero della fame e interrotto le terapie cui si sottopone per problemi di salute.

In una lettera-appello inviata tramite gli avvocati, Battisti contesta le tesi del Dap che hanno respinto il ricorso, ovvero che il regime AS2 di alta sicurezza sia comunque un percorso teso alla rieducazione e al reinserimento del condannato. Non è così per Battisti. “L’AS2 di Rossano – scrive l’ex membro dei Pac – una tomba, lo sanno tutti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone ‘Antro Isis’ è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme”, denuncia Battisti. Nella lettera quindi Battisti ammette di aver riposto “speranze” nell’ultima istanza poi bocciata dal Dap, immaginando che “dopo oltre due anni in condizioni estreme, le autorità non infierissero oltre, considerata la mia età e il mio precario stato di salute. Ma anche e soprattutto per aver mostrato grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata degli anni ’70, con particolare riferimento alle famiglie delle vittime”. Invece il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per l’ex Pac non ha tenuto conto del “grande disagio dovuto alla distanza che separa il condannato dai suoi affetti”, dimenticando l’aspetto riabilitativo e recuperatorio della pena previsto dalla Costituzione. Così Battisti resta a Rossano “l’unico detenuto non legato al terrorismo islamico”, costretto all’isolamento da 27 mesi, “dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta”. Quindi l’accusa al Dap e al suo ignorare la sentenza Corte d’Assise d’Appello di Milano, confermata in Cassazione nel novembre 2019, la quale stabilisce lo stesso Battisti debba scontare la pena in un carcere con regime ordinario. “In nessun caso il reparto di Alta Sicurezza di Rossano potrebbe garantire un trattamento ordinario, giacché non è questa la sua funzione”, denuncia Battisti.

Cesare Battisti detesta i detenuti islamici: "Tutto predisposto per tenerli a bada", clamorosa lettera dal carcere. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 10 giugno 2021. Cesare Battisti è un simbolo della contemporaneità. È un simbolo malgré lui, ovviamente, la sua storia effettiva è quella di un terrorista “ideologico”si diceva nei disgraziati anni Settanta, cioè un criminale peggio che comune, le pallottole sparate più o meno a casaccio in nome dei Proletari Armati per il Comunismo, un ergastolo e quattro omicidi su quel che resta della coscienza. Ma la sua biografia rivista e corretta tra una tartina e un drink dal radical- chicchismo globale è tutt' a tra, si sono inventati via via il "rifugiato politico", se non il perseguitato, lo scrittore raffi- nato di noir esistenzialisti (è a quello che serve l'esilio a Pari gi, a passare dalla banda armata alla cricca intellettuale), compagno di strada di Lula e di Bernard-Henri Lévy. È uno dei loro, Battisti, durante la lunga latitanza in Brasile divenne una sorta di eroe dei due mondi del progressismo, nonostante le sue gesta siano tutto tranne che eroiche: un gioielliere, un macellaio, un agente di custodia e un uomo della Digos, quattro esecuzioni a sangue freddo. E oggi, dal carcere di Rossano Calabro in cui sta tardivamente saldando il conto delle suddette gesta, ci dipinge un affresco spettacolare, plastico della loro ipocrisia, l'ipocrisia di quel mondo di cui è diventato un'icona involontaria. Scrive, Battisti, non più un giallo ma una lettera-appello, non "Le mie prigioni" di Silvio Pellico, ma una più prosai-ca lamentela al Dap (Diparti- mento amministrazione peni-tenziaria) contro il rigetto dell'istanza di trasferimento che avevano presentato i suoi avvocati. Decisione che fa annunciare all'ex combattente per il comunismo lo sciopero della fame e la sospensione delle cure che sta seguendo per i suoi problemi di salute, visto che il "grande disagio" che prova nel regime di Alta Sicurezza (AS2) non è più pro-crastinabile. E una delle ragioni principali alla base della condizione intollerabile da cui chiede di essere sollevato è la seguente: «Il Dap pare ignorare che nel reparto dove sono detenuto nulla è predisposto per i detenuti che non condividono i costumi e la tradizione musulmana o che abbiano vivaci incompatibilità di convivenza con questa categoria di detenuti». Ci sono troppi immigrati di fede islamica, da quelle parti, non va bene, un conto è frequentare e farsi proteggere per lustri dalla crème del buonismo inclusi - vista su ambo le sponde dell'Atlantico, un conto è es - sere scaraventato faccia a factrascorsi in esilio» (col linguaggio del resto del mondo: in fuga dalla giustizia) all'insegna tra l'altro del «pacifico coinvolgimento nell'iniziativa culturale e nel volontariato». Lì, di fianco al tuo vicino di cella, non avverti nessun «pacifico coinvolgimento», ma scopri accenti quasi falla ciani, scopri di avere «vivaci incompatibilità di convivenza» con i fedeli in Allah. «L'As2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti. Il famigerato portone "Antro Isis" è tabù perfino per il cappellano. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme». Fossero parole di un ex terrorista di destra, oggi il Giornalone Unico strillerebbe ad aperture unificate contro il fascismo perenne. Battisti, il cocco dei salotti della gauche caviar, sa che può farlo, può invocare il trasferimento perché circondato da «ferventi musulmani», cioè per motivi di razzismo culturale, se volessimo usare i canoni di quella stessa gauche. «Sono l'unico detenuto non legato al terrorismo islamico», annota amareggiato, come se terrorizzare e uccidere in nome dei Proletari per il Comunismo fosse diverso, qualitativamente e moralmente, da terrorizzare e uccidere in nome della sharia. La rivoluzione marxista conserva pur sempre una sua allure, signora mia, non è la puzzolente rivoluzione coranica, eravamo al massimo compagni che sbagliavano, mica fetenti maomettani. Ma tutto l'appello di Battisti è un esercizio in bilico tra realtà e controsenso, visto che tra i fattori che lo avevano fatto ben sperare per il trasferimento cita la «grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata, con particolare riferimento alle famiglie delle vittime». Se non lo ha capito nel 2021 non sappiamo come spiegarglielo: non deve essere lui, "disposto alla riconciliazione", devono esserlo loro. «L'Italia ha mentito, garantendo un trattamento umano e clemenza», insiste in terza persona, «lo provano le condizioni della prigionia di Cesare Battisti». Addirittura messo nello stesso braccio dei musulmani. Inaccettabile.

Lula chiede scusa agli italiani: "Su Battisti ho sbagliato". Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica il 9 aprile 2021. L'ex presidente brasiliano in un'intervista al TG2 ripercorre gli anni della permanenza nel suo Paese del terrorista dei Proletari armati per il comunismo. E annuncia che vuole candidarsi alle elezioni del 2022. "Su Cesare Battisti ho sbagliato. Gli ho creduto, aveva torto. Era colpevole". Lo dice Luis Inácio Lula da Silva con la schiettezza che lo distingue nel corso di un'intervista che ha concesso al Tg2 Post. Il fondatore del PT è chiaramente amareggiato da una vicenda che ha sorpreso molti. Cesare Battisti, ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo e con il tempo diventato un noto scrittore, soprattutto in Francia, per i suoi libri noir, ha sempre sostenuto la sua innocenza fino al 2019. Arrestato per fatti legati alla lotta armata che scandì gli anni '70 del secolo scorso in Italia, l'ex militante riuscì a evadere dal carcere di Frosinone nel 1980 dopo essere stato condannato a 12 anni. Fuggì in Francia, poi in Messico, Brasile e di nuovo in Francia dove restò a lungo come rifugiato approfittando della dottrina Mitterrand che negava l'estradizione per motivi politici. La sua lunga latitanza si è conclusa il 12 gennaio del 2019 a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, dove è arrestato dagli agenti del piccolo Paese sudamericano e consegnato agli uomini dell'Antiterrorismo italiani giunti sul posto. Viene trasferito due giorni dopo a Fiumicino e rinchiuso poi direttamente nel carcere di Oristano. Deve scontare l'ergastolo, commutato in 30 anni di carcere, per due omicidi commessi personalmente e altri due a cui partecipò in modo in diretto. La cancellazione del carcere a vita è stata la condizione posta dal Brasile, dove aveva ottenuto la cittadinanza, per concedere la sua estradizione. Fu proprio Lula, nel 2010, a decidere il futuro di Battisti. Il suo caso era davanti al plenum del Tribunale Superiore Federale del Brasile per discutere della richiesta di estradizione arrivata dall'Italia. I giudici brasiliani si divisero e affidarono a Lula le sorti del ricercato italiano. L'allora presidente, in virtù del suo potere, firmò la sentenza che respingeva la richiesta e gli concesse il diritto di asilo" che significava la "residenza permanente". Un errore, che Lula adesso riconosce chiedendo "scusa a tutti gli italiani". Del resto, sostenuto da una forte campagna stampa e da un vasto movimento di opinione che sosteneva la sua innocenza, Cesare Battisti è a lungo riuscito a sfuggire alle sue responsabilità e a ingannare per più di 30 anni gli intellettuali, i politici, gli scrittori che lo proteggevano. Ma è stato lui stesso, una volta chiuso in cella in Italia, nel 2019, ad ammettere davanti ai giudici che i fatti di cui era accusato erano veri. Un'ammissione che è apparsa subito strumentale: collaborando, puntava a una riduzione di pena. Nella stessa intervista, il padre della sinistra brasiliana conferma di volersi candidare alle elezioni presidenziali del 2022. "Se sarò in salute e se i partiti progressisti lo riterranno, mi ricandiderò", ha annunciato. Lo aveva già accennato all'inizio di marzo quando la condanna a 12 anni di carcere per corruzione passiva e riciclaggio di denaro è stata cancellata. Lula è uscito pulito da tutte le inchieste che lo riguardano. Il giudice Sergio Moro è stato accusato di parzialità nel processo perché aveva pesantemente interferito nelle indagini suggerendo i pubblici ministeri come e dove trovare le prove a sostegno dell'accusa. Una grave violazione al suo ruolo superpartes che ha viziato l'esito del dibattimento e la stessa condanna. Il leader del Pt ha definito "genocida" il presidente Bolsonaro ricordando che "chi è venuto dopo di me non ha fatto ciò che doveva fare". L'esponente dell'estrema destra è considerato da Lula un "irresponsabile" per come gestisce la pandemia: "Quattro mila morti al giorno sono un numero inaccettabile", ha concluso.

Mauro Zanon per "Libero quotidiano" il 4 febbraio 2021. «Sono l'unico detenuto senza alcun rapporto con il jihadismo che si ritrova in un reparto di alta sicurezza riservato agli accusati di "terrorismo islamico", situazione insostenibile che mi priva di qualsiasi attività, compresa l'ora d'aria, fuori dalla cella - se così si può chiamare questa gabbia minuscola in cui non entra mai un raggio di sole». Inizia così il testo che Cesare Battisti, ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo (Pac) condannato all'ergastolo per quattro omicidi e attualmente recluso nel carcere penitenziario di Rossano (Calabria), ha dettato al telefono a una delle sue figlie (ne ha due, Valentine e Charlène, che vivono entrambe a Parigi), e che il settimanale L'Obs ha pubblicato lunedì sul suo sito. «Il reparto di alta sicurezza Isis-As2 è una flagrante violazione delle norme nazionali e europee che vigilano sulla dignità dei detenuti: qui non esiste alcuna attività rieducativa o di reinserimento sociale; la struttura stessa è concepita con un fine esclusivamente punitivo, vera e propria tomba dove nemmeno un prete osa entrare», scrive il pluriomicida Battisti, arrestato nel 2019 dopo trentasette anni di latitanza e sberleffi allo Stato italiano e alle famiglie delle vittime, prima in Francia, idolatrato e protetto dalla gauche intellettuale, poi sulle spiagge brasiliane («Non ho nessuna voglia di andarmene dal Brasile, ormai sogno perfino in portoghese. Adoro Rio, le spiagge, le belle ragazze», diceva nel 2011, coccolato dalla sinistra verdeoro di Lula da Silva e Dilma Rousseff).

L'appello. La protesta, che Battisti chiama "appello alla giustizia", arriva a distanza di cinque mesi dalla lettera inviata al Garante nazionale dei detenuti, nella quale diceva di sentirsi in pericolo tra i tagliagole islamisti, ricordando di aver già ricevuto delle intimidazioni da parte dei terroristi di Al Qaeda nel 2004, per essersi espresso «contro il velo islamico e l'atroce discriminazione delle donne», e da parte dello Stato islamico nel 2015, «per avere pubblicamente criticato l'operato dell'Isis in Siria». Oggi, l'ex terrorista dei Pac si dice «allo stremo delle forze psichiche e fisiche, con patologie croniche», annunciando un nuovo sciopero della fame. «Non mi resta altro da fare che dichiarare lo sciopero della fame e della terapia, affinché venga applicata la decisione della Corte d'Assise d'Appello di Milano (Battisti fa riferimento alla sentenza del maggio 2019, quando i giudici milanesi, pur confermando l'ergastolo, spiegarono che a lui non era "applicabile il regime ostativo", ndr) e mi sia permesso di andare in una prigione dove posso intraprendere il legittimo percorso di reinserimento sociale previsto dalla legge», dice Battisti. Quest'ultimo non ha mai smesso di recitare la parte della vittima, del povero agnellino maltrattato da uno Stato violento. Ma in carcere non ha fatto altro che collezionare punizioni per il suo comportamento aggressivo. Secondo quanto appreso lo scorso autunno da La Verità, ventiquattro ore dopo il suo trasferimento dal carcere di Oristano (Sardegna) a quello di Rossano, il sessantaseienne si è scagliato verbalmente contro un ispettore della polizia penitenziaria, fatto che gli è valso quindici giorni di esclusione dalle attività comuni.

Minacce. Il 25 settembre si è rifiutato di lasciare i locali adibiti a quarantena anti-coronavirus per i detenuti, obbligando i poliziotti a portarlo via con la forza e ottenendo per questo altri quindici giorni di punizione. Il giorno dopo, evidentemente non pago delle sue continue ribellioni, ha chiesto e ottenuto di fare una telefonata al «fratello». Ma i poliziotti hanno scoperto che in realtà stava parlando con una donna: altri sette giorni di punizione. «Anche se dovessero ridurmi al silenzio», ha affermato l'ex terrorista, come riportato da La Verità, «i compagni e gli amici qui e altrove sapranno adoperarsi come hanno sempre fatto». E intanto, a Parigi, le celebri Éditions du Seuil si dicono già pronte a pubblicare il suo prossimo libro, che ha scritto in carcere durante il suo isolamento.

·        Dimitris Koufodinas.

Sarebbe la prima volta dopo 40 anni. Chi è Dimitris Koufodinas, l’ex terrorista in sciopero della fame da 56 giorni che rischia di morire. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Marzo 2021. La sua storia sta spaccando in due la Grecia, tra manifestazioni di solidarietà e chi invece non molla sulla linea dura. Parliamo di Dimitris Koufodinas, ex terrorista greco e leader del gruppo armato di estrema sinistra “17 Novembre”, in sciopero della fame da 56 giorni come forma di protesta per il trasferimento in un carcere di massima sicurezza a Domokos.  Koufodinas, come rivelato del suo avvocato Ioanna Kourtovik, è “tra la vita e la morte” nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lamia. L’ex terrorista 63enne in caso di decesso sarebbe il primo detenuto politico europeo a morire di fame mentre è sotto la custodia dello Stato dal 1981: all’epoca morì in cella Bobby Sands, militante dell’IRA irlandese, come forma di protesta contro il governo inglese ultraconservatore di Margaret Thatcher. La storia di Koufodinas è quella di un terrorista mai pentito e per questo in Grecia è folta la pattuglia di chi, a destra, non vuole fare ‘sconti’ all’ex leader di “17 Novembre”. L’organizzazione terroristica si è macchiata della morte di 23 persone tra il 1975 e il 2000: il nome del gruppo faceva riferimento alla notte del 17 novembre del 1973, quando il regime “dei Colonnelli” greco mandò i carri armati al Politecnico di Atene contro la protesta degli studenti, provocando oltre venti morti e centinaia di feriti. I terroristi di “17 Novembre” agivano sotto la "bandiera" del marxismo e dell’anticapitalismo, contro la NATO, gli Stati Uniti e le loro basi militari sul suolo greco: non a caso la prima vittima del gruppo fu nel 1975 Richard Welch, ai tempi il capo della sezione greca della CIA. Koufodinas, che nel 2002 si consegnò spontaneamente alla polizia mettendo di fatto la parola "fine" all’esperienza del gruppo terroristico, è stato condannato a undici ergastoli per altrettanti omicidi. Uno di questi omicidi, secondo i sostenitori di Koufodinas che da giorni scendono in piazza per protesta, sarebbe la causa del suo trasferimento nel re di massima sicurezza di Domokos, nella Grecia centrale. Tra le vittime di Dimitris Koufodinas c’è stato infatti Pavlos Bakoyannis, deputato di Nuova Democrazia, il partito del centrodestra ancora oggi al governo della Grecia: Bakoyannis era però anche il cognato dell’attuale primo ministro Kyriakos Mitsotakis, mentre il figlio Costas Bakoyannis è sindaco di Atene. Insomma, il sospetto è che la scelta di trasferire Koufodinas dalla struttura agricola nelle campagne di Volos, dove stava scontando la sua pena, al carcere di Korydallos, sia di fatto una “vendetta” della destra. A non reggere è anche l’accusa da parte dei partiti e degli ambienti di centrodestra di una scelta per ribaltare un “rilassamento” dei vecchi governi di sinistra nei suoi confronti: effettivamente nel 2018, quando al governo della Grecia c’era la sinistra di Alexis Tsipras, Koufodinas venne trasferito per “buona condotta” dal carcere di massima sicurezza alla struttura agricola di Volos, ma come lui anche diversi altri ergastolani erano detenuti in questi tipo di carceri, che non comportavano comunque alcuna possibilità di riduzione della pena. Contro il “rilassamento” di Syriza quindi il governo di centrodestra nel 2020 approvò una legge che negava ai condannati per terrorismo alcuni diritti riconosciuti ai detenuti per altri reati, come appunto la possibilità di scontare la pena nelle carceri agricole. A causa della legge quindi Koufodinas venne trasferito a Domokos, noto per “sovraffollamento e pessime condizioni di detenzione”, come raccontato su Il Manifesto dal giornalista di origine greca Dimitri Deliolanes, e difficilmente raggiungibile da moglie e figlio dell’ex leader di “17 Novembre”. Di fronte alla protesta di Koufodinas, che aveva iniziato l’8 gennaio scorso lo sciopero della fame, e successivamente quello della fame, il governo di centrodestra si è dimostrato fermo sulle sue posizioni. Per la portavoce dell’esecutivo ellenico, Aristotelia Peloni, “Koufodinas chiede un trattamento privilegiato ma lo Stato non negozia con i detenuti e non rinuncerà al proprio diritto sovrano di decidere come trattenerli. Ha la capacità di porre fine allo sciopero della fame ed esercitare le opzioni legali a sua disposizione”. Non la pensano così movimenti di sinistra, avvocati, intellettuali e organizzazioni per i diritti umani che hanno scritto e firmato petizioni per chiedere di rispettare i diritti di Koufodinas. In favore dell’ex terrorista si è speso anche Alexis Tsipras: “In uno stato di diritto, la vita umana è un bene supremo, anche se è quella di un condannato”.

·        Mara Cagol.

La br Mara Cagol con Pertini e Berlinguer nell’album di famiglia Pci. Finalmente hanno ammesso la verità…Adele Sirocchi domenica 28 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. La brigatista Mara Cagol, compagna di Renato Curcio e uccisa in un conflitto a fuoco con i carabinieri nel 1975, può stare accanto a Pertini e Berlinguer nel pantheon della sinistra? La domanda è lecita dopo che il gruppo Repubblica-L’Espresso, pubblicizzando una iniziativa editoriale sui 100 anni del Pci,  nella manchette accosta le tre figure: “La travagliata fine del Pci attraverso le figure di Cagol, Berlinguer, Craxi, Bobbio e Pertini”. A scrivere di Mara Cagol è Benedetta Tobagi, figlia di una vittima del terrorismo rosso.  Finalmente senza più imbarazzi Repubblica ammette ciò che a destra e in tutto il paese sapevamo da tempo: le Br fanno parte a pieno titolo della storia della sinistra italiana. Lo scrisse Rossana Rossanda nel 1978 sul Manifesto, suscitando un vespaio: “Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo”. L’ammissione del gruppo editoriale Repubblica-L’Espresso su Twitter è stata subito notata. Parte all’attacco il giornalista di sinistra Mario Lavia: “Vedo ora una pubblicità dell’iniziativa editoriale di Rep sulla storia della sinistra, “attraverso le figure di Cagol, Berlinguer, Craxi, Bobbio, Pertini”. Cagol??? La fondatrice delle BR accanto a Bobbio e Berlinguer??? Ma sono scemi???”. No, non lo sono, replica Luca Bottura, ispiratore dell’antifascismo da tastiera, uno per il quale i militanti di FdI non sanno neanche scrivere, il quale rivendica l’appartenenza dei brigatisti alla storia della sinistra: “Erano nemiche del PCI che fu decisivo nello sconfiggerle e isolarle. Mussolini fu socialista per convenienza e fascista per potere. Le Br vellicavano la memoria della Resistenza tradita e prima dell’omicidio Rossa erano maggioritarie nelle fabbriche. Basta leggere due libri”. E ancora, Bottura difende così la scelta di mettere insieme un ex presidente della Repubblica e una che organizzò il sequestro di Mario Sossi: “Dico solo che “leggere” quegli eventi senza contestualizzazione è un errore e sì, nello stesso album ci sono Mara Cagol e Pertini, Guido Rossa e chi lo uccise. Siamo noi. Controversi e complessi”. E in effetti le Br si richiamavano alla lotta partigiana di cui Sandro Pertini fu illustre esponente. Infatti è proprio così. Loro sono così, hanno i brigatisti nel pantheon. Il punto però non è questo: il punto è se la circostanza va rivendicata o no con orgoglio. Repubblica ha fatto evidentemente la sua scelta. E sempre su Twitter c’è chi ironizza: “Si sono dimenticati di Curcio, metterlo pareva brutto?“. E chi tira le somme: “Hanno dimenticato anche Barbara D’Urso”.

Se Repubblica mette una br nell’album di famiglia della sinistra. Sul quotidiano La Repubblica, per pubblicizzare una propria iniziativa editoriale sui cent’anni della sinistra, si cita il nome di Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, fondatore delle Br. Francesco Curridori - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Norberto Bobbio e Sandro Pertini. Chi meglio di loro può rappresentare la sinistra italiana? Forse solo Antonio Gramsci, ma sarebbe troppo scontato. Sul quotidiano La Repubblica, invece, per pubblicizzare una propria iniziativa editoriale sui cent’anni della sinistra, il fondatore del Pci non viene nemmeno citato. In compenso, prima di Berlinguer, Craxi, Bobbio e Pertini, compare il nome di Cagol. Per i più giovani, quelli che non hanno vissuto gli anni di piombo, forse il nome di Mara Cagol non dice molto eppure si tratta della moglie di Renato Curcio, capo delle Brigate Rosse. A notare per primo l'insolita e discutibile scelta è stato il giornalista Mario Lavia, collaboratore de Linkiesta che su Twitter ha cinguettato: "Vedo ora una pubblicità dell'iniziativa editoriale di Rep sulla storia della sinistra, 'attraverso le figure di Cagol, Berlinguer, Craxi, Bobbio, Pertini'. Cagol??? La fondatrice delle BR accanto a Bobbio e Berlinguer??? Ma sono scemi???". Francesco Storace, invece, in un editoriale sul Tempo, ha commentato: "Utilizzare come sponsor la compagna 'caduta combattendo' diciamo che non è il massimo e sarebbe bizzarro scomodare le quote rosa per una rivisitazione della storia comunista spinta sino a tanto livello". La Cagol, infatti, come ricorda l'ex parlamentare di An, venne uccisa nel corso di un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine durante il quale era provvista di armi automatiche e bombe a mano. "Non uno stinco di santo, potremmo dire", scrive Storace che, poi, aggiunge: "È come dire che Pci e Br provengano dalla stessa storia, il che diventa difficile da sostenere, se si vuole leggere senza faziosità cent’anni di storia politica. Chi andò a finire nelle Br anche dopo aver militato nel Pci lo fece per colpirlo, non per aiutarlo da sinistra, diciamo". Su Twitter, un follower di Lavia ha difeso la scelta di Repubblica ricordando che la Cagol è stata citata in un articolo di Benedetta Tobagi, figlia di Walter vittima delle Brigate Rosse, ma Storace ha contestato il fatto che per sponsorizzare l'opera il gruppo editoriale L'Espresso abbia scelto il nome della Cagol e non quello del giornalista assassinato. Il deputato Michele Anzaldi, invece, ha risposto così al cinguettìo del giornalista de Linkiesta: "Caro Mario non sono scemi ma distratti e disattenti su temi ancora vivi nella carne di chi ha vissuto quella stagione e magari vista distrutta la propria vita in quel periodo".

Che ipocrisia il Montanelli "pacificato". Il quotidiano di Eugenio Scalfari - fondato negli stessi anni di piombo e del piombo del Giornale, ma su barricate opposte - ha annunciato che fra pochi giorni cambierà la firma nella rubrica delle lettere dei lettori. Luigi Mascheroni - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Riprendiamo qui la battuta, perché leggerla ieri su Repubblica ci ha fatto scendere una lacrima. Non di commozione, di sangue. Il quotidiano di Eugenio Scalfari - fondato negli stessi anni di piombo e del piombo del Giornale, ma su barricate opposte - ha annunciato che fra pochi giorni cambierà la firma nella rubrica delle lettere dei lettori. Corrado Augias passa il testimone a Francesco Merlo. Il quale, ormai più repubblicano di tutte le firme di Repubblica, ringrazia, presenta il nuovo corso e commenta. Parlando di «Stanze» celebri nella storia del giornalismo nazionale, cita - e non potrebbe ignorarla - quella di Indro Montanelli. Ed ecco il passo falso. «Ho amato molto il Montanelli pacificato della Stanza, la rubrica che teneva sul Corriere dopo la stagione militante del Giornale», dice Merlo. «Pacificato». Che è un bellissimo sinonimo di «normalizzato». Per farlo - per pacificare, cioè normalizzare Montanelli - dovettero sparargli nelle gambe, dopo averlo costretto ad andarsene proprio dal Corriere che, nel '74, era ormai ostaggio delle fazioni più sindacalizzate, delle zarine, dei tromboni e degli Ottone. Una volta pacificato, a colpi di «fascista!» e di pallottole, ci credo che Montanelli divenne amabile. Altro che il Montanelli militante, quello scomodo, fastidioso, combattente. Meglio quello che se ne stava nella sua «Stanza», dove «era come entrare in camera sua, con il camino acceso, e ascoltarlo mentre ti raccontava il Novecento attraverso la sua vita». Questo sì, che è il vero giornalismo. Per Merlo. E per Repubblica.

·        Sara Casiccia.

Alessandro Oppes per "la Repubblica" il 3 marzo 2021. «Adesso vado al corteo. Poi karaoke ». È l' ultimo messaggio a un amico sui social, Sara Casiccia l'ha pubblicato intorno alle 18 di sabato poco prima di scendere in piazza, ancora una volta, per chiedere la liberazione del rapper Pablo Hasel. Sono due settimane ormai che le notti di Barcellona si infiammano in una protesta sempre più violenta. Ma quella di sabato scorso ha superato ogni limite, con l' incendio di un furgone della Guardia Urbana, la polizia locale, dato alle fiamme in piena Rambla, la scena peggiore che si sia vista sul grande viale della capitale catalana dopo la strage jihadista del 17 agosto 2017. Tra quei giovani esaltati che tiravano pietre e bottiglie contro gli agenti c' era anche Sara, felpa nera col cappuccio calato sul viso. Gli agenti dei Mossos d' Esquadra, la polizia regionale, che l' hanno arrestata poco dopo non hanno dubbi: sarebbe lei la persona ritratta nei tanti video ripresi con gli smartphone e diffusi in rete che cosparge il furgone di un liquido infiammabile, acquaragia, prima che un altro ragazzo lanci la bottiglia molotov che provoca l' incendio. L' agente che era seduto al posto di guida riesce a mettersi in salvo, ma per Sara Casiccia scatta l' accusa di tentato omicidio, che prevede una pena fino a 20 anni. Oggi dovrà comparire per l' udienza di convalida davanti ai giudici del tribunale di Barcellona insieme ad altri sette giovani, cinque dei quali italiani, tutti appartenenti al movimento anarchico. Per uno l' imputazione è la stessa, tentato omicidio, gli altri sono accusati di appartenenza a gruppo criminale, disordini pubblici e danni. I danni di questa lunga protesta violenta - l' ha detto con preoccupazione negli ultimi giorni la sindaca Ada Colau, lo ripetono gli imprenditori - sono ingenti e preoccupanti: vetrine in frantumi, negozi saccheggiati, sportelli bancomat distrutti, un' infinità di cassonetti dati alle fiamme per innalzare barricate nel tentativo di frenare le operazioni di polizia. Una rabbia che si è scatenata con l' arresto del rapper ribelle, che sembra ormai diventato il pretesto per una contestazione globale, dove si concentra ogni tipo di frustrazione. E dove c' è posto anche per gli anarchici italiani, che la stampa spagnola guarda sempre con curiosità stentando a capire bene che ruolo abbiano, ma che in realtà sono da tempo una costante del movimentismo estremista catalano. Non sono attivisti arrivati per l' occasione, come riporta qualche media locale, ma vivono tutti più o meno stabilmente a Barcellona. I sei detenuti abitavano in due località dell' hinterland, a Mataró e Canet de Mar, in vecchie fabbriche occupate, dove la polizia è intervenuta più volte negli ultimi mesi per concerti illegali e feste organizzate in violazione delle norme anti-Covid. "Okupas" qui come erano "squatter" a Torino, dicono dei detenuti piemontesi tutte le fonti consultate. Non sbandati. Di sicuro non lo è Sara Casiccia, 35 anni, una laurea magistrale in antropologia culturale a Torino, un lavoro da videomaker - nome d' arte Tzara Kasjtcha molto attiva sulla scena della musica underground e negli ambienti del circo e della streetart. Probabilmente attratta, come tanti, dallo spirito libertario di Barcellona, lunga tradizione di anarchismo - dai tempi della Guerra Civile - che ora si mescola con lo spirito ribelle dei gruppi dell' estrema sinistra indipendentista. Che ora, sui social, annunciano in italiano: «Bruceremo le piazze e faremo ritirare la polizia fascista. Per tutti voi, compagni detenuti ».

·        Walter Alasia.

"Il tempo di vivere con te". La storia di Walter Alasia, figlio delle Brigate Rosse e del suo tempo. Eraldo Affinati su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Quel che è accaduto in Italia negli anni Settanta assomiglia a un tronco bruciato: sta laggiù nel fogliame, in mezzo ai rovi, nessuno vuole toccarlo, come se ancora scottasse. Un conto sono le ricostruzioni che possiamo leggere sui manuali, un altro le testimonianze personali: nelle prime troviamo date, fatti e interpretazioni, nelle seconde carne, ossa e sangue. Giuseppe Culicchia, cugino di Walter Alasia, brigatista rosso, da cui prese il nome la colonna milanese, ha lasciato passare quarantaquattro anni prima di scrivere il libro che si portava dentro da sempre: Il tempo di vivere con te (Mondadori, pp. 162, 17 euro). Senz’altro la sua opera più importante, in grado di contenere, come un singulto strozzato, il grido del bambino di undici anni che lui era quando Walter cadde sotto i colpi della polizia, dopo aver ucciso il maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega e il vicequestore Giovanni Vittorio Padovani, nella tragica notte fra il 14 e il 15 dicembre 1976, a Sesto San Giovanni, nel corridoio di casa, a due passi dai genitori e dal fratello; ma anche la riflessione lucida e tristemente consapevole, distillata in dodici capitoli di notevole intensità composti col cuore in gola, dell’uomo maturo, impegnato a raschiare sulla crosta della ferita cresciuta sulla pelle. Le foto che accompagnano il racconto, in cui si alternano le quinte scenografiche della cronaca degli anni di piombo insieme alle dolorose memorie familiari, sono lancinanti: da quella di copertina, in cui si vede il piccolo Walter maneggiare una pistola giocattolo in braccio alla madre Ada, il cui sguardo trasognato sembra quasi profetico, a quella sul retro, con il cuginetto, felicemente inconsapevole, sorretto dal protagonista, una candela di gioventù che arde da entrambi i lati. Il rapporto fra Giuseppe e Walter, di nove anni più grande, era strettissimo e profondo: a ben pensare Culicchia s’interroga innanzitutto sul senso da attribuire a questo affetto primario. La domanda è talmente forte da rendere vana qualsiasi risposta: è questo, io credo, il valore essenziale del libro. Lo scrittore rievoca sì, con equilibrio premuroso nei confronti dei protagonisti diretti, da una parte e dall’altra, la cosiddetta lotta armata (in fondo l’unica punta tagliente la porge alla fine, quando, dopo aver ricopiato l’elenco delle vittime delle Brigate Rosse, ci fa notare che su Wikipedia non esiste la lista dei brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine), ma, nonostante la costante attenzione documentaria – fra l’altro sulla storia di Walter Alasia era già uscito da Einaudi nel 1978 il testo di Giorgio Manzini. Indagine su un brigatista rosso, che infatti viene citato più volte – esercita la propria acribia soprattutto su se stesso. Al punto che nei ricordi della drammatica avventura del cugino si mischiano senza soluzione di continuità gli eventi vissuti in prima persona dall’autore insieme a episodi sulla vita di Walter scoperti soltanto dopo. Le indimenticabili giornate estive trascorse a giocare a Nole Canavese, nella casa dei nonni, e a Grosso, in quella degli zii e dell’adorato nipote, quando Walter interpretava il ruolo di Nuvola Rossa e Giuseppe, precoce lettore di Hukleberry Finn di Mark Twain, preferiva per sé la parte del generale Custer, possiedono una forza lirica incandescente, come schegge di saldatrice elettrica. Questo è il sole che illumina il mondo. L’incontro con Renato Curcio, il coinvolgimento di Ada nell’incursione in un appartamento per il recupero di alcuni materiali, la presenza di un’altra fidanzata, diversa da quella ufficiale, sembrano invece rivelazioni segrete, scheletri scoperti nella botola. Questa è l’oscurità della notte piena. Il lettore resta inchiodato sul volto di Walter con i pantaloni a zampa, i capelli lunghi, la camicia stretta, l’espressione assorta, la chitarra in mano a provare gli accordi dei Giardini di marzo, l’indimenticabile manifesto della timidezza interiore che Battisti e Mogol stilarono per celebrare la nostra inquieta adolescenza (uso il plurale essendo anch’io del 1956). Tuttavia al cugino più piccolo, che per lui stravedeva, non può bastare questo repertorio generazionale. Dietro la scelta radicale del suo idolo resta celato un mistero che neanche le ultime spiegazioni più politiche sono in grado di spiegare: «So che da parte tua hai agito come hai agito perché eri convinto che la Resistenza fosse stata tradita e credevi nel comunismo». Come dichiarò a un giornalista Oscar, fratello maggiore di Walter: «Poi il tempo fa il suo mestiere». Già, ma qual è questo mestiere? L’autopsia rivelò che solo tre colpi raggiunsero Alasia: due alle gambe, lo falciarono mentre tentava di fuggire dalla finestra, e uno al cuore, risultato fatale, quando era ancora a terra. «Che cosa hai fatto, Walter?», chiede con tutta la determinazione possibile lo scrittore, il quale a undici anni lo considerava un eroe. «Che cosa hai fatto alle famiglie, ai figli di Bazzega e Padovani, padre di quattro, che ne aveva avuta una da appena dodici giorni? Che cosa hai fatto a tua madre? Tutto per una Rivoluzione in cui tu credevi ma che non c’è mai stata». Poche pagine dopo, ecco uno stralcio dalla dichiarazione della compagna “Rita”: «Walter non era figlio di nessuna variabile impazzita. Era figlio del suo tempo e di Sesto San Giovanni, la rossa Sesto, la grossa cittadella operaia impregnata fino in fondo e in ogni ambito della vita sociale della cultura operaia comunista». Anche questo però, nella potente luce retrospettiva del memoir di Giuseppe Culicchia, risulta insufficiente. Comunque inadeguato. La storia resta troppo lunga e difficile. Infatti l’autore, tornando a riaprire la casa di Nole, regno incantato dell’antica amicizia indelebile, quando tutto doveva ancora accadere, per mostrare ai figli i luoghi della sua infanzia, non trova la forza di raccontarla neppure a loro che, come noi, vorrebbero saperne di più. “Andiamo”, gli dice, schiarendosi la voce con gli occhi lucidi, prima di chiudere il vecchio portone.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Storia del 1968, quando il mondo impazzì e cambiò tutto in poche settimane.

Dagotraduzione dal Washington Post il 5 dicembre 2021. Siamo in un'epoca storica di proteste? Un nuovo studio pubblicato giovedì che ha esaminato le manifestazioni tra il 2006 e il 2020 ha rilevato che il numero di movimenti di protesta in tutto il mondo è più che triplicato in meno di 15 anni. Secondo lo studio ogni regione del mondo ha registrato un aumento, e in alcune si svolti i più grandi movimenti di protesta, come le proteste degli agricoltori iniziate nel 2020 in India, le proteste del 2019 contro il presidente Jair Bolsonaro in Brasile e le proteste in corso dal 2013 di Black Lives Matter. Intitolato "World Protests: A Study of Key Protest Issues in the 21st Century", lo studio proviene da un team di ricercatori del think tank tedesco Friedrich-Ebert-Stiftung (FES) e dell'Initiative for Policy Dialogue, un'organizzazione senza scopo di lucro con sede alla Columbia Università, e si aggiunge a un crescente corpo di letteratura sulla nostra epoca di crescenti proteste. Osservando da vicino più di 900 movimenti o episodi di protesta in 101 paesi e territori, gli autori sono giunti alla conclusione che stiamo vivendo un periodo storico come gli anni intorno al 1848, 1917 o 1968 «quando un gran numero di persone si ribellò al modo in cui le cose stavano chiedendo un cambiamento». Ma perché? Qui, gli autori evidenziano un problema particolare: il fallimento della democrazia. La loro ricerca ha rilevato che la maggior parte degli eventi di protesta che hanno registrato - il 54% - è stata provocata dalla percezione di un fallimento dei sistemi politici o della rappresentanza. Nel 28% tra le richieste c’era quella che gli autori hanno descritto come "di democrazia reale". Altri temi includevano la disuguaglianza, la corruzione e la mancanza di azione sui cambiamenti climatici. Ma gli autori dello studio affermano che i politici non rispondono adeguatamente. «Troppi leader nel governo e negli affari non stanno ascoltando. La stragrande maggioranza delle proteste in tutto il mondo avanza richieste ragionevoli già concordate dalla maggior parte dei governi. Le persone protestano per buoni posti di lavoro, un pianeta pulito per le generazioni future e una voce significativa nelle decisioni che influenzano la loro qualità della vita», ha affermato Sara Burke, esperta senior di politica economica globale presso la FES e autrice dello studio. Le proteste significano cose diverse per persone diverse. Lo studio è stato pubblicato la stessa settimana in cui il Washington Post ha pubblicato una massiccia indagine in tre parti sull'insurrezione del 6 gennaio iniziata, in parte, come protesta per le preoccupazioni di alcuni partecipanti, alimentate da teorie cospirative, sulla rappresentanza democratica. Ci saranno anche significative proteste contro il cambiamento climatico alla fine di questa settimana, ma alcuni leader europei temono che i costi dell'abbandono dei combustibili fossili possano innescare un contraccolpo come il movimento di protesta dei "gilet gialli" in Francia. Solo negli Stati Uniti, negli ultimi anni si sono verificate enormi proteste da Occupy Wall Street e Black Lives Matter al Tea Party e alle campagne Stop the Steal. Ma monitorare la portata delle proteste globali è un compito titanico. Altri progetti, come il Global Database of Events, Language e Tone, supportato da Google, hanno analizzato gli articoli di notizie per i dati sulle proteste. Burke, insieme ai coautori Isabel Ortiz, Mohamed Berrada e Hernán Saenz Cortés, ha invece adottato un metodo che richiedeva più tempo. I ricercatori hanno lavorato su mezzi di informazione in sette lingue per identificare proteste e movimenti di protesta, trovando articoli "a mano", come ha detto Burke in risposta alle domande di Today's WorldView. La raccolta da sola rappresentava più di mille ore di lavoro prima ancora che fosse iniziata qualsiasi analisi. Ma le tendenze erano chiare. Nel 2006, lo studio ha registrato solo 73 movimenti di protesta. Nel 2020 ce ne sono stati 251 – più alti anche dopo la crisi finanziaria del 2008 o le rivolte della Primavera araba del 2011. L'Europa e l'Asia centrale hanno visto il maggiore aumento del numero di movimenti di protesta e ci sono state più proteste nei paesi ad alto reddito che in paesi in altre fasce di reddito, ma è stato riscontrato un aumento delle proteste in tutte le regioni e livelli di reddito. (Gli autori hanno tenuto registri dei movimenti di protesta in diversi anni, contrassegnandoli come "eventi di protesta" separati quando sono durati più di un anno per un totale complessivo di 2.809. Ciò non significa che si siano verificate solo 2.809 proteste individuali; altri studi hanno indicato il numero di proteste del Black Lives Matter a quasi 12.000 nel solo 2020.) Oltre ai problemi con la democrazia e la rappresentanza politica, il rapporto identifica la crescente disuguaglianza come un altro tema ampio delle proteste in tutto il mondo: contribuisce a quasi il 53% delle proteste studiate. Le singole questioni sollevate dai manifestanti includevano la corruzione, le condizioni di lavoro e la riforma dei servizi pubblici seguite dalla "democrazia reale", la richiesta più citata. C'è stato anche un aumento significativo delle richieste di giustizia razziale o etnica, come con le proteste di Black Lives Matter, ma c'è stato un piccolo - ma crescente - numero di proteste incentrate sulla negazione dei diritti degli altri, come il movimento di estrema destra "Pegida" in Germania, i movimenti anti-cinesi in Kirghizistan e il movimento dei "gilet gialli". Gli autori dello studio riconoscono che il loro lavoro è intrinsecamente politico. «Non ci sono numeri neutri nelle proteste», ha detto Burke, ammettendo che la vaghezza di alcuni numeri, come le stime sulla dimensione della folla, ha lasciato le voci aperte per l'interpretazione. Anche uno studio basato su Internet è limitato da quanto riportato. «Possiamo solo studiare ciò che possiamo vedere e ciò che possiamo vedere è sempre più influenzato da dove e chi siamo», ha aggiunto Burke. Alla domanda su cosa definisca la "democrazia reale", Burke ha ammesso che era in qualche modo soggettivo: «La democrazia di una persona è l'autocrazia di un'altra persona». Ma lo studio ha cercato di prendere in parola i manifestanti. Per esempio, ha spiegato Burke, la protesta del 6 gennaio 2021 a Washington DC (che non è stata inclusa nello studio perché fuori dal suo arco temporale) sarebbe stata classificata come una manifestazione per la "democrazia reale" ma anche come protesta volta a negare i diritti. La maggior parte delle proteste non è violenta come l'insurrezione del Campidoglio, secondo lo studio, ma c'è stato un lento e costante aumento della violenza tra il 2006 e il 2020, e poco più di un quinto delle proteste registrate coinvolgono qualche tipo di violenza di folla, vandalismo o saccheggio. In quasi la metà delle proteste studiate, ci sono state segnalazioni di arresti; poco più di un quarto ha visto segnalazioni di qualche forma di violenza da parte della polizia. Forse l'argomento chiave dello studio è che con l'aumento delle proteste, i leader dovrebbero prenderle più sul serio. Nello studio circa il 42% delle proteste è andato a buon fine, anche se la percentuale varia in modo significativo in base alla regione e al tipo di protesta, e tenga conto anche di successi parziali. Più aumentano le proteste, più numerose saranno quelle che andranno a buon fine. «Ultimamente le proteste in tutto il mondo hanno avuto una dubbia reputazione», ha detto Michael Bröning, direttore dell'ufficio FES di New York. «Dobbiamo capire che le proteste non sono un comportamento verbale, ma un principio fondamentale della democrazia. Ciò di cui abbiamo bisogno è a dir poco una riabilitazione globale della protesta». 

Il romanzo di Raffaella Battaglini. “Mentre passiamo bruciando”, il racconto su chi credeva nella rivoluzione degli anni Settanta. Filippo La Porta su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Do you remember revolution? Difficile spiegare a un ventenne attuale che alcuni decenni fa una generazione ha creduto possibile e auspicabile la Rivoluzione in Occidente (il mutamento radicale, simultaneo, di ogni piano di vita)! Una idea un po’ delirante, miracolistica, una fede religiosa appena deviata – spostammo il cielo della teologia nel futuro! – supportata da fitte bibliografie teoriche e pensose letture. Il marchese di Sade, in una celebre opera di Peter Weiss, rimprovera ironicamente a Marat proprio questa credenza quasi magica: avete il mal di denti? quando andate a pescare non prendete pesci? etc., allora immaginate che con la rivoluzione vi passerà all’istante il mal di denti, che i pesci abbocchino…Per rappresentare quegli anni – «anni di splendore e di sperpero estremo, anni di desiderio e di furore» – credo ci sia più utile la letteratura (dove gli eventi non sono mai separati dalle emozioni che implicarono) della storiografia, come dimostra tra l’altro questo Mentre passiamo bruciando (da un verso di Nanni Balestrini) di Raffaella Battaglini (Castelvecchi), che in quegli anni ha vissuto, benché giovanissima. Nella idea – e conseguente pratica – della rivoluzione confluirono molte cose, e tra loro spesso opposte: slanci generosi e burocratizzazione dell’impegno, utopie luminose (il vero libro del ‘68 è Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, uscito poco prima) e fascinazione per la violenza (benché fino al delitto Calabresi  la violenza del Movimento fu difensiva), senso di fratellanza (chiunque ti ospitava per la notte) e culto acritico dei leader (la parte peggiore del ‘68!). Il romanzo di Battaglini fonde molti generi letterari al suo interno e si propone come narrazione elegiaca, corale, partecipe di quegli anni, e anzi di un filone politico preciso, quello che si è incarnato prima in Potere Operaio e poi in Autonomia. Il pretesto narrativo è la morte di Laura a Padova, nel 1981, una ex militante di quell’area, che nel corso del libro viene meticolosamente ricordata da amici, compagni, familiari, amanti, testimoni. Non si tratta di ritratto indulgente di quegli anni perché proprio la struttura da “inchiesta” (si pensi a un classico come Autobiografie della leggera di Montaldi) che sorregge l’intreccio vertiginoso di voci e punti di vista (si veda Rayuela di Cortazar, qui citato: una donna si chiama come la protagonista femminile, “la Maga”) e una ricostruzione “dal basso” della vita quotidiana di allora ( i film che vedevamo – dopo i cortei tutti al cinema Farnese a eccitarsi con il Mucchio selvaggio di Peckinpah o a deliziarci con Godard – i libri che leggevamo, i luoghi di ritrovo, le radio libere…) che evoca il metodo delle Annales, garantiscono al racconto collettivo un tono neutro, una trasparenza antisentimentale (i giudizi li darà il lettore). I meriti letterari di Battaglini non sono da poco se pensiamo alla ibridazione di stili e generi, alla finzione sapiente del noir, all’impianto teatrale, alla invenzione poetica di far parlare anche i morti, al progetto di biografia collettiva, al lirismo di alcune pagine, però la recensione di questo libro non può che essere soprattutto politica. E allora, anche sulla scorta delle testimonianze qui raccolte, chiediamoci che tipo di raggruppamento fosse Potere Operaio, all’interno dell’ultrasinistra di allora? Costituiva il gruppo politico più teoricamente agguerrito, spericolatamente vicino a Marx (il Marx più visionario e “scienziato”, e meno umanistico, dei Grundrisse), abbarbicato a una idea iper-leninista di avanguardia rivoluzionaria (con l’accento messo sulla soggettività, sull’azzardo del poker, sulla forzatura, anche a costo di trascurare la realtà empirica), innamorato del bel gesto (forse più Corto Maltese più che il “Che”), ed era anche il gruppo più supponente, “aristocratico” (Fortini li chiamò i “nuovi cainiti”, con il nome di una setta religiosa nichilista: atteggiamento sprezzante, sopracciglio rialzato, sorriso beffardo). Principale demerito: aver trascurato le due vere “insurrezioni” del pensiero dei ‘70: quella ambientalista e quella femminista. Bene, nelle pagine del libro ritroviamo per intero questo universo antropologico: accanto a eventi politici decisivi come il sequestro Moro, la manifestazione a Roma del 12 marzo 1977 (interpretata esageratamente come momento insurrezionale: in realtà lo sbocco “militare”, con assalto a un’armeria, venne imposto all’immenso corteo da una ristretta minoranza), il teorema Calogero e i conseguenti arresti del 7 aprile 1979 (che decimarono, senza alcuna vera reazione, l’intero raggruppamento), sfilano qui i fidanzamenti effimeri, i tradimenti, le gelosie, le pene d’amore perdute, le ripicche, i baci rubati, le fughe improvvise, insomma la vita stessa come una ballata, dolente e appassionata. Laura – “bella come il sole”, seduttiva e bugiarda (anche con se stessa), figura della Rivoluzione e della Giovinezza – è morta, e non avrebbe potuto non morire (alla fine non ci importa neanche più di sapere chi l’ha uccisa). Chi la ricorda oggi vive in un ashram in India o insegna all’università o lavora nelle istituzioni o vagabonda per il mondo. La sorella di Laura dice che lei fu una sciagura per tutti (familiari e compagni): «noi invece avevamo delle vite strutturate, delle vite normali». Già, la rivoluzione non tiene mai abbastanza conto di questo – troppo umano – bisogno di normalità, come ci ha mostrato Orwell in Fiorirà l’aspidistra. Privilegia, romanticamente, situazioni estreme e scene madri. «Tutto finisce dove è cominciato»: nel finale c’è sempre la neve, come all’inizio, anche se è diventata nevischio, sotto un cielo bianco e come dentro un «lento crepuscolo», un inverno senza fine che custodisce i nostri cuori gelati. Nella città muta e deserta «aspettano tutti qualcosa» anche se non saprebbero dire cosa. Può darsi che Laura si manifesti di nuovo, magari in un “lampo di luce” o in un “fuoco fatuo” (l’idea quasi mistica di rivoluzione, di un presente improvvisamente redento, cara a Benjamin) – qualcuno potrebbe suggerire: nel G8 a Genova di vent’anni fa… – eppure si tratta di una presenza spettrale, evanescente, destinata a sparire subito. Intanto, come nel finale dei Morti di Joyce, continua a cadere la neve: sui vivi e sui morti, sulle vittime e sui carnefici, su chi si illude di aver vinto e su chi ritiene di aver perso ma di aver avuto ragione, su chi credeva nel sogno – andato a male – della rivoluzione e su chi a quel sogno non ci ha mai creduto giudicandolo infantile. Filippo La Porta

I conti non fatti con il Sessantotto: quando nacque la peggio gioventù.

Francesco Carella su Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. Vi è una data simbolo in cui tutto prende l'avvioil 1° marzo 1968. Le prove generali di una protesta che nel giro di poche stagioni si farà «progetto rivoluzionario armato» si fecero quel giorno presso la facoltà di Architettura a Valle Giulia a Roma. Per ore e ore gli studenti, al più rampolli della buona borghesia romana, si scontrarono con le forze di polizia, figli di operai e contadini del Sud Italia come ricorderà in perfetta solitudine Pier Paolo Pasolini. Quel giorno si affermò ciò che andrà a costituire l'alfabeto politico della "peggio gioventù", ovvero che scagliarsi contro le forze dell'ordine, mettendo a ferro e fuoco le città, cessava di fatto di essere un reato. Sicché non trascorse molto tempo perché si passasse dagli slogan truculenti al lancio delle bottiglie molotov, per arrivare alle P38. L'Italia sprofondò, in tal modo, nel tunnel degli anni di piombo durante i quali l'eliminazione fisica dell'avversario divenne un "normale" strumento politico. Nessun Paese europeo conobbe un terrorismo attivo per un periodo così lungo e con un costo in perdita di vite umane così alto come il nostro. Dopo molti anni occorre dire la verità: quella stagione degli orrori si sviluppò nella misura che conosciamo perché essa poté godere di un'ampia area d'indulgenza, se non di vero e proprio consenso, presso una larga parte della sinistra italiana. I protagonisti degli agguati venivano considerati «compagni che sbagliano», quando altro non erano che assassini nemici dichiarati della democrazia liberale e dei suoi istituti di libertà. Un gruppo di intellettuali lanciò, nei giorni del sequestro Moro, una parola d'ordine inquietante, «né con lo Stato né con le Br». Uno slogan che ne richiamava un altro, «né aderire né sabotare», che fu la disastrosa bandiera dei socialisti durante la Prima guerra mondiale e che dimostrava già all'epoca quanta distanza vi fosse fra l'universo della sinistra e le ragioni del Paese. D'altronde, gran parte dell'establishment culturale italiano degli anni '60 e '70 proveniva da una tradizione in gran parte lontana dagli interessi nazionali - quella «dell'album di famiglia» di cui parlò Rossana Rossanda - che «non aveva escluso, ma solo tatticamente tacitato, l'ipotesi di fare ricorso alla violenza come strumento di lotta politica». In un clima siffatto, ci fu chi si convinse di rappresentare «l'avanguardia rivoluzionaria in grado di riconoscere il momento giusto per forzare la storia ed abbattere lo Stato borghese». E fu l'inferno. Ora, al di là dei destini dei singoli terroristi arrestati a Parigi, ciò che continua a stupire è che in Italia non si riesca ancora ad aprire il capitolo sulla responsabilità morale di coloro che il filosofo Nicola Matteucci chiamava «i cattivi maestri del lungo '68»

Storia del 1968, quando il mondo impazzì e cambiò tutto in poche settimane. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Marzo 2021. Ero in un piccolo corridoio scalcinato con una decina di telescriventi, macchine di ferro che battevano testi fra pause ronzanti e ripartite tartassanti su rotoli di carta che si dipanava in un serpente e che bisognava tagliare con le forbici e mettere nelle cassette per i diversi servizi del giornale: esteri, interni, politico, cultura, cronaca. E sport. Anche lo sport era in subbuglio. C’erano le agenzie italiane, Ansa, Italia e AdnKronos, e le agenzie internazionali inglesi e francesi, la Reuter, AP, France Presse e naturalmente la Tass sovietica in cirillico per i non rari compagni che avevano avuto frequentazioni. Il luogo del quale sto parlando era la redazione dell’Avanti! organo del Partito socialista con la galleria delle foto di tutti i direttori, salvo quella di Mussolini, che fu cacciato quando si dichiarò a favore dell’intervento nella Prima guerra mondiale. L’Avanti! era un giornale antico, la sua sede aveva vagato in giro per Roma e per Milano ma allora era a vicolo della Guardiola, a un passo dalla gelateria Giolitti dove prendevo il caffè con Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir (cosa di cui mi vantavo moltissimo, anche se avevamo conversato solo sulle differenze del caffè romano e parigino). Esisteva e ruggiva ogni notte la vecchia rotativa che dall’inizio del secolo sfornava copie che si sventolavano nei tumulti e poi anche – più composto – nei consigli del ministri da quando i socialisti erano entrati nella stanza dei bottoni. Nella sala delle telescriventi stava accadendo un prodigio: le macchine fracassavano l’aria e Peppone, il fattorino che tagliava il serpente di carta e lo divideva in notizie separate, con la sua maglietta a righe bianche e blu con l’ombelico scoperto, era sbalordito: “Ma questi se so’ impazziti”, disse. “Chi?” chiesi io, conoscendo la riposta. “Tutti: ma non lo vedi?”. Stava accadendo una sorta di congiunzione astrale planetaria: a Madrid, nella Spagna del regime militare di Francisco Franco, gli studenti erano in piazza e facevano a botte con la Guardia Civil, quelli con la lanterna, una specie di feluca grigia. In Spagna ancora si garrotavano gli anarchici: il boia li legava alla sedia e poi gli stringeva un nastro di ferro alla gola, sempre più stretto fino all’ultimo respiro. Avevo partecipato a un assalto all’ambasciata spagnola presso la Santa Sede in piazza di Spagna, cinque anni prima, quando strozzarono l’anarchico Julian Grimau. La telescrivente accanto mitragliava notizie da Praga. Il regime comunista “dal volto umano” di Dubcek aveva le ore contate perché sarebbero arrivati i carri armati sovietici e tedesco orientali ad agosto, e gli studenti avevano fretta e paura. Avrebbe raccontato tutto Milan Kundera nella “Insostenibile leggerezza dell’essere”. E poi Parigi: era la rivoluzione. I francesi erano stati all’inizio inerti. La rivoluzione veniva dagli Stati Uniti: il campus di Berkeley era stato il vero teatro. La guerra del Vietnam, i sit-in, le canzoni di Joan Baetz e Bob Dylan, i pestaggi della polizia, i fiori nei cannoni, le prime garbate avvisaglie di femminismo che però non aveva ancora le idee chiare. Girava un manifesto in cui una sventola bionda, in minigonna di pelle western con le frange, faceva pipì contro il muro insieme a una fila di maschi. L’ho detto: avvisaglie ancora imprecise. Ma i francesi sembravano indifferenti perché aspettavano il tepore di maggio, le joli Mai, quando Jacques Brel cantava Le Moribond in cui diceva que c’est triste de mourir au printamps, tu sais, è triste morire a primavera e tu lo sai. Barbarà cantava l’amore di maggio quando c’est si joli de parler d’amour dans le rues de Paris a maggio – e quel giorno, nella stanza delle telescriventi, era maggio e Parigi esplose e sembrò che fosse la fine del generale De Gaulle, un tiranno democratico lungo due metri, dinoccolato e pieno di rinvigorente narcisismo che volle sfidare se stesso e i ragazzi del maggio sciogliendo le camere e convocando le elezioni anticipate. Disse: vediamo chi ha la maggioranza, in Francia. Stravinse. Però pure lui esagerò. L’anno dopo varò una riforma costituzionale e un referendum per ratificarla. E dopo il trionfo del 68 ci fu la sconfitta del ‘69: de Gaulle perse il referendum e se ne tornò a Colombay-Les-Deux-Eglises, il paese natale, sbattendo la porta della storia et allez-vous ve faire voir par le Grecs, vatti a far fottere o patria ingrata. Aveva già respinto con riluttanza il programma di fucilare tutti gli imbecilli perché era “un vaste programme”. Mentre gli studenti francesi , guidati da un ragazzino di 20 anni che si chiamava Daniel Cohn Bendit, e aveva i capelli rossi, e oggi è un leader della socialdemocrazia tedesca, sfasciavano Parigi, altri ragazzi sfasciavano Praga. E Madrid. E Roma e Milano e Bologna. E Berlino: la città divisa in due dal muro col suo magico e maledetto Check-Point Charlie, dove passavi dal mondo dell’Ovest a quello dell’Est come nella macchina del tempo. Ero appena tornato da Berlino ed ero vittima del suo fascino perverso e grigio. Una città prussiana in cui i nuovi comandanti avevano notificato agli ex militari della Wermacht di Hitler che da oggi siamo tutti comunisti, e quelli – Jawohl! – marciando allo stesso passo dell’oca, facevano le stesse facce da Stasi o Gestapo, fino al 1989 che poi sarebbe appena trent’anni fa. Nel Sessantotto era ancora vivo e vegeto, un po’ ingrigito, il mondo di coloro che avevano fatto la guerra. Vittime e carnefici sempre di fronte, i conti sempre aperti. E poi c’erano – novità dell’anno precedente – i greci dopo il colpo di Stato dei colonnelli di Atene del 21 aprile del 1967. Migliaia di studenti in fuga, migliaia di studenti di destra a caccia di studenti di sinistra, i loro servizi segreti, era un mondo complicato e anche in Libia tirava un’ariaccia per il re Idris e si sapeva che i nostri servizi segreti avevano in mente qualcosa e quel qualcosa lo vedemmo di lì a poco, era Gheddafi, con altre iniezioni di violenza incontrollabile in casa e fuori casa. Cambiavano le regole e cambiava “the narrative” o narrazione come diciamo oggi, la verità era sempre più polverizzata. Esuli e spie, a tonnellate. Si odiavano, si ammazzavano, cercavano solidarietà, li nascondevamo in casa quando c’era bisogno così come nascondevamo gli ultimi relitti della guerra civile spagnola che ancora cantavano “mamita mia”, “El Quinto regimiento” e la canzone del fronte di “Guadalajara”, dove gli italiani delle brigate internazionali batterono militarmente gli italiani in camicia nera mandati da Mussolini e ne catturarono più di cinquecento. Erano vivi carnefici e vittime, fascisti e partigiani, rossi e neri. Ma con molte, moltissime complicazioni. E a Mosca: mai visti tumulti a Mosca. Il Kgb impazzito sulla strada Arbeit, gli artisti dalla barba caprina strillavano libertà: ma siamo impazziti? E i tumulti in Kazakhistan, in Polonia, nel decadente impero britannico, in Cina dove l’astutissimo Mao Zedong (ma allora si diceva Mao Tze-tung aveva dichiarato lui la rivoluzione nella rivoluzione, ovvero la rivoluzione permanente con le guardie rosse che arrestavano i padri e i padri che arrestavano i figli e tutti in campo di rieducazione, concentramento, esposti al pubblico ludibrio, il libretto di Mai era già nato).

Poi il sesso, non dimentichiamo il sesso. Le ragazze si erano già messe la minigonna inguinale, vedere le mutandine bianche di cotone delle compagne femmine non era più una novità, si cominciava a parlare di corpo umano, dei suoi odori naturali, dell’orgasmo, della rivoluzione sessuale, della coppia aperta, guai a dire che volevi la coppia chiusa, cominciavamo ad avvitarci in una ipocrisia permanente, pseudorivoluzionaria, scandita da slogan, frasi fatte, si diceva “a monte e a valle”, se uno avesse detto “far trovare la quadra” gli avrebbero sparato alla tempia. E nelle scuole era arrivata l’ora della contestazione ai vecchi professori in cattedra, il voto politico, l’assemblea permanente, la puzza di ascelle e di piedi, non c’era grande igiene durante la rivoluzione e le botte. La sinistra scoprì che poteva menare le mani. Poteva sparare e non solo prenderle dai fascisti – sempre militarizzati, sempre in palestra, sempre stracciafemmine – e adesso c’era questa novità per cui i ragazzi di sinistra, per tradizione secchioni pallidi e macilenti o appena un po’ obesi con gli occhiali e una mazzetta di almeno venti giornali sotto il braccio e che finora avevano preso solo schiaffoni e cazzotti, gli venne come una voglia di pistola e di Che Guevara e di Olp palestinese che cominciava ad essere una novità anche quella di moda: con quella kefia, lo straccio intorno al collo e la faccia da onesto musulmano scacciato dalla belva imperialista. Stava diventando una moda, anzi un modo d’essere. Una categoria politica. Ci mancava. Adesso c’era. L’Olp era nata l’anno precedente, dopo la Guerra dei Sei giorni di giugno del ‘67 e ne era nata la resistenza palestinese, molto pro-sovietica, e accadde questo fenomeno oggi rimosso: i nazisti si fecero maoisti e nacque un vero movimento nazi-maoista e tornava l’aria del patto fra Stalin e Hitler, tutti uniti contro il capitalismo, la borghesia giudea e massonica, proletari di tutto il mondo uniamoci sotto le congiunte insegne, guardate che dicevano sul serio e ci fu davvero un grande abbraccio. Principio comune: siamo tutti antiamericani e adesso che Israele è diventata una potenza imperialista possiamo (i nazisti di allora ma anche di oggi) recuperare il nostro antisemitismo razzista spacciandolo per antisionismo. Gli ebrei nel Sessantotto erano spaccati (per fare una cosa nuova) fra fedeli alla patria e ebrei di sinistra. In Italia Umberto Terracini, antifascista fondatore del Pci e padre costituente comunista ed ebreo, fu messo all’angolo nel partito perché sospetto di sionismo. (E non era la prima volta che lo mettevano all’angolo). E poi Oreste. Oreste Scalzone, intendo. Dove sei finito vecchia onesta canaglia? Ecco Oreste con l’ingessatura e la “minerva” che cammina nell’Università La Sapienza dopo che gli hanno tirato sulla schiena un armadio dalla finestra e lui non è affatto morto. Sembrava averlo rinvigorito. “Mi presti cinquecento lire per un taxi, domani te le ridò”. Non era una domanda, era una disposizione. Glieli diedi. Sparito, fuggito per sempre a Parigi e ancora vive lì, precariamente come sempre a 75 anni. Con lui la battaglia di Valle Giulia, studenti contro poliziotti, per la prima volta gli studenti caricano la Celere e la polizia le prende, arretra e fugge. Pierpaolo Pasolini incazzato nero scrisse un’ode in cui si schierava dalla parte dei poliziotti, i veri proletari figli di proletari che si scontravano contro i rimasugli nevrotici della piccola borghesia in fregola rivoluzionaria, tutti figli di papà che non hanno dovuto arruolarsi in polizia per mettere insieme il pranzo con la cena e adesso i ragazzi nella divisa grigia della celere si prendevano a randellate con i liceali e universitari che scandivano slogan sui gradini della Galleria d’Arte moderna (io ero là con la mia scolaresca di un istituto privato di recupero anni perduti dove insegnavo storia e filosofia, ma anche francese italiano e quel che capitava e li portavo alla rivoluzione, vedrete ci divertiremo). Ancora non si usava l’aggettivo squalificativo “sessantottino” per indicare quelli che hanno distrutto la meritocrazia – i primi dell’uno vale uno applicato agli esami universitari – e poi del “sei politico”, degli esami di gruppo come l’amore di gruppo, in tempi in cui si parlava seriamente di “socialismo su un solo pianerottolo” (allusione allo stalinismo del socialismo in un solo stato contro il trotzchismo della rivoluzione permanente e internazionale) della propria comune e delle prime fumerie di canne di marijuana, sotto gli occhi tutt’altro che compiaciuti dei vecchi compagni del Pci e anche del Psi che si contorcevano in Italia su un solo tema: che cavolo fare di fronte al “movimento”? Ammazzarli o assorbirli? Denigrali come provocatori e agenti dell’imperialismo (o del Kgb sovietico o dei cecoslovacchi molto abili come agenti). Fu allora, in quell’anno e come racconteremo nella prossima puntata, che si formarono le commistioni rosso-nere: Giulio Caradonna del Movimento sociale neofascista, dichiarava al Corriere della Sera: “C’è un terreno comune tra destra e sinistra extraparlamentari. Anche se quando si incontrano si basto­nano, la cosa importante per me resta questa: nessuna delle due vuole difendere l’ordine costituito. Se la violenza ha una funzione morale, non mi ripugna certamente”. I gruppi ideologici nero-rossi si uniscono ai gruppi dell’ideologo Franco Freda che diventerà uno dei protagonisti delle “piste nere”, le inchieste sulla strage di piazza Fontana che avverrà il 12 dicembre dell’anno successivo e che metterà l’Italia, moralmente in ginocchio per almeno un ventennio. I maoisti d’Albania giravano fra noi e gli studenti. Il Sessantotto fu il trionfo del libro del filosofo tedesco Herbert Marcuse, “L’uomo a una dimensione” e un effetto della geniale Scuola di Francoforte, e in particolare di Theodor Ludwig Wiesegrund Adorno, che morì un anno dopo. I suoi “Minima Moralia” avevano perforato la muraglia con il loro laser, ma scopriremo che quel meraviglioso libro era stato censurato. Era ancora possibile. Funzionava l’Indice di Santa Romana Chiesa, l’indice della Cia (la cui sezione artistica e intellettuale era attivissima) e l’indice del Kgb sovietico. Il “deep State” era una cosa seria. Polizie, servizi segreti, agents-provocateurs, falsi filosofi e profeti, rivoluzionari al soldo della repressione e repressori pentiti. Cominciavano a pentirsi anche alcuni mafiosi, lunga storia per le prossime puntate, macchiata di molto sangue e ancor più dalle menzogne e dalle fabbricazioni col doppio fondo. Anche triplo.

Storia del 1968, quando i figli ribelli chiusero la bocca ai loro padri. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Primavera. Claudio Orsi, presidente di Giovane Europa, impone al Congresso di Napoli lo scioglimento dell’organizzazione per fondare a Ferrara una “Italia-Cina”. Si tratta di una delle tante manovre “nazi-maoiste” dei gruppi legati a Franco Freda. Troppi cliché, luoghi comuni e frasi fatte sul Sessantotto e i suoi misteriosi sessantottini. Sicuramente fu l’anno in cui due continenti alla deriva si misero in collisione provocando maremoti e crolli. I due mondi erano, banalmente, il prima e il dopo. Il prima – sempre nel tentativo abusivo e frettoloso di tagliare la storia a fette – era il mondo autoritario. Quello dei padri che dicono ai figli: si fa così e così e anche tu farai come tutti hanno sempre fatto. L’altro mondo era quello dei figli che disserro: non avete nulla da insegnarci perché il vostro mondo è cambiato e non sapete interpretarlo, noi siamo ancora puliti e vogliamo prendere tutto e subito, cacciarvi, chiudervi la bocca, per sempre. Questa fu certamente la novità più estrema e unificante. In Israele i bambini insegnavano ai genitori a leggere e scrivere, nel mondo occidentale le macchine erano sempre più complesse e gli anziani troppo conservatori da capire che cosa implicasse la conquista dello spazio o la rivoluzione maoista in Cina. Nelle università saltarono le baronie che poi tornarono con nuove dinastie: decapitati i re di Francia, poi arriva Napoleone con tutta la sua famiglia. La liberazione sessuale arrivò con la liberazione della donna dall’incubo della gravidanza involontaria: spirali, pillola, l’avvio della legalizzazione dell’aborto, la negazione dell’autorità paterna e materna. Le coppie diventarono spesso avide di esperienze e di feroci inflizioni, l’instabilità cominciò a medicarsi con l’uso di droghe di massa che derivavano dalla guerra del Vietnam che aveva portato prima negli Stati Uniti e poi in Europa tonnellate di hashish, erba, Lsd, funghi allucinogeni e con questo materiale entrarono in campo visioni filosofiche mistiche e allucinate oltre che allucinogene, per cui se da una parte il Sessantotto prese la forma di una rivoluzione politica contro i governi, dall’altro prese la forma di una rivoluzione contro le strutture interne della società e della famiglia. Emerse la tossicità della famiglia, l’autoritarismo familiare e scolastico, la voracità indomabile di prendere subito tutto e senza esitazioni. Non si può fare una generalizzazione amalgamata del Sessantotto (e degli anni che ne seguirono, fino agli Ottanta) perché ogni popolo e ogni genere e ogni razza e ogni età prese le armi contro l’oppressore vero o immaginario che fosse, spesso figlio soltanto di fantasmi, luoghi comuni, parole d’ordine ripetute nella babele linguistica che accompagnava e che era il Sessantotto. Il vento di Praga, dove il regime comunista era in crisi con l’arrivo del garbato Dubcek, portava odore di primavera. Tutto ciò che arrivava dalla Russia sovietica appariva prima di tutto decrepito, stantio, immobile, ottuso, come nei peggiori imperi e imperialismi della storia. Il mondo di allora – chi è giovane oggi stenterà a comprenderne le conseguenze. era pieno zeppo di spie. I sovietici si agitavano molto perché temevano che i regimi dei Paesi satelliti non reggessero. E guardavano alla Cecoslovacchia come al nuovo grande malato, dopo l’Ungheria del ‘56, e si apprestavano a somministrarle la stessa cura: una buona iniezione di carri armati. La Polonia era già in subbuglio: non era ancora arrivato il papa polacco che provocherà lui il vero crollo del sistema, prima del decantato crollo del muro di Berlino. In Polonia, dove sono andato parecchie volte in quegli anni, trovavi questo Paese cattolico così diverso dall’Italia cattolica: gli operai andavano ogni giorno a fare la comunione tornati dalle fabbriche e dalle miniere e i loro sindacati erano cattolici e pieni di preti e i monsignori sedevano al caffè ricevendo i loro amici per discutere sotto gli occhi della polizia segreta e non era proprio come prendere un caffè ai Deux Magots con gli antisistema di Parigi. Ciò che accadde di straordinario, fu la simultaneità. L’ho raccontato nel precedente articolo; ero davanti alle telescriventi che mitragliavano notizie dagli Stati Uniti, la Cecoslovacchia, la Spagna franchista, la Francia gollista, il Messico, la Jugoslavia, la Germania occidentale (in quella dell’Est, cupezza grigia e assoluta), in Giappone, persino in Uruguay e in Africa. La Cina Maoista si auto-divorava in una rivoluzione che mangiava la rivoluzione, ma lo strumento che unificava tutti era la musica, prevalentemente americana e di massa, i concerti, le comuni emozioni, le manifestazioni mano nella mano cantando We shall overcome, one day, ce la faremo, vedrete, e si spargeva quest’ottimismo del tutto folle e dissennato perché sembrava che nulla mai, potesse tornare come prima. I carri armati sovietici di un giorno d’estate a Praga fecero capire a tutti che finché si scherza, si scherza. I ragazzi di Praga correvano sui carri russi e tedeschi per parlare con i soldati, le ragazze offrivano fiori ai carristi dagli occhi kirghisi o mongoli, che non capivano e urlavano e qualcuno nella furia e nella frustrazione sparava e uccideva e restavano quei corpi di ragazzi morti sulle strade di Praga. In Italia si sparse il sangue, in scontri che ricordavano l’Ottocento, anziché l’epoca moderna. Ad Avola, fine novembre, tremila braccianti in sciopero affrontarono la polizia che sparò nel mucchio. Due uccisi, una bambina di tre anni ferita, quarantotto persone in ospedale per ferite da arma da fuoco. Questo incidente gravissimo e figlio di un’altra epoca causerà i fatti di Battipaglia dell’anno successivo e i sindacati non riuscivano più a contenere la furia che cresceva dal basso. Tutto ciò che era vecchio, tremava come un pollo alla vigilia di Natale. A Parigi, dove l’altezzoso Partito comunista francese aveva definito “gruppuscoli” i giovani di sinistra che contestavano il partito, si svolse una manifestazione gigantesca con oltre centomila dimostranti che passarono sotto le finestre del partito scandendo lo slogan “Nous sommes les gruppuscules”, noi siamo i gruppuscoli. Nella Chiesa cattolica erano nati i preti operai, in America Latina molti preti passavano alla rivoluzione guevarista mettendo le basi della cosiddetta “teologia della liberazione”: se devi scegliere se avere accanto un crocefisso o un mitra, scegli il mitra, tanto Cristo ti guarda e ti ama lo stesso. In Italia l’estrema destra era impazzita: vedeva questa rivoluzione di sinistra che però era antisistema, e ne andava pazza. Di invidia. Di qui tutti i tentativi di mettere insieme pezzi di nazi-maoismo, sotto gli occhi molto comprensivi e interessati del Kgb sovietico e in parte anche dalla Cia che cercavano in ogni modo di introdurre infiltrati, avere il comando dei gruppuscoli, portare i loro uomini a inserirsi e fare una campagna acquisti. Il principe Junio Valerio Borghese che aveva guidato un corpo speciale della marina durante la guerra e che godeva delle simpatie americane e inglesi fondò un Fronte Nazionale a favore della scheda bianca “da schiacciare in faccia ai partiti” e cominciarono a scoppiare bombe. Piccole bombe. Dimostrative. Alle stazioni di servizio a novembre, poi davanti alle scuole, e tutti sentivano una particolare puzza di servizi segreti, di operazioni occulte, reclutamenti. Anche la mafia siciliana – ancora non si diceva con certezza “Cosa nostra” come si farà dopo l’interrogatorio di Falcone al pentito Buscetta – era in fermento fra il vecchio e nuovo, non certo perché fosse scossa da vibrazioni morali, ma diventava semmai sempre più complicato individuare il potere con cui trattare. Era allora a capo dell’organizzazione Luciano Leggio, detto – chissà perché – Liggio e tutti dicevano che era protetto dalla Procura di Palermo, guidata da Pietro Scaglione. Contro questa apparente impunità insorse l’intera sinistra, da Umberto Terracini a Emanuele Macaluso, da Girolamo Li Causi a Sandro Pertini e dal presidente dell’Antimafia Francesco Cattanei. Liggio, malato di tubercolosi ossea, girava per le cliniche italiane nell’indifferenza delle autorità di polizia. Il procuratore Pietro Scaglione fu scagionato dal ministro degli Interni Franco Restivo e poco dopo si celebrò un processone contro i capi della mafia a Catanzaro da cui uscirono con pochissimi danni alcuni fra i più bei nomi della cupola fra cui lo stesso Liggio, Gaetano Badalamenti, Angelo La Barbera e Totò Greco. Scaglione sarà assassinato tre anni dopo e più tardi ancora il pentito Buscetta, fornitore di prima mano di notizie a Giovanni Falcone, dirà che Scaglione non era un giudice mafioso e che lo avevano incastrato. Stava cominciando una nuova terribile partita in Italia, di cui quelli erano gli albori quasi inosservati fra le fiamme e le esplosioni del Sessantotto dei giovani insorti. L’anno successivo sarà degli operai e poi l’anno della terribile strage di piazza Fontana, il nuovo mostro. Molte uova di serpente erano state deposte e avrebbero cominciato a schiudersi una dopo l’altra.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1968:

5 gennaio: Alexander Dubček sale al potere. In Cecoslovacchia comincia la Primavera di Praga

15 gennaio: il Terremoto del Belice causa la morte di 370 persone

12 febbraio: massacro di Phong Nhi e Phong Nhàt (Guerra del Vietnam)

1º marzo: di fronte alla facoltà di architettura dell’Università di Roma a Valle Giulia, si verificano violentissimi scontri tra gli studenti e la polizia. L’accaduto dà il via a una serie di occupazioni in numerose università italiane

27 marzo: lutto nazionale in Unione Sovietica per la scomparsa di Jurij Gagarin in un incidente aereo

4 aprile: a Memphis, negli Stati Uniti, Martin Luther King viene assassinato a colpi di pistola sparati da James Earl Ray

11 aprile: a Berlino un uomo ferisce gravemente a colpi di pistola il leader degli studenti Rudi Dutschke, che morì a causa delle lesioni nel 1979

1º maggio: l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa dichiara l’indipendenza dell’Isola delle Rose

10 e 11 maggio: nel quartiere latino di Parigi scoppiano gravi incidenti tra la polizia e gli studenti delle università di Nanterre e della Sorbona. È l’apice del Maggio francese

3 giugno: Valerie Solanas spara a Andy Warhol all’entrata dello studio dell’artista

5 giugno: a Los Angeles viene assassinato il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti Robert Kennedy, fratello di John

8 giugno: James Earl Ray viene arrestato per l’omicidio di Martin Luther King

10 giugno: la nazionale italiana di calcio vince i Campionati europei battendo la Jugoslavia.

20 agosto: le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia mettendo fine alla Primavera di Praga

24 agosto: la Francia fa detonare la sua prima bomba all’idrogeno

1º settembre: Vittorio Adorni conquista sul circuito del Santerno a Imola il titolo di Campione del Mondo di ciclismo su strada

11 settembre: il generale francese René Cogny e altre 94 persone muoiono nell’incidente dell’Air France Caravelle, nei pressi di Nizza, nel Mediterraneo

23 settembre: muore il frate cappuccino Padre Pio nella città di San Giovanni Rotondo

3 novembre: una devastante alluvione colpisce il Piemonte e in particolare la zona di Biella, causando oltre cento morti

5 novembre: il repubblicano Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti

2 dicembre: la polizia spara sui braccianti durante uno sciopero. Muoiono due manifestanti, i feriti sono decine (Eccidio di Avola)