Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

I PARTITI

 

QUARTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sono Comunisti…

Incapaci ed incompetenti. Dietro il vaffanculo…Niente.

Se non anche il Vaffanculo a se stessi.       

Fratelli coltelli.

Andare…”ControVento”.

“Italia Più 2050”.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Contismo.

Giuseppe Conte.

Beppe Grillo.

Marco Morosini.

Luigi Di Maio.

Alfonso Bonafede.

Danilo Toninelli.

Lucia Azzolina.

Vito Crimi.

Roberto Fico.

Nicola Morra.

Vincenzo Spadafora.

Rocco Casalino.

Alessandro Di Battista.

Virginia Raggi.

Barbara Lezzi.

Roberta Lombardi.

Paola Taverna.

La Questione Morale.

La Variante Cinese.

I Raccomandati.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Lega. Il comunismo in sala padana.

Il Capitano.

Il Senatur.

Giancarlo Giorgetti.

Irene Pivetti.

La Questione Razziale.

La Questione Morale.

La Lega Omosessuale.

La Bestia e le Bestie.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Comunismo = Fascismo.

Razzisti!!

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

Le donne di sinistra che odiano le donne.

Gli omofobi Rossi.

La nascita (e la morte) del Partito Comunista Italiano.

Professione: Sfascio…

Riformismo e Riformisti.

Che fine ha fatto il sindacato?

L’Utopismo.

Il Populismo.

Le Sardine.

La Questione Morale.

Tassopoli.

I Raccomandati.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Domenico Marco Minniti.

Andrea Orlando.

Andrea Romano.

Arturo Parisi.

Dario Franceschini.

Debora Serracchiani.

Emanuele Macaluso.

Enrico Letta.

Goffredo Bettini.

Luca Lotti.

Luciano Lama.

Lucio Magri.

Marco Rizzo.

Gianni Vattimo.

Giuseppe Provenzano.

Massimo D'Alema.

Nicola Fratoianni.

Nicola Zingaretti.

Pierluigi Bersani.

Roberto Speranza.

Romano Prodi.

Rosy Bindi.

Il Renzismo.

Furono Radicali.

Che Guevara tra storia e mito.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli amici Terroristi.

Sante Notarnicola.

Cesare Battisti.

Dimitris Koufodinas.

Mara Cagol.

Sara Casiccia.

Walter Alasia.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia del 1968, quando il mondo impazzì e cambiò tutto in poche settimane.

 

 

  

 

I PARTITI

 

QUARTA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Davide contro Golia: la resistenza della Finlandia all’invasione di Stalin. Andrea Muratore su Inside Over l'8 dicembre 2021. Nell’inverno 1939, mentre in Europa prendeva forma la complessa storia della seconda guerra mondiale un conflitto di pochi mesi divampò parallelamente alla drole de guerre al confine franco-tedesco, in cui le armi tacevano. Un conflitto caratterizzato da uno dei massimi squilibri tra le parti in causa, che vide la piccola Finlandia tenere testa per diversi mesi all’Unione Sovietica, la quale l’aveva invasa per consolidare i confini occidentali nella regione di Leningrado.

A oltre ottant’anni di distanza la resistenza di Helsinki in una guerra conclusasi con un’onorevole sconfitta ma, in ultima istanza, con una vittoria strategica della Finlandia che evitò definitivamente l’annessione nell’orbita sovietica desta ammirazione come una delle pagine più intense della storia militare del Novecento.

La Finlandia nelle mire sovietiche

Mosca voleva da tempo regolare i conti con la Finlandia, nazione di giovane indipendenza che si era emancipata nel 1917 dall’Impero Russo, di cui faceva parte come granducato, e aveva resistito a tutti i tentativi di infiltrazione comunisti negli Anni Venti e Trenta.

Inoltre, la vicinanza dell’ex capitale imperiale, la città di San Pietroburgo rinominata dopo la Rivoluzione Leningrado, ai confini della giovane nazione con cui Mosca aveva stipulato nel 1932 un trattato di non aggressione rendeva il leader sovietico Stalin timoroso del fatto che un’eventuale potenza desiderosa di attaccare l’Unione Sovietica potesse usare la Finlandia come trampolino di lancio.

Il Patto Molotov-Ribbentrop del 1939, in un certo senso, offrì a Stalin il pretesto per aprire la strada a un’operazione di egemonizzazione della Finlandia.  L’accordo siglato a Mosca nella giornata del 23 agosto 1939 attribuiva nel protocollo segreto la delemitazione delle sfere di influenza dell’Urss e della Germania Nazista nell’Europa orientale. Oltre alla nota spartizione della Polonia lungo la linea Bug-San e alla divisione di quelle che sarebbero diventate le terre di sangue il patto di non aggressione russo-tedesco sdoganava per Stalin la possibilità di programmare l’espansione verso gli stati Baltici e la Finlandia. Tra settembre e ottobre del 1939 Mosca si attivò per imporre a Estonia, Lettonia e Lituania patti di assistenza che aprivano la strada alla presenza di truppe sovietiche nel Paese e, nel giro di pochi mesi, all’annessione alla nazione comunista. Lo stesso approccio fu impiegato nei confronti della Finlandia, ma le proposte sovietiche, che comprendevano anche rettifiche dei confini in Carelia e nell’Artico furono rispedite al mittente.

Scoppia la guerra d'inverno

La tensione tra i due Paesi ai confini salì ai massimi livelli. Il 26 novembre 1939 tre postazioni d’osservazione finlandese notarono l’esplosione di sette colpi all’interno del territorio sovietico nei pressi di una cittadina dell’area circostante Leningrado, chiamata Mainila. I rappresentanti del governo della Finlandia negarono ogni responsabilità nell’incidente occorso. Aimo Cajander (1879-1943), all’epoca primo ministro, propose l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente per risolvere la questione, ma Mosca rifiutò. Tre giorni dopo l’Unione Sovietica ruppe le relazioni diplomatiche con la Finlandia e, il 30 novembre 1939, dopo aver rigettato il trattato di non aggressione con la Finlandia stipulato precedentemente, lanciò l’offensiva.

Quel giorno Unione Sovietica avviò la mobilitazione di imponenti contingenti dell’Armata Rossa verso i confini finlandesi. I numeri a confronto delle forze schierate sul campo erano a dir poco impari: dai 130 mila più altri 230 mila soldati finlandesi mobilitati al quasi milione dei soldati dell’Armata Rossa. In più i sovietici potevano contare anche su circa 2500 carri e 2700 aerei.

Non c’era confronto, almeno sulla carta. Ma fin da subito la forza d’urto sovietica si ritrovò impantanata. La stagione scelta per l’attacco era a dir poco inclemente: i laghi ghiacciati e le foreste innevate della Finlandia avrebbero messo a dura prova qualsiasi esercito in inverni normali, mentre quello del 1939 fu uno dei più gelidi e inclementi di sempre. Con temperature che toccavano i quaranta gradi sotto lo zero, i russi subirono sulla propria pelle gli effetti del Generale Inverno che, da Napoleone all’Operazione Barbarossa, li aveva e li avrebbe più volte salvati nella storia.

Inoltre, le truppe d’invasione erano in larga parte costituite da divisioni ucraine poco addestrate, facenti riferimento a un popolo che, straziato dalla carestia e dalla repressione degli Anni Trenta, registrava i più bassi tassi di consenso per il potere sovietico. Truppe poco motivate, dunque, di fronte alla tenace resistenza dei finlandesi. Fin dall’inizio le truppe di Helsinki combatterono per i loro villaggi, le loro case e, soprattutto, sulla scia di un’organizzazione pronta all’eventualità di un’invasione

Da tempo il Paese era sul piede di guerra. Indro Montanelli, che da giovane cronista avrebbe seguito i mesi della guerra russo-finlandese per il Corriere della Sera, aveva scritto di aver trovato a novembre in Helsinki una città pronta a resistere e ben consapevole delle minacce: “La mobilitazione, iniziata con un senso avaro di previdenza e attuata con molto criterio, non ha causato confusione né scompiglio. Un volontarismo sereno, la capacità di sacrificio, il senso del dovere hanno secondato i provvedimenti presi dalle autorità civili e militari. Queste autorità civili e militari hanno agito con molta saggezza in previsione del peggio, quasi che la guerra fosse fatale. Con assoluta freddezza il caso d’un attacco russo è stato preventivato, mentre non è stata neppure presa in considerazione l’ipotesi di una non resistenza”.

La tattica utilizzata dai finlandesi nei territori settentrionali si rifaceva a quella della guerriglia: di fronte a soldati dotati di un armamento superiore, ma lente e male organizzate i finlandesi lanciarono la strategia denominata motti (termine che in finlandese indica la legna accatastata per essere fatta a pezzi): muovendosi agilmente con gli sci lungo i fianchi delle lunghe colonne sovietiche confinate sulle poche strade che attraversavano le fitte foreste innevate, si lanciavano in incessanti e fulminei attacchi di disturbo dileguandosi poi nelle foreste; quindi, concentravano su più punti offensive più strutturate., suddividendo le truppe avversarie in piccoli gruppi (le motti) che, immobilizzati nella neve, venivano poi circondati e annientati. Montanelli avrebbe spesso sottolineato il ruolo centrale che in quest’azione di resistenza sarebbe stato giocato dall’uomo oggigiorno ricordato come l’eroe nazionale del Paese, il barone Carl Gustaf Mannerheim.

La guerra personale del Barone

Come un Cincinnato richiamato alle armi, Mannerheim fu promosso immediatamente alla guida dell’Esercito finlandese lasciando la posizione di relativa retrovia di comandante della Difesa Territoriale detenuta dal 1931 al 1939 che aveva sapientemente sfruttato per architettare la linea di difesa che prendeva il suo nome e su cui si saldò la difesa finnica.

Tra capisaldi naturali, alture, laghi e città strategiche le truppe finlandesi compensarono con l’organizzazione e il favore della natura l’inferiorità numerica. Colonne di fanti armati di sci vestiti di bianco piombavano nella neve sulle colonne sovietiche in marcia, nidi di mitragliatrici tenevano in scacco interi battaglioni, l’inverno neutralizzava la superiorità sovietica in termini di aerei e mezzi motorizzati. A Nord, la lunga notte artica cristallizzò lo scontro in una guerra “bianca” di assalti di gruppi di arditi, scontri di pattuglie, piccole avanzate sovietiche che imponevano un duro prezzo umano.

La guerra si stava sviluppando esattamente come l’aveva immaginata da tempo il Barone Mannerheim. Il quale aveva vissuto vent’anni nell’attesa di un evento che riteneva fatalmente impossibile da neutralizzare, l’attacco sovietico. Dopo il quale il governo di Helsinki si affidò all’uomo che tra il 1918 e il 1919 aveva contribuito a consolidare l’esercito nazionale, sganciare definitivamente la Finlandia dalla Russia, negoziare l’uscita delle forze armate ex zariste dal Paese, chiudere la partita interna coi comunisti e, al tempo stesso, evitare di dover far per questo sponda con le Armate Bianche intente a combattere la guerra civile. Era quella l’era dei due “Baroni” in lotta contro tutti in una guerra privata: se per il pittoresco Ungern, a Est, la fine sarebbe arrivata nel 1921 con la vittoria bolscevica sulla sua armata, per Mannerheim la seconda guerra mondiale avrebbe riservato un nuovo capitolo nella sfida con la Russia.

Settantaduenne ex comandante di truppe di cavalleria zariste, ufficiale decorato nella Grande Guerra durante la campagna sul fronte carpatico, combattente plasmatosi nel “torneo delle ombre” dell’Estremo Oriente nella fase finale del Grande Gioco, reggente del Paese dopo l’indipendenza Mannerheim guidò una strategia realista per consolidare la tenuta del fronte finlandese. Nonostante l’entusiasmo di molti comandanti locali, che puntavano a rintuzzare con offensive gli attacchi fallimentari sovietici in Carelia, Mannerheim pensava a una salda tenuta del fronte da far pesare come elemento negoziale in un armistizio.

“Mannerheim non si vede più”, scriveva a dicembre 1939 Montanelli da Helsinki. “Per sua particolare natura è sempre stato un personaggio stranamente lontano e solitario […] Ma ora egli è più lontano che mai, al centro del misterioso quartier generale finnico di cui tutti ignorano la sede. Da una stanzetta disadorna quasi monacale, seduto ad una grande ordinatissima scrivania, Mannerheim dirige le operazioni vittoriose del suo esercito. Egli manovra sulla carta, calcola con pazienza, ascolta con attenzione, emana pochi ordini precisi. Tutto dipende da lui: esercito marina aviazione. E tutto a lui rassomiglia nell’azione: equilibrato, calmo, tenace”. La Finlandia applicò, finché fu possibile, la dottrina difensiva del suo eroe nazionale. E questo di fatto salvò il Paese.

La riorganizzazione sovietica

Alla fine di dicembre, Stalin constatò la difficile situazione dell’Armata Rossa sul fronte finlandese ed esautorò il Commissario alla difesa Kliment Vorošilov, chiamando al suo posto il generale Semën Tymošenko che ebbe anche il compito di supervisionare i comandanti delle singole armate impegnate contro la Finlandia. Abbandonando l’idea di una guerra di manovra, Tymošenko realizzò che l’unica via per Mosca di evitare di perdere ulteriori risorse e salvare la faccia sarebbe stata quella di procedere a una lenta, costosa guerra di logoramento per stremare gradualmente la Finlandia, che nel frattempo oltre al sostegno morale di buona parte del mondo e all’appoggio diplomatico di potenze appartenenti a campi contrapposti, come Italia e Regno Unito, aveva ottenuto un lasco appoggio materiale.

Le truppe sovietiche iniziarono a bombardare sistematicamente i bunker, a concentrarsi sui singoli capisaldi, a togliere terreno alle truppe finlandesi concentrando su punti precisi, di volta in volta, le offensive. In Carelia l’obiettivo era spezzare il fronte al livello dell’istmo per far sì che, di fronte al rischio di vedere il Paese diviso e la capitale accerchiata, i finlandesi chiedessero un armistizio.

Il disgelo favorì le azioni sovietiche, mentre la limitatezza di risorse e il logoramento finnico fecero il resto. A febbraio i sovietici vinsero due importanti battaglie, a Lahde e nei diretti pressi di Viipuri, la città ritenuta più strategica nella regione su cui si attestò la resistenza finlandese, costretta a una guerra di posizione molto più dispendiosa. A iniziomarzo del 1940, Viipuri, l’ultimo caposaldo finlandese nell’istmo di Carelia, cadde in mano ai sovietici. Helsinki non esitò ad attivare i canali diplomatici per porre fine a un conflitto dall’epilogo inevitabilmente catastrofico su iniziativa proprio del maresciallo Mannerheim, conscio della necessità di sfruttare la finestra di tempo per ottenere condizioni onorevoli. Così, in fin dei conti, fu.

La pace di Mosca

Con il trattato di pace di Mosca sottoscritto da Finlandia e Unione Sovietica il 12 marzo 1940, ebbe fine la “Guerra d’Inverno”, durata 105 giorni. La Finlandia si impegnò cedere 64 750 km² di territorio, rinunciando al 10% del territorio finlandese in cui viveva il 12% della popolazione ma preservò l’indipendenza nazionale e a conservare l’accesso all’oceano Artico.

La popolazione finlandese si divise di fronte all’armistizio, tra chi temeva potesse essere l’inizio di un’ulteriore penetrazione sovietica e chi invece fu soddisfatto della resistenza dimostrata. Montanelli osservò ammirato: “Questo popolo è indipendente da venti anni e la sua Patria se l’è sofferta per secoli. L’ama a tal punto e con tale gelosia che pur di alienarla è pronta a distruggerla. E lo fa soffrendo sotto una maschera di indifferenza che a volte ci fa dubitare se questi siano esseri umani”. Era stata la superiorità materiale, non quella militare, a portare l’Urss alla vittoria. Il popolo, il governo, l’esercito finlandese avrebbero concluso il conflitto a testa alta. Fieri, indipendenti, sovrani. Come un Davide capace di tenere testa al Golia comunista, nel pressoché totale isolamento. La ripartizione delle perdite di uomini e mezzi presenta la dimensione dell’eroismo finlandese. La Finlandia perse circa 25.000 uomini e 60 aerei, l’Unione Sovietica oltre 125.000 uomini, oltre 500 aerei e 1.600 carri armati: perdite durissime che sarebbero impallidite di fronte alle cifre della battaglia contro la Germania ma, in relazione al numero di forze in campo, desta impressione. Così come la desta un’epopea militare entrata di diritto tra le più grandi di tutti i tempi.

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin. Matteo Sacchi il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. Un saggio di Claudia Weber indaga l'alleanza mortale (e rimossa) tra i dittatori. Il 22 giugno 1941 molti nelle alte sfere politiche e militari della Gran Bretagna tirarono un sospiro di sollievo. Hitler dando corso a una progettualità di espansione a Est già ventilata nel Mein Kampf diede il via all'operazione Barbarossa e aggredì l'Unione Sovietica di Stalin. Tra i più sollevati dalla svolta, largamente prevista, il primo ministro Winston Churchill che aveva lavorato a far sì che gli Usa fossero pronti ad assistere materialmente i sovietici e che con l'apertura di un secondo fronte vedeva diminuire enormemente la pressione su Londra. Questa svolta che ha condizionato tutta la guerra ha fatto sì che la storiografia abbia alla fine guardato molto poco ai rapporti russo tedeschi durante i mesi precedenti del conflitto. Certo in qualunque manuale si trova traccia del patto Molotov-Ribbentrop firmato il 23 agosto 1939. Un patto decennale di non aggressione tra Mosca e Berlino che de facto portò alla spartizione della Polonia. Le fotografie scattate a Mosca durante la ratifica (dal fotografo personale di Hitler, Heinrich Hoffmann), come quella in questa pagina, sono addirittura diventate iconiche. Però il reale scopo dell'accordo, la spartizione dell'Europa orientale, e i suoi effetti devastanti sulle popolazioni stritolate dalle due dittature sono spesso stati sottostimati o raccontati solo di straforo. Erano materia quantomai imbarazzante per molte delle sinistre europee e ovviamente i sovietici, dopo il 1941, ebbero tutto l'interesse a seppellire molto profondamente nei loro archivi tutto ciò che era relativo alla loro collaborazione con la Germania. A scandagliare questa vicenda complessa ci ha pensa la storica Claudia Weber, con Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un'alleanza mortale ora tradotto in italiano per i tipi della Einaudi (pagg. 260, euro 28). Il saggio, breve ma molto denso, racconta con dovizia di dettagli il percorso che portò la Nkvd sovietica a collaborare con la Sipo di Heinrich Himmler per stringere in una morsa la popolazione polacca. Responsabilità che vanno ben oltre il massacro di 22mila ufficiali polacchi a Katyn che i sovietici hanno ammesso solo nel 1990 quando Michail Gorbacëv porse le scuse ufficiali del suo Paese. Il libro della Weber, che insegna all'università di Francoforte, fa chiaramente capire come l'intesa dei russi con i tedeschi a scopo di sviluppo militare e di occupazione dell'Europa dell'Est fosse iniziata addirittura prima dell'ascesa di Hitler. Già nel 1922 l'Urss si era avvicinata alla Germania. Era un modo per i due Paesi di uscire dall'isolamento diplomatico prodotto dal Trattato di Versailles. Le scelte di Stalin che portavano avanti l'idea del socialismo in un solo Paese attraverso una industrializzazione forzata necessitavano di un alleato tecnologicamente avanzato. La Germania isolata era perfetta. Iniziarono dei rapporti economici sanciti dal Trattato di Berlino del 1926 che nemmeno l'ascesa di Hitler mise mai in discussione. Nel 1931 e 1932 l'Urss fu il principale acquirente mondiale di macchinari tedeschi. Un esempio: nella prima metà del 1932, spiega Weber, Mosca acquistò più della metà dei profilati in ferro prodotti dalla Germania, il 70% delle macchine utensili per lavorare i metalli, il 90% delle turbine a vapore... Senza l'Urss la Germania non sarebbe sopravvissuta alla crisi del '29. Negli anni precedenti i tedeschi avevano del resto spostato in Urss con reciproco vantaggio una serie di esperimenti per la produzione di gas venefici. Venne anche creata una Panzerschule a Kazan' dove ufficiali tedeschi e russi (che poi si sarebbero sparati contro nella Seconda guerra mondiale) si addestravano assieme. Idem nel campo di volo vicino alla città di Lipeck. Pur nella diffidenza, cosa accomunava i militari delle due nazioni che si addestravano in questi campi? L'idea che la Polonia dovesse avere vita breve e che l'unica questione rilevante fosse quella di quando sarebbe scoccato il momento giusto per annientarla. Insomma nei suoi piani di sangue e di conquista Hitler mostrerà ben poca originalità ricalcando idee già ben radicate negli ufficiali di scuola prussiana e nelle fila dell'Armata rossa. Risulta quindi chiaro come la diplomazia sovietica abbia da subito lavorato per far capire ai nazisti, arrivati al potere nel 1933, quanto volentieri Mosca avrebbe proceduto sulla via precedentemente tracciata. Per usare le parole di Maksim Litvinov, ministro degli Esteri sovietico sino al 1939, rivolte ai diplomatici di Berlino: «Che cosa ce ne importa, se fate fuori i vostri comunisti». Non fu tutto così liscio perché l'antisovietismo (venato di realistico timore) di Hitler era radicale. Ma alla fine dopo una complessa sciarada politica che le potenze occidentali giocarono oggettivamente molto male il progetto di spartizione dell'Est prevalse su qualunque ideologia. Grazie soprattutto allo spietato realismo geopolitico di Stalin. Si arrivò all'assurdo dei comunisti francesi obbligati a festeggiare l'arrivo di Hitler a Parigi. E anche in Germania un Goebbels basito dovette inchinarsi al giornale delle SS che inneggiava alla fratellanza di sangue tra russi e tedeschi limitandosi a segnalare che certi tentativi di ingraziarsi Mosca erano «troppo goffi». Ma non fu solo una farsa tragica dove le ideologie si sacrificavano in nome della geopolitica. Nelle terre di sangue il doppio tallone ben coordinato delle SS e dei sovietici produsse un numero enorme di vittime. Una partita sporca che si interruppe soltanto quando Hitler ritenne (a torto) di poter fare a meno di Mosca e quando Stalin, nella sua paranoia, rifiutandosi di ascoltare chiunque non volle vedere l'evidenza del cambiamento di orientamento dei tedeschi. Ma questa è la storia nota che ha fatto finire sotto il tappeto quel complesso, e criminogeno, rapporto Mosca Berlino che la Weber racconta. Un rapporto di cui ancora non si può capire tutto perché ci sono carte che i russi tutt'ora si rifiutano di mostrare. Evidentemente imbarazzano ancora e schizzano di fango l'idea della grande guerra patriottica.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tec 

Mirella Serri per "lastampa.it" il 7 settembre 2021. «Nella biblioteca di letteratura straniera al posto dei giornali degli immigrati comunisti furono esposti fogli nazisti e furono eliminati i romanzi degli antifascisti. La parola “fascismo” non comparve più sulla stampa sovietica», così ricorderà il giovane Wolfgang Leonhard, futuro storico e politico che, nell’estate del 1939, frequentava la biblioteca moscovita. La mattina del 24 agosto una notizia strepitosa aveva stravolto il mondo democratico: al Cremlino il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov e il suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop avevano firmato un patto di non aggressione tra Urss e Germania. Proprio così: le due dittature, fino a quel momento l’una contro l’altra armate, avevano siglato un accordo. Tutto il mondo, in particolare quello antifascista, era pervaso da un sentimento di sgomento. Wolfgang, per esempio, come tanti altri antinazisti, era arrivato a Mosca in fuga da Berlino dove aveva fatto parte dei Giovani Pionieri, organizzazione del Partito comunista. Ora Stalin si era alleato con colui che Wolfgang considerava il suo aguzzino. Il patto Molotov-Ribbentrop prevedeva anche un «protocollo segreto» rimasto tale fino al termine degli anni Novanta, in cui venivano definiti i territori che i due tiranni si sarebbero spartiti. Le dinamiche di questa scellerata intesa tra i due Stati totalitari sono state cancellate dalla storia del Novecento e tenute nascoste come in uno speciale «buco nero»: adesso a far luce con dovizia di documenti inediti sul complesso intreccio de Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale è la storica Claudia Weber, docente all’Università di Francoforte sull’Oder. La studiosa si preoccupa di rimettere insieme i tasselli dell’accordo che per decenni «è stato considerato solo uno scomodo incidente storico». L’intesa Molotov-Ribbentrop, a seguito della quale il 1° settembre del 1939 iniziò la Seconda guerra mondiale, non fu per nulla un incidente anche se fu scambiata per una fake news: il diplomatico e ingegnere Viktor Kravcenko il quale, fuggito dall’Urss, scriverà il pamphlet Ho scelto la libertà, racconta: «Era incredibile! Era una certezza il fatto che l’unico nemico dei nazisti fosse l’Unione Sovietica. I nostri bambini giocavano a fascisti-contro comunisti e i fascisti avevano sempre nomi tedeschi e ogni volta venivano riempiti di botte». Non riusciva a capacitarsi di quella mostruosità nemmeno lo scrittore Arthur Koestler (successivamente autore del bestseller Buio a mezzogiorno in cui denunciava gli orrori delle galere staliniane): «Non ebbi più dubbi quando all’aeroporto di Mosca venne issata la bandiera con la svastica in onore di Ribbentrop e la banda dell’Armata Rossa intonò Das Horst-Wessel-Lied», l’inno ufficiale del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Stalin, a seguito del trattato tra i due ministri sovietico e tedesco, invase la Polonia orientale, gli Stati baltici e la Bessarabia (attualmente divisa tra la Moldavia e l’Ucraina), mentre Hitler, a sua volta, occupò la parte occidentale della Polonia: si misero in moto una «devastante carneficina mondiale e la Shoah», spiega la Weber. In Urss, sul modello nazista, venne avviata l’epurazione degli ebrei dai pubblici uffici. I giornali scrissero che «era dovere degli atei marxisti aiutare i nazisti nella campagna antisemita». Nel primo anno di guerra, con ordini segreti - resi noti solo decenni più tardi -, i sovietici proibirono ai partiti comunisti polacco e ceco di prendere posizione contro Hitler. Quando la Wehrmacht entrò a Parigi nel 1940, Stalin ordinò ai compagni francesi di accogliere calorosamente le truppe di occupazione. Molti comunisti che si erano rifugiati a Mosca e poi erano stati imprigionati durante le purghe staliniane, come la scrittrice tedesca Margarete Buber Neumann, vennero estradati e, dopo aver patito il gulag, si ritrovarono nei lager nazisti. La maggioranza degli aderenti ai partiti comunisti europei accettò tutto passivamente: «Stalin sa quello che fa», dicevano, «e il Partito ha sempre ragione». Il poeta Johannes R. Becher, comunista e in seguito ministro della Cultura della Repubblica democratica tedesca, rese addirittura omaggio al patto con una lirica: «A Stalin. Tu proteggi con la tua mano forte il giardino dell’Unione Sovietica. Tu, il figlio più grande della madre Russia, accetta questo mazzo di fiori… come segno del legame di pace che si estende saldo fino alla Cancelleria del Reich». I sovietici e i nazisti, a dispetto di tutti i precedenti contrasti ideologici, giunsero a una perfetta integrazione nello sterminio. L’Europa orientale si trasformò in «terra di sangue», con i profughi - ebrei, polacchi, ucraini - che si nascondevano nei boschi e tra le macerie delle città nelle zone di occupazione russa e tedesca ed erano il bersaglio delle guardie di confine. Paradossalmente, il 22 giugno 1941 i militanti comunisti tirarono un respiro di sollievo di fronte all’avvio di una nuova immensa tragedia. Era l’inizio dell’Operazione Barbarossa, nome in codice dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista. Si apriva lo scenario per un’altra storia, quella della lotta antifascista, mentre i sovietici, i partiti comunisti d’occidente e gli Alleati che operavano nella seconda guerra mondiale, si preparavano in nome della propaganda bellica a seppellire il ricordo del patto Hitler-Stalin.

Quell'asse "segreto" che ha fatto 14 milioni di morti. Andrea Muratore il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. In "Terre di sangue" Timothy Snyder parla di come nazismo e stalinismo furono di fatto complici nel tentativo di annientare il pluralismo etnico, sociale e culturale dell'Europa orientale. Provocando 14 milioni di morti. Quella tra russi e tedeschi è ben più della relazione tra due popoli. Si tratta di un rapporto che ha plasmato la storia d'Europa. Riorientandone l'asse verso il centro e l'Est, aggiungendo al mondo mediterraneo e allo spazio "carolingio" anche le distese oltre l'Oder e il Neisse, verso gli sconfinati spazi della Russia europea. Potenza catapultata tra il XVI e il XVII come protagonista dei consessi europei. Divisa dalla Prussia prima e dalla Germania poi da una relazione complessa. Un Giano bifronte, potremmo dire. Per dirla con il professor Salvatore Santangelo, attento studioso delle relazioni tra Mosca e Berlino, il rapporto russo-tedesco può essere letto in diversi "tra i Paesi europei, la Russia non ha avuto rapporti altrettanto intensi quanto quello costruito con la Germania. Un rapporto fatto anche di tragedie e orrori, che hanno avuto il proprio culmine nella Seconda guerra mondiale", in cui lo scontro ideologico tra il nazionalsocialismo e il comunismo stalinista aggiunse combustibile a una rivalità geopolitica giunta al punto di rottura, di non ritorno. Per il dilagare delle ambizioni del Terzo Reich e dell'Unione Sovietica sull'area che divideva, e divide tuttora, Germania e Russia. Al vasto spazio tra i russi e i tedeschi che i due popoli, a lungo imperiali, hanno più volte messo nel mirino e si sono contese. Fino a trasformarle, per usare l'espressione che dà il nome a un omonimo libro di Timothy Snyder, nelle "terre di sangue". Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin analizza nel profondo la storia di aree d'Europa come la Polonia, l'Ucraina, i Paesi baltici nel periodo che dalla fase interbellica arriva fino al pieno del secondo conflitto mondiale. Caricato di una tremenda connotazione di guerra d'annientamento il 22 giugno 1941, giorno del tradimento tedesco del Patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione siglato nel 1939 che sancì l'inizio dell'invasione dell'Unione Sovietica. E trascinò, per mezzo delle battaglie combattute sul campo, delle persecuzioni e dell'orrore dell'Olocausto, in una spirale di violenze senza fine le aree contese tra le due potenze totalitarie. Ma dal 1933 al 1945 la lista delle persecuzioni che investirono le "terre di sangue" fu in continuo aggiornamento: la carestia deliberatamente provocata da Stalin nei primi anni Trenta in Ucraina. Il Grande Terrore tra il ’37 e il ’38. La mortale aggressione tedesco-sovietica alle classi colte polacche tra ’39 e ’41. I tre milioni di prigionieri sovietici lasciati morire di fame dai tedeschi. Le centinaia di migliaia di civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Infine il dramma più grande, l’Olocausto e, sul finire della guerra, la persecuzione contro i tedeschi dell'Est. Snyder costruisce un racconto storiografico ben ordinato partendo da dei presupposti fondamentali: accerta che sia l'Unione Sovietica staliniana che la Germania nazista furono responsabili dell'annientamento di milioni di vite umane in territori che si contesero militarmente e che nell'ambizione dei due dittatori, Adolf Hitler e Josif Stalin, dovevano risultare strategici nella competizione bilaterale. Hitler sognava il trionfo della Germania ariana, l'annientamento degli ebrei dell'Est Europa, la trasformazione della Polonia, dell'Ucraina, della Russia europee in dipendenze dominate dai soldati-agricoltori mandati a colonizzarle, la sottomissione degli slavi. Aggiungendo connotati ideologici e razzisti alla chiara dottrina geopolitica interpretata da studiosi come Karl Hausofer, che immaginava per la Germania un ruolo centrale come impero continentale. L'Unione Sovietica staliniana intendeva invece assimilare al regime socialista le terre che più di tutte avevano mostrato riottosità all'omologazione sotto il nuovo ordine bolscevico. L'autore evidenzia come sia il Reich che l'Urss siano stati di fatto complici in un progetto che, per fini diversi, mirava però a annullare ogni identità culturale, politica e sociale dei Paesi delle "terre di sangue", non a caso spartiti brutalmente da Molotov e Ribbentrop nel patto del 1939 rotto da Hitler due anni dopo. Ed è impressionante constatare come i morti complessivi dell'Olocausto, 6 milioni, non corrispondano che a meno della metà delle persone uccise dai due regimi nei territori in questione tra il 1933 e il 1945: 14 milioni. Deportazioni di massa, carestie indotte (come il tragico Holodomor ucraino indotto dal regime staliniano), esecuzioni sommarie, repressioni, stupri, incendi, pogrom: le metodologie di massacro conobbero una crudele ed eterogenea variabilità, ed è spesso trascurata dalla storiografia l'attestazione del fatto che il numero di morti civili per queste cause diverse tra loro fu sopravanzato per un breve periodo soltanto (1944-1945) da quelli nei campi di sterminio nazisti. In larga parte posizionati nel cuore delle "terre di sangue": Auschwitz, Treblinka, Belzec e altri luoghi dell'orrore. "Non uno solo di quei quattordici milioni di morti era un soldato in servizio effettivo", nota Snyder. "La maggior parte era costituita da donne, bambini e anziani. Principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici". Molti di loro deceduti dopo aver subito persecuzioni da entrambi i regimi. Per l'autore "in quelle terre ebbe luogo la più grande calamità nella storia d’Europa" e fu sul lungo periodo inevitabile il fatto che "le vittime non poterono fare a meno di paragonare i due regimi. Penso a Vasilij Grossman, scrittore sovietico nato in Ucraina da famiglia ebrea. Egli assistette alla carestia lucidamente indotta da Stalin in Ucraina, e più tardi perse sua madre nell’Olocausto nazista, sempre in Ucraina. Gli venne naturale paragonare i due terribili eventi. Così fu per moltissimi ebrei, e così per moltissimi ucraini". Vittime di una persecuzione continua, stritolate nel redde rationem di un dualismo secolare, nel pieno del lungo suicidio dell'Europa rappresentato dalle due guerre mondiali. Un'ondata di dolore che ha rimesso in moto con profondo dinamismo la storia di queste terre dopo la fine della guerra e i lunghi anni di dominazione comunista. La memoria del dolore plasma oggigiorno la visione di nazioni come l'odierna Polonia, diffidente tanto di Mosca quanto di Berlino, identitaria e intenta a riscoprire nelle sue radici cristiane la forza vivificatrice per la ricostruzione del suo futuro. Una via già indicata in passato da Giovanni Paolo II, tra i tanti uomini sopravvissuti nonostante il faccia a faccia con entrambi i totalitarismi. Che, in fin dei conti, piuttosto che annientare i popoli delle "terre di sangue" li hanno, in ultima istanza, resi più coesi e resistenti. La disfatta del totalitarismo sta proprio nel fatto che nell'Europa di oggi continui a esistere il prezioso pluralismo etnico, religioso, politico, culturale che Hitler e Stalin volevano cinicamente negare. Andrea Muratore

L’Olocausto dimenticato di Stalin: Holodomor, la grande carestia ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 5 novembre 2021. Tra i grandi genocidi del Novecento eccessivamente sotto silenzio passa spesso nel dibattito pubblico l’Holodomor, la grande carestia che si abbatté sull’Ucraina tra il 1932 e il 1933 e che è direttamente correlabile alle politiche del regime sovietico di Stalin volte a consolidare la collettivizzazione forzata delle terre agricole del “granaio” dell’Europa orientale. In ucraino Holodomor significa letteralmente “sterminio per fame” .

Nel contesto di un processo che proseguiva a tappe forzate almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, si stima che tra i 3 e i 4 milioni fossero ucraini, vittime come in altre carestie del XX secolo non tanto della carenza di cibo e raccolti quanto piuttosto di una precisa volontà politica che tendeva a reprimere ogni dissenso dall’autorità centrale, arrivando a punire chi temendo la morte per fame ammassava privatamente raccolti o si rifiutava di far macellare il bestiame con la confisca dei beni.

Le premesse dell'annientamento

Riuniti sotto il controllo sovietico i territori ucraini, i bolscevichi dopo la guerra civile seguita alla fine dell’Impero zarista istituirono ufficialmente la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina il 30 dicembre 1922. Essa ebbe come prima capitale fino al 1934 la città orientale di Charkiv, dal 1918 sede del locale potere sovietico, ricordata talvolta come “la capitale della carestia”.

Il regime di Lenin prima e quello di Stalin poi apportarono profondi stravolgimenti nell’assetto sociale, politico ed economico dell’Ucraina, forzando (nonostante l’appello formale alla politica delle nazionalità) una convergenza verso un ceppo dominante di matrice russa, eradicando buona parte della tradizione culturale di matrice ortodossa, marginalizzando le minoranze ritenute afferenti a poteri potenzialmente nemici (come i polacchi), reprimendo l’identità dei cosacchi e cercando di imporre i principi del socialismo in un’economia a trazione agricola.

Dopo l’annuncio della massiccia campagna di collettivizzazione fondata sulle fattorie collettive (kolchoz) e le aziende agricole statali (sovchoz) la leadership sovietica nel 1928 concentrò fortemente i suoi sforzi su un’Ucraina che era stata tra le aree più renitenti del Paese in questa nuova sfida.

“Stalin e compagni”, nota l’Osservatorio Balcani-Caucaso, “erano ben consapevoli del pericolo di rivolte e ribellioni e, non volendo perdere l’Ucraina, nel 1932 il regime pensò a uno stratagemma per sterminare (o quantomeno mettere a tacere) la nazione ucraina, abilmente mascherato da uno dei piani di collettivizzazione”, cogliendo la palla al balzo per giustificare gli insufficienti risultati del piano generale. In sostanza “si trattava di confiscare tutte le scorte di grano e di generi alimentari come sanzione per il fallimento del piano statale di approvvigionamento di grano”.

La carestia come detto nacque non tanto dalla collettivizzazione, ma piuttosto dalle manovre volte a punire gli ucraini e a utilizzare il volano dell’accentramento del controllo sulle terre come scusa per annientare l’identità politica della Repubblica. Fu dunque il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, dei confinamenti delle metropoli a partire dalla stessa Charkiv, divenuta “la capitale della fame”. Il governo sovietico così accentuò la crisi agricola già in atto, creando una carestia “su ordinazione, imponendo una quota di grano estremamente alta e non realistica come tassa statale: la produzione di circa 6 milioni di chili di grano”.

L'inferno dell'Ucraina nell'era di Stalin

Il saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum e Terre di sangue, di Timothy Snyder, hanno contribuito a portare a conoscenza del grande pubblico alcune delle più drammatiche conseguenze delle politiche del regime di Stalin, riassunte emblematicamente da Avvenire: tra il 1932 e il 1933, in particolare, un rapporto “del capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi”.

Nell’universo parallelo del regime di Stalin la fame era considerata una forma di resistenza al potere sovietico. Sobillati dai nemici del Paese, primi fra tutti Polonia e Giappone dei quali ai cui estremi confini Mosca temeva l’alleanza in funzione antisovietica, Stalin e i suoi fedelissimi, Kaganovic e Molotov in testa, arrivarono a convincersi che la fame equivaleva a una forma estrema di resistenza all’inevitabile vittoria del socialismo da parte di sabotatori che odiavano il regime a tal punto da lasciare morire intenzionalmente le loro famiglie pur di non ammetterlo. Per Kaganovic la fame era una “lotta di classe”, e in un contesto che vide una carestia tragica fare milioni di vittima in tutta l’Unione Sovietica in Ucraina si arrivò al deliberato omicidio di massa.

Le tappe dell'Holodomor

Tra il novembre e il dicembre 1932 una serie di misure politiche crearono le basi perché l’Ucraina fosse accerchiata dalla fame. Il 18 novembre ai contadini ucraini fu fatto ordine di consegnare ogni avanzo del raccolto precedente superante le eccedenze da destinare all’ammasso, dando vita a una serie infinita di persecuzioni da parte di polizia e servizi segreti; due giorni dopo fu imposta una norma draconiana sulla carne, che portò alla confisca di massa di mucche e maiali, vera e propria riserva anti-fame per centinaia di migliaia di ucraini; il 28 novembre e il 5 dicembre ulteriori ordinanze aumentarono il potere di confisca dei funzionari comunisti. A fine dicembre e inizio gennaio il tour ucraino di Kaganovic lasciò dietro di sé un’ondata di epurazioni di funzionari, condanne a morte, deportazioni; il 14 gennaio 1933 ai contadini ucraini non fu concesso il lasciapassare interno che obbligatoriamente i cittadini sovietici dovevano portare con sé per muoversi nel Paese e, nell’inverno 1933, fu compiuta la mossa finale: la confisca die semi del grano per la stagione successiva, che lasciava i contadini ucraini senza speranze di poter autonomamente condurre un nuovo raccolto.

Nella primavera 1933 non meno di 10mila persone morivano, in media, ogni giorno di fame in Ucraina, a cui andavano aggiunti i circa 300mila ucraini morti di carestia dopo la deportazione nei campi di lavoro, nei gulag e negli insediamenti speciali citati da Snyder nei suoi studi. Aleksandr Solženicyn ha sostenuto il 2 aprile 2008 in un’intervista a Izvestija che la carestia degli anni Trenta in Ucraina è stata simile alla carestia russa del 1921-1922, poiché entrambe furono causati dalla “spietata rapina dei contadini da parte del sistema bolscevico”.

Complessivamente, non meno di 3,3 milioni di persone persero la vita nell’Holodomor, l’inferno sulla terra creato dalla collettivizzazione. La struttura sociale ucraina ne fu sconvolta, mentre nel frattempo il grano sovietico requisito agli ucraini contribuiva a mantenere stabili i mercati internazionali, nelle decisive settimane in cui gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt puntavano su questa nuova stabilità per uscire dalla Grande Depressione e si preparavano ad estendere il proprio riconoscimento all’Urss nel novembre 1933 e in Germania Adolf Hitler consolidava il suo potere.

Ancora oggi il ricordo dell’Holodomor divide Ucraina e Russia. Per Kiev si tratta di una pagina incancellabile della propria storia: nel 2010, la corte d’appello di Kiev decretò che l’Holodomor fosse un atto di genocidio e anche Polonia e Città del Vaticano si sono espressi in tal senso. Latita ancora la memoria storica in tal senso, come spesso accade sul fronte dei crimini staliniani. Condotti sotto la cappa di ferro di un regime in larga misura isolato dal mondo e la cui scoperta è stata, in larga misura, il frutto del lavoro pioneristico di pochi storici.

Tra Hitler e Stalin: le “terre di sangue” vittime dei regimi totalitari. Andrea Muratore  su Inside Over il 5 novembre 2021. Il totalitarismo nazionalsocialista e quello stalinano sono associati ad alcuni dei più efferati crimini commessi nella storia del Novecento. Guardando alla tragica storia tra l’inizio delle campagne di collettivizzazione di massa in Unione Sovietica a inizio Anni Trenta e la fine della Seconda guerra mondiale culminata nella distruzione del Terzo Reich si nota che buona parte dei crimini di Hitler e Stalin ebbero come teatro un’area sovrapponibile dell’Europa orientale compresa tra la Polonia, i Paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina. In cui furono sterminate milioni di persone in larga parte inermi.

I massacri dei due totalitarismi

Lo storico Timothy Snyder nel saggio Terre di sangue ha sottolineato l’importanza di analizzare questa area d’Europa come vittima parallelamente delle efferatezze staliniane e di quelle naziste. Dall’inizio degli Anni Trenta all’inizio della seconda guerra mondiale fu l’Unione Sovietica a produrre i maggiori massacri con l’Holodomor, la devastante carestia ucraina, le collettivizzazioni forzate delle campagne e le deportazioni nei Gulag culminate nel Grande Terrore tra il 1937 e il 1938; il Patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione siglato nell’agosto 1939 e durato fino alla tragica giornata del 22 giugno che sancì l’inizio dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica aprì la strada alla spartizione della Polonia e a una fase in cui i due regimi furono complici dell’annientamento dell’identità sociale, politica e culturale della nazione occupata.

Dopo il 1941, infine, furono i tedeschi a sdoganare la componente più efferata e violenta dei loro crimini. Nelle “terre di sangue” ebbe luogo l’omicidio in massa degli ebrei di tutta Europa, nel loro territorio avevano sede le fabbriche della morte naziste (Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Belzec, Majdanek), furono compiuti eccidi di massa e fucilazioni, almeno tre milioni di prigionieri di guerra sovietici furono fatti morire di fame. Le “terre di sangue” furono oggetto della competizione incrociata tra il Reich e la potenza comunista, ma sostanzialmente, anche da nemiche, sia il Reich che l’Urss siano stati di fatto complici in un progetto che, per fini diversi, mirava però allo stesso obiettivo di fondo: annullare ogni identità culturale, politica e sociale dei Paesi delle “terre di sangue”, non a caso spartiti brutalmente da Molotov e Ribbentrop nel patto del 1939, assimilandoli forzatamente ai russi e ai tedeschi.

Una conta di morti impressionante

Oggigiorno – giustamente – spaventano e raccapricciano i pensieri riguardanti i 6 milioni di ebrei assassinati nel quadro della “Soluzione finale” nazionalsocialista. Ebbene, gli ebrei sterminati dai tedeschi nelle camere a gas, nelle repressioni di massa, con le fucilazioni, attraverso le marce della morte e la privazione del cibo non ammontano nemmeno alla metà complessiva dei morti delle “terre di sangue”, che Snyder calcola complessivamente in 14 milioni.

Questo numero, come quello di tutti i genocidi della storia, non significherebbe nulla se non fosse confrontato al pensiero che ogni decesso corrisponde a un’esistenza umana interrotta tragicamente. Dal prigioniero del gulag fatto morire di fame alla bambina ucraina perita assieme alla sua famiglia di carestia, dalla giovane madre ebrea morta in Bielorussia dopo l’invasione tedesca alle innumerevoli vite divorate dai lager, Snyder prova a dare umanità e individualità a alcune di queste.

La conta dei morti si snoda lungo un decennio ed è impressionante: il martirio delle “terre di sangue” ebbe inizio con i 3 milioni di morti della carestia “politica” imposta da Stalin all’Ucraina a inizio Anni Trenta; proseguì con i circa 700mila morti del Grande Terrore, in larga misura contadini e membri di minoranze nazionali fucilati; 200mila polacchi furono uccisi da tedeschi e sovietici nella repressione del 1939-1941; 4 milioni di persone morirono di fame e stenti in Unione Sovietica dopo l’invasione tedesca, 5,4 dei 6 milioni di ebrei periti durante l’Olocausto furono sterminati nelle “terre di sangue” e le operazioni anti-partigiane, le repressioni di massa e le vendette incrociate contro i partigiani tra Polonia, Bielorussia, Ucraina reclamarono un tributo di un ulteriore mezzo milione di vittime.

“A grande distanza di tempo si può scegliere di paragonare o meno i sistemi nazista o sovietico”, scrive Snyder, riferendosi a un’annosa polemica politica che divide l’Europa. “Le centinaia di milioni di europei che furono sottoposti a entrambi i regimi non poterono permettersi questo lusso”. E spesso finirono per essere vittime di entrambi i regimi o carnefici involontari. Per un ufficiale polacco nel 1939 la scelta di arrendersi ai tedeschi o ai sovietici presentava analoghe incognite; un ebreo polacco fuggito in Unione Sovietica tra il 1939 e il 1941 poteva finire in un gulag o essere riconsegnato ai nazisti; un cittadino ucraino poteva subire una rappresaglia tedesca o entrare a far parte di un gruppo partigiano, oppure scegliere un collaborazionismo spesso deciso come via di fuga dall’incertezza; in Bielorussia l’arruolamento forzato al lavoro al servizio dei tedeschi o il reclutamento da parte dei partigiani dipendeva spesso da singoli rastrellamenti; spesso diversi militari sovietici caduti prigionieri scelsero l’arruolamento con la Germania nazista come unica alternativa alla morte per fame.

La sovrapposizione tra le violenze naziste e quelle sovietiche portò al parossismo la pressione storica sull’Europa orientale, ma diede anche vita a una fase unica, nella sua tragicità, dei rapporti tra Berlino e Mosca, dato che per il professor Salvatore Santangelo, attento studioso delle relazioni tra Mosca e Berlino, “la Russia non ha avuto rapporti altrettanto intensi quanto quello costruito con la Germania. Un rapporto fatto anche di tragedie e orrori, che hanno avuto il proprio culmine nella Seconda guerra mondiale”, la quale ha segnato uno spartiacque storico fondamentale per l’Europa orientale. E non è un caso che per quasi tutti gli Stati che si trovano ancor oggi tra i russi e i tedeschi oggigiorno l’incubo strategico, dopo le divisioni della Guerra Fredda e la fine del comunismo sovietico, sia una piena saldatura tra Mosca e Berlino sotto forma di asse economico, energetico, geopolitico che li tagli fuori. I retaggi del passato non si possono cancellare dalla memoria dei popoli quando di mezzo ci sono le terre di sangue.

Katyn, il colpo al cuore della Polonia. Andrea Muratore  su Inside Over il 5 novembre 2021. Camminando per le città polacche, in diverse chiese e cattedrali ricostruite dopo la Seconda guerra mondiale si potrà ammirare, in forma di dipinto, come scultura o incisa in una vetrata, un’icona della Vergine Maria tanto realistica quanto commovente: la Madonna, raffigurata dolorante, stringe al suo petto il corpo di un uomo che appare rivolto di schiena, con un foro nella nuca. Per i polacchi, è l’icona della Madonna di Katyn, il simbolo del martirio della nazione durante il secondo conflitto mondiale, che ebbe uno dei suoi momenti apicali nella strage ordinata dal regime sovietico di Stalin contro gli ufficiali polacchi prigionieri nella primavera 1940.

I graduati polacchi presi prigionieri dopo la spartizione della Polonia tra Germania nazista e Unione Sovietica furono massacrati assieme a politici, giornalisti, intellettuali, professori e industriali, uccisi con esecuzioni sommarie a colpi di pistola dai militari Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) in una serie di episodi che ebbero il loro apice nel massacro avvenuto nei pressi della foresta di Katyn, sita a circa 20 km dalla città russa di Smolensk.

Complessivamente, furono 22mila i morti in una serie di operazioni che spiccano per efferatezza e programmazione da parte delle autorità sovietiche. Desiderose di cancellare dalla faccia della Terra ogni vestigia di un’identità polacca. Di annientare scientemente la nazione dopo aver contribuito ad azzerarne lo Stato. Un’azione volutamente e deliberatamente tesa all’annientamento delle guide contemporanee e future del popolo polacco, a consolidarne l’asservimento, non meno brutale di analoghe repressioni condotte dai nazisti nella prima nazione da loro invasa nel 1939 e negli anni successivi. Laddove la Seconda guerra mondiale rappresentò per la Germania di Adolf Hitler il punto d’inizio di una campagna di asservimento dei cittadini polacchi e di sterminio graduale della sua comunità ebraica, essa fu per Stalin e il suo regime il punto d’arrivo di una paranoica persecuzione anti-polacca che aveva avuto già le sue prime espressioni ai tempi dell’Holodomor, la grande carestia ucraina degli Anni Trenta, e nel Grande Terrore del 1937-1938.

Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, capo della polizia segreta sovietica, aveva proposto al Politburo del Partito comunista dell’Unione Sovietica di approvare un ordine di eliminazione delle forze antisovietiche e degli attivisti  “nazionalisti e controrivoluzionari” detenuti nei campi e nelle prigioni delle parti occupata della Polonia. Richiamandosi all’inesistente Organizzazione Militare Polacca a cui erano accusati di partecipare alcuni dei fucilati in vista della repressione del Grande Terrore.

Detenuti nei campi di prigionia di Kalinin, vicino Mosca, di Staroblisk, vicino all’attuale Donetsk, e soprattutto nel centro di Kozelsk i polacchi arrestati o presi prigionieri furono destinati alla morte da un ordine amministrativo connotato dal tradizionale grigiore burocratico con cui la vita e la morte venivano decise nell’Urss staliniana. Kozelsk è la città in cui Fedor Dostojevskij aveva collocato una scena cruciale dei Fratelli Karamazov. Un’opera coniugante in forma tragica fede, discussioni sul destino dell’essere umano e un duello tragico tra morali diverse che vide una sua parte ambientata all’Optyn Hermitage della piccola città russa, divenuta dal 1939 sede di un campo di prigionia sovietico divenuto base per la fabbrica della morte sovietica. Come ha ricordato la storica Anna Cienciala, polacca emigrata negli Usa, i massacri che presero il nome da Katyn avvennero dispersi su più aree concentrate nello spazio boschivo vicino Smolensk e seguivano un modus operandi freddamente determinato: i detenuti condotti da Kozelsk a Katyn erano “condotti in una stanza dove venivano controllati i loro estremi. Da qui giungevano in un’altra stanza, buia e senza finestre” e, come ricordarono testimoni del Nkvd, “si sentiva un rumore secco e questa era la fine”. In alcuni casi, a Katyn i i prigionieri erano portati direttamente alle fosse con le mani legate dietro la schiena e uccisi con un colpo di pistola alla nuca.

Qual è la portata tragica più significativa dell’eccidio di Katyn? Essenzialmente il fatto che inviti a pensare sulla drammaticità e sulla convergenza dei regimi totalitari del Novecento. Per lungo tempo la sua responsabilità venne attribuite ai tedeschi per il fatto che Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Reich, volle sfruttare propagandisticamente il massacro dopo la scoperta delle fosse comuni di Katyn da parte dei militari della Germania nel 1943. Di questa opera di madornale disinformazione furono complici anche gli occidentali prima della fine della seconda guerra mondiale: la rottura consumatasi tra il governo polacco in esilio e Stalin dopo la scoperta del massacro rischiava di minare la coalizione antitedesca e Varsavia, in nome della quale era stata avviata la guerra a Hitler, destinata nelle mani di uno dei suoi due invasori del 1939. Come sottolinea Avvenire, inoltre, “il macabro paradosso del processo di Norimberga fu che tra i giudici dei criminali hitleriani c’erano i funzionari sovietici, colpevoli di analoghi stermini di massa, tra cui appunto quello di Katyn”.

Nella sua ultima intervista concessa all’Osservatore Romano a pochi giorni dalla morte, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 2009 il professor Viktor Zaslavsky, docente di Sociologia politica presso la Luiss di Roma, grande studioso dei rapporti tra Italia e blocco orientale nella Guerra Fredda e, soprattutto, ex cittadino sovietico che nel 1974 venne espulso dall’Urss dichiarò che “nell’ambito del dibattito sui totalitarismi e sui sistemi totalitari del XX secolo il massacro di Katyn rappresenta un caso emblematico di pulizia di classe, mentre Auschwitz si configura come un caso di pulizia etnica. Due politiche gemelle che accomunano il totalitarismo nazista e quello sovietico”. Con una nazione martire per eccellenza: la Polonia, “Cristo d’Europa” martoriato per decenni fino alla definitiva emancipazione da ogni dominio esterno dopo il 1989. Anno che ha permesso di far finalmente giustizia su uno dei crimini più odiosi e meno noti del Novecento. Un massacro con cui un regime totalitario mirò a decapitare di colpo una nazione intera azzerando le sue prospettive di rinascita e decimandone l’élite.

·        Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Il saggio di Bevilacqua. Tocqueville e i suoi fantasmi: una lezione di filosofia. Filippo La Porta su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Piero Bevilacqua, storico meridionalista e scrittore, ha orchestrato un dialogo impossibile tra alcuni giganti del pensiero moderno, altrettanti spettri convocati nel 2021 in una sontuosa dimora vicino Parigi, dal visconte Alexis de Tocqueville: Illustri fantasmi nel castello di Tocqueville (Castelvecchi), e lo ha fatto con gusto letterario, sapiente messinscena e senso dei dialoghi. Di fronte a noi sfilano Marx, Burke, Nietzsche, Lenin, Rosa Luxemburg, Gramsci, Friedman… tutti molto informati sulle trasformazioni del mondo contemporaneo. Credo che il nostro ceto politico – apparentemente nato da se stesso (riuscite a immaginare una biblioteca dietro i nostri partiti?) – avrebbe l’obbligo di leggere questo libretto, anche solo per acquisire un senso del passato, una consapevolezza della politica stessa, una cognizione sufficientemente precisa del conflitto di idee così come ci viene dalla tradizione.

Dichiaro subito la mia totale condivisione dello spirito del libretto, della sensibilità che lo sottende, della segreta identificazione dell’autore con Rosa Luxemburg (se non mi sbaglio), l’unica capace di attaccare sia la “ragione” occidentale, legata al dominio, e sia il soggettivismo rivoluzionario privo di misura, che non riconosce al caso alcuna importanza. Inoltre segnalo, in queste pagine, alcune perle assolute: l’originale riflessione sulla mancanza di una vera tradizione di sinistra negli Usa, la disputa sulla illusione che basti produrre più ricchezza per elevare il livello di tutti, la denuncia dell’applicazione agli animali dei metodi di sterminio collaudati nel secolo breve, la confutazione del cosiddetto “stato leggero”, l’idea aberrante della colpa originaria oggi legata al debito contratto… Non solo Bevilacqua dice qualcosa di sinistra, ma la dice con una chiarezza problematica esemplare. Detto questo, mi sento allora autorizzato a riportare qui un elenco di considerazioni critiche e di possibili obiezioni (to be continued…)

1) Nel nobile consesso mancano alcuni ospiti che sarebbero stati fondamentali (mentre far rappresentare da Friedman l’intera tradizione liberale è un po’ mettersi le cose facili). In particolare: Proudhon, che non capiva la dialettica (come Tocqueville) ma che aveva intravisto l’autoritarismo di Marx e più che di socialismo “scientifico” (micidiale illusione) parlava della centralità del bisogno di giustizia; Leopardi, che più di chiunque altro ha meditato sulla natura (restiamo creature gettate sulla terra, condannate a invecchiare e a morire, dice Tocqueville) auspicando (nella “Ginestra”) una lotta di tutti contro il comune nemico (mente il marxismo sulla questione del limite oscuro e naturale dell’esistenza ha delegato troppo al positivismo più bolso); Herzen, il pensatore libertario che ha mostrato come i fini troppo lontani nel tempo sono sempre un inganno (contano quasi solo i “mezzi”).

2) Unico autore contemporaneo citato è sir Ralf Dahrendorf (e il nostro Carlo Cipolla)! Senza nulla togliere all’illustre “baronetto” politologo, forse c’era di meglio: Sennett, Nancy, Castoriadis, Ivan Illich…

3) La tirata di Marx contro il nostro tempo (la tendenza a farsi gregge delle persone) e le strategie pervasive di marketing (ci indurrebbero ad acquistare anche prodotti di cui non abbiamo bisogno) non mi convince, né mi pare in fondo “marxista”: le merci non sono mai imposte né interamente calate dall’alto. Vi è interazione tra alto e basso. L’iPhone – un prodotto di eccellenza tecnologica – è stato immaginato e disegnato da ex fricchettoni californiani (sottopagati) pensando a ciò che loro stessi desideravano di più, alla possibilità di comunicare facilmente con chiunque, etc.! Non ne abbiamo bisogno per la sopravvivenza? Certo, ma allora dovremmo rinunciare a 4/5 del nostro stile di vita.

4) Sulla violenza le critiche (radicali) al marxismo (la violenza levatrice della Storia, etc.) le avrei fatte citando almeno Simone Weil: ogni guerra, come la guerra di Troia, si dimentica le sue ragioni, mentre l’uso della forza sfigura per sempre chi la usa e chi la subisce. Compagni, ancora uno sforzo: Saul Alinsky, inventore del sit-in e di tecniche di disobbedienza passiva, organizzatore dal basso di comunità a Chicago negli anni ‘30, è assai più “eversivo” di Che Guevara!

5) Il Nietzsche di questo consesso, benché dipinto correttamente come pessimista incorreggibile e critico della modernità, mi sembra troppo poco di destra, come invece era! Non dimentichiamolo, voleva gli operai ridotti a schiavi, senza la “finzione” del diritto di sciopero e cose analoghe!

6) Sugli States. Bevilacqua accoglie equanimemente opinioni diverse, però si capisce che è un po’ più dalla parte di chi li demonizza. Ora, dal punto di vista “dell’essenza” (i filosofi prediligono l’essenza) può anche darsi che tra democrazia americana e Germania nazista non ci siano differenze rilevanti. Ma basta aver vissuto negli Stati Uniti una settimana per capire come invece i “dettagli” sono tutto, e circola ovunque un senso di libertà vertiginoso, a noi sconosciuto (un musicista nero, che viveva di espedienti, mi disse convinto: «I’m not poor, I’m broke», «Non sono povero, sono – temporaneamente – al verde»).

Torniamo al mio pieno consenso a queste pagine di Bevilacqua. Nelle conclusioni fa dire a Marx: «Dentro quest’ordine vecchio della società, questo involucro inerte di divisioni e confini… è sorta una sola umanità, spinta da un comune desiderio di uguaglianza». E parla di una “crisalide” uscita dalla membrana, una “nuova ragione del mondo”. E così Rosa Luxemburg, anche lei rivolta a Nietzsche (ma perché? tanto nessuno lo convince!), dirà che il bello, il buono e il giusto non sono spariti, «fanno parte della volontà di essere di tanti uomini e donne». Ed è la «storia più nobile del nostro passato».

Appunto: per la rivoluzione – qualsiasi cosa voglia dire questo concetto – è molto più utile il passato del futuro, la nostalgia di ciò che non è stato realizzato. Particolarmente felice la invenzione del personaggio di Caterina, la domestica napoletana di Tocqueville, che alla fine invita tutti al pranzo, alle penne al ragù di maiale cucinato a fuoco lento per tre giorni, etc. (per la signora Rosa, vegetariana, pasta aglio e olio)… Sano richiamo materialistico ad una concreta esperienza di piacere indispensabile per criticare l’esistente, che quel piacere nega ai più. In tedesco le parole “compagno” e “godimento” hanno la stessa radice, come a quel pranzo ben sapeva Marx, affondando la mano nel groviglio della sua grande barba. Filippo La Porta

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx con la rivoluzione come desiderio. Nasceva centocinquanta anni fa una delle protagoniste del pensiero della sinistra storica europea. Figura poco ricordata finanche dalle sinistre una ribelle in tutto, nella militanza e negli scritti. Emilio Gardini su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2021. Nel discorso che tiene il 31 dicembre del 1918 a Berlino, in occasione della fondazione del partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg fa un esplicito riferimento al documento rivoluzionario più famoso della storia moderna, il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Nella prima parte del discorso il richiamo al pamphlet è chiaro; il principale nemico della democrazia per i proletari è il capitalismo. Come per Marx ed Engels, per la Luxemburg, il compito dei rivoluzionari proletari è “fare del socialismo verità e realtà e sradicare il capitalismo”. In quel discorso, che sancisce la confluenza della Lega di Spartaco – partito socialista rivoluzionario che fonda con Karl Liebknecht, anni prima nel 1914 – nel partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg, in chiara polemica con i socialdemocratici, ribadisce come una parte del marxismo “ufficiale” avesse tra i suoi intenti quello di non considerare più necessaria la lotta di classe. Come se essa fosse inattuale e non più un mezzo per l’emancipazione delle masse. Tacciare i socialisti ribelli come anarchici e addirittura anti-marxisti aveva lo scopo di dimostrare l’impossibilità della vittoria del proletariato sulle borghesie e attenuare così le reazioni del popolo. Diversamente, la Luxemburg, convinta che solo il ruolo attivo del proletariato nei processi potesse innescare il cambiamento, considerava come “vero marxismo” quello che “lotta anche contro coloro che cercano di falsificarlo”. Definita dal filosofo Gyorgy Lucaks, la principale allieva di Karl Marx, che segue meticolosamente nei suoi scritti anche filosoficamente, morirà poco dopo quel discorso, il 15 gennaio del 1919, colpita alla testa con il calcio del fucile, poi giustiziata e gettata in un canale dai paramilitari di destra (Freikorps) appoggiati dal governo tedesco di Weimar nel corso della “rivolta di gennaio”, successiva agli scioperi e alle manifestazioni di massa che da tempo avevano luogo a Berlino. Il suo corpo verrà trovato mesi dopo. Uccisa meschinamente così la più potente filosofa rivoluzionaria marxista, una figura incredibilmente troppo poco ricordata finanche dalle sinistre, una ribelle in tutto, nella militanza e negli scritti. Rosa Luxemburg nasce il 5 marzo del 1871 a Zamosoc, in Polonia, ebrea, di famiglia colta e di educazione liberale. Si trasferisce ancora bambina con la famiglia a Varsavia dove inizia la sua militanza politica entrando a far parte del partito rivoluzionario “Proletariat”. Poi Zurigo nel 1889, dove scappa dalla polizia zarista che arresta molti membri del partito. Qui si laurea, continua la sua militanza politica e scrive nel 1897 la sua tesi di dottorato sullo sviluppo industriale in Polonia. Zurigo è una città dove la sua formazione politica acquisisce un carattere completo, il contesto sociale nel quale è immersa non è la Polonia sottomessa all’autoritarismo zarista che ha sempre sofferto. Studia a fondo i lavori di Marx ed Engels, i classici dell’economia, la filosofia e la letteratura. Oltre a coltivare il suo interesse per la botanica. È una donna colta, con talento letterario, passione politica e rivoluzionaria. Si trasferisce allora in Germania, il fulcro del socialismo e del movimento operaio di fine secolo, dove diventa cittadina tedesca grazie a un matrimonio “di forma”. In Germania tra il 1898 e il 1899 scrive il bellissimo saggio Riforma sociale o rivoluzione? nel quale critica la visione revisionista che in Germania sta prendendo piede e che considera la teoria di Karl Marx inadatta a interpretare le contingenze storiche del capitalismo industriale. In particolare polemizza con gli scritti di Eduard Bernstein, il più noto tra i “revisionisti”, il quale ritiene che la fine del capitalismo non sarebbe avvenuta come Marx preconizzava perché la sua capacità di adattarsi avrebbe addirittura annullato le crisi a venire. Di conseguenza, il compito dei socialisti non è più conquistare il potere e ribaltare lo “stato delle cose” ma accettare le condizioni del momento storico cooperando con i governi borghesi. Questo significa, per la Luxemburg, rinunciare alla possibilità di cambiare la società. “Tutta questa teoria – scrive nel saggio – non conduce ad altro che al consiglio di rinunciare alla trasformazione della società, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e di fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un mezzo della lotta di classe”. In modo molto deciso, come nel suo stile, ritiene che la riforma sociale rimane solo una illusione se si rinuncia alla trasformazione strutturale della società per la quale la partecipazione delle classi subalterne è necessaria. Il dovere dei socialisti rivoluzionari è liberare il proletariato dall’oppressione del capitalismo. Non bisogna illudersi delle riforme messe in atto dallo Stato borghese, perché queste sono false concessioni per indebolire le coscienze delle masse. Nel 1913 scrive L’accumulazione del capitale, la sua opera più importante, così in linea con le analisi di Karl Marx che Gyorgy Lucaks le dedica uno scritto nel 1921 – che poi diventerà parte dei saggi raccolti nel suo Storia e coscienza di classe – nel quale sostiene che la Luxemburg raccoglie l’interezza dell’opera marxiana “dopo decenni di volgarizzazione del marxismo”. Il suo “marxismo internazionalista”, mosso dal desiderio della rivoluzione, è sempre stato antiautoritario e avverso ai dispotismi. Nonostante considerasse necessario il partito e avesse guardato con entusiasmo alla rivoluzione bolscevica del 1917, reale capovolgimento dell’oppressione del potere zarista, temeva le possibili derive autoritarie conseguenti alla centralizzazione del potere nelle mani di pochi. Fu anche per questo ostracizzata da una parte del mondo socialista che la considerava una mistificatrice della rivoluzione. La sua visione socialista e il suo rifiuto per l’oppressione, nel mezzo della Grande Guerra dalla quale le borghesie non riescono a tener fuori i paesi ridotti alla sofferenza, sono l’opposto del dramma che avrebbe afflitto la Germania dopo la sconfitta. L’avvento del nazismo fu la barbarie. Suona coerente, dunque, il suo motto noto “socialismo o barbarie”, forse ripreso da Friedrich Engels come lei stessa dice, o da Karl Kautsky, come alcuni sostengono, chissà. Ma non è importante. È importante invece che il sogno rivoluzionario di Rosa Luxemburg, militante e intellettuale socialista, non si spenga e possa ancora oggi orientare nell’indifferenza della politica.

·        Comunismo = Fascismo.

Il manifesto del libero pensiero. Stufi di quella sinistra che vuole rieducare tutti, idea odiosa che genera ancora più odio. Paola Mastrocola, Luca Ricolfi su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. Caro Filippo, intanto grazie per l’attenzione e il tempo che hai voluto dedicare al nostro Manifesto! Se abbiamo ben capito tu dici: d’accordo, il clima di censura e autocensura del politicamente corretto sarà anche opprimente ed eccessivo, ma ben peggio la volgarità imperante. E tracci un quadro ahimè realistico e deprimente del mondo in cui viviamo, esprimendo appieno il tuo disagio, e disgusto, di vivere in questi tempi. D’accordo. Condividiamo totalmente. Non ci piace per niente il mondo in cui ci è toccato vivere. E lo abbiamo detto più volte (Luca ha scritto un libro per descrivere questa società, chiamandola “società signorile di massa” e descrivendo proprio quel che tu dici). Ma ci pare di aver preso molto esplicitamente le distanze dal mondo dei social e affini (talk show, politicanti e altri ciarlatani da circo), che non giudichiamo nemmeno degno di esser preso in considerazione. Anzi, a chi decide di navigare in quella melma diciamo: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Nessuna pietà e comprensione gli è dovuta. Certo, siamo consapevoli di un possibile equivoco sulla parola libertà, liberare, ecc. Noi intendiamo che si debba liberare il pensiero, e le parole, dalla dittatura del Bene. E tu dici che il pensiero e le parole, sui social e affini, sono già abbastanza liberati, anzi, sfrenatamente e spudoratamente liberi. Il rischio di questo equivoco ci è ben presente, faremo di tutto per chiarirlo in ogni occasione. Quindi la tua tesi è: c’è un “cattivismo” da combattere, dunque sopportiamo la promozione continua del Bene e la retorica buonista e il politicamente corretto, e anche l’ipocrisia (omaggio del vizio alla virtù, perfetto!), perché almeno cercano di porre un freno alla volgarità e cattiveria dilaganti, cercano in qualche modo di rieducare. Per carità, è vero che c’è molto di che combattere; e sicuramente una massiccia dose di super-io sarebbe bene che l’umanità la recuperasse! Come anche un po’ di sana e semplice educazione, e pudore. Dovremmo ricominciare a educare, e a educarci: e qui tutto parte dalle famiglie, dai nuovi genitori che di fronte ai nuovi figli ci sembrano davvero disarmati e impreparati, o forse solo molto distratti da altro (social, socializzazioni selvagge, intrattenimento-divertimento al primo posto, ecc.): sarebbero gli adulti i primi a dover essere ri-educati…

Il manifesto del libero pensiero, chi sono i veri nemici del politically correct

Ma avremmo 3 obiezioni:

1. Non ci piace un’élite che si arroga il compito di rieducare le masse….

2. Il politicamente corretto può anche avere un senso, ma i suoi eccessi no! E ora ci pare che stiamo arrivando a eccessi intollerabili, a un “follemente corretto” (di cui forniamo nel Manifesto svariati esempi, cui tu non fai il minimo cenno: com’è? Li approvi, questi esempi folli? Non ti disturbano??) che sinceramente non è accettabile, offende la nostra intelligenza, scavalca il senso comune, e sfiora il ridicolo.

3. C’è anche qualcosa di personale, che vogliamo aggiungere contro la tua tesi: noi abbiamo un grado di tolleranza verso l’ipocrisia e la retorica davvero molto basso…!! Ma soprattutto ci pare che questa imposizione dall’alto su cosa è bene dire e pensare sia non solo intollerabile, ma anche perniciosa. Sa di élite e di establishment, Filippo! E pensare che tutto ciò ci viene dalla sinistra, sinceramente… come fai tu ad accettarlo?

Inoltre noi abbiamo un dubbio (che nel Manifesto abbiamo espresso, forse troppo debolmente): e cioè, quanto più l’oligarchia dominante (dei pochi buoni e illuminati che noi chiamiamo Custodi del Bene) si affanna a dirigere le nostre vite, i nostri pensieri e le nostre parole, imponendoci dall’alto quel che è giusto secondo loro, tanto più l’odio del volgo cresce. E il volgo, si sa, si esprime come può, cioè in quei modi volgari, violenti e gretti che tanto ci indignano e che ci muovono, noi Custodi del Bene, a intensificare fino alla follia il politicamente corretto per lanciarlo contro l’odio e la volgarità sempre più dilaganti… Lo vedi che è un serpente che si morde la coda? Cioè, siamo sicuri che il rimedio all’errore non inneschi e moltiplichi l’errore?

Ma poi, gli odiatori sui social sono un’esigua minoranza di mentecatti, che come tali andrebbero trattati; invece i media, le case editrici, le agenzie pubblicitarie, li prendono molto sul serio, danno loro uno spazio enorme. Perché? Perché in fondo gli sono utilissimi. Li cavalcano per i propri scopi. Bisognerebbe invece semplicemente ignorarli, e staccare la spina, prendere chilometri di distanza, lasciandoli a sguazzare nel loro fango. Ma qui, il mondo della cultura (scelgo questo ambito perché noi vi apparteniamo), si faccia qualche domanda e si prenda qualche colpa: perché molti di noi scrittori, e artisti, attori, registi, stanno sui social? Perché accettano e condividono quel fango? Per autopromozione? Per stare sotto i riflettori? Per vendere? Per esserci, e non sparire nel nulla? Non dovremmo invece, proprio noi che viviamo tra le parole e i libri, affrontarlo quel nulla, e affermarlo con forza proprio in opposizione a quel mondo che tanto ci indigna? Quel nulla che poi nulla non è, lo sappiamo bene, ma è riprenderci quella riservatezza, quello spazio di silenzio, concentrazione, studio, pensiero (libero!), che poi sarebbe semplicemente la sostanza del nostro lavoro. O no? Sarebbe bella una riflessione sul mondo degli intellettuali (non mi piace la parola intellettuali, ma non ne trovo un’altra e spero tu m’intenda…), non trovi?

Ignorando dunque com’è giusto l’esigua e chiassosa e volgare minoranza che si affolla sui social, proviamo ora a pensare invece alla maggioranza, all’umanità media e non solo ai beceri volgari che ne sono le frange estreme; pensiamo alla gente normale, comune e normalmente perbene, alla gente che lavora, coltiva buoni sentimenti, ha una buona educazione, ma non è accecata da ideologie e non appartiene a nessuna setta di eletti né bazzica in luoghi di potere: ebbene, a noi non par giusto che questa gente venga giudicata male a priori, e quindi osteggiata e denigrata, e anche esclusa, solo perché non parla e non pensa come i potenti Detentori del Giusto e del Buono hanno deciso che si debba parlare e pensare! Sì, può anche venire esclusa: banalmente dalle cene con amici, e, meno banalmente, da relazioni utili, lavori, appalti, finanziamenti. Solo perché non appartiene alla parte giusta del Paese? E chi lo ha deciso qual è la parte giusta? Noi non vogliamo che esista una parte giusta (o migliore!) del Paese, che si è autonominata come tale e pontifica dall’alto. Soprattutto se quella parte appartiene al mondo della sinistra, che ci piacerebbe vedere più in sintonia col sentire della gente comune e non ergersi a giudice e giustiziere dell’umanità perduta…

Invece non abbiamo proprio capito l’ultima parte del tuo articolo, sulla disabilità. Non ci passa nemmeno per la testa di dire “afflitto” o “infelice” a uno che sta sulla sedia a rotelle! Ma come ti viene in mente? Semplicemente abbiamo detto che chiamarlo “persona con disabilità” non ci pare possa rendere meno dolorosa e più accettabile la sua condizione. E nemmeno che tale nuova definizione sia più rispettosa da parte nostra. Semmai molto più ipocrita!!! Sappiamo tutti bene che quel “con”, a dispetto del suo senso letterale, non aggiunge un bel niente e non ribalta certo quel che è e resta una mancanza! Dài, Filippo…! Sai benissimo che il rispetto, sempre dovuto, passa da ben altro: gesti, sentimenti… E sì, anche compassione, perché no? Mi ci fai pensare adesso… Dire afflitto o infelice è sottolineare la condizione svantaggiata dell’altro. Va bene, e allora? La pietà umana, la compassione alla lettera, come “capacità di provare dolore insieme all’altro”, al meno fortunato (cum+patior: con+patire), non è sempre stato un valore? Non lo è più? Cioè, vogliamo essere così tanto ipocriti da non compatire più la persona colpita da disgrazia, anzi da felicitarci con lei per la disabilità con la quale convive?? (ma si potrà dire “disgrazia”? No, non credo proprio!! E neanche “colpita”! Quali altre parole vogliamo trovare, Filippo?).

Non so, mi pare che stiamo dimenticando i fondamenti del nostro essere umani. La semplicità e tragicità della condizione umana, che dovrebbe tutti accomunarci, senza tanti distinguo, sottigliezze folli, e ipocrisie: siamo già tutti naturalmente inclusi, nella vita e nella morte, nella buona e nella cattiva sorte. Non abbiamo bisogno di distinguere e difendere e premiare, e inventare!, infinite categorie di derelitti, a cui dobbiamo naturalmente, per comune appartenenza al genere umano, tutto il rispetto e tutta la compassione e tutto l’aiuto, che non hanno bisogno di essere esibiti, legiferati, e imposti! Cerchiamo di recuperare qualche goccia di buon senso, e smettiamo di ergerci a Legislatori del Bene, perché produrremo solo i Sudditi del Male… Comunque, Filippo caro, la verità è che continueremmo all’infinito a parlare con te! Perché è bello dialogare tra di noi, e con te è un vero dialogo, con dubbi, e posizioni anche divergenti, ma con grande rispetto reciproco, e passione, ci pare di poter dire… Di nuovo grazie! Con la segreta speranza di rivederci presto, magari sugli scogli neri di lava di qualche isoletta vulcanica, che ci ricordano la nostra comune, e molto inclusiva, precarietà…

Paola Mastrocola, Luca Ricolfi

La storia del Grande balzo e dell’utopia comunista di Mao. Andrea Muratore su Inside Over il 14 novembre 2021. Quella di Mao Zedong è una delle storie più complesse e controverse nel panorama della Cina contemporanea. Il Grande Timoniere vede il suo giudizio storico condizionato principalmente dal suo più importante e tragico fallimento politico: le disastrose conseguenze del Grande balzo in avanti, il tentativo di accelerata modernizzazione della Repubblica Popolare compiuto tra il 1958 e 1961 per modificare profondamente la società e l’economia del Paese e risoltosi in una serie di catastrofi.

Il dilemma della collettivizzazione

Vinta la guerra civile contro i nazionalisti nel 1949, Mao Zedong e il suo regime si trovarono di fronte alla necessità di fare i conti con la necessità di gestire un Paese profondamente segnato da disuguaglianze interne, fondato su un’economia essenzialmente agricola, impoverito in termini di collegamenti interni e ben lontano dai livelli di sviluppo delle principali aree economiche del pianeta. Il socialismo che Mao intendeva realizzare nella Repubblica popolare iniziò a essere strategicamente programmato dopo la fine dell’impegno cinese nella Guerra di Corea. Tra il 1953 e il 1957 andò in scena il primo piano quinquennale volto a dare forma giuridica e pragmatica ai programmi economici e sociali del nuovo regime.

In Cina l’obiettivo della collettivizzazione delle terre andava di pari passo con il progetto delle prime forme di sviluppo industriale del Paese. In seno al Partito comunista cinese i moderati, rappresentati come figura di punta da Liu Shaoqi, membro dell’Ufficio politico del partito e presidente della Repubblica dal 1959, sostenevano che il processo avrebbe dovuto essere graduale e la collettivizzazione avrebbe dovuto attendere i progressi dell’industrializzazione, che avrebbe fornito all’agricoltura le macchine necessarie. Mao, invece, guidava una fazione più radicale che puntava in tempi brevi al socialismo realizzato.

Quando tra 1956 e 1957 la vicina Unione Sovietica iniziò a progettare il distacco dallo stalinismo e le fazioni moderate dei locali partiti comunisti iniziarono a far sentire la loro voce in Germania Est, Polonia e, soprattutto, Ungheria la leadership di Pechino si sbilanciò sempre di più, per reazione, verso il rafforzamento della linea radicale.

La cinica utopia di Mao

Si ripropose in Cina quanto successo nell’Unione Sovietica di fine Anni Venti e inizio Anni Trenta: la spinta sulla collettivizzazione delle campagne doveva andare di pari passo con un programma di industrializzazione capace di bruciare le tappe per portare a marce forzate il Paese nella modernità. Mao progettò il secondo Piano quinquennale destinato a prendere il via nel 1958 denominandolo come il piano del “Grande balzo in avanti”. Lo spirito di tale piano fu concretamente enunciato a Wuhan, nello Hubei, in occasione dell’VIII congresso del Pcc, tenutosi nell’inverno 1958, mentre le politiche per metterlo in atto erano in dispiegamento da un anno circa.

La fuga accelerata nell’utopia mirava inoltre a consolidare e rafforzare il controllo politico sulle periferie e sul mondo agricolo, forzando la mano di un processo di collettivizzazione che, tra alti e bassi, era proseguito senza traumi dal 1949 al 1958, portando all’istituzione di diversi nuclei d aggregazione: dapprima le Squadre di mutuo aiuto (5-15 famiglie), poi nel 1953 le Cooperative semplici (20-40 famiglie), infine nel 1956  le Grandi cooperative (100-300 famiglie).

Secondo Mao il “Grande Balzo in Avanti” doveva sostanziarsi in un gigantesco sforzo di produzione collettivo volto a cambiare sia la Cina che i cinesi, che a suo avviso erano troppo ancorati ai retaggi culturali e feudali del passato, facendo mobilitare le energie della cittadinanza e la manodopera portando la volontà collettiva a trionfare sulle difficoltà operative del parallelo processo di collettivizzazione e industrializzazione. Un forte slancio ideologico avrebbe dovuto, al ritmo di motti quale “Qualche anno di sforzi a di lavoro per diecimila anni di felicità”, oppure “Avanzare con entrambe le gambe” , portare i cinesi a convincersi di potersi sottrarre con le proprie energie alle difficoltà del passato. Per Mao i ritardi congeniti di sviluppo della Cina erano dovuti alla sua situazione medievale, da demolire per entrare ormai in un’era di rapida crescita e di prosperità continua.

Cuore pulsante del processo furono le 26mila Comuni popolari attorno a cui in media 5.000 famiglie avrebbero dovuto vivere in autosufficienza con i propri raccolti, il proprio ecosistema sociale ed educativo, le proprie aziende. Sulle Comuni veniva scaricato a valle il peso del processo di radicale ristrutturazione della Cina.

Ogni Comune avrebbe dovuto possedere, assieme ai campi, delle fornaci e degli altoforni di piccole dimensioni destinate ad essere utilizzate per la lavorazione dell’acciaio. Mao considerava il grano e l’acciaio come i pilastri portanti dell’economia e dichiarò che entro poco più di un decennio anni la Cina avrebbe raggiunto l’Inghilterra nella produzione di acciaio, spinto dalla visione comunitarista di Zeng Xisheng, primo segretario provinciale dell’Anhui, e parallelamente centinaia di milioni di persone furono chiamate a progettare, sviluppare o ristrutturare le infrastrutture idriche e di collegamento per l’irrigazione, il commercio, lo sviluppo della rete idraulica prevista come apparato di sostegno alle nuove forme di organizzazione.

Il disastro

In sostanza l’idea maoista del trionfo della volontà si doveva sostanziare in un grande sforzo di ingegneria sociale per portare a grandi passi la Cina nella modernità attraverso il socialismo. Il piano maoista scontava però alcuni problemi fondamentali:

Il rifiuto di qualsiasi logica di scala, premessa di dispersione di risorse e possibilità d’azione.

La mancanza di coordinazione tra le Comuni e le autorità centrali e il sostanziale sfruttamento delle prime come strumento di controllo della popolazione.

La mancanza di competenze tecniche nella gestione delle grandi opere idrauliche.

La sottovalutazione del ruolo culturale del retaggio ancestrale cinese nei rapporti sociali interni al Paese.

Questo sostanzialmente portava le Comuni ad essere di fatto prigioni per uomini liberi controllate dal Partito e dai suoi funzionari, perennemente vagliate dai censori maoisti e a costrette a sopravvivere solo grazie agli sforzi titanici dei lavoratori. Anche la scelta di decentralizzare la produzione siderurgica, mancando ogni ragionamento di politica industriale, deviò risorse e fu disastrosa.

In molti villaggi cinesi, i capi locali della zona furono torturati, umiliati e giustiziati e i leader locali del Pcc guidavano marce punitive, intimidazioni e violenze per portare i contadini a aderire al Grande balzo in avanti e ai suoi obettivi. Lo stesso Liu Shaoqi, il numero due del Partito scrisse parole pesanti sui metodi coercitivi utilizzati: “Quanto ai modi in cui le persone vengono uccise, alcune sono sepolte vive, altre sono giustiziate, altre sono fatte a pezzi, e tra coloro che vengono strangolati o massacrati a morte, alcuni dei corpi sono appesi agli alberi o alle porte”.

Unitamente a ciò, bisogna aggiungere due fattori importanti. In primo luogo Mao volle consolidare il Grande balzo in avanti lanciando la campagna contro i quattro flagelli che a suo avviso infestavano le città: il Pcc diede ordine di fare tutti gli sforzi per contrastare e decimare  i ratti, le mosche, le zanzare e i passeri. Questi ultimi, in particolar modo, erano indicati come il nemico pubblico numero uno, animali parassiti divoratori di raccolti. Per sterminarli, fu mobilitata in massa la popolazione rurale: i contadini davano la caccia ai passeri, li uccidevano in volo o nei rami, ne distruggevano nidi e ripari, ne uccidevano i pulcini.

Troppo tardi, nel 1960, i dirigenti cinesi si resero conto che i passeri non cacciavano solo i frutti dei raccolti dei contadini ma anche e soprattutto diversi insetti e parassiti. La loro eradicazione pressoché totale è ritenuta da diversi studiosi una delle cause del dilagare delle invasioni di cavallette in numero incontrollato.

In secondo luogo, l’invasione delle cavallette andò di pari passo con una serie di disastri naturali che tra il 1959 e il 1961 imperversavano ovunque nel Paese. Nel luglio del 1959, il Fiume Giallo ruppe gli argini nella Cina orientale, uccidendo due milioni di persone, nel Paese altre alluvioni e ondate di siccità aggiunsero caos e disordine e la mala progettazione dei lavori agricoli, delle opere idrauliche, delle Comune stesse amplificò il conto dei danni per la Cina.

La grande carestia

A valle di questo caotico processo subentrò una gravissima carestia data dalla complicità tra le utopie del Grande balzo in avanti e le situazioni contingenti sul piano naturale. Fu la carestia massicia che travolse la Cina, data dall’impossibilità di creare un sistema capace di resistere agli shock e dall’utopismo eccessivo, a condannare la rivoluzione maoista.

Lo storico Frank Dikötter, autore de La Grande Carestia di Mao, sosteiene che le conseguenze del Grande balzo in avanti avrebbero ucciso circa 45 milioni di persone. Di queste la stragrande maggioranza sarebbe morta principalmente a mezzo carestia, ma ci sarebbero stati almeno 2,5 milioni di morti tra assassinati, torturati a morte e vittime di stenti nei campi di prigionia. Tale stima è ritenuta la più radicale, ma anche calcoli più prudenti non riducono le stime sotto una cifra compresa tra i 22 milioni di morti (secondo l’ex titolare dell’Istituto nazionale di statistica cinese, Li Chengrui) e i 30 milioni calcolati da Judith Banister, direttrice di Global Demographics presso il Conference Board. Liu Shaoqi, nel parlare del problema del fallito piano nel 1962, sottolineò che formalmente il 30% della carestia doveva essere attribuita ai disastri naturali e il 70% a errori umani di vario genere.

Mao seppe uscire in maniera politicamente ardita dal disastro creato dalle sue politiche ammettendo, anzitempo, la responsabilità politica e puntando a consolidare la sua leadership morale sottolineando che erano stati i sabotaggi, i problemi interni e le condizioni avverse a frenare la marcia del socialismo cinese. Tanto da riproporre, pochi anni dopo, un nuovo piano di trasformazione integrale della società con la Rivoluzione culturale. Un processo accomunato al Grande balzo in avanti dalla negazione totale della volontà umana di fronte a un potere tanto autoritario quanto ottusamente pervasivo. E che provocò nuove devastazioni sociali e umane ritardando la marcia verso lo sviluppo di una Cina che l’avrebbe conosciuta solo a partire dagli Anni Ottanta.

Perché esiste il negazionismo. Il grande intellettuale Saul Friedlӓnder ha speso tutta la vita documentando l’Olocausto, cambiando il modo di studiare la storia. E di fronte alle irrazionalità di oggi, si interroga sul perché neghiamo.  Wlodek Goldkorn su L’Espresso il 29 settembre 2021. Saul Friedländer è l’uomo che, negli ultimi decenni, ha cambiato il modo di fare la Storia. Oggi 89enne professore emerito all’Università della California a Los Angeles, a partire dagli anni Settanta in una disciplina che cercava oggettività, aveva introdotto invece elementi di psicanalisi, ha valorizzato diari intimi mai pubblicati, lettere private e via elencando fattori di esplicita soggettività. Considerato il massimo storico della Shoah e dei genocidi, ha insegnato a Ginevra, Tel-Aviv, Gerusalemme, si è formato come studioso a Parigi, è di casa in quattro lingue: l’inglese, l’ebraico, il francese e il tedesco e questa conversazione in occasione del conferimento del premio Balzan (ogni anno ne sono attribuiti quattro, la metà della somma di circa 700 mila euro è destinata a progetti di ricerca) si svolge in video, in ebraico. La scelta della lingua non è casuale (ci torneremo), ma intanto cominciamo dall’inizio, dalla biografia del nostro interlocutore, se non altro perché il suo modo di fare Storia è legato alle esperienze da bambino e da ragazzo. Friedländer nasce nel 1932 a Praga, e gli viene dato il nome Pavel. Quando ha sei anni, e mentre la Cecoslovacchia è in pratica regalata a Hitler con il Patto di Monaco, la famiglia si trasferisce in Francia. Pavel diventa Paul. Ma anche lì arrivano le truppe naziste. I genitori affidano il ragazzino a un convento dove assume l’identità di Paul Henri‐Marie Ferland, bambino cattolico, mentre madre e padre tentano di passare il confine con la Svizzera. Respinti dai gendarmi elvetici, finiscono in un convoglio diretto ad Auschwitz. Nel frattempo il ragazzo cresce, vorrebbe diventare sacerdote, proseguire gli studi in un collegio di gesuiti, quando un prete, «un italiano, Pietro Lorigola» ci tiene a sottolineare, gli rivela che lui è ebreo e che mamma e papà sono morti. Paul Henri‐Marie decide di cambiare il nome in Shaul (diventato poi Saul), il contrario di un altro Shaul che sulla via di Damasco diventò Paolo. Raggiunge Israele, è comunista e sionista. In pochi anni cambia quattro volte nome e identità. Sullo schermo del computer appare la faccia di un signore mite, occhi che sorridono. Si scusa perché non sempre sente bene, e la distanza e il mezzo non aiutano. Alla domanda se, alla luce dell’uso che fa delle fonti e della sua biografia è concepibile l’oggettività nella Storia, risponde «certo che no». Fa una pausa: «Però uno storico deve cercare di avvicinarsi quanto più possibile a ciò che egli vede non come la verità storica, ma agli eventi come erano». Ride, perché la frase «gli eventi come erano» è una citazione di Otto Rank, psicoanalista viennese, allievo e assistente di Freud e l’uomo che applicò la psicanalisi allo studio della letteratura e delle arti. Chiarita e ribadita l’importanza del metodo che indaga il subconscio, Friedländer prosegue: «Lo storico deve essere conscio della sua posizione. E io parlo dalla posizione di una persona che da bambino ha vissuto nascosto e ha perso la famiglia. Sono conscio della mia soggettività, anche quando faccio il mio mestiere». Il riferimento è chiaro. Negli anni Ottanta la Germania fu teatro di quella che veniva definita la “Historikerstreit” (la lite degli storici: alcuni sostenevano che il nazismo fosse una reazione al bolscevismo con, a volte, allusioni alle origini ebraiche di quel fenomeno). Spiega Friedländer: «Molti storici tedeschi all’epoca pensavano di essere in grado di vedere il Terzo Reich da un punto di vista oggettivo, cosa che io cercavo di mettere in dubbio». Oggi invece tutti parlano della memoria, pochi della Storia «come è successa davvero». E allora qual è la differenza fra memoria e Storia? Friedländer risponde: «Lo storico dovrebbe allontanarsi dalla memoria, nonostante senza di essa non saprà scrivere la sua storia». Un paradosso che spiega così: «Io ho la memoria dell’epoca su cui lavoro. Per questa ragione ho capito che avrei dovuto includere nelle mie opere le voci degli ebrei che hanno scritto i loro diari e in maggior parte sono morti. Però, cerco di controbilanciare la mia memoria e i miei ricordi con gli strumenti classici dello storico». Prosegue parlando del ruolo dei testimoni. Infatti, il testimone raramente comprende il contesto, quello è un compito che spetta allo storico, appunto: «Io, nelle mie ricerche, ho usato spesso testimonianze di persone molto giovani che esprimevano tutta la loro soggettività, per esempio ragazzi comunisti del ghetto di Vilnius o di Lodz. Ma non cercavo le loro idee politiche, per me era ed è importante la loro testimonianza su quello che hanno visto, sui fatti concreti». Cambiamo tema. In Germania, in particolare, ma il fenomeno è comune a tutto l’Occidente, c’è discussione sulla unicità o meno dell’Olocausto rispetto ad altri genocidi e alla storia coloniale. «L’unicità della Shoah non è nel numero delle vittime, né nella sofferenza. Le persone soffrono tutte allo stesso modo e muoiono tutte da sole. La differenza sta nel contesto. Il contesto della Shoah è diverso da quello del genocidio degli armeni, dei tutsi, da quello perpetrato in Cambogia e della carestia in Ucraina negli anni Trenta. Prima di tutto c’è l’ossessione non tanto per gli ebrei, quanto per l’Ebreo e per l’Ebraismo. Si voleva “purificare” il mondo attraverso l’annientamento dell’ebraismo». Fa un esempio di quella ossessione: «Pensi che nel 1944, mentre l’Armata Rossa avanzava verso la Germania da Est e gli Alleati dall’Ovest, i tedeschi hanno pensato di radunare gli ebrei di Rodi e Kos, poche migliaia di persone, trasportarli ad Atene, da lì ad Auschwitz». Insomma, far sparire l’ebraismo dalla faccia della terra era quasi più importante della difesa del Paese. Continua: «La visione del mondo nazista era costruita sull’odio basato su una tradizione religiosa, cristiana, vecchia duemila anni. Non esiste una base di odio simile nei casi del genocidio coloniale, né ovviamente una simile ossessione». Quando parla dell’ossessione e cita i casi di Rodi e Kos sta dicendo che c’è una base di nichilismo radicale nel nazismo? «Non del tutto nichilismo», è la risposta, «visto che c’era un elemento di ideologia. Un’ideologia che contemplava il Male (l’ebraismo) e il Bene (la razza ariana). E che aveva una meta: il Reich millenario». C’era anche un’idea di Redenzione? «Sì, un mondo redento perché purificato dagli ebrei». Nei suoi lavori, Friedländer porta alla luce testimonianze di ebrei che non volevano vedere quello che stava succedendo, lettere in cui si dice che persone siano state mandate a lavorare all’Est, mentre sappiamo che la destinazione erano le camere a gas. Noi citiamo la testimonianza di Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia sui miliziani del Bund, il partito socialista degli ebrei, che salirono sui treni per Treblinka convinti di andare a lavorare (i tedeschi avevano distribuito loro un tozzo di pane e un po’ di marmellata). La domanda è sul meccanismo che uno storico esperto di psicoanalisi certamente conosce: la negazione della realtà, dell’evidenza, come tratto comune della condizione umana, in situazioni estreme. «Guardi», dice Friedländer, «negare la realtà non è un’esperienza solo delle epoche difficili. Ci sono cose che chiunque di noi non vuole o non è in grado di guardare, affrontare e immaginare». Vale anche per chi rifiuta le notizie sulla pandemia? Un momento di silenzio, poi Friedländer risponde: «Asteniamoci da paragoni con l’Olocausto. Però esiste il fenomeno del rifiuto delle notizie. Io non so quali sono le motivazioni intime di coloro che non si vaccinano. So però che si tratta di un fenomeno che ha un fondamento politico, di destra e delle teorie cospirazioniste». All’ipotesi che forse il problema è nel rifiuto delle teorie scientifiche, perché il sapere è sempre più frammentato e forse è in crisi lo stesso paradigma dell’illuminismo, con la sua fede nel Progresso e nell’emancipazione dall’ignoranza, Friedländer reagisce con un lungo silenzio. Poi sorride, guarda la moglie che sta non lontano ma fuori dal campo visivo della telecamera, fa un respiro e lentamente dice: «È un fenomeno che viene dalla visione disfattista della realtà e del mondo che ci circonda. Spesso anch’io trovo attrazione per il pessimismo e spesso sono profondamente pessimista, ma non sono negazionista né provo attrazione per qualunque negazionismo». Aggiunge: «È la postmodernità, il rifiuto della ragione». A questo punto è lecito fare un’altra ipotesi. Friedländer è un maestro (lui ride quando sente la parola maestro) che ha usato strumenti della postmodernità: fonti non ortodosse, massicce dosi di soggettività, ma a un certo punto si è fermato nell’opera della decostruzione. Ha capito che l’illuminismo va criticato ma che non possiamo farne a meno. Friedländer risponde così: «Sono d’accordo sul fatto che l’uso delle fonti non ortodosse che lei ha menzionato è l’unica strada per arrivare a quello che comunque vogliamo conservare. La cosa più importante per me è opporsi a ogni tentativo di banalizzare la Shoah. E quindi reagisco. Ma di tutto il resto sono stanco». Obiezione: per reagire deve ribadire che il metodo scientifico esiste, che la Terra è una sfera e non è piatta e che la fisica quantistica non abolisce il mondo sensibile e misurabile. Deve in altre parole usare la postmodernità per difendere la modernità. «Sì, mi piace la formulazione: usare la postmodernità per restare fedeli alla modernità», sospira. Si potrebbe chiudere qui ma vale la pena di tornare alle questioni di identità. Friedländer sarebbe potuto essere un prete: «Forse cardinale come lo fu l’arcivescovo di Parigi, e ebreo, Lustiger», scherza. «Quando padre Lorigola mi ha rivelato chi ero, avevo capito che tornare ebreo era la mia strada. Però per due anni ero ambedue le cose: cattolico ed ebreo». Ora scrive testi su scrittori di doppia e plurima identità, come Kafka e Proust (non tradotti in italiano, purtroppo). «Kafka faceva parte di un ambiente simile a quello di mio padre: Praga, ebrei integrati, lavoro per una compagnia di assicurazioni. Ma poi, avendo avuto un problema assai complesso di identità, mi sono sentito molto attratto da Proust con il suo ebraismo, qualche volta negato o rimosso. Mi interessava ovviamente l’aspetto della memoria. Molte cose su Proust le ho capite grazie alla mia attrazione per la psicoanalisi. E poi, ecco, il bacio di addio di mia madre quando mi lasciò nel convento mi ha fatto venire in mente la scena che apre la “Recherche”, il bacio della buonanotte della madre del narratore». E di Israele, che pare così importante per la sua identità che dice? «Speravo che non mi avrebbe posto questa domanda. Ma visto che insiste e che abbiamo scelto di parlare in ebraico rispondo: quando si tratta delle cose più importanti, essenziali, della questione essere o non essere, ecco in quei casi io sono israeliano. E sono contento che ci sia oggi un governo che sembra più normale di quello precedente. Pensi che fortuna che noi due parliamo mentre l’epoca di Netanyahu è ormai alle nostre spalle».

Luca Beatrice per “Libero Quotidiano” il 22 settembre 2021. Una rivoluzione liberale, per conquistare i diritti civili e contro ogni forma di dittatura. Si fa sempre bene a ricordare le repressioni che gli omosessuali sono stati costretti a subire dai regimi fascista e nazista, eppure si tende a svicolare rispetto all'analogo se non peggiore trattamento inflitto loro dal comunismo. Basterebbe ritornare a un episodio storico scivolato nel silenzio. Era il 1977 quando l'allora presidente Carlo Ripa di Meana dedicò la Biennale di Venezia ai dissidenti dell'Unione Sovietica, tra le polemiche dell'intellighenzia della sinistra e all'imbarazzo del Partito Comunista che portò alle dimissioni di Vittorio Gregotti e Luca Ronconi dal cda. Fu la Biennale del "caso Paradzanov", il regista cinematografico arrestato nel 1974 e condannato a cinque anni di lavori forzati per omosessualità. Quindici giorni prima dell'inaugurazione, Angelo Pezzana, leader fondatore del Fuori movimento per i diritti degli omosessuali, venne espulso dall'Urss, dove si era recato a sostegno dello stesso Paradzanov. La protesta di Pezzana proseguì a Venezia con un appello per la liberazione del regista e la libera circolazione dei suoi film. Basterebbe insomma conoscere la storia per provare un certo imbarazzo nei confronti della parola comunista, eppure Vladimir Luxuria, una delle più attive militanti per la causa Lgtb, non esitò a candidarsi nelle file del partito della Rifondazione. Decisione alquanto contraddittoria. Per sostenere una posizione così forte nell'Italia di cinquant'anni fa c'era bisogno di persone coraggiose ed eretiche, caratteristiche che ad Angelo Pezzana non sono mai mancate. Oltre al Fuori, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, è stato creatore delle prime librerie internazionali Hellas e Luxemburg, tra i promotori del Salone del Libro. Pezzana entrò in politica nelle liste del Partito Radicale, parlamentare per solo una settimana, e dovette affrontare diversi attacchi frontali per le sue collaborazioni giornalistiche a Il Giornale, Libero e Il Foglio, nonché per aver difeso le posizioni di Israele, altro tema scottante in seno alla sinistra. Non dovrebbe essere difficile capirne i principi che lo hanno distinto dal branco: la libertà e i diritti vanno sempre difesi contro ogni forma totalitaria e discriminatoria. Per quanto imperfetta, la democrazia è una conquista della specie umana e chiunque scende a patti con le dittature ne è in qualche modo connivente. La libera espressione dell'individuo sia il criterio sovrano da difendere, soprattutto se schierata fuori dal coro. Mezzo secolo fa a Torino, dunque, nacque il Fuori e oggi si apre una giusta celebrazione al Museo della Resistenza, della Deportazione, della Guerra dei Diritti e della Libertà presieduto dal filosofo Roberto Mastroianni. Giusta e necessaria analisi su un decennio, cominciato nel 1971, quando l'Italia si apprestava a entrare nel periodo più difficile e sanguinoso del secondo dopoguerra. Sotto forma di una rivista-bollettino militante, uscito per qualche tempo in edicola, Fuori raccontava con un linguaggio non troppo dissimile dalla sintassi politica postsessantottina le battaglie per difendere l'alienabile diritto alle proprie libere scelte. Lo faceva con toni talora aspri, scagliandosi contro il potere, contro la Chiesa, contro la famiglia e le istituzioni. Se il primo bersaglio era la Democrazia Cristiana e le forze più reazionarie e chiuse, trapelava il medesimo fastidio per l'ottusità e l'antimodernismo del Pci. Non per questo si poteva definire Fuori come un organo dell'estrema sinistra, nessun apparentamento con Lotta Continua, Fronte Popolare e gli altri giornaletti dell'epoca. Dissacranti, libertini e libertari insofferenti verso qualsiasi disciplina di partito o gruppuscolo; negli anni la rivista ha assunto un tono a tratti ludico, sarcastico, indisciplinato, senza per questo dimenticare la serietà delle battaglie su cui era impegnata. Vi parteciparono voci dissonanti: filosofi, scrittori, artisti (come non ricordare la genialità di Marco Silombria che trasformò la grafica da ciclostile in una rivista illustrata e trasgressiva in stile anni '80). Funzionava in particolare quando parlava esplicitamente di sesso, di letteratura, di poesia, di cultura insomma, superando le noiose diatribe interne alla sinistra impegnata a discutere su altri fronti paludati, l'omosessualità era troppo marginale per far parte di un programma ufficiale. A cominciare da Angelo Pezzana erano ragazze e ragazzi coraggiosi, fieri della propria differenza che portavano come uno stile di vita quotidiana, non allestita occasionalmente per la parata. Fu una rivoluzione necessaria anche per chi la pensava altrimenti e non a caso trovò autentica familiarità con le battaglie radicali di Marco Pannella, liberale, antifascista, anticomunista. La mostra dura un mese ed è accompagnata da un prezioso libro edito da hopefulmonster, tra testimonianza e attualità, in perfetta coincidenza con le elezioni comunali. Ecco, chi a sinistra teme passi indietro circa il rispetto dei diritti civili nel caso vincesse il centrodestra a Torino, si tranquillizzi pure. Considerare la libertà come il più prezioso dei beni nasce soprattutto dalle nostre parti.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 7 settembre 2021. In un impeto di temerarietà, il ministro Andrea Orlando ha accusato Giorgia Meloni, secondo la quale il reddito di cittadinanza è metadone di Stato, di non sapere che sia la povertà. Non vorrei indagare le biografie dell'uno e dell'altra: forse, per farsi un'idea su chi abbia più o meno sintonia coi poveri, basta notare i sondaggi di Fratelli d'Italia nelle periferie, la fama di partito da Ztl del Pd, e pure l'evaporazione dei Cinque Stelle, quelli che la povertà l'avevano abolita. Io, fossi Orlando, non sarei sicurissimo che siano tutti in attesa di un sussidio, probabilmente la stragrande maggioranza preferirebbe un lavoro dignitosamente pagato. Preferirebbe, in un ristorante, non essere retribuita a norma per un terzo delle ore e a nero per i restanti due terzi (il 73 per cento dei ristoranti italiani vive di irregolarità). Preferirebbe non vedersi offrire un lavoro stagionale a 3-4 euro l'ora, sette giorni la settimana. Preferirebbe non fare i conti con la concorrenza disperata degli immigrati schiavi nei campi a dieci euro al giorno. Preferirebbe non portare le pizze in casa altrui per una media di ottocento euro al mese. Preferirebbe vivere in un Paese nel quale tre milioni di lavoratori, un milione sotto i trent' anni, non fossero pagati meno del salario minimo di nove euro lordi l'ora. Preferirebbero una politica che, invece di cavarsela distribuendo sovvenzioni, si decidesse a traslocare nel Terzo millennio per affrontare con strumenti nuovi i problemi nuovi sorti con la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione. Non so se questo significhi conoscere i poveri, di sicuro significa conoscere gli uomini. 

L’inizio della fine del comunismo europeo. Stefano Magni su Inside Over il 13 agosto 2021. Il 13 agosto di sessant’anni fa, nel 1961, le autorità della Repubblica democratica tedesca eressero di sorpresa il Muro di Berlino. La sorpresa, soprattutto, fu devastante per i berlinesi. Dal 1945, dopo la resa della Germania nazista, la capitale tedesca era stata suddivisa in quattro settori, uno per ciascuno degli eserciti alleati. I sovietici, che avevano conquistato materialmente la città l’8 maggio 1945, tenevano la parte più grande, tutti i quartieri orientali, incluso il Mitte, cuore del centro storico. Americani, britannici e francesi si “accontentarono” di tre settori più piccoli che comprendevano tutti i quartieri ad occidente della porta di Brandeburgo e del Reichstag, poi riunificati in Berlino Ovest. Quella parte di città, divenne una grande enclave della Repubblica federale tedesca incastonata nel cuore del territorio della Repubblica democratica. Essendo la zona di passaggio più facile, rispetto al confine fortificato e militarizzato fra le due Germanie, la popolazione dell’Est che riusciva a recarsi a Berlino aveva più probabilità di passare all’Ovest. Non era comunque un compito facile. Ben 251 persone vennero uccise dalle guardie di frontiera, nei checkpoint al confine fra l’Est e l’Ovest della città, dal 1949 al 1961. Ma il 13 agosto 1961 per i berlinesi fu uno choc: per la prima volta la divisione si materializzava sotto forma di un muro di cemento e filo spinato, sorvegliato da torrette di guardia, riflettori, cani addestrati al combattimento e uomini armati con l’ordine di “sparare per uccidere” a chiunque tentasse di passarlo. I video e le foto girate nelle prime ore e nei primissimi giorni della costruzione del muro testimoniano la foga con cui i berlinesi, presenti sul posto, si lanciarono dall’altra parte, rischiando la vita, prima che il Muro diventasse impassabile. In un celebre video, un Vopo, militare della Polizia popolare, salta uno sbarramento di filo spinato e defeziona all’Ovest. In un’altra sequenza mozzafiato, una ragazza si lancia nell’attraversamento del confine e, per pochi angosciosi secondi, i capelli le rimangono impigliati nel filo spinato. Una famiglia cala una parente anziana da una finestra di una casa sulla linea di confine. L’operazione spericolata viene interrotta dalla polizia che lancia un fumogeno nell’appartamento. Nelle testimonianze dei tedeschi orientali di allora si legge di incursioni improvvise di poliziotti seguiti da muratori muniti di mattoni, cazzuole e cemento: le finestre che davano sul muro furono improvvisamente murate. Di colpo, decine di migliaia di cittadini si ritrovarono prigionieri in casa loro. I primi a fuggire furono i più fortunati. Gli altri dovettero investire tutto il loro ingegno e coraggio per riuscire nell’impresa. La principale fu attraverso il “Tunnel 57”. Iniziato nel 1963 da un gruppo di studenti tedeschi occidentali e da un defezionista della Germania Est, Joachim Neumann, il 3 e il 4 ottobre del 1964 permise a 57 tedeschi orientali (da cui il nome dato successivamente al tunnel) di scappare ad Occidente. Fra questi fuggitivi c’era anche la fidanzata di Neumann, rimasta nell’Est e appena scarcerata. Mentre gli studenti dell’Ovest progettavano il tunnel, nell’aprile del 1963, nell’Est, un soldato di leva dell’Esercito Popolare si schiantava deliberatamente contro il nuovo muro, a bordo del mezzo corazzato che guidava, un veicolo trasporto truppe Spw-152. Non riuscì ad aprire una breccia e, cercando di arrampicarsi per saltare dall’altra parte, venne colpito e ferito dalle guardie di frontiera. La polizia della Germania occidentale, però, reagì rispondendo al fuoco e fu solo così che Wolfgang Engels (questo il suo nome) riuscì a passare dall’altra parte, più morto che vivo, ma libero. Un mese dopo, fu un cittadino austriaco a passare da una parte all’altra del confine, a bordo di un’auto sportiva, una Austin Healey Sprite decapottabile. Fece solo una piccola modifica: rimosse il parabrezza, prima di presentarsi con la capotte abbassata al confine fra Est e Ovest. Quando le guardie di frontiera gli chiesero di scendere, per un’ispezione, lui si sdraiò e premette l’acceleratore a tavoletta e l’intera auto, con lui e la sua fidanzata tedesca orientale a bordo, passò sotto il passaggio a livello. Più ingegnoso fu Klaus-Günter Jacobi che trasformò la sua piccolissima auto Bmw Isetta per accomodarvi l’amico Manfred Koster e passare il confine senza far notare nulla di strano. Quattro anni dopo, nel 1967, il nuotatore e ingegnere Bernd Boettger, combinò i suoi due maggiori talenti per costruire un mini-sommergibile con cui, a nuoto, passò la frontiera sul Baltico. Fu una missione rischiosissima: anche la frontiera marittima era pattugliata e sulle spiagge la polizia aveva trovato il modo, con l’uso di agenti chimici, di individuare in tempo reale ogni impronta lasciata dai fuggitivi. Il 16 settembre, non dal mare, ma dall’aria, il meccanico Peter Strelzyk e il muratore Günter Wetzel, passarono il confine, assieme alle loro famiglie al completo, usando una mongolfiera da loro costruita. Ci provarono due volte, fra il primo e il secondo tentativo di evasione riuscirono a sfuggire alla caccia scatenata dalla Stasi, il temibilissimo servizio segreto interno della Repubblica democratica. Con metodi meno rocamboleschi, ma non meno rischiosi, molti altri cittadini della Germania Est riuscirono a passare dall’altra parte della cortina di ferro, viaggiando in altri Paesi comunisti da cui era meno difficile uscire. La principale porta per l’Occidente fu sicuramente l’Ungheria. E nell’ultimo anno di divisione fra Est e Ovest, nel 1989, fu soprattutto l’apertura della frontiera ungherese con l’Austria che rese superfluo il Muro, ponendo le premesse per il suo abbattimento. Altre mete scelte come ponte per l’Occidente furono la Jugoslavia (allora neutrale) e la Bulgaria (confinante con la Grecia e la Turchia). Ma non era un compito facile. In tutti i Paesi del blocco sovietico la polizia collaborava con la Stasi per arrestare i tedeschi che provavano a fuggire. Meno nota è la storia di coloro che non ce l’hanno fatta. Almeno 140 persone, secondo le statistiche ufficiali, sono morte sul Muro. Di queste, ben 100 sono tedeschi orientali abbattuti dalle guardie di frontiera, 30 sono stati colpiti per errore durante tentativi di fuga, 8 sono le guardie di frontiera uccise, da chi fuggiva armato, da altre guardie di frontiera o da disertori. E fu proprio questa la peculiarità del Muro, che lo rende differente da tutti gli altri muri: serviva a tenere dentro i cittadini del regime che lo aveva costruito. In Occidente non lo abbiamo mai del tutto compreso, come dimostra una retorica molto di moda che lo paragona ai muri di frontiera (per controllare l’immigrazione), ai muri del Sud Africa (per separare i bianchi dai neri) o al muro di Israele (per difendere le città dai terroristi). Quando il presidente tedesco orientale Walter Ulbricht, d’accordo con Nikita Chrushev, decise di edificare il muro, lo fece perché l’emigrazione dei suoi cittadini stava svuotando il Paese. Dalla fondazione della Germania orientale nel 1949 all’estate del 1961erano infatti passati all’Ovest ben 3,5 milioni di tedeschi su 18 milioni in totale. Fu la prova tangibile del fallimento del sistema comunista, un regime da cui tutti volevano fuggire. Le energie che vennero spese per impedire alla gente di scappare non impedì comunque un netto declino demografico, fra fuggiti e non nati: da 18,3 a 16,4 milioni di abitanti, nei 40 anni esatti di storia della Germania Est. Contrariamente alla crescita demografica, da 51 a 62,6 milioni di abitanti, nella Germania Ovest, nello stesso arco di tempo. Si celebra in Europa la caduta del Muro il 9 novembre 1989. Ma il 13 agosto dovrebbe essere ricordata come la data in cui il comunismo, in Europa, iniziò il suo inarrestabile declino.

Partito comunista assolto (con voto bulgaro). Stalin e i fatti d'Ungheria contano poco. Matteo Sacchi il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. La giuria popolare scagiona il Pci guardando al "locale" e non al resto. Alla fine è andata come doveva andare. Con un bel 365 voti da una parte e 95 dall'altra, più una manciata di astenuti su un quorum totale di circa 500 votanti. Con un risultato bulgaro del 73% a favore, il Pci, martedì sera, è stato assolto da qualunque colpa verso la storia. Per fortuna non risultano purghe verso il 19% di votanti che invece ha pensato che dall'appoggio a Stalin sino ai fatti di Ungheria e la vicinanza al Kgb qualche responsabilità bisognasse pur attribuirla a Togliatti e compagni. Per carità, quello andato in scena, come da tradizione, a San Mauro Pascoli è soltanto un giocoso processo alla storia che si ripete ogni 10 agosto. Però gli anni scorsi le giurie hanno mostrato un diverso livello di severità. Per intenderci l'anno scorso giudicando i Vitelloni raccontati da Fellini si è arrivati ad un inedito pareggio. Quindi ad essere un fatuo viveur degli anni Cinquanta che fa il gesto dell'ombrello ai lavoratori si finisce sul filo di lana della condanna e ad aver detto che occupare l'Ungheria è una bella idea, e che i gulag sono quanto meno un male necessario, la si passa liscia. Era andata meno bene a Badoglio nel 2009 condannato con larga maggioranza sempre a Villa Torlonia. Evidentemente tutte le ambiguità dell'Otto settembre sono state meno perdonabili per il pubblico degli ambigui rapporti con Mosca. Ma con le giurie popolari sono rischi che si corrono. Anche se a essere sinceri, quando la giuria non era ancora popolare ma «qualificata» venne assolto Togliatti (nel 2008) anche se per un molto più risicato 4 a 3. Ma veniamo al processo di ieri dove in un certo senso sia l'accusa che la difesa sono nati da rami diversi del tronco del vecchio Pci. A mettere in luce le magagne del partito comunista più grande dell'Occidente è stato Giuseppe Chicchi, ex sindaco di Rimini ed ex parlamentare che è partito nel Pds ed è approdato a Leu. Non ha lesinato nelle accuse anche se ha chiaramente il cuore a sinistra: «Il Pci ha avuto un rapporto subalterno all'Urss e non ha avuto il coraggio di rompere quando in tante circostanza era possibile farlo. È stato un partito al guinzaglio che ha limitato persino la sua azione riformista in nome degli equilibri internazionali e ha sempre messo in primo piano gli interessi di Mosca. Berlinguer intuì i limiti di tutto ciò ma fu tardivo nella sua azione». E ancora: «Nel 1926 Gramsci scrive a Togliatti che si trovava a Mosca nel pieno delle purghe staliniane. In quella lettera Gramsci evidenzia la centralità della società civile; il processo rivoluzionario deve essere prima sociale poi politico. E questa è una visione che è mancata al Pci». La politologa Nadia Urbinati, a lungo collaboratrice dell'Unità e di Left (e anche di un Corriere della Sera sempre più spostato a sinistra) ha però rintuzzato ogni tentativo di «revisionismo». Secondo lei il Pci ha avuto «un ruolo centrale nella costruzione ed estensione della democrazia in Italia». Da abile difensore, ha relegato i contatti con Mosca a un fatto reale ma marginale. E con arguta scelta tattica ha puntato sul locale. Ha puntualizzato che il Pci ha sviluppato una particolarissima «capacità di governo nei territori in ambito amministrativo, fatta di servizi e pragmatismo nelle risposte, lontana dall'alone ideologico. Il modello emiliano-romagnolo nasce in questo modo». E cosa succede quando si deve mettere sul piatto una amministrazione accudente a casa propria (anche a costo di buffi tutti regalati alle generazioni a venire) rispetto ai gulag o alle purghe a casa degli altri? Che Stalin o Kruscev diventano quasi simpatici. Chapeau! alla difesa, un po' meno alla memoria storica o al «proletari di tutto il mondo unitevi!».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Bernardo Attolico, il visionario dell’asse Roma-Mosca. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 2 agosto 2021. L’Italia può vantare di aver dato i natali ad alcuni dei diplomatici, degli strateghi e degli statisti più capaci che la Terra abbia mai conosciuto. Uomini che hanno reso possibile l’impensabile: dall’unificazione della penisola delle mille signorie sotto un’unica bandiera allo sventolamento del tricolore su Tientsin, giungendo successivamente, durante l’epoca della guerra fredda, all’egemonizzazione del Mediterraneo allargato e al ruolo di ponte tra i blocchi. Quella dell’Italia è la storia di una nazione che, benedetta dalla geografia – perché messa al centro del Mediterraneo – ma maledetta dagli eventi umani – perché circondata da grandi potenze che sognano di vassalizzarla –, viene periodicamente proiettata alta ad sidera dai suoi figli più estrosi, uomini di medio-bassa statura che non temono di competere con i giganti. E nel novero dei figli più geniali e temerari partoriti dal ventre dell’Italia va inserito il (quasi) dimenticato Bernardo Attolico, il diplomatico che sognava di dare vita ad una linea micaelica che unisse Roma e Mosca.

Origini, formazione e i primi passi nella diplomazia. Bernardo Attolico nasce a Canneto di Bari il 17 gennaio 1880. Viene allevato in una famiglia che valorizza lo studio e le attitudini individuali, trovando nei libri una ragione di vita e nel supporto dei genitori uno stimolo che lo avrebbe portato all’università La Sapienza di Roma. Dopo aver conseguito una laurea in giurisprudenza nel 1901, due anni dopo ottiene il titolo di insegnante di materie economiche negli istituti di istruzione secondaria superiore. Né la giurisprudenza né l’economia, però, ne soddisfavano gli appetiti di grandezza, perché Attolico, invero, voleva entrare nel mondo della diplomazia. Un sogno che avrebbe realizzato poco alla volta, a partire dall’anteguerra, quando viene inviato dal governo Giolitti IV tra Stati Uniti, Canada e Turchia per svolgere missioni attinenti alla sfera dell’emigrazione italiana all’estero. Forte di un curriculum internazionale, nel 1914, all’alba della Grande Guerra, gli viene affidata la segreteria della Commissione reale per i trattati di commercio. Un ruolo che gli permette di conoscere l’Inghilterra – nella quale viene inviato per rappresentare il ministero dell’agricoltura, dell’industria e del commercio –, di approfondire la sua conoscenza delle relazioni internazionali e di migliorare la sua immagine presso gli ambienti politico-diplomatici del regno d’Italia. Nel dopo-Caporetto, cause l’aggravarsi della guerra e il peggiorare delle finanze italiane, Attolico viene incaricato di attrarre aiuti di tipo economico e di reperire beni strategici utili alla prosecuzione delle ostilità e all’allontanamento dello spettro della bancarotta. Una missione che, svolta con solerzia, lo avrebbe fatto entrare nelle grazie dall’allora titolare del ministero del Tesoro, l’economista Francesco Saverio Nitti, e ne avrebbe cementato la fama di diplomatico sagace, integro e fedele alla bandiera. Molto presto, con la nascita di un nuovo ordine – il fascismo –, quella rinomanza acquisita negli ultimi anni dell’era giolittiana lo avrebbe condotto ai vertici della diplomazia italiana.

Sognando l'asse Roma-Mosca. La Grande Guerra è finita, sull’Italia aleggiano gli spettri della guerra civile e del collasso economico e una nuova forza politica va facendosi largo tra le macerie dell’epoca giolittiana: il fascismo. Servirà del tempo prima che Benito Mussolini si accorga di Attolico, che avrebbe trascorso il primo dopoguerra tra Francia, dove partecipa alla conferenza di pace di Parigi in qualità di consigliere tecnico della delegazione italiana, e Stati Uniti, dove viene spedito nelle vesti di commissario generale per gli affari economici e finanziari da Nitti, nel frattempo divenuto primo ministro. Oramai considerato all’unanimità un astro in ascesa del risorgente mondo diplomatico italiano, alla ricerca di rivalsa per la “vittoria mutilata”, Attolico, una volta tornato in Europa, passerà più tempo a Ginevra – presso la neonata Società delle Nazioni, della quale scalerà rapidamente i vertici, divenendone vicesegretario – che a Roma.

Il richiamo della patria è, però, più forte di ogni altra cosa, perciò Attolico cede alle lusinghe di Mussolini, che prima lo manda in Brasile per guidare l’ambasciata di Rio de Janeiro – l’allora capitale, poi sostituita da Brasilia nel 1960 – e dopo, nel 1930, gli affida l’incarico della vita: il dossier Unione Sovietica. Tra Roma e Mosca intercorrevano buoni rapporti – Mussolini riconobbe la legittimità della nuova entità statale nel 1924, ovvero nove anni prima di Washington –, il governo fascista abbisognava di alleanze funzionali ad aggirare le diffidenze dell’Europa occidentale e il fattore Terzo Reich non era ancora entrato in gioco: tutto sembrava lavorare a favore di una svolta diplomatica dalle implicazioni straordinarie. Attolico, un realista con l’acume per gli affari – si era formato, del resto, su tavoli negoziali incentrati su commercio ed economia –, non avrebbe tradito le elevate aspettative in lui riposte dal Duce. Nel 1933, dopo un triennio di residenza a Mosca in qualità di ambasciatore, Attolico porta a casa un pacchetto di accordi di cooperazione economica e mette la firma sul patto di amicizia italo-sovietico. Una missione delicata, quella di Attolico, alla luce delle profonde differenze tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica – sia in termini di ideologia sia in termini di politica estera –, ma che avrebbe esperito con la diligenza e l’avvedutezza tipiche del diplomatico, persuadendo le controparti a valorizzare i punti in comune in luogo di focalizzarsi sulle divergenze, a concentrarsi sull’immediato anziché sul lungo termine e a ricercare la cooperazione laddove possibile e desiderabile.

Una cooperazione limitata ma produttiva e guidata da un obiettivo comune – l’emancipazione dalla condizione di quasi-isolamento diplomatico a livello internazionale –, che, nell’ottica di Attolico, avrebbe potuto e dovuto spianare la strada ad una distensione allargata e durevole, facendo dell’Italia il ponte tra Ovest ed Est e mettendola simultaneamente al riparo da eventuali manovre sovietiche nell’Europa orientale.

La fine del sogno di un asse italo-sovietico e la morte. Completato l’incarico moscovita e accontentato il Duce, Attolico, nel 1935, viene nominato ambasciatore a Berlino. Anche in questo caso, operando la strategia già collaudata dell’adattamento al contesto unito all’immedesimazione nell’altro, sarebbe sceso a patti con la Germania nazista riconoscendole il titolo di erede dell’impero guglielmino (Drittes Reich) e la legittimità delle pretese sulla Mitteleuropa. Il futuro si sarebbe scritto più tra Berlino e Mosca che tra Parigi e Londra, Attolico ne era convinto, da qui la necessità di siglare dei patti di amicizia propedeutici allo stabilimento di alleanze suscettibili di trasportare Roma verso settentrione e levante, liberandola dall’infelice status di eterno Stato proletario. Pacifista convinto, Attolico avrebbe voluto estendere la “diplomazia dei patti d’amicizia” all’intero continente e accolse con freddezza la svolta hitleriana di Mussolini, palesata dall’adesione al patto anticomintern, perché consapevole delle conseguenze, in particolare la fine del sogno di un asse Roma-Mosca e la perniciosa ideologizzazione della politica estera italiana.

Ogni tentativo di impedire la satellizzazione dell’Italia fascista alla Germania nazista si sarebbe rivelato infruttuoso, così come improduttive sarebbero state le aperture di canali di dialogo con i diplomatici-ombra ruotanti attorno al Führer alla vigilia dell’invasione della Polonia – che Attolico aveva pronosticato con largo anticipo, mettendo in guardia gli increduli Mussolini e Galeazzo Ciano. Altrettanto inutili sarebbero state, infine, le pressioni esercitate sul Duce circa l’imperativo di non entrare in guerra, né a fianco di Berlino né di nessun’altra potenza. Pedinato dai tedeschi, perché consapevoli del suo lobbismo antiguerra, ed emarginato dagli italiani, perché alleati di Hitler, Attolico avrebbe trascorso gli ultimi anni di vita come ambasciatore presso la Santa Sede. Muore a Roma il 9 febbraio 1942, all’acme della seconda guerra mondiale, lasciando un legato dal valore inestimabile ai posteri che lo avrebbero succeduto. Posteri del calibro di Giorgio La Pira, Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, che nel 1975, in piena guerra fredda, avrebbero estratto dal bagaglio della tradizione diplomatica nostrana lo strumento preferito di Attolico – il patto d’amicizia –, impiegandolo per ritrovare un’amicizia perduta: quella con Mosca. 

I comunisti non mangiavano i bambini, li mettevano nei gulag: tutto rimosso, proprio come gli orrori di Bibbiano. Redazione domenica 21 Luglio 2007  su Il Secolo d'Italia. Esiste una pagina poco nota della storia del comunismo di recente riportata alla luce nel saggio Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) di Luciano Mecacci (Adelphi) dove si rievoca l’orribile destino di sette milioni di orfani della Russia post-rivoluzionaria. Ne ha scritto di recente Stenio Solinas in un articolo del Giornale, di questo “popolo coperto di stracci”, un popolo infantile “in fuga dalle case dove hanno visto morire i loro genitori o dove regna ormai la fame, in fuga dagli orfanotrofi dove di fame e di freddo letteralmente si muore, in fuga dalle colonie dove la violenza dei compagni si mescola all’indifferenza degli educatori”. Bambini trasformati dalla fame in cannibali “tanto da dover chiudere i cimiteri per evitare che i cadaveri più recenti vengano trasformati in cibo (ma no, ancora i comunisti che mangiavano i bambini? Ma sì, però bambini comunisti…)”. “In seguito – scrive ancora Solinas – è la politica a prendere il posto della fame e della carestia. Lo fa costituendo un soviet «per la difesa dell’infanzia» e persino una «commissione per il miglioramento dell’infanzia». «Non saranno gli stranieri a sfamare i nostri bambini» dice il capo della Ceka Dzerzinskij, espellendo le associazioni filantropiche straniere, sciogliendo gli enti di beneficenza nazionali ancora privati. È la cosiddetta «Ceka dei bambini», orfanotrofi di fortuna, gremiti all’inverosimile: «L’aria nelle camere è terribile. Non ci sono gabinetti, i bambini fanno tutti i loro bisogni nelle camere, persino nei letti. Sono così impregnati di questo fetore che quando per caso si ritrovano all’aria aperta stanno male»”. Uno spettacolo che lasciò di stucco Georges Simenon in viaggio in quella che avrebbe dovuto diventare la gloriosa patria del socialismo realizzato. Il problema venne alla fine risolto portando la maggiore età a 12 e mettendo il lager al posto dell’orfanotrofio di fortuna. Gli orrori del Novecento, allora, sono molto più numerosi di quanto si pensi e soprattutto dietro il volto buonista e umanitario della sinistra odierna esiste una storia culturale rimossa che è fatta anche di queste pagine. Nessuno stupore dunque che dinanzi all’inchiesta di Bibbiano vi sia chi fa spallucce o, peggio, si schiera dalla parte degli educatori. L’ideologia sempre prima delle persone, allora come oggi.

Stalin è un dittatore ma le plutocrazie fanno finta di niente. Benito Mussolini il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell'editore Luni uno stralcio della nota Ancora Mosca del 5 novembre 1943.

Benito Mussolini 5 novembre 1943. In questi giorni molto fosforo cerebrale viene distillato e molto inchiostro di calamai e di rotative viene consumato per commentare la conferenza di Mosca. Anche la nostra radio vi ha dedicato alcune note, ma forse non è superfluo riprendere in esame l'argomento ora che abbiamo sott'occhio il comunicato nel suo testo integrale. Naturalmente le stilografiche si dividono in due grandi categorie: quelli che esaltano e quelli che minimizzano. Noi non apparteniamo né agli uni, né agli altri, ma alla categoria di coloro che vedono le cose come sono e non già come si vorrebbe che fossero e riteniamo in ogni caso che sia pericolosa tattica polemica quella di considerare bagatelle le faccende ingrate che bagatelle non sono. Ora la conferenza di Mosca è un avvenimento di innegabile portata politica, almeno nella fase attuale della guerra, e, per quello che si è deciso, e reso di pubblica ragione, e per quanto forse è stato deciso ed è rimasto segreto. Non è senza importanza che la conferenza ha avuto luogo a Mosca, nella capitale del comunismo, nella città che fu considerata fino a ieri, specialmente in Inghilterra e in America, come un temutissimo e terribile centro d'infezione morale per tutti i popoli della terra. È vero che oggi Stalin non porta più il berretto da operaio bensì quello da Maresciallo: tuttavia, salvo poche concessioni di carattere tattico, la sua dottrina è quella del grande profeta Lenin cioè anti-capitalista, anti-democratica, anti-liberale, e persino anti-socialista. Non risulta che a tutt'oggi il bolscevismo abbia aggiunto a se stesso un'altra parola come liberale, democratico o socialista. Il bolscevismo, insomma non è diventato meno totalitario di ieri o si è battezzato liberal-bolsce vismo per far piacere alle casseforti della City o di Wall Street. È praticamente quello di prima e di sempre, ma da due anni è diventato esigente e prepotente perché si batte: anche gli altri si battono, ma su una scala molto minore. Così stando le cose non c'è da stupirsi se Stalin ha atteso immobile come Budda che le montagne si muovessero. Che per il giovinetto Eden la tratta Londra-Mosca non rappresenti una impresa eccezionale non è da stupire, tanto più che egli da pellegrino ha già percorso altra volta la stessa strada; ma per Corder Hull, già entrato nella tarda vecchiaia, il viaggio costituisce un primato. Egli ha varcato con disinvoltura un oceano e tre continenti per conoscere e riverire Stalin e magari riceverne gli ordini. Ammettiamo, con spirito di cavalleria, che in questo ragazzo di settant'anni c'è della stoffa, almeno dal punto di vista della fisica vigoria. Siamo così dinanzi ad un indiscutibile clamoroso successo del Cremlino, non soltanto dal punto di vista della forma, ma della sostanza. Giunti a questo punto non ci avventuriamo a esaminare la portata delle sette dichiarazioni programmatiche. Sono importanti e impegnative per le tre Potenze che riaffermano la loro comune volontà e solo il dinamismo della guerra ed eventi impreveduti possono modificare o capovolgere i loro piani. La storia, soprattutto la recente, è un ampio melanconico cimitero di comunicati. Molto più interessante è, per noi italiani, constatare che i tre personaggi hanno dedicato molto del loro tempo all'Italia e per sollevarli un poco da questa fatica è intervenuto anche un quarto signore, il Ministro della Cina di Chiang Kai-shek. Naturalmente i quattro hanno dichiarato, dogmaticamente, che bisogna distruggere il Fascismo. Pare che questo Fascismo sia veramente duro a morire. Hanno creato inoltre una commissione consultiva per le questioni italiane. Ne fanno parte le tre Potenze più la Francia (quella di De Gaulle), la Grecia e la Jugoslavia, la quale però sino ad oggi è defunta. Il cobelligerante Vittorio Emanuele è graziosamente ignorato, né potrebbe essere altrimenti. Dall'8 settembre, data infame nella nostra storia, l'Italia non è più soggetto ma semplicemente oggetto della politica altrui. Ecco la constatazione che dovrebbe penetrare come un ferro infuocato nelle carni degli italiani. Conosciamo gli appetiti territoriali delle genti d'oltre Dinariche. Una rinata Jugoslavia chiederà che i suoi confini siano portati per lo meno al Tagliamento e nell'Adriatico ci verrà forse lasciata Lissa per ricordarci la disfatta navale del 1866. Benito Mussolini

Il fondatore dell'operaismo. Il sogno di Mario Tronti: accompagnare Lenin in Inghilterra. Michele Prospero su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Una volta Mario Tronti ha scritto che, più ancora che uno studioso marxista, egli si sentiva un filosofo comunista. E, in effetti, questa sua autocollocazione è, al compimento dei 90 anni, la più pertinente per coglierne il tratto biografico caratteristico. Non che non vanti frequentazioni dei classici, al contrario. Ha peraltro curato, appena trentenne, la pregevole raccolta degli Scritti inediti di economia politica di Marx. E da terribile ragazzo timido, allievo di (un molto giovane anche lui) Lucio Colletti, egli si è formato sulla base del paradigma scientifico di Marx che negli anni ’50 veniva contrapposto allo storicismo che imperversava (non senza una certa abilità nell’investimento egemonico togliattiano) quale volto canonico della cultura del Pci. Al contributo eterodosso di Della Volpe riconducono i suoi primi lavori. Nella calibratura della “logica specifica dell’oggetto specifico” Tronti però aggiunge subito una sua cifra molto personale. E la astrazione determinata dellavolpiana diventa in lui l’astrazione reale, l’ipostasi che si concretizza in dominio dispotico del capitale suscettibile di una indagine empirica dentro la nuova fabbrica altamente tecnologizzata nella quale si assiste al diventare soggetto della forza lavoro. Su questo farsi cosa-potere delle idee egli esercita una certa influenza anche su alcune pagine di Colletti. Il quale, negli anni successivi, percependo, sulla scia di Kelsen e Popper, che assumere una contraddizione reale come qualcosa di esistente (ipostatizzazione) è incompatibile con la logica aristotelica del sostrato adialettico dirà addio al marxismo. Per Tronti invece quegli elementi mistico-teologici, che della Volpe aveva scovato in radice come fondamento nascosto della dialettica hegeliana denunciata per questo come costruzione irrazionale e romantica, saranno pur distanti dal nucleo empirista di un “galileismo morale” ma sono componenti reali dell’agire collettivo, miscele che operano sul piano delle credenze, sedimentazioni delle fedi. Anche per questo innesto nel suo lavoro teorico di componenti ricavate dal grande pensiero conservatore, negli anni settanta Tronti va oltre la celebrazione della “rude razza pagana” che senza dio e senza l’oppressione della tirannia dei valori prepara un solitario assalto al cielo in nome di un immanentismo radicale. L’incontro con Schmitt e la teologia politica si colloca in questo clima di esplorazione dei fondamenti aurorali del politico moderno in occidentale inteso come il sovrano che costruisce con il volere intransigente un nuovo ordine. E’ lo stimolo di Machiavelli o del Seicento inglese che lo proietta oltre lo schema diadico Operai-Capitale per accarezzare i fondamenti dell’autonomia del politico e con essa il gusto per la sapiente tattica e il senso della manovra che con l’affondo risolutivo rovescia la scacchiera. Se le categorie del politico introducono alle suggestioni della grande decisione, all’accarezzamento della produttività della situazione di eccezione, per Tronti accompagnare Lenin in Inghilterra rimane pur sempre il vero obiettivo. Proprio “Massimiliano Lenin” si conferma in lui come il modello esemplare di un disincantato realismo politico. Con l’organizzazione e la strategia, una minoranza coesa spezza la catena di cartone del capitale nella sua posizione periferica di estrema debolezza e, trionfando in una perfetta condizione di eccezione, inaugura un tempo radicalmente discontinuo. La passione trontiana per la grande politica, per il Novecento come tempo della politica, è in fondo anche nostalgia di Lenin, di un pensiero estremo che con il successo pragmatico ha scandito le tappe costruttive della politica di massa in occidente. Con la lettura di Hobbes si affianca, al potere costituente che occupa il palazzo d’Inverno con una mossa di eccezionale virtù del Soggetto, la nozione di un potere complesso, cioè di una macchina impersonale di procedure e comandi. “Laboratorio politico” è in fondo il tentativo di scomporre gli ingranaggi del grande Leviatano, di descrivere gli specifici dispositivi funzionali del sistema astratto comprendendolo nei suoi ritmi temporali con uno sguardo che si colloca oltre ogni rassicurazione affidata a una qualche grande sintesi comunque a disposizione. L’agire accorto, lo chiama Tronti, lo avvicina con sempre maggiore forza al culto del gioco politico non subalterno di chi decifra le alchimie delle istituzioni e quindi anche al metodo di Togliatti che nel tempo egli celebra come figura esemplare della politica che si organizza muovendosi con destrezza tra mediazione e conflitto. Il passaggio dal totus politicus al trionfo del totus antipoliticus tormenta molto l’ultimo Tronti che detesta il politico dilettante alla ricerca del selfie perché del tutto noncurante di quel serissimo fondo tragico che, sulla scia di Weber, egli ritiene connaturato organicamente all’agire politico. All’avvocato del popolo preferisce ancora l’avvocato Lenin. Nel suo assoluto odio per l’antipolitica che estirpa progetto, complessità, radicamento sociale, immagine di un nemico Tronti vede il compimento di una profonda catastrofe culturale. In fondo, nel dualismo che oggi gli appare incomponibile tra pensare estremo ed agire accorto, egli percepisce di vivere nel tragico e per questo il sentimento della scissione lo apre a curiosità mistiche o al tragitto molto soggettivo di uno spirito libero rispetto alla chiacchiera postmoderna. La sconfitta del movimento reale non va per lui esorcizzata e però, per non renderla insuperabile e definitiva, occorre sempre guardare le cose alla radice per modulare organizzazione e ipotesi di nuovi conflitti di classe. Forse Mario per i suoi Novant’anni gradirebbe un saluto che egli stesso proponeva ai tempi del Centro Riforma dello Stato. Alla vigilia di Natale, con i compagni che lavoravano con lui, brindava, anche con la giusta dose di ironia naturalmente, alla rivoluzione. Che per lui, consapevole del disastro degli esperimenti del Novecento ma non per questo vinto, continua ad essere il destino.

 La biografia. Chi è Mario Tronti e quali opere ha realizzato. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Nato il 24 luglio 1931 a Roma, da una famiglia molto povera del quartiere Ostiense, negli anni Cinquanta si laureò alla Sapienza con Galvano della Volpe e cominciò una militanza nel Partito Comunista sempre molto vivace e indipendente da un punto di vista intellettuale. Professore di Filosofia nell’Università di Siena per più di trent’anni, con Renato Panzieri e Tony Negri, fondò nel 1961 “Quaderni Rossi”, in cui le idee del cosiddetto “operaismo” trovarono una prima formulazione. Due anni dopo, in dissenso teorico con il gruppo, Tronti fondò “Classe operaia”. Nel 1966 esce il suo volume più importante: Operai e capitale, la cui influenza in una vasta costellazione ideologica della Nuova sinistra non solo italiana fu impressionante. Avvicinatosi a Berlinguer, proseguì la sua ricerca sul politico a cavallo fra impegno e studio. Senatore nella XI e nella XVII legislatura, prima per il Pds poi per il Pd, negli ultimi anni si è sempre più avvicinato a posizioni cattoliche e in senso lato spiritualistiche. Fra sue opere: Hegel politico (Treccani, 1975), Sull’autonomia del politico (Feltrinelli, 1977), La politica al tramonto (Einaudi, 1998), Per la critica del presente (Ediesse, 2011), Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (Il Saggiatore, 20165); Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015 (Il Mulino, 2018).

Compie 90 anni. Mario Tronti compie 90 anni, quanto è attuale l’inattualità del fondatore dell’operaismo. Corrado Ocone su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Mario Tronti compie domani novant’anni. È l’occasione per riflettere sulle idee, indubbiamente originali, di un pensatore la cui attività si è svolta lungo un percorso di tempo molto ampio, che quasi naturalmente ha attraversato diverse fasi e che oggi, per certi aspetti, è approdata ad un esito mistico-religioso. Il suo influsso, palese o meno, è stato enorme: prima di tutto nella stagione della contestazione e della rapida evoluzione del sistema sociale e politico italiano, cioè negli anni Sessanta; e poi ultimamente in una sorta di rivisitazione e trasvalutazione delle idee di allora che ha accompagnato l’elaborazione e la diffusione (in primo luogo non italiana) del paradigma cosiddetto dell’Italian Thought. Apparentemente, Operai e capitale, l’opera in cui Tronti raccolse le sue idee nel 1966 e che è il suo capolavoro, suona come quanto di più inattuale possa esserci: la fabbrica non esiste più, il conflitto sociale si svolge lungo altre faglie e comunque è stato addomesticato, i nuovi deboli sono tanti e persino invisibili e senza parola, di classi stesse è difficile parlare sia perché ne manca la coscienza sia perché trionfa un regime di individualismo e narcisismo spinto e di massa. Ma ecco, come vuole Nietzsche, nulla è più attuale dell’inattuale, e Tronti ritorna proprio per il suo sforzo di pensare fino in fondo le contraddizioni, affrancandosi in qualche modo da quella “teologia politica” che è la cifra della modernità, e per tanti motivi l’oggetto della nostra crisi. Affrancarsene, non significa ovviamente risolvere il problema che ne è alla base. Anzi, in qualche modo, significa prendere atto che esso è irrisolvibile. La mossa teoretica dell’operaismo, come in generale fu chiamata la corrente di pensiero in cui Tronti iscrisse la sua azione, fu quella di allontanarsi dall’ideologia ufficiale del comunismo italiano, quel marxismo gramsciano di impostazione storicistica che era fatto di mediazioni e forte senso della storia (lo aveva già fatto, in verità, su un altro versante, Galvano Della Volpe, il maestro di Tronti). Tronti insistette allora sull’elemento soggettivo, volontaristico, della politica, e quindi dell’orizzonte in cui inscrivere l’azione della classe operaia. Lo fece però non nel senso in cui lo aveva fatto a suo tempo Lenin, e in parte anche Gramsci, cioè in un orizzonte comunque dialettico di conciliazione degli opposti, ma in un orizzonte che voleva tenere aperto il conflitto in un’ottica di inconciliabilità fra amico e nemico che ricalcava per molti aspetti, per sua stessa ammissione, le idee di Carl Schmitt e quelle di Ernst Junger autore di un testo dedicato proprio all’operaio-massa dell’ epoca tecnica dell’industria. Fu questa stessa spregiudicatezza intellettuale, che non divideva astrattamente i riferimenti in “destra” e “sinistra”, che portò sempre più Tronti a spostare l’attenzione al più generale tema della politica. E qui il riferimento divenne quasi naturalmente per lui il Segretario fiorentino. Machiavelli, in verità, aveva provato a dare un altro spessore alla risoluzione del tema della politica rispetto a quello che fui poi predominante della linea hobbesiana. La paura, la cui produttività politica è del tutto evidente ad esempio in questi nostri tempi di immigrazione e pandemia, veniva da lui non neutralizzata, o rimossa, ma integrata nell’orizzonte stesso del politico, al di là di ogni possibile conciliazione. La lotta non può spingersi mai fino ad eliminare l’avversario, così come la paura non può mai raggiungere il “rischio zero” come oggi pure si vorrebbe con la pandemia. D’altronde, diceva Machiavelli, Roma raggiunse il suo apice, e fu di esempio al mondo, proprio nel periodo della sua massima conflittualità. E Orson Welles ricordava nel Quarto Uomo, con punta beffarda e provocatoria, che Firenze al tempo dei Medici, in cinquant’anni di tumulti e “ammazzamenti”, aveva pur generato Leonardo e Michelangelo, mente gli svizzeri in secoli di pace assoluta non avevano prodotto se non l’orologio a cucù. L’esito escatologico, o meglio messianico, Tronti, come si diceva, lo ha trovato ultimamente, se pur solo tendenzialmente, in un altro ordine di discorso, che potremmo dire più “spirituale”. Che in altro modo, a ben vedere, per affermare il fondo tragico, irrisolvibile, che è della vita, e in primis della politica. L’operaismo di un tempo, ha scritto, ha svolto una “funzione di opposizione attiva, consistita nel trattenere, nel ritardare quella deriva umanitario-filantropica della stessa figura dell’operaio di fabbrica, rimasta ormai l’ultima casamatta da conquistare per l’universalismo borghese”. Ho l’impressione che il clima di conformismo intellettuale che domina oggi nel discorso pubblico occidentale a Tronti non piaccia affatto. Corrado Ocone 

La caduta del muro di Berlino. Quando lo stalinismo diventò giustizialismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Novembre 2019. La sera del 9 novembre del 1989, un giovedì, iniziarono a filtrare le prime notizie da Berlino. All’epoca ero il caporedattore dell’Unità. Venne nel mio ufficio il capo del servizio Esteri, Nuccio Ciconte, e mi disse che il nostro corrispondente dalla Germania, Paolo Soldini, aveva telefonato e aveva detto che era in corso una conferenza stampa, tenuta da un funzionario del governo, e che si annunciavano novità clamorose. Un’ora dopo si seppe che il governo della Germania comunista, seppure con alcune limitazioni, riapriva il varco tra le due Berlino, cioè tra la parte della città libera e quella controllata dal governo filosovietico. Quel varco era chiuso dal 1961, sbarrato da un muro. Fu come un segnale, quella dichiarazione del funzionario. Iniziò il finimondo. Durante la notte i giovani berlinesi abbatterono il muro a colpi di piccone. Era finito il comunismo. Così, improvvisamente e in modo pacifico. Nessuno se lo aspettava, anche se le riforme introdotte da Michail Gorbaciov, segretario del partito comunista sovietico, erano state clamorose e avevano iniziato ad aprire una prospettiva di libertà. Gorbaciov era alla testa del Pcus da poco più di tre anni e l’idea che si stava diffondendo, in Occidente, era che forse il socialismo era riformabile. E cioè che venivano smentite le teorie sulla irriformabilità affermate in modo perentorio dopo il 1968, quando i carrarmati russi avevano stroncato la primavera di Praga guidata dal comunista democratico Alexander Dubcek. Quella sera cadde il muro e nei mesi successivi si sgretolarono uno ad uno, e sempre senza violenze e scosse, tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale: Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia. L’unico paese teatro di violenze fu la Romania, dove i rivoltosi trucidarono il Presidente Nicola Ceaușescu e sua moglie. La Jugoslavia, che era fuori dall’orbita di Mosca, restò ai margini per un paio d’anni, quando iniziarono le secessioni e poi la guerra. La Russia restò formalmente comunista fino al 31 dicembre del 1991, ma ormai il destino era segnato. La teoria della irriformabilità del comunismo fu confermata: il comunismo non aveva retto alle riforme di Gorbaciov ed era crollato. In Italia le conseguenze furono molto grandi. La caduta del muro fu un’ondata potente. L’Italia era il paese che aveva ospitato per mezzo secolo il più potente partito comunista d’Occidente, quello di Togliatti e Berlinguer, ma anche quello che teneva sotto la sua egemonia la letteratura, la poesia, il cinema, il teatro, e anche gran parte della filosofia, del diritto e delle scienze. Il partito comunista non era più un partito stalinista, aveva scelto la via riformista da parecchi anni, ma manteneva la suo interno delle spinte staliniste e autoritarie molto forti. Che facevano parte della sua weltanschauung, e anche della sua etica, della sua cultura. Quella sera, mentre rifacevo la prima pagina, venne nel mio ufficio uno dei più vecchi ed autorevoli giornalisti dell’Unità e mi sconsigliò di aprire il giornale a nove colonne su Berlino. Mi suggerì prudenza, disse che era meglio aprire ancora il giornale sulla politica italiana e dare in modo sobrio la notizia tedesca. «Domani – mi disse – sentiamo il partito e valutiamo meglio». Non gli diedi retta e con l’autorizzazione del direttore, che era Massimo D’Alema, aprimmo il giornale a tutta pagina e con un titolo gridato. Però il senso comune del partito era quello: prudenza. La Russia è la Russia, il comunismo è comunismo, e quel muro magari è anche criticabile, ma comunque sta lì a garantire la saldezza del marxismo. Dal 9 novembre, giusto 72 anni e due giorni dopo la rivoluzione di Ottobre e la presa, da parte di Lenin, del Palazzo d’Inverno, il Pci restò senza comunismo. Neanche un mese dopo quell’avvenimento il suo segretario, Achille Occhetto, annunciò che il partito cambiava nome. E il vecchio stalinismo, dove finiva? I ritratti di Stalin ancora campeggiavano in qualche sezione. Per esempio nella mitica sezione Ponte Milvio di Roma, che era la sezione di Berlinguer ed era stata uno dei fortini della Resistenza romana nel ‘43 e nel ‘44. Da quel giorno Stalin cambiò faccia. Lo stalinismo si riciclò. Come? Divenne giustizialismo. Guardate che non c’è una enorme distanza tra stalinismo e giustizialismo. L’idea di fondo è quella: che gli avversari politici vadano annientati, e che questa operazione possa avvenire solo con un’ azione di forza, non con la democrazia. Lo stalinismo è sempre stato questo. Anche se ormai non si sperava più nell’armata rossa e nell’invincibile baffone, l’idea restava quella lì: la ricerca del comunismo, e del potere, attraverso un colpo di mano, o un colpo di scena, e usando forse diverse dalle proprie. Cos’era (cos’è) il giustizialismo? La scelta di affidare alla magistratura la lotta contro gli avversari. Il comunismo – dicevamo – finisce ufficialmente il 31 dicembre del 1991 con lo scioglimento del partito comunista sovietico. Tre settimane dopo, a Milano, viene arrestato un certo Mario Chiesa, funzionario di seconda fila del Psi, e scoppia il caso Tangentopoli. Solo tre settimane dopo la fine del comunismo. È da quel momento che il giustizialismo diventa una categoria fondamentale nella lotta politica. Le divisioni, i conflitti, non sono più di classe. La sinistra decide che deve autoriformarsi, ma non riesce a vedere bene qual è stato il suo limite. Il suo limite è stato in tutti questi anni quello di avere un concetto molto ristretto di libertà. Di avere sempre considerato la libertà una variabile dipendente del proprio progetto. Dopo la caduta del muro invece la sinistra decide di ridimensionare la sua idea di uguaglianza ma di accentuare, anziché frenare la sua spinta illiberale. Nasce così il partito filo giudici, e poi l’appoggio al partito dei Pm, la delega alle Procure. Nasce così il girotondismo. Nasce anche il travaglismo e nascono i 5 Stelle, che sono la fusione tra la spinta giustizialista della sinistra e il tradizionale autoritarismo della destra non liberale.

Vedete: cadono ancora, cadono su di noi le macerie del muro. Fanno ancora male.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il PCI fu un’eresia cristiana, Maritain ci vide giusto. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 15 Novembre 2020. L’avvicinarsi del centesimo anniversario della scissione di Livorno sta favorendo l’uscita di vari libri che cercano di trarre dei bilanci equilibrati di quello che è un pezzo di storia d’Italia. Devo dire che più leggo questi volumi più sono portato a valorizzare la chiave di lettura, oggi poco nota, che risale a Jacques Maritain, cui si deve la puntuale definizione del comunismo come “ultima eresia cristiana”. Eresia perché separava la verità cristiana dell’istanza della redenzione del mondo dall’altra verità non superabile, anche e soprattutto dalla politica, della finitezza umana, che si esprime nell’idea del peccato originale. Nel 1944 in poche ma penetranti pagine di Cristianesimo e democrazia, Maritain ne parla come di un’eresia «fondata sulla negazione coerente e assoluta della trascendenza divina, un’ascesi e una mistica del materialismo rivoluzionario integrale», ma formula anche una profezia, segnalando la possibilità che «una rinascita del pensiero e dell’azione democratica riconcili con la democrazia, col rispetto delle cose dell’anima, coll’amore della libertà e col senso della dignità della persona… molti comunisti per sentimento e molti di coloro che un senso di ribellione contro le ingiustizie sociali rende inclini al comunismo» perché, e questo è il punto chiave, «i comunisti non sono il comunismo». Ossia, come avrebbe poi tradotto Giovanni XXIII, la complessità di giudizio su un movimento storico non può essere ridotto all’analisi dell’ideologia da cui esso scaturisce. Perché la profezia di Maritain si realizzasse, come in effetti è realizzata dopo il 1989 in Italia, unico caso in cui una parte maggioritaria, ancora quantitativamente consistente, del movimento storico che aveva conservato i nomi e simboli del comunismo ha accettato, con varie contraddizioni e problemi, di rimettersi in gioco, era però necessario superare il mito della riformabilità interna dell’Urss. Un mito che, paradossalmente, l’esperienza gorbacioviana, destinata a seppellire quel sistema, aveva confermato nel Pci tra 1985 e 1989. Come era possibile immaginare la riformabilità interna? A partire dal mito dell’innocenza originaria dell’affermazione del comunismo in Urss. Anche qui ci troviamo di fronte a una secolarizzazione di quanto avviene nelle Chiese cristiane: di fronte alle contraddizioni anche gravi del tempo presente si riparte dalla vitalità del messaggio originario per produrre degli aggiornamenti. Il punto è che le chiese cristiane partono da un avvenimento che è impossibile vedere come negativo o contraddittorio (una persona che è crocifissa), ma qui l’origine, l’azione decisiva di Lenin, si può descrivere come positiva? Rispondono puntualmente Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro ampio testo Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia, edito da Marsilio: «È evidente che l’azione di Lenin, con lo scioglimento dell’assemblea costituente e lo svuotamento del potere dei Soviet, era sfociata in una dittatura comunista» (p. 111). Idem Andrea Romano nel suo Il partito della nazione. Cosa ci manca e cosa no del comunismo italiano, Paesi Edizioni: «Lo schema che reggeva questa e tutte le successive declinazioni del mito della riformabilità del sistema sovietico si fondava sull’immagine di un “leninismo buono” che sarebbe stato successivamente distorto dallo “stalinismo cattivo”. Per questo l’entusiasmo del Pci per Gorbaciov superò di gran lunga quello (molto più tiepido) mostrato da altri comunismi occidentali, per non parlare dell’aperta diffidenza venuta dai regimi autoritari dell’Europa Orientale (che nella perestrojka videro, e giustamente, l’annuncio della propria imminente estinzione”» (pp. 38-39). Se il mito originario non era recuperabile era quindi vana “la ricerca di questa introvabile terza via” tra comunismo realizzato e socialdemocrazia da parte di Berlinguer e dei suoi più diretti successori (Pendinelli-Sorgi, p. 208). A ciò si aggiunge anche la puntualizzazione della seconda edizione appena uscita del volume di Claudio Petruccioli Rendiconto. La sinistra italiana dal Pci ad oggi edito da La Nave di Teseo a proposito dell’espressione di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre dopo l’autogolpe di Jaruzelski. Proprio nel momento in cui veniva espresso un giudizio severissimo e irreversibile veniva però salvata la bontà del mito originario, «il fatto che il 1917 fu considerato la rottura di un sistema e il passaggio finalmente possibile ad un altro sistema. È questo l’errore di cui liberarsi» (pp. 334-339). Se però l’ideologia era sbagliata perché allora quel movimento storico è stato consistente in Italia fino alla sua evoluzione successiva, mentre negli altri paesi occidentali arrivati al fatidico 1989 i partiti comunisti erano già marginali da anni? Romano ci parla della volontà di rottura con il tradizionale massimalismo socialista (p. 82) e più in generale, sia pur dovuta a un organicismo un po’ retro, ad un’impostazione che cercava di tenere presente l’intera società italiana quale essa era nella realtà effettiva: «la visione di una società che già negli anni Trenta si immaginava tenersi insieme senza fratture o divisioni per essere traghettata come un organismo univo verso il socialismo» (p. 49), una sorta di partito della nazione ante litteram. Un’applicazione particolare di questa impostazione si era avuta col voto alla Costituente sull’articolo 7 e più in generale con la realistica presa d’atto del radicamento particolare della Chiesa cattolica in Italia, come sottolineano Pendinelli e Sorgi (pp. 153-233). È del resto quanto ha tradizionalmente insegnato Pietro Scoppola, spiegando come quel voto sia stato uno dei passaggi chiave per favorire l’egemonia del Pci nella sinistra a spese del Psi a partire dalle elezioni del 1948. Paradossalmente questi pregi, il rifiuto del massimalismo, la volontà di cambiare la società italiana tenendo però effettivamente conto delle sue caratteristiche effettive, che sono e restano tali anche oggi, erano però in origine legati appunto al difetto di impostazione di un’eresia religiosa secolarizzata. Era così certo il conseguimento dell’obiettivo finale, della felicità sulla terra, che non era il caso di abbandonarsi ad estremismi controproducenti. Va segnalato inoltre un secondo paradosso di sistema: l’estrema flessibilità, la capacità di radicamento nell’intera società italiana e non solo nella classe operaia, la scelta togliattiana di un partito di popolo e non di una setta di rivoluzionari, ha fatto del Pci un partito capace di durare per decenni in ruoli importanti, ma il fatto che mantenesse un legame sia pure residuo con l’Urss ha contribuito a paralizzare la possibilità dell’alternanza, che invece ci sarebbe stata se a dominare a sinistra fosse stato un partito socialdemocratico. Basti rileggere uno dei passaggi chiave dell’ultimo discorso di Aldo Moro ai suoi gruppi parlamentari, cioè del leader che più di tutti cercò di andare oltre la frattura della Guerra Fredda ben prima del fatidico 1989: «Sappiamo che c’è in gioco un delicatissimo tema di politica estera, che sfioro appena, nel senso che vi sono posizioni che non sono solo nostre ma che tengono conto del giudizio di altri Paesi, di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati, quindi dati di fatto obiettivi. Sappiamo che vi è diffidenza in Europa in attesa di un chiarimento ulteriore sullo sviluppo delle cose». Quali contraddizioni ha portato con sé questo traghettamento di un’eredità così contraddittoria agli appuntamenti successivi? Come spiega Petruccioli «una parte di noi ha voluto la svolta per "uscire" dal Pci, mentre un’altra l’ha subita per ‘restarci’… Per i primi veniva meno la costrizione, poteva cominciare la libertà; per i secondi scompariva non un modello, perché neppure loro apprezzavano il "socialismo reale", ma la "forza". Due modi di intendere e di vivere la politica» (pp. 295-304-305). Del resto, in modi del tutto diversi, anche nell’altra più consistente cultura politica approdata nel Pd, quella del cattolicesimo democratico, la fine dell’unità politico-elettorale che era legata in modo indissolubile all’egemonia comunista sulla sinistra, è stata vissuta da alcuni come la liberazione da una costrizione e da altri come una necessità cui rassegnarsi. In questo senso, per capire meglio le vicende politiche, esse non possono mai essere lette a compartimenti stagni: come scrive Petruccioli «non solo nella politica, ma nella vita, nessuno è, e basta; tutti, anche diveniamo» (p. 224). Stefano Ceccanti

Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 luglio 2021. Vladimir Putin ha reso illegale paragonare i sovietici ai nazisti, ordinando che al contrario si riconosca la missione umanitaria della Russia per liberare l’Europa. Putin ha firmato ieri sera il disegno di legge che vieta la pubblicazione di materiale che mette in parallelo “obiettivi e decisioni” dei sovietici con quelli del Terzo Reich. Bandito anche tutto ciò che nega il “ruolo decisivo” dell’Armata Rossa nella sconfitta di Hitler. Il Cremlino ha sempre più indurito il suo revisionismo storico e ha utilizzato la Seconda Guerra Mondiale per cercare di unire una società che a detta di Putin ha perso di morale dopo il crollo dell’Unione sovietica del 1991. La nuova legislazione prevede il riconoscimento «della missione umanitaria dell’Unione Sovietica nella liberazione dei paesi europei». L'affermazione è destinata a far infuriare gli ex stati sovietici come Estonia, Lettonia e Lituania, che sostengono di essere stati occupati dall'Armata Rossa e costretti ad aderire all'Unione Sovietica. In effetti, la caduta di Berlino, l'orgogliosa vittoria dell'Armata Rossa celebrata ogni anno nella Piazza Rossa, fu in parte alimentata dal sospetto di Stalin che gli alleati occidentali non avrebbero restituito il territorio da loro occupato nella zona sovietica del dopoguerra. Putin ha presentato la nuova legge a gennaio dopo un periodo di aspre contese con la Polonia su chi abbia causato la seconda guerra mondiale. Due anni fa, il parlamento europeo adottò una risoluzione che convenne che l'Unione Sovietica e la Germania congiuntamente «preparavano la strada allo scoppio della seconda guerra mondiale» nell'agosto 1939, con la firma del patto Molotov-Ribbentrop. Putin ha risposto in una conferenza stampa nel dicembre 2019, affermando che l'Unione Sovietica è stata l'ultimo paese in Europa a firmare un patto di non aggressione con la Germania nazista dopo che le altre potenze lo hanno placato. «Stalin non si è macchiato del contatto diretto con Hitler, mentre i leader francesi e britannici si sono incontrati con lui e hanno firmato alcuni documenti», ha detto, aggiungendo che le forze sovietiche sono entrate in Polonia solo «dopo che il governo polacco ha perso il controllo delle proprie forze armate». Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha definito Putin un «bugiardo». Anche gli Stati Uniti sono entrati nella querelle. Georgette Mosbacher, ambasciatore americano a Varsavia, ha twittato: «Caro presidente Putin, Hitler e Stalin hanno collaborato per iniziare la seconda guerra mondiale. Questo è un dato di fatto. La Polonia è stata vittima di questo orribile conflitto».

«Bella ciao» non sia obbligatoria ma non è un inno comunista. Aldo Cazzullo il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. Caro Aldo Cazzullo, per gli uomini del Pd che annaspano in cerca di idee, l’appiglio estremo è da 75 anni sempre lo stesso: l’antifascismo. Quando si tratta di frenare l’emorragia di consensi, la retorica antifascista e le note di «Bella ciao», inno dei partigiani rossi, devono ricordare a tutti da che parte sta la vera democrazia. Peccato che questo sia un falso storico. I partigiani che combatterono il fascismo furono i repubblicani, i liberali, i militari fedeli alla monarchia, i cattolici, gli azionisti seguaci di Pertini e Salvemini... I partigiani comunisti combatterono la dittatura fascista non per la libertà, ma per instaurare un’altra dittatura: la loro. Raffaele Laurenzi, Milano

Caro Raffaele, Non sono d’accordo con lei. I partigiani non avevano bollini, tanto meno rossi. Certo, c’erano i comunisti, i socialisti, i monarchici, i cattolici, gli azionisti. Ma la maggioranza erano giovani senza partito, che anzi dopo vent’anni di fascismo non sapevano neppure cosa fossero i partiti, e semplicemente rifiutarono di obbedire ai bandi Graziani, e quindi di combattere per Hitler e Mussolini. Sono certo che questo discorso vale pure per molti resistenti delle brigate Garibaldi. Detto questo, certo, c’erano i comunisti. Qualcuno pensava di costruire una democrazia. Molti sognavano di fare la rivoluzione come in Russia. Ma questo è un discorso perfetto per le polemiche politiche di oggi, magari per giustificare chi invece combatté per Hitler e Mussolini. All’epoca l’urgenza era di stabilire da quale parte stare: con chi mandava gli ebrei italiani nei campi di sterminio, o contro. Questo non toglie un’oncia alla gravità dei delitti commessi da partigiani comunisti nel triangolo della morte emiliano e altrove. Quanto a «Bella ciao», imporre di cantarla per legge è sbagliato. Ma non è una canzone comunista. È una canzone che parla di libertà. Ad Alba, città dove la Dc aveva il 60 per cento, il secondo partito era il Pli e il terzo il Pri, si cantava «Bella ciao» senza pensare di fare una cosa di sinistra. E comunque Giorgio Bocca raccontava di aver fatto la guerra di liberazione per quasi venti mesi senza mai intonarla.

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

La cancel culture? Non esiste Intanto però, sparisci! Luigi Mascheroni il 6 Giugno 2021 su il Giornale. Per qualcuno è una dittatura immaginaria, inventata dalle destre. Sarà. Ma la cronaca dice altro...Vi ricordate quando a gennaio un deputato democratico eletto alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Missouri recitò un inno durante l'apertura dei lavori del Parlamento degli Stati Uniti aggiungendo al tradizionale «amen» una sua versione femminile: «and a-woman»? Il mondo si mise a ridere, i critici del politicamente corretto insorsero, e invece era solo un gioco di parole che aveva lo scopo di rispettare la neutralità di genere: insomma, è stato tutto un fraintendimento. E a maggio, quando una blogger di San Francisco prese di mira su Twitter la favola di Biancaneve per via del bacio ricevuto «non consensualmente» dal Principe azzurro? I giornali ci si fiondarono, i commenti ondeggiarono fra lo sberleffo e l'indignazione, ma poi si scopre che no, non è proprio così, era solo una provocazione, una mezza fake news, una favola anche quella, che gli ignoranti populisti sovranisti sessisti salvinisti bianchi omofobi neocolonialisti e potenziali stupratori, si sono bevuti come vera. E le richieste alla BBC di boicottare il film Grease? Ma dài, siete pazzi a prendere cinque tweet indignati come rappresentativi dell'intero sentimento del popolo inglese... E la famosa censura antirazzista di Via col vento? Ma non era una censura, solo un disclaimer a inizio film! E le statue abbattute e imbrattate? Eccessi di fanatici («Anche se, certo, alcune di quelle figure storiche... insomma...»). E Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, letteralmente cancellato, grazie alle tecnologie digitali, da un film già girato, senza processo? «...». E i classici della letteratura, della filosofia e della musica occidentale, messi ai margini dei programmi d'esame nei college americani perché discriminanti rispetto a culture «altre» e minoranze varie? «Casi isolati, e poi non è proprio così». «Anzi: semmai è agli studi postcoloniali e ai gender studies che non si dà abbastanza spazio!»). Quindi, come ha provato a dirci Zerocalcare in un suo fumetto più confuso che divertente, più ideologico che originale, quella del politicamente corretto è una «dittatura immaginaria». La rivista Internazionale ci ha fatto anche una copertina quindici giorni fa. E L'Espresso continua a ripetercelo ogni settimana. E i siti di informazione indipendenti - loro sì che lo sono - lo spiegano per filo e per segno: chi denuncia ogni giorno casi immaginari di politicamente corretto e cancel culture è solo qualcuno terrorizzato dai cambiamenti che stanno investendo il mondo. Insomma, la cancel culture non esiste. Quelli tirati fuori dai giornali americani e poi gonfiati dai tabloid e poi strumentalizzati dai «giornalacci di destra», e poi commentati dai Mentana e dai Gramellini, sono solo episodi travisati o insignificanti. «E non è vero che Non si può più dire niente, basta con 'sta lagna!». Il politicamente corretto è solo nella testa di chi vuole continuare a offendere, ghettizzare, umiliare, ironizzare chiunque non sia maschio, bianco, etero, occidentale, benestante. Eccolo, il problema. Ora è tutto più chiaro. «Cancel culture e politically correctness sono tutta una montatura!». In Italia, poi... «Quelli che sui social chiedono licenziamenti e cancellazioni sono irrilevanti: pochi e non contano nulla... dài: di cosa ci preoccupiamo?». «Anzi: più diamo importanza alla cancel culture più aiutiamo l'Alt-right, i suprematisti bianchi, il maschio predatore, le squadracce reazionarie, e soprattutto il partito dei salviani e dei meloniani!!». E quindi? Mah, forse la cosa migliore a questo punto è cancellare chi vuole parlare di cancel culture. Eliminare i tweet che segnalano le eliminazioni. Deridere chi denuncia il politicamente corretto. Far tacere chi sostiene che non si può più dire niente. «Anzi: siete voi che non mi fate mettere schwa e asterischi dappertutto!» *** tiè. Insomma, rilassiamoci. A parte quei fanatici del Foglio, del Giornale e di qualche sito dissidente, la cultura della cancellazione - soprattutto in Italia - non esiste. Come la mafia. Sì, ma il museo di Lombroso che vogliono chiudere? («È razzismo scientifico!»). E la statua di D'Annunzio imbrattata a Trieste? («Era fascista!»). E i due comici massacrati dal web per una gag in cui fanno il verso ai cinesi? («Razzisti!»). Meglio ripeterlo. La cancel culture NON esiste. «E infatti non è stato ancora ucciso nessuno». Intanto la serie tv Friends, che ci ha fatto crescere sorridendo negli anni Novanta, oggi è criticata perché - a ripensarci - i protagonisti sono troppo bianchi e troppo poco gay. La statua gigante di Marilyn Monroe nella posa iconica con la gonna alzata di Quando la moglie è in vacanza, posizionata di fronte al museo di Palm Springs in California, è a rischio rimozione perché «sessista e diseducativa». E la Disney ha compiuto il suo capolavoro di rilettura dei classici hollywoodiani trasformando la nuova Crudelia in un personaggio positivo, che piace a tutti, animalisti compresi. L'importante è che le destre, poi, non strumentalizzino il tutto.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri 

Cancel culture, il nuovo maoismo che del passato farà tabula rasa. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 febbraio 2021. Statue abbattute, libri e film censurati, pubblica gogna. Come un legittimo movimento di liberazione si può trasformare nel suo paradossale contrario. Quando nella primavera del ’66 Mao Zedong lanciò la sua Rivoluzione culturale per riprendere in mano le redini del partito comunista e dello Stato cinese disponeva di un’arma formidabile: centinaia di milioni di giovani. Erano i ragazzi delle grandi città utilizzati dal “grande timoniere” per combattere “l’imborghesimento” dei gruppi dirigenti e ripristinare il marxismo- leninismo come guida ideologica della Repubblica popolare. Lo fecero con un entusiasmo, un’energia e una ferocia senza pari. Un miraggio di emancipazione che nascondeva un potente dispositivo ( e desiderio) di vendetta nei confronti degli avversari e, in generale, del vecchio mondo che poi non era altro che la civiltà cinese nel suo insieme. Ogni riferimento antecedente alla rivoluzione del ’ 49 doveva essere cancellato dalla faccia della Cina. Gli stessi osservatori dell’Unione sovietica rimasero scioccati dal dispotico controllo sociale esercitato sulla popolazione e dal sistema di gogna riservato ai “borghesi degenerati”. Nessuna polizia segreta o grigie spie della Stasi, ma il processo popolare permanente e la pretesa della pubblica abiura nelle famigerate “sessioni di lotta”, incontri dove i presunti nemici del partito subivano le peggiori umiliazioni. Una pratica che ricorda il contemporaneo online shaming che avviene sulle piattaforme dei social network quando la gogna digitale si sostituisce come un randello alla legittima critica. Un’umiliazione inferta paradossalmente da chi afferma di voler combattere contro “l’odio” in rete e non accorge di impiegare gli stessi, beceri metodi. La Storia difficilmente si ripete, ma quando accade tende a farlo sotto forma di farsa, come ironizzava Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, e proprio in tal senso è difficile non scorgere inquietanti analogie tra l’impeto iconoclasta delle Guardie rosse cinesi e gli odierni movimenti progressisti con la loro intransigente cancel culture che dello scomodo passato vuole fare “tabula rasa” parafrasando un noto passaggio de L’internazionale. Le statue dei colonizzatori, dei mercanti di schiavi, dei vecchi politici razzisti, i monumenti nazionalisti, gli obelischi e gli altari alla memoria sono da mesi il bersaglio di manifestazioni e cortei in un crescendo che non sembra risparmiare nessuno, neanche una gloria come Winston Churchill, sfregiato dai un gruppo di attivisti londinesi che sfilavano in solidarietà di George Floyd, l’afroamericano strangolato la scorsa estate dalla polizia. In Francia La Ligue de défense noire africaine nel nome dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo ha chiesto di eliminare dalla toponomasticai nomi di Clodoveo, Carlo Magno e Giovanna d’Arco. Come una macchia d’olio la furia della cancel culture non si limita ai busti e alle sculture ma invade tutto il campo culturale: libri, canzoni, film, pièce teatrali e programmi accademici definiti xenofobi, sessisti o semplicemente obsoleti. «Anticaglie!», gridavano i giovani maoisti mentre mandavano al macero milioni libri, ribattezzando i nomi delle strade e bruciando persino i registri genealogici dei cittadini che da quel momento erano costretti ad assumere una nuova identità conforme ai precetti dello Stato comunista. Particolarmente pensoso il destino riservato alle opere dell’ingegno, all’arte: come in Cina dove dopo la Rivoluzione culturale era impossibile imbattersi in un saggio o romanzo che facesse riferimento al passato o a un pensiero diverso da quello ufficiale, oggi a venire messi in discussione sono capolavori della letteratura come Huckleberry Finn ( considerato razzista) sparito dalle biblioteche americane il capolavoro della letteratura medievale britannica I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, cancellati dai programmi dell’Università di Leichester per far spazio a dei corsi sulla “razza e la sessualità“ ( sic). Un’altra analogia riguarda l’uso ideologico della gioventù, una categoria strumentalizzata da tutti regimi del mondo. Nella Cina maoista i giovani istruiti dal Libretto rosso erano chiamati ad abbattere il vecchio ordine sociale e a purgare i suoi rappresentanti e “cattivi maestri” ( tra il ’ 66 e il 67 vennero imprigionati, torturati e uccisi almeno 200mila tra insegnanti e intellettuali) nell’ossessione che le vecchie generazioni corrotte e arraffone gli avessero rubato la vita e il futuro. Con le dovute differenze sembra di ascoltare un comizio di Greta Thumberg che nella sua autobiografia tuona contro l’odiata generazione dei “boomer” che oggi diventa responsabile e capro espiatorio di tutti i mali: «Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia!». A completare il quadro mancano solo i campi di rieducazione, in cinese Laogai, dove le Guardie rosse scaraventarono almeno quattro milioni di persone a spaccare pietre e a studiare le citazioni di Mao. Nessuno ha ancora proposto di raddrizzare la schiena e lo spirito ai reprobi, almeno in modo serio, Nel 2019, in piena campagna metoo# la cantante francese Angèle che in un videoclip aveva messo in scena un tribunale in cui gli uomini vengono giudicati per il loro maschilismo e spediti in una fantomatica anti- sexism academy per imparare a rispettare le donne.

Parlamento Europeo 18.9.2019

PROPOSTA DI RISOLUZIONE COMUNE

presentata a norma dell'articolo 132, paragrafi 2 e 4, del regolamento 

in sostituzione delle proposte di risoluzione seguenti:

B9-0097/2019 (PPE)

B9-098/2019 (ECR)

B9-0099/2019 (S&D)

B9-0100/2019 (Renew)

sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa (2019/2819(RSP))

Michael Gahler, Andrius Kubilius, Rasa Juknevičienė, Željana Zovko, David McAllister, Antonio Tajani, Sandra Kalniete, Traian Băsescu, Radosław Sikorski, Andrzej Halicki, Andrey Kovatchev, Ewa Kopacz, Lukas Mandl, Alexander Alexandrov Yordanov, Andrea Bocskor, Inese Vaidere, Elżbieta Katarzyna Łukacijewska, Vladimír Bilčík, Ivan Štefanec, Liudas Mažylis, Loránt Vincze, Arba Kokalari

a nome del gruppo PPE

Kati Piri, Isabel Santos, Sven Mikser, Marina Kaljurand

a nome del gruppo S&D

Michal Šimečka, Frédérique Ries, Ramona Strugariu, Katalin Cseh, Ondřej Kovařík, Vlad-Marius Botoş, Izaskun Bilbao Barandica, Jan-Christoph Oetjen, Sheila Ritchie, Olivier Chastel, Petras Auštrevičius

a nome del gruppo Renew

Ryszard Antoni Legutko, Anna Fotyga, Tomasz Piotr Poręba, Dace Melbārde, Witold Jan Waszczykowski, Ryszard Czarnecki, Jadwiga Wiśniewska, Bogdan Rzońca, Anna Zalewska, Jacek Saryusz-Wolski, Grzegorz Tobiszowski, Joanna Kopcińska, Elżbieta Rafalska, Joachim Stanisław Brudziński, Beata Szydło, Beata Mazurek, Andżelika Anna Możdżanowska, Beata Kempa, Patryk Jaki, Charlie Weimers

a nome del gruppo ECR

EMENDAMENTI 001-001

Risoluzione del Parlamento europeo sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa

(2019/2819(RSP))

Il Parlamento europeo,

– visti i principi universali dei diritti umani e i principi fondamentali dell'Unione europea in quanto comunità basata su valori comuni,

– vista la dichiarazione rilasciata dal primo Vicepresidente Timmermans e dalla Commissaria Jourová il 22 agosto 2019, alla vigilia della Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari,

– vista la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite adottata il 10 dicembre 1948,

– vista la sua risoluzione del 12 maggio 2005 sul sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa, l'8 maggio 1945[1],

– vista la risoluzione 1481 dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, del 26 gennaio 2006, relativa alla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti,

– vista la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale[2],

– vista la Dichiarazione di Praga sulla coscienza europea e il comunismo, adottata il 3 giugno 2008,

– vista la sua dichiarazione sulla proclamazione del 23 agosto come Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo, approvata il 23 settembre 2008[3],

– vista la sua risoluzione del 2 aprile 2009 su coscienza europea e totalitarismo[4],

– vista la relazione della Commissione del 22 dicembre 2010 sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa (COM(2010)0783),

– viste le conclusioni del Consiglio del 9-10 giugno 2011 sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa,

– vista la Dichiarazione di Varsavia del 23 agosto 2011 sulla Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari,

– vista la dichiarazione congiunta del 23 agosto 2018 dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell'Unione europea per commemorare le vittime del comunismo,

– vista la sua storica risoluzione sulla situazione in Estonia, Lettonia e Lituania, approvata il 13 gennaio 1983 in risposta al cosiddetto "appello baltico", presentato da 45 cittadini di detti paesi,

– viste le risoluzioni e le dichiarazioni sui crimini dei regimi totalitari comunisti, adottate da vari parlamenti nazionali,

– visto l'articolo 132, paragrafi 2 e 4, del suo regolamento,

A. considerando che quest'anno si celebra l'ottantesimo anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, che ha causato sofferenze umane fino ad allora inaudite e ha portato all'occupazione di taluni paesi europei per molti decenni a venire;

B. considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l'Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l'Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale;

C. considerando che, come diretta conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, seguito dal "trattato di amicizia e di frontiera" nazi-sovietico del 28 settembre 1939, la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l'Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia;

D. considerando che, dopo la sconfitta del regime nazista e la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei sono riusciti a procedere alla ricostruzione e a intraprendere un processo di riconciliazione, mentre per mezzo secolo altri paesi europei sono rimasti assoggettati a dittature, alcuni dei quali direttamente occupati dall'Unione sovietica o soggetti alla sua influenza, e hanno continuato a essere privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico;

E. considerando che, sebbene i crimini del regime nazista siano stati giudicati e puniti attraverso i processi di Norimberga, vi è ancora un'urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature;

F. considerando che in alcuni Stati membri la legge vieta le ideologie comuniste e naziste;

G. considerando che, fin dall'inizio, l'integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all'Olocausto, e all'espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell'Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l'integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia sul continente; che per i paesi europei che hanno sofferto a causa dell'occupazione sovietica e delle dittature comuniste l'allargamento dell'UE, iniziato nel 2004, rappresenta un ritorno alla famiglia europea alla quale appartengono;

H. considerando che occorre mantenere vivo il ricordo del tragico passato dell'Europa, onde onorare le vittime, condannare i colpevoli e gettare le basi per una riconciliazione fondata sulla verità e la memoria;

I. considerando che la memoria delle vittime dei regimi totalitari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l'unità dell'Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne;

J. considerando che trent'anni fa, il 23 agosto 1989, ricorreva il cinquantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop e le vittime dei regimi totalitari sono state commemorate nella Via Baltica, una manifestazione senza precedenti cui hanno partecipato due milioni di lituani, lettoni ed estoni, che si sono presi per mano per formare una catena umana da Vilnius a Tallin, passando attraverso Riga;

K. considerando che, nonostante il 24 dicembre 1989 il Congresso dei deputati del popolo dell'URSS abbia condannato la firma del patto Molotov-Ribbentrop, oltre ad altri accordi conclusi con la Germania nazista, nell'agosto 2019 le autorità russe hanno negato la responsabilità di tale accordo e delle sue conseguenze e promuovono attualmente l'interpretazione secondo cui la Polonia, gli Stati baltici e l'Occidente sarebbero i veri istigatori della Seconda guerra mondiale;

L. considerando che la memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l'unità dell'Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne;

M. considerando che gruppi e partiti politici apertamente radicali, razzisti e xenofobi fomentano l'odio e la violenza all'interno della società, per esempio attraverso la diffusione dell'incitamento all'odio online, che spesso porta a un aumento della violenza, della xenofobia e dell'intolleranza;

1. ricorda che, come sancito dall'articolo 2 TUE, l'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; rammenta che questi valori sono comuni a tutti gli Stati membri;

2. sottolinea che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d'Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l'obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l'Europa in due zone d'influenza;

3. ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell'umanità, e rammenta l'orrendo crimine dell'Olocausto perpetrato dal regime nazista; condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l'umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari;

4. esprime il suo profondo rispetto per ciascuna delle vittime di questi regimi totalitari e invita tutte le istituzioni e gli attori dell'UE a fare tutto il possibile per garantire che gli orribili crimini totalitari contro l'umanità e le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani siano ricordati e portati dinanzi ai tribunali, nonché per assicurare che tali crimini non si ripetano mai più; sottolinea l'importanza di mantenere vivo il ricordo del passato, in quanto non può esserci riconciliazione senza memoria, e ribadisce la sua posizione unanime contro ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia;

5. invita tutti gli Stati membri dell'UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista;

6. condanna tutte le manifestazioni e la diffusione di ideologie totalitarie, come il nazismo e lo stalinismo, all'interno dell'Unione;

7. condanna il revisionismo storico e la glorificazione dei collaboratori nazisti in alcuni Stati membri dell'UE; è profondamente preoccupato per la crescente accettazione di ideologie radicali e per il ritorno al fascismo, al razzismo, alla xenofobia e ad altre forme di intolleranza nell'Unione europea ed è turbato dalle notizie di collusione di leader politici, partiti politici e forze dell'ordine con movimenti radicali, razzisti e xenofobi di varia denominazione politica in alcuni Stati membri; invita gli Stati membri a condannare con la massima fermezza tali accadimenti, in quanto compromettono i valori di pace, libertà e democrazia dell'UE;

8. invita tutti gli Stati membri a celebrare il 23 agosto come la Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari a livello sia nazionale che dell'UE e a sensibilizzare le generazioni più giovani su questi temi inserendo la storia e l'analisi delle conseguenze dei regimi totalitari nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte le scuole dell'Unione; invita gli Stati membri a promuovere la documentazione del tragico passato europeo, ad esempio attraverso la traduzione dei lavori dei processi di Norimberga in tutte le lingue dell'UE;

9. invita gli Stati membri a condannare e contrastare ogni forma di negazione dell'Olocausto, compresa la banalizzazione e la minimizzazione dei crimini commessi dai nazisti e dai loro collaboratori, e a prevenire la banalizzazione nei discorsi politici e mediatici;

10. chiede l'affermazione di una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani; incoraggia gli Stati membri a promuovere l'istruzione attraverso la cultura tradizionale sulla diversità della nostra società e sulla nostra storia comune, compresa l'istruzione in merito alle atrocità della Seconda guerra mondiale, come l'Olocausto, e alla sistematica disumanizzazione delle sue vittime nell'arco di alcuni anni;

11. chiede inoltre che il 25 maggio (anniversario dell'esecuzione del comandante Witold Pilecki, eroe di Auschwitz) sia proclamato "Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo", in segno di rispetto e quale tributo a tutti coloro che, combattendo la tirannia, hanno reso testimonianza del loro eroismo e di vero amore nei confronti dell'umanità, dando così alle future generazioni una chiara indicazione dell'atteggiamento giusto da assumere di fronte alla minaccia dell'asservimento totalitario;

12. invita la Commissione a fornire un sostegno effettivo ai progetti di memoria e commemorazione storica negli Stati membri e alle attività della Piattaforma della memoria e della coscienza europee, nonché a stanziare risorse finanziarie adeguate nel quadro del programma "Europa per i cittadini" per sostenere la commemorazione e il ricordo delle vittime del totalitarismo, come indicato nella posizione del Parlamento sul programma "Diritti e valori" 2021-2027;

13. dichiara che l'integrazione europea, in quanto modello di pace e di riconciliazione, è il frutto di una libera scelta dei popoli europei, che hanno deciso di impegnarsi per un futuro comune, e che l'Unione europea ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia e il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, sia all'interno che all'esterno del suo territorio;

14. sottolinea che, alla luce della loro adesione all'UE e alla NATO, i paesi dell'Europa centrale e orientale non solo sono tornati in seno alla famiglia europea di paesi democratici liberi, ma hanno anche dato prova di successo, con l'assistenza dell'UE, nelle riforme e nello sviluppo socioeconomico; sottolinea, tuttavia, che questa opzione dovrebbe rimanere aperta ad altri paesi europei, come previsto dall'articolo 49 TUE;

15. sostiene che la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista e che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico; invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato;

16. è profondamente preoccupato per gli sforzi dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l'Europa democratica allo scopo di dividere l'Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi;

17. esprime inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti;

18. osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari;

19. condanna il fatto che forze politiche estremiste e xenofobe in Europa ricorrano con sempre maggior frequenza alla distorsione dei fatti storici e utilizzino simbologie e retoriche che richiamano aspetti della propaganda totalitaria, tra cui il razzismo, l'antisemitismo e l'odio nei confronti delle minoranze sessuali e di altro tipo;

20. esorta gli Stati membri ad assicurare la loro conformità alle disposizioni della decisione quadro del Consiglio e a contrastare le organizzazioni che incitano all'odio e alla violenza negli spazi pubblici e online;

21. sottolinea che il tragico passato dell'Europa dovrebbe continuare a fungere da ispirazione morale e politica per far fronte alle sfide del mondo odierno, come la lotta per un mondo più equo e la creazione di società aperte e tolleranti e di comunità che accolgano le minoranze etniche, religiose e sessuali, facendo in modo che tutti possano riconoscersi nei valori europei;

22. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, alla Duma russa e ai parlamenti dei paesi del partenariato orientale.

"Comunismo come nazismo": cosa dice il testo del Parlamento Ue che divide politici e storici.

Durante l'ultima plenaria di Strasburgo, gli eurodeputati hanno dato l'ok a una risoluzione in cui si equiparano i due regimi. Il plauso dei Paesi dell'Est, tra cui quelli di Visegrad. Ma tra le fila della sinistra è polemica. Cosa c'è scritto. Dario Prestigiacomo il 23 settembre 2019 su europa.today.it. "Ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l'Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l'Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale". Parte da questa valutazione storica la risoluzione del Parlamento europeo che sta dividendo il mondo della politica e gli storici. Si tratta di un documento politico, senza dirette conseguenze, almeno per il momento, sul piano legislativo. Ma per alcuni potrebbe aprire la strada a norme che condannano in tutta l'Unione europea l'apologia del fascismo e del nazismo, come già avviene, ma anche l'uso dei simboli del comunismo. Che in molti Paesi Ue e nella stessa Eurocamera, compaiono su bandiere e loghi di partito. Ecco perché il testo ha sollevato accese polemiche, anche in Italia. Per molti, la decisione di aprire la nuova legislatura del Parlamento Ue con una dichiarazione del genere è in linea con il tentativo dell'establishment europeo, in particolare dell'asse che regge la neo presidente della Commissione Ursula von der Leyen, di ricucire lo strappo con i Paesi dell'Est, in particolare con gli Stati di Visegrad (Polonia e Ungheria su tutti), dove i decenni di appartenenza all'Urss hanno lasciato un forte sentimento anticomunista. 

Il plauso di Visegrad. Dall'altra parte, in tanti a sinistra hanno ricordato come il comunismo, nei Paesi occidentali come l'Italia, sia stato parte integrante della costruzione della democrazia in quegli Stati dopo la Seconda guerra mondiale. Oltre che parte integrante della costruzione della stessa Unione europea. Da qui, le accese proteste di partiti come LeU, ma anche di esponenti del Pd. Che non hanno gradito il 'tradimento' di alcuni eurodeputati dem e socialisti che a Strasburgo hanno votato a favore di questa risoluzione. A preoccupare questo fronte sono in particolare due passaggi del testo: il Parlamento europeo, si legge, "esprime inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti". E più avanti, sempre l'Eurocamera "osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari". In sostanza, Strasburgo punta il dito su simboli come la "falce e il martello", ma anche su tutta quella toponomastica associata a "eroi" del comunismo, come l'italiano Palmiro Togliatti.

La protesta dei partigiani italiani. Ma non è solo una questione di simboli. I partigiani italiani sono tutte le furie: l'Anpi ha espresso "profonda preoccupazione" perché "in un'unica riprovazione si accomunano oppressi ed oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell'Unione Sovietica (più di 22 milioni di morti) e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata rossa - lamenta l'Associazione dei partigiani - Davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi, nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione invece che di responsabile e rigorosa unità".

Falso storico? Tra gli storici, poi, c'è chi bolla come un falso storico il fatto che la risoluzione attribuisca al patto Molotov-Ribbentrop la causa scatenante del conflitto. Nella risoluzione, si legge che in seguito a questo patto e al successivo "trattato di amicizia e di frontiera" nazi-sovietico del 28 settembre 1939, "la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l'Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia".

La questione con la Russia di oggi. Per molti si tratta di una ricostruzione forzata. E la Russia ha più volte protestato in passato su questa forzatura. Come ha ricordato poco tempo il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, la Russia avrebbe firmato il patto Molotov-Ribbentrop solo perché, al tempo, furono diversi i Paesi che tentarono di tenere a bada Hitler con patti e trattati. "Ingenuamente calcolando che la guerra non li avrebbe sfiorati, le potenze occidentali hanno giocato una doppia partita - ha ricordato - E hanno cercato di incanalare l'aggressività di Hitler verso Est. In quelle condizioni, l'Urss ha dovuto salvaguardare da sola la propria sicurezza nazionale". Del resto, dietro la risoluzione del Parlamento è chiaro a tutti come vi sia l'ombra delle recenti tensioni tra Mosca e Bruxelles. Nel testo, dopo aver sostenuto che "la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista", si afferma "che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico". E si invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato". Per essere ancora più chiari in merito, il Parlamento dichiara di essere "profondamente preoccupato per gli sforzi dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l'Europa democratica allo scopo di dividere l'Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi". 

Il comandante Pilecki. La risoluzione sembra a un certo punto dimenticare la parola "comunismo". Lo fa quando "chiede l'affermazione di una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani". Subito dopo, la richiesta di proclamare la "Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo" il 25 maggio, ossia la data dell'esecuzione del "comandante Witold Pilecki, eroe di Auschwitz". Pilecki era un comandante polacco che combattè contro il nazifascimo. Dopo la fine del confltto, fu tra coloro che cercarono di opporsi alla sovietizzazione della Polonia. Catturato dai comunisti, fu giustiziato dopo un processo sommario nel '48. E il suo nome fu bandito per decenni. La riabilitazione avvenne solo dopo il crollo del Muro di Berlino. La sua vicenda, al di là dell'uso che ne fa la risoluzione, dimostra la complessità della Storia: eroe di Auschwitz, Pilecki morì per mano di quella stessa Armata Rossa che aveva liberato i prigionieri sopravvissuti al campo di sterminio. 

Rileggere la storia. Comunismo e fascismo, due facce della stessa medaglia totalitaria. Ma il Pci fu un’eccezione. Alberto De Bernardi l'11 Dicembre 2019 su L'Inkiesta. Secondo lo storico Alberto De Bernardi, bisogna condannarli allo stesso modo, perché costituiscono i due lati della tara che ha insanguinato l’Europa per gran parte del XX secolo. Ma il Partito Comunista Italiano è stato, con tutti i suoi limiti, un caso particolare nella storia del comunismo. La pubblicazione della risoluzione della UE “Sull’importanza della memoria per l’avvenire dell’ Europa” ha aperto in Italia un dibattito molto acceso che a distanza di diverse settimane non si è ancora spento, facendo dell’Italia un caso unico in Europa.

Leggere le fonti. Come molti storici, anche io ritengo sempre scivoloso ogni tentativo delle istituzioni politiche di definire una interpretazione condivisa del passato su cui costruire la memoria pubblica, perché si presta a omissioni e a superficialità, che gli storici hanno in più occasioni messo in evidenza: la memoria di eventi traumatici è difficilmente ricomponibile, quando vittime e carnefici sono ancora presenti e attivi nella sfera pubblica e soprattutto quando rimanda alla lunga guerra tra comunismo, fascismo e democrazia che ha insanguinato il secolo appena terminato; la storia, invece, può essere condivisa perché costruita su un approccio scientifico, anche se la stessa ricerca storica non è sempre esente da torsioni ideologiche e da punti di vista segnati da appartenenze politiche. La memoria infatti mira all’dentità, la storia alla verità. In ogni caso l’elemento saliente e sorprendente della discussione apertasi del nostro paese è che fin dalle prime battute essa ha perso di vista il documento sia dal punto di vista dei suoi contenuti, che delle sue finalità, per concentrarsi su due questioni, che con quel documento hanno ben poco a che fare, ma che invece attengono alla irrisolta e ingombrante “questione comunista” nella cultura politica della sinistra italiana, nonostante siano passati trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dello scioglimento del partito comunista italiano.

Il patto Ribbentrop-Molotov e le proposte della Risoluzione. La prima questione su cui si sono appuntate le critiche di storici e intellettuali, ma soprattutto dell’associazionismo antifascista con in testa l’Anpi, riguarda l’affermazione per altro poco fondata, che nel documento si attribuisca al patto Ribbentrop-Molotov lo scoppio della Seconda mondiale.

Sul punto infatti il parlamento invita a fare 4 considerazioni:

1- considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l’Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale;

2- considerando che, come diretta conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, seguito dal “trattato di amicizia e di frontiera” nazi-sovietico del 28 settembre 1939, la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l’Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia;

3- considerando che, dopo la sconfitta del regime nazista e la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei sono riusciti a procedere alla ricostruzione e a intraprendere un processo di riconciliazione, mentre per mezzo secolo altri paesi europei sono rimasti assoggettati a dittature, alcuni dei quali direttamente occupati dall’Unione sovietica o soggetti alla sua influenza, e hanno continuato a essere privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico;

4- considerando che, sebbene i crimini del regime nazista siano stati giudicati e puniti attraverso i processi di Norimberga, vi è ancora un’urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature.

Il Parlamento europeo dunque non si cimenta in una discussione sulle cause della Seconda guerra mondiale, ma invita alla luce di queste considerazioni assai fondate, a condannare le conseguenze di quel patto che ha costretto i paesi dell’Europa dell’Est, a subire per cinquant’anni una dittatura spietata, condannandoli a perdere la libertà, che invece costituisce il fondamento delle democrazie dell’Europa occidentale; invita inoltre a fare un bilancio storico e morale di questo periodo, aprendo inchieste giudiziarie nei confronti di eventuali aguzzini, analoghe a quelle che hanno riguardato i crimini del nazismo e del fascismo. L’antifascismo costituì lo strumento ideologico attraverso il quale l’Urss cerco di legittimare la politica di potenza nell’Europa orientale e baltica.

Il “patto scellerato” e l’Urss. Certamente, come ha messo in luce la ricerca storica, quel patto fu anche la conseguenza della volontà delle nazioni democratiche europee di non coinvolgere l’Urss nella lotta contro la minaccia nazista, convinte come erano che il comunismo fosse un nemico peggiore del fascismo. Questa concezione fu alla base dell’appeasement con il fascismo perseguita dalle democrazie europee per cercare di circoscrivere l’espansionismo di Hitler e Mussolini e evitare un nuovo conflitto mondiale: come ricordò Churchill si trattò di una valutazione sbagliata per cui Francia e Gran Bretagna oltre a non riuscire a evitare la guerra, persero anche “l’onore”. Ma le ragioni del “patto scellerato” stanno solo in parte in quell’errore. Infatti l’accordo tra Mosca e Berlino aveva ben più solide implicazioni strategiche, che andavano ben oltre lo sforzo sovietico di impedire l’attacco militare nazista all’Urss, e che riguardavano i progetti «imperiali» di Stalin, volti da un lato a fare dell’Urss una grande potenza mondiale. In quest’ottica l’ espansione dei propri confini nazionali in direzione dell’Europa orientale, come misero in luce la spartizione della Polonia e la guerra contro la Finlandia, costituiva una chiave di volta fondamentale. Quindi il suggerimento del parlamento europeo di ritornare a riflettere su quel patto è di grande rilievo perché obbliga a riconsiderare il ruolo dell’Urss nella seconda guerra mondiale, all’interno del quale l’imperialismo costituisce una linea guida che rimane anche dopo Stalingrado e l’alleanza “antifascista” con gli Stati Uniti e i suoi alleati: se siamo europei dobbiamo prendere atto della necessità irrinviabile di leggere la storia del continente nella sua interezza: non solo da Roma o Parigi, ma anche da Varsavia o da Vilnius. Da quelle capitali l’esaltazione dell’Urss come patria dell’antifascismo e della lotta al nazismo appare del tutto priva di senso, perché l’antifascismo costituì lo strumento ideologico attraverso il quale l’Urss cerco di legittimare la politica di potenza nell’Europa orientale e baltica. Ma questo dato di fatto mina anche la narrazione dominante nell’Europa occidentale sul ruolo dell’Urss nella lotta contro il fascismo, perché essa non era condotta in nome di una tavola di valori democratici, condivisa seppur ambiguamente anche dai partiti comunisti impegnati nelle resistenze dell’Europa occidentale, ma con lo scopo prioritario di affermare il progetto imperiale dell’Urss.

Lo Stalinismo e l’antifascismo. Al di la dei miti posteriori, non vanno dimenticare le conseguenze che il “patto” ebbe sull’antifascismo di allora. L’Urss, infatti, non era semplicemente uno stato tra altri stati; era la «patria del socialismo», cioè lo stato guida di un movimento rivoluzionario internazionale. Ogni suo atto, dunque, doveva necessariamente trovare posto all’interno di un tragitto strategico definito, come se costituisse la tessera di un mosaico che il partito era in grado di comporre perfettamente perché ne conosceva il disegno finale. Il patto con il nazismo, con il nemico principale del movimento operaio mondiale, andava dunque inserito in un dispositivo politico e ideologico capace di trasformare questa scelta, espressione della più cinica «ragion di stato», in una lungimirante operazione che doveva aprire una nuova fase dello scontro tra borghesia e classe operaia a livello mondiale. Per realizzare questo obbiettivo e mobilitare intorno ad esso il movimento comunista europeo fu rilanciata la vecchia discriminante capitalismo/anticapitalismo, in sostituzione di quella tra fascismo e antifascismo scelta nell’VIII congresso dell’Internazionale comunista. Questo cambio di orizzonte politico ebbe come conseguenza la crisi irreversibile dell’antifascismo stesso, come si era venuto configurando dal 1934, basato sull’unità d’azione tra comunisti, socialisti e forze democratiche. Quando Molotov dalla tribuna del Soviet supremo sostenne, a giustificazione del trattato testé sottoscritto, che «era insensato e addirittura criminale spacciare questa guerra come una lotta per la distruzione dell’hitlerismo sotto la falsa bandiera di una battaglia per la democrazia», decretò la morte dell’antifascismo. L’antifascismo venne dunque sacrificato per la politica di potenza dell’Urss, altro che “patria dell’antifascismo”: il dramma dei comunisti nell’Europa occidentale, stretti tra la fedeltà a Mosca e l’impegno nella lotta antifascista, insieme ai partiti democratici e socialisti, ne è la più chiara conferma. Quindi a chi professa una presunta lesa maestà dell’antifascismo nel mancato riconoscimento del ruolo dell’Urss nella lotta contro in nazismo, non solo non ha letto il testo della risoluzione, che non tratta dell’argomento, ma dimostra una conoscenza del passato parziale e ideologicamente orientata. Proprio l’esito della guerra nei paesi dell’Europa dell’Est dimostra l’estraneità del comunismo ai valori dell’antifascismo e la strumentalità con cui l’Urss aderì alla “guerra antifascista” dopo Stalingrado e soprattutto utilizzò, come accennato in precedenza. l’antifascismo come elemento fondante della sua ideologia totalitaria. Questa duplicità di destini dell’antifascismo nelle due Europe divise dalla cortina di ferro – a Occidente fondamento ideale della rinascita democratica; a Oriente componente retorica dell’ideologia di stato delle repubbliche popolari – è la questione di fondo che il documento del parlamento europeo vuole proporre alla discussione dell’intera comunità e su cui gli intellettuali dovrebbero dare il loro contributo, invece che sventolare fruste bandiere. Tra il mai più dell’Europa occidentale e quello dell’Europa orientale vi è una differenza sostanziale: il primo riguarda il fascismo, il secondo il comunismo; una divergenza insopprimibile che si può superare solo riconoscendola, senza evocare il complotto anticomunista e antifascista dei paesi di Visegrad.

Equiparare fascismo e comunismo? Ma se nel dibattito italiano si è frainteso il senso della risoluzione per quel che riguarda il patto Ribbentropp-Molotov, il travisamento è ancor più grave a proposito della presunta equiparazione tra fascismo e nazismo che costituisce, nonostante non vi sia traccia nel documento, la chiave di lettura critica più diffusa tra gli intellettuali italiani di sinistra. Il 13 novembre l’Anpi e la Cgil di Modena hanno organizzato una conferenza di Luciano Canfora, l’ultimo studioso dichiaratamente comunista vivente in Italia, per rispondere all’interrogativo: “Nazifascismo e comunismo sono uguali? L’Europa alla prova di revisionismo storico”. Basta leggere il documento per capire che il parlamento europeo ha invitato a fare un’altra operazione culturale, ben lontana da una insulsa equiparazione: condannare allo stesso modo il fascismo e il comunismo, non perché siano uguali, ma perché costituiscono i due lati della stessa medaglia totalitaria, che ha insanguinato l’Europa per gran parte del XX secolo. Il nodo della questione riguarda dunque l’appartenenza o meno del comunismo al campo del totalitarismo, cioè a un insieme di regimi che, differenziati dal punto di vista delle finalità ideali che contrassegnano le loro ideologie, hanno messo in pratica forme di governo basate sulla negazione radicale della democrazia e del pluralismo, in nome di uno statalismo assoluto e di una integrazione inestricabile tra stato e partito, che ha tolto ogni autonomia ai cittadini, trasformati in sudditi di una macchina di controllo sociale senza scampo il cui esito estremo è stato il gulag e il lager. Il totalitarismo è la negazione dell’uomo; non è una ideologia, ma un crimine, estendendo anche al comunismo il giudizio che Sandro Pertini espresse a proposito del fascismo. Se di questa macchina totalitaria l’Europa occidentale ha conosciuto il volto fascista, quella orientale a conosciuto quello comunista, o entrambi. E dunque la risoluzione del parlamento comunitario “ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell’umanità, e rammenta l’orrendo crimine dell’Olocausto perpetrato dal regime nazista; condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari”. Come ha ricordato recentemente lo storico Antonio Brusa (“Novecento.org”, 2019) a proposito del nunca mas con cui la Commissione nazionale sui crimini della Giunta militare argentina ha intitolato il suo rapporto finale, tra il mai più dell’Europa occidentale e quello dell’Europa orientale vi è una differenza sostanziale: il primo riguarda il fascismo, il secondo il comunismo; una divergenza insopprimibile che si può superare solo riconoscendola, senza evocare il complotto anticomunista e antifascista dei paesi di Visegrad. Un riconoscimento che però implica di andare più a fondo di una semplice constatazione di un dato di fatto, mettendo a fuoco sia gli esiti della mancata condanna del comunismo nelle culture politiche della sinistra europea, sia i rigurgiti nazionalisti che riemergono nei paesi dell’Est, come conseguenza della mancata condanna del fascismo che pure aveva costituito una presenza significativa in quegli stati tra le due guerre. Quindi il documento, mentre condanna “il revisionismo storico e la glorificazione dei collaborazionisti dei nazisti che hanno corso in certi paesi dell’Unione”, invoca la necessità che si diffonda nell’Europa una memoria potremmo dire “antitotalitaria” che condanni entrambi i regimi che hanno negato i valori fondanti su sui è stata edificata la nuova Europa comunitaria. Su di essa deve poggiare “ una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani”. Siamo in presenza di un uso del termine revisionismo ben diverso da quello evocato dall’iniziativa modenese, che rimanda a stantie polemiche antidefeliciane, e alla difesa di una vulgata ideologica che non ha ormai nessun effettivo fondamento storico: la storia dell’Urss e dei regimi comunisti non appartiene al lungo processo della liberazione dell’uomo dalle ingiustizie sociali e dall’oppressione, ma al suo esatto contrario, nonostante la loro ideologia fosse fondata sull’emancipazione del lavoro e sulla creazione di un ideale società egualitaria. Che il comunismo abbia significato per milioni di uomini una speranza di riscatto e abbia guidato movimenti di liberazione in tutto il mondo, non può tradursi nel negare che tutte le volte che quella speranza si è consolidata in sistemi politici concreti abbia prodotto regimi totalitari.

Il comunismo e la cultura storica italiana. Perché dunque in Italia si è verificato questo travisamento, che non posso pensare sia dipeso dal fatto che gli storici non abbiano letto il testo che hanno commentato, fidandosi della lettura ideologica “filocomunista” dell’Anpi? Le ragioni sono sostanzialmente due.

La prima riguarda l’incapacità degli storici di estrazione marxista, che provengono da una più o meno lunga militanza nel Pci e/o nei movimenti di sinistra, di leggere il comunismo non per quello che aveva rappresentato nella loro giovinezza, ma per quello che effettivamente fu, quando fu messo alla prova effettiva della storia. Che il comunismo abbia significato per milioni di uomini una speranza di riscatto e abbia guidato movimenti di liberazione in tutto il mondo, non può tradursi nel negare che tutte le volte che quella speranza si è consolidata in sistemi politici concreti, da Mosca a Cuba, da Pechino a Belgrado abbia prodotto regimi totalitari, che hanno raggiunto punte di violenza e di distruzione degli esseri umani del tutto simili a quelle dei fascismi: il socialismo reale con quelle speranze non ebbe nulla a che fare, né si tratto di “eccessi” e di deviazioni da un piano ideale positivo. Il leninismo infatti già nella sua costruzione originaria professava l’idea di una “dittatura” non già del proletariato, bensì del partito unico, della Ceca, antagonistica allo stato di diritto e alla democrazia. Per accogliere questo piano di discussione e riflessione noi abbiamo a disposizione la categoria del totalitarismo, che consente di mettere in evidenza i punti di contatto, le omogeneità, oltre le differenze, che rendono possibile in sede scientifica la comparazione – che non è omologazione, equiparazione ed altre amenità – dei due regimi. Ma purtroppo la lezione della Arendt sul totalitarismo, pur vecchia di settant’anni, non è passata interamente nella storiografia e men che meno nel discorso pubblico e nel dibattito culturale, che spesso maneggiano questa concettualizzazione delle scienze sociali statunitensi con sospetto, come se fosse un vecchio arnese della guerra fredda e un “arma impropria” contro il comunismo. Invece che una chiave di lettura in grado di aprire prospettive di indagine originali e pregnanti. Queste prese di posizione segnalano dunque il peso di retaggi ideologici ancora pesantemente presenti nelle griglie concettuali con cui molta intellighenzia di sinistra guarda al passato, a tal punto da impedirle di interpretare un testo per quello che effettivamente dice o di coglierne lo straordinario significato in rapporto alla creazione di una cultura democratica europea.

Il Pci fu un’eccezione? La seconda ragione riguarda il comunismo italiano, la cui partecipazione alla resistenza e alla costruzione della democrazia italiana, non solo lo avrebbe messo al riparo dall’appartenere al campo del totalitarismo sovietico, ma lo avrebbe trasformato del tutto inopinatamente nel punto di vista da cui leggere tutta la storia del comunismo. Anche questa chiave di lettura non è pienamente condivisibile e presenta molte contraddizioni. Il Pci infatti è appartenuto all’orbita bolscevica e staliniana fino alla morte di Togliatti e la partecipazione alla stesura della costituzione non sana il fatto che, per lo meno fino alla segreteria di Berlinguer, nel suo orizzonte strategico, tra i suoi “fini”, vi fosse la “democrazia popolare”, cioè proprio il sistema di quei regimi dittatoriali dell’Europa dell’Est. Per fortuna l’appartenenza al mondo occidentale e i vincoli della guerra fredda hanno impedito al Pci di realizzare ciò che prometteva ai suoi militanti e di diventare un effettivo costruttore della democrazia italiana: ma questa circostanza è una conseguenza storica che dipese dal contesto e dalla lungimiranza dei suoi dirigenti, ma non affondava le sue radici nella cultura politica di quel partito; e che tra l’altro contribuì a definire la sua ”ambiguità” storica, che tanto ha pesato sull’evoluzione della democrazia italiana. Il Pci, dunque, è stato, con tutti i suoi limiti, un’eccezione nella storia del comunismo mondiale, non l’osservatorio da cui leggerne la storia, che resta invece interamente riassunta nell’esperienza del “socialismo reale”. È con questa vicenda con cui qui la memoria dell’Europa deve fare i conti, con la stessa serietà e con la stessa fermezza messe in campo nei confronti del fascismo, non con i problemi identitari di intellettuali excomunisti, che sovrappongono la loro autobiografia di intellettuali militanti alle lezioni, spesso durissime, della storia. Purtroppo è del tutto evidente che tra alcuni storici italiani e in alcune associazioni antifasciste non ci sia la stessa fermezza, anzi si annidi una concezione benevola del comunismo, che colloca lo stalinismo tra gli eccessi e gli errori di una storia fulgida di lotte per la libertà e la pace, e soprattutto al di fuori della storia tragica del totalitarismo. Mi viene da dire che per fortuna che c’è il parlamento europea che vigila sulla memoria del continente, meglio di come non facciano gli intellettuali italiani.

Articolo pubblicato sul Quaderno 1 – 2019 di PER

Le divergenze parallele di Mussolini e Bombacci. Il fondatore del fascismo e quello del Partito comunista d'Italia ebbero le stesse origini. E la stessa tragica fine. Roberto Chiarini, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Di Mussolini sappiamo molto e s'è scritto moltissimo. Di Bombacci sappiamo abbastanza e s'è scritto quanto basta, almeno per avere un'idea approssimativa del ruolo avuto da questo stravagante personaggio nella storia dell'Italia della prima metà del Novecento. Nessuno, fino a oggi, si era impegnato in un'analisi comparata dei due personaggi, nel considerare le scelte politiche e umane di due romagnoli doc, cogliendone gli incroci e gli scontri. Attraverso le loro biografie politiche è possibile illuminare una delle peculiarità (e dei paradossi ideologici) dell'Italia della prima metà del '900: il rigetto, condiviso da destra e da sinistra, della civiltà liberale. In un crescendo, a partire da inizio secolo e con una forza dirompente all'indomani della Grande guerra, l'idea di un progresso allargato alle classi popolari perde rapidamente credibilità fino a collassare. Crolla quella che lo storico marxista Eric Hobsbawm ha chiamato, dal titolo di un suo libro L'età del capitale: quel XIX secolo che aveva sancito il «trionfo della borghesia». L'ingresso delle masse in politica e il «contagio delle idee» di libertà e di uguaglianza sono il combinato disposto che mette fuori gioco, insieme, classi dirigenti, modello di società di mercato, democrazia parlamentare. L'Europa del dopoguerra diventa terreno di coltura ideale di progetti rivoluzionari e reazionari. Simmetricamente a destra e a sinistra crescono minoranze estremiste e violente, tra loro nemiche, ma - ecco il paradosso - promotrici concordi di un nuovo ordine i cui punti fermi sono il rifiuto della democrazia parlamentare e il superamento della società di mercato fondata sul profitto individuale. Su questo retroterra comune si sviluppano storie collettive parallele, volte entrambe a edificare regimi dittatoriali, il fascismo a destra e il comunismo a sinistra. Su questa stessa base si snodano anche storie individuali di giovani che nella loro esistenza abbracciano, in tempi diversi, opzioni opposte. Riprova, se ce n'era bisogno, che la matrice antidemocratica e anticapitalista era condivisa, e capace di produrre esiti di destra e di sinistra, indifferentemente. C'è un'intera generazione educata a «libro e moschetto» che negli anni Trenta s'infervora per la lotta alle democrazie capitalistiche nel nome del fascismo e a fine guerra s'infiamma per la stessa battaglia nel nome del comunismo. Sono i casi, esemplari e clamorosi, di Benito Mussolini e di Nicola Bombacci: il primo, da irruente propagandista di un socialismo rivoluzionario, diviene fautore di un ordine autoritario, ma sempre (velleitariamente) antiborghese. Il secondo, da esaltato apostolo del socialismo, tanto da diventare uno dei fondatori nel 1921 del Pcd'I, si ritrova transfuga dal partito di Bordiga e Gramsci, e infine fervente seguace del fascismo più oltranzista. Due storie parallele e insieme sovrapposte, quelle del «Lenin rosso» e del «Lenin nero», che vengono appassionatamente ricostruite da Alberto e Giancarlo Mazzuca in Mussolini-Bombacci. Compagni di una vita (Minerva, pagg. 372, euro 17). Mussolini e Bombacci sono figli della Romagna (Dovia di Predappio e Civitella distano trenta chilometri). Affrontano gli stessi percorsi educativi (allievi della Scuola Normale di Forlimpopoli) ed esistenziali nel segno di «una forte passionalità e veemenza in difesa delle loro opinioni». Le loro strade si separano allo scoppio della guerra mondiale. L'uno creerà una dittatura di destra, ammantata da socialismo nazionale. L'altro porterà alle estreme conseguenze il suo rivoluzionarismo antiborghese, provando a «fare come in Russia». Due storie parallele e antitetiche destinate, un ventennio dopo, a convergere in nome della comune avversione al comunismo stalinista e al «lurido tradimento» di Vittorio Emanuele III e di Badoglio. Tutto questo in nome - soprattutto - dell'edificazione di un nuovo ordine economico, fondato sulla socializzazione, sulla «gestione diretta delle imprese» da parte dei lavoratori, sul passaggio a una forma di comunismo (nel caso di Bombacci) che prevede l'esproprio di «tutta la proprietà edilizia destinata all'affitto», pagandola con titoli di Stato. La comune militanza giovanile nelle file del ribellismo antiborghese diventa la matrice che ricompone due scelte di vita alternative. La riconciliazione si completa sulle sponde del lago di Garda nei cupi giorni della Repubblica di Salò, quando ormai il sipario stava calando sull'ultima fase della dittatura fascista, e nel modo più tragico. Il «Lenin nero» e il «Lenin rosso» finiranno la loro esistenza l'uno a fianco all'altro, appesi al traliccio di Piazzale Loreto. Presagendo il destino, Bombacci stende un epitaffio in cui riannoda le radici lontane della loro esistenza alle scelte che avevano diviso le loro vite, ma che in quel tragico momento sembrano le sole a essere significative: «Un giorno gli storici si chiederanno, ma che ci faceva accanto a lui Bombacci, il fondatore del Partito comunista? Sai, diranno, erano romagnoli tutti e due Si volevano bene, erano stati a scuola insieme».

·        Razzisti!!

Antisionismo militante. Il razzismo degli intellettuali e le solite polemiche contro Israele. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 25 Novembre 2021. Sally Rooney non vuole concedere i diritti di traduzione in ebraico alla casa editrice, colpevole di collaborare con il ministero della Difesa. A distanza di due mesi è arrivato il documento di sostegno, con i nomi di 70 scrittori. Sono in 70 e hanno firmato una lettera per dire che Sally Rooney ha fatto bene. La scrittrice irlandese, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Beautiful World, Where Are You?” lo scorso settembre, si era rifiutata di concedere i diritti di traduzione alla casa editrice israeliana Modan, che aveva pubblicato i suoi due romanzi precedenti. La ragione è politica. Sally Rooney sostiene la causa del controverso movimento Boycott, Divestment, Sanction (BDS), che chiede «la fine del sostegno internazionale all’oppressione israeliana dei palestinesi, facendo pressioni perché obbedisca alle leggi internazionali». E la colpa della Modan è, secondo gli autori nella lettera, «vendere le pubblicazioni del ministero della Difesa israeliano». Come era prevedibile, la decisione ha suscitato comprensibili polemiche, un certo scandalo e, adesso, anche una lettera di supporto. Il movimento BDS si identifica come la continuazione della battaglia anti-apartheid del Sudafrica, tanto che secondo alcuni studiosi le sue origini risalirebbero alla Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001, che si era tenuta proprio nel Paese africano. Tuttavia in molti, come l’ex presidente dell’Anti-Defamation League, hanno segnalato che le sue posizioni, concentrate sulla fine dell’occupazione israeliana e sulla richiesta di restituzione delle terre ai palestinesi, sottintendano in realtà la volontà di distruggere Israele. Altri hanno fatto notare come nei suoi proclami non faccia alcuna distinzione di responsabilità tra gli israeliani, identificandoli tutti come un nemico oppressore. Anche per lo studioso Norman Finkelstein, che ha spesso posizioni filo-palestinesi, il movimento BSD è «un culto disonesto», che vuole porre fine a Israele attraverso la demografia. Nel 2019 il parlamento tedesco ha deciso di revocargli ogni finanziamento sulla base del fatto che le istanze di BDS sono state giudicate «antisemite». Sally Rooney non la pensa così. E se anche due catene di librerie israeliane hanno deciso per protesta di ritirare i suoi libri dagli scaffali, va avanti e ottiene l’appoggio di 70 personalità, tra scrittori, poeti e autori teatrali. La lettera (qui il testo, pubblicato dall’Irish Times), che si limita a ribadire la solidarietà nei confronti del popolo di Israele, somiglia più a una sorta di manifesto e a una conta. Tra i firmatari ci sono personaggi notissimi come il saggista indiano Pankaj Mishra, lo scrittore inglese Geoff Dyer, l’autrice americana Rachel Kushner, a insieme ad altri più o meno noti, come l’autrice anglo-pakistana Kamila Shamsie (che a sua volta aveva rifiutato un riconoscimento in nome del popolo palestinese e si rifiuta di pubblicare i suoi scritti in Israele perché «non esiste casa editrice che non abbia legami con lo Stato»), o la bengalese naturalizzata inglese Monica Ali. C’è anche il britannico China Miéville, autore marxista di fantasy, e l’editrice Alexandra Pringle, fondatrice della Virago Press. L’istanza è intellettuale, l’impegno è politico e la posizione molto chiara. Nulla da dire sulle opinioni, per carità. E si sa che i simboli sono importanti, spesso importantissimi. Ma risulta difficile capire, stringi stringi, cosa importa agli oppressi palestinesi sapere che gli israeliani non leggeranno l’ultimo libro di Sally Rooney.

L’esperimento sovietico. Il folle progetto di uno Stato ebraico nella zona più inospitale dell’Urss di Stalin. Masha Gessen su L'Inkiesta il 19 Novembre 2021. L’area prescelta fu la desolata regione autonoma del Birobidžan. Nei primi anni ’30 in migliaia risposero all’appello, tra molte speranze e incalcolabili difficoltà. Altri ancora aderirono dopo aver perso tutto a causa della Shoah. Masha Gessen racconta nel suo libro (pubblicato da Giuntina) la storia triste e assurda di un piano eroico e disperato. Subito dopo la presa del potere, il governo bolscevico adottò la strategia di tentare di sfruttare il nazionalismo per preservare l’impero piuttosto che farlo a pezzi, garantendo a ciascun gruppo etnico auto-identificatosi come tale una forma di autonomia che variava dal soviet di un villaggio nazionale alla base della piramide fino a una repubblica nazionale al vertice. Tra la nazionalizzazione e una certa distorta idea di giustizia, l’autonomia ebraica divenne collegata all’agricoltura; gli ebrei, a cui non era stato permesso di possedere della terra nella Russia zarista, avrebbero, ora, lavorato duramente nelle fattorie collettive. Aiutati finanziariamente dalle comuni ebraiche americane, decine di questi insediamenti apparvero in Crimea e nel sud dell’Ucraina durante il primo decennio del dominio sovietico, creando un enorme risentimento tra i contadini locali assediati. Un alto funzionario del partito ucraino avvisò il Politburo in una lettera del 1926: «Innumerevoli tentativi di creare delle condizioni eccezionalmente favorevoli per gli insediamenti agricoli ebraici, a scapito degli interessi della vasta massa degli agricoltori sovietici, hanno suscitato da parte di quest’ultimi un forte malumore antiebraico». Contemporaneamente, mentre il regime sovietico eliminava l’impresa privata, grande o piccola che fosse, un numero crescente di ebrei perdeva il proprio sostentamento. Uno studio condotto sul territorio che un tempo era la Zona di Residenza ebraica confermava che «le condizioni di vita delle vaste masse ebraiche non soltanto non sono migliorate ma, in certi casi, sono perfino peggiorate». Tra il 30% e il 40% degli ebrei in Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale non avevano alcuna fonte di reddito. Il governo continuò a insistere che gli ebrei ora dovevano vivere dei prodotti della terra. Nel 1926, Mikhail Kalinin, il capo dello Stato sovietico, faceva risuonare una nota minacciosa nel suo discorso alla conferenza del Comitato per l’insediamento degli ebrei lavoratori della terra (OZET): Il popolo ebraico affronta una sfida importante: la conservazione della sua nazionalità. Per realizzare ciò, una parte significativa della popolazione deve essere trasformata in una popolazione agricola, compattamente insediata, di almeno diverse centinaia di migliaia di persone. Soltanto se queste condizioni sono soddisfatte le masse ebraiche possono avere una qualche speranza di sopravvivenza della loro nazione. Ciò che apparentemente aveva in mente era una regione sottopopolata al confine della contesa Manciuria. L’anno seguente un gruppo di agronomi passò l’estate nella regione, delimitata dai fiumi Bira e Bidžan, studiando le prospettive dei colonizzatori. Redassero una relazione di ottanta pagine che suonava come una litania delle difficoltà che i pionieri ebrei avrebbero affrontato. In effetti sembra come un elenco di motivazioni contro l’idea in sé. Prima di tutto c’era il suolo: montagne che erano, se non particolarmente alte, eccessivamente ripide e caratterizzate da formazioni rocciose che si incontravano ad angoli così vivi da non potere essere attraversate neppure a cavallo. La valle era in gran parte una palude. Poi c’era il clima. Gli inverni, che iniziavano in ottobre e duravano fino ad aprile, erano rigidi; le estati portavano acquazzoni torrenziali intervallati da giorni di caldo torrido. E poi c’era la sventura che legittimava il paragrafo più eloquente della relazione: Vorremmo, in particolare, sottolineare l’importanza degli insetti ematofagi: l’enorme quantità di tafani, di zanzare e di moscerini che, nel corso dei due mesi estivi, causano un’estrema sofferenza al bestiame e agli uomini. Gli insetti ematofagi hanno effetti sull’agricoltura diminuendo la produttività degli animali in estate e creando ostacoli insormontabili nell’esecuzione del lavoro che coinvolge i cavalli alla luce del giorno. Per combattere gli insetti ematofagi, la popolazione locale utilizza il fumo e degli unguenti dall’odore pungente applicati al bestiame. Le persone indossano delle zanzariere e dei copricapo ma, in linea generale, sono abituati alla iattura che sono gli insetti. E infine c’era la gente del luogo. Molti di loro erano cosacchi inviati là per un decreto dello zar negli anni 1860 per aiutare a fortificare il confine. Erano arrivati decenni prima che la ferrovia si estendesse così lontano, e avevano sopportato difficoltà indicibili prima di riuscire a domare la terra quanto bastava per viverci. L’area ospitava anche una piccola popolazione di coreani-russi, chiaramente cittadini di seconda classe se paragonati ai cosacchi (tra le altre cose, i decreti dello zar concedevano alle famiglie coreane solo metà della terra concessa a quelle cosacche). A complicare ulteriormente le cose bande di predoni di etnia cinese, conosciuti come gli honghutzu, letteralmente quelli dalla barba rossa, terrorizzavano i locali, in particolare i coreani, che coltivavano il papavero da oppio, la valuta locale preferita. La relazione terminava con cinque pagine di conclusioni, soprattutto avvertimenti che il progetto di insediamento ebraico sarebbe stato estremamente difficile. Portare le persone là sarebbe stato arduo: c’era la ferrovia, ma le infrastrutture di supporto erano in rovina. Fare arrivare il bestiame sarebbe stato ancora più difficile e più costoso. La costruzione di alloggi doveva essere realizzata velocemente, il clima non permetteva più di un varco di due mesi, purché i pionieri arrivassero in giugno, ma la costruzione sarebbe stata difficile dal momento che gran parte della regione era stata deforestata dall’uomo e dagli incendi. Questo era anche uno dei motivi per cui i cosacchi locali erano inclini a uno stile di vita nomade: la legna da ardere era scarsa. Il progetto agricolo, in altre parole, appariva irrealistico e gli esperti, tutti agronomi, suggerirono garbatamente che i pionieri prendessero in considerazione di seguire la strada dell’industria. Era necessario un anno intero di intensi preparativi, compresa la costruzione di strade, di edifici residenziali e di sistemi di miglioramento prima che arrivassero i pionieri. Nessun pioniere doveva progettare di venire prima del 1929, e non più di un migliaio di famiglie nel primo anno e, in seguito, un paio di migliaia di famiglie l’anno. La relazione menzionava anche che la popolazione locale era in stato di ansia a causa della progettata invasione ebraica. Il governo sovietico ignorò praticamente tutte le raccomandazioni del comitato e decise di sistemare immediatamente la regione, puntando a spostare un milione di persone in quell’area in dieci anni. Il nome Birobidžan, derivato dai fiumi Bira e Bidžan, sarebbe arrivato in seguito. Per il momento c’era una stazione ferroviaria fatiscente chiamata Tikhonkaya, «Un posticino tranquillo», che era un modo educato di dire «dimenticato da Dio». Il primo carico di pionieri arrivò, via ferrovia, nell’aprile del 1928; entro alcune settimane 504 famiglie e 150 pionieri singoli erano arrivati, raddoppiando all’incirca la popolazione di Tikhonkaya che, all’epoca, vantava 237 case, una sola scuola elementare e un negozio. Non c’era nient’altro: non un ufficio postale, non un servizio telefonico, non strade asfaltate, e nemmeno marciapiedi se non per alcune assi di legno che galleggiavano nel fango. da “Dove gli ebrei non ci sono. La storia triste e assurda di Birobidžan, la regione autonoma ebraica nella Russia di Stalin”, di Masha Gessen, Giuntina editore, 2021, 224 pagine, euro 18

Feltrinelli antisemita? Diffonde i Protocolli dei savi di Sion: imbarazzo a sinistra. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Ora, c’è qualcosa che stona nell’idea che alla Feltrinelli ci sia un enclave di funambolici nazisti dell’Illinois –come direbbe John Landis- ; i quali, nel buio della loro stanzetta accanto a quella degli illuminati editor progressisti, sponsorizzano il complottone demoplutogiudaico. Come dire. Il piano degli ebrei alla conquista del mondo che sta funzionando. Probabilmente si tratta dell’esprit di qualche redattore giocherellone. O forse davvero sono in malafede. Ma, insomma, è una notizia infiammabile il fatto che nello store online della casa editrice Feltrinelli figuri, con tanto di copertina, la sinossi della nuova versione de I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. I Protocolli sono il più formidabile tarocco documentale antisemita della storia dell’umanità -datato 1864 creato dall’Ochrana, la polizia zarista- nel quale si tracciano “i confini di un presunto complotto della comunità ebraica internazionale, con la complicità della massoneria, per prendere il potere economico e politico”. Ma non è tanto il fatto che i Protocolli, modello ispiratore di tutta la propaganda nazista Shoah compresa, tornino in catalogo. In fondo, anche il Main Kampf per quanto malscritto e urticante al tatto, possiede un suo certo valore storico. Anche se, quando lo pubblicò Il Giornale, fu la bomba atomica mediatica: come se Goebbels avesse firmato l’editoriale di prima pagina. No. Il vero problema, qui, non sono I Protocolli, ma proprio la loro sinossi. Che recita: «Fin dall’inizio sono stati bollati di essere un geniale falso e le motivazioni pro e contro sono tante, soprattutto da parte di coloro che desiderano affossarli definitivamente, in realtà contribuendo alla loro incredibile sopravvivenza». E «veri o falsi che siano, ormai non conta più, perché questi misteriosi protocolli, persino fuori dal loro tempo si sono rivelati laicamente profetici. Dopo circa 120 anni molti di quei piani, allora solo ventilati, sembrano in gran parte realizzati: la storia conferma che gli appunti protocollati di cui andiamo a proporre una nuova e riveduta traduzione dimostrano che non si trattava di pie fantasie». Ribadiamo i concetti. “Geniale falso…”: no, solo falso tutt’altro che geniale, scoperto già all’uscita nel 1903. E nel ’21 il Times  svelò la beffa pasticciata nella copiatura di varie testate satiriche. “Veri o falsi che siano…”: no, sono falsi, sono la Recherche del complottismo, la vetta umana della cialtroneria. “Laicamente profetici, piani in gran parte realizzati…”: no, gli ebrei non hanno conquistato il mondo, anche se Woody Allen ci ha provato varie volte. Ora, il suddetto testo, privo di serietà, di contestualizzazione storica e di senso del reale non l’ha scritto Feltrinelli: è farina del sacco delle Edizioni Segno che si autodefinisce «leader nel settore dell’editoria cristiana» e «nata nel 1988 come piccola casa editrice indipendente di pubblicazioni religiose». Alla faccia del cristiano rispetto per il prossimo. Epperò Feltrinelli, editore così attento ai diritti civili, come distributore di Segno, pubblica e avalla una castroneria pericolosa. Specie considerando il fatto che la stessa  Segno, nel suo irresistibile catalogo, pubblica L’ombra di Samael – categoria Sette e Massoneria- pamphlet in cui il “tentativo” di fare passare i Protocolli per falsi sarebbe «patetico»; e dove si affrontano «gli ultimi sviluppi della questione ebraica potendo così mettere definitivamente a fuoco la struttura del potere che da tempo immemore ed ancora oggi condiziona le vicende politiche e di conseguenza così tanto la nostra vita». Non ho parole. Ma ce le ha, le parole, invece, la Comunità Ebraica, incazzatissima. «Ehi Feltrinelli, attenzione qui. Davvero pensate si possa proporre i Protocolli dei Savi di Sion - libro chiave della propaganda antisemita - senza una nota che ne evidenzi la falsità? Così si favoriscono i teorici del complotto a danno dell’imprescindibile analisi storica», è il suo tweet più educato. Dello stesso parere, la Coordinatrice nazionale Lotta all’antisemitismo Milena Santerini: «Davvero incredibile Feltrinelli che si possa diffondere un libro così pericoloso scrivendo che i Protocolli potrebbero essere “veri o falsi” senza avvertire che sono un falso e l’uso che se ne è fatto nella storia». Si muove anche, sdegnata, l’ambasciata d’Israele. Dopo una giornata passata a dragare il fango Feltrinelli ripara; cancella il testo della sinossi e lo sostituisce con uno consono. Resta la macchia della gaffe. E la sensazione che i nazisti dell’Illinois si siano trasferiti presso un inquietante editore cattolico…

Vittorio Sabadin per “Specchio – La Stampa” il 23 maggio 2021. Benjamin Disraeli fu primo ministro della Gran Bretagna per due volte nella seconda metà dell'800, ed è ricordato anche per avere conseguito il più grande travaso di voti da sinistra a destra della storia del Regno Unito. Disraeli era convinto che dentro a ogni operaio e a ogni proletario ci fosse un conservatore: il compito di un politico tory era di tirarlo fuori, come faceva Michelangelo con le statue prigioniere dei blocchi di marmo. Un sondaggio commissionato dal Mail on Sunday sembra dargli ragione: gli elettori laburisti (e a maggior ragione anche gli altri) sono convinti che il partito appoggi senza riserve molte delle iniziative del politicamente corretto: abbattere le statue dei grandi uomini, come Churchill, che so no stati razzisti; scendere in piazza anche con manifestazioni violente in difesa dell'ambiente; permettere ai maschi di cambiare sesso e di accedere ai servizi delle donne; bloccare la pubertà dei bambini in attesa che decidano quale sesso avere; ribattezzare l'allattamento al seno "allattamento al petto"; ridurre le pene ai criminali. Il partito di Keir Stanner non appoggia tutte queste campagne, ad esempio è contro l'abbattimento delle statue. Ma gli elettori hanno un'altra impressione, e in maggioranza si dissociano da queste questioni, che considerano importate dall'America e contrarie al senso comune. Il Mail o n Sunday è un giornale di destra, ma ha toccato un tasto dolente per la sinistra: i laburisti hanno perso il contatto con i lavoratori e vincono ormai solo a Londra, tra i radical-chic di Islington. I loro simpatizzanti storici non condividono invece più l'adesione quasi automatica a ogni iniziativa che abbia l'apparenza di essere risarcito-ria e progressista. Boris Johnson lo ha capito e, come Disraeli, punta a tirare fuori il conservatore che si nasconde in ogni proletario. Sa che cosa dicono gli operai nei pub quando si parla di cambiamento di sesso e di condanne ai criminali, ella già annunciato di voler fermare la furia iconoclasta che dilaga nelle università, con gli studenti che vogliono abbattere le statue dei fondatori e sostituire lo studio della musica di Mozart e Beethoven con il reggae. Il premier britannico sogna di ottenere un secondo mandato, ma per averlo non può fidarsi del suo partito, nel quale ha troppi nemici. Come fanno con successo i populisti in ogni paese, cerca voti dovunque interpretando il senso comune del-la gente, quello che i laburisti e molti partiti di sinistra sembrano aver dimenticato.

Minoranze da difendere? Tutte, tranne gli ebrei...La sinistra non tutela più il "popolo" bensì le "diversità". Ma si è "scordata" una religione. Marco Gervasoni - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Il progressismo attuale, cioè la sinistra, lo sappiamo, non tutela più le classi lavoratrici e il «popolo» quanto le minoranze. Non c'è minoranza etnica, linguistica, religiosa, sessuale e persino di scelte culinarie (il veganesimo) che non sia difesa dai progressisti come modello di uno stile di vita che dovrebbe arricchire spiritualmente questo triste Occidente. Segno tangibile di decadenza, troviamo questa spasmodica ricerca della diversità anche in altri periodi caratterizzati dalla fine di una civiltà, come durante l'epoca alessandrina, il tardo impero romano, gli ultimi tempi di quello bizantino e così via. In attesa dei barbari che vengano a rivitalizzare la decadenza, la sinistra oggi è essenzialmente ed esclusivamente genderista, immigrazionista, filo islamica. L'unica minoranza religiosa che i progressisti si guardano bene dal difendere, e anzi spesso aggrediscono, è costituita dagli ebrei. Si riconferma così il classico paradosso che l'identità ebraica è al tempo stesso invisibile eppure onnipresente, e che la figura dell'ebreo è oggetto di operazioni di proiezione fantasmatica da parte dei non ebrei. In più, a complicare il quadro, sta il sostanziale filo islamismo dell'attuale sinistra, e per quanto non possiamo istituire una meccanica sovrapposizione tra antisemitismo e islam, oggi, in Occidente, gli islamisti sono i principali nemici degli ebrei. La patria di tutti questi paradossi non è gli Stati Uniti, nonostante il peso della identity politics (cioè l'assemblamento di minoranze) sia molto forte e gli ebrei abbiano un ruolo importante nella vita pubblica di oltre oceano. No, il luogo in cui cercare la contraddizione è il Regno Unito, dove la sinistra intellettuale e politica, rappresentata dal Labour, è al tempo stesso profondamente anti popolare e con uno spiccato carattere anti semita, e certamente anti israeliano. Le dimissioni di Corbyn non hanno modificato di molto il quadro: nonostante il linguaggio marxista e persino leninista, il Labour party è esattamente questo patchwork di minoranze di ogni tipo. Tutte tranne gli ebrei, che anzi spesso sono stati vittima della propaganda laburista. Ma il fenomeno è più profondo: il Labour non fa nient'altro che farsi collettore di immagini che circolano nella sfera pubblica inglese e in quella culturale, e della cultura che una volta si sarebbe detta di massa. Per questo il tema dell'antisemitismo a sinistra, ben tracciato da una serie di studi, appare in una luce nuova in questo volumetto proprio perché scritto da un attore (David Baddiel, Jews don't count, Harper Collins) il cui nome da noi non dice molto ma nel Regno Unito è un noto attore e presentatore televisivo, nonché sceneggiatore e romanziere, spesso impegnato nell'attività della comunità ebraica inglese. E qui si dimostra coraggioso assai perché anche a Londra tv e cinema sono occupati militarmente dai progressisti: che Baddiel sfida apertamente, accusandoli di difendere tutte le cause delle minoranze, meno quella degli ebrei. Di fatto, come spiega l'autore, per la sinistra gli ebrei non sono affatto una minoranza. Prova ne è che, nel mondo delle sceneggiature tv e cinematografiche, tutte dominate dal politicamente corretto, nella storia devono essere presenti tutte le minoranze, tutte ovviamente incarnazione di figure positive (i cattivi sono quasi sempre maschi bianchi etero ormai), tranne gli ebrei. Attraverso esempi calzanti spesso molto divertenti (si sente la penna dell'umorista), Baddiel cita i rarissimi casi in cui ebrei sono presenti nelle fiction, e sono quasi tutti personaggi negativi o perlomeno ambigui. Così, secondo un paradosso, alla fine la sinistra politicamente corretta finisce per fare la stessa cosa della produzione artistica della Germania nazista; in cui gli ebrei dovevano essere assenti, salvo incarnare figure negative. Persino nella scelta degli attori è così: rarissimamente personaggi ebrei sono interpretati da attori che lo sono davvero, diversamente da quando accade per le altre minoranze. Ovviamente la questione palestinese occupa un posto fondamentale, fino a un Ken Loach che spiega come «l'antisemitismo» sia una reazione «comprensibile» di fronte alle «azioni di Israele». Quanto all'antisemitismo nel Labour, Baddiel mostra come la spiegazione della intellighentsia rossa di oltre Manica sia piuttosto primitiva: solo propaganda della destra e dei suoi giornali. Fino a un noto editorialista del Guardian che istituisce una rigida gerarchia del razzismo, partendo dalle etnie o dalle religioni più aggredite fino a quelle più tollerate: indovinate chi siede all'ultimo posto? Gli ebrei, quasi estinti in Europa nel secolo scorso da un progetto sterminazionista, sarebbero insomma oggi poco toccati dal razzismo, quando non sarebbero razzisti essi stessi nei confronti degli arabi. Una sorta di neo negazionismo, come denuncia la scrittrice Deborah Lipstadt intervistata dallo stesso Baddiel. Che alla fine non fornisce rimedi e soluzioni: intanto però diverse organizzazioni islamiche hanno già chiesto che sia bandito dalla tv per... razzismo. Amara conferma della correttezza della sua tesi.

L'ultimo sfregio degli antifa: "No foibe no party". A Genova spuntano dei manifesti che inneggiano alle foibe. L'unione degli istriani: "Un'azione che tutti dovrebbero denunciare". Matteo Carnieletto - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. A distanza di 75 anni c'è ancora non solo chi nega le foibe, ma addirittura chi inneggia ad esse. Non solo il 10 febbraio, quando si commemora il Giorno del Ricordo, ma tutto l'anno. Per la sinistra più radicale, infatti, le cavità carsiche in cui furono gettati gli italiani a guerra finita sono un pensiero fisso. Quasi un desiderio che non si è mai del tutto realizzato. E così questa mattina Genova si è svegliata tappezzata di manifesti, ovviamente abusivi, in cui si inneggia alle foibe. Lo ha annunciato l'Unione degli istriani, postando le immagini su Facebook: "Nel capoluogo ligure sono stati affissi nelle scorse ore alcuni manifestini abusivi dal chiaro messaggio oltraggioso dei nostri drammi. 'No Foibe, no party', si legge sui placati lordati di stella rossa, firmati 'Genova antifascista', che hanno infastidito e indignato molti di noi. Come sempre, quando si tratta di offese a danno delle nostre tragiche vicende, la legge è magnanima, al punto che questa iniziativa non costituisce reato alcuno". L'Unione degli istriani fa poi notare il doppiopesismo che, sempre di più, viene portato avanti in queste occasioni: "Ben diverso sarebbe stato qualora oggetto dell'ingiuria fossero stati i campi di sterminio nazisti". Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione, afferma al Giornale.it: "Si tratta di una iniziativa che, al contrario di coloro che vorrebbero minimizzare, va invece denunciata e sulla cui condanna dovrebbero essere d'accordo tutte le istituzioni regionali e cittadine, così come le forze politiche. Dopodiché sappiamo bene che rimarrà beatamente impunità, anche qualora gli autori materiali dovessero rivendicarla, perché nel nostro Paese si possono offendere i nostri drammi liberamente, senza commettere alcun reato. Ed è proprio su questo punto che va fatta una riflessione seria". Già, perché le vittime delle foibe sono ancora considerati morti di serie B.

Dopo le foibe la Resistenza: un libro smonta le tesi di Pansa. Laterza è ormai la casa editrice dell’Anpi. Adele Sirocchi sabato 6 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Bisogna “rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo”. Questo lo scopo del libretto che Laterza dà alle stampe dopo quello di Eric Gobetti teso a minimizzare il dramma delle foibe.  Si intitola “Anche i partigiani però” e si presenta come un’operazione di fact checking per ristabilire la verità sulla Resistenza. L’autrice del libro, Chiara Colombini, lavora all’Istituto storico della Resistenza di Torino. Non proprio una voce super partes. Ma come sempre avviene dalle parti della sinistra, la verità ideologica si sovrappone al vero e fanno tutt’uno. Il libro, che in sostanza è un’apologia della Resistenza fondata sul principio aprioristico che i partigiani non hanno mai commesso atrocità, viene salutato con entusiasmo dal Fatto: “Un piccolo manuale di difesa delle idee e che restituisce le giuste ragioni a chi ha sempre avuto ragione”. Guai a dare spazio alle “ragioni dei vinti”, si finisce con l’oscurare un “mito”, quello resistenziale, che deve continuare ad essere fondativo dell’etica collettiva. “Si sta affermando – commenta su La Verità Francesco Borgonovo –  la tendenza a cancellare i pur piccoli passi avanti compiuti negli anni passati verso un’interpretazione meno ideologica della Storia. Tra la fine dei Novanta e i primi Duemila, complice il ritorno del centrodestra al governo e grazie all’enorme successo del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, si cominciò ad affrontare pubblicamente il lato oscuro della resistenza. … Libro dopo libro, ricerca dopo ricerca, il muro di silenzio edificato dalla retorica resistenziale aveva iniziato a mostrare segni di cedimento. Ora, però, qualcosa sta di nuovo cambiando. La sinistra, trovandosi in profonda crisi, si è aggrappata con le unghie all’unico baluardo di unità che ancora le rimanga: l’antifascismo”. Purtroppo voci libere come quella di Giampaolo Pansa stentano a levarsi. E Pansa così definiva la Resistenza in un’intervista al Secolo d’Italia: “Non fu un movimento popolare. Fu un fenomeno ristretto a una minoranza che decise di prendere le armi. L’intera guerra civile fu una guerra combattuta tra due minoranze”. Altra cosa è l’epica resistenziale, di cui ha bisogno l’Anpi per giustificare i soldi pubblici che continua a prendere. Non a caso il libro della Colombini va forte in quel circuito e saranno le sedi dell’Anpi a divulgarlo, presentarlo, caldeggiarlo. L’autrice – continua Borgonovo – “riesce a giustificare «collocandoli nel loro contesto» i fatti di sangue del triangolo della morte emiliano, sostiene perfino che appendere per i piedi Benito Mussolini e Claretta Petacci a piazzale Loreto fu inevitabile, quasi un atto di pietà per evitare lo scempio dei cadaveri. È un tentativo, l’ennesimo, di negare dignità a un pezzo d’Italia. La Colombini sostiene che la memoria della resistenza sia sotto attacco: in realtà è ancora dominante più o meno ovunque. Tentare di scalfirla e di svelarne le bugie significa semplicemente ristabilire la verità storica, e ridare dignità a tante vittime innocenti di una lotta che troppo spesso è stata prima comunista e poi «di liberazione»”.

Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità». Desiree Ragazzi martedì 5 Febbraio 2019 su Il Secolo d'Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi.

Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi?

«Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…»

Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra.
«
I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…»

La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…

«Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina  a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito».

·        "Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

"Bella ciao", la storia della canzone italiana più famosa su History Channel. Un docufilm ricostruisce la nascita e la fortuna di un brano leggendario: dai partigiani della Brigata Maiella (Abruzzo), fino alla serie tv "La casa di carta". La Repubblica il 25 ottobre 2021. Bella ciao è il canto popolare (e il brano italiano) più famoso al mondo, intonato dai partigiani della Brigata Maiella (Abruzzo) e della Brigata Garibaldi (Marche): sono loro i primi ad aver mixato melodie tradizionali a nuove parole patriottiche. Le parole risuonarono poi al Festival della Gioventù Democratica a Praga, era l'estate del 1947, nella versione partigiana. Versione riscoperta poi in Italia e resa celebre dal Festival di Spoleto del 1964, dove si cantò anche una Bella ciao in versione "mondine".

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Bella ciao. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Bella ciao è un canto popolare italiano, secondo alcuni proprio di alcune formazioni della Resistenza in realtà mai cantato o pochissimo cantato nella versione del partigiano, prima della fine della guerra. La stessa Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI) riconosce che Bella ciao divenne inno ufficiale della Resistenza soltanto vent'anni dopo la fine della guerra e che: "È diventato un inno soltanto quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi". La sua conoscenza ha cominciato a diffondersi dopo la prima pubblicazione del testo nel 1953 sulla rivista La Lapa, ma è diventata celeberrima soltanto dopo il Festival di Spoleto del 1964 perché idealmente associato all'intero movimento partigiano. Nonostante sia un brano italiano legato a vicende nazionali, viene usato in molte parti del mondo come canto di resistenza e di libertà.

Storiografia.

Non ci sono indizi della rilevanza di Bella ciao tra le brigate partigiane e neppure della stessa esistenza della versione del partigiano antecedente alla prima pubblicazione del testo nel 1953. Non ci sono tracce nei documenti dell’immediato dopoguerra né è presente nei canzonieri importanti: "Non c’è, ad esempio, nel “Canzoniere Italiano” di Pasolini e nemmeno nei “Canti Politici” di Editori Riuniti del '62. C’è piuttosto evidenza di una sua consacrazione popolare e pop tra il '63 e il '64, con la versione di Yves Montand e il festival di Spoleto, quando il Nuovo Canzoniere Italiano la presentò al Festival dei Due Mondi sia come canto delle mondine sia come inno partigiano. Una canzone duttile, dunque, e talmente “inclusiva” da poter tenere insieme le varie anime politiche della lotta di liberazione nazionale (cattoliche, comuniste, socialiste, liberali...) ed esser cantata a conclusione del congresso DC che elesse come segretario l’ex partigiano Zaccagnini". Come è riportato nel testo di Roberto Battaglia Storia della Resistenza italiana (Collana Saggi n. 165, Torino, Einaudi, 1953) era Fischia il vento, sull'aria della famosa canzone popolare sovietica Katjuša, che divenne l'inno ufficiale delle Brigate partigiane Garibaldi. Anche il noto giornalista ed ex partigiano nonché storico della lotta partigiana, Giorgio Bocca, affermò pubblicamente: «Bella ciao … canzone della Resistenza, e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l'una né l'altra nate dai partigiani o dai fascisti, l'una presa in prestito da un canto dalmata, l'altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell'Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto. Affermazioni queste poi certificate da Carlo Pestelli nel suo libro Bella ciao. La canzone della libertà, nel quale ricostruisce in modo dettagliato le origini e la diffusione della canzone Bella ciao. Anche gli storici della canzone italiana Antonio Virgilio Savona e Michele Straniero hanno affermato che Bella ciao non fu cantata o fu poco cantata durante la guerra partigiana ma venne diffusa nell'immediato dopoguerra. Solo poche voci, come quella degli storici Cesare Bermani e Ruggero Giacomini sostengono che una qualche versione di "Bella ciao", sia stata cantata da alcune brigate durante la Resistenza, anche se non necessariamente nella versione del partigiano di cui, come specificato sopra, non esistono prove documentali della sua esistenza fino agli anni cinquanta. Secondo Bermani, pur senza portare prove convincenti a dimostrazione, era l'inno di combattimento della Brigata Maiella in Abruzzo, cantato dalla brigata nel 1944 e portato al Nord dai suoi componenti che dopo la liberazione del Centro Italia aderirono come volontari al Corpo Italiano di Liberazione. La ragione per cui non se ne aveva adeguata notizia, osserva Bermani, starebbe in un errore di prospettiva storica e culturale: l'idea che la Resistenza, e quindi il canto partigiano, fossero un fenomeno esclusivamente settentrionale. Tuttavia viene fatto notare che l'ipotesi non è supportata da evidenze perché esistono molti documenti scritti dai partigiani della Brigata Maiella, comprese le canzoni che cantavano, e in nessuno di loro compare il minimo accenno a Bella ciao, mentre compaiono altre canzoni; allo stesso modo, nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao. Per di più dal diario del partigiano Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1º aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata Maiella che si chiamava: “Inno della lince”. Bermani in ogni caso concorda che la sua diffusione nel periodo della lotta partigiana fosse minima anche se, sempre nella sua opinione e senza portare evidenze documentali che la sostengano, la cantavano anche alcuni reparti combattenti di Reggio Emilia e del modenese, ma non era la canzone simbolo di nessun'altra formazione partigiana. Ragion per cui Cesare Bermanii afferma che Bella ciao sia "l'invenzione di una tradizione" e che: «A metà anni Sessanta, il centrosinistra al governo ha puntato su Bella ciao come simbolo per dare una unità posteriore al movimento partigiano». Secondo Giacomini, invece, la prima attestazione scritta di Bella ciao come canto della Resistenza italiana sarebbe nell'opuscolo "La rappresaglia tedesca a Poggio San Vicino" scritto da don Otello Marcaccini e pubblicato nel luglio 1945. In questo opuscolo don Otello Marcaccini, parroco di Poggio San Vicino (MC), commemora le vittime della rappresaglia tedesca avvenuta il 1º luglio 1944 e riporta: «La vita per i patrioti è gaia ma pur sempre vigilante e rischiosa. Si macellano bovini, si acquista vino che viene distribuito anche alla popolazione a basso prezzo. Ora gli abitanti di Poggio S. Vicino, prima per plausibili ragioni diffidenti, assistono come meglio i Partigiani e prendono parte attiva alle loro vicende ora liete ora dolorose.

I bambini poi sono sempre in mezzo a loro, rendono piccoli servizi, si entusiasmano e ripetono le loro canzoni di battaglia:

"se io morissi da Patriota

Bella ciao, ciao, ciao".»

D'altra parte questa versione, con l'utilizzo del termine "patriota" al posto di "partigiano", confermerebbe ulteriormente che non esistono prove documentali che la versione del partigiano sia antecedente alla prima pubblicazione del testo a metà degli anni cinquanta del Novecento. Sempre secondo Giacomini, un'altra attestazione di Bella ciao come canto della Resistenza italiana si avrebbe in una lettera datata 24 aprile 1946 scritta dalla russa Lydia Stocks ad Amato Vittorio Tiraboschi. Tiraboschi, col nome di battaglia Primo, era stato il comandante della zona di Ancona della Brigata Garibaldi-Marche e, successivamente, della V Garibaldi-Ancona. Lydia Stocks dopo l'8 settembre fuggì da un campo di internamento femminile in provincia di Macerata e raggiunse i partigiani sul monte San Vicino, dove conobbe Douglas Davidson, comandante di distaccamento e il comandante Tiraboschi ("Primo"), a cui facevano riferimento tutti i gruppi partigiani della zona del San Vicino. «Quando penso di tutto ciò, ho voglia di piangere perchè ancora ricordo tutto quello che abbiamo provato, tutti quale giovani ragazzi che andavano morire con il canto Bella ciao. E poi venivano ferite e morti, che non dimenticherò mai finchè vivrò, perchè ho amato con tutto il mio cuore tutti quelli ragazzi e amerò sempre. Per me la Italia [è] stata una seconda Patria e lo amo popolo Italiano con tutti i suoi difetti. Quanto sarò felice se la Italia di nuovo sarà in piedi, ma senza i Fascisti... Non tanti che possano comprendere tutto questo, ma Voi, sì, perchè avete sofferto con noi.» La fonte riporta solo il titolo della canzone, per cui non è possibile sapere quale fosse la versione testuale di Bella ciao che veniva cantata. Annalisa Cegna, direttrice dell'Istituto storico della Resistenza di Macerata, si è dimostrata piuttosto cauta riguardo la tesi di Giacomini: "Un solo documento non è sufficiente per avere garanzie storiche."

Origine del testo

La Bella ciao partigiana riprende nella parte testuale la struttura del canto dell'Ottocento Fior di tomba che Costantino Nigra riporta in numerose versioni tra i Canti popolari del Piemonte, pubblicati per la prima volta nel 1888, tra i quali uno inizia con il verso Sta mattina, mi sun levata. Nigra riporta anche una variante veneziana che inizia con Sta matin, me son levata. Le varie versioni raccontano la storia di una donna che vuol seguire per amore un uomo, anche se ciò comporterà la morte e l'essere seppellita, tanto le genti che passeranno diranno "che bel fiore" o "che buon odore" a seconda della versione. A proposito della canzone Nigra, sempre nel suo libro del 1888, osservava: «Il fiore che deve crescere sulla tomba della bella, morta per amore, è il tema d’una canzone che è forse la più cantata in tutta Italia. Questo tema è talmente popolare presso di noi, che in molti casi s’aggiunge, come finale, ad altre canzoni che non ci han nulla a che fare.» Sia musicalmente sia nella struttura dell'iterazione (il "ciao" ripetuto), deriva anche da un canto infantile diffuso in tutto il Nord: La me nòna l'è vecchierella, rilevato da Roberto Leydi, di cui si riporta l'inizio:

«La me nòna, l'è vecchierèlla

la me fa ciau, la me dis ciau, la me fa ciau ciau ciau»

Alcuni ipotizzato il legame con un canto delle mondine padane, ma altri, come Cesare Bermani: sostengono che la Bella ciao delle mondine sarebbe stata composta dopo la guerra dal mondino Vasco Scansani di Gualtieri.

Il seguente testo è quello più diffuso della versione partigiana, con alcune varianti:

«Una mattina mi son svegliato

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

una mattina mi son svegliato

e ho trovato l'invasor.

O partigiano portami via

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

o partigiano portami via

che mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

e se io muoio da partigiano

tu mi devi seppellir.

Seppellire lassù in montagna

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

seppellire lassù in montagna

sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

e le genti che passeranno

mi diranno che bel fior.

E questo è il fiore del partigiano

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

e questo è il fiore del partigiano

morto per la libertà.»

Origine della musica

Bella Ciao eseguita dall'Orchestra Rappresentativa delle Guardie Serbe (ROG)

La musica, di autore sconosciuto, è stata fatta risalire, in anni passati, a diverse melodie popolari. Una possibile influenza può essere stata quella di una ballata francese del Cinquecento che, seppur mutata leggermente a ogni passaggio geografico, sarebbe stata assorbita dapprima nella tradizione piemontese con il titolo Là daré 'd cola montagna, poi in quella trentina con il titolo Il fiore di Teresina, poi in quella veneta con il titolo Stamattina mi sono alzata, successivamente nei canti delle mondariso e infine in quelli dei partigiani. Una versione della Bella ciao delle mondine fu registrata dalla cantante Giovanna Daffini nel 1962.

Un'altra possibile origine della melodia è stata individuata da Fausto Giovannardi a seguito del ritrovamento di una melodia yiddish (canzone Koilen) registrata da un fisarmonicista Klezmer di origini ucraine, Mishka Ziganoff, nel 1919 a New York. Secondo lo studioso Rod Hamilton, della The British Library di Londra, "Kolien" sarebbe una versione di "Dus Zekele Koilen" (Due sacchetti di carbone), di cui esistono varie versioni risalenti agli anni 1920.

La Bella ciao delle mondine

Come sopra riportato, alcuni sostengono che la Bella ciao partigiana sia stata preceduta dalla Bella ciao delle mondine che lo storico Cesare Bermani reputa invece posteriore. Di seguito il testo di Bella Ciao delle mondine.

«Alla mattina appena alzata

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

alla mattina appena alzata

in risaia mi tocca andar.

E fra gli insetti e le zanzare

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

e fra gli insetti e le zanzare

un dur lavoro mi tocca far.

Il capo in piedi col suo bastone

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

il capo in piedi col suo bastone

e noi curve a lavorar.

O mamma mia o che tormento

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

o mamma mia o che tormento

io t'invoco ogni doman.

Ed ogni ora che qui passiamo

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

ed ogni ora che qui passiamo

noi perdiam la gioventù.

Ma verrà un giorno che tutte quante

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

ma verrà un giorno che tutte quante

lavoreremo in libertà.»

In questo contesto si nota come l'espressione "bella ciao" indichi la giovinezza che si perde e sfiorisce nel

lavoro.

«Stamattina mi sono alzata,

stamattina mi sono alzata,

sono alzata – iolì

sono alzata – iolà

sono alzata prima del sol...»

Diffusione

La fortuna di questo canto, che lo ha fatto identificare come canto simbolo della Resistenza italiana e dell'unitarietà contro le truppe naziste come elemento fondante della Repubblica Italiana, consiste nel fatto che il testo lo connota esclusivamente come canto contro "l'invasore", senza riferimenti - per stare alla ormai classica tripartizione di Claudio Pavone - alla Resistenza come "guerra di classe" o come "guerra civile" (come invece è nel canto più cantato dai partigiani, quella Fischia il vento dove invece sono presenti i riferimenti al "sol dell'avvenire" e alla "rossa bandiera"). Non vi sono elementi concreti né fonti a sostegno di coloro che affermano che la popolarità internazionale di Bella ciao si diffuse negli anni 1950, in occasione dei numerosi "Festival mondiali della gioventù democratica" che si tennero in varie città fra cui Praga, Berlino e Vienna, al contrario la mancanza di fonti al riguardo fa ritenere che questa affermazione sia una costruzione posteriore. La canzone raggiunse una grandissima diffusione di massa negli anni sessanta, soprattutto durante le manifestazioni operaie e studentesche del Sessantotto. Le prime incisioni di questa versione partigiana si devono a Sandra Mantovani e Fausto Amodei in Italia, e al cantautore francese di origine toscana Yves Montand. La prima volta in televisione fu nella trasmissione Canzoniere minimo (1963), eseguita da Gaber, Maria Monti e Margot, che la cantarono senza l'ultima strofa: "questo è il fiore di un partigiano - morto per la libertà". In 45 giri avvenne, da parte di Gaber, solo nel 1965. I Gufi la cantano nell'album I Gufi cantano due secoli di Resistenza, edito nel 1965. Nel 1972 viene incisa da un partigiano ligure, Paolo Castagnino "Saetta", con il suo Gruppo Folk Italiano, insieme a un'altra dozzina di canti della Resistenza, dei quali narra nelle note di copertina l'origine. Saetta è stato un protagonista della Resistenza, comandante della Brigata Garibaldina «Longhi» decorato di medaglia d'argento al valor militare e della massima onorificenza partigiana sovietica. Nel 2002 la canzone fu cantata dal giornalista Michele Santoro in apertura di un'edizione straordinaria del programma televisivo Sciuscià, da lui condotto, in polemica con il cosiddetto editto bulgaro. I Modena City Ramblers, particolarmente legati alla Resistenza, hanno reinterpretato il brano varie volte, la prima delle quali è presente già nell'EP Combat folk. Lo hanno poi cantato in versione combat folk durante il Concerto del Primo Maggio tenutosi a piazza San Giovanni a Roma nel 2004 (ripetuta poi negli anni successivi). La versione del 1994 è stata usata per chiudere la campagna elettorale di SYRIZA nel 2015. È stata rifatta più volte dal gruppo ska Banda Bassotti (che spesso cantano la Resistenza nei loro testi), con ritmo più veloce. Tra le innumerevoli esecuzioni spicca anche quella del musicista bosniaco Goran Bregović, che la include regolarmente nei propri concerti, e che ha dato al canto popolare un tono decisamente balcanico. Dal 1980 viene cantata da Enrico Capuano in una versione folk rock nelle tante manifestazioni politiche e antifasciste. Riproposta ogni anno nella scaletta dei suoi tour negli USA e in Canada a partire dal 2011. Da segnalare la versione eseguita nel 2008 su Rai 3 in occasione del concerto del Primo Maggio insieme alla Tammurriatarock e i Bisca. Ai funerali del regista Mario Monicelli il 1º dicembre 2010 la banda del quartiere Pigneto suonò Bella ciao, accompagnata dal coro della folla e col sottofondo delle campane della vicina chiesa. Durante i preparativi del Festival di Sanremo 2011, il conduttore di quell'edizione, Gianni Morandi, annunciò che avrebbe eseguito la canzone Bella ciao nella serata dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia insieme all'inno fascista Giovinezza. Tale combinazione fu al centro di polemiche e l'iniziativa fu bloccata dal consiglio d'amministrazione della RAI. Durante le proteste dell'ottobre 2011, il movimento Occupy Wall Street, gli indignados a stelle e strisce, intonò Bella ciao. Il candidato socialista François Hollande ha scelto il canto popolare dei partigiani dell'Emilia-Romagna per concludere un suo discorso in occasione delle elezioni presidenziali 2012, tra gli applausi della folla. Durante le manifestazioni contro Erdoğan avvenute nella piazza Taksim di Istanbul e in tante altre città turche nel 2013, alcuni manifestanti hanno intonato il motivo della canzone. La canzone Bella ciao era molto cara a don Andrea Gallo, morto il 22 maggio 2013. Durante i funerali il 25 maggio l'arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, ha dovuto interrompere la sua omelia ai funerali di don Gallo. Infatti, mentre in chiesa lui ricordava "l'attenzione agli ultimi" di don Gallo, dall'esterno si è levato il canto di Bella ciao, intonato poi anche dai presenti in chiesa che hanno applaudito. Bella ciao, in italiano, è stata anche cantata a Parigi dall'attore comico francese Christophe Alévêque durante le commemorazioni funebri delle vittime della strage avvenuta nella sede del settimanale satirico francese Charlie Hebdo: nel corso di una cerimonia pubblica di sostegno del giornale (trasmessa in diretta l'11 gennaio 2015 dalla France 2), e durante il funerale del fumettista Bernard Verlhac, detto "Tignous" (trasmesso in diretta da BFMTV). La canzone è stata utilizzata nella serie spagnola di Antena 3/Netflix La casa di carta. Nell'attuale guerra civile siriana è stata utilizzata dagli indipendentisti curdi. Nella rivoluzione sudanese del 2018 e 2019 alcuni ribelli hanno intonato la canzone, realizzando anche una cover del brano. Nel 2019 viene fatta una canzone inglese, Do it now, con un nuovo testo sulle note di Bella ciao per i cambiamenti climatici. Sempre nel 2019, viene cantata all'aeroporto di Barcellona dai manifestanti per l'Indipendenza della Catalogna per protestare contro le condanne inflitte a dodici leader catalani. Nel 2019 anche i manifestanti cileni cantano e suonano Bella ciao mentre si ritrovano in Plaza Italia per protestare contro il presidente Sebastián Piñera e per chiedere riforme economiche e cambiamenti politici. Sempre nel 2019 è diventata una delle canzoni simbolo delle piazze italiane del Movimento delle sardine e Paolo Gentiloni, neo Commissario europeo all'Economia, con gli altri commissari Socialisti e Democratici, la canta al Parlamento europeo a Strasburgo.

Sing for the Climate. Do it now.

Nel 2012 in Belgio il regista e attivista ambientalista belga Nic Balthazar aveva aderito alla manifestazione ambientalista "Sing for the climate" e in quell'occasione aveva girato un video, dove i manifestanti cantavano in coro il brano Do it Now sulle note di Bella ciao. La clip successivamente fu proiettata durante la seduta plenaria della (UNFCCC) tenutasi a Doha in Qatar del 2012. In occasione delle manifestazioni Venerdì per il futuro, il brano è stato adottato come inno. Nella versione cantata da bambini turchi, in occasione della manifestazione mondiale studentesca del 15 marzo 2019, è diventata un inno per l'ambiente.

Altre versioni.

Oggi è molto diffusa tra i movimenti di Resistenza in tutto il mondo, dove è stata portata da militanti italiani. Ad esempio è cantata, in lingua spagnola, da molte comunità zapatiste in Chiapas. A Cuba è cantata nei campeggi dei Pionieri, mettendo la parola guerrillero al posto della parola "partigiano". È conosciuta e tradotta anche in cinese. Dal 1968 in poi questa canzone è stata spesso ripresa come propria da movimenti di sinistra e di estrema sinistra, soprattutto giovanili, anche se in origine era riconosciuta come appartenente a tutta la Resistenza, alla quale parteciparono formazioni e individui di diverse opinioni, dai comunisti ai socialisti, dai repubblicani e azionisti ai cattolici fino ai partigiani autonomi - contraddistinti da un fazzoletto di colore azzurro e contrari al comunismo. Una versione sessantottina aggiungeva una strofa finale che recitava: "Era rossa la sua bandiera... come il sangue che versò" (nel tempo svariate sono comunque le cosiddette strofe finali inventate). Per questo motivo ancora oggi ispira autori italiani e stranieri, ed è utilizzata in numerose occasioni, anche non direttamente collegate alla Resistenza.

CINQUE COSE DA SAPERE SU “BELLA CIAO”. REDAZIONE GARZANTI il 15.04.2020.

Quante volte vi siete ritrovati ad ascoltare o cantare Bella ciao? Ecco cinque curiosità che dovete assolutamente sapere su questo canto, tratte dal libro Bella ciao.

1. La sua origine è misteriosa

Ancora oggi la sua origine non è stata chiarita e la sua paternità è incerta.

C’è chi sostiene che derivi da un canto di risaia nato negli anni 30 in Emilia Romagna, chi addirittura che rilsaga da una melodia Yiddish registrata nel 1919 a New York e portata in Europa da un emigrato di ritorno al paese natio alla fine degli anni Venti.

Quel che è storicamente provato è che Bella ciao è un canto nato durante la Resistenza e si è stato diffuso soprattutto nel dopoguerra come canto di liberazione e antifascista.

2. La casa di carta c’entra molto…

Il successo planetario di Bella ciao, oggi, lo si deve alla serie tv spagnola – La casa de papel, storia di una grande rapina andata in onda dal 2017 e vincitrice nel 2018 di un International Emmy Award, che ha avuto grande risonanza non solo in Spagna ma anche in Italia (col titolo La Casa di carta), Argentina, Brasile. La canzone partigiana, cantata in italiano, è presente in alcuni passaggi cruciali, a sottolineare i momenti di felicità e la componente ribellistica del gruppo di rapinatori.3. Lo conoscono (e lo cantano) davvero tutti

Le occasioni per ascoltarla o cantarla sono tante: manifestazioni, comizi, funerali, trasmissioni televisive, film, viaggi della memoria, ma non solo.

Nel 1984, ai funerali di Enrico Berlinguer il canto partigiano risuona più volte, cantato dall’enorme folla e nel 2007 a quelli di Enzo Biagi.

Nel 2010 Woody Allen e dalla sua New Orleans Jazz Band ne suononano una versione al clarinetto all’Auditorium di via della Conciliazione.

Nel 2013 risuona dietro il feretro di Jovanka Broz, la vedova di Tito, che aveva lasciato disposizione che fosse quel canto a risuonare al suo funerale.

Il canto è ormai un successo mondiale, favorito anche dalle interpretazioni di Goran Bregovic e di Manu Chao, dei Chumbawamba, e di tanti altri artisti.

4. È il canto antifascista per antonomasia

Da quando si è diffusa in tutto il mondo, Bella ciao risuona come canto di protesta antifascista in manifestazioni contro i poteri forti e dittatoriali.

Fu intonata durante le manifestazioni turche contro il premier Erdoğan avvenute in Piazza Taksim a Istanbul e in tante altre città turche nel 2013.

È stata cantata anche dal movimento “Occupy Wall Street” nel 2011.

5. È cantato in 40 lingue diverse

Un jingle di rara potenza, che troviamo in numerose versioni e rifacimenti. I più recenti per dimostrare vicinanza e soliderietà agli italiani durante l’emergenza sanitaria covid-19.

25 aprile e "Bella ciao", l'origine della canzone che piace a tutti. Un canto popolare o un canto dei partigiani? Ma questo brano, tradotto in 40 lingue, viene intonato anche allo stadio. Francesco Guidetti il 24 aprile 2021 su quotidiano.net. Bella Ciao? “Ie trasarla me sgangiadomma/Oi sucar ciai sucar ciai sucar ciai ciai ciai/Ie trasarla me sgangiadomma/le castenghere isle coi”. No, tranquilli, non siamo impazziti. Sono solo alcuni versi di Bella Ciao (che non è affatto un canto comunista) in sinto piemontese, variante regionale della lingua usata tra i rom delle Alpi occidentali. E potremmo continuare, magari proponendo la versione in latino. Oppure in curdo, scritta da Ciwan Haco, artista molto popolare da quelle parti. Del resto, non c'è da stupirsi. La canzone della Liberazione è tradotta in 40 lingue. Segno che piace a tutti, a prescindere dal livello culturale e dal profilo professionale. Piace a tutti perché è estremamente 'facile', non a caso i bambini la imparano subito. E non solo il motivo musicale, ma anche il testo. Un esempio: i francesi sono gli unici che la cantano in versione originale (celebre quella di Ivo Livi, più noto come Yves Montand, immortale cantante francese di origini pistoiesi) perché la sentono allegra, anche se sanno benissimo che si tratta di una storia di amore e morte, la storia di un combattente per la libertà che sta per essere ucciso. Insomma, siamo di fronte alla canzone 'popolare' per eccellenza. Il che pone un problema. Se è così popolare chi l'ha inventata? Discorso complesso, lo dimostrano studiosi come Carlo Pestelli Cesare Bermani. C'è chi parla di canti delle mondine, ma la questione è assai controversa. Chi sostiene di averla sentita nelle trincee nella Grande Guerra. Chi, cerca che ti ricerca, ne trova echi a metà Ottocento E' il caso di canti popolari come “Fior di tomba” o “La bevanda sonnifera”: “Noi alter due farem l'amor/e con quel ciao le la mi fa ciao/lei la mi' dì ciao ciao ciao”.

La Liberazione atto di nascita o di fine?

E poi, il grande interrogativo. E' canzone popolare post seconda guerra mondiale? Insomma, i partigiani la cantavano davvero? Molti studiosi scrissero di no, ma proprio Pestelli ci spiega come le arie fossero ben note, a esempio, in Emilia, in particolare nel modenese. E, per restare in questa regione, non va sottovalutato che Bella Ciao (dove la parola 'bella' risuona 18 volte e il 'ciao' 30) fosse il canto preferito da quei partigiani abruzzesi decisivi per la Liberazione di Bologna.

Fatto sta che la cantano (quasi) tutti. Magari senza intenti politico-celebrativi. Come allo stadio (“chi non salta è bianconero oh oh oh”), seppur con significati diversi. A Livorno la curva storicamente rossa intona le strofe per motivi di identità. In Danimarca, tradotta, la sua eco si sente sugli spalti del Brondby IF, football team tra i più famosi (ci giocò anche Michael Laudrup). E anche l'industria dell'intrattenimento l'ha fatta sua: con spettacoli teatrali, con film, con il  rock. Si pensi solo alla versione dei Modena City Ramblers.

La a canzone popolare, nel corso del tempo, è diventata tra i più celebri inni di protesta e resistenza. Ecco la sua storia e la sua diffusione, dalle piazze italiane e di tutto il mondo, fino alle serie tv come "La casa di carta". Da tg24.sky.it. È uno dei canti popolari italiani più famosi al mondo, si è diffuso nel secondo dopoguerra e nel tempo è stato ripreso da più parti, dalla musica folk alle serie tv, passando per tanti movimenti di protesta in giro per il mondo. Di autore sconosciuto, "Bella Ciao" divenne l’inno del movimento partigiano italiano, anche se è diventata celebre e scelta come canto ufficiale soltanto dopo la Resistenza. Ma con la sua prima diffusione, in poco tempo, si conquistò la fama canto di ribellione per eccellenza contro il nazi-fascismo.

UN CANTO POCO CONOSCIUTO DURANTE LA RESISTENZA

Gli studiosi non sono riusciti a individuare un'origine certa per Bella ciao. Nel tempo si sono ipotizzati legami con un canto infantile diffuso nel Nord Italia o una ballata francese del Cinquecento poi assorbita dalle tradizioni popolari orali. La musica e il testo della canzone restano di origine sconosciuta e sono forse la sintesi di melodie diverse.

Il canto si iniziò a diffondere tra le fila del movimento partigiano già durante la Seconda guerra mondiale. Ma all'epoca non era ancora annoverata tra gli inni della Resistenza. Decisamente più popolare era "Fischia il vento", il famoso canto sull’aria della canzone sovietica Katjuša. "Bella Ciao" inizialmente era poco nota e veniva inneggiata solo in alcuni reparti combattenti di Reggio Emilia e del Modenese, nella Brigata Maiella e in altri gruppi partigiani delle Langhe, e non era certo ancora riconosciuta come la canzone simbolo della Resistenza.

IL SUCCESSO NEL DOPOGUERRA

Dopo la Liberazione, l’ufficiale versione partigiana di "Bella ciao" venne però presentata al primo Festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell'estate del 1947. Al festival si presentarono i giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora "Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace". Fu così che "Bella Ciao" venne per la prima volta cantata, tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni che partecipavano all'evento.

DALLA PRIMA INCISIONE ALLA TV

Le prime incisioni di "Bella Ciao" per come la conosciamo oggi, si devono a Sandra Mantovani e Fausto Amodei in Italia, e al cantautore francese di origine toscana Yves Montand. La prima volta che è stata cantata in televisione fu nella trasmissione Canzoniere minimo (1963), eseguita da Gaber, Maria Monti e Margot, che la cantarono senza l'ultima strofa: "Questo è il fiore del partigiano morto per la libertà". Fu poi pubblicata in 45 giri da Gaber nel 1965.

LE RIEDIZIONI PIÙ FAMOSE: DALLE BAND FOLK A "LA CASA DI CARTA"

Tra le riedizioni più popolari in Italia ci sono quella del gruppo folk Modena City Ramblers e quella del gruppo ska Banda Bassotti. Una delle più popolari in Europa è invece quella eseguita dal musicista bosniaco Goran Bregović. Tra le ultime e più celebri rievocazioni del canto c’è certamente quella intonata dai protagonisti de "La casa di carta", la serie Netflix che ne ha fatto il pezzo portante della sua colonna sonora.

UN INNO DI PROTESTA

L’inno non ha smesso di essere un canto di battaglia ripreso da diversi movimenti di protesta e spesso impugnato anche dalla politica. "Bella Ciao" è stata intonata dal movimento Occupy Wall Street durante le proteste dell'ottobre 2011, cantata durante le manifestazioni contro Erdoğan avvenute in piazza Taksim a Istanbul nel 2013 e in tanti altri contesti di lotta come quello dell'attuale guerra civile siriana, dove "Bella Ciao" è diventato uno dei canti degli indipendentisti curdi. Questo stesso canto, in Italia, è stato ripreso anche dal movimento delle Sardine, che ne ha fatto il suo inno, da intonare in tutte le piazze italiane in cui si sono svolte le manifestazioni. Nel 2019, il brano Do it Now sulle note di Bella ciao, è stato adottato come inno in occasione delle manifestazioni Fridays for Future.

La vera storia di “Bella ciao”, che non venne mai cantata nella Resistenza. La nostra storia di Dino Messina su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2018. Di Luigi Morrone.

Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao … canzone della Resistenza e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto». La voce “ufficiale” e quella “revisionista” della storiografia divulgativa sulla Resistenza si trovano concordi nel riconoscere che “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani.
Ma qual è la verità? «Bella ciao» fu cantata durante la guerra civile? È un prodotto della letteratura della Resistenza o sulla Resistenza, secondo la distinzione a suo tempo operata da Mario Saccenti?
In “Tre uomini in una barca: (per tacer del cane)” di Jerome K. Jerome c’è un gustoso episodio: durante una gita in barca, tre amici si fermano ad un bar, alle cui parete era appesa una teca con una bella trota che pareva imbalsamata. Ogni avventore che entra, racconta ai tre forestieri di aver pescato lui la trota, condendo con mille particolari il racconto della pesca. Alla fine dell’episodio, la teca cade e la trota va in mille pezzi. Era di gesso.
Situazione più o meno simile leggendo le varie ricostruzioni della storia di quello che viene presentato come l’inno dei partigiani. Ogni “testimone oculare” ne racconta una diversa. Lo cantavano i partigiani della Val d’Ossola, anzi no, quelli delle Langhe, oppure no, quelli dell’Emilia, oppure no, quelli della Brigata Maiella. Fu presentata nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”. E così via.
Ed anche sulla storia dell’inno se ne presenta ogni volta una versione diversa.
Negli anni 60 del secolo scorso, fu avvalorata l’ipotesi che si trattasse di un canto delle mondine di inizio XX secolo, a cui “I partigiani” avrebbero cambiato le parole. In effetti, una versione “mondina” di “Bella ciao” esiste, ma quella versione, come vedremo, fa parte dei racconti dei pescatori presunti della trota di Jerome.
Andiamo con ordine. Già sulla melodia, se ne sentono di tutti i colori.È una melodia genovese, no, anzi, una villanella del 500, anzi no, una nenia veneta, anzi no, una canzone popolare dalmata … Tanto che Carlo Pestelli sostiene: «Bella ciao è una canzone gomitolo in cui si intrecciano molti fili di vario colore»
Sul punto, l’unica certezza è che la traccia più antica di una incisione della melodia in questione è del 1919, in un 78 giri del fisarmonicista tzigano Mishka Ziganoff, intitolato “Klezmer-Yiddish swing music”. Il Kezmer è un genere musicale Yiddish in cui confluiscono vari elementi, tra cui la musica popolare slava, perciò l’ipotesi più probabile sull’origine della melodia sia proprio quella della canzone popolare dalmata, come pensa Bocca.
Vediamo, invece, il testo “partigiano”. Quando comparve la prima volta?
Qui s’innestano i racconti “orali” che richiamano alla mente la trota di Jerome. Ognuno la racconta a modo suo. La voce “Bella ciao” su Wikipedia contiene una lunga interlocuzione in cui si racconta di una “scoperta” documentale nell’archivio storico del Canzoniere della Lame che proverebbe la circolazione della canzone tra i partigiani fra l’Appennino Bolognese e l’Appennino Modenese, ma i supervisori dell’enciclopedia online sono stati costretti a sottolineare il passo perché privo di fonte. Non è privo di fonte, è semplicemente falso: nell’archivio citato da Wikipedia non vi è alcuna traccia documentale di “Bella ciao” quale canto partigiano.
Al fine di colmare la lacuna dell’assenza di prove documentali, per retrodatare l’apparizione della canzone partigiana, molti richiamano la “tradizione orale”, che – però – specie se di anni posteriore ai fatti, è la più fallace che possa esistere. Se si va sul Loch Ness, c’è ancora qualcuno che giura di aver visto il “mostro” passeggiare sul lago …Viceversa, non vi è alcuna fonte documentale che attesti che “Bella ciao” sia stata mai cantata dai partigiani durante la guerra. Anzi, vi sono indizi gravi, precisi e concordanti che portano ad escludere tale ipotesi.
Tra i partigiani circolavano fogli con i testi delle canzoni da cantare, ed in nessuno di questi fogli è contenuto il testo di Bella ciao. Si è sostenuto che il canto fosse stato adottato da alcune brigate e che fosse addirittura l’inno della Brigata Maiella. Sta di fatto che nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come “inno”. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: “Inno della lince”.
Mancano – dunque – documenti coevi, ma neanche negli anni dell’immediato dopoguerra si ha traccia di questo canto “partigiano”. Non vi è traccia di Bella ciao in Canta Partigiano edito dalla Panfilo nel 1945. Né conosce Bella ciao la rivista Folklore che nel 1946 dedica ai canti partigiani due numeri, curati da Giulio Mele.
Non c’è Bella ciao nelle varie edizioni del Canzoniere Italiano di Pasolini, che pure contiene una sezione dedicata ai canti partigiani. Nella agiografia della guerra partigiana di Roberto Battaglia, edita nel 1953, vi è ampio spazio al canto partigiano. Non vi è traccia di “Bella ciao”. Neanche nella successiva edizione del 1964, Battaglia, pur ampliando lo spazio dedicato al canto partigiano ed introducendo una corposa bibliografia in merito, fa alcuna menzione di “Bella ciao”. Eppure, il canto era stato già pubblicato. È infatti del 1953 la prima presentazione Bella ciao, sulla Rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Si dovrà aspettare il 1955 perché il canto venga inserito in una raccolta: Canzoni partigiane e democratiche, a cura della commissione giovanile del PSI. Viene poi inserita dall’Unità il 25 aprile 1957 in una breve raccolta di canti partigiani e ripresa lo stesso anno da Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al primo raduno nazionale dei partigiani a Roma. Nel 1960, la Collana del Gallo Grande delle edizioni dell’Avanti, pubblica una vasta antologia di canti partigiani. Il canto viene presentato con il titolo O Bella ciao a p. 148, citando come fonte la raccolta del 1955 dei giovani socialisti di cui si è detto e viene presentata come derivata da un’aria “celebre” della Grande Guerra, che “Durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”. Nonostante questa enfasi, non c’è Bella ciao nella raccolta di Canti Politici edita da Editori Riuniti nel 1962, in cui sono contenuti ben 62 canti partigiani. Sulla presentazione di Bella ciao nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace” non vi sono elementi concreti a sostegno. Carlo Pestelli racconta: «A Praga, nel 1947, durante il primo Festival mondiale della gioventù e degli studenti, un gruppo di ex combattenti provenienti dall’Emilia diffuse con successo Bella ciao. In quell’occasione, migliaia di delegati provenienti da settanta Paesi si riunirono nella capitale ceca e alcuni testimoni hanno raccontato che, grazie al battimani corale, Bella ciao s’impose al centro dell’attenzione», omettendo – però – di citare la fonte, onde non si sa da dove tragga la notizia. Sta di fatto, che nei resoconti dell’epoca non si rinviene nulla di tutto ciò: L’Unità dedica alla rassegna l’apertura del 26 luglio 1947, con il titolo “La Capitale della gioventù”. Nessun accenno alla presentazione del canto.
Come si è detto, sul piano documentale, non si ha “traccia” di Bella ciao prima del 1953, momento in cui risulta comunque piuttosto diffusa, visto che da un servizio di Riccardo Longone apparso nella terza pagina dell’Unità del 29 aprile 1953, apprendiamo che all’epoca la canzone è conosciuta in Cina ed in Corea. La incide anche Yves Montand, ma la fortuna arriderà più tardi a questa canzone oggi conosciuta come inno partigiano per antonomasia.
Come dice Bocca, sarà il Festival di Spoleto a consacrarla. Nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi come canto partigiano all’interno dello spettacolo omonimo e presenta Giovanna Daffini, una musicista ex mondina, che canta una versione di “Bella ciao” che descrive una giornata di lavoro delle mondine, sostenendo che è quella la versione “originale” del canto, cui durante la resistenza sarebbero state cambiate le parole adattandole alla lotta partigiana. Le due versioni del canto aprono e chiudono lo spettacolo.
La Daffini aveva presentato la versione “mondina” di Bella ciao nel 1962 a Gianni Bosio e Roberto Leydi, dichiarando di averla sentita dalle mondine emiliane che andavano a lavorare nel vercellese, ed il Nuovo Canzoniere Italiano aveva dato credito a questa versione dei fatti. Sennonché, nel maggio 1965, un tale Vasco Scansiani scrive una lettera all’Unità in cui rivendica la paternità delle parole cantate dalla Daffini, sostenendo di avere scritto lui la versione “mondina” del canto e di averlo consegnato alla Daffini (sua concittadina di Gualtieri) nel 1951. L’Unità, pressata da Gianni Bosio, non pubblica quella lettera, ma si hanno notizie di un “confronto” tra la Daffini e Scansiani in cui la ex mondina avrebbe ammesso di aver ricevuto i versi dal concittadino. Da questo intreccio, parrebbe che la versione “partigiana” avrebbe preceduto quella “mondina”. Nel 1974, salta fuori un altro presunto autore del canto, un ex carabiniere toscano, Rinaldo Salvatori, che in una lettera alle edizioni del Gallo, racconta di averla scritta per una mondina negli anni 30, ma di non averla potuta depositare alla SIAE perché diffidato dalla censura fascista. La contraddittorietà delle testimonianze, l’assenza di fonti documentali prima del 1953, rendono davvero improbabile che il canto fosse intonato durante la guerra civile.Cesare Bermani sostiene che il canto fosse “poco diffuso” durante la Resistenza, onde, rifacendosi ad Hosmawm, assume che nell’immaginario collettivo “Bella ciao” sia diventata l’inno della Resistenza mediante l’invenzione di una tradizione. Sta di fatto che lo stesso Bermani, oltre ad avvalorare l’inattendibile ipotesi che fosse l’inno della Brigata Maiella, da un lato, riconosce che, prima del successo dello spettacolo al Festival di Spoleto «si riteneva, non avendo avuto questo canto una particolare diffusione al Nord durante la Resistenza, che fosse sorto nell’immediato dopoguerra», dall’altro, però, raccoglie svariate testimonianze che attesterebbero una sua larga diffusione durante la guerra civile, smentendo di fatto sé stesso. Il problema è che le testimonianze a cui fa riferimento Bermani per avvalorare l’ipotesi di una diffusione, sia pur “scarsa”, di “Bella ciao” durante la guerra civile, sono contraddittorie e raccolte a distanza di svariati anni dalla fine di essa (la prima è del 1964 …), con una conseguente scarsa attendibilità. Dunque, se di invenzione di una tradizione si tratta, è inventata la sua origine in tempo di guerra. Ritornando al punto di partenza, come sostengono Bocca e Panza, “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma il mito di “Bella ciao” come “canto partigiano” è così radicato, da far accompagnare il funerale di Giorgio Bocca proprio con quel canto che egli stesso diceva di non aver mai cantato né sentito cantare durante la lotta partigiana. Perché “Bella ciao”, nonostante tutto, è diventata il simbolo della Resistenza, superando sin da subito i confini nazionali? Perché ha attecchito questa “invenzione della tradizione”? Qualcuno ha sostenuto che il successo di “Bella ciao” deriverebbe dal fatto che non è “targata”, come potrebbe essere “Fischia il vento”, il cui rosso “Sol dell’Avvenir” rende il canto di chiara marca comunista. “Bella ciao”, invece, abbraccerebbe tutte le “facce” della Resistenza (Guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; guerra civile contro la dittatura fascista; guerra di classe per l’emancipazione sociale), come individuate da Claudio Pavone.
Ma, probabilmente, ha ragione Gianpaolo Pansa: «(Bella ciao) viene esibita di continuo ogni 25 aprile. Anche a me piace, con quel motivo musicale agile e allegro, che invita a cantarla». Il successo di “Bella ciao” come “inno” di una guerra durante la quale non fu mai cantata, plausibilmente, deriva dalla orecchiabilità del motivo, dalla facilità di memorizzazione del testo, dalla “trovata” del Nuovo Canzoniere di introdurre il battimani. Insomma, dalla sua immediata fruibilità. Dino Messina (1954), lavora dall’86 al “Corriere della sera”, ha cominciato in cronaca di Milano e per diciannove anni nella redazione cultura, dove si è occupato principalmente di storia contemporanea. Ora cura la pagina dei commenti. Nel 1997 ha pubblicato con l’ex partigiano Rosario Bentivegna e l’ex repubblichino Carlo Mazzantini “C’eravamo tanto odiati” (Baldini & Castoldi), nel 2008 da Bompiani il libro di interviste “Salviamo la Costituzione italiana”.

Bella ciao, la vera storia della canzone: "E' nata a Macerata". Lo storico Giacomini ha trovato le prove : "La cantavano i partigiani sul monte San Vicino. Poi fu adottata dalla Brigata Maiella che la portò al Nord". Stefano Marchetti il 17 aprile 2021 su ilrestodelcarlino.it.

"Una mattina mi son svegliato...". Un verso, cinque parole. e l’hai già riconosciuta: "Bella ciao" non è soltanto una canzone, ma un’icona, un inno alla libertà, all’indipendenza. Alla Resistenza. L’hanno cantata Yves Montand, Giorgio Gaber, Anna Identici e Claudio Villa, Milva l’ha interpretata con grinta raffinata, la ascoltiamo nelle manifestazioni di piazza. Già, ma quando è nata "Bella ciao"?

E dove? La notorietà di questo canto popolare è pari al suo ‘mistero’. Numerosi storici hanno dedicato tempo e passione alle ricerche. Di certo si coglie la discendenza da "Fior di tomba", antico canto popolare del Nord, ma non è chiara l’origine della versione partigiana: c’è chi ne ha trovato le radici tra l’Appennino modenese e reggiano, chi l’ha collegata a un canto delle mondariso (anche se la versione ‘della risaia’ è stata scritta nel 1961) e chi ne individua la sorgente in Lazio. Lo storico Cesare Bermani ne ha attribuito la nascita alla Brigata partigiana Maiella che dall’Abruzzo portò il canto più a Nord, per raggiungere l’Emilia.

"Sì, ma in realtà i partigiani della Brigata Maiella conobbero e raccolsero ‘Bella ciao’ nelle Marche, nell’area del Monte San Vicino, fra Cingoli, Apiro e San Vicino, nel Maceratese. ‘Bella ciao’ è nata qui", dice Ruggero Giacomini, storico della Resistenza marchigiana, che con l’editore Castelvecchi ha pubblicato il saggio "Bella ciao. La storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo".

Giacomini, ma ne è sicuro?

"Certo, era qualche anno che in vari scritti trovavo riferimenti a una storia marchigiana di ‘Bella ciao’. Già nel 2012 avevo dedicato un saggio alla strage nazifascista del 4 maggio 1944 sul Monte Sant’Angelo ad Arcevia e mi ero imbattuto nella testimonianza del generale Ricciardi che ricordava quando da ragazzino, sfollato con la famiglia ad Arcevia, aveva sentito i partigiani entrare in città cantando ‘Bella ciao’. Ma questi ricordi non mi convincevano pienamente". 

Perché?
"Pensavo che potessero essere sovrapposizioni di memorie successive. Inizialmente ritenevo improbabile un’origine marchigiana di ‘Bella ciao’, anche se coglievo molti indizi. Finché nell’archivio dell’Istituto Storia Marche di Ancona ho trovato la prova chiave".

Quale?
"Una lettera scritta il 24 aprile 1946 ad Amato Vittorio Tiraboschi, già comandante della Brigata Garibaldi Marche, da Lydia Stocks, una russa che dopo l’8 settembre 1943 era fuggita da un campo di internamento femminile in provincia di Macerata e aveva raggiunto i partigiani sul monte San Vicino poi, dopo la guerra, si era trasferita in Inghilterra. Ebbene, lei rammenta ‘tutti quei ragazzi che andavano a morire con il canto Bella ciao’: certamente Lydia, che stava in Inghilterra, non poteva essere influenzata. E questo va a confermare la testimonianza di don Otello Malcaccini, parroco di Poggio San Vicino, che nel luglio 1945 dedicò un opuscolo alla feroce rappresaglia tedesca dell’anno precedente: scriveva che in paese nel 1944 i bambini affiancavano i partigiani e cantavano ‘Se io morissi da Patriota, bella ciao, bella ciao’. Dunque già nella primavera del 1944 qui si cantava ‘Bella ciao’".

Che poi ‘passò’ alla Brigata Maiella…

"Esattamente. In terra marchigiana i partigiani della Maiella entrarono il 24 giugno 1944 e nella loro avanzata liberarono vari paesi. Il 18 arrivarono a Poggio, dove sostarono accolti dalla popolazione. Qui adottarono e adattarono ‘Bella ciao’".

Ma perché questa storia non è venuta alla luce prima?

"Perché si parla poco della Resistenza nelle Marche, quando invece è stata fortissima, dura e precoce. È sorprendente che in Italia si conosca poco di queste nostre storie di Resistenza: forse perché noi marchigiani siamo fatti così, ragioniamo per municipalismi, e custodiamo una modestia contadina che non sempre ci fa emergere".

Che storia ha “Bella ciao”. Il canto partigiano più famoso ha origini incerte e una diffusione trasversale, e se ne riparla per una discussa proposta di legge. Il Post il 7 giugno 2021. Lo scorso venerdì ha iniziato l’iter parlamentare una proposta di legge – firmata da parlamentari di PD, Italia Viva, M5S e LeU – per rendere la canzone partigiana Bella ciao l’inno ufficiale della Festa della liberazione dal nazifascismo, che cade ogni 25 aprile. Nel testo presentato i parlamentari motivano la proposta facendo riferimento al «carattere istituzionale» della canzone, rappresentativo dei «valori fondanti della Repubblica», ma in queste ore i partiti più a destra della coalizione di centrodestra – Fratelli d’Italia e Lega – hanno criticato duramente la proposta, accusando i parlamentari che l’hanno voluta di essere «sconnessi con la realtà». In particolare il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, ha detto: «Bella ciao, non per colpa del testo ma per colpa della sinistra, è diventata una canzone che non copre il gusto di tutti gli italiani: è troppo di sinistra. Non è la canzone dei partigiani, è la canzone solo dei partigiani comunisti». In realtà, Bella ciao è stata a lungo una canzone piuttosto trasversale, come ha ricordato anche Concetto Vecchio su Repubblica portando come esempio il congresso democristiano del 1976 – quello in cui fu eletto segretario Benigno Zaccagnini – che si chiuse proprio con quella canzone. Oggi esistono traduzioni di Bella ciao in moltissime lingue ed è stata suonata e cantata in contesti molti diversi, pur rimanendo tra i canti più tradizionali e amati delle manifestazioni di sinistra italiane e non solo. La storia di Bella ciao è stata indagata da molti storici e storiche, che hanno cercato di ricostruirne le origini e di ripercorrerne le trasformazioni. La genesi della canzone, tuttavia, è ancora dibattuta. Per molti anni è circolata l’ipotesi che Bella ciao discendesse da un canto diffuso tra le mondine nelle risaie durante gli anni Trenta, ma alcuni studi hanno poi stabilito che canti di questo tipo comparvero per la prima volta nelle risaie dagli anni Cinquanta, cioè dopo le prime attestazioni del canto partigiano. Alcuni sostengono che discenda semplicemente da canti regionali del Centro-Nord Italia, e altri ancora – come il giornalista Giampaolo Pansa – sostengono che in realtà i partigiani non la cantarono mai e che diventò popolare solo nel Secondo dopoguerra. Ma molte ricerche e pubblicazioni recenti hanno documentato come Bella ciao fosse diffusa durante la Resistenza, sebbene in misura minore rispetto a Fischia il vento, un’altra canzone partigiana più connotata politicamente (“A conquistare la rossa primavera/Dove sorge il sol dell’avvenir”). Lo storico Stefano Privato, nel suo libro del 2015 Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, scrive che Bella ciao era diffusa perlopiù nelle zone di Reggio Emilia, nell’alto bolognese, sulle Alpi Apuane e nei dintorni di Rieti. Cesare Bermani, invece, che è esperto di storia orale, sostiene che i primi a cantare Bella ciao siano stati i partigiani abruzzesi della Brigata Maiella, e che furono loro a portarla verso nord dove sarebbe stata adottata anche dai partigiani toscani ed emiliani. Il dibattito storico è ancora aperto, perché un recente studio di Ruggero Giacomini, storico marchigiano, racconta come nella zona di Macerata si cantasse già una versione di Bella ciao – con un testo leggermente diverso da quello oggi più diffuso – prima della primavera del 1944, quando cioè la Brigata Maiella entrò nelle Marche liberando varie città e aiutando la Resistenza locale. L’origine del canto partigiano è dunque ancora incerta, e lo stesso si può dire della sua melodia, anche se in molti la fanno risalire a una canzone popolare ebraica (yiddish) suonata da Mishka Ziganoff. Tuttavia non è noto come questo giro di accordi di un musicista rom ucraino naturalizzato statunitense sia diventato la base di Bella ciao. Sicuramente nel corso del Novecento Bella ciao ha acquisito sempre maggiore popolarità, forse proprio in virtù del fatto che era ritenuta più universale rispetto ad altri canti partigiani comunisti. Negli anni l’hanno cantata e suonata, tra gli altri, Milva, Manu Chao, Claudio Villa, Yves Montand, Woody Allen, Tom Waits. Una nuova e ancora più estesa fama gliel’ha portata poi la serie di Netflix La casa di carta, in cui viene usata dal protagonista della serie – il “Professore” – come una specie di richiamo alla rivolta. A seguito della serie, che ha avuto un grande successo in molti paesi del mondo, sono uscite nuove versioni e remix della canzone, tra cui quelle dei DJ Hardwell e Steve Aoki. Già prima della Casa di carta, comunque, Bella ciao era diventata un inno internazionale alla lotta per la libertà, e per questo erano stati fatti già moltissimi adattamenti e traduzioni. Viene usata per esempio dai curdi siriani indipendentisti, che hanno lottato contro l’ISIS e che da decenni combattono contro la Turchia per ottenere l’indipendenza, mentre negli ultimi anni – e anche prima della Casa di carta – si è sentita in manifestazioni di piazza internazionali, dalla Turchia al Libano al Cile. 

Bella ciao: la vera storia e le versioni migliori del canto simbolo della Resistenza. Redazione Notizie Musica il 25 Aprile 2021. La vera storia di Bella Ciao: origini, e significato del canto simbolo della Resistenza partigiana al nazi-fascismo. Da decenni ormai in Italia c’è un canto popolare che è associato alla Giornata della Liberazione dal nazi-fascismo, le Festa del 25 aprile: Bella ciao. Se tutti la conoscono, almeno nel suo ritornello che ha saputo conquistare il mondo, non sono in molti ad aver presente la storia e le origini di un canto ben più antico di quanto si possa credere. Andiamo a riscoprire insieme le origini, ancora oggi piuttosto misteriose, di Bella ciao, e la sua storia fino ai giorni nostri, senza dimenticare di ascoltarne alcune versioni moderne che ancora oggi fanno ballare milioni di persone.

La vera storia di Bella ciao. Stando alle ricostruzioni tradizionali, Bella ciao si farebbe risalire a un canto intonato dalle mondine del vercellese nei primi anni del Novecento, attorno al 1906. In questa prima versione non si cantava certo di resistenze belliche, bensì dello sfiorire della giovinezza causata dal duro lavoro nelle risaie. Da diversi anni però questo collegamento diretto tra Bella ciao e il canto delle mondine non sembra più convincere gli studiosi. L’origine della versione che tutti ancora oggi conosciamo viene fatta risalire addirittura da Costantino Nigra, nella sua opera Canti piemontesi, a una canzone dal titolo Fior di Tomba, il cui tema è l’abbandono da parte del proprio amore. Un brano probabilmente di derivazione francese e risalente al Cinquecento. Quale che sia la sua origine, comunque, negli anni della Resistenza Bella ciao venne recuperata, trasformata nel testo e utilizzata come canto di saluto alle proprie amate da parte dei partigiani in partenza verso quelle battaglie che, spesso, significavano morte onorevole per i propri ideali. Ovviamente nel corso degli anni sono stati in moltissimi a cimentarsi con un canto popolare di tale importanza e bellezza. Oltre ai vari gruppi combat folk / rock di casa nostra, come i Modena City Ramblers, la Banda Bassotti o i Gang, vale la pena ricordare le notevoli versioni di Milva, di Giorgio Gaber e di Goran Bregovic. La prima incisione di Bella ciao risale al 1963, ad opera di Sandra Mantovani e Fausto Amodei. Gaber la incise nel 1967, il ‘reuccio’ Claudio Villa nel 1975.  Ma nel corso degli anni sono tantissimi gli artisti, italiani e non, che ci si sono voluti cimentare. E anche appartenenti ai generi più disparati. Oltre ai già citati, ricordiamo gli Ska-P, Chumbawamba, Tom Waits e Hardwell.

25 aprile, la vera storia di “Bella Ciao”. Dai partigiani a Yves Montand, come è diventata un inno di resistenza. Origine ed evoluzione di una canzone che seppur conosciuta da pochi ai tempi della Liberazione, si è poi trasformata in un simbolo. A ricostruire le tappe è stato Carlo Pestelli, musicista, cantautore e dottore di ricerca in Storia della lingua nel libro per Add Editore “Bella ciao. La canzone della libertà”. Andrea Giambartolomei il 25 aprile 2016 su Il Fatto Quotidiano. Da brano della Resistenza, poco diffuso tra i partigiani, a canzone simbolo della liberazione dal nazifascismo fino un inno internazionale di libertà. La storia di “Bella ciao” ha origini misteriose e controverse, ma anche un straordinario successo mondiale. A riassumerla oggi è Carlo Pestelli, musicista, cantautore e dottore di ricerca in Storia della lingua, autore di “Bella ciao. La canzone della libertà”, libro sintetico, divulgativo e utile, pubblicato da Add editore.Da storico Pestelli recupera le ricerche sui canti popolari dalle quali riemergono le somiglianze di “Bella ciao” con alcuni brani dell’Italia settentrionale ormai quasi dimenticati. “Bella ciao è una sorta di bignami che tiene conto di tante cose. Come dice il ricercatore Enrico Strobino è una ‘canzone gomitolo’ in cui si riuniscono molti fili. Il testo rimanda di sicuro a ‘Fior di tomba’, mentre è più complicato indicare l’origine della musica: c’è ‘Bevanda sonnifera’, ci sono alcune villotte nel Nord ed elementi kletzmer”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’autore. Il primo brano, ad esempio, ha due elementi comuni, l’incipit “Una mattina mi son svegliato” e il finale con il fiore sulla tomba con “quelli che passeranno”, elementi che risalgono addirittura a un brano francese diffuso tra il XV e il XVI secolo. Dal secondo brano, invece, prende il ritmo e le ripetizioni. Le note iniziali, inoltre, sono stranamente uguali a un brano kletzmer, “Koilen”, inciso da un ebreo di Odessa a New York nel 1919.Come è arrivata alla seconda guerra mondiale? Innanzitutto va sfatato un mito: a lungo si è ritenuto che “Bella ciao” derivasse dai canti di lavoro delle mondine, le donne che coglieva il riso. “In realtà la versione delle mondine è nata dopo, negli anni Cinquanta”, spiega Pestelli. Citando gli studi di Cesare Bermani, autore de “La ‘vera’ storia di Bella ciao”, il musicista ribadisce che “Bella ciao” non era il brano partigiano più diffuso ed era noto ad alcuni combattenti di Reggio Emilia e del Modenese, ad alcuni componenti della Brigata Maiella che dall’Abruzzo erano arrivati a Bologna e ad altri partigiani delle Langhe. “Durante una presentazione del libro – aggiunge – un’anziana signora mi ha detto che lei nel 1944 cantava un brano del tutto simile nella ‘Repubblica partigiana di Alba”.Soltanto tempo dopo è diventato il brano partigiano per eccellenza. “Accade alla fine degli anni Cinquanta quando si ha la necessità di unificare le varie anime della Resistenza, quella comunista, socialista, cattolica, liberale, monarchica-badogliana – riassume -. Non si poteva usare ‘Fischia il vento’ o altri canti politicizzati. ‘Bella ciao’ slega la Resistenza dalle appartenenze di partito e racconta qualcosa che può essere atemporale”. Ed è per questo che il congresso Dc che elesse come segretario il partigiano Benigno Zaccagnini si concluse sulle note di “Bella ciao”, mentre dopo l’incisione dei Modena City Ramblers e i governi Berlusconi identifica la sinistra.La sua popolarità arriva più tardi. Nel 1963 lo chansonnier francese di origine toscane, Yves Montand (al secolo Ivo Livi) incide il brano che avrà un successo internazionale e, di riflesso, lo riporterà in auge anche in Italia, dove verrà eseguito da Milva e Giorgio Gaber. Poco dopo sono il festival di Spoleto e anche il Nuovo Canzoniere Italiano dell’entomusicologo Roberto Leydi (autore de “La possibile storia di una canzone”), che nel 1964 porta sui palchi italiani l’ex mondina Giovanna Daffini in uno spettacolo chiamato “Bella ciao”. Da lì in poi si è diffusa ovunque: secondo Pestelli il tema della libertà contro un oppressore non precisato lo hanno reso un brano adattabile, adottato dai braccianti messicani in California, dai curdi e dai turchi, dagli ucraini anti-Putin e da quelli filorussi e altri ancora. Ultimo in ordine di tempo, le manifestazioni dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, pretesto da cui è nata l’idea del libro.  

La vera storia di "Bella Ciao". Vittorio Bobba, 17 Ottobre 2021,su weeklymagazine.it. Da oltre settant’anni non c’è festa, manifestazione o evento in generale dove i trinariciuti di guareschiana memoria non cantino ‘Bella Ciao’ come il Mazzolin di Fiori dei gitanti sul pulmann, per dare un senso corale e di comunanza tra appartenenti alla stessa fede politica. La canzone ‘Bella Ciao’ viene sbandierata dal dopoguerra come simbolo musicale della lotta partigiana. Nulla di più falso.

Nessun partigiano ha mai cantato o conosciuto Bella Ciao prima della fine della guerra.

La canzone è stata scritta nel 1918 dal musicista tzigano di origini ucraine Mishka Ziganoff, e fu incisa nel 1919 dal suo autore con il titolo “Koilen” in un disco a 78 giri dal titolo “Klezmer-Yiddish”

I musicisti girovaghi tzigani suonavano nelle piazze di tutta Europa, certamente anche in Italia, ed è probabile (sebbene le origini siano molto incerte, che questa melodia così orecchiabile sia stata presa in prestito per la versione che circolava tra le mondine fin dagli anni trenta. La si può facilmente trovare su YouTube in varie versioni, da quella famosissima di Milva a quella struggente di Nanni Svampa.

Fatto sta che la stessa Associazione Nazionale Partigiani d’italia (ANPI) riconosce che Bella ciao divenne inno ufficiale della Resistenza soltanto vent’anni dopo la fine della guerra e che: “È diventato un inno soltanto quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi”. La sua conoscenza ha cominciato a diffondersi dopo la prima pubblicazione del testo nel 1953 sulla rivista “La Lapa” ma è diventata celeberrima soltanto dopo il Festival di Spoleto del 1964.

Sebbene più fonti citino Bella Ciao tra i canti della resistenza, è assai improbabile che lo fosse. Lo stesso storico Cesare Bermani (non certo uno studioso di destra) “concorda che la sua diffusione nel periodo della lotta partigiana fosse minima anche se, sempre nella sua opinione e senza portare evidenze documentali che la sostengano, la cantavano anche alcuni reparti combattenti di Reggio Emilia e del modenese, ma non era la canzone simbolo di nessun’altra formazione partigiana. Ragion per cui Cesare Bermani afferma che Bella ciao sia “l’invenzione di una tradizione” e che: «A metà anni Sessanta, il centrosinistra al governo ha puntato su Bella ciao come simbolo per dare una unità posteriore al movimento partigiano»”.

Come è riportato nel testo di Roberto Battaglia Storia della Resistenza italiana (Collana Saggi n. 165, Torino, Einaudi, 1953) era Fischia il vento, sull’aria della famosa canzone popolare sovietica “Katjuša”, che divenne l’inno ufficiale delle Brigate partigiane Garibaldi

Anche il noto giornalista ed ex partigiano nonché storico della lotta partigiana, Giorgio Bocca, affermò pubblicamente: «Bella ciao … canzone della Resistenza, e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto.»

Dal 1964 Bella Ciao è stata utilizzata dalle varie associazioni partigiane di ogni colore politico, come dimostra il fatto che fu cantata dal congresso della DC all’elezione del segretario ed ex-partigiano Benigno Zaccagnini.

È una canzone popolare divulgata, nelle sue differenti versioni, tra le regioni del Piemonte e Veneto ma alcune tracce sono state individuate anche nel centro Italia. Il perduto amore, la liberazione dal lavoro opprimente e la morte sono le tematiche dei differenti testi tramandati, principalmente, in forma orale. Ed è sulla base del metodo di diffusione l’origine dei costanti cambiamenti di contenuto e significato.

“Alla mattina appena alzata/ o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao/ alla mattina appena alzata/ in risaia mi tocca andar.” È l’incipit di una versione diffusa negli anni Trenta. Non si parla di invasori ma di lavoro in risaia. Nei diversi studi, sul testo, si rintraccia la trasmissione di questo inno nel lavoro dei campi di risaia. Saranno proprio le mondine del nord e centro Italia a tramandare questo inno di liberazione. “ Ma verrà un giorno che tutte quante/ o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao/ ma verrà un giorno che tutte quante/ lavoreremo in libertà.”

Con Bella Ciao è narrato anche l’amore in cui, anziché raccontare dell’immagine del partigiano, quel “fiore” indica Rosettina o Rosina “che l’è morta per l’amor.” Molteplici sono le fonti che raccontano e diffondono il motivetto di Bella Ciao, già dalla metà del XIX secolo. Qualche traccia si ritrova anche tra i testi antichi di canti popolari francesi, forse dovuto alla vicinanza con il Piemonte.

Bella Ciao diventato inno della sinistra: ma le origini sono altre Di cosa parleremo. Da lucascialo.it. il 10 Giugno 2019.  “Bella Ciao” è ormai un inno cantato in ogni manifestazione organizzata dall’universo della sinistra italiana. Dalle manifestazioni sindacali, al 25 aprile, passando per il Primo maggio, il 2 giugno, Pasqua, Natale e Ferragosto. Ad ogni occasione e ovunque ci siano bandiere rosse, ecco che parte la canzoncina dei partigiani. Bella Ciao è una canzone che dovrebbe unire tutto il paese e tutti i partiti democratici, visto che è stata ideata durante la Seconda guerra mondiale e nel corso della ribellione dal nazi-fascismo. Quindi, dovrebbe appartenere non solo ai partiti di sinistra, ma anche a quelli di centro e quelli di destra. Intendendo per essi però quelli liberali e ovviamente non post-fascisti. Invece, Bella ciao è diventato un inno che divide, di esclusiva matrice di sinistra. Come se ci avesse posto il copyright. Eppure le origini di questo inno sono altre. A spiegare bene le origini di Bella Ciao è un articolo de Il Gazzettino, scritto dal Direttore Roberto Papetti in risposta a un lettore. Bella Ciao non è stata la canzone della Resistenza italiana. Come si ricorda anche in uno dei più bei libri su quel periodo, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, le brigate partigiane, in larga parte egemonizzate dal Pci, avevano eletto a loro inno altri testi, primo fra tutti Fischia il vento. Bella Ciao non faceva parte del repertorio canoro della sinistra e non ne farà parte per diversi decenni nel Dopoguerra. Come riporta Wikipedia, la Bella ciao partigiana riprendeva nella parte testuale la struttura del canto Fior di tomba, mentre sia musicalmente che nella struttura dell’iterazione (il “ciao” ripetuto) derivava da un canto infantile diffuso in tutto il nord, La me nòna l’è vecchierella (già rilevato da Roberto Leydi). Un’altra possibile influenza può essere stata quella di una ballata francese del Cinquecento, che seppur mutata leggermente ad ogni passaggio geografico, sarebbe stata assorbita dapprima nella tradizione piemontese con il titolo di Là daré d’côla môntagna, poi in quella trentina con il titolo di Il fiore di Teresina, poi in quella veneta con il titolo Stamattina mi sono alzata, successivamente nei canti delle mondariso e infine in quelli dei partigiani. Il legame con la Bella ciao delle mondine è invece un falso storico. Nei cortei del 25 aprile era cantata solo nei settori in cui sfilavano i partigiani bianchi e il segretario della Dc Benigno Zaccagnini la faceva suonare alla conclusione dei lavori delle assisi di partito. Allora sotto le bandiere rosse riecheggiavano altre note. Bella Ciao perché inno di sinistra La svolta avviene nel 2002 quando Michele Santoro in una puntata della trasmissione Sciuscià la intona polemicamente all’inizio di una puntata dedicata alla libertà di informazione, dopo le dure dichiarazioni di Berlusconi contro lo stesso Santoro, Biagi e Luttazzi (il cosiddetto editto bulgaro). Da quel momento il destino di Bella Ciao cambia. La canzone diventa prima l’inno semi-ufficiale dei cosidetti girotondi ( il movimento antiberlusconiano guidato da Nanni Moretti), poi assurge al ruolo di canzone prediletta della sinistra post-comunista, rimasta orfana di melodie storiche come Fischia al Vento e Bandiera Rossa.

Ancora su "Bella Ciao" e lo strano destino di una canzone "unitaria" che continua a dividere.

LETTERE AL DIRETTORE Sabato 27 Aprile 2019 su ilgazzettino.it

Egregio Direttore,

perché demonizzare Bella ciao? Da un po' di anni a questa parte, in occasione del 25 Aprile, è sempre la solita solfa. Io ho avuto modo di cantarlo fin da fanciullo in ogni uscita di gruppo, durante le scampagnate o le gite in montagna e posso garantire che non frequentavo gruppi legati a fazioni di sinistra, bensì religiosi o parrocchiali. Più tardi, quando ho avuto modo di essere fra gli organizzatori delle sfilate mestrine del 25 aprile, dove Anpi e Fivl sventolavano assieme le loro bandiere, nessuno s'è mai peritato di mettere all'indice questo canto tradizionale. Oggi si adduce a pretesto che è stato strumentalizzato e perfino un sindaco arriva a togliersi la fascia per poterlo cantare. Ridicolo! Se è per quello anche Papaveri e papere fu tacciato di pesanti sottintesi politici, eppure non s'è smesso di cantarlo. Oggi si trasmette di tutto e si fa satira esplicita, più o meno di parte, attraverso le canzoni, ma nessuno si sogna di zittirle. La polemica invece resiste suBella ciao, che alla fin fine è la più unitaria. Chissà perché. Plinio Borghi Mestre

Caro lettore, il destino di Bella Ciao è emblematico dei paradossi in cui la storia del nostro Paese si trova spesso imbrigliata. Bella Ciao non è stata la canzone della Resistenza italiana. Come si ricorda anche in uno dei più bei libri su quel periodo, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, le brigate partigiane, in larga parte egemonizzate dal Pci, avevano eletto a loro inno altri testi, primo fra tutti Fischia il vento. Bella Ciao non faceva parte del repertorio canoro della sinistra e non ne farà parte per diversi decenni nel Dopoguerra. Nei cortei del 25 aprile era cantata solo nei settori in cui sfilavano i partigiani bianchi e il segretario della Dc Benigno Zaccagnini la faceva suonare alla conclusione dei lavori delle assisi di partito. Allora sotto le bandiere rosse riecheggiavano altre note. La svolta avviene nel 2002 quando Michele Santoro in una puntata della trasmissione Sciuscià la intona polemicamente all'inizio di una puntata dedicata alla libertà di informazione, dopo le dure dichiarazioni di Berlusconi contro lo stesso Santoro, Biagi e Luttazzi. Da quel momento il destino di Bella Ciao cambia. La canzone diventa prima l'inno semi-ufficiale dei cosidetti girotondi( il movimento anti-berlusconiano guidato da Nanni Moretti), poi assurge al ruolo di canzone prediletta della sinistra post-comunista, rimasta orfana di melodie storiche come Fischia al Vento e Bandiera Rossa. Personalmente credo che Bella Ciao mantenga tutto il suo valore storico, la sua attualità e la sua forza di canzone della memoria e della libertà. Ma, a torto o a ragione, qualcuno ritiene che una parte politica si sia appropriata di questa melodia e, quindi, non la sente più come propria. O non la vive come un inno unitario.

«Bella ciao» non sia obbligatoria ma non è un inno comunista. Aldo Cazzullo il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. Caro Aldo Cazzullo, per gli uomini del Pd che annaspano in cerca di idee, l’appiglio estremo è da 75 anni sempre lo stesso: l’antifascismo. Quando si tratta di frenare l’emorragia di consensi, la retorica antifascista e le note di «Bella ciao», inno dei partigiani rossi, devono ricordare a tutti da che parte sta la vera democrazia. Peccato che questo sia un falso storico. I partigiani che combatterono il fascismo furono i repubblicani, i liberali, i militari fedeli alla monarchia, i cattolici, gli azionisti seguaci di Pertini e Salvemini... I partigiani comunisti combatterono la dittatura fascista non per la libertà, ma per instaurare un’altra dittatura: la loro. Raffaele Laurenzi, Milano

Caro Raffaele, Non sono d’accordo con lei. I partigiani non avevano bollini, tanto meno rossi. Certo, c’erano i comunisti, i socialisti, i monarchici, i cattolici, gli azionisti. Ma la maggioranza erano giovani senza partito, che anzi dopo vent’anni di fascismo non sapevano neppure cosa fossero i partiti, e semplicemente rifiutarono di obbedire ai bandi Graziani, e quindi di combattere per Hitler e Mussolini. Sono certo che questo discorso vale pure per molti resistenti delle brigate Garibaldi. Detto questo, certo, c’erano i comunisti. Qualcuno pensava di costruire una democrazia. Molti sognavano di fare la rivoluzione come in Russia. Ma questo è un discorso perfetto per le polemiche politiche di oggi, magari per giustificare chi invece combatté per Hitler e Mussolini. All’epoca l’urgenza era di stabilire da quale parte stare: con chi mandava gli ebrei italiani nei campi di sterminio, o contro. Questo non toglie un’oncia alla gravità dei delitti commessi da partigiani comunisti nel triangolo della morte emiliano e altrove. Quanto a «Bella ciao», imporre di cantarla per legge è sbagliato. Ma non è una canzone comunista. È una canzone che parla di libertà. Ad Alba, città dove la Dc aveva il 60 per cento, il secondo partito era il Pli e il terzo il Pri, si cantava «Bella ciao» senza pensare di fare una cosa di sinistra. E comunque Giorgio Bocca raccontava di aver fatto la guerra di liberazione per quasi venti mesi senza mai intonarla.

Bella ciao a norma di legge. Marcello Veneziani l'8 giugno 2021. È inutile girarci sopra: imporre Bella Ciao a norma di legge nelle cerimonie pubbliche è fatto per spaccare, creare un fossato di odio e di rancore, andare contro quella metà o forse più del Paese e dei partiti che lo rappresentano e che vogliono lasciare alle spalle dopo quasi ottant’anni la polemica antiquata e aspra sul fascismo e sull’antifascismo. Un conto è il giudizio storico, un altro è l’uso militante e propagandistico. E qui si tratta di uso politico e fazioso, moralista e vessatorio di un canto che peraltro non nacque per la guerra partigiana e divenne solo nelle manifestazioni politiche del dopoguerra l’inno della Liberazione. Condivido quel che ha scritto, con finalità diverse dalle mie, anzi per amore di Bella Ciao, Maurizio Maggiani su la Repubblica, che ha visto nella proposta di istituire il canto a norma di legge, una forma di vampirismo, compiuto da “dissanguatori di ideali e di memorie”, per ridare vita a smorte e svuotate cerimonie. Chiunque ne senta la voglia, nelle manifestazioni politiche, civili, sindacali, di intonare quel canto è liberissimo di farlo. Ma imporlo a tutti, per legge, è un modo per rendere odioso e divisivo un canto che ha una sua genuina freschezza. Anche se oggi dire Bella Ciao potrebbe essere inteso come una molestia sessuale secondo il catechismo del catcalling… MV, 8 giugno 2021

“Bella Ciao” inno ufficiale per manipolare la storia: l’egemonia comunista non va mai in pensione. Marzio Dalla Casta lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia.  Ha ragione chi dice che la sinistra è ridotta proprio a mal partito se costretta a risollevarsi con una canzone, in questo caso Bella Ciao. Prove di intempestività e di siderale distanza dalle reali esigenze di quelle che una volta indica come «masse popolari» i compagni ne offrono da tempo. L’avvento di Enrico Letta ne ha solo intensificato la frequenza, come dimostrano – una dopo l’altra – le proposte su ius soliomotransfobia e voto ai 16enni. A queste va ora ad aggiungersi la più recente, tesa a trasformare Bella Ciao in una sorta di vice-inno nazionale da eseguire obbligatoriamente il 25 Aprile. Una questione di lana caprina, dal momento che quella canzone di dubbia origine è già un prezzemolo per ogni minestra.

Bertinotti: «Bella Ciao si è ritualizzata». Come ha paventato Fausto Bertinotti, si è «ritualizzata» perdendo fatalmente la propria energia mobilitante. Ma se è così (e così è) perché renderla addirittura ufficiale? Semplice, perché se dipendesse dagli ex-post e neocomunisti, la storia d’Italia comincerebbe solo nel 1945, il suo mito fondante sarebbe unicamente la Resistenza e l’unico patriottismo ammesso quello costituzionale. Nel frattempo, sono riusciti ad equiparare antifascismo e democrazia. Ne avevano bisogno come l’aria visto che prendevano ordini e rubli da una potenza straniera, nemica e totalitaria come l’Unione Sovietica. L’antifascismo, dunque, come grande lavacro dei crimini comunisti commessi ad ogni latitudine, Italia compresa come ben sa chi ha raccontato gli orrori consumati a guerra finita nel cosiddetto Triangolo della morte.

La Resistenza al posto del Risorgimento. Il resto, invece, è riuscito a metà: il Risorgimento ha cessato di essere mito fondante, come dimostra il pullulare di leghe, al Nord come al Sud, ma il trapianto della Resistenza no. Risultato: siamo immersi in una sorta di Striscia di Gaza della memoria collettiva. Vegetiamo in una terra di nessuno dove tutto è in discussione, dall’unità nazionale all’inno nazionale. Messa così, anche l’ufficializzazione di Bella Ciao ha un suo perché. Conferma che la sinistra italiana è ancora a trazione comunista, almeno sotto il profilo culturale. Tutto da dimostrare, invece, la redditività elettorale dell’operazione. Anzi, è più che probabile che la promozione della canzone partigiana a vice-inno non riuscirà a sventare il fiasco annunciato dai sondaggi. In tal caso, servirà a digerire la sconfitta. Perché, come si dice: “Canta che ti passa“.

Sorpresa: Bella Ciao non è né un canto partigiano né un inno comunista. Adele Sirocchi martedì 23 Aprile 2019 su Il Secolo d'Italia. Con il 25 aprile in arrivo, siamo destinati ad ascoltare nuovamente le note e le parole di Bella Ciao, spacciata erroneamente come la canzone della Resistenza: un mito sulla cui costruzione retorica vale la pena di soffermarsi. Inno global è ormai Bella Ciao, da noi colonna sonora di ogni corteo di sinistra, di ogni contestazione contro i fantasmi del fascismo. La si cantò in chiesa per don Gallo, la intonò Santoro in tv contro Berlusconi, l’hanno insegnata ai migranti contro Salvini. Val la pena allora di andare a vedere da dove nasce questo “mito” resistenziale canoro. Ma davvero i partigiani cantavano quella canzone? Mica tanto vero, visto che era una canzone delle mondine, le cui parole vennero adattate a una melodia yddish registrata agli inizi del ‘900 a New York  da un musicista ucraino. Fa testo di ciò il video in cui Laura Boldrini riceve a Montecitorio un gruppo di ex partigiani e canta con loro Bella Ciao. Mentre uno di loro canta un altro contesta la canzone e afferma che i partigiani cantavano Fischia il vento.Ma le vie della musica sono strane e contorte: ed ecco che quella canzone diviene prima canto delle mondine e poi viene rielaborata dai partigiani ma in zone circoscritte: Alto Bolognese, Montefiorino, Reggiano, Reatino. Insomma erano troppo pochi a cantarla per poterla considerare davvero la canzone-simbolo della Resistenza. Nella versione del canto delle mondine la fa conoscere Giovanna Daffini all’inizio degli anni Sessanta: “Questa mattina mi sono alzata/ o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao/ sta mattina, appena alzata/ in risaia mi tocca andar/ e tra gli insetti e le zanzare/ un dur lavor mi tocca far…”. Nel canzoniere resistenziale spiccavano altri inni. Uno era sicuramente “Bandiera rossa“, un altro “Fischia il vento“, inno ufficiale delle Brigate Garibaldi, un altro era La Badoglieide, composta nella primavera del 1944 da un gruppo di partigiani piemontesi di Giustizia e Libertà. A decretare la fortuna di Bella Ciao, come scrive lo storico Stefano Pivato, “è il clima politico d’inizio anni Sessanta. Nel periodo che precede e accompagna la costituzione dei primi governi di centro-sinistra e si afferma l’idea della Repubblica nata dalla Resistenza, una canzone come Fischia il vento, contenente espliciti richiami all’ideologia comunista  e oltre tutto costruita sulla melodia di un canto russo, male si presta a interpretare il clima di concordia e di unità di intenti che si intende allora stabilire intorno alla memoria della Resistenza”. (S.Pivato, Bella Ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, 2005).

Insomma spiace davvero per i  cultori di Bella Ciao, ma trattavasi di una canzonetta delle mondine assurta a inno della Resistenza sull’onda del compromesso storico e sulla scia di un annacquamento delle spinte comuniste insite nel filone maggioritario della lotta partigiana. Trattandosi di canzonetta orecchiabile non mancarono da subito, sempre negli anni Sessanta, le parodie irriverenti, tra le quali questa che riportiamo di seguito e che è sempre citata da Pivato: “Alla mattina quando mi alzo/ io meno il ca meno il ca meno il ca parapappapà/Alla mattina quando mi alzo/io meno il cane a passeggiar…”. Una nota di colore con la quale concludiamo questo excursus sulla vera origine di Bella Ciao.

Lo scrittore Maggiani: voi di sinistra, giù le mani da Bella ciao. Siete come i vampiri, succhiate la vita…Adele Sirocchi l'8 giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Lo scrittore Maurizio Maggiani non vuole che Bella ciao diventi un inno istituzionale. E’ una voce che, dalla sinistra non partitica, si leva contro quella parlamentarizzata che vuole fare di Bella ciao la propria canzone di bandiera, con pari dignità dell’inno nazionale. Maggiani, autore del pluripremiato romanzo “Il coraggio del pettirosso“, su Repubblica si oppone a questo progetto, dietro il quale – lo dice senza mezzi termini – c’è puzza di putrefazione. E già perché la sinistra svuota ogni cosa della sua sostanza, condannandola alla morte. Siete come vampiri, è l’accusa che lo scrittore rivolge ai vari “onorevoli Fragomeli, Verini, Boldrini e Fiano, Stumpo, Anzaldi e Sarli“. A quelli, insomma, che su Bella ciao hanno costruito una bella e propagandistica proposta di legge. Ma quel canto, ricorda Maggiani, è un canto libero liberamente scelto. Se lo si impone dall’alto, non ha più senso. E la sinistra, le cui piazze sono vuote da anni, vorrebbe ora anche spegnere quelle note che sono l’unica cosa che ancora vive da quelle parti. Cosa volete fare di Bella ciao? Tuona Maggiani. Volete dissanguarla, ucciderla, essiccarla. Volete fare – continua – “quello che la sinistra, quell’ineffabile, fantasmatico resto mortale che voi egregiamente rappresentate dagli alti scanni della Repubblica, ha fatto di tutto ciò che ha toccato e avocato a sé di espressione di popolo, di valore fondante, di liberazione; gli avete succhiato la sostanza, lo avete svuotato e diseccato. Se posso permettermi, il vostro è il lavoro del vampiro, dissanguatori di ideali, di memorie, di nobiltà. Esangui imbelli al cospetto della storia e delle battaglie che impone, questo potere vi è rimasto intatto, tutto quello che toccate si dissolve in noncurante rito, in vuoto ablare”. Una prosa adamantina che inchioda la sinistra, “fantasmatico resto mortale”, alle sue responsabilità storiche. E no, continua Maggiani, Bella ciao non è adatta a diventare un inno. Perché – finalmente qualcuno che lo ricorda! – non è una canzone comunista, e neanche troppo partigiana.  Bella ciao – scrive Maggiani – “non è nemmeno comunista, come biascicano gli analfabeti; in effetti non è nemmeno un granché partigiana, i partigiani, gli uomini e le donne combattenti, nella battaglia avevano bisogno di cantare qualcosa di più forte, non amavano pensare di farsi seppellire sotto un bel fior, ma, nell’infausto caso, di promettere dura vendetta sarà del partigian”.

E allora, conclude Maggiani, lasciate stare Bella ciao. Cari di sinistra – esorta – “non lordate dunque le vostre mani del sangue innocente di Bella ciao“.

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

Dalle toghe rosse ai preti rossi, la litanìa è sempre la stessa: una canzone mono-nota, scrive Girolamo Fragalà su “Il Secolo d’Italia”. Dalle toghe rosse alle tonache rosse. Le pecorelle non sono tutte uguali, la carità cristiana è lasciata ai posteri (e non per l’ardua sentenza), del perdono manco a parlarne, si prega solo per alcune anime e si spera che le altre vadano dritte all’inferno, avvolte nelle fiamme. Di preti che si mettono in mostra per la loro fede più comunista che cattolica ne stanno uscendo parecchi. Militanti col pugno chiuso e poco moderati. L’ultimo in ordine cronologico è don Paolo Farinella, sacerdote della Diocesi di Genova, che è stato ospite del programma di Radio2 Un giorno da pecora. Contro chi si è scagliato? Naturalmente contro Berlusconi che «fa soldi solo con la corruzione e se ne frega della fede». Roba quasi da querela. Come se non bastasse, il “don” ha aggiunto: «Se lui non fosse così vigliacco da scappare dai tribunali e venisse fuori che è colpevole, deve andare dentro». Il tutto mentre continuano a girare a mille, sul web, le performance di don Gallo, sacerdote antagonista, fede vendoliana. Record di visualizzazioni per il video in cui si vede il prete, nella Chiesa di San Benedetto a Genova, sventolare il paramento sacro che aveva sulla tonaca come se fosse una bandiera rossa e cantare Bella Ciao. La gustosa scena è avvenuta alla fine della Messa, davanti ai fedeli. Don Gallo nel 2009 partecipò al Genova Pride e ultimamente ha dichiarato che «sarebbe magnifico avere un Papa gay». Facendo un piccolo salto indietro, ricordiamo don Giorgio, il parroco di Monte di Rovagnate, che creò un mare di polemiche per una sua frase («prego il Padreterno che mandi un bell’ictus a Berlusconi facendolo rimanere secco») che nulla aveva di cattolico. Tutti “figli” di don Vitaliano, che tutti ricordano come il prete no-global: insieme con Vittorio Agnoletto (ex parlamentare di Rifondazione comunista) piombò nella sala stampa del Festival di Sanremo munito di bandiere pacifiste. Tra chi insulta,  chi augura gli ictus e chi canta Bella Ciao sull’altare, l’unica vera vittima è la Chiesa. Che finisce per perdere credibilità a causa delle tonache rosse. Proprio ciò che sta accadendo alla magistratura a causa delle toghe rosse.

Tre domande per Diego Fusaro. Giordano Di Fiore de Il Riformista l'1 Giugno 2020. Tre domande per Diego Fusaro, filosofo e saggista. Dopo la positiva esperienza condotta con Marco Rizzo, ho pensato di rivolgere le stesse identiche domande al noto opinionista controcorrente. In verità, in un primo momento, avrei voluto, in qualche modo, riadattare le domande: sarei partito dalla relazione tra Kant e il potere, per poi arrivare a definire meglio il ruolo della democrazia moderna. Infine, mi sono convinto che sarebbe stato più proficuo per il lettore essere meno accomodanti e portare avanti il nostro dibattito sulla libertà, sulla teoria dell’emergenza permanente, sul ruolo ambiguo degli schieramenti politici. Il presupposto, come già nell’introduzione a Rizzo, è quello di provare, nel nostro piccolo, a dare voce a chi, oggettivamente, in questo momento, ne ha poca, con la consapevolezza che il pensiero critico, qualunque sia la nostra opinione, sia il vero vaccino ai mali della democrazia. Buona lettura.

Dal crollo del muro in avanti, trovo che in Italia si sia creata, nel popolo di sinistra, una certa confusione. Gli avversari politici utilizzano l’espressione “buonismo”, in senso dispregiativo. Qualcosa di vero, tuttavia, sembra esserci: quando si propongono sanatorie a tempo determinato e quando si fa finta di appellarsi alla solidarietà per, in realtà, legittimare la schiavitù, si fa finta di essere buoni, ma si fa il gioco del cosiddetto “potere”. Lei cosa ne pensa?

D.F.     Si, confusione è una parola molto garbata e neutra: io la definirei meglio metamorfosi kafkiana delle sinistre. Il mio maestro soleva definirla il serpentone metamorfico pci pds ds pd: dal grande Antonio Gramsci, al bardo cosmopolita Roberto Saviano. Più che di confusione, parlerei di una normalizzazione integrale delle sinistre, le quali, da polo di rappresentanza del lavoro, sono diventate il polo di rappresentanza del capitale cosmopolita. Peggio ancora, sembrano passare larga parte del loro tempo a demonizzare le richieste di emancipazione delle classi lavoratrici, che chiedono, evidentemente, salari più dignitosi e maggior protezione da parte dello Stato. Confusione, dunque, è un’espressione vera, e, al tempo stesso, fin troppo buona: non buonista, ma molto buona, sicuramente. Le sinistre sono diventate l’ala culturale della destra finanziaria capitalistica: come ho spiegato nel mio libro “Pensare altrimenti”, c’è una sorta di sinergia tra la destra liberista del danaro e la sinistra libertaria del costume, che sono, per cosi dire, la doppia apertura alare del globalismo capitalistico. La destra del danaro vuole un unico mondo ridotto a mercato, senza stati nazionali sovrani che possano limitare l’economia. La sinistra, anziché valorizzare gli stati nazionali e la lotta contro l’economia, definisce gli stati nazionali fascisti e nazisti, in quanto tali. La destra del danaro vuole ancora produrre una sorta di globalizzazione senza luoghi e la sinistra l’appoggia in pieno. Ciò che la destra vuole, la sinistra legittima: questo è il paradosso del nuovo ordine totalitario del capitalismo.

Ho trovato molto singolare che, durante il cosiddetto lockdown, molte persone si siano ritrovate a cantare Bella Ciao, ma non per strada, sul balcone! Qualcosa del genere è successo anche per la Festa dei Lavoratori. In pratica, molte persone che credono di riconoscersi nei valori della Libertà e della Resistenza hanno, poi, sposato la linea dell’obbedienza totale al capo. Come mai è avvenuto tutto questo?

D.F.     Si, il cantare Bella Ciao, nel lockdown, dietro le sbarre dei propri balconi o inneggiare, come accaduto, ai droni, alla tracciabilità e alla delazione è un vero e proprio rovesciamento dialettico. Per dirla con Hegel, come la virtù illuministica si capovolge nel terrore giacobino, cosi la società aperta si capovolge in lockdown. E Bella Ciao si capovolge nell’elogio dell’esercito nelle strade, e della delazione. Nihil novi sub sole: sono le avventure o le disavventure, se si preferisce, della dialettica.

In questi mesi, un governo, diciamo così, tendente a sinistra, tramite l’artificio dello stato di emergenza permanente – che molto ricorda la guerra permanente di orwelliana memoria – ha giustificato l’azzeramento di libertà costituzionali conquistate in anni di lotte sociali. Qual è la sua opinione in merito? Cosa ci aspetta ancora nei prossimi mesi?

D.F.     Eh sì, è proprio così: la tesi che sostengo, e che concorda in parte con quelle di Agamben, è che il nuovo principio della società sia il distanziamento sociale, che impedisce, o limita fortemente, ogni relazione, ogni contestazione, ogni luogo pubblico: con il lockdown, lo limita totalmente. Si tratta di una razionalità politica, che, in questo modo, impedisce in partenza ogni contestazione del capitale. È una svolta autoritaria in seno al capitale, a mio giudizio, che usa l’emergenza del virus per costruirci sopra una razionalità politica di tipo autoritario e repressivo. Forse il capitalismo stava iniziando a perdere il suo consenso, e, quando la classe dominante ha il dominio, ma non il consenso, Gramsci docet, usa il manganello, la violenza: in questo caso, utilizza le norme emergenziali. Per garantire la sicurezza, bisogna rinunziare alla Costituzione e alla libertà.  Più durerà l’emergenza, più si rinunzierà a Costituzione e libertà e l’eccezione diventerà quella che oggi già chiamano la nuova normalità.

Il Pd vuole "Bella Ciao" a scuola "Cantatela con l'Inno di Mameli". Alcuni deputati dem hanno presentato una proposta di legge per inserire il canto partigiano nei programmi scolastici. Alberto Giorgi,  Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Il risultato delle Regionali deve aver dato alla testa al Partito Democratico. Già, perché ora i dem tornano alla carica su una questione a loro molto cara: affiancare Bella ciao all’Inno di Mameli, facendo sì che il canto simbolo dei partigiani e della resistenza entri di diritto nei programmi scolastici di tutto il Paese a decorrere dall'anno scolastico 2020/2021. La pensata non è nuova e anzi risale alla scorsa primavera, quando l’Italia era in piena emergenza coronavirus. In data 30 aprile, infatti, un gruppo di parlamentari dem – tra cui Piero Fassino, Michele Anzaldi, Stefania Pezzopane, Patrizia Prestipino e Gian Mario Fragomeli – presentano a Montecitorio una proposta di legge per inserire nei programmi scolastici lo studio della canzone "rossa" per eccellenza, così da ottenere il riconoscimento ufficiale della canzone simbolo della lotta partigiana come canto ufficiale dello Stato italiano, quasi alla pari dell'Inno di Mameli. Oltre all’idea in sé, stupiscono anche le tempistiche, visto che in quelle difficili e durissime settimane l’Italia era in ginocchio e terrorizzata dalla pandemia di coronavirus, che continuava a mietere vittime. Con il Paese congelato dalla serrata e dalla paura, alcuni deputati del piddì hanno però pensato bene di badare ad altro e di interessarsi a Bella ciao. In quel 30 aprile, allora, a Montecitorio fa capolino la seguente proposta di legge: "Riconoscimento della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della nascita de dello sviluppo della Repubblica". Ma come detto non è tutto. "Non meno importante, infine, la legge dispone anche che in tutte le scuole, all’insegnamento dei fatti legati al periodo storico della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della lotta partigiana, venga affiancato anche lo studio della canzone Bella Ciao", come spiegato dal dem Fragomeli. Dalla scorsa primavera a questo autunno, perché praticamente all’indomani del risultato elettorale del referendum, delle Regionali e delle Comunali, la proposta di legge – come rende noto Il Tempo – è stata appena licenziata dalla commissione e approderà dunque in Aula, dove il Pd farà di tutto per ottenerne l’approvazione. D’altronde, secondo loro, come si legge all’interno della proposta di legge stessa, "Bella ciao è un inno facilmente condivisibile e non è espressione di una singola parte politica, visto che che tutte le forze politiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone". Il blitz del Pd sulla canzone partigiana è tutto condensato nell'articolo uno del provvedimento che potrebbe diventare legge. All’articolo uno, infatti, si legge: "La Repubblica riconosce la canzone Bella ciao quale espressione popolare dei propri valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. La canzone Bella ciao è eseguita, dopo l'inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". Insomma, Bella ciao come secondo inno nazionale.

Azzolina difende Bella Ciao: "Parte del patrimonio culturale". Ad aprile, un insegnante assegnò l'esecuzione musicale di Bella Ciao. Il deputato di FdI, Rampelli, aveva chiesto l'intervento del ministro dell'Istruzione. La risposta di Azzolina: "Il canto è parte del patrimonio culturale". Francesca Bernasconi, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. "Il brano Bella Ciao è parte del patrimonio culturale italiano". Così, il ministro dell'istruzione, Lucia Azzolina, si è espressa in difesa del noto canto, al centro di un'interrogazione presentata dal deputato di Fratelli d'Italia, Fabio Rampelli. Tutto parte da un compito assegnato agli alunni delle scuole medie dell'Istituto Ottaviano Bottini, di Piglio, in provincia di Frosinone. Lo scorso aprile, un insegnante di musica aveva assegnato come compito l'esecuzione di Bella Ciao, che sul sito della scuola veniva definita "simbolo della Liberazione che abbiamo festeggiato il 25 aprile". Una notizia che aveva sconcertato il deputato FdI: il 25 aprile, aveva commentato Rampelli, "rappresenta oggettivamente la liberazione dell’Italia dalla dittatura e dall’occupazione nazista". Invece, "l’inno partigiano è divisivo perchè rappresenta una parte politica ben definita, purtroppo protagonista anche di violenze efferate e ingiustificate, anche nei confronti di civili, preti, donne e bambini". Secondo il deputato, si legge nell'interrogazione, "è inaccettabile che temi di natura chiaramente politica, surrettiziamente presentati come formativi, vengano inseriti nell’attività scolastica di ragazzi che le famiglie affidano alla scuola per ragioni didattiche e non certo per vederli sottoporre a un’attività propagandistica, a meno che non ci sia lo spazio per uno studio plurale e imparziale degli accadimenti". Infine, Rampelli aveva lanciato un appello al ministro Azzolina, chiedendole se non ritenesse necessario "adottare le iniziative di competenza per evitare la diffusione di una visione politicizzata della storia nelle scuole, evitando che sia altresì consentito un indottrinamento delle nuove generazioni". Non solo. Il deputato FdI chiedeva anche un indirizzo rivolto ai dirigenti scolastici, perché distinguessero "la festa della Liberazione dall’inno dei partigiani", considerato "divisivo ed evocatore di violenze storicamente accertate". Ma, rispondendo per iscritto all'interrogazione di Rampelli, Lucia Azzolina difende Bella Ciao, definendolo un canto "parte del patrimonio culturale italiano, noto a livello internazionale, tradotto e cantato in tutto il mondo. È un canto che diffonde valori del tutto universali di opposizione alle guerre ed agli estremismi". Inoltre, la canzone avrebbe sempre fatto parte del libro di testo adottato dalla scuola: "In particolare- spiega Azzolina- il brano in questione, assegnato con lo scopo di essere suonato con il flauto dai discenti, rientra nel novero dei canti popolari in trattazione nell’ambito della musica leggera e precisamente nel capitolo dedicato alle "Canzoni del presente e del passato"". E conclude riaffermandone il valore in quanto parte del patrimonio della cultura italiana. La situazione ha sollevato anche questioni giudiziarie. Il ministro dell'Istruzione, infatti, ha ricordato come lo scorso maggio fosse stata ricevuta dal Ministero "una nota con la quale la dirigente scolastica dell’istituto comprensivo di Piglio, notiziava che in data 2 maggio la stessa aveva sporto querela contro ignoti per il reato di diffamazione a seguito della lettura di alcuni post, apparsi su Facebook, nei quali veniva offesa l’immagine della scuola e di una docente di musica per aver assegnato ad una classe il compito di svolgere con uno strumento musicale (flauto dolce) la canzone Bella Ciao". Da questo punto di vista, sarà l'autorità giudiziaria a definire eventuali responsabilità.

Dritto e Rovescio, Giuseppe Cruciani su Bella Ciao: "Non ha un'impronta italiana, proprietà dei comunisti". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. Siamo a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 1 ottobre. E in studio si parla della priorità del Pd: insegnare Bella Ciao in tutte le scuole italiane, proposta accompagnata da un disegno di legge. Proposta cancellata in modo netto da Giuseppe Cruciani, che prima di battibeccare sul tema con Sara Manfuso spiega: "Nessuno nelle classi italiane ha bisogno di cantare canzoni, non si canta neppure l'Inno italiano figurarsi Bella Ciao. Penso che Bella Ciao sia una canzone di cui si sono appropriati, legittimamente, dopo la seconda guerra mondiale sostanzialmente i comunisti - rimarca il conduttore de la Zanzara -. Non vale per tutti, non ha un'impronta italiana, non ha un valore trasversale: è una canzone di una parte politica, quella di sinistra. È questa la realtà dei fatti, si vuole introdurre a scuola qualcosa che appartiene a una stagione politica che si è conclusa", conclude un impeccabile Giuseppe Cruciani.

Insegnante minaccia alunni: "Canta Bella Ciao o sei fascista". Insegnante di scuola media minaccia alunni di brutto voto se non intonano Bella Ciao: "Chi non canta, è fascista". Rosa Scognamiglio, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Se non canti Bella Ciao, vuol dire che sei fascista e ti metto un brutto voto". Con questa frase un'insegnante di scuola media avrebbe intimato ai suoi studenti di intonare l'inno della Resistenza partigiana minacciando una sfilza di insufficienze a chiunque si fosse rifiutato di farlo. Dalle parole ai fatti, il passo è breve. Così, con metodi educativi piuttosto discutibili, una professoressa ha ben pensato di politicizzare la classe - virando verso una inequivocabile ideologia di sinistra - con la minaccia di un brutto voto sul registro qualora i giovanissimi alunni avessero osato delle rimostranze o si fossero rifiutati di cantare i versi di Bella Ciao. Ma non è tutto. A quanto pare, l'insegnante si sarebbe spinta ben oltre il semplice ammonimento. La faziosa educatrice avrebbe talora apostrofato con l'appellativo "fascista" coloro che non avrebbero assecondato la sua richiesta perentoria. Dunque, spaventati dalle conseguenze di un eventuale diniego sulla media in pagella, i ragazzini non avrebbero potuto far altro che compiacere l'insegnante. A dare notizia dell'accaduto è stata la Lega Prato che, stando a quanto si apprende dalla testa d'informazione GoNews.it, ha riportato la segnalazione di un genitore - l'identità dell'uomo non è stata rivelata per evitare la gogna social – il quale riferiva della presunta condotta diseducativa adottata dalla professoressa durante le ore di lezione. "Abbiamo letto con molta preoccupazione la richiesta d'aiuto di un genitore di un bambino di seconda media: questi denunciava ieri sul suo profilo Facebook che la professoressa di Italiano avrebbe minacciato gli alunni di una classe di seconda media di cantare Bella ciao, pena un brutto voto. - si legge nella nota trasmessa dal gruppo consiliare Lega Prato - L'insegnante avrebbe anche detto agli alunni che se non avessero intonato Bella ciao sarebbero stati dei fascisti. Speriamo si sia trattato di un frainteso, perché altrimenti sarebbe un fatto gravissimo: tanto più apostrofando come fascisti dei bambini colpevoli di non aver imparato una canzone. Per questo chiediamo lumi alla presidenza della scuola media interessata. Pretendiamo quindi chiarezza: questi sarebbero metodi inaccettabili, trattandosi eventualmente di una educatrice che si rivolge a minori con pregiudizio e minacce". Al momento la vicenda resta ancora da accertare ma non è escluso che, nei prossimi giorni, possa essere ulteriormente dettagliata da altre eventuali testimonianze. Nel caso in cui, tale segnalazione fosse confermata, le conseguenze per l'insegnante potrebbero avere persino conseguenze giudiziarie fino alla sospensione dal servizio.

Bella ciao a scuola. Ma i ragazzi sanno della strage partigiana di Mignagola? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

La paventata introduzione del canto “Bella ciao” nelle scuole, per il 25 aprile e/o per manifestazioni celebrative della Resistenza ha suscitato aspre polemiche. Perché questi temi continuano ad essere così divisivi? Può valere la pena far capire a scolari e studenti come mai tali questioni continuino ad essere così “irritanti”, a 75 anni di distanza, offrendo loro uno squarcio di verità su un periodo storico che ha conosciuto non solo luci, ma anche ombre. Importante, però, che questo avvenga senza faziosità e giudizi, sulla scorta di fonti autorevoli e, meglio ancora, attraverso le dichiarazioni rese in sede processuale dagli stessi protagonisti e testimoni. Non bisogna temere i fatti, proprio per avere un panorama equilibrato e completo di quella pagina drammatica della nostra storia e per consentire ad ognuno di maturare un giudizio personale. Dopotutto, a scuola si va per questo. “Anche a Treviso ci fu un eccidio rosso come quello delle Fosse Ardeatine a Roma” scrive Bruno Vespa nel suo “Vincitori e vinti” del 2005 in riferimento alla “Strage della Cartiera Burgo”. Una vicenda di 75 anni fa, iniziata il 27 aprile ’45 e terminata ai primi di maggio: la struttura industriale, a 7 km da Treviso, era stata adibita dai partigiani a campo di concentramento per i prigionieri fascisti e per i civili anche solo sospettati di collaborazionismo. La cartiera giunse a raccogliere circa 2000 persone rastrellate nella zona: militari repubblicani, ausiliarie, civili più o meno legati al passato regime, possidenti. Per quanto misconosciuta, la strage è ampiamente documentata - oltre che dai rapporti dei Carabinieri - dalle testimonianze dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi che furono chiamati a deporre nel processo del 1949.  In realtà, questo eccidio presenta caratteristiche diverse rispetto a quello delle Fosse Ardeatine. Innanzitutto fu compiuto a guerra finita e non fu una rappresaglia condotta nel solco delle pur terribili leggi di guerra dell’epoca (anche se con 5 vittime in più): si trattò di processi sommari, torture ed esecuzioni che, come riportavano i Carabinieri, nemmeno tenevano conto dei nomi degli imputati. Anche sui numeri non c’è corrispondenza con le Ardeatine: materialmente furono recuperati “solo” 100 morti; secondo il cappellano delle Brigate nere don Angelo Scarpellini, le uccisioni furono 700, mentre per il maresciallo dei Carabinieri Carlo Pampararo, 900. Per vari storici furono, comunque, diverse centinaia. Il numero non è chiaro perché, come documenta il partigiano e storico comunista Ives Bizzi, i corpi di molte vittime vennero disciolti nell’acido solforico della cartiera o bruciati nei suoi forni, oppure seppelliti in luoghi remoti o gettati nel fiume Sile. Tale dettaglio fu confermato nel 2007 al Gazzettino anche dal partigiano rosso Aldo Tognana, ex comandante della piazza militare di Treviso: «Il parapetto sul Sile era tutto sporco di sangue, di notte avevano portato lì prigionieri fascisti e non, e li avevano uccisi e gettati nel fiume.»

Inoltre, emergono dal processo torture, stupri ed efferatezze sui prigionieri che si spinsero fino alla crocifissione. “Tutti i prigionieri venivano portati in cartiera – dichiarò al processo del ’49 il partigiano comunista Marcello Ranzato -  i tedeschi - senza che loro venisse torto un capello - venivano custoditi nel garage; i fascisti, invece, in altri locali del pianterreno della cartiera. Questi venivano bastonati e seviziati, tanto che alle volte udivo urla e rumore di percosse. Venivano anche fatti processi sommari. Simionato Gino, “Falco”,  (il loro capo n.d.r.) era uno dei più attivi seviziatori e percuoteva le sue vittime con zappe o badili nelle ore notturne”. Come riportato in “La cartiera della morte” (Mursia 2009) di Antonio Serena, con prefazione di Franco Cardini, il 27 aprile furono catturati presso Olmi sette fascisti della Banda Collotti che portavano con sé dell’oro; questo fu spartito fra partigiani comunisti e democristiani. I prigionieri furono tutti uccisi, anche una donna incinta, amante di Gaetano Collotti. Il 29 aprile, don Giovanni Piliego si recò alla cartiera per confessare dei prigionieri visitati il giorno prima, ma questi erano già stati uccisi. Si rivolse così al vescovo Mantiero che protestò con il CLN e con gli americani. Il 30, militari Usa giunti con una jeep, imposero la cessazione delle attività, ma gli ammazzamenti continuarono. "Dopo la liberazione abbiamo avuto cinque giorni di carta bianca – testimoniò il partigiano Romeo Marangone -  Abbiamo continuato gli arresti”. In realtà, come testimoniò don Ernesto Dal Corso, parroco di Carbonera, le esecuzioni proseguirono ben oltre il 30: “La maggior parte delle uccisioni avvenne dietro una specie di processo presenziato da tali Polo Roberto, Sponchiado Antonio, Brambullo Giovanni, Zancanaro Silvio, Trevisi Gino”. Anche dopo lo stop ordinato dal CNL, invece, “Simionato Gino ha ammazzato un numero di 37 persone, dicono, a colpi di badile”. Spiega lo studioso Massimo Lucioli: “Testimoni oculari riferirono al processo come il giorno 4, un sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Luigi Lorenzi, di 20 anni, (catturato nonostante il lasciapassare del CLN) venne preso di mira perché aveva difeso un’ausiliaria dalle violenze dei partigiani. Altri raccontarono di come egli portasse una medaglietta religiosa al collo: minacciato di crocifissione e rifiutando di togliersela avrebbe risposto: “Muoio come Nostro Signore. La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano”.  Stando alle testimonianze e ai referti, Lorenzi fu inchiodato a due assi di legno, frustato e poi gli venne spaccata la testa. Come da lettera del Comune di Breda, il giorno 8 la madre di Lorenzi andò dal sindaco, il partigiano Giuseppe Foresto (che aveva contatti con i partigiani della cartiera) il quale le rispose, mentendo, che suo figlio era stato rimesso in libertà due giorni prima”. Su denuncia dei familiari delle vittime, fu istruito il processo già nell’estate del ’45, ma in un brutto clima: “Nessuno vuole parlare – riferiscono i rapporti dei CC - tutti sono terrorizzati, perché i colpevoli sono in circolazione, coloro che potrebbero dare preziose notizie, vivono ancora sotto l'incubo della rappresaglia”. Il processo a carico del solo Gino Simionato e di altri ignoti andò avanti fino al 1954, quando il giudice Favara così sentenziò: “Pur essendo altamente deplorevole l’indiscriminazione con cui taluni partigiani o patrioti ebbero a sfogare la mal repressa rabbia, troppo spesso senza accertarsi prima della colpevolezza dei singoli individui rastrellati […] dichiaro non doversi procedere a carico degli imputati in ordine ai reati loro rubricati, perché estinti per effetto amnistia. Si trattava dell’amnistia promulgata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1946, poi reiterata nel ’53.

Dalla finta sinistra dei diritti civili alla vera destra della finanza internazionale, il "pensiero scomodo" di Alessandro Meluzzi. Giordano Di Fiore, Creativo, su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Tre domande per il Prof. Alessandro Meluzzi: continua il nostro viaggio all’interno del pensiero “scomodo”.  E’ trascorso un po’ di tempo da quell’insolito 25 Aprile, passato ad intonare Bella Ciao, ma dal balcone. Una situazione tanto ossimòrica da meritare un approfondimento. Qualcosa che andasse oltre il pensiero unico dominante, dettato dalla dittatura sanitaria. Ecco perché abbiamo deciso di formulare tre domande “urticanti” e riproporle, senza mai cambiarle, ad alcune personalità fuori dagli schemi, molto differenti tra di loro, ma caratterizzate da una rara libertà di pensiero. Abbiamo avuto il piacere di intervistare il filosofo Diego Fusaro, l’On. Marco Rizzo, il Prof. Massimo Cacciari. Non poteva mancare il Prof. Alessandro Meluzzi, psichiatra, docente e noto opinionista, il quale ci fornisce delle risposte molto pungenti, tratteggiandoci il tragico ritorno ad un mondo pre-marxiano, dominato ancora una volta dalla dinamica servo-padrone, storicamente arretrando  rispetto alla dialettica della Rivoluzione Francese. Dal crollo del muro in avanti, trovo che in Italia si sia creata, nel popolo di sinistra, una certa confusione. Gli avversari politici utilizzano l’espressione “buonismo”, in senso dispregiativo. Qualcosa di vero, tuttavia, sembra esserci: quando si propongono sanatorie a tempo determinato e quando si fa finta di appellarsi alla solidarietà per, in realtà, legittimare la schiavitù, si fa finta di essere buoni, ma si fa il gioco del cosiddetto “potere”. Lei cosa ne pensa?

«Di buone intenzioni è spesso lastricata la via dell’Inferno. L’esibizione di buoni sentimenti è lo strumento migliore attraverso cui idee repressive o di sfruttamento dell’uomo sull’uomo possono mascherarsi da umanitarismo, di buonismo o, peggio, di politicamente corretto: quella dimensione per la quale alcune idee dominanti, basata sulla percezione della non esclusione di altri, servono, in realtà, a sancire, a consolidare e a cristallizzare il potere di alcune élite ristrettissime sui più. Il fatto che alcuni padroni mettano i bianchi contro i neri, i cinesi contro gli europei, i migranti contro i nativi è uno strumento attraverso il quale chi controlla il vero potere, quello della finanza, riesce attraverso il divide et impera a riaffermare non solo forme di vetero-schiavismo, diventato neo-schiavismo, ma anche l’azzeramento di quella classe media, figlia dell’illuminismo e della Rivoluzione Francese, che è stata quanto di più civile che la storia dell’umanità abbia prodotto. Ma una nuova, antica distinzione tra padroni e schiavi si riafferma, mascherata da buonismo».

Ho trovato molto singolare che, durante il cosiddetto lockdown, molte persone si siano ritrovate a cantare Bella Ciao, ma non per strada, sul balcone! Qualcosa del genere è successo anche per la Festa dei Lavoratori. In pratica, molte persone che credono di riconoscersi nei valori della Libertà e della Resistenza hanno, poi, sposato la linea dell’obbedienza totale al capo. Come mai è avvenuto tutto questo?

«Della sinistra comunista post-comunista e post-socialista, dopo la caduta del muro di Berlino, è stato fatta una sorta di OPA ostile, nel senso che il globalismo capitalista e totalmente finanziarizzato si è in qualche modo silenziosamente comprato gli apparati dell’antica sinistra (pensate ai residui del PC diventato PDS, PD e quant’altro), come, peraltro, è successo ai diversi partiti socialisti, trasformandoli dai partiti dei diritti sociali, dei lavoratori e delle classi subalterne a presunti partiti di presunti diritti civili. Insomma, non era più l’obiettivo di lottare per il possesso e il controllo dei mezzi di produzione, ma la libertà di poter sfilare in mutande con piume in testa, rivendicando il gender, o pensando a visioni di biopolitica o biosocialità dalle quali Foucault stesso sarebbe inorridito. Questa finta sinistra dei diritti civili che esclude l’antico ruolo strutturale, economico e anticapitalista si è ridotta a quella delle canzoni ‘Bella Ciao’ sui balconi, in una dimensione in cui questa finta sinistra diventa il principale presidio della vera destra, che è quella della finanza internazionale dei Rothschild, dei Soros, dei Rockefeller e dei Gates che vorrebbero marchiarsi con microchip sottopelle».

In questi mesi, un governo, diciamo così, tendente a sinistra, tramite l’artificio dello stato di emergenza permanente – che molto ricorda la guerra permanente di orwelliana memoria – ha giustificato l’azzeramento di libertà costituzionali conquistate in anni di lotte sociali. Qual è la sua opinione in merito? Cosa ci aspetta ancora nei prossimi mesi?

«Diceva un grande intellettuale francese, André Malraux, che la prima vittima della guerra è la verità, dopo la quale c’è la perdita dell’innocenza. Dietro la logica della guerra sta sempre la logica della falsificazione: falsificazione dei sistemi di spionaggio, falsificazione delle informazioni sul nemico, falsificazione delle verità interne. La spagnola venne così chiamata perché la Spagna, non essendo paese belligerante nella Prima Guerra Mondiale, era l’unica nazione in cui la verità su quella vera pandemia poteva circolare. È la conseguenza di questa falsificazione. Nulla è meglio per dominare i popoli che mantenerli in uno stato di guerra permanente o di finta guerra permanente, affinché la vera guerra delle élites, che comandano e anestetizzato le masse oppresse, debba sempre avere legittimazione. Chi ha il potere, gestendo la semiosfera dei segni, può permettersi di impedire che circolino le informazioni che riguardano le verità che potrebbero liberarci. Invece, le élite ci tengono al guinzaglio con la minaccia di un pericolo superiore (ora un virus, ora una guerra, ora una carestia, ora un tracollo economico). Sono quelle élite, prestatrici di denaro e stampatrici di titoli, che governano attraverso il ricatto dello Spread e un’idea di debito, muovendo una psico-info-epidemia di monete. Sotto la minaccia di una guerra, ora materiale, ora economica, il popolo soccombe, non avendo le leve della dinamica, che rappresentano la vera chiave del mantenimento dello status quo».

Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.

Ue, Gentiloni e i commissari socialisti cantano Bella Ciao in aula, ira Meloni. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Alessandro Sala per corriere.it il 4 dicembre 2019. Hanno intonato «Bella Ciao», il canto partigiano per antonomasia (sulle cui origini vi sono però parecchie discordanze), all’interno dell’aula dell’Europarlamento di Strasburgo, dopo il via libera definitivo alla Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. E lo hanno fatto in perfetto italiano, segno che la conoscevano bene. Sette dei 9 nuovi commissari di area socialista, tra cui il titolare degli Affari Economici Paolo Gentiloni, hanno pensato di festeggiare così l’avvio della nuova esperienza di governo, con un momento goliardico durante una foto-opportunity limitata agli esponenti del loro gruppo, dopo quella di rito con l’intera squadra. C’è grande partecipazione al coro e tra i più entusiasti si notano l’olandese Frans Timmermans, che della von der Leyen è il vicepresidente esecutivo con delega al Green Deal Europeo, ovvero le macropolitiche ambientali; la maltese Helen Dalli, commissaria all’Uguaglianza; e la portoghese Elisa Ferreira, commissaria per la Coesione e le riforme. Nessuno dei sette si sottrae al battimano ritmato che accompagna la piccola esibizione.

Meloni indignata. Ma un video registrato nell’occasione con un telefonino ha iniziato a circolare anche al di fuori delle chat del gruppo e oggi è stato diffuso su Facebook dalla presidente di Fratelli d’italia, Giorgia Meloni, sotto l’eloquente titolo di «Unione sovietica europea». « Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee — si chiede l’esponente della destra italiana —? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?». Anche il leader leghista Matteo Salvini è intervenuto sul coro dei commissari: «Complimenti a Pd e 5 Stelle per la scelta di Gentiloni come rappresentante dell’Italia in Europa — scrive l’ex vicepremier su Twitter —. Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournée internazionale».

I precedenti. Anche se le origini partigiane di «Bella Ciao» non sono certe, e non è neppure certo che si tratti un brano italiano, nella politica italiana questo canto viene spesso evocato come canto di resistenza. Il soggetto del testo, del resto, lo è. Lo hanno rispolverato le «sardine» che nelle ultime settimane hanno riempito le piazze in nome della resistenza civile (per esempio qui durante il raduno di Genova); lo ha cantato nei giorni scori in chiesa di Vicofano, nel Pistoiese, don Massimo Biancalani, suscitando la rabbia di Salvini; lo aveva intonato addirittura Michele Santoro in diretta tv nel 2002 in polemica con l’allora premier Silvio Berlusconi. E risuona regolarmente ad ogni celebrazione del 25 aprile e nelle manifestazioni della sinistra. Nulla di strano, insomma, che dei parlamentari di sinistra la considerino un proprio simbolo. Ma il fatto che siano commissari, quindi rappresentanti istituzionali e non esponenti di parte, e che il canto sia avvenuto all’interno dell’Aula con tanto di coreografia ufficiale della Ue ha mandato su tutte le furie Giorgia Meloni.

«Noi Popolari siamo più seri». Ma non solo lei. Anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello (Forza Italia), dal canto suo, ha scritto in una nota:«Ma pensassero a lavorare che sono pagati per questo. Bonino, Frattini o Tajani che pure sono stati commissari europei non lo avrebbero mai fatto. Non è un caso che i commissari che cantano sono tutti socialisti. Noi popolari siamo seri e una cretinaggine del genere non l’avremmo mai fatta».

I commissari europei cantano “Bella Ciao”, Meloni: “Teatrino ridicolo e scandaloso”. Alberto Consoli mercoledì 4 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Commissari europei intonano “Bella Ciao”. Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?”. Ha ragione Giorgia Meloni: un teatrino deprimente che sta facendo il giro del web. “Siamo alla tragica fine dell’Europa”, commentano i più, ossia gli utenti social che stanno condividendo questa scena molto poco edificante. Sul sito di Giorgia Meloni, la prima a diffondere dal suo profilo Fb il video, non ci sono solo commenti riferibili a una condivisione politica. Moltissimi commentatori si scandalizzino per ben altro. L’Europa ha grandi problemi da dibattere: la crisi economica, il ruolo che la Ue vorrà darsi, stratta tra Usa, Cina e Russia. Aziende in crisi, L’economia che arranca. Eppure gli “autorevoli commissari”, trovano il tempo per pagliacciate del genere. Ma come – è il senso dei commenti- intendono inculcarci l’idea che senza Europa saremmo dannati, persi, senza una bussola politica. Poi perdono tempo a “cazzeggiare”? Il video è pubblicato dai social di FdI con un titolo ironico: “Unione sovietica europea”. Ironia a parte,  l’indignazione resta. L’inno “Bella ciao” ormai viene usato come una clava un po’ da tutti: dalle sardine, da alcuni preti, dalle piazze di sinistra, dai preti rossi il primo giorno di scuola. Lo strimpella il ministro dell’Economia Gualtieri. Bella Ciao, a dispetto delle sue origini, è usato come slogan-contro: ogni volta che c’è da vocare le paure fasciste e sovraniste. Follia. Tristissima scena quella dei commissari Ue, che osserviamo, per fortuna per pochi minuti.  Tristissima Europa.

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2019. Paolo Gentiloni non è più lo stesso. Da quando è partito per le brume centroeuropee ha perduto quell' aura da pacioso romano senza qualità rimarchevoli; si è dato al canto sguaiato a favore di telecamera, intonando "Bella ciao" assieme ai colleghi commissari di conio socialistoide; ha sviluppato un' inquietante ipertrofia tricologica che gli ha immobilizzato la capigliatura in un grigio bozzolo verticale da cicisbeo settecentesco. Ma forse ha soltanto somatizzato una scossa elettrica, o ha capito troppo tardi - prendendola male - che l'Ue l'ha subito declassato a commissario europeo all' ipocrisia e ai sogni irrealizzabili del Vecchio continente. Prendete la sua ultima uscita di rilievo, che risale a nemmeno una settimana fa: «Il patto di stabilità, che è stato pensato in un momento di crisi, ora va rivisto». In apparenza sembra intelligente, del resto era stato lo stesso Romano Prodi a definire «stupido» il patto di stabilità. Ma Gentiloni non ha compreso che quel vincolo è assurdo perché è stato immaginato per un continente tutt' altro che in crisi, ma con una crescita immaginaria del 4-5%. Ecco perché ora, in piena recessione, faremmo bene a ripensarlo. Insomma Gentiloni o mente o invecchia male. Non si spiega altrimenti la ragione per cui la sua resistibile intelligenza, che era stata sottratta all' Italia con la promessa di affidargli la delega all' Economia nell' esecutivo guidato da Ursula von der Leyen, sia stata invece posta al servizio dei cosiddetti "obiettivi di sviluppo sostenibile" (Sustainable development goals) ovvero una serie di target ricompresi nell' agenda 2030 dell' Onu. Si tratta di raggiungere ben 17 risultati che sembrano altrettanti capitoli d' un libro dei sogni per attempati prestidigitatori della politica incatenati alle treccine di Greta Thunberg. Qualche esempio? Azzerare la povertà e la fame, combattere contro il riscaldamento globale, raggiungere la stabilità locale e mondiale, ridurre le disuguaglianze, costruire società eque e resilienti, ed economie prospere. Vasto programma che sa di prepensionamento, per il nostro Gentiloni. E a conferma del sospetto genuino sta il non trascurabile dettaglio che finora il coordinamento degli obiettivi di sviluppo sostenibile era affidato a Valdis Dombrovskis. E a questo punto la situazione si chiarifica: Dombrovskis lascia ufficialmente che sia Gentiloni a baloccarsi con i periodi ipotetici dell' irrealtà, per la semplice ragione che l'ex primo ministro lettone è nel frattempo diventato un vicepresidente esecutivo con delega economica per i Servizi finanziari. In altre parole: svolgerà lui, campione internazionale del rigorismo nordeuropeo, le mansioni principali che sarebbero altrimenti state di stretta competenza gentiloniana. Si poteva però immaginare che l'ex premier italiano volesse di conseguenza ritagliarsi una libertà di tono e di giudizio nei confronti del profilo ancora enigmatico mostrato dalla nuova Commissione. Come a dire: voi, che mi avete ingaggiato all'Economia per premiare il ribaltone estivo antisovranista, adesso mi togliete le deleghe più pesanti in omaggio al vostro eterno pregiudizio antimediterraneo; sicché il minimo che io possa fare è difendere il mio interesse nazionale. Magari nulla di tutto ciò invece: le prime mosse dell' oleografico Gentiloni sono state caratterizzate dal più inveterato provincialismo germanofilo. Banco di prova esemplare la discussione intorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, rispetto alla quale Gentiloni si è ben guardato dal rilevare punti oscuri o criticità (come hanno fatto perfino alcuni noti "berlinesi" come il corrierista Federico Fubini e il professor Carlo Cottarelli), e ha preferito anzi piegarsi supinamente alla dottrina dominante: «Non c' è alcun motivo tecnico o politico per definire quell'intesa un rischio per l' Italia Non vedo ragioni che possano spingere un singolo Paese a bloccare l' intesa sul Mes». Sono parole che Gentiloni ha rilasciato al Corriere della Sera, in un dialogo tra figure dell' establishment culminato in un avvertimento che non segnala alcuna discontinuità rispetto ai moniti del passato: «Nel complesso la Commissione non ha respinto nessun bilancio, tantomeno quello italiano. Ma le sue valutazioni, che verranno sottoposte alla ratifica dell' Eurogruppo, andranno prese molto sul serio». In questo atteggiamento da europrofessore alle prese con alunni indisciplinati è racchiuso il vero mandato di Gentiloni: perpetuare il tutorato tecnocratico sull' inadempiente classe politica italiana. Il che potrebbe anche starci, se non fosse che il medesimo Gentiloni ha svolto una funzione non trascurabile nel nostro recente paesaggio governativo, e si deve anche a lui se nel 2018 la vecchia Commissione europea stava per infliggere al governo gialloverde una procedura d' infrazione per eccesso di debito. Proprio così: al netto delle imperizie, dei proclami roboanti e delle velleità spendaccione del primo governo Conte, i burocrati europei rilevarono con l' allora ministro dell' Economia Giovanni Tria che i conti lasciati in eredità dai governi Renzi e Gentiloni risultavano «non conformi con il parametro per la riduzione del debito nel 2016 e nel 2017». Più esplicitamente, la Commissione reclamava «uno sforzo strutturale di bilancio dello 0,3 per cento del pil, pari a circa 10,2 miliardi». Altro che 2,4 per cento di deficit in più, come s' illudeva di strappare l' avvocato degli italiani Sappiamo come è andata a finire. Giusto ieri la Commissione europea ha avviato un' indagine approfondita nei confronti dell' Italia a causa «del persistere di squilibri macro-economici eccessivi», scandisce il Rapporto sul Meccanismo di Allerta adottato dalla Commissione. Nel ringraziare, oggi, con calore l' ex inquilino di Palazzo Chigi per aver servito con tanta perizia l' interesse nazionale, ci pregiamo infine di ricordare come egli non sia stato certo meno accorto nella legittima cura del proprio interesse privato. Una volta ottenuta l' euronomina, in effetti, secondo i dati già segnalati da Libero, il conte Gentiloni Silveri ha dovuto rendere pubblico un personale tesoretto azionario da principino della Borsa: oltre 700mila euro distribuiti fra Amazon, Expedia, Eni, Enel, con obbligazioni BTP e investimenti in vari fondi gestione. Chapeau. Vi risparmierei la replica del censimento dei beni immobili, ma ne riparleremo il giorno in cui Gentiloni proverà a infliggerci la prossima patrimoniale sulla casa.

Marco Rizzo, Partito Comunista: “Commissari Ue cantano un’idea e sono gli stessi che la distruggono”. Rossella Grasso il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. In pochi minuti è diventato virale un video che vede i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) mentre cantano “Bella Ciao” al Parlamento europeo dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea. Un video vecchio di una settimana che ha indignato Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. “Adesso basta, non se ne può più – ha tuonato sulla sua pagina Facebook – Anche i commissari UE cantano ‘Bella Ciao’. Sono quelli che equiparano il comunismo al nazismo. Questa canzone è violentata ovunque. I Partigiani si rivoltano nella tomba. Vergogna! Fuori da UE, euro e Nato!” Se non stupisce che Meloni e Salvini fossero contrari a una simile esternazione dal parte del gruppo dei neocommissari socialisti, la posizione del segretario generale è particolare e gli abbiamo chiesto una spiegazione: “Vediamo i soggetti e l’oggetto – ha detto Rizzo – I soggetti sono il potere costituito dell’Unione Europea, la gabbia europea che attanaglia i popoli europei, secondo il nostro giudizio politico, sono gli uomini che consentono al fondo monetario internazionale e alla Banca Centrale europea di esercitare al meglio il loro potere. L’oggetto è una canzone che ha rappresentato le istanze di cambiamento, di battaglia, in cui sono morte decine di migliaia di persone tra cui in maggioranza comunisti. Possono rivoltarsi nella tomba i Partigiani a vedere che questi signori cantano la loro canzone? Purtroppo nel mainstream del capitalismo globalizzato "Bella ciao" la cantano tutti. E a me dà fastidio”. Per Rizzo si tratta di un vero e proprio ossimoro, l’esatto contrario del significato profondo di quella canzone. “Possiamo far cantare un’idea da quelli che quell’idea la distruggono? È la modalità con cui si crea il consenso e si crea anche il dissenso in questa società. Stessa cosa succede per chi inquina il mondo che si pone la questione dell’ambiente. È buffo ma oggi è così. Il 70% dell’inquinamento del mondo è fatto da 100 multinazionali e tra queste c’è chi impone la discussione sulla green economy. Come dire, "chiagnono e fottono"? Io sono contrario”. L’indignazione per il gesto in Parlamento europeo arriva anche da Salvini che ha twittato “Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournee internazionale!” e Meloni che ha definito “scandaloso” l’accaduto. Per una volta le estremità di destra e sinistra sono tutti d’accordo? “Per definizione non sono mai d’accordo con la Meloni – ha detto – Penso di essere un po’ più titolato di Salvini e Meloni a parlare di Resistenza e partigiani anche perché gli antenati della Meloni durante la Resistenza stavano dall’altra parte“. “Bella Ciao” è una delle canzoni più cantate in tutti i contesti, anche non politici, come è accaduto per la popolare serie di Netflix ‘Casa de papel’ tanto da diventare per molti identificativa della serie tv, tralasciando il suo vero significato (e YouTube ne è testimone). La cantano anche le sardine ogni volta che scendono in piazza e per Rizzo anche questo è un abuso decontestualizzato. “Ormai tutti la cantano – ha detto il segretario comunista – Ma allo stesso modo mi sono incazzato quando ho visto il Che Guevara usato da Casapound. C’è un limite a tutto. ‘Bella Ciao’ la cantano tutti addirittura i padroni dell’Europa. È una roba folle”. Il segretario del partito comunista orgogliosamente ammette di non aver mai indossato una maglietta con il Che stampato su. Perché come ‘Bella Ciao’ “il Che è qualcosa che ti resta nel cuore – ha continuato – è l’idea del grande rivoluzionario. Questa società riesce persino a commercializzare un grande sentimento. È una società che fa schifo”. Rizzo non ci sta a credere che le sardine siano un movimento rivoluzionario. “La rivoluzione significa cambio di sistema – spiega – non mi pare che ci sia né tra le sardine, né tra il popolo viola né tra i 5stelle, né da Podemos né da Syriza una modalità di intercettare il dissenso in queste società contemporanee, nessuna di loro ha messo in discussione il sistema basato sull’economia capitalistica, nessuno parla di economia socialista, di cambio del sistema. Questa è la rotta su cui interpretare quello che accade ed è la differenza tra ribellione e rivoluzione”. Il segretario comunista guarda con sospetto a quel movimento che dice essere nato “guarda caso” a Bologna, dove tra poco ci saranno le amministrative che avranno un riflesso nazionale. Ragionando di partigiani, simboli e Resistenza non può non tornare alla mente Nilde Iotti scomparsa 20 anni fa proprio il 4 dicembre. Marco Rizzo l’ha conosciuta ed è convinto che siano politici come lei ad aver fatto la differenza. Lo afferma con amarezza perché “oggi politici come lei non ce ne sono più – ha detto – È stata una donna che ha partecipato all’emancipazione femminile in Italia, ma tutta la storia delle donne è legata all’idea del riscatto e del cambiamento della società. Qual è il primo posto al mondo in cui le donne hanno votato? L’Unione Sovietica. Dove per prime le donne hanno avuto i diritti di maternità, il primo ministro donna, tutti i mestieri ad alto livello sono stati anche per le donne dall’ingegnere all’astronauta, il diritto all’aborto e al divorzio? Sempre l’Unione Sovietica. Nilde Iotti ha portato tutto questo in Italia con un livello di dignità politica altissimo. Se pensiamo a Nilde Iotti e a cos’è oggi la politica, beh insomma…anche sul versante femminile lo scenario è disarmante”.

La storia di "Bella Ciao", l’inno che nacque dopo la Resistenza. Roberta Caiano su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Nell’ultimo periodo la famosa canzone “Bella Ciao” è diventata un successo mainstream cantata ovunque. Senza dubbio la sua risonanza tra un pubblico giovanile la si deve alla serie Tv spagnola La casa di Carta, che continua a cavalcare gli schermi arrivando alla sua terza stagione. Andata in onda per la prima volta su Netflix nel 2017, continua ad avere un enorme successo mondiale e con essa la canzone Bella Ciao. Ma in questi ultimi mesi la canzone è stata adottata anche come inno dalle migliaia di giovani sardine che stanno affollando le piazze di moltissime città italiane a protestare contro Matteo Salvini. E’ notizia fresca, invece, quella che riguarda i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, i quali dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea, hanno intonato Bella Ciao al Parlamento europeo. Il video è diventato così virale da scatenare polemiche e commenti di indignazione e sconcerto. Oltre a Giorgia Meloni e Salvini, che si sono subito affrettati a chiosare la notizia su twitter, si è espresso in merito anche il segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo. Il politico ha dichiarato in un’intervista che “la canzone ha rappresentato le istanze di un cambiamento di battaglia in cui sono morte decine di persone, tra cui in maggioranza partigiani comunisti italiani.” La maggior parte delle volte Bella Ciao è considerata la canzone intonata dai partigiani mentre liberavano l’Italia. Tutt’oggi viene usata come inno antiautoritario non soltanto in Italia ma in tante piazze del mondo. In realtà non molti sanno che questa è una leggenda che la tradizione ha tramandato sino ai nostri giorni. Infatti Bella Ciao non esisteva durante la Resistenza e nessuno la cantava, anche se alcuni studiosi sostengono che in alcune zone di Reggio Emilia e del Modenese fosse in realtà già nota. Tra le bande partigiane il canto più diffuso era Fischia il vento, nato nel 1943 dalla cadenza sovietica . Bella Ciao nella versione che conosciamo, debutterà ufficialmente a Praga nel 1947 durante il "Festival mondiale della gioventù democratica" e di lì conoscerà una fortuna sempre maggiore, anche al di là dei confini nazionali. Infatti la sua notorietà internazionale si diffuse alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50 in occasione dei Festival che oltre a Praga, si tennero anche a Berlino e Vienna dove fu cantata dai delegati italiani e in seguito tradotta in varie altre lingue. Questo canto deve la sua identificazione come simbolo della Resistenza italiana al testo, in quanto connota la canzone esclusivamente come inno contro “l’invasore”.

Bella Ciao, hit non di lotta ma di resistenza. Paolo Delgado il 6 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Le incerte radici della canzone simbolo. La incise Yves Montand, Daffini la cantò al festival dei due mondi di Pesaro: rappresentava la propaganda comunista. Poi i Dc la cantarono a Zaccagnini. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, avendo Bocca assicurato che i partigiani non l’avevano mai cantata. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, essendo Bocca uno di quelli che avevano assicurato che il canto destinato a diventare una sorta di nuova Internazionale, ritinteggiata in rosa pallido, i partigiani non l’avevano mai cantata. Aveva ragione lui o Cesare Bermani, autore del primo studio sulla canzone- simbolo La vera storia di "Bella Ciao", secondo cui invece qualcuno la cantava, comunque senza grande diffusione. E’ un fatto che i canzonieri della Resistenza usciti quando l’odore della polvere da sparo era ancora acre, nella seconda metà degli anni ‘ 40 e nei primissimi ‘ 50, proprio non la nominano e anche l’ipotesi di Bermani, secondo cui sarebbe stata l’inno della Brigata Maiella, sembra poco probabile: il figlio del fondatore della Brigata, Ettore Troilo, cita in un suo libro le canzoni delle Brigata e dell’ "inno" non c’è traccia. Fonti beninformate giurano che la canzone fu presentata alla rassegna di Praga sulle "Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace", una delle tipiche iniziative Cominform dell’epoca, e che, complice l’orecchiabilità, il motivo decollò lì. Come in tutti i pezzi folk, rintracciare l’origine è un’impresa. Carlo Pestelli, autore a sua volta di Bella ciao. La canzone della libertà, parla di canzone- gomitolo, nella quale si intrecciano, anche in questo caso come spesso capita nelle canzoni folk, ‘ si intrecciano molti fili di vari colori’. Il gomitolo finale arriva al grande pubblico con l’incisione di Yves Montand, allora stella mondiale francese di origine italiana e comunista. L’anno dopo il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi di Pesaro, intonata da Giovanna Daffini, e fioccano le polemiche sulla propaganda comunista al Festival. I commentatori vicini alla Dc si scompongono ma poco più di 10 anni dopo, quando Benigno Zaccagnini, l’ "onesto Zac", rappresentante eminente dei morotei viene eletto segretario della Dc i delegati salutano il sedicente nuovo corso proprio col già vituperato motivo.

Oggi la cantano dappertutto. A New York, a Occupy Wall Street, e a Hong Kong, In Cile come in Iraq, a Parigi come a Roma e ieri anche sotto la porta di Brandeburgo. Ci mette parecchio di suo la serie Netflix "rivoluzionaria" per eccellenza, La casa di carta. Se la cantano lì, nella fiction più antibanche che sia mai stata trasmessa. Però è difficile credere che Paolo Gentiloni e i rappresentanti del Pse avessero in mente una feroce campagna contro le banche quando, dopo il voto a favore della commissione von der Leyen, hanno dato vita al noto coretto. La fortuna del canto non-partigiano, sostiene qualcuno, si deve proprio all’assenza di tonalità forti. Niente a che vedere con roba come Fischia il vento, che la vernice rossa non gliela si scrostava di dosso nemmeno a provarci per ore. E’ una canzone che poteva andare bene per tutti, fascisti esclusi, e dunque pareva fatta apposta, in Italia, per consentire a quello che si chiamava allora ‘ arco costituzionale’ di festeggiarsi senza troppe tensioni. Ma in fondo come e perché si sia arrivati a questo esempio eminente di ‘ invenzione della tradizione’ conta poco. Meglio chiedersi cosa l’opzione canora transnazionale indica oggi. Bella Ciao, nonostante le apparenze, non è una canzone di lotta. E’ una canzone di resistenza ( con la r minuscola). La può cantare chiunque ritenga di trovarsi alle prese con un potere che opprime, con l’invadenza di una potenza estera, persino con la temuta vittoria elettorale di un partito ritenuto minaccioso. E’ una canzone gentile: la può cantare chi resiste con le bottiglie molotov ma anche chi si affida alla resistenza passiva e persino chi si limita ad assieparsi in una piazza. Se non proprio buona per tutti gli usi, quasi.

Bella Ciao? Sallusti: “Nessun partigiano l’ha mai cantata”. Vaurosenesi.it il 30 aprile 2019. “Bella ciao” canzone di tutti gli italiani? Sallusti: ‘Nessun partigiano l’ha mai cantata’. Per Alessandro Sallusti ‘non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza, introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista’. A Quarta Repubblica, il talk show condotto da Nicola Porro, in onda tutti i lunedì sera su Rete 4, si discute sul fatto che la canzone Bella Ciao rappresenti o meno tutti gli italiani con Ilaria Bonaccorsi, Vittorio Sgarbi, Alessandro Sallusti, Marco Gervasoni e Vauro. Argomento spinoso e divisivo che, infatti, fa discutere animatamente gli ospiti in studio. La tesi di Porro è che sia diventata una canzone di parte e che, quindi, non è giusto che venga fatta cantare anche a suo figlio a scuola. Di questa stessa idea, ma con sfumature diverse, sono anche il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti e il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Dalla parte opposta della barricata, è proprio il caso di dirlo, si sistema la storica e giornalista, Ilaria Bonaccorsi, mentre il vignettista Vauro Senesi sostiene, come gli altri ma da un punto di vista agli antipodi, che non sia la canzone di tutti perché appartiene solo agli italiani antifascisti.

Ma Bella ciao può essere considerata o no la canzone di tutti gli italiani. È questo il tema di discussione introdotto a Quarta Repubblica da Nicola Porro verso la fine della puntata andata in onda lunedì 29 aprile. Secondo la definizione di Wikipedia, Bella Ciao “è un canto popolare, nato prima della Liberazione, diventato poi celeberrimo dopo la Resistenza perché idealmente associato al movimento partigiano”. Dunque, secondo il conduttore, “chi la canta gli dà un contenuto politico, è diventata una canzone di una parte” che non dovrebbe essere fatta cantare nelle scuole. Una tesi contrastata con veemenza da Ilaria Bonaccorsi, secondo la quale, invece, il canto appartiene a tutti gli italiani perché “è una canzone trovatella che racconta di una reazione ad una oppressione, nel caso specifico la reazione a 20 anni di dittatura nazifascista e alla fine di una guerra tragicamente combattuta accanto ad Hitler. Non è la canzone di una parte, ma degli esseri umani”.

L’affondo di Alessandro Sallusti: ‘Comunisti parte minoritaria della Resistenza’. La pensa naturalmente in maniera opposta Alessandro Sallusti, secondo il quale “vi siete accodati alla narrazione che ci fanno da 70 anni di quelle vicende. In realtà Bella ciao non può essere la canzone di tutti, anche perché è una fake news. Nessun partigiano l’ha mai cantata – sostiene il direttore del berlusconiano Il Giornale – Non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza. È stata introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista proprio per impossessarsi definitivamente di un fenomeno, quello della Resistenza, di cui il Partito Comunista è stato una parte, tra l’altro anche minoritaria, ma ha cercato ed è riuscito, perché ancora 70 anni dopo noi immaginiamo che i partigiani erano tutti e soltanto comunisti e che cantavano Bella ciao. Non è vera né l’una né l’altra cosa”.

Vauro d’accordo con Sgarbi. A questo punto interviene Vittorio Sgarbi, convinto che Bella ciao “è una bella canzone, ma va rispettato che sia di una parte, perché altrimenti essa perde la sua forza di rottura. Non puoi immaginare La Russa, Berlusconi o Sallusti che la canta, perché è offensivo. Il partigiano monarchico Edgardo Sogno mai l’avrebbe cantata. La caratterizzazione di sinistra, per cui immagino Vauro sia contento, va lasciata a Bella ciao, non possiamo farla diventare cosa di tutti. Se Casapound la canterà sarà un delitto”. Opinione con cui concorda anche Vauro. Il vignettista prima premette che “sarà un miracolo di questa trasmissione, ma è già la terza puntata che vado d’accordo con Sgarbi”. Poi però attacca a testa bassa: “Alla domanda se Bella ciao è la canzone di tutti gli italiani, io rispondo un secco e netto no. È la canzone di tutti gli italiani che si riconoscono nella Costituzione della Repubblica italiana, antifascista e nata dalla Resistenza. L’antifascismo è un valore e anche una discriminante”.

Alessandro Sallusti fa a pezzi Vauro a Quarta Repubblica: "Parlate di partigiani e dimenticate le foibe". Libero Quotidiano 30 Aprile 2019.  "Bella ciao è una fake news. Non era la canzone dei partigiani ma è stata introdotta negli anni Cinquanta dalla retorica comunista". Alessandro Sallusti, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, fa a pezzi il vignettista Vauro Senesi che, invece, insiste sulla necessità di insegnare il fascismo nelle scuole anche se il conduttore sottolinea che i bambini non sanno nulla dell'argomento: "L'istruzione è il primo anticorpo contro il fascismo", tuona il vignettista. Ma il direttore de Il Giornale lo massacra: "In quella scuola si sono dimenticati di insegnare le foibe e la strage di Osoppo e tante altre cose ancora".

O anti-grillino, portami via...La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra. Ma se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale e neppure Salvini che si barcamena come può. Alessandro Sallusti, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ieri ho partecipato a un dibattito televisivo, ospite di Nicola Porro su Rete4, sul ritorno in auge di Bella Ciao, la canzone che modificata nel testo fu adottata negli anni Cinquanta dal Pci per dare una colonna sonora postuma alla retorica della Resistenza e all'antifascismo perpetuo da utilizzare contro chiunque, da Berlusconi a Salvini, si sia frapposto con successo all'avanzata del comunismo. La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra, ma anche nelle scuole e in un caso addirittura in chiesa, Eugenio Scalfari le ha dedicato un pezzo della sua omelia domenicale su La Repubblica. Un revival sinistro in ogni senso, che come tutti i revival è indice dell'incapacità di guardare al presente e al futuro, un po' come Little Tony che si è fermato a Cuore matto e Bobby Solo a Una lacrima sul viso. Sono fermi lì, quelli del Pd, alla rivoluzione sognata e per fortuna nostra fallita. Ma se proprio vogliamo dare una colonna sonora a questo tempo bisognerebbe che anche la sinistra uscisse dalla «nostalgia canaglia» (peraltro titolo di una fortunata canzone cantata da Al Bano e Romina) e scrivesse un nuovo spartito con parole e musica comprensibili non tanto ai nostri nonni, ma ai nostri figli e nipoti, cosa che però non mi pare Zingaretti e soci siano intenzionati o capaci di fare. Proporsi, tra accelerazioni e frenate (ieri quella dell'ex ministro Delrio) come possibili stampelle dei Cinque Stelle nel caso di una rottura tra Di Maio e Salvini, più che un programma politico è una mossa della disperazione nella quale era già caduto Bersani sei anni fa all'indomani della sconfitta, o «non vittoria» come la chiamò lui, alle Politiche del 2013. Se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale (quella radicale e intollerante è talmente al lumicino che bastano polizia e carabinieri) e neppure Salvini che si barcamena come può stante la situazione. L'inutile «fascismo-antifascismo» andrebbe sostituito con il più utile «grillismo-antigrillismo» perché nell'opaco movimento di Di Maio e nei suoi agganci con i servizi segreti italiani e stranieri sta il vero pericolo per la democrazia, proprio come ai tempi di Bella ciao, ballata pensata da chi ci voleva portare al fianco di Stalin.

Red Ronnie a Stasera Italia contro le Sardine e Bella Ciao: "L'invasore chi è, Matteo Salvini o l'Europa?" Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Parole che strappano un sorriso a Matteo Salvini. Parole di Red Ronnie a Stasera Italia, il programma di Rete 4, rilanciate sui social proprio dal leader della Lega, di fatto difeso a spada tratta dal cantante. Barbara Palombelli chiede a Red Ronnie: "Ma che tipo è Salvini secondo te?". Lui risponde: "È un istintivo, uno che si dice che raggiunga la pancia perché parla con la pancia. Raramente legge dei discorsi, diffido da chi lo fa". Dunque, Red Ronnie prosegue: "All'inizio del servizio avete fatto sentire la canzone C'è chi dice no di Vasco Rossi, in un servizio in cui elencavate tutti i nemici del leghista. Io ho il disco, e devo mettere un pezzo della canzone: continuano a giudicarlo per il Papeete, perché era a torso nudo, perché beveva il mojito. È un po' come quello che Vasco diceva di se stesso. Gli dicevano: guardate l'animale, è un animale? E Salvini oggi è un po' quell'animale che tutti dicono", afferma. Ma non è finita, perché poi nel mirino di Red Ronnie ci finisce Bella Ciao, tornata in auge nelle piazze delle sardine: "Visto che parliamo di canzoni, vorrei parlare di Bella Ciao. È una canzone che va bene nella Casa di Carta ormai. Ma cantare Bella Ciao, quando si dice: mi sveglio la mattina, è arrivato un invasore. Ma l'invasore chi è? Salvini o qualcuno dell'Europa che ci sta invadendo e ci sta comprando? Io sono un anarchico, però vedo che ci sono molte cose che non stanno andando in questo mondo, c'è qualcuno che non sa più che ore sono", conclude. Intervento, come detto, rilanciato sui social da Salvini col commento: "Fortissimo Red Ronnie, parole di buonsenso!".

Ciao compie (solo) 200 anni: è la parola italiana più celebre dopo «pizza». Esaltata dai partigiani e al Festival di Saremo, la sua prima attestazione scritta risale al 1818 (e a Milano), scrive Paolo Di Stefano il 23 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".

«Ciao ciao bambina». Nel 1959 Domenico Modugno vinse a Sanremo con Johnny Dorelli cantando Piove. In realtà quella canzone resterà nella memoria per il ritornello: «Ciao ciao bambina», che presto si diffonderà all’estero nella trascrizione inglese «Chiow Chiow Bambeena», in quella tedesca «Tschau Tschau Bambina», in quella spagnola «Chao chao bambina». Dalida la cantò nella versione francese. Il linguista Nicola De Blasi (nel libro «Ciao», pubblicato dal Mulino) sostiene che la canzone di Modugno e di Dino Verde rappresentò la svolta decisiva nella fortuna internazionale della parola «ciao», la forma di saluto più familiare che si conosca non solo in Italia. In realtà, segnala De Blasi, il termine era già noto oltre i confini nazionali: in un romanzo francese di Paul Bourget del 1893, un personaggio diceva in italiano «Ciaò, simpaticone» e nei primi del Novecento veniva suonato un valzer intitolato «Ciao». Il saluto filtrò ben presto nei film neorealisti e nelle commedie all’italiana nel momento in cui il nostro cinema aveva un successo mondiale.

Dal cinema ai giornali. Nel film di Monicelli I soliti ignoti, del 1958, Gassman saluta l’amico Capannelle ricoverato in ospedale con le parole «Addio, ciao, bello». Insomma, il nostro «ciao» si diffonde nel mondo sulle ali del boom economico come «icona quasi fonosimbolica» e del diffondersi del «tu» nei rapporti personali. Tant’è che nel 1967, l’anno tragico per Sanremo in cui Tenco presenta Ciao amore ciao, la Piaggio decide di battezzare «Ciao» un suo motorino che con lo slogan pubblicitario «Bella chi ciao» punta sul pubblico giovanile. E ai lettori giovani, l’anno dopo, si rivolge anche il settimanale illustrato «Ciao 2001», mentre a grandi e bambini viene proposta la crema al cioccolato «Ciaocrem».

Nelle canzoni. Il ’68 è l’anno in cui sempre a Sanremo Luis Armstrong duetta con Lara Saint Paul cantando Ciao, stasera son qui. L’irresistibile ascesa di «ciao» giunge all’apoteosi nel 1990 con la mascotte eponima dei Mondiali di calcio. E attualmente, dopo «pizza», «ciao» è la parola italiana più pronunciata nel mondo fino a «ciao raga», «ciao neh», «ciaone». «Questa mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao»: va detto che il canto intonato dai partigiani, che si sarebbe imposto molto dopo come inno politico di resistenza e di liberazione, fu lanciato grazie anche a iniziative commerciali prestigiose come il disco di canti popolari italiani interpretati da Yves Montand. Il più celebre etnomusicologo, Roberto Leydi, dimostrò che Bella ciao è radicata nella tradizione popolare perché risale a un canto piemontese dell’Ottocento dove però manca la parola «ciao», che invece compare in un canto delle mondine anni Quaranta.

Le prime testimonianze. E pensare che l’origine della parola non ha nulla a che fare con la confidenza, se è vero, come è vero, che «ciao» deriva dal latino «sclavum», variante di «slavum» quando a essere ridotte in schiavitù erano le genti di provenienza slava. A partire dal Quattrocento si introduce l’abitudine di salutare qualcuno dichiarandosi suo schiavo (il friulano «mandi» proviene da «comandi»): da qui la parola «ciao» che origina dal veneziano «s’ciavo», schiavo, appunto. Ma c’è un compleanno che quest’anno va festeggiato: è esattamente di due secoli fa la prima attestazione scritta di «ciao» (che naturalmente doveva esistere in forma orale già da un po’), la stessa parolina che immettiamo decine di volte al giorno chattando su Facebook o su WhatsApp. Il 1818 è l’anno in cui il tragediografo cortonese Francesco Benedetti in una lettera accenna alle gentilezze ricevute da una signora che lo conduce alla Scala e dai milanesi in genere: «Questi buoni Milanesi cominciano a dirmi: Ciau Benedettin». D’altra parte un anno dopo la scrittrice inglese Lady Sidney Morgan allude al comportamento di alcuni spettatori che in un palco della Scala si scambiano un «cordial ciavo». Altra conferma del bicentenario arriva da una lettera della contessa veronese Giovanna Maffei, che nel 1818 riferisce al marito i saluti del figlio ancora bambino: «Peppi à appreso a dire il tuo nome, e mi disse di dir ciao a Moti». Oggi la funzione fonosimbolica si è moltiplicata, se al telefono, nella fretta del congedo, non facciamo che ripetere: cià cià cià cià cià cià…

·        Antifascisti, siete anticomunisti?

Il Partito fascista che non rinascerà dopo 100 anni. Giordano Bruno Guerri il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti. Esattamente 100 anni fa Benito Mussolini trasformò il suo movimento in Partito Nazionale Fascista. Non è un ricordo festoso, ma stupiscono, imbarazzano, i timori di chi sventola a ogni passo il pericolo della «ricostituzione» di quel partito. La temevano, più a ragione, gli autori della nostra Costituzione, che nel XII emendamento provvisorio scrissero asciuttamente «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Quasi nessuno, però, ricorda il secondo capoverso di quell'emendamento (lo ha fatto pochi giorni fa Stefano Bruno Galli): «In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista». L'articolo 48 è quello per cui «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. ... Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». I costituenti dunque stabilivano che, a partire dal 1953, «i capi responsabili del regime fascista» avrebbero potuto votare e addirittura essere eletti alla Camera o al Senato: una decisione non da poco, visto che erano ancora vivi per citare solo i due più brillanti Giuseppe Bottai e Dino Grandi. Curiosamente, il vezzo di diffondere il timore della possibile ricostituzione di un partito fascista è cresciuto con gli anni, invece di diminuire. L'ultima volta, recentissima, è stata per l'ignobile - abietta, infame, meschina, miserabile, nefanda, spregevole, turpe - aggressione di alcuni facinorosi alla sede della Cgil. La nostra condanna va da sé, ma occorre ricordare che per procedere legislativamente allo scioglimento di una forza politica (per esempio Forza Nuova) occorre prima una sentenza della magistratura che certifichi il tentativo di ricostituire un partito fascista. Questa sentenza non c'è. C'è il pericolo? Giurerei che non lo credano neanche quelli di Forza Nuova e dei movimenti simili. Il fascismo storico non può rinascere perché non ci sono le condizioni che lo permisero: l'immensa crisi del dopoguerra, gli scontri armati in piazza con socialisti e comunisti e - non ultimo - la mancanza di un capo carismatico come Mussolini. Non può rinascere anche perché il sistema internazionale (a partire dall'Ue) non lo consentirebbe, e soprattutto perché nessuno ne ha voglia, a parte qualcuno che confonde Dio, Patria e Famiglia con Punizione, Disciplina e Tristezza. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure, temo più spesso, per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti, quelli che davvero dovremmo affrontare ogni giorno. Per esempio un sistema scolastico che aiuti a capire le differenze fra storia e attualità. Giordano Bruno Guerri

L’ossessione fascista degli antifascisti. LO SPAURACCHIO DELL’ETERNO FASCISMO È ORMAI USATO PER DEMONIZZARE L’AVVERSARIO POLITICO.  Beatrice Nencha il 2 Novembre 2021 su Nicola Porro.it. Abbiamo un problema: il ritorno dell’eterno fascismo. Prima ancora dell’incursione di Forza Nuova dentro la sede della Cgil, la parola Fascismo stava già tornando in auge, in tutto il mondo, grazie alla pandemia. Non a caso la rivista spagnola Vanguardia, nel dossier di marzo 2021 intitolato “El mundo después de la Covid 19”, si interroga sul risorgere delle pulsioni fasciste, parallelamente all’imporsi di quello che è stato denominato il “Nuovo ordine mondiale”.

Covid come strumento di potere

Nel reportage “Autocracias y populismo en los nuevos tiempos”, l’autore Joshua Kurlantzick – giornalista e membro del sud-est asiatico presso il Council on Foreign Relations – riflette su cosa, durante l’emergenza dovuta al Covid-19, abbia accomunato il tragitto politico di numerosi governi, in ogni parte del mondo. Da quello del presidente delle Filippine Rodrigo Duerte, passando per l’Ungheria di Viktor Orbàn e l’India del primo ministro Narendra Modi, per arrivare al partito conservatore “Legge e giustizia” in Polonia fino ai governi di Israele, Canada, Australia, Russia. Solo per citarne alcuni.

“Un contagio della magnitudine del Coronavirus offre alle figure autoritarie una opportunità di consolidarsi al potere superiore a qualsiasi altro avvenimento, eccetto una guerra” scrive Kurlantzick, elencando come l’uso dei poteri emergenziali sia avvenuto, in moltissimi Paesi, a scapito delle libertà civili della popolazione. La compressione dei principali diritti costituzionali è stata compensata solo in parte dalla promessa di sicurezza offerta dallo Stato ai propri cittadini. A questa promessa si è poi saldata, da parte di dirigenti autocrati, “l’opportunità di stigmatizzare determinate minoranze nella popolazione, incolpandole dell’epidemia. Di fatto, dalle Filippine all’Ungheria, attraverso l’India e la Cambogia, i governanti di molti Paesi stanno usando il Coronavirus per accumulare poteri e stabilire nuove regole che saranno difficili da eliminare quando l’emergenza sarà cessata. Molti di questi nuovi poteri non hanno un limite temporale come scadenza. E la pandemia avrà consolidato il potere di questi despoti in modo indefinito” sottolinea l’autore.

Stato d’emergenza perenne

Queste riflessioni dovrebbero colpirci, anche se non viviamo in Cambogia. Dall’inizio della pandemia, quasi due anni fa, l’Italia è impantanata in uno stato di emergenza perenne. Nonostante da tempo l’emergenza non sia più così evidente, né nei numeri né nella logica dei provvedimenti emanati da enti spesso nemmeno di rango istituzionale ma, nei fatti, dotati di maggiori poteri e di una trasparenza a dir poco carente. Comitati e istituti che emanano norme spesso in contrasto tra di loro: da un lato c’è l’assoluta rigidità di protocolli (più politici che sanitari) come il lasciapassare verde per accedere al posto di lavoro; dall’altro l’assoluto disinteresse a conoscere quali siano i luoghi di maggior contagio del virus, i soggetti ad esso più esposti (in maggioranza, a leggere i dati dell’Istituto superiore di Sanità, soggetti non più in età lavorativa) e il modo più efficace per proteggerli. Mentre appaiono totalmente ignorati, da questi apparati, i costi sociali, economici e psicofisici generati da uno stato di emergenza endemico, che non può che erodere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche rappresentative. La scarsa partecipazione politica alle più recenti tornate elettorali, anche se locali, dovrebbe suonare come un campanello di allarme.

Bastano queste forti compressioni dello stato di diritto e del principio di checks and balances dei poteri per connotare l’operato di un governo con l’aggettivo “fascista”? O neofascita? O populista? O autoritario? Qui entriamo in un campo spinoso da maneggiare, persino per i politologi, che non concordano su una definizione condivisa del fenomeno. Sicuramente, la pandemia ha fatto risorgere l’uso demagogico, e talvolta improprio, di tutte queste denominazioni per qualificare quei governi che hanno imposto limitazioni durature dei diritti costituiti ai propri popoli. Ma questo è avvenuto solo nei governi e nei regimi dittatoriali considerati di destra? Su questo tema si interroga la rivista Il Mulino, che ha dedicato la sua ultima pubblicazione trimestrale all’analisi del concetto di Fascismo come “eterno ritorno”.

Fascismo immaginario

“La tesi del fascismo eterno è una conseguenza della banalizzazione del fascismo stesso, al punto in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali” scrive Steven Forti, professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. In questo modo personalità del tutto diverse come Trump, Bolsonaro, Salvini, Meloni e Orbàn possono essere etichettate come “fasciste” dai media, e dai loro oppositori, pur non avendo tratti né obiettivi in comune col fenomeno politico conosciuto come “fascismo” storico”. Tanto che per Trump è stata coniata, tra le tante, anche la magmatica definizione di “leader postfascista senza fascismo”. Come spiega Emilio Gentile, la tesi del “fascismo eterno” – o Ur Fascismo, avanzata da Umberto Eco in una conferenza tenuta negli Usa nel 1995 – “ha portato a una sorta di astoriologia in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali”. Ma leggiamo quali elementi, secondo Eco, sono caratteristiche tipiche del Fascismo: il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, il culto dell’azione per l’azione, il rifiuto di qualsiasi critica, la paura dell’Altro, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto, l’elitismo popolare, l’eroismo, il machismo, un “populismo qualitativo” e la creazione di una neolingua. Secondo il semiologo e filosofo piemontese, la presenza di almeno una di queste caratteristiche sarebbe sufficiente a creare una “nebulosa fascista”.

Demonizzare l’avversario politico

Tuttavia, la facilità con cui si possono addebitare alcune di queste connotazioni a governi considerati oggi di centro o di sinistra, oltreché a quelli populisti o conservatori, dovrebbe portare a maneggiare la definizione di “fascismo” con più onestà intellettuale e accortezza. E non come spauracchio demagogico e retorico per guadagnare facile consenso elettorale o demonizzare l’avversario politico. L’analisi politica dovrebbe essere non solo più precisa, ma anche più profonda. Come osserva lucidamente Forti “né il concetto di fascismo né quello di populismo ci aiutano a capire cosa sono e quali obiettivi hanno Trump o Salvini: tempi nuovi richiedono nuove categorie”.

Provate a elencare alcuni degli ultimi provvedimenti di un governo a caso, sia esso italiano o francese o americano: imporre un pass per frequentare luoghi di svago, di cultura o di lavoro, discriminando chi non lo possiede; imporre l’uso di una neo lingua per rifondare la grammatica e rendere impersonale (“equa”) la definizione di genere; enfatizzare le differenze tra oppressi e oppressori in chiave razziale (crical race theory); stigmatizzare la pandemia come risultato di un comportamento irresponsabile dei “non vaccinati”, creando divisioni all’interno del corpo sociale; usare la tecnologia per censurare opinioni e articoli che non corrispondono alla narrativa ufficiale di governo, intaccando la libertà di espressione, la libertà di stampa e la libertà di manifestare per i propri diritti da parte delle minoranze.

Se mettete su queste azioni, o su una di esse, la faccia di Salvini o di Trump, sarebbe facile bollarle come imposizioni autoritarie o “fasciste”. Anche se non sono loro ad averle imposte bensì leader democratici per i quali, oggi, servirebbe un nuovo Eco per definirne le gesta.

Beatrice Nencha, 1° novembre 2021

Enzo Risso per editorialedomani.it il 3 novembre 2021. La cronaca delle ultime settimane ha posto nuovamente all’ordine del giorno il tema della presenza nel nostro paese di nostalgie e pulsioni verso il fascismo. L'inchiesta di Fanpage sulla campagna elettorale di Milano; l’assalto alla sede della Cgil a Roma; il video, corredato di saluto romano e cori pro duce allo stadio Olimpico, sono solo gli ultimi casi. Nelle viscere di una parte della nostra società il fascismo resta un tema irrisolto. Per poco più di un terzo degli italiani (36 per cento) i regimi fascisti hanno realizzato cose importanti nei loro paesi. Ne sono conviti i residenti a Nordest (41 per cento) e in Centro Italia (43 per cento), nonché la maggioranza degli elettori di Giorgia Meloni (69 per cento). Significativo, per identificare l’animus che aleggia lungo lo stivale, è osservare quanti ritengano attuale o anacronistico parlare del fascismo. Per il 43 per cento è un tema superato, anzi è bollato come la «solita manovra retorica cui ricorre la sinistra quando non ha argomenti». Questa opinione è particolarmente vivida tra le fila degli elettori di Fratelli d’Italia (70 per cento), ma è ben presente nei ceti popolari (52 per cento), nel ceto medio-basso (47 per cento), nonché tra i residenti delle isole (50 per cento) e del Nord-est (47 per cento). Il senso anacronistico non coinvolge solo i partiti di centrodestra (57 per cento in Forza Italia, 67 nella Lega), ma lo ritroviamo tra gli elettori indecisi (42 per cento), tra i pentastellati (36 per cento) e, in forma ridotta, anche tra le fila del Pd (15 per cento). Tra i giovani, il 40 per cento reputa sorpassato il discorso sul fascismo, mentre nella Generazione X (i nati dal 1965 al 1979 e cresciuti nel cuore degli anni Ottanta) la percentuale lievita al 46 per cento. Il dato più significativo, nonostante il clamore suscitato dall’assalto alla sede della Cgil, è quello relativo alla necessità di reprimere i movimenti che inneggiano al duce e al regime. La quota di favorevoli è rimasta, più o meno, la stessa rispetto a un anno fa. Nel dicembre 2020, il 70 per cento degli italiani si diceva favorevole alla repressione. Una quota che, allora, saliva al 76 per centro nelle fila dei giovani della Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2010), ma scendeva al 65 per cento tra le fila delle Generazione X. Fra quanti erano favorevoli alla repressione c’erano porzioni non secondarie di elettori di Fratelli d’Italia (43 per cento), anche se il dato toccava il suo apice tra i supporter di Pd (92 per cento) e M5s (80 per cento). Pochi giorni dopo l’assalto alla sede della Cgil la percentuale di quanti ritengono giusto mettere fuori legge le associazioni o i partiti che si richiamano al fascismo è cresciuta di un solo punto (71 per cento). Se la vicenda non ha mutato gli equilibri complessivi, ha inciso su una parte dell’elettorato di Giorgia Meloni. La sua base, dopo la vicenda della Cgil, si spacca in due, con una metà (50 per cento) favorevole alla repressione (con un incremento di 7 punti rispetto al 2020) e l’altra metà suddivisa tra i nettamente contrari (18 per cento) e i silenti (32 per cento che non sa). Il dato, tuttavia, non sembra essere il risultato di una riflessione autocritica sul tema, bensì il prodotto dell’ampliamento della base elettorale di Fratelli d’Italia. La crescita di consensi registrata nell’ultimo anno ha inglobato persone provenienti da storie politiche differenti, ex Pdl, Lega, M5s o centristi. Elettori che non hanno legami nostalgici e che, anzi, sono particolarmente infastiditi da questi rigurgiti. Dal punto di vista dei segmenti sociali, l’ipotesi di repressione dei movimenti fascisti trova più freddi, rispetto la media, i ceti popolari (66 per cento), gli operai (64 per cento), i disoccupati (63 per cento) e i lavoratori autonomi (59 per cento). Il tema del rapporto col fascismo mostra, oggi come ieri, il carattere anomalo e anti-sistema che la destra italiana porta con sé dalle origini. In particolare, come sottolineava il politologo Marco Revelli, sfoggia il permanere, in alcuni segmenti della società, di tratti anti-liberali e totalitari, in cui la pulsione nostalgica verso il fascismo si coniuga con la tensione critica e il rifiuto epidermico e empatico dei valori e delle regole del modello democratico.  

 Salvini e Bolsonaro? La sinistra si indigna, ma sono i compagni ad omaggiare sempre i "cattivi". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. Ma da che pulpito viene la predica! Vi indigna, eh, vedere Salvini incontrare un presidente democraticamente eletto, come il brasiliano Jair Bolsonaro. E ritenete che la sua «presenza sia indigesta», come ha detto il grillino Mario Perantoni. E pertanto vi considerate legittimati a protestare, come hanno fatto ieri a Pistoia centri sociali e antagonisti, o a disertare, come ha fatto il vescovo della città. Peccato che voi cattocomunisti, grillini e gente varia di sinistra, soffrite di un doppio male: la memoria corta e lo strabismo cronico. Non vi ricordate di quando i vostri leader incontravano brutti ceffi. E, se pure ve ne ricordate, guardate a quegli incontri con occhio indulgente perché, quando il personaggio ingombrante è di sinistra o islamico, allora è solo un compagno che sbaglia (non troppo) o una simpatica canaglia. Se invece è un sovranista, è un nemico del popolo. Visto che i compagnucci sono smemorati o strabici, glieli ricordiamo noi quegli incontri scomodi. Che ne pensate di quella passeggiata nel 2006 tra Massimo D'Alema, allora ministro degli Esteri, e un deputato di Hezbollah, gruppo terroristico anti-israeliano, con cui l'altro se ne andava a braccetto per le strade di Beirut? E che ne dite di quei suoi incontri con un altro presidente brasiliano, il comunista Lula, condannato per corruzione e riciclaggio (accuse dalle quali, sebbene le condanne siano state annullate, non è stato assolto) e tuttavia ritenuto frequentabile dagli italo-comunisti? Non solo da D'Alema, ma anche dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri, che da ministro dell'Economia lo ha incontrato a febbraio 2020, dopo essere andato a trovarlo in carcere in Brasile due anni prima. Un abboccamento dal quale non poteva esimersi l'allora segretario del Pd Nicola Zingaretti che, poco prima che impazzasse la pandemia, trovava il tempo di stringere la mano a Lula. Cioè l'uomo che si è sempre rifiutato di consegnarci Cesare Battisti. Quanto a frequentazioni sudamericane discutibili non si può non ricordare il doppio incontro di delegazioni grilline, nel 2017 e 2019, coi ministri di Maduro, il presidente venezuelano che sta affamando il suo popolo. Forse volevano emulare D'Alema, che nel 2008 aveva siglato un accordo con Chávez, predecessore di Maduro. Ma parliamo di poca cosa rispetto alle reiterate strette di mano sinistre con Fidel Castro. Lo incontra ripetutamente Romano Prodi negli anni da premier: ne resterà positivamente impressionato tanto da definire, alla sua morte, quella incarnata da Castro «la speranza di un comunismo diverso». E lo va a trovare Fausto Bertinotti, da segretario rifondarolo, definendo la Cuba castrista «una terra miracolosa». Con lo stesso interesse con cui ha guardato ai tiranni latinoamericani, la sinistra ha mostrato sorrisi a personaggi controversi del mondo arabo. Il palestinese Arafat è stato il campione degli esponenti rossi, da D'Alema a Prodi che lo hanno accreditato come interlocutore, fino a Federica Mogherini, immortalata da giovane fan col leader palestinese. Ma anche Gheddafi, per l'amicizia col quale Berlusconi ha subito insulti, è stato incontrato più volte da Prodi, in veste di presidente della Commissione Ue. Caso singolare è quello del curdo Ocalan, artefice di azioni terroristiche, nel 1998 prima accolto in Italia come richiedente asilo grazie all'appoggio di Rifondazione Comunista (fu Bertinotti a incontrarlo) e poi scaricato dal premier D'Alema. Ma uno come Baffino, che ha abbracciato i peggiori leader, avrebbe potuto anche non fare lo schifiltoso con Ocalan. All'elenco manca Di Maio, che forse avrebbe voluto incontrare Pinochet, prima di scoprire che era già morto e non era il dittatore del Venezuela. 

L'antifascismo senza memoria è solo un'arma. Stenio Solinas il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Non le è bastato, già un ventennio fa, il "lavacro" di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato, già un ventennio fa, il «lavacro» di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato aver detto, ridetto, stradetto e in più lingue (visto che ne parla niente male almeno un paio) che lei con il fascismo non ha niente a che spartire, per età, per rifiuto di ogni tentazione totalitaria, e tantomeno con il neofascismo, palla al piede per ogni partito che intenda rifarsi a un'idea di destra. Non le basterà, come ha appena fatto, intervistata da Bruno Vespa nel suo ultimo libro fresco d'uscita (Come Mussolini rovinò l'Italia. E come Draghi la sta risanando) dire che «il 25 aprile celebra la liberazione dell'Italia dal nazifascismo»... Qualsiasi cosa abbia detto, dica e dirà Giorgia Meloni sul tema non muterà di una virgola ciò che c'è dietro a esso: un'Italia fragile, un Paese senza, aggrappato a una memoria di comodo, non avendo mai voluto fare veramente i conti con la sua storia. Diceva Renan che la nazione «è un plebiscito quotidiano». A giudicare dalle ultime amministrative, siamo una nazione in sciopero. L'antifascismo è la chiave che serve a tener chiuse le miserie italiane. Abbiamo perso una guerra e ci siamo crogiolati con l'idea che l'avesse persa il fascismo e vinta gli italiani... Non è un caso che la vulgata più popolare sull'argomento sia stata un film comico, Tutti a casa. Ricordate? «Colonnello è successa una cosa straordinaria», diceva il tenente Innocenzi, Alberto Sordi sullo schermo: «I tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando contro». Dalla tragedia ci stavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata la nostra maschera nazionale. Il film è degli anni Sessanta, quando l'antifascismo strumentale si accinge a blindare la nascita del centro-sinistra da future tentazioni di centro-destra. Prima non era stato così, e in fondo gli anni della ricostruzione sono quelli di un Paese troppo vicino a ciò che è successo per giocarci sopra o per fare finta di avere in maggioranza resistito lì dove invece in maggioranza aveva acconsentito. Per ogni antifascista improvvisato che punta il dito sul fascista non pentito c'è sempre qualcuno che ricorda al primo che no, che non ha i titoli per ergersi a coscienza civile... Nella Milano degli anni Cinquanta, Leo Longanesi, uno che ha fatto e disfatto il fascismo, salta sul tavolo di un ristorante e grida all'indirizzo di chi lo denunciò all'indomani della Liberazione: «Prendetelo, è un antifascista». Quello si alza e imbocca di corsa l'uscita. Il fatto è che siamo sempre più un Paese senza memoria. Avevamo il più forte Partito comunista d'Occidente. Si è sciolto come neve al sole e non trovi nessuno fra i suoi politici di lungo corso, fra i suoi mâitres à penser intellettuali che sull'argomento vada mai veramente a fondo. Ti guardano seccati, come se gli stessi chiedendo di rivelare chissà quali oscenità private. Per anni sono stati al servizio di un'idea, poi sono passati ad altro, come si cambia d'abito al mutare delle stagioni. Il comunismo prêt à porter. Naturalmente, memoria e identità sono legate fra loro e in politica l'esserne privi è tanto più dannoso perché sono le classi dirigenti che costruiscono il carattere di una nazione. La fine della Prima repubblica, il non essere mai nata della Seconda, il proliferare di sigle parlamentari, il nascere e il morire di maggioranze di governo senza legittimazione di voto, la moratoria alle elezioni politiche, che cosa ci raccontano se non un Paese senza timone né rotta? Ci si affida così a un feticcio nominale, residuo postbellico riesumato a comando, immagine di comodo costruita su una lettura parziale e autoconsolatoria di cosa sia stato il ventennio fascista, la sua pervasività, le sue connivenze, il grado di partecipazione, di consenso, persino di entusiasmo. Era stato un antifascista serio, Piero Gobetti, a definire il fascismo «l'autobiografia della nazione». Per anni si è continuato a far finta che quell'autobiografia fosse antifascista I conti non tornano, non possono tornare, non torneranno mai. Giorgia Meloni se ne faccia una ragione, si metta l'anima in pace e si candidi alla guida del Pd. Stenio Solinas

Budapest 1956: tragedia e eroismo della rivoluzione ungherese. Andrea Muratore su Inside Over il 24 ottobre 2021. La rivoluzione ungherese del 1956 fu uno degli eventi chiave della storia europea della Guerra Fredda e un punto di svolta per l’area del Vecchio Continente controllata dall’Unione Sovietica. L’epopea dei “ragazzi di Buda” che per due settimane, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre sfidarono il potere sovietico e il suo dominio sull’Ungheria è passata alla storia e tuttora è considerata una parte chiave della storia europea. La durissima repressione operata dall’Armata Rossa sancì un rafforzamento del controllo sovietico sulle aree occupate con la fine della Seconda guerra mondiale.

L'Ungheria post-bellica

Occupata nel 1945 dall’Armata Rossa dopo aver partecipato a fianco della Germania alla seconda guerra mondiale, l’Ungheria aveva subito uno dei più traumatici declini mai capitati a uno Stato europeo nell’era contemporanea. In meno di trent’anni, dal 1918 in avanti, Budapest era passata dall’essere la seconda città di un impero, l’Austria-Ungheria, a diventare la capitale di uno Stato ristretto di oltre due terzi del suo territorio e diventato satellite di una delle due superpotenze mondiali.

L’Ungheria, nazione abitata da una popolazione politicamente molto dinamica, legata ai valori pubblici e identitari, fu sottoposta a una delle più repressive dittature mai insediatesi nella zona, che avrebbe avuto come unico termine di paragone futuro la Romania di Nicolae Ceaucescu.

Il regime di Matyas Rakosi, al potere dal 1948 al 1956, fu uno dei maggiormente duri in termini di stretta sulle libertà politiche, di espressione e di confessione religiosa; complice la natura di ex Paese alleato della Germania, l’Ungheria fu sottoposta a una sorveglianza speciale da parte di Mosca e a una vera e propria esternalizzazione dei metodi staliniani tristemente famosi in Russia. Purghe, persecuzioni delle minoranze, ghettizzazione di membri dello stesso Partito Comunista accusati di revisionismo o vicinanza alla Jugoslavia di Tito erano all’ordine del giorno, così come le azioni dell’Autorità per la Sicurezza Pubblica, il servizio segreto di Budapest (Avh).

L’onda lunga della destalinizzazione dopo la morte del dittatore sovietico nel 1953 raggiunse anche Budapest. Negli anni precedenti nelle purghe era caduto vittima anche Laszlo Rajk, ex ministro dell’Interno e fondatore dell’Avh, mentre per spostare l’attenzione dalla crescente problematica della crisi economica il regime provò, tardivamente, a incentivare dibattiti e riflessioni interne.

L'anomalia ungherese

Il problema dell’Ungheria era, in quella fase, triplice. In primo luogo, il Paese era costretto nonostante la formale alleanza a pagare pesanti riparazioni di guerra a Unione Sovietica, Repubblica Ceca e Jugoslavia che, nell’era Rakosi, assorbivano circa un quinto del budget nazionale, oltre a dover mantenere sul suo territorio le forze dell’Armata Rossa.

In secondo luogo, l’Ungheria era vittima di iperinflazione, depauperamento dei salari e problemi legati all’assenza di prospettive nella fase dell’industrializzazione post-bellica, che aveva portato i redditi nel 1952 a due terzi del livello del 1938.

In terzo luogo, l’insicurezza economica e sociale si sommava con un contesto interno che vedeva una popolazione dinamica, istruita e abituata a standard di vita ben più elevati depauperata nelle prospettive di sviluppo e ostacolata nella volontà di commerciare e confrontarsi con i Paesi occidentali.

In quest’ottica maturarono le condizioni perché si sviluppasse una magmatica esplosione che ebbe nella messa in discussione dei miti del conformismo bolscevico il suo innesco.

Ottobre 1956: esplode la rivoluzione

L’innesco della rivoluzione ungherese avvenne per eventi accaduti in Polonia. Tra il 19 e il 21 ottobre 1956 in Polonia, il “revisionista” Władysław Gomułka venne riabilitato ed eletto a capo del Partito Operaio Unificato Polacco, dopo una “prova di forza” con i sovietici.

In sostegno a Gomulka si mossero movimenti politici di tutta l’Europa orientale, tra cui un gruppo di studenti dell’Università di Tecnologia e di Economia di Budapest ritrovatosi il 23 ottobre a Pest sotto la statua di Sándor Petőfi, il poeta che secondo la tradizione storica del Paese avrebbe scatenato la rivoluzione del 1848 con la lettura di una sua poesia e a cui nome era stato intitolato un gruppo interno al partito favorevole alle politiche riformiste dell’ex primo ministro Imre Nagy.

L’acclamazione della folla di Pest per Nagy, ritenuto l’oppositore numero uno di Rakosi e fautore della recente caduta di quest’ultimo dalla guida del partito, si tradusse in sostegno aperto quando la folla acclamò il politico del centro del partito e inneggiò in suo favore. Nel timore di non riuscire a placare la rivolta, il Comitato centrale del Partito comunista decise nella notte di richiamare a capo del governo Nagy, conscio del fatto che le proteste stavano ricevendo il sostegno della popolazione e si stavano trasformando in rivolta anti-sovietica.

Nagy tentò di restare nel solco della disciplina di partito, ma impostò una linea decisionista. Come ricorda Il Giornale, Nagy fece sciogliere “la terribile polizia segreta stalinista”, ordinando inoltre di liberare i prigionieri dai campi di detenzione, mentre “i nuovi patrioti” liberano il cardinale József Mindszenty, oppositore del regime comunista incarcerato nel 1948. Giornalisti, pensatori, oppositori del regime tornano ad aver voce ovunque nella nazione. Nel primo giorno di novembre, l’Ungheria, paese satellite che nello scacchiere della Guerra Fredda rappresenta una bandierina in più, annuncia l’intenzione di uscire dall’alleanza politico-militare dei Paesi comunisti”, suscitando il definitivo tracollo della pazienza sovietica per l’esperimento ungherese.

La repressione

Ovunque l’Ungheria entrò in subbuglio: i fedelissimi della linea stalinista e repressiva del Partito Comunista furono messi all’angolo e in certi casi cacciati dalle loro posizioni politiche armi in pugno, nelle fabbriche del Paese formarono consigli operai anarco-sindacalisti e fu indetto lo sciopero generale. Mosca rispedì due membri del Comitato Centrale del Pcus, Mikojan e Suslov, a Budapest e mobilitò le truppe nella regione magiara, mentre ovunque si apriva una strisciante guerra civile tra lealisti e rivoluzionari sovrapposta ai combattimenti tra i protestanti e le truppe sovietiche stanziate in Ungheria.

In seguito alla comparsa dei blindati sovietici, si estese l’insurrezione. I comandanti sovietici spesso negoziavano dei cessate il fuoco a livello locale con i rivoluzionari. In alcune regioni le forze sovietiche riuscirono a fermare l’attività rivoluzionaria. In Italia, nel frattempo, crollava nella fila del Partito Comunista Italiano il mito dell’infallibilità sovietica e un centinaio di intellettuali (tra cui Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Antonio Maccanico) firmarono un manifesto di netta condanna delle azioni di Mosca.

Per due settimane, il governo di Budapest cantò apparentemente vittoria sul futuro del Paese, conscio inoltre del fatto che la parallela crisi di Suez attirasse l’attenzione degli attori occidentali facendo cadere la pretesa sovietica di un possibile intervento occidentale nella zona d’influenza di Mosca. Del resto gli Stati Uniti espressero con precisione il 27 ottobre la loro posizione per bocca del Segretario di Stato dell’amministrazione Eisenhower, John Foster Dulles, dichiarandosi contrari a ogni intervento in Ungheria.

Ciononostante, a Budapest si preparavano barricate, milizie armate con il tricolore ungherese verde-bianco-rosso strappato per rimuovervi i simboli comunisti sul braccio combattevano fianco a fianco con i militari dell’esercito regolare passati ai rivoluzionri, il governo temeva un intervento sovietico. Col senno di poi legittimamente: l’Urss il 31 ottobre ufficializzò i piani d’invasione dell’Ungheria, che entrò in azione quattro giorni dopo.

L’attacco sovietico fu una vera e propria guerra all’Ungheria: combinando  incursioni aeree, bombardamenti di artiglieria e azioni coordinate tra carri e fanteria i sovietici travolsero, passo dopo passo, ogni ostacolo di fronte a loro. Il successore di Stalin, Nikita Krushev, non potè esimersi dall’applicare una linea diversa da quella del dittatore suo predecessore, conscio che perdere l’Ungheria avrebbe leso la posizione geostrategica di Mosca.

Gli scontri terminano poco prima di Natale e lasciano sulle strade di una Budapest distrutta e ben 3.000 morti, mentre l’Armata Rossa subì a sua volta perdite non indifferenti, superiori ai 700 caduti. Mosca insediò a capo del governo di Budapest un fedelissimo, Janos Kadar. Negli anni successivi sotto la sua guida sarebbero stati migliaia gli ungheresi incarcerati e centinaia quelli giustiziati per questioni legate alla rivoluzione del 1956, tra cui l’appena diciottenne Péter Mansfeld, vittime della retorica secondo cui “il 1956 è stata una contro-rivoluzione“ a cui le forze del proletariato mondiale avevano legittimamente risposto.

Un dramma epocale

L’Urss temeva un effetto contagio. A Cluj, in Transilvania, si era protestato contro il governo romeno, mentre a Bratislava, in Cecoslovacchia, il tema principale era la questione universitaria. Inoltre, l’Urss aveva bisogno di rafforzare la sua presa su un Paese di confine e non lesinò le forze: l’Ungheria fu invasa, occupata e gradualmente schiacciata assieme al suo popolo perché aveva scelto la linea deviazionista.

Tra novembre e dicembre l’esperienza della primavera fuori stagione di Budapest finì in uno spazio ancor più breve di quello in cui era fiorita. Nagy fu arrestato e sarebbe stato giustiziato due anni dopo, nel quadro dell’ennesima purga contraddistinta da processi-farsa. Troppo importante la posta in palio per l’Urss, che avrebbe però subito un grave danno d’immagine dalla sua azione. Pietro Nenni, leader del Partito Socialista Italiano, andò ancora oltre i compagni del Pci e sull‘Avanti! del 28 ottobre scrisse: “Si può schiacciare una rivolta, ma se questa, come è avvenuto in Ungheria, è un fatto di popolo, le esigenze ed i problemi da essa poste rimangono immutati. Il movimento operaio non aveva mai vissuto una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell’Europa orientale, anche con i silenzi, i quali non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare”.

Nenni non aveva, di fatto, torto: trent’anni dopo, col collasso del regime comunista, il pensiero dei cittadini della nuova Ungheria libera e indipendente andò proprio ai martiri del 1956. Caduti per l’indipendenza nazionale prima ancora che per il socialismo reale. Tanto che nel giugno 1989 proprio la commemorazione pubblica di Imre Nagy segnò l’inizio della fine del potere sovietico in Ungheria. Nella giornata del 16 giugno, durante questa commemorazione, ebbe modo di far conoscere il suo volto al mondo un giovane politico capace in futuro di segnare a sua volta la storia ungherese, Viktor Orban. Capace di far decollare la sua carriera proprio commemorando lo spartiacque decisivo della storia del Paese nel Novecento. A testimonianza della natura unificante e universale che l’epopea dei “ragazzi di Buda” ha per la nazione magiara.

Alessandro Sallusti: "Non tocca alla Meloni, ma a Veltroni e compagni", chi si deve scusare per il proprio passato. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. «Io sono Giorgia», l'autobiografia edita da Rizzoli di Giorgia Meloni, è appena uscita e già è in testa alle classifiche di vendita. Tanto per cambiare, il successo di pubblico non coincide con quello di critica. Sui giornali si parla del libro per stroncarlo a prescindere: c'è la spocchia del critico letterario che scambia una biografia per un romanzo, cosa che non è, e c'è chi l'ha spulciato a caccia di anomalie nel racconto, manco fossimo in tribunale. E poi c'è chi - come ha fatto anche ieri Gad Lerner sul Fatto Quotidiano - contesta alla Meloni «amnesie e buchi neri» rispetto al fascismo. Premesso che non sono l'avvocato difensore di Giorgia Meloni, mi chiedo come in una sua autobiografia avrebbe potuto trovare spazio il fascismo, essendo la signora nata nel 1977, anno in cui Gad Lerner di anni ne aveva 23 e già faceva politica nel quotidiano Lotta Continua, l'organo della sinistra extraparlamentare il cui vertice fu condannato per l'omicidio del commissario Calabresi. Intendo dire che ci risiamo con il solito vizio della sinistra radical chic, quello di non voler fare i conti con il proprio passato ma pretendere che lo facciano gli avversari, anche quando questi sono totalmente estranei ai fatti che gli vengono rinfacciati. Se un politico, solo perché di destra, può essere tranquillamente inchiodato al fascismo, che dire dei politici che hanno militato nel partito che incarnava l'ideologia che ha provocato la più grande tragedia del Novecento, cioè quella comunista? Gad Lerner è stato convintamente comunista e non mi risulta, per esempio, che abbia mai rinfacciato a Napolitano di essere non erede ma entusiasta sostenitore di alcuni dei crimini del regime sovietico. Gad Lerner e i suoi emuli, all'uscita di uno dei tanti libri di Veltroni o di D'Alema, non hanno mai scritto: sì, però non dici che sei stato comunista, cioè parente contemporaneo di chi ha prodotto i gulag, la privazione di libertà fondamentali e tanta povertà. No, si sono tutti genuflessi per tessere elogi, peraltro immeritati, alle capacità narrative dei compagni. Caro Gad, fattene una ragione. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con il fascismo, e se qualche nostalgico le si accoda in scia non è colpa sua. Se uno come Napolitano ha potuto indisturbato rimuovere il proprio passato e salire al Colle, significa che ognuno ha le sue amnesie. E quelle della sinistra sono grandi come una casa.

Fascista o comunista purché sia arte autentica. Vittorio Sgarbi il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Chi grida allo scandalo per le mostre di Depero sappia che lì a fianco c'è quella del marxista Perilli. Agli imbecilli e ignoranti che la buttano in politica, e che non sono in grado di capire né concetti, né battute, né paradossi, occorre dire che, in tanto parlare di fascismo e antifascismo, una cosa sola è certa: che l'unico fascista, amato, idolatrato e onorato in Trentino, è Fortunato Depero, al quale io, in qualità di presidente del Mart, ho, dopo molte pressioni locali, consentito fossero dedicate due belle e importanti mostre in tutta la città di Rovereto, nella sede principale di Mario Botta e nel museo d'arte futurista, insieme ad altre, volute dal Comune, nel Museo della città, nel Museo storico italiano della guerra e alla Fondazione Campana dei caduti, e all'omaggio a Depero dalla sua valle, a Cles. La fantasia dell'artista, le sue creazioni, soprattutto negli anni '20, '30 e '40 sono, in tutto il mondo, la più straordinaria esaltazione del Fascismo. Nel '32 è proprio il grande artista a scrivere: «l'arte nell'avvenire sarà potentemente pubblicitaria». Il suo percorso fascista inizia nel 1923 con due veglie futuriste e con la ridecorazione della casa d'arte che apparirà nella rivista Rovente futurista. Per quelli che pretendono di demonizzare qualunque manifestazione del Fascismo, l'esperienza di Depero è la più clamorosa smentita; ed è esattamente quello che io ho detto, strumentalizzato da beceri ignoranti che pretendono di chiamarsi «Sinistra italiana», oltre che da modesti giornalisti locali, ricordando ciò che tuttora vive nella cultura, nell'esperienza, nella conservazione dei monumenti, nei teatri italiani, con l'impresa della Treccani, con le opere di Pirandello, con le conquiste di Marconi e di Fermi, iscritto al partito fascista dal 1929, con la legge di tutela del patrimonio artistico italiano che è ancora quella voluta dal gerarca Bottai nel 1939, con la grande architettura dell'Eur e delle città di fondazione, il cui pieno riconoscimento è toccato ad Asmara, città coloniale, dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità. Quanto a Marconi, si iscrisse al Partito fascista nel giugno del 1923, otto mesi dopo la formazione del primo governo Mussolini. Fu la scelta di un conservatore che era stato testimone dei duri scontri del biennio rosso, aveva visto nella occupazione delle fabbriche la minaccia del contagio bolscevico e dava del leader del fascismo un giudizio non diverso da quello di una larga parte della classe politica europea fra cui, in particolare, Winston Churchill. Così ho detto e così è. Vi è chiaro, imbecilli? E così come Asmara, Depero indica, con la sua creatività, la perfetta coincidenza della sua arte con la visione del Fascismo, in cui si rispecchia anche l'impresa transoceanica di Balbo. E puntualmente il futurismo si esprime nella Aeropittura. Depero era una persona «coi piedi per terra», e per nulla affascinato da aeroplani e nuvole. Il suo punto d'osservazione era paradossalmente più alto di quello raggiungibile con gli aeroplani futuristi: era stato a New York e aveva toccato con mano quel futuro solo vagheggiato e teorizzato dai Futuristi italiani. Nel 1931 pubblica Il Futurismo e l'Arte Pubblicitaria, già in bozze a New York nel 1929. Secondo Depero l'immagine pubblicitaria doveva essere veloce, sintetica, fascinatrice, con grandi campiture di colore a tinte piatte, per così poter aumentare la dinamicità della comunicazione. Nel 1932 espone prima in una sala personale alla XVIII Biennale di Venezia, e poi alla V Triennale di Milano. A Rovereto pubblica una rivista di cui usciranno solo cinque numeri nel 1933: Dinamo Futurista. In seguito, nel 1934, le Liriche Radiofoniche, che declamerà anche all'EIAR fascista (la Rai di allora). Molti saranno i Futuristi di terza generazione ad andare in pellegrinaggio a Rovereto, come altri da d'Annunzio, protetto e locupletato dal fascismo (diversamente da me che esercito gratuitamente la funzione di presidente del Mart, e che non ho alcun interesse economico nelle iniziative che promuovo), per rendergli omaggio o per coinvolgerlo in qualche iniziativa. I principali committenti di Depero sono corporazioni, segreterie di partito, grandi alberghi, amministrazioni pubbliche, industrie locali. Le opere richieste sono eminentemente didascaliche, propagandistiche, decorative. Rispettosamente fasciste. Verso la seconda metà degli anni '30, a causa dell'austerità dovuta alla politica autarchica da lui condivisa, contribuisce al rilancio del Buxus, un materiale economico a base di cellulosa atto a sostituire il legno delle impiallacciature, brevettato e prodotto dalle Cartiere Bosso. Nel '40 pubblica l'autobiografia. Nel '42 realizza un grande mosaico per l'E42 di Roma, mentre nel '43 con A Passo Romano cerca di dimostrare il suo allineamento sostanziale con il Fascismo anche per ottenerne lavori e commesse. Finita la guerra, nel tentativo di giustificarsi di fronte al nuovo ordine dello Stato italiano per quel libro apertamente fascista, afferma che loro, i Futuristi, credevano fermamente che il Fascismo avrebbe concretizzato il trionfo del Futurismo, e che lui aveva anche «bisogno di mangiare». Nel '47, in parte sponsorizzato dalle Cartiere Bosso, ritenta di riproporsi in America, ma la trova ostile al Futurismo perché ritenuto l'arte del Fascismo. Nel '49 torna quindi in Italia, disilluso e dimenticato dall'antifascismo di regime. È la solita storia, come nelle proclamazioni di oggi. Ennio Flaiano scriveva: «i fascisti si son sempre divisi in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Agli antagonisti di Depero e agli opportunisti di oggi rispondeva Pasolini: «nulla di peggio del Fascismo degli antifascisti». Per ciò che riguarda i teppisti, che si nascondono dietro la sigla «Sinistra italiana», è utile ricordare Leonardo Sciascia: «il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Per rimuovere l'accusa di Fascismo, Fortunato Depero aderisce al progetto della collezione Verzocchi sul tema del lavoro, nella già fascista e ora comunista Forlì. Contestualmente (1955) entra in polemica con la Biennale di Venezia, accusata di censurare lui e il Futurismo, pubblicando il saggio Antibiennale contro le penose critiche politiche al Futurismo. E proprio perché io non ho voluto lasciare spazio soltanto all'arte di propaganda di Depero, alla grande mostra sul pittore fascista, nei suoi anni migliori, ho affiancato quella sul profondamente intimista e spirituale Romolo Romani, che ritira subito la sua adesione al manifesto futurista e muore precocemente nel 1916. Si tratta di una palese e dichiarata contrapposizione tra arte applicata e arte implicata, come ho spiegato in diverse occasioni. I disegni di Romani hanno, rispetto alle invenzioni dei futuristi, una verità e una necessità spirituale che si esprimono in forme nuove attraverso una ricerca profonda che non ha niente di propagandistico. Ogni disegno è una ossessione o la trascrizione di una visione. Per questo Romani si ritirò. Ai futuristi interessava il mondo, e Depero lo ha dimostrato. A Romani importava seguire la propria anima, trascriverne i palpiti, registrare apparizioni in segni necessari perché ne potessimo conservare memoria. E, se non fosse chiaro questo, aggiungerò che, nell'offerta di mostre del Mart, vi è un artista di cui si conosce la professione di antifascismo nei tempi giusti, non oggi: Alceo Dossena, morto nel 1937, quando il Fascismo c'era. È facile fare gli antifascisti quando il regime è finito, e accusare di Fascismo ridicoli facinorosi che, con la collaborazione delle Forze dell'Ordine che smanganellano innocui manifestanti, occupano la sede della Cgil! Non si può dire? E come collegare le proteste contro il green pass con l'assalto al sindacato? Ecco allora gridare «al fuoco al fuoco!» chi si piega devotamente alle prescrizioni autoritarie del governo, docili come furono durante il Fascismo. Mentre non deve essere abbastanza chiaro che l'altra mostra proposta nel museo, con il confronto fra Guccione e Perilli, onora due artisti dichiaratamente comunisti. Il settore culturale, da sempre priorità della sinistra, in quegli anni incarnata dal Partito Comunista Italiano, vede l'adesione di artisti e intellettuali, e tra questi anche gli esponenti di Forma 1, fra i quali Perilli. I giovani pittori nel 1947 si trovano di fronte a un bivio: aderire o disobbedire alle linee estetiche realiste proprie dell'iconografia sovietica? E la risposta arriva con la stesura del Manifesto redatto dal gruppo di artisti militanti. Gli esponenti di Forma 1 si proclamano ufficialmente «formalisti e marxisti», opponendosi all'idea che l'arte abbia una funzione sociale e politica esprimibile esclusivamente attraverso un realismo di carattere illustrativo. E vero comunista fu, con queste legittime riserve, Achille Perilli. Non meno progressista fu Piero Guccione, il cui ritratto di Antonio Gramsci, una grande tela di 1,50 x 1,50 m, è stato per quasi quarant'anni esposto nelle varie sedi delle sezioni del Partito della sinistra sciclitana, costituendone il simbolo e il riferimento per intere generazioni. Sarebbe buona cosa che i vigliacchi e gli ignoranti che parlano di cose che non conoscono avessero l'umiltà di studiare, visto che non hanno la capacità di capire. Vittorio Sgarbi

L’anticomunismo non è solo un valore della destra, risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2021.

Caro Aldo, oltre all’antifascismo non di sinistra, esiste anche l’anticomunismo non di destra? Ritengo di sì, forse più marcatamente. Sono due movimenti non uguali ma simili? O è più corretto parlare di singoli antifascisti e di singoli anticomunisti? Lei ha scritto che l’antifascismo non è solo un valore di sinistra. Anche l’anticomunismo non è solo un valore di destra? Ed entrambi dovrebbero essere un valore condiviso? Fino a quando le parole «fascismo» e «comunismo» circoleranno, non finiremo mai di porci domande. Alessandro Prandi

Caro Alessandro, Assolutamente sì. Così come l’antifascismo non è un valore soltanto di sinistra, allo stesso modo l’anticomunismo non è — o non dovrebbe essere — un valore soltanto di destra. Mário Soares — l’uomo che fu undici volte nelle carceri di Salazar e tre volte primo ministro del Portogallo; confinato sull’isola di São Tomé, esiliato, eletto presidente della Repubblica — mi ha raccontato che, quando sembrò che i comunisti di Álvaro Cunhal e i militari ancora più a sinistra guidati da Otelo de Carvalho potessero prendere il potere, il primo ministro laburista James Callaghan gli assicurò che avrebbe fatto intervenire la Raf (Royal Air Force) a Lisbona, pur di sostenere il governo socialista guidato appunto da Soares. Sempre per restare a Londra, il più grande scrittore civile del Novecento, George Orwell, uomo di sinistra, che aveva preso posizione contro Franco («Omaggio alla Catalogna»), era un convinto anticomunista. Proprio a Barcellona vide gli stalinisti fucilare gli anarchici. Non a caso legò il proprio nome a un romanzo costato al totalitarismo comunista più di una battaglia perduta, «La fattoria degli animali». I socialdemocratici tedeschi combatterono gli spartachisti; e più tardi Brandt, per quanto sostenesse la necessità di dialogare con l’Est, prese nettamente le distanze dal comunismo e dal marxismo. In Italia le cose come d’abitudine si complicano. Bettino Craxi fu un leader socialista e anticomunista (sia pure con un uso spregiudicato del denaro; ma questo è un altro discorso). Qui però entriamo nel terreno minato del mito del comunismo italiano, per cui un’idea rivelatasi sbagliata e spesso con applicazioni criminali da Vladivostok a Trieste da noi diventava giusta, o almeno nobile. Certo Togliatti aveva fatto la svolta di Salerno, schierando il Pci nel fronte antifascista con cattolici e monarchici; migliaia di partigiani comunisti diedero la vita per combattere il nazifascismo; e gli eletti comunisti alla Costituente scrissero la Carta con democristiani e liberali. Però era lo stesso Togliatti che aveva fatto fucilare gli anarchici di Barcellona.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 ottobre 2021. "Enrico lascia stare: Roma è cosa loro. Fanno di tutto per attaccarti. Lascia stare". Dai microfoni di Radio Radio, l'emittente romano che ha lanciato Enrico Michetti, questa mattina è partito l'appello alla resa. A lanciarlo Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e da sempre sponsor del candidato di centrodestra. Durante la trasmissione Accarezzami l'anima, uno spazio mattutino che prima era occupato da Michetti, Di Giovambattista si è rivolto a Michetti. Gli ha consigliato di gettare subito la spugna. Perché tutto complotta contro il tribuno.

Da radioradio.it l'11 ottobre 2021. Che l’Italia sia uno dei Paesi occidentali con il sistema mediatico più orientato verso gli organi politici è fattuale, risaputo e anche teorizzato a livello accademico. Mai, però, si sarebbe potuto immaginare un incollamento tale da giustificare un vero e proprio accanimento nei confronti di un candidato avverso a gran parte della stampa nostrana. È quello che vede travolto in queste ore il professor Enrico Michetti, passato dall’essere proveniente dalla “destra, destra, destra, forse neofascista” (Gruber, Otto e Mezzo, La7) ad aver pronunciato “frasi antisemite” in un articolo risalente al febbraio 2020 (Andrea Carugati, Il Manifesto), fino all’essere “pilotato da Radio Radio, l’emittente dei No Vax” (Lorenzo D’Albergo, la Repubblica). In verità già prima della sua discesa in campo, alle prime voci di candidatura, l’esperto amministrativista era stato oggetto della propaganda di quotidiani, tv, radio. “La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti, il professore che Meloni vorrebbe candidato sindaco di Roma”, titolava il Fatto Quotidiano nella fasi calde della scelta da parte del centrodestra. E come non dimenticare la farsa instaurata sul saluto romano più igienico, che “in una delle sue trasmissioni a Radio Radio il possibile candidato di Fratelli d’Italia a sindaco di Roma ha rivalutato in tempo di Covid” (Marina de Ghantuz Cubbe, la Repubblica/Roma). Così il “tribuno della Radio” (altra definizione che voleva essere dispregiativa) è stato bersagliato negli ultimi mesi. Sul costante attacco che verosimilmente si consumerà fino al ballottaggio del 17 e 18 ottobre è intervenuto in diretta il direttore Ilario Di Giovambattista a “Accarezzami l’Anima”. Ecco le sue parole. “Io sono molto preoccupato perché in questa campagna elettorale io ho avuto la conferma di quello che già pensavo: in Italia c’è una stampa della quale mi vergogno. Io vorrei raccontarvi quello che è successo ieri, credo che ormai le cose siano abbastanza chiare. Guardate il titolo di Repubblica di oggi: "l’uomo nero contro le città". Io sono molto preoccupato perché Roma deve essere cosa loro. Roma è cosa loro, nessuno può azzardarsi da persone perbene a entrare in un agone politico. Siamo a una settimana dal voto e per fortuna non hanno trovato nei confronti di Michetti che negli ultimi 30 anni ha aiutato soprattutto i sindaci di sinistra. Vi giuro: io ho paura. Ho paura perché se i cittadini si informano attraverso la stampa, attraverso i mainstream, purtroppo siamo un Paese truffato. È una stampa truffatrice, una stampa della quale mi vergogno. Non c’è niente di deontologico nella stampa italiana, si salvano in pochi, ma veramente in pochi. Sono tutti sotto un padrone, soprattutto politico. Non vedo l’ora che finisca questa settimana, perché tanto ho capito come la stanno mandando. Ho capito come la stanno indirizzando. Anche la manifestazione di Piazza del Popolo: erano tutti fascisti vero? Se decine di migliaia di persone sono tutte fasciste allora si dovrebbero interrogare i nostri capi. Sanno bene che non è così. Sanno bene a un certo punto è successo qualcosa, forse li hanno chiamati loro. Non ci possiamo permettere di parlare di niente, di niente, zero. Io ho capito come vogliono mandarle le elezioni, fossi il professor Michetti mi ritiro. Io sto invitando ufficialmente il professor Michetti a farli vincere così. Enrico ritirati, non sono degni di te. Dammi retta, è cosa loro, ti distruggono. Io sono spaventato. E chiedo veramente a Enrico Michetti: Enrico ritirati, falli vincere. Roma è cosa loro, se non vincono questa volta vanno fuori di testa. Se la sono già venduta, già spartita. È inutile. È tutto apparecchiato. È tutto fatto. Però di mezzo ci sono i cittadini. L’unica speranza sono i cittadini, ma se i cittadini si informano attraverso questa stampa corrotta è la fine. Ecco perché in Italia tante cose non vanno, perché hanno creato un sistema. Il sistema politico-giornalistico è una delle cose più marce, più schifose del nostro Paese. Non voglio avere proprio niente a che fare con questa feccia”.

Vittorio Sgarbi, "a Giorgia Meloni lo avevo detto": complotto prima del ballottaggio? Una inquietante teoria. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "L’ho già detto a Giorgia Meloni all’indomani del primo turno: vedrai, faranno qualsiasi cosa per etichettare Enrico Michetti come neofascista. E i fatti mi hanno dato ragione. Tutto è partito da quella che io chiamo la “congiura di Fanpage”. Si è usato un infiltrato clandestino alla ricerca di un reato che non c’è. E gli effetti si sono visti. La verità è che siamo di fronte a una profonda violazione delle regole democratiche da parte dell’informazione e di certa politica. Come non pensare alla Gruber che ha definito Michetti come un neofascista davanti a Calenda che ha cercato addirittura di correggerla?”. Così Vittorio Sgarbi parla del prossimo ballottaggio di Roma e delle conseguenze politiche nate dopo il voto delle amministrative del 3 e 4 ottobre. "Nello spostare il tiro sul fantasma del fascismo che non c’è, evitando di parlare delle migliaia di persone che hanno manifestato liberamente per un sacrosanto diritto di libertà. C’erano sì Fiore e Castellino, ma è anche vero che non si manganellano le persone civili, non si fa sanguinare chi ha idee diverse", spiega Sgarbi puntando il dito sull'informazione. "La gente non capirà che il pericolo fascista non esiste. Per quanto riguarda Michetti, tutti gli elettori che lo hanno votato al primo turno, devono tornare a votare, questo è il mio invito. Devono capire che la pressione mediatica che stiamo subendo sta facendo diventare santo il governo e fascista la gente che scende in piazza", chiarisce in una intervista al Giornale. Sulla manifestazione di Landini per la democrazia e per il lavoro, contro i fascismi, annunciata a Roma il 16 ottobre, raccomta che "farà un’interrogazione parlamentare perché non è accettabile che si faccia politica col sindacato nel giorno di silenzio elettorale. Landini non è un corpo apolitico, ma attraverso il sindacato fa politica e non può farla il giorno del silenzio elettorale, condizionando le urne. La facciano piuttosto il 18, il 19, non il 16. È un’azione chiaramente contro la Meloni". Infine un consiglio al candidato sindaco di Roma Enrico Michetti. "Da soli né io né lui abbiamo la possibilità di potere fare un comizio in piazza dicendo che non è vero che siamo fascisti. Ma ormai Gruber, Fanpage e Landini, i tre finti democratici, hanno imposto un taglio eversivo alla comunicazione. Spero ora che vadano a votare quelli che vengono chiamati fascisti senza esserlo e che siano più numerosi di quelli che vengono chiamati al voto contro i fascisti inesistenti. Ripeto, il rischio fascista non c’è. C’è un rischio eversivo da parte dell’informazione", conclude Sgarbi. 

Quarta Repubblica, il sospetto di Sallusti sugli scontri a Roma: "Qualcuno ha lasciato che accadesse". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. I sospetti su quanto accaduto nella giornata di sabato 9 ottobre a Roma sono tanti. In particolare ci si interroga come tutto ciò sia stato possibile. A chiederselo anche Alessandro Sallusti, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4. "La cosa è talmente strana che o il Paese è in mano ad un branco di incapaci o qualcuno dentro lo Stato ha lasciato che accadesse. È evidente che questo fa gioco alla sinistra". In piazza, con il pretesto di protestare contro il Green pass anche Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova. I due sono stati arrestati, ma com'è possibile che potessero manifestare indisturbati? Una domanda che si è posto lo stesso Matteo Salvini, da giorni con Giorgia Meloni attaccato su tutti i fronti. "Ho fatto il ministro dell'Interno e qualunque cosa accadesse era colpa mia – ha detto Salvini sui suoi canali social – Ora, mi domando: se questo estremista di destra era tranquillamente in piazza del Popolo, con il microfono in mano e davanti a migliaia di persone, chi lo ha permesso? Chi non lo ha impedito? L'attuale ministro dell'Interno ha fatto tutto quello che poteva, ha fatto tutto quello che doveva?". Il leader della Lega punta il dito contro Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno: "Non prevedere le necessarie misure di sicurezza e non prevenire gli incidenti, anche gravi, significa che è la persona sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Non solo, perché a indignare maggiormente il direttore di Libero è anche l'uscita di Beppe Provenzano. Il vicesegretario del Partito democratico ha detto che Fratelli d'Italia "è fuori dall'area democratica e repubblicana". Parole fortissime che hanno scatenato la polemica: "Quello che è più inquietante è che il vice segretario del Pd ha buttato lì che forse si dovrebbe chiudere Fratelli d'Italia". E infine: "Stasera hai dimostrato che chi di dovere doveva sapere cosa succedeva e non ha fatto nulla". 

Dentro il Matrix di Giorgia Meloni. Mauro Munafò su L'Espresso l'11 ottobre 2021. Le prese di distanza dalle manifestazioni romane, con molti distinguo, non hanno trovato alcuno spazio sui social solitamente così aggiornati della leader di Fratelli d’Italia. Per un motivo molto chiaro. La leader di Fratelli d’Italia ha fatto finta di condannare le violenze fasciste della manifestazione no Green pass a Roma tirando fuori dal cilindro la frase: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco. Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre». L’ironia sulla matrice che Meloni non conosce, in effetti difficile da rilevare tra saluti romani e canti contro i sindacati “boia”, rischia di oscurare un altro interessante fenomeno. Ovvero come dentro la bolla meloniana e i suoi canali ufficiali sia stata del tutto nascosta questa storia e questa presa di distanza. Ennesima dimostrazione dell’ambiguità utilizzata da Meloni per non perdere il consenso delle frange estreme della destra nazionale. Ma andiamo nel dettaglio. Sui canali ufficiali di Giorgia Meloni, al momento in cui scriviamo e a due giorni dagli eventi di cui parliamo, non è comparso nessun messaggio o video dedicato a condannare le manifestazioni romani. Nelle ultime 48 ore i social media manager di Meloni hanno però trovato il modo di parlare di partite Iva, mazzette in Sicilia, della destra presentabile, di Brumotti e della partecipazione della leader di Fratelli d’Italia all’evento di Vox in Spagna. Non si tratta quindi di una dimenticanza ma di una scelta precisa per non scontentare i fan. E allora quella “condanna” che è servita a fare i titoli sui giornali, da dove arriva? È la risposta alle domande fatte dai giornalisti domenica mattina e di cui non c’è traccia sui canali social di Meloni, di solito sempre pronti a immortalare ogni uscita della politica. Di più, l’unico segno “ufficiale” di queste frasi arriva da una pagina interna del sito di Giorgia Meloni: con un breve comunicato che non è stato neppure messo sulla sua homepage. E che comunque, in un momento in cui la comunicazione politica passa interamente dai social, non avrebbe visto nessuno. Ripescando un vecchio adagio della professione giornalistica: se vuoi nascondere una notizia non devi censurarla ma pubblicarla in piccolo in qualche pagina secondaria. Più che di matrice quindi, qua siamo di fronte a un vero e proprio “Matrix” di Giorgia Meloni. La sua realtà parallela.

Mirella Serri per "la Stampa" l'11 ottobre 2021. L'attacco dell'altroieri da parte di sedicenti no Green Pass alla sede centrale della Cgil voleva colpire un ganglio vitale dello Stato democratico, la rappresentanza sindacale dei lavoratori. Ricorda molto le aggressioni delle squadracce fasciste contro le Camere del lavoro, le Case del popolo e le leghe durante il "biennio nero" 1921-22. Però secondo la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si tratta «sicuramente di violenza e squadrismo, ma la matrice non la conosco»: un modo furbetto per evitare di dire che siamo di fronte a un rigurgito di fascismo. Da qualche tempo questa politica dello struzzo è sempre più ricorrente fra gli esponenti della destra. La verifichiamo sia in circostanze gravissime, come l'attacco al cuore dello Stato dei giorni scorsi, che in episodi apparentemente minori ma rivelatori della presenza di un nocciolo duro di neofascismo nelle pieghe delle due principali formazioni della destra. Cosa testimonia, ad esempio, il boom di voti ricevuti nella Capitale da Rachele Mussolini junior, candidata alle comunali per il partito della Meloni? Il fatto che la giovane Mussolini, con un cognome così evocativo, abbia fatto il pieno di preferenze non si deve prendere sottogamba. Come ha scritto ieri il direttore de "la Stampa", l'onda nera che ha invaso le piazze italiane affonda le sue radici nell'"album di famiglia". E la nipote di Rachele Guidi, moglie di Mussolini, agli occhi dei suoi elettori ha rappresentato proprio questo nero album. Da una parte c'è il cognome del Duce, che i più fanatici militanti di destra rivalutano per tutto il suo operato, incluse le leggi razziali. Ma dall'altra c'è anche il nome di nonna Rachele che piace ai meno estremisti fra gli estremisti perché è ricco di storia fascista. Molti italiani, non solo i romani, associano la consorte del capo del fascismo all'immagine di una casalinga fedele e icona della memoria del dittatore, a una donna lontana dall'agone politico, timida e discreta. Ma questo ritratto le corrisponde? Oppure è una mistificazione dei cultori del passato che non passa, così come, ad esempio, le recenti esternazioni su quell'Arnaldo Mussolini presentato come il fratello mite e buono del Duce. Alla domanda su cosa pensasse del fascismo, Rachele junior ha glissato: «È una storia troppo lunga». Ma di fronte anche a quello che è accaduto sabato, la storia non è troppo lunga e va al più presto riportata alla luce. Quando il leghista Claudio Durigon propose di intitolare il parco comunale di Latina ad Arnaldo Mussolini, si fece finta di dimenticare chi fosse veramente costui. Non solo un fascista tra i tanti: aveva intascato le maxi-tangenti pagate dalla Sinclair Oil per assicurarsi il monopolio delle ricerche petrolifere in tutta Italia. Giacomo Matteotti, per coincidenza, venne assassinato mentre era in procinto di denunciare la corruzione del fratello del Duce. La stessa volontaria dimenticanza del passato si ripete con la storia di nonna Rachele: anche lei, proprio come Arnaldo, fu molto attiva negli affari di famiglia e del regime di cui con passione sostenne anche tutte le violenze. Rachele senior fu anche cinica e feroce nei confronti degli antifascisti e perfino dei fascisti: prima della seduta del Gran Consiglio che destituì il Duce, gli suggerì di incarcerare tutti i gerarchi che ne facevano parte. Caldeggiò inoltre la condanna a morte di Galeazzo Ciano per il "tradimento". La vita di Rachele, incluso il periodo della Rsi, è stata parte integrante della più cruenta storia del fascismo e rientra in quell'album di famiglia che le componenti nostalgiche di Fratelli d'Italia e della Lega fingono di ignorare dando il loro voto a Rachele Mussolini junior, un nome e un cognome che sono una garanzia per i nostalgici del Ventennio.

Otto e Mezzo, "matrice cercasi": Gruber a senso unico sin dal titolo, plotone schierato contro Giorgia Meloni. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. “Matrice neofascista cercasi”, è il titolo scelto da Lilli Gruber per la puntata di Otto e Mezzo di lunedì 11 ottobre. Un chiaro riferimento alle prime dichiarazioni di Giorgia Meloni dopo la notizia delle violenze fasciste e squadriste verificatesi a Roma, tra l’assalto ai blindati della polizia e soprattutto alla sede della Cgil. La Gruber ha scelto un parterre di ospiti tutt’altro che casuale per affrontare l’argomento, a partire da Tomaso Montanari - che con la leader di Fratelli d’Italia ha delle “storie tese” passate - e da Paolo Mieli. “Non c’è neanche un dubbio sulla matrice - ha dichiarato il giornalista del Corriere della Sera - erano lì presenti i leader di Forza Nuova a guidare l’assalto. Casomai si dovrebbero distinguere le cose, non riduciamo tutta la questione dei no-green pass ai neofascisti. È accaduta una cosa deprecabile, non c’è alcun dubbio che la matrice sia quella”. Inoltre Mieli si è detto stupito dalla difficoltà che fanno Lega e Fratelli d’Italia a prendere le distanze e a condannare fermamente le violenze fasciste: “Possibile che non ce ne sia uno che dica basta, bisogna fare una guerra senza quartiere e sbatterli fuori? A me non interessa nulla, lo dico per loro: cosa devono aspettare? Un assalto ad una sede della Lega?”.

Da huffingtonpost.it l'11 ottobre 2021. Solleva un polverone la dichiarazione del vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, contro Fratelli d’Italia e la sua leader Giorgia Meloni. “Ieri Meloni aveva un’occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in FdI. Ma non l’ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l’ambiguità che la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano” ha detto l’ex ministro del Sud. “In questo modo Fdi si sta sottraendo all’unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi”. Parole a cui replica Giorgia Meloni su Facebook: “Il vicesegretario del partito ’democratico’ vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte. Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia” afferma la leader di FdI. “O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte”. Diversi gli esponenti di Fratelli d’Italia che si scagliano contro Provenzano. “Il presidente del Consiglio Draghi e tutti i partiti che appoggiano il suo governo condannino immediatamente le parole di chi sembra essere più vicino alle censure imposte dalle dittature di sinistra che non alle posizioni di libertà cui si ispira Fratelli d’Italia” dichiara il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. E Giuseppe Provenzano chiarisce: “Una batteria di attacchi nei miei confronti da Fdi. Chiariamo. Nessuno si sogna di dire che Fdi è fuori dall’arco parlamentare o che vada sciolta. Ma con l’ambiguità nel condannare matrice fascista si sottrae all’unità necessaria forze dem. Sostengano di sciogliere Forza Nuova”.

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. Vittorio Feltri esordisce così come consigliere comunale a Milano.  A La Zanzara dice: “Non mi sono votato, mi hanno dato due lenzuolate e non ho un capito un cavolo di quello che c’era scritto. Penso di aver votato Sala. Il nome Feltri non l’ho scritto”. “In Consiglio comunale andrò qualche giorno, poi me ne vado. Negli ultimi quarant’anni non ho mai visto un consiglio comunale”. “Gay Pride? Dovrebbe chiamarsi Froci Pride, però facciano quello che vogliono, a me di quello che fanno i froci non interessa nulla”. “Gay è parola inglese, omosessuale è un termine medico, preferisco chiamarli froci o culattoni”. “Il fascismo? E’ morto nel ‘45, non è un pericolo, non ho mai conosciuto un fascista in vita mia”. “Il fascismo? L’unica cosa buona che ha fatto è farsi uccidere. E’ riuscito a fare una guerra assurda, per soggiacere agli ordini di Hitler. Ma fu una piccola cosa rispetto al comunismo, che ha fatto molti più morti e molti più danni. Mussolini era alla guida di una nazione di poveracci, mentre il comunismo uccise molte più persone”. “I novax? Sono degli imbecilli, dei cretini. Rischiano di ammalarsi e morire, non hanno capito un cazzo”.

FABIO MARTINI per la Stampa il 13 ottobre 2021. Gianfranco Fini da quattro anni si è chiuso nel silenzio. Non un intervento pubblico e non un’intervista, ma il protagonista della più importante svolta nella storia della destra italiana non ha smesso di pensare politicamente, di consigliare, di parlare con gli amici di un tempo. E anche se ripete a tutti che lui si limita ad «osservare» e per questo non si esprimerà pubblicamente su Giorgia Meloni, però Fini ha confidato a più d’uno i suoi pensieri su quel che si muove in queste ore a destra: «Come la penso? La penso esattamente come la pensavo ai tempi della svolta di Fiuggi a proposito del fascismo e dell’antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che erano stati conculcati». E Fini non dimentica l’asprezza degli scontri che lo divisero dagli oltranzisti e dai nostalgici, nello storico congresso di scioglimento dell’ Msi a Fiuggi nel 1995 e anche dopo: «Non a caso ero considerato in quegli ambienti il traditore per antonomasia!». In effetti la rottura della destra missina e post-missina non solo con i terroristi neri ma anche con i picchiatori e i movimenti violenti, 25-30 anni fa, è stata così radicale e memorabile da indurre Fini, nelle sue chiacchierate di questi giorni con gli amici di un tempo, a ragionare sul possibile scioglimento di Forza Nuova. Ieri scherzava sulla «fake news» che attribuiva proprio a lui la sottoscrizione di una mozione Change.org che chiede un intervento risolutivo contro l’organizzazione neo-fascista, ma l’ex leader di Alleanza nazionale confida che condividerebbe un eventuale provvedimento di questo tipo. Da ex presidente della Camera, Fini si sente di obiettare su alcuni strumenti per raggiungere l’obiettivo: «Trovo paradossale che sia il Parlamento in quanto tale ad assumere l’iniziativa con una mozione che peraltro non ho letto. In realtà il Parlamento può al massimo chiedere al governo di sciogliere quelle formazioni». Naturalmente Fini conosce la diatriba che divide giuristi e costituzionalisti sulla potestà repressiva, se la competenza spetti all’esecutivo o alla magistratura dopo apposita sentenza, ma sul punto l’ex capo di Alleanza nazionale non sembra aver dubbi: «In realtà i governo può intervenire subito, ope legis, anche senza un’iniziativa parlamentare. È già accaduto nel passato, sia pure in circostanze diverse, nei confronti di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale». Ma c’è una storia, soffocata nel ricordo, che parla più di ogni altra circa i riflessi politici prodotti dalla rottura che Fini portò a termine col mondo che si muoveva anni fa alla destra dell’Msi-An. Ne parla lui stesso in questi giorni: «Nel gennaio del 1995, al congresso di Fiuggi, io fui agevolato da Rauti e Pisanò che si portarono dietro tutti coloro che avevano avversato la nascita di An e la sua carta d’intenti». Ma nei mesi successivi si consumò qualcosa di più grande di una banale scissione. E si produsse un evento elettorale, da allora rimosso da tutti, a destra e a sinistra. Dopo la svolta “anti-fascista” di Fiuggi e la nascita di An, Pino Rauti che per decenni era stato il principale ideologo del movimentismo di estrema destra, e Giorgio Pisanò, repubblichino mai pentito, ri-rifondarono la Fiamma missina e nella primavera del 1996 proprio i “neo-fascisti” furono decisivi in 49 collegi marginali per fare perdere il centro-destra. Disse Rauti: «Se Prodi ha vinto, lo deve a noi…». E in effetti, per quanto a sinistra possa apparire non subito comprensibile, la reticenza di Giorgia Meloni a prendere le distanze dai picchiatori di Forza Nuova in quanto neo-fascisti, in qualche modo è fuori linea anche rispetto a Giorgio Almirante. Il repubblichino capo storico della destra post-fascista italiana, tra 1978 e 1979 si incontrò in modo segretissimo col segretario del Pci Enrico Berlinguer e sinché i due furono vivi non se ne seppe nulla ma - come racconta Federico Gennaccari, editore e storico della destra missina - «i due leader pur così diversi colsero il rischio di una deriva terroristica di aree giovanili da loro oramai lontane ma che in qualche modo appartenevano ai rispettivi album di famiglia. E si scambiarono informazioni e pareri sulla pericolosa deriva in corso».

Giorgia Meloni, la menzogna di Giulia Cortese: "Eccola a casa, dietro di lei la foto di Mussolini". Ma è tutto falso. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. La macchina del fango per minare la tornate elettorale non si ferma qui. La giornalista Giulia Cortese ha deciso di sferrare l'ultimo attacco a Giorgia Meloni. Peccato però che si tratti una notizia falsa. La Cortese ha infatti pubblicato un frame di un video in cui alle spalle della leader di Fratelli d'Italia, collegata da casa, appare una foto di Benito Mussolini. A corredo il commento: "Dietro c'è la sua matrice preferita". Il riferimento è alle parole pronunciate dalla Meloni dopo l'assalto alla sede della Cgil da parte di alcuni estremisti. Premettendo di condannare tutti gli atti di violenza, la leader ha ammesso di non sapere di che "matrice" fossero. Da qui il livore della sinistra. Ma la Meloni non ci sta e sotto alla foto diffusa dalla giornalista ha replicato: "Reputo che questa foto falsificata, pubblicata da una giornalista iscritta all’ordine, sia di una gravità unica. Ho già dato mandato al mio avvocato per procedere legalmente contro questa ignobile mistificazione. A questo è arrivato certo giornalismo di sinistra?!". Una risposta che ha scatenato la diretta interessata, già impegnata a cancellare il post: "Ho rimosso la foto, anche se non è molto lontana dalla realtà. Comunque cara Giorgia Meloni, la gogna mediatica che hai creato sulla tua pagina Facebook contro di me ti qualifica per quello che sei: una donnetta", ha scritto la giornalista. Ma se la Meloni non ha risposto all'ultimo attacco, ecco che ci ha pensato per lei Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia: "Invece di chiedere scusa continua a insultare?".

Incontri, guerriglia, devastazione: così i neofascisti si sono presi le piazze no vax per fare pressioni su Fratelli d’Italia. I carabinieri del Ros hanno segnalato decine di eventi gestiti e amplificati da Forza Nuova e CasaPound. E il medico no green pass Pasquale Bacco racconta come Salvini e soprattutto la Meloni e il suo partito li abbiano sostenuti: «Erano i politici a procurarci le risorse per le nostre iniziative». Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 15 ottobre 2021. C’è un anno e mezzo di rapporti pericolosi fra movimenti cittadini contro il vaccino e il certificato verde, teppisti fascisti in cerca di ribalta, partiti assetati di voti, per spiegarsi le vergogne di sabato nove ottobre e cercare di capire quel che potrebbe accadere. L’assalto alla sede del sindacato Cgil, la capitale d’Italia in ostaggio degli estremisti di Forza nuova ma anche gli scenari futuri, vista la galassia composita che agita il movimento contro il green pass. Con immagini che rischiano di ripetersi nei prossimi grandi appuntamenti pubblici nella Capitale e non solo che vedono il loro culmine nel G20 in programma a fine mese. Ci sono somiglianze col passato, secondo gli inquirenti che ripescano la stagione dei cattivi maestri e di chi giocava con le piazze: perché oggi come ieri chi manifesta è trascinato dalle rivendicazioni più disparate. E spetta alla politica, alla Lega di Matteo Salvini e a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, evitare che il passato si ripeta. L’estrema destra di oggi è già pronta a prendersela questa piazza, a partire proprio da Forza nuova che da almeno un anno e mezzo lavora per animare la protesta e acciuffare il potere. 

LA STRATEGIA NERA

Quello che è accaduto a Roma non è la conseguenza del caso, ma l’arrivo di un percorso che Roberto Fiore e Giuliano Castellino, che hanno preso le redini di Forza nuova da Roma in giù dopo la frattura interna con le sedi del Nord e dei cosiddetti “scissionisti” guidate da Giustino D’Uva e dalla Rete dei patrioti, hanno pianificato da tempo. Cavalcare il risentimento scatenato dalla pandemia. Infiltrarsi nei gruppi sui social che veicolano il malcontento non più intercettato dalla Lega e soltanto in parte da Fdi. I carabinieri del Ros da oltre un anno seguono le azioni di Forza nuova, soprattutto, ma anche di CasaPound che pesca nello stesso bacino pur avendo forti contrasti con il movimento di Fiore e Castellino. E hanno registrato un aumento costante della tensione dall’aprile dello scorso anno fino ai fatti di Roma. Andati via gli scissionisti della Rete dei patrioti, che non hanno condiviso le scelte dei leader storici di Forza nuova di ritornare movimentisti abbandonando la possibilità di presentarsi al voto, Fiore ha cominciato a fomentare la protesta. All’inizio con scarsi risultati: la prima manifestazione legata al Covid-19, quella dei No Mask il 20 aprile 2020, registra una ridotta partecipazione, anche se in molte piazze da Roma a Napoli e Palermo i Ros segnalano una forte presenza di uomini di Forza nuova e in parte di CasaPound. Fiore e i suoi si insinuano allora nelle chat con più iscritti che crescono su Telegram dall’estate del 2020 in poi. Non a caso in ottobre i carabinieri, con le loro antenne puntate sui movimenti di estrema destra, analizzano altre azioni: il 24 ottobre a piazza del Popolo una prima manifestazione contro le mascherine e le imposizioni del governo sul Covid-19, dove si salda un nuovo asse tra Forza nuova con settori degli ultras della Lazio e della Roma, gli scontri poi ci saranno a viale Flaminio; il 25 ottobre a una protesta contro le mascherine che vede tra i partecipanti sempre i movimenti di estrema destra e una bottiglia incendiaria viene lanciata contro i carabinieri; il 27 ottobre nel quartiere Prati ci sono tafferugli tra polizia ed esponenti di Forza nuova e CasaPound; il 28 ottobre la stessa scena si ripete a Ostia dove però, precisano i Ros, si segnalano anche insulti e minacce tra Forza nuova e CasaPound come due squadre che giocano nello stesso campo ma da avversari. Il 31 ottobre altra manifestazione, quella delle «mascherine tricolore», e anche qui forte presenza di esponenti dei due movimenti di estrema destra. Fiore per recuperare risorse dopo l’uscita degli scissionisti crea una sigla, Area, dove confluiscono una serie di gruppetti di destra extra parlamentare: Gruppo San Giovanni casa dei patrioti, Comunità Evita Peron, Comunità Avanguardia, Comitato di solidarietà nazionale, Comunità militante Castelli Romani, solo per citarne alcuni. Poi entra in gioco il secondo pilastro della strategia della tensione: manipolare le chat di Telegram. Tra quelle che i carabinieri indicano come manipolate anche da esponenti di destra ci sono Guerrieri per la libertà (40mila iscritti), No green pass adesso basta (18mila), Generazione popolare fuoco che avanza (4mila). Dopo la fiammata dell’ottobre del 2020 la tensione viene contenuta, fino al maggio del 2021 quando si riaccendono le proteste dei commercianti sotto la sigla «io apro». Fiore e Castellino provano anche qui a incunearsi, cercando lo scontro con le forze dell’ordine, come nella manifestazione organizzata dai commercianti tra la Bocca della Verità e piazza Venezia. Ma non ci riescono e Castellino rimprovera i promotori della manifestazione perché non hanno avallato gli incidenti con la polizia. I due leader di Forza Nuova non demordono e, passata l’estate, eccoli a settembre ritornare in azione. Il primo settembre chiamano tutti alla protesta davanti alle stazioni ferroviarie e alle sedi delle Regioni, ma la partecipazione è bassissima. I Ros si appuntano numerosi atti dimostrativi contro vaccini e green pass: il 6 settembre Forza nuova partecipa alla manifestazione lanciata su Telegram dai «no Green pass» e da piazza del Popolo provano a rompere il blocco e dirigersi in piena notte verso piazza Montecitorio. La tensione aumenta. Il 14 settembre va a fuoco un gazebo di una farmacia a Trastevere dove si facevano tamponi, il 16 settembre un altro gazebo viene distrutto in via Taranto, zona San Giovanni. Il 18 settembre in piazza Santi Apostoli si trovano a guidare le proteste non solo esponenti di Forza nuova, ma anche gli scissionisti di Rete dei patrioti guidati da D’Uva e i militanti di CasaPound, con Castellino che critica le altre due fazioni perché a suo dire istituzionalizzate, avendo chiesto perfino l’autorizzazione alla Questura per questa manifestazione. Il 25 settembre Castellino partecipa invece alle proteste contro il Green pass di piazza San Giovanni. Ogni sabato nelle vie del centro di Roma, registrano i Ros, Forza nuova organizza piccoli cortei. CasaPound non lascia le piazze a Forza nuova, ma preferisce camuffarsi. Il movimento guidato da Luca Marsella punta ancora alla via istituzionale, cioè quella elettorale, tant’è che alcuni esponenti di CasaPound vengono candidati a Roma nelle liste a sostegno di Enrico Michetti e soprattutto con la Lega, partito che con la guida di Matteo Salvini ha sempre dialogato intensamente con questa area della destra estrema: nel XIII municipio si candida Simone Montagna, militante di CasaPound, come nell’XI municipio nelle liste della Lega compare Alessandro Calvo, altro attivista del movimento. La strategia di Forza nuova, che ha sempre avuto invece un dialogo forte con Fratelli d’Italia, è adesso più aggressiva. Impadronirsi delle piazze per avere una merce di scambio con i partiti di destra. Anzi, con il partito di destra: Fratelli d’Italia. 

LA MATRICE

Arriviamo al 9 ottobre. Il dottore in attesa di sospensione Pasquale Mario Bacco, salernitano di origine, una candidatura alla Camera con CasaPound e autore del libro “Strage di Stato” assieme all’ex sottosegretario all’Interno nel governo Prodi I eletto con la lista Dini, e ormai ex magistrato, Angelo Giorgianni, con la prefazione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, non c’era in piazza del Popolo. Bacco avvertiva una strana sensazione. Le premesse per una guerriglia. Perché mai, in un anno e mezzo di messaggi, telefonate e incontri, quelli di Forza nuova si erano così esposti. Il capo Roberto Fiore e il suo vice Giuliano Castellino gli avevano offerto un ruolo al vertice di Forza nuova. Un volto spendibile, un medico, per raccogliere più consenso tra i no vax. Bacco ci ha meditato su fra un convegno, un comizio e un intervento con i negazionisti della pandemia come la deputata ex grillina Sara Cunial. Aveva conosciuto Matteo Salvini alla Camera e poi Giorgia Meloni. E aveva ricevuto un insistente corteggiamento, che lo lusingava, e certo come si fa a esserne immuni, non c’è un vaccino per la vanità, alle carezze politiche del deputato e coordinatore pugliese di Fdi Marcello Gemmato: candidature, programmi, successo. C’era la fatica. Due eventi al giorno, il palco di qua, il treno di là, una volta ospite dei salviniani, un’altra dei meloniani: «I partiti di destra ci hanno cresciuto, ci hanno fornito il supporto necessario per avere le autorizzazioni e sobbarcarci le spese. Fdi più di ogni altro». Se lo contendevano il dottor Bacco che contestava la pandemia e i provvedimenti del governo e poi col magistrato Giorgianni fondava l’Organizzazione mondiale per la vita. L’internazionale dei complottisti ben ramificata in Sudamerica e poi sparpagliata fra Oman, Cipro, Malta, Germania, Francia, Spagna e l’Europa mitteleuropea: «Fdi ci aveva proposto di andare al Parlamento europeo a parlare di vaccini», sussurra con il tono di chi sa che rischia di esagerare. Salvini e Meloni erano incuriositi dalla capacità di aggregazione, dalla massa creatasi dal nulla.

Finché col tempo l'interesse è «scemato», l’avvento di Mario Draghi ha normalizzato la Lega e ammorbidito le sembianze di Fratelli d’Italia, la campagna elettorale volgeva alla fine, i no mascherine e no vaccini forse erano diventati più dannosi che utili, e sono subentrati quelli di Forza nuova. Bacco non si è stupito. Sin dal primo momento erano in strada fra la gente un po’ incazzata e un po’ negazionista, lì accanto ai salviniani e ai meloniani senza poterli facilmente distinguere. Però Bacco ha notato per piazza del Popolo un attivismo eccessivo di Castellino che comunica quello che Fiore fa intendere. Avevano preparato il pulpito tricolore, studiato il percorso e spedito gli inviti sui gruppi: «Se Fiore si è fatto riprendere a volto scoperto c’è un motivo. Ho contezza di contatti fra esponenti di Forza nuova e Fratelli d’Italia». Giorgianni si è scambiato il microfono con Castellino, Bacco ha assistito da lontano alla «presa» della Cgil: «È uno schifo. Noi non c’entriamo nulla con la violenza. Siamo diventati dei pagliacci». «Ragazzi mai vista una cosa del genere. Ci hanno messo sotto con i blindati. Corpi a corpi di mezz’ora. Entrati dentro. Siamo ancora sotto assedio!», ha scritto Castellino con un selfie a suggellare l’impresa inviato a tutta la sua rubrica. La prova di forza di Fiore e sodali serviva a mettere pressione, a dimostrare agli amici di Fdi che quel «popolo», migliaia di elettori orfani di rappresentanza, è ormai roba di Fn e che se lo rivogliono, devono riprenderselo e rispolverare gli antichi compromessi. La timida reazione di Giorgia Meloni, che ha impiegato tre giorni per dissociarsi e condannare senza perifrasi, testimonia le profonde ambiguità di Fratelli d’Italia e le sue inquietanti contiguità con quel giro. Che l’inquisito e sorvegliato Castellino fosse il gestore della manifestazione, come illustrato dai fatti, lo sapeva chiunque e a chiunque, pure agli agenti della Digos, aveva annunciato la volontà di condurre il corteo non autorizzato verso la sede della Cgil (non potendo avvicinarsi a Palazzo Chigi). Queste certezze producono due annotazioni: la prima che i responsabili dell’ordine pubblico hanno sottovalutato gravemente la vicenda, la seconda che bloccati Castellino e soci si smantella la parte più violenta. E ciò rassicura gli apparati di sicurezza alla vigilia di altre manifestazioni di protesta per il green pass e dall’arrivo a Roma dei grandi della Terra per il G20. Nel governo, però, c’è il timore che il G20 possa attrarre i no mascherine e no vaccini stranieri, produrre un effetto emulazione, trasformare il vertice nel santuario mondiale dei negazionisti. Forza nuova è molto romana, ma Fiore ha aderenze nei gruppi di ispirazione fascista d’Europa. La prevenzione con l’intelligence è determinante. Il comportamento dei partiti di destra è fondamentale. In quello spazio elettorale e ideologico diversamente presidiato si tiene da anni un duello fra CasaPound e Forza nuova che riflette il duello fra Salvini e Meloni. Dalla pandemia i duelli si svolgono nell’ampio e oscuro terreno dei negazionisti. O i partiti rimuovono ogni pulsione fascistoide o ne verranno travolti.

"Vi dico io la verità sul fascismo... Cosa penso di Landini". Marta Moriconi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi con Landini in pieno silenzio elettorale. Parla Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi, sabato 16 ottobre, con Landini in pieno silenzio elettorale. IlGiornale.it ne parla con Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista.

Lei è stato il primo a parlare di strategia della tensione, concetto ripetuto in Aula dalla Meloni dopo le risposte disarmanti del ministro Lamorgese. Perché?

“Quando ci sono delle violenze di questo genere, che sono da condannare con forza perché molto gravi, cerco sempre anche di interpretare e comprendere i fatti. Poi, in seconda battuta, mi domando a chi giovi un assalto squadristico oggi. Iniziamo da come sia potuto accadere che un gruppo ampio di persone si sia staccato da una manifestazione a piazza del Popolo e abbia proceduto per chilometri a piedi e per tre quarti d’ora minimo, alla presenza delle Forze dell’Ordine in campo. Mi domando come è possibile che non siano stati fermati prima dagli agenti in tenuta antisommossa. Ed è ridicola, appunto, la difesa del ministro dell’Interno Lamorgese che ha spiegato di non averli bloccati perché altrimenti avrebbero fatto ancora peggio. Ma cosa vuol dire? Mi pare fossero anche disarmati, non avevano chiavi inglesi, bombe molotov o altri strumenti lesivi. Ma che gli facevamo prendere il Parlamento?”.

A chi giova tutta questa faccenda?

“Provo a fare un elenco. Rafforza il governo, ma soprattutto dà fiato a un sindacato concertativo che era moribondo. Poi, dà corpo ai sindacati di base che lunedì facevano una manifestazione contro il governo, contro quei lavoratori licenziati col green pass. E non ultimo dà una stretta a tutte le manifestazioni. Noi stessi che il 30 ottobre avremmo dovuto avere una manifestazione nel centro di Roma, siamo stati spostati in piazza San Giovanni”.

Però se è vero che tutte le manifestazioni subiranno dei restringimenti, come è successo alla sua, non pare che questo accadrà a quella antifascista di sabato di Landini e dei sindacati uniti però…

“E’ una sinistra questa, responsabile di non aver difeso i lavoratori. Mentre la destra fa sempre il suo lavoro, la sinistra non l’ha più fatto. Io oggi non scenderò con loro. Non mi riconosco e sono rimasto colpito dall’immagine di Draghi che ha messo la mano sulla spalla a Landini da un gradino più in alto. I presidenti degli Stati Uniti mettono sempre la mano sulla spalla dei Capi di Stato che incontrano, è un segno di comando. E se permetti questo vuol dire che ti senti dominato, protetto da tipi del genere. Basta andare a vedere la foto di Obama e Raul Castro e come il secondo gli levi in maniera rapida la mano che si avvicinava”.

Oggi il fascismo cos’è?

“Mi rifaccio alle parole di Gian Carlo Pajetta: noi abbiamo chiuso i conti col fascismo il 25 aprile 1945. Oggi l’antifascismo è essere anticapitalisti. Tutto il resto sono due cretini, che vanno condannati, che fanno il saluto romano”.

Ma quanto guadagnerà il Pd da questa faccenda? Pensiamo al ballottaggio di Roma per esempio...

“Gualtieri è l’altra faccia della stessa medaglia. E il suo partito è il più conseguente a questo meccanismo. E’ logico che il Pd gode e godrà di questa situazione. Questa vicenda ha un indubbio peso a favore loro. La domanda è sempre la stessa: a chi giova? Facile la risposta”. Marta Moriconi

 Massimo Cacciari contro la sinistra: "Allarme-fascismo? Realistico come un'astronave in un buco nero". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Il pericolo "fascista" è realistico come l’entrata di un’astronave in un buco nero": Massimo Cacciari smonta l'allarmismo che si è diffuso dopo la protesta No-Green pass a Roma, poi degenerata con l'assalto alla sede della Cgil e con scontri violenti tra polizia e manifestanti. Per il filosofo, è sbagliato paragonare i due momenti storici: "Le condizioni storiche, sociali, culturali di quel caratteristico fenomeno totalitario non hanno alcun remoto riscontro nella realtà attuale di nessun Paese". Basti pensare che un secolo fa, scrive Cacciari su La Stampa, il fascismo trovò l’appoggio di settori decisivi dell’industria, della finanza e di importanti apparati dello Stato. Cosa che adesso non avviene. Secondo il filosofo, "i movimenti  che si richiamano a quella tragedia sono farse, per quanto dolorose, che nulla politicamente potranno mai contare". Cacciari ha spiegato anche che "decenni di stati d'emergenza" certo non favoriscono un regime democratico. Allo stesso tempo però ha scritto: "Più difficile è tener salda quell’idea di democrazia, più diventa necessario. E, per carità, tranquilli: nessun fascismo sarà comunque nei nostri destini". Il pericolo che tutti rischiano di correre oggi è un altro, stando all'analisi fornita dal filosofo. "Il pericolo che cresce quotidianamente è tutto un altro: che la persona scompaia fagocitata dalle paure, dalle avarizie, dalle invidie, dai risentimenti dell’individuo, in cerca affannosamente di chi lo rassicuri, lo protegga, lo consoli", ha sottolineato Cacciari". Ed è qui che entra in gioco la politica: "Se le forze e le culture politiche si divideranno nella rappresentanza di queste pulsioni, 'specializzandosi' ciascuna nel rassicurare intorno a questo o quell’altro 'pericolo', affidandosi a mezzi anch’essi sempre più di emergenza, invece di individuarne e affrontarne le cause strutturali, dove finiremo nessuno lo sa o può dirlo". In ogni caso, non si finirebbe comunque in un regime fascista: "Certo sarà un regime che assolutamente nulla ha a che fare con i mantra democratici che continuiamo a ripetere, pietoso velo del naufragio che ha subito fino a oggi ogni tentativo di riforma del nostro sistema istituzionale e del rapporto tra le sue funzioni e i suoi poteri".

La sinistra prova il blitz: vogliono abolire la Meloni. Laura Cesaretti il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno: è infatti il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano che, proprio mentre i Fratelli d'Italia si dibattevano faticosamente tra la condanna per le violenze di Roma e la solidarietà ai novax/nopass antigovernativi, inciampa in un clamoroso incidente politico via Twitter. Offrendo così generosamente ai meloniani l'ambito ruolo di vittime della sinistra neo-stalinista. Provenzano, che nel Pd rappresenta la sinistra dura e pura, se la prende con Meloni che da Madrid (dove è corsa ad arringare in uno spagnolo maccheronico la platea dei nostalgici franchisti di Vox) ha dichiarato di non conoscere la matrice di Forza Nuova, e accusa: «Il luogo scelto e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano». Bum: sul vice di Enrico Letta che mette FdI fuori dal consesso democratico si scatena la tempesta. E siccome nel frattempo il Pd sta raccogliendo le firme su una mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova, il gruppetto fascista che ha assaltato Cgil e ospedali spaccando bottiglie in testa agli infermieri, quelli di Fdi fanno la sintesi: Provenzano vuole sciogliere anche noi. «Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d'Italia», tuona Meloni. «O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte». Meloni si affretta ad assicurare che lei condanna «ogni violenza di gruppi fascisti». E che il suo partito «non ha rapporti con Fn», e invita il Pd a manifestazioni e azioni comuni contro ogni violenza». Le fa subito eco il capogruppo meloniano Francesco Lollobrigida: «Non è certo il vice segretario del Pd che può concedere patenti di ingresso nel perimetro repubblicano. I suoi toni somigliano più a quelli dei regimi comunisti, in cui affonda le sue radici il Pd, che non a quelli del civile e rispettoso confronto parlamentare». Seguono a ruota tutti i parlamentari di Fdi, chi chiedendo le dimissioni di Provenzano, chi ingiungendo a Letta e persino a Mario Draghi e Sergio Mattarella di pronunciarsi, chi chiamando il vicesegretario Pd «stalinista». Con Meloni si schiera Matteo Salvini: «Il vice-segretario del Pd taccia ed eviti di dire idiozie, non è certo lui che può dare patenti di democrazia a nessuno. Fascismo e comunismo per fortuna sono stati sconfitti dalla Storia, e non ritorneranno». I dem devono correre ai ripari: a Provenzano viene chiesto di mettere una pezza al pasticcio combinato, con un ulteriore tweet che però non riesce col buco. L'ex ministro del Mezzogiorno («E meno male che adesso c'è la Carfagna», lo punge Matteo Renzi) assicura: «Nessuno si sogna di dire che FdI è fuori dall'arco parlamentare (in effetti aveva detto fuori dall'arco democratico e repubblicano, ndr) o che vada sciolto, ma con l'ambiguità nel condannare la matrice fascista si sottrae all'unità necessaria delle forze democratiche». Letta ribadisce il «gravissimo errore» della Meloni nel non condannare lo «squadrismo» dei no vax e la invita a sottoscrivere la mozione contro l'organizzazione neofascista, mentre dal nazareno si accusa la leader Fdi di «falsificare la realtà rifugiandosi nel vittimismo: il Pd non ha chiesto di sciogliere il suo partito ma Fn». Laura Cesaretti 

Giorgia Meloni contro Beppe Provenzano: "Vuole sciogliere FdI per legge? Ecco che roba è la sinistra". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. L'assalto alla Cgil e le manifestazioni estremiste a Roma di sabato? Tutta colpa di Giorgia Meloni. Questo il pensiero di Beppe Provenzano. L'ex ministro del Partito democratico si scaglia contro Fratelli d'Italia in un post su Twitter intriso di livore: "Ieri Meloni aveva un'occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in Fdi. Ma non l'ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano". Peccato però che la Meloni abbia denunciato "la violenza e lo squadrismo" andato in scena, ricordando che "questa roba va combattuta sempre" per poi precisare di non conoscere la matrice. E in effetti non è l'unica. Alla protesta partecipavano più di diecimila persone, molte addirittura scampate ai controlli. Dura condanna anche da parte del capogruppo alla Camera di FdI, Francesco Lollobrigida: "Il governo può sciogliere le organizzazioni eversive. Draghi prenda provvedimenti". Da qui la replica della Meloni alla provocazione del dem: "Il vicesegretario del partito 'democratico' vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte". Messaggio indirizzato a Enrico Letta: "Prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia. O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte". Solo in parte Provenzano ha raddrizzato il tiro chiarendo quanto scritto: "Significa semplicemente che in questo modo Fdi si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi. Tutto qui". Ma la proposta rimane ugualmente grave".

"Nemmeno il Pci si sognò di metter fuori legge il Msi". Fabrizio Boschi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'intervista al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Secondo l'ex ministro per il Sud nel governo Conte II, Giuseppe Provenzano, oggi vicesegretario del Pd, Giorgia Meloni sarebbe «fuori dall'arco democratico e repubblicano». Sentiamo cosa ne pensa l'antifascista direttore del Riformista, Piero Sansonetti. 

Direttore, cosa gli è preso a Provenzano?

«Credo abbia avuto un colpo di caldo fuori stagione. Non si capisce di che parli».

Come se la spiega?

«Deve aver sentito parlare dei partiti facenti parti dell'arco costituzionale. Ma senza studiare la storia: oggi i partiti che hanno partecipato alla Costituzione non ci sono più. Perciò sono tutti fuori. Forse solo il Psi di Nencini si può definire partito costituzionale. Gli altri son nati dopo».

È preoccupante?

«Fa pensare a manovre autoritarie».

Addirittura.

«Dire che la Meloni è fuori dall'arco democratico è una manovra autoritaria che riduce la democrazia in regime. Ricordo a questo ragazzo che nella storia italiana i partiti sono stati cancellati solo da quei fascisti che lui tanto odia. Ci provò Scelba ma senza riuscirci. E ora lui cosa vorrebbe fare? Riprendere questa bella tradizione?».

Lo conosce?

«No, cosa è ministro?»

No, non più, ora è vice segretario del Pd.

«E Letta non ha detto niente? Questo sì che è preoccupante. Figuriamoci che una cosa del genere non l'hanno mai pensata nemmeno i comunisti. Il terribile e feroce Pci non ha mai chiesto di mettere fuori legge l'Msi che certamente era molto più legato al fascismo di Fdi. Persino Potere operaio, che Provenzano nemmeno saprà cos'è, era contrario. Solo Lotta continua lo gridava. Ed eravamo negli anni Settanta, quando Provenzano nemmeno era nato, in un clima ben diverso dal nostro».

Allora a cosa attribuisce le sue parole?

«Al decadimento della nostra classe politica che denota una totale assenza di preparazione che poi è la caratteristica di questo Parlamento, dal M5s in poi. Tutto è inquinato da un personale politico con capacità di ragionare ridotte e con una cultura politica assente. Si salvano solo poche decine di persone».

E di chi vuole cancellare Forza Nuova cosa ne pensa?

«Un'altra idiozia. Se ogni volta che ci sono incidenti mettiamo fuori legge coloro che partecipano alle manifestazioni allora metteremo fuori legge tutti. E i militanti di sinistra sono quelli che farebbero fuori per primi. Non ha nessun senso a meno che non si voglia creare un regime. Io sono anche contrario ai reati di apologia, figuriamoci».

Cioè?

«Sono reati di opinione e nessun pensiero per me andrebbe punito, punire i pensieri è ignobile. Penso ci sia qualcosa di fascista nel proibire i pensieri. Tutte le azioni repressive sono fasciste».

E della Meloni a Vox cosa ne pensa?

«Lei può andare dove gli pare. Il problema è che questi vogliono fare i partigiani perché non riescono a fare nient'altro e confondono la politica con la raccolta di figurine Panini».

Da repubblica.it l'11 ottobre 2021. "Vogliamo fare una cosa seria? Tutto il Parlamento si unisca per approvare un documento contro ogni genere di violenza e per sciogliere tutte le realtà che portano avanti la violenza, non è che la violenza dei centri sociali lo è meno". Replica così Matteo Salvini al segretario del Pd, Enrico Letta, dopo che i dem hanno presentato alla Camera questa mattina una mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova e di tutti gli altri movimenti dichiaratamente fascisti. Una richiesta nata dopo gli scontri di sabato scorso a Roma durante la manifestazione non autorizzata dei No Green pass a cui hanno preso parte molti esponenti di FN e durante la quale la sede nazionale della Cgil è stata devastata. Intanto, su richiesta della Procura di Roma la Polizia Postale ha notificato un provvedimento di sequestro del sito internet del movimento di estrema destra Forza Nuova. L'attività rientra nell'indagine avviata dai pm della Capitale  e relativa anche agli scontri avvenuti sabato nel centro della Capitale e che ha portato all'arresto di 12 persone. Il reato per cui si è proceduto è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici o telematici. 

Mattarella: "Molto turbati, non preoccupati"

E proprio rispetto a quanto accaduto durante la manifestazione nella Capitale, il Capo dello Stato Sergio Mattarella a Berlino rispondendo a una domanda del presidente Frank-Walter Steinmeier ha sottolineato che "il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica".

Il no di Forza Italia

Ma il leader della Lega non è l'unico a non appoggiare la mozione del Pd. Oltre al no di Fratelli d'Italia, oggi arriva anche quello di Forza Italia. E fonti della Lega fanno sapere che il centrodestra "condanna le violenze senza se e senza ma ed è pronto a votare una mozione per chiedere interventi contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra". Questo, riferiscono dal Carroccio, è quanto sarebbe emerso "da alcuni colloqui telefonici tra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni". Mentre l'azzurro Elio Vito si dichiara disponibile a firmare la mozione del Pd, il resto del partito di Silvio Berlusconi si dice contrario. "I fatti di sabato scorso, le aggressioni alle forze dell'ordine, l'assalto alla Cgil, sono stati condannati da tutte le forze politiche. Non ci possono essere ambiguità contro la violenza e contro chi usa una manifestazione di piazza per secondi fini", chiariscono in una nota i capigruppo di Forza Italia alla Camera e al Senato, Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini. "Ma non esistono totalitarismi buoni e totalitarismi cattivi - proseguono - e per questo motivo non è possibile per i nostri gruppi firmare o sostenere la mozione presentata dal Pd". Per, da FI si dicono aperti ad altre soluzioni. "Proprio per superare le divisioni - dicono - proponiamo di lavorare ad una mozione unitaria contro tutti i totalitarismi, nessuno escluso".

Conte: "M5S in prima fila contro Forza Nuova"

Dai grillini arriva invece il sostegno alla proposta dei dem. "Il Movimento 5 Stelle aderisce e rilancia le iniziative volte allo scioglimento di Forza Nuova e delle altre sigle della galassia eversiva neofascista", assicura il leader Giuseppe Conte. "Saremo in prima fila per tutte le iniziative parlamentari che muoveranno in tal senso - aggiunge - Siamo però consapevoli che non basterà questo, così come sappiamo che ignorare le proteste di piazza - quelle legittime e pacifiche - non aiuta a lavorare al bene del Paese". Per questo, Conte in un post su Facebook invita ad "ascoltare la rabbia di chi guarda al futuro con angoscia e preoccupazione".

La mozione di LeU

Come il Pd, anche Liberi e Uguali ha scelto di presentare, ma al Senato, un analoga mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova.  " Dopo gli assalti squadristi di sabato e la delirante rivendicazione di FN che promette di proseguire su quella strada non si può più essere tolleranti.  Bisogna agire, far rispettare la Costituzione e le leggi, sciogliere i gruppi fascisti", sottolinea la capogruppo di LeU al Senato, Loredana De Petris. Che poi dice: "Anche FdI, se fosse onesta e coerente, dovrebbe votare a favore della mozione. Invece Giorgia Meloni prosegue con la tattica dell'ambiguità, senza mai nominare i fascisti perché sa che da quelle aree le arrivano voti, ma fingendo di voler invece combattere la violenza per non inimicarsi altre fasce del suo elettorato".

Claudio Del Frate per corriere.it l'11 ottobre 2021. La mozione presentata in Parlamento che chiede lo scioglimento di Forza Nuova (che di conseguenza diventerebbe una organizzazione fuorilegge) può essere attivata grazie alla legge Scelba del 20 giugno 1952. Quest’ultima dava attuazione pratica alla dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta in Italia la ricostituzione del partito fascista (il testo recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».) La legge Scelba, in questo senso, è stata applicata poche volte in Italia; per sciogliere un movimento ritenuto epigono del fascismo è necessario un decreto del ministero dell’Interno, oppure una sentenza della magistratura. E proprio la magistratura, in serata, ha rotto gli indugi: la polizia postale, su ordine del tribunale di Roma, ha sequestrato e oscurato il sito di Forza Nuova. Il reato per cui si procede è istigazione a delinquere. Tornando alla possibilità di sciogliere Forza Nuova il primo articolo della legge stabilisce che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». I fatti accaduti sabato a Roma sembrano rientrare in pieno dentro questo perimetro. Di più: senza il bisogno di attendere gli assalti alla Cgil, a Palazzo Chigi, al Policlinico Umberto I, Forza Nuova non ha mai fatto mistero della sua inclinazione per i metodi violenti. La valutazione, comunque, e il relativo decreto di messa al bando della formazione di Roberto Fiore e Giuliano Castellino toccherà al Viminale. In Italia sono pochissimi i precedenti di applicazione della legge Scelba in relazione al tentativo di resuscitare il partito fascista; l’ostacolo giuridico è sempre quello che divide la legittima manifestazione del libero pensiero in politica dall’azione eversiva. Nel novembre del 1973 i dirigenti di Ordine Nuovo, fuoriusciti dal Msi, vengono condannati per ricostituzione del partito nazionale fascista e l’organizzazione viene sciolta per decreto. Nel giugno del 1976 stessa sorte tocca ad Avanguardia Nazionale. Non incorrerà invece nelle sanzioni della legge la formazione di Giorgio Pisanò «Fascismo e libertà», che potrà anche presentarsi alle elezioni ostentando sul simbolo un fascio littorio. La ricomparsa di una estrema destra eversiva è un problema che non riguarda solo l’Italia; in Germania nel gennaio 2020 è stato messo fuorilegge il gruppo neonazista Combat 18, di dichiarate simpatie hitleriane; Berlino ha varato una serie di leggi che inaspriscono ogni richiamo al nazismo (compreso l’uso del saluto romano in pubblico) dopo l’uccisione da parte di terroristi di estrema destra del politico della Cdu Walter Lübcke. In Grecia la formazione di estrema destra Alba Dorata è stata dichiarata fuorilegge da una sentenza della Corte d’appello di Atene che ha condannato i suoi leader a pesanti pene. Alba Dorata era arrivata a sfiorare il 10% dei consensi alle elezioni politiche. Stesso copione in Francia, dove il governo ha dichiarato illegale il gruppo di estrema destra Generation Identitaire nel marzo del 2021 per i suoi messaggi fortemente razzisti.  

Da liberoquotidiano.it il 13 ottobre 2021. Sciogliere Forza Nuova? Si può, in punta di diritto. Parola di Piercamillo Davigo, che ospite di Giovanni Floris a DiMartedì su La7 ascolta imperturbabile il "curriculum" dei due leader del movimento di estrema destra, Giuliano Castellino e Roberto Fiore, coinvolti nelle violenze di piazza dei No Green pass sabato scorso a Roma concluse con l'occupazione della sede della Cgil. "Castellino, capo romano di FN, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi in primo grado per aggressione a due giornalisti - ricorda Floris -, a 4 anni in primo grado per aggressione e resistenza a poliziotti e rinviato a giudizio per truffa da un milione di euro al Sistema sanitario nazionale. Fiore invece, fondatore, è stato condannato negli anni 80 per associazione sovversiva e banda armata, latitante a Londra è tornato in Italia una volta prescritti quei reati". "Questo implica qualcosa per le sorti di queste persone", chiede Floris. "La recidiva vale solo per condanne passate in giudicato. In piazza sabato non c'è stata premeditazione ma organizzazione di reato in corso". Secondo molti commentatori Castellino, già oggetto di Daspo, poteva essere fermato: "Il Viminale però non è onnisciente, non ha la sfera di cristallo ed è anche molto difficile programmare l'ordine pubblico perché c'è il rischio di creare incidenti anche più gravi", spiega l'ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, difendendo Luciana Lamorgese. Sul reato di apologia di fascismo, sottolinea ancora Davigo, bisogna distinguere perché "la ricostituzione del Partito fascista (proibita dalla Costituzione, ndr) è nei fatti cosa abbastanza complicata". Diverso il discorso su Forza Nuova. "Lo scioglimento è possibile con una legge o un decreto del presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri".

Lo scioglimento dei partiti e la legge. La legge Scelba va usata solo per tentati golpe. Beniamino Caravita su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. I partiti politici, nell’ordinamento italiano, sono tutelati a livello costituzionale, genericamente attraverso l’articolo 18, che tutela la libertà di associazione, più specificamente ai sensi dell’art. 49, che riguarda la libertà dei cittadini di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Una disposizione costituzionale, collocata fra quelle finali e transitorie, prevede il divieto di ricostituzione del partito fascista, in evidente collegamento storico, istituzionale, finalistico con la genesi della Costituzione italiana, con il valore della Resistenza, con il giudizio che – anche attraverso il referendum del 1946– il popolo italiano diede del ventennio fascista. In attuazione della disposizione costituzionale fu approvata nel 1952 una apposita legge, la cosiddetta “Legge Scelba” dal nome dell’allora ministro degli Interni, che prevede, se ricorrono determinati presupposti, lo scioglimento di un partito qualora si sia di fronte alla ricostituzione del partito fascista. Titolare del potere di scioglimento è il ministro degli Interni, sentito il Consiglio dei ministri, sulla base di una sentenza di cui non è richiesto passaggio in giudicato ovvero, nel caso ricorrano gli estremi dell’art. 77 Cost., vale a dire un caso straordinario di necessità e urgenza, il Governo, con un evidente spostamento del livello di responsabilità politica. Sotto il profilo materiale, l’art. 1 della legge Scelba prevede che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». Da un punto di vista rigorosamente giuridico, nessun dubbio può essere nutrito sul fatto che si tratta di disposizioni di stretta interpretazione, incidendo su fondamentali diritti di libertà. Ne derivano tre ordini di conseguenze. In primo luogo, quale che sia il giudizio politico, la disposizione non può essere applicata per colpire movimenti di ispirazione egualmente totalitaria e autoritaria, caratterizzati dalla denigrazione delle istituzioni democratiche e da prassi violente, ma di ispirazione e matrice diverse da quella fascista. In secondo luogo, deve essere accertata in maniera rigorosa l’esistenza di quei presupposti materiali (qui soccorrono le tre decisioni giudiziarie già intervenute: il caso di Ordine Nuovo, sciolto nel 1973, quello di Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1976, e quello più recente del Fronte nazionale, sciolto nel 2000). Se si provvede direttamente con decreto legge, deve sussistere il caso straordinario di necessità e urgenza, accertato secondo i criteri più severi, non secondo le blande valutazioni a cui finora ci ha abituato in materia la Corte costituzionale e che hanno permesso la sostanziale emarginazione della produzione legislativa parlamentare. Occorre cioè che il governo, il presidente della Repubblica, in sede di emanazione, e poi comunque il Parlamento in sede di conversione del decreto legge, si assumano la responsabilità politica e giuridica di affermare che il pericolo costituito da Forza Nuova non è, almeno hic et nunc, affrontabile con gli ordinari strumenti preventivi e repressivi che l’ordinamento mette a disposizione. Fermo rimanendo che i presupposti materiali possono esistere (e allora viene da chiedersi perché nessuno abbia agito prima in tal senso), e impregiudicata rimanendo la risposta sull’opportunità politica di una simile iniziativa governativa, la questione giuridica che va posta è: siamo veramente sull’orlo di una situazione che, per giustificare un intervento extra ordinem, dovrebbe apparire paragonabile ad una sorta di colpo di stato o di guerra civile? Beniamino Caravita

Francesco Bechis per formiche.net il 13 ottobre 2021. Non chiamatela eversione. Luca Ricolfi non ci sta: sciogliere Forza Nuova e le altre organizzazioni estremiste che fomentano il malcontento di piazza contro il green pass e i vaccini è un precedente pericoloso, dice a Formiche.net il sociologo, professore ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino.  

Ricolfi, se non è eversione cos’è?

Parlare di eversione è una forzatura. La violenza di piazza è un fenomeno endemico in Italia e non ha targa politica. Destra, sinistra, anarchici, centri sociali, Casapound. E i no-Tav in Val di Susa, dove li mettiamo?  

Sulle chat di chi ha organizzato il caos a Roma si parlava di assalto al Parlamento. Questo non è eversivo?

Prendiamo la legge. Un atto è eversivo se determina un rischio concreto per le istituzioni democratiche. Non vedo questo rischio oggi. Ma le faccio un esempio dall’estero.

Prego.

In Germania esiste un partito neonazista, l’Npd. Ha perfino ottenuto un milione di voti, ora ne ha cento, duecentomila. Il Bundestag ha chiesto di scioglierlo, la Corte Costituzionale ha risposto di no, perché non pone un pericolo per l’ordine democratico. Se poi in Italia vogliamo proibire qualsiasi manifestazione di violenza con lo scioglimento, benissimo. Purché si dica apertamente.

L’assalto al Congresso americano di gennaio non è un monito anche per l’Italia?

Certo, ma il paragone regge poco. In quel caso si sarebbe dovuto sciogliere il Partito repubblicano, perché i manifestanti, piaccia o meno, erano sostenitori di Trump. Un esito evidentemente paradossale.

Però il problema rimane. Il vicesegretario del Pd Provenzano in un tweet ha detto che Fratelli d’Italia rischia di finire fuori dall’“arco democratico e repubblicano”. È un’esagerazione?

È preoccupante, molto. Giorgia Meloni ha dato una lettura di questo tweet: vogliono sciogliere Fdi, come a suo tempo volevano sciogliere l’Msi. Io ci vedo un passaggio ancora più pericoloso. 

Sarebbe?

Qui non si propone di sciogliere un partito, ma di escluderlo dalla dialettica democratica. Un boicottaggio in piena regola da qualsiasi posizione di potere. C’è una lottizzazione del potere fra i partiti e si decide di lasciare fuori l’unica opposizione esistente. 

Si chiama conventio ad excludendum. Per vent’anni l’hanno fatto con i comunisti e nessuno si è scandalizzato…

Attenzione. I comunisti erano esclusi dal governo centrale, non dal “sottogoverno”. Per decenni hanno concordato riforme, riempito posti di potere, seggi in Rai. Insomma, hanno partecipato senza problemi al banchetto del potere economico italiano.

Va bene, ma qui stiamo aggirando un punto. La destra italiana fatica a fare i conti con il suo passato? Da Lega e Fdi ci potrebbe essere una parola in più su queste frange?

Sì, siamo tutti d’accordo. Ma farei una distinzione. Salvini non ha problemi a fare i conti con la propria storia, la Lega di Bossi era antifascista. Quando nel 1994 fu proposto l’accordo con Berlusconi, tanti tentennavano perché rifiutavano di allearsi al Sud con Alleanza nazionale. Il problema, semmai, è che alcune frange estremiste, come Casapound, vedono nella Lega uno sbocco.

Come se ne esce?

Semplice. Salvini e Meloni devono dire ad alta voce: “Noi i vostri voti non li vogliamo”. Possibilmente prima, non dopo, che queste persone mettano a ferro e fuoco Roma. Potrebbero evitarsi un’analisi del sangue da parte della sinistra, che ha una certa allergia a fare i conti con il passato. 

A che si riferisce?

Qualcuno chiede alla sinistra di fare i conti? No. E sa perché? Perché in Italia nessuno chiede ai post-comunisti di rinnegare il comunismo. I fascisti sono considerati per i loro comportamenti, i comunisti per le loro intenzioni. Ha mai sentito chiedere a Marco Rizzo di condannare i crimini dell’Urss o della Cina? 

Quella piazza a Roma gridava no-pass e anche no-vax. Sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio scrive che il governo non può usare il green-pass per sopprimere l’articolo 1 della Costituzione, il diritto al lavoro. Lei che idea si è fatto?

Premessa: sono vaccinato, favorevole al vaccino e ritengo il green pass uno strumento utile. E sì, a questo giro sono d’accordo con Travaglio. Non si può arrivare al punto di togliere il lavoro a chi non vuole vaccinarsi. 

C’è chi risponde: quindi chi si vaccina sta dalla parte del torto?

Non è questione di torto o ragione ma di garanzie costituzionali. C’è una via d’uscita: i tamponi gratuiti. In altri Paesi lo hanno fatto.

Che ricadono sui contribuenti italiani, tutti.

Giusto così. C’è una ragione perché questo vaccino deve cadere sulle spalle dello Stato. A differenza di altri vaccini nel passato, è stato sperimentato per soli dieci mesi, sia pure su miliardi di persone. 

Quindi?

Quindi un trattamento sanitario del genere non si può imporre. Se fossimo sicuri, non dovremmo firmare un nulla osta ammettendo che non conosciamo gli effetti di lungo periodo. C’è il calcolo del rischio statistico, e da statistico sono il primo a farvi affidamento. Ma chi ha paura non può essere tagliato fuori dalla vita sociale.

"Sciogliere Fn, minaccia fascista". Ma Mattarella smentisce i dem: solo casi isolati. Fabrizio De Feo il 12/10/2021 su Il Giornale. Con il ballottaggio alle porte la temperatura dello scontro politico si mantiene alta. Il desiderio di polarizzare e riaccendere antiche contrapposizioni è palpabile. La frontiera del confronto diventa lo scioglimento di Forza Nuova e delle formazioni dell'estrema destra, con il Pd che presenta una mozione in tal senso. Emergenza democratica alle porte, insomma. Il tutto nel giorno in cui a Milano scattano le contestazioni contro la Cgil da parte dei Cobas e si scopre che decine di manifestanti fermati sabato sono riconducibili al mondo degli anarchici. Una realtà, insomma, più complessa di come è stata raccontata. E che Sergio Mattarella analizza senza incorrere in allarmismi fuori misura: «Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». Ma la sinistra tira dritto e la mozione per sciogliere Forza Nuova e «tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista» arriva in Parlamento. I parlamentari di M5s, Iv e Leu sottoscrivono in blocco. E il segretario dem Enrico Letta chiama tutti i partiti all'unità e lancia un appello perché lo scioglimento di Forza Nuova «sia vissuto come un gesto unitario e non di parte. Dopo i gravi fatti di sabato tutti si riconoscano in una decisione che rende attuale e viva la Costituzione», azzarda. Sullo sfondo si muove anche l'inchiesta romana. La polizia postale sequestra e oscura il sito internet di Forza nuova. Il reato ipotizzato è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici. Si muovono anche i leader di centrodestra. «Berlusconi ha avuto un colloquio telefonico con Meloni e Salvini» fa sapere una nota. «Al centro della conversazione la condanna per le violenze perpetrate a Roma come a Milano, di ogni colore, a danno del sindacato e delle forze dell'ordine e la necessità di una posizione - unitaria - del centrodestra in vista dei prossimi appuntamenti parlamentari e dei ballottaggi». E Salvini non ha problemi nel far sapere che «se ci sono movimenti che portano avanti le loro idee con la violenza, vanno chiusi a chiave. Come a Roma ne hanno arrestati di cosiddetta destra, a Milano di cosiddetta sinistra. Per me pari sono». Sulla mozione, invece, il centrodestra invita a evitare «strumentalizzazioni politiche» e fa sapere di non poterla votare. Forza Italia con Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini sottolinea che «non esistono totalitarismi buoni e cattivi, e per questo non è possibile sostenere la mozione del Pd. Ma proprio per dare un forte segnale di unità tutti i gruppi lavorino a una mozione contro tutti i totalitarismi». Giovanni Donzelli di Fdi, intervenendo a «Domani è un altro giorno», non si tira certo indietro rispetto alla matrice fascista. «Certo, chiunque attenti alla democrazia è contro di noi. Questi odiano più noi del Pd...». Donzelli poi fa notare il pericolo di far votare lo scioglimento di una forza politica. «In un sistema democratico esistono equilibri istituzionali importantissimi. Pensare di far votare il Parlamento è una deriva autoritaria gravissima. Lo scioglimento spetta normalmente alla magistratura e in casi di emergenza al governo».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021. È un mondo parcellizzato, quello dell'estremismo nero italiano. Tanti piccoli reucci e nessun vero re. Una condizione che porta turbolenza all'interno della galassia neofascista. L'obiettivo dei vari movimenti è riuscire ad acquisire la leadership. Ma questa condizione, nel frattempo, crea grande instabilità. Quindi conflitto e violenza. Ecco, allora, che serve mostrare i muscoli nelle manifestazioni per imporsi definitivamente sugli altri gruppi. E allora quale migliore vetrina se non le proteste contro il vaccino e il green pass. Ma tutto questo, però, non è sufficiente. In un mondo globalizzato non basta solo conquistare il neofascismo in Italia. Bisogna intessere alleanze con l'estremismo di destra europeo. L'internazionale nera. Ma se nel nostro Paese Forza Nuova fa vedere il volto aggressivo, al contrario, in Europa cerca partnership, appoggi e forse anche soldi, come emerge da una recente inchiesta dei carabinieri del Ros. «C'è una competizione nell'estrema destra tra Forza Nuova e Casapound per affermarsi come movimento egemone della galassia neofascista. Negli ultimi anni Cp aveva preso nettamente il sopravvento. Allora Fn, per riconquistare il terreno perso, ha iniziato a compiere una serie di atti violenti. L'assalto di ieri alla Cgil rappresenta il punto massimo di questa strategia. Un'azione su cui imprimere un inconfondibile marchio fascista per riprendere quota all'interno di quel mondo». A fotografare con lucidità l'attuale situazione è Francesco Caporale, magistrato esperto e scrupoloso, oggi in pensione, che ha ricoperto dal 2016 fino all'estate del 2021 la carica di procuratore aggiunto dell'antiterrorismo a Roma. «Questa escalation di violenza in capo ai forzanovisti - sottolinea Caporale - dura ormai da tre anni, il mio ufficio la stava monitorando». Occorre, però, capire in quale contesto si muovano gli uomini e le donne di Roberto Fiore, il segretario di Fn e Giuliano Castellino, il leader romano. «Quest' ultimo - spiega un investigatore al Messaggero - è diventato il frontman del partito perché Fiore ha troppi problemi con la giustizia, rischierebbe parecchio. Castellino, oggi, rischia meno. Non vengono contestati reati particolarmente pesanti. La cabina di regia è però sempre in mano a Fiore». Dalle carte dell'inchiesta dei carabinieri del Ros emerge la rete internazionale di contatti del movimento. Fiore viaggia per l'Europa, arriva fino al Medio Oriente, in Siria. A novembre del 2014 vuole organizzare una conferenza a Damasco in piena guerra civile. Un incontro con «le comunità mediorientali che sto riorganizzando come Aliance for Peace and Freedom», dice il segretario di Forza Nuova a un militante di Fn in una conversazione intercettata dai militari dell'Arma. Poi, a gennaio del 2015, Fiore vola in Grecia per far sentire la sua vicinanza al leader di Alba Dorata Nikolaos Michaloliakos, rinchiuso in carcere perché accusato di appartenere a un'organizzazione criminale. Un incontro talmente positivo che un forzanovista (intercettato dai Ros) sostiene che ora i vertici del partito di estrema destra greco «vogliono bene a Forza Nuova». Assieme a Fiore ad Atene, a trovare Michaloliakos, annotano gli investigatori, sarebbe andato anche un altro pezzo da novanta del neofascismo europeo. L'eurodeputato Udo Voigt eletto con il partito Nazionaldemocratico di Germania, nel 2012 condannato per sedizione a 10 mesi per aver lodato in un comizio le Waffen-SS. Ma non sono solo i forzanovisti a viaggiare in giro per l'Europa. Anche altri camerati vengono a Roma per suggellare alleanze. È il caso dei neofascisti polacchi arrivati nella Capitale a settembre del 2014 per far visita ai forzanovisti. L'incontro, si legge nelle carte della procura, avviene nell'allora sede romana del partito in via Amulio. Anche la questione russa e i nuovi equilibri europei suscitano l'attenzione del gruppo di estrema destra. Un militante di Fn, in una conversazione discute dei «rapporti crescenti del leader di Fn Fiore con altri politici russi». Ma «Salvini ci ha fregato i contatti con la Russia», si rammaricano gli uomini di Fiore al cellulare, »era il cavallo nostro». La necessità di intessere rapporti «di tipo economico/commerciale - sottolineano gli inquirenti - in particolare per la produzione di vino», risultava vitale per i nuovi scenari creatisi in Crimea. Il conflitto ucraino veniva inquadrato «meramente in chiave utilitaristica» con l'unico obiettivo di sfruttare la precaria situazione governativa e incunearsi nei centri di potere per ricavarne benefici economici. Sempre nel 2014 con un esponente di Fn, parlando dell'imminente viaggio in Crimea insieme a Fiore per un incontro col ministro dell'Agricoltura dice che andrà «per fare una cosa coi russi, per cercare di prendere la cittadinanza del nuovo governo della Crimea: il governatore è un amico di amici».

Tagadà, Roberto Castelli contro la sinistra: "Si indignano per Roma. Ma nemmeno una parola sul brigatista eletto". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "Insopportabile quello che sta accadendo in questi giorni perché è venuto alla luce il doppiopesismo della sinistra": l'ex senatore della Lega Nord, Roberto Castelli, ha commentato così le violenze e l'assalto alla sede nazionale della Cgil da parte dei no green pass sabato scorso. A tal proposito, ospite di Tiziana Panella a Tagadà su La7, ha ricordato un episodio ben preciso: "Voglio ricordare questo: alla Camera un po' di anni fa venne eletto con i voti della sinistra un brigatista. Ora tutti quelli che si stracciano le vesti - giustamente, perché non si devastano le sedi delle organizzazioni, siano essi partiti o altro - non mi pare che si stracciarono le vesti in quel caso, quando venne eletto un ex brigatista". Per Castelli, quindi, non bisogna fare due pesi e due misure. Quello dell'ex brigatista, inoltre, pare non sia stato nemmeno l'unico caso in cui è venuta fuori questa disparità di giudizio: "Io ricordo mille manifestazioni in cui sono stati devastati i centri urbani dalla sinistra, ricordo gli attacchi alle sedi della Lega per cui la sinistra non ha mai mosso un dito". Ecco perché poi alla fine del suo intervento, l'ex senatore leghista ha fatto un appello accorato a tutte le parti: "Per favore cerchiamo di condannare tutti i fascismi, tutti i totalitarismi e tutti gli squadrismi, non solo quelli che fanno comodo soprattutto a cinque giorni dalle elezioni". 

Da Hitler all’assalto alla Cgil: cos’hanno in testa? Chi sono i nuovi fascisti: vecchi, irrazionali e depressi. Franco "Bifo" Berardi su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Per gentile concessione delle Edizioni Tlon e dell’autore, anticipiamo qui di seguito ampi stralci della postfazione a “Come si cura il nazi”, saggio di Franco «Bifo» Berardi, ormai diventato un classico, che torna in libreria in versione aggiornata per la stessa casa editrice

Quando scrissi questo libretto, nel 1992, stavano emergendo due processi sulla scena del mondo: il primo era la proliferazione della rete digitale destinata nel medio periodo a mutare nel profondo l’economia e le forme di vita. Il secondo era la ricomparsa di una belva che per mancanza di concetti migliori definivamo fascista, e si era ripresentata nel continente europeo, in un Paese un tempo chiamato Iugoslavia, e si delineava all’orizzonte delle subculture anche in Gran Bretagna e perfino in Italia, che col fascismo credevamo avesse chiuso i conti per sempre. In apparenza i due fenomeni erano eterogenei, del tutto indipendenti. Ma non lo erano affatto a uno sguardo più attento, e a me interessava proprio l’interdipendenza che lavorava nel profondo della cultura, della psicologia sociale, della psicopatia di massa. A questa relazione fra i due processi allora emergenti è dedicato in gran parte questo libretto. Oggi che entrambe le tendenze si sono pienamente sviluppate, la loro interdipendenza appare più visibile. Nelle sue varie forme, spesso contraddittorie, l’ondata neo-reazionaria ha preso uno spazio centrale con il fiorire dei movimenti razzisti, nazionalisti, suprematisti che hanno avuto il loro punto più alto nella vittoria di Trump alle elezioni del 2016, ma non sono certo finiti con la sconfitta dell’uomo arancione nel 2020. Ma le manifestazioni di questa ondata neo-reazionaria sono talmente diverse, sorprendenti e assurde che spesso rischiamo di confondere le diverse figure del dramma, e di usare parole vecchie per parlare di fenomeni nuovi. Il movimento trumpista, ad esempio, ha dato vita a enunciazioni talmente assurde e a manifestazioni talmente demenziali che spesso si può supporre di trovarsi di fronte a messe in scena rituali, a grottesche rappresentazioni di consapevole disprezzo per la ragione. Ma proprio questa enigmatica sfida alla ragione è uno dei caratteri salienti di un movimento che esprime la progressiva (e forse irreversibile) discesa nella demenza di larga parte della società. Riconoscere il carattere demente e grottesco delle enunciazioni e delle azioni del movimento neo-reazionario non significa affatto sottovalutarne la pericolosità. Al contrario, dobbiamo capire che la demenza non è affatto un fenomeno marginale e provvisorio, ma è probabilmente un carattere destinato a espandersi poiché l’umanità sperimenta l’impotenza della Ragione di fronte agli effetti devastanti della Ragione medesima. La potenza della ragione umana ha generato mostri spaventosi come la bomba atomica, e quindi ci sentiamo umiliati dai prodotti della nostra stessa potenza, a tal punto che l’abbandono della ragione sembra essere la sola via d’uscita. Ai tempi in cui scrivevo questo libretto mi chiedevo come curare il nazi. Dunque consideravo il riemergere della belva come un effetto psicopatologico, e non ho alcuna ragione di ripensarci. I trumpisti col berrettino rosso e le corna da bisonte sono essenzialmente degli idioti, come lo sono i leghisti con lo spadone indignati per l’invasione dei marocchini, come lo sono i popolani inglesi che riaffermano l’orgoglio imperiale britannico barcollando di ritorno dal pub. Ma non possiamo considerare irrilevante la moltiplicazione del numero di idioti, perché anche le folle che marciavano nelle notti tedesche del 1933 erano folle di idioti. Forse piuttosto che di idioti dovremmo parlare di sonnambuli, come nella scena iniziale e in quella finale del film di Ingmar Bergman L’uovo del serpente: una folla di persone normalissime in bianco e nero cammina per strada, ma il loro incedere si fa sempre più barcollante e automatico, come se la folla metropolitana perdesse coscienza del suo esistere medesimo, trasformata in una folla di zombie. Il serpente è il capitalismo, e il suo uovo si schiude per generare la violenza di folle che hanno perduto il senso della propria esistenza, che non sono più capaci di percepire la collettività solidale né la singolarità della persona, e quindi si trasformano in indifferenziato “popolo”, in nazione, corpo collettivo solo capace di riconoscersi in un’origine, in una identità, in un’appartenenza, che per lo più è solo immaginaria, mitologica. Dunque non mi allontano dall’intuizione che ebbi nel 1992, ma adesso è tempo di mettere in chiaro alcune questioni terminologiche e concettuali che trent’anni fa erano difficili da focalizzare. Dobbiamo davvero definire “nazisti” o “fascisti” gli attori inconsapevoli della tragica farsa che si sta svolgendo in larga parte del mondo? La farsa del nazionalismo che ritorna, del razzismo che si incarognisce, la farsa delle retoriche militaresche e patriottarde? E inoltre: cosa è stato davvero il nazismo nella sua versione storica, e che rapporto c’è stato in passato tra nazismo e fascismo, e in che misura quel rapporto si ripresenta oggi? La sconfitta militare tedesca nel 1918 e l’impoverimento sociale conseguente generarono un sentimento di impotenza che nella Germania del primo dopoguerra prese la forma dell’odio contro coloro che erano considerati traditori della nazione (ebrei, comunisti) e che l’avevano consegnata all’umiliazione di Versailles. Dall’umiliazione collettiva emerse un Führer capace di riaffermare il destino del popolo tedesco: sottomettere il continente ed eliminare la malattia razziale e ideologica dal corpo sano della nazione. Similmente in Italia la convinzione di essere stati privati di una vittoria conquistata sui campi di battaglia alimentò l’ascesa di Mussolini. Non importa che la vittoria italiana fosse una menzogna assoluta, perché l’Italia era entrata in guerra con un tradimento delle alleanze preesistenti, e aveva accumulato una disfatta dopo l’altra. Come non importa che il mito tedesco della pugnalata alle spalle fosse una menzogna per nascondere il fallimento della vecchia classe militare prussiana. Non conta niente la storia, quando le folle si eccitano per la mitologia. Ma allora il problema è: in quale orizzonte si delinea la mitologia? Quale soggettività sociale esprime la mitologia? La soggettività sociale che esprime la mitologia del nazionalismo aggressivo nel XX secolo è quella di una popolazione prevalentemente giovane, e di nazioni emergenti nella scena dell’imperialismo occidentale. Germania, Italia, e, non dimentichiamolo, il Giappone, avevano questo in comune: erano nazioni giovani che ambivano ad affermare la propria potenza con la conquista militare e l’espansione imperialistica, come la Francia, e la Gran Bretagna avevano fatto nei secoli precedenti. Le folle che seguirono il duce italiano e il Führer tedesco, per parte loro, erano composte da giovani reduci, disoccupati, aspiranti conquistatori che credevano in un futuro garantito dall’esuberanza fisica e mentale di un popolo giovane. La follia del fascismo novecentesco era una follia euforica, esuberante. L’identitarismo aggressivo del XXI secolo, al contrario, è espressione di un mondo declinante, di popolazioni senescenti. Perciò nel movimento neoreazionario del XXI secolo emerge l’espressione di una demenza senile, di una depressione psichica senza speranze eroiche, ma piuttosto sordida, rancorosa, ossessionata dall’impotenza politica e dall’impotenza sessuale. La tesi del mio libretto di trent’anni fa appare dunque in qualche misura confermata: all’origine delle varie forme di identitarismo aggressivo ci sta la sofferenza. Ma i caratteri della sofferenza psichica non sono gli stessi oggi rispetto al Novecento. Questi caratteri sono mutati perché l’Occidente è entrato nel suo declino irreversibile, e perché l’esaurimento si disegna come prospettiva generale del pianeta: esaurimento delle risorse, esaurimento delle possibilità di espansione economica, esaurimento dell’energia psichica. Questa è solo la prima parte della storia. Poi c’è la seconda, che nel mio libretto d’antan manca completamente e che ora emerge invece con brutale chiarezza. Di che sto parlando? Sto parlando del fatto che l’esperienza che abbiamo fatto nei primi decenni del XXI secolo ci obbliga a rivedere la periodizzazione del secolo passato. Siamo stati abituati a pensare che nel Novecento si sia svolta una battaglia gigantesca nella quale si distinguono tre attori principali: il comunismo, il fascismo e la democrazia. Questa visione della storia novecentesca è legittima, se ci poniamo dal punto di vista degli anni Sessanta, del trentennio glorioso in cui borghesia e classe operaia realizzarono un’alleanza progressiva. Ma da quando, nel 1973, un colpo di Stato nazista venne ordito contro il presidente cileno Salvador Allende con la collaborazione attiva del segretario di Stato degli Stati Uniti, e con la consulenza scientifica degli economisti della scuola di Chicago, da quando quel colpo di Stato spianò la strada all’affermazione dapprima locale, poi occidentale, poi globale dell’assolutismo capitalistico, autoproclamatosi democrazia liberale, le cose hanno cominciato a presentarsi sotto un’altra luce. Nella nuova luce a me pare di vedere che gli attori non sono mai stati tre, ma sempre due: il dominio assoluto del capitale (in forme democratico-liberali o in forme nazional-suprematiste) è il primo attore, il secondo è l’autonomia egualitaria della società, il movimento del lavoro contro lo sfruttamento. Certo, è vero che il nazismo e la democrazia liberale si scontrarono tra loro nella più cruenta delle guerre, ed è vero che dalla seconda guerra mondiale in poi la democrazia liberale ha dovuto incorporare forme economiche e culturali del socialismo. Certo, i trent’anni dell’alleanza socialdemocratica tra capitale progressivo e movimento sindacale e politico dei lavoratori sono stati una parentesi lunga di contenimento degli istinti animali del capitalismo. Ma non era che una parentesi, appunto, e non appena il capitale ha intravisto il pericolo di un diffondersi del potere operaio, e dell’autonomia sociale egualitaria, il suo istinto si è manifestato nella sola maniera in cui si poteva manifestare: ristabilendo il patto di acciaio con il nazismo. Il contrasto fra democrazia liberale e sovranismo aggressivo, che sembra fortissimo negli anni della presidenza Trump, non è in effetti che una messa in scena piuttosto labile. Certamente gli elettori di Trump o di Salvini si sentono umiliati dalla violenza economica del capitale assolutistico finanziario. Ma non vi è alcuna strategia di fuoriuscita dal capitalismo nel sovranismo delle destre, e infatti coloro che abusivamente si definiscono come “populisti” una volta al governo perseguono politiche di totale dipendenza dal capitale finanziario, di riduzione delle tasse per i ricchi, di piena mano libera sulla forza lavoro. Credo che non si sia mai tentata un’analisi spregiudicata di ciò che accomuna profondamente nazismo e neoliberismo, parola edulcorata ed equivoca con cui si intende l’assolutismo del capitale. Il cosiddetto “neoliberismo” infatti afferma che la dinamica economica è autonoma dalla regola giuridica, perché la legge della selezione naturale non può essere contenuta da nessuna volontà politica. Naturalmente in questa pretesa arrogante c’è un nucleo di verità scientifica che la sinistra ha generalmente sottovalutato, e prende nome di darwinismo sociale. Ma proprio in questo nucleo di verità scientifica, riducibile alla formula “nell’evoluzione naturale prevale il più forte, o meglio il più adatto all’ambiente”, si trova la ragione di un’alleanza obiettiva tra neoliberismo e pulsione nazista mai definitivamente cancellata. Come negare la verità dell’assunto evoluzionista, che in fondo è un puro e semplice truismo, una verità auto-evidente? L’ovvia constatazione che il più forte vince, viene tradotto in una strategia politica per effetto di un paralogismo, di una dimenticanza, o di una menzogna. Si omette semplicemente il fatto che la civiltà umana si fonda proprio nello spazio aperto dal salto dalla natura alla sfera della cultura. E si omette il fatto che Darwin non ha mai preteso di estendere il suo modello esplicativo alla società umana. E infatti la civiltà umana si trova in estremo pericolo nel momento attuale, dopo quaranta anni di dominio neoliberale, di devastazione sistematica dell’ambiente planetario, di impoverimento sociale e decadimento delle infrastrutture della vita pubblica. In questa situazione di estremo pericolo per la civiltà umana stessa, nel momento in cui la dimensione della libertà politica scompare nelle maglie sempre più strette dell’automatismo tecnico e dell’assolutismo capitalistico, ecco emergere di nuovo la soggettività rabbiosa, un tempo euforica e oggi depressa, un tempo isterica e oggi demente che solo a prezzo di una imprecisione (perdonabile) possiamo chiamare “fascismo”. Si rimodula quindi anche la relazione tra fascismo e nazismo. Già nel XX secolo il nazismo fu la manifestazione organizzata di una volontà di potenza suprematista, l’espressione di una cultura che si considerava superiore per ragioni storiche, etniche, ma anche per ragioni culturali, e tecniche. Il nazismo, come il cosiddetto “neoliberismo”, sono espressione dell’arroganza dei vincitori. Il fascismo novecentesco aveva un carattere diverso, perché era espressione, talora petulante talora rabbiosa, di una cultura considerata inferiore (gli italiani e i mediterranei in generale occupavano una posizione intermedia tra la razza eletta e i popoli decisamente inferiori, nell’immaginario razzista del Terzo Reich). La potenza tecnica ed economica del Paese di Mussolini non era paragonabile alla potenza dei Paesi “demoplutocratici”, e neppure della Germania di Krupp e di Thyssen. Allo stesso modo nel movimento neoreazionario del XXI secolo si deve distinguere il nazismo dei vincitori, che si incarna particolarmente nella cultura del ceto tecno-finanziario, dal Fascismo dei perdenti. Razzismo e xenofobia si manifestano in maniere diverse nella cultura dei vincenti nazi-liberisti e in quella dei perdenti sovranisti e fascistoidi. Per questi ultimi è volontà di esclusione, di respingimento se non di sterminio, mentre nuove ondate di migrazione sono continuamente suscitate dalle guerre, dalla miseria, dai disastri ambientali provocati dal colonialismo passato e presente. I vincenti nazi-liberali vedono di buon occhio le migrazioni, purché i migranti non pretendano di istallarsi nei quartieri alti, e accettino le condizioni di lavoro che vengono loro imposte dai tolleranti liberal à la Benetton. Per i fascistoidi identitari delle periferie i migranti sono un fattore di concorrenza sul lavoro e un pericolo quotidiano. La classe dirigente democratico-liberale predica la tolleranza ma costruisce alloggi per migranti nelle periferie povere, non certo ai Parioli o in via Montenapoleone. Per questo il razzismo attecchisce tra i miserabili delle periferie, mentre ai quartieri alti si tratta con cortesia la serva filippina. Il razzismo non è un cattivo sentimento dei maleducati rasati a zero che si ritrovano negli stadi a gridare slogan dementi, ma qualcosa di molto più profondo e di molto più organico: esso si radica nella storia di secoli di colonizzazione, sottomissione schiavistica, estrazione delle risorse dei Paesi colonizzati. E quella storia non è affatto conclusa. Non è possibile emanciparsi dal razzismo fin quando non si riconosce che la miseria dei Paesi del Sud è il prodotto dello sfruttamento bianco, e che questa miseria continuerà a provocare miseria, disperazione, emigrazione fin quando non saranno state rimosse le conseguenze del colonialismo e dell’estrattivismo. Ma rimuovere quelle conseguenze non sarà possibile fin quando l’assolutismo del capitale continuerà a essere la forma generale dell’economia del mondo. Forse dunque non sarà possibile mai. Trent’anni fa mi chiedevo come sia possibile curare il nazi. Ora mi sembra di dover dire che è stato il nazi a curare noi, per guarirci dell’infezione che ci rendeva umani. Al punto che se un tempo pensavamo che non avremmo accettato di convivere con il fascismo, ora siamo tentati di chiederci se il fascismo vorrà convivere con noi. Franco "Bifo" Berardi

Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. Scioglimento di Forza Nuova, i precedenti: da Ordine Nuovo a Avanguardia Nazionale e Fronte Nazionale. David Romoli su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. La settimana prossima le Camere discuteranno e voteranno le mozioni che chiedono al governo di sciogliere Forza Nuova, il gruppo neofascista più attivo e soprattutto più vistoso nelle manifestazioni No Vax e No Green Pass, indicato come artefice dell’assalto alla sede della Cgil. Alla Camera c’è una sola mozione, presentata dal Pd e sottoscritta da tutti. Al Senato, dove il Pd ha presentato la sua mozione in anticipo rendendo così impossibile concordare il testo con gli altri affini ce ne sono quattro, sostanzialmente identiche nel dispositivo, anche se quella di LeU, firmata anche da Liliana Segre, estende la richiesta di scioglimento ad altre due organizzazioni, Casapound e Lealtà Azione. Alcuni dei firmatari delle mozioni avrebbero preferito tempi più rapidi. Il governo ha preferito rallentare, alla ricerca di una via d’uscita dal dilemma in cui lo porrebbe l’approvazione. Lo scioglimento di formazioni neofasciste, ai sensi della legge Scelba del 1952 che, dando attuazione alla disposizione costituzionale transitoria, punisce la ricostituzione del Partito fascista, è stato già disposto tre volte nella storia repubblicana: contro Ordine nuovo nel 1973, contro Avanguardia nazionale nel 1976 e contro il Fronte nazionale nel 2000. In tutti i casi, però, i governi si erano mossi dopo una sentenza della magistratura che, sia pure solo in primo grado, aveva emesso condanne per violazione della legge Scelba e, nel caso del Fronte nazionale, della legge Mancino del 1993, che ha reso fattispecie di reato anche la propaganda razzista. Stavolta invece si chiede al governo di procedere per decreto anche in assenza di una sentenza. La legge Scelba lo consente, ma solo in casi di straordinaria necessità e urgenza. Draghi esita, comprensibilmente, a considerare eccezionalmente urgente lo scioglimento di una formazione minore, ancorché rumorosa, di estrema destra. In realtà l’allora ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, uno degli “uomini forti” della Dc, più volte ministro della Difesa, rivendicò nel 1974 il merito di aver deciso lo scioglimento di Ordine nuovo, un anno prima, prescindendo dalla magistratura: «Fu un atto politico: perché i giudici discutevano se la sentenza del Tribunale, non essendo definitiva, fosse sufficiente presupposto dell’atto governativo». La sentenza contro il Movimento politico Ordine nuovo era stata emessa il 21 novembre 1973. Era la prima volta che la legge Scelba veniva applicata a un’intera organizzazione. Fu una sentenza molto pesante: 30 condanne, 10 assoluzioni, 2 posizioni stralciate tra cui quella di Sandro Saccucci, che fu condannato più tardi. Il leader di On, Clemente Graziani, fu condannato a 5 anni e mezzo e si rese latitante, come tutti gli altri leader condannati. Due giorni dopo il ministro Taviani, sentito il consiglio dei ministri, firmò l’ordine di scioglimento. Aldo Moro non partecipò alla riunione, in segno di protesta contro la decisione che, a suo parere, somigliava più ai provvedimenti della giustizia fascista che di quella antifascista.

Il Movimento politico Ordine nuovo era nato nel dicembre 1969, dopo lo scioglimento del Centro studi Ordine nuovo fondato 13 anni prima da Pino Rauti. Dopo l’ascesa di Almirante alla segreteria del Msi Rauti era rientrato nel partito con molti altri dirigenti e militanti. Graziani aveva dato vita al Movimento politico. La divisione era però più profonda. Rauti, in nome dell’anticomunismo, aveva aderito alla politica atlantista mettendo da parte l’antiamericanismo delle origini e, come avrebbe lui stesso ammesso decenni più tardi, si era schierato a favore di un eventuale colpo di Stato militare. Graziani e il Movimento ritenevano che un colpo di Stato sarebbe stato “controrivoluzionario”. Per questo Ordine nuovo non aderì al tentativo di golpe organizzato nel dicembre 1970 da Junio Valerio Borghese. L’inchiesta su On era iniziata nel gennaio 1971, condotta dal magistrato Vittorio Occorsio. Al processo gli imputati, difesi da uno dei principali avvocati della destra italiana, Nicola Madia, si rifiutarono di rispondere, consegnando invece una memoria difensiva: “Processo alle idee”. Non era un titolo eccessivo. L’atto di accusa si basava sulla somiglianza tra citazioni dell’età del fascismo o spezzoni di discorsi di Mussolini e documenti e volantini di On. Le violenze materiali contestate, nel clima dell’epoca, erano insignificanti. Un pestaggio, una manifestazione di fronte a una sezione del Pci, una sassaiola contro la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, a Roma. Un secondo processo si svolse a partire dal 1974 a Roma. Lo scioglimento, nonostante Graziani sperasse di poter proseguire l’attività di On in clandestinità, mise fine alla lunga parabola del principale gruppo della destra radicale in Italia. Alcuni dei militanti scelsero la via delle armi e tra questi Pierluigi Concutelli, che nel 1976 uccise il pm che aveva guidato all’accusa nei processi contro On, Vittorio Occorsio. Di certo l’esplosione e la frammentazione di un gruppo che, nonostante l’aura di sinistra leggenda, aveva in realtà responsabilità penali molto minori di quanto non ci si immagini oggi, impresse una spinta drastica verso la militarizzazione della destra radicale negli anni ‘70.

Nel 1976 fu il turno di Avanguardia nazionale, il secondo gruppo per importanza della destra extraparlamentare. Era il prodotto di una scissione di On. I giovani che non si accontentavano del ruolo di Centro studi e volevano passare all’azione fondarono nel 1959 Avanguardia nazionale giovanile. Sciolta nel ‘66, l’organizzazione si formò di nuovo nel 1970, guidata da Adriano Tilgher. Molto più coinvolta di On nelle battaglie di strada, presente in forza a Reggio Calabria nei mesi della più lunga rivolta urbana della storia recente, colonna del partito del golpe e la vera truppa del tentato colpo di Stato Borghese, probabilmente legata all’Ufficio affari riservati del Viminale, An era nel ‘76 ridotta all’osso. Pochi dirigenti, pochissimi militanti. La condanna per violazione della legge Scelba arrivò nel giugno 1976. Il fondatore, Delle Chiaie, era da anni all’estero, prima in Spagna, poi nel Cile di Pinochet. Furono condannati a pene minori di quelle chieste dall’accusa 30 imputati su 64 indagati. Un giorno prima del decreto di scioglimento, Tilgher anticipò la decisione del governo sciogliendo lui il gruppo.

Passarono 24 anni prima che venisse sciolto un terzo gruppo con poche decine di militanti, il Fronte nazionale ispirato da Franco Freda (che nonostante la mitologia non aveva mai fatto parte di On). In questo caso la condanna e il successivo decreto di scioglimento furono dovuti a violazione della legge Mancino. Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. I decreti degli anni ‘70, al contrario, ebbero un ruolo notevole nel determinare a fine decennio l’esplosione del terrorismo nero, in particolare dei Nar. Non perché tra questi gruppi e quelli della generazione precedente ci fossero nessi diretti ma perché il clima che si era creato era ormai quello della contrapposizione estrema e poi armata con lo Stato. David Romoli

 "Questo è un plotone contro la Meloni". Crosetto lascia lo studio di Formigli. Marco Leardi il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'imprenditore ha lasciato la trasmissione di La7 in aperta polemica. "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia", ha detto prima di abbandonare la diretta 

"Questo è un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra". Così, ieri sera Guido Crosetto ha deciso di abbandonare lo studio di Piazzapulita, dove da più di un'ora si stava discutendo della controversa inchiesta di Fanpage su Fratelli d’Italia e Lega. Nello studio di La7, i toni del confronto e dei servizi trasmessi erano palesemente monocordi, ostili ai suddetti partiti e ai loro leader. Dunque – arrivato il momento di prendere la parola – l’imprenditore ed ex sottosegretario alla Difesa ha preferito andarsene in aperta polemica con l'impostazione del talk show. "Io ascolto da un’ora la trasmissione. Man mano che la sentivo andare avanti mi chiedevo: 'Che cosa ci faccio qua? '. Perché io ho una grandissima stima nei confronti del giornalismo, ancora più della politica con la p maiuscola e della democrazia. E penso che la democrazia si fondi sul confronto, non sui plotoni d’esecuzione. Quando vedo dei plotoni d’esecuzione dico che sarebbe giusto che si difendessero le persone che poi vengono uccise", ha dichiarato Crosetto, unico ospite in studio a prendere le difese di Giorgia Meloni e del centrodestra. Davanti a lui, la sardina Mattia Santori (ora tra le fila del Pd) e il vicesegretario dem Giuseppe Provenzano, che nei giorni scorsi aveva addirittura definito la leader di Fratelli d’Italia "fuori dall’arco democratico". Poco prima, in apertura di trasmissione, aveva preso la parola pure Romano Prodi. Incalzato dal conduttore Corrado Formigli, che lo invitava a spiegare meglio la propria contestazione, Crosetto ha aggiunto: "Il plotone d’esecuzione è quello che è stato sinora la trasmissione, nei confronti di Giorgia Meloni e dell’intero centrodestra (…) Io sono inadatto nel recitare il ruolo di foglia di fico e faccio l’unica cosa che può fare una persona che si sente inadatta. La saluto, mi scuso e me e vado". A quel punto, l’imprenditore si è alzato dal tavolo della discussione e si è incamminato verso l'uscita dello studio. Trattenuto con fastidio dal padrone di casa, che gli rinfacciava di aver voluto fare una "uscita di scena teatrale", Crosetto ha tenuto il punto. E ha ribadito: "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia, secondo me". Poco più tardi, mentre in diretta su La7 proseguiva la discussione, l’ex sottosegretario alla Difesa è tornato a motivare il suo gesto con un tweet. "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita", ha scritto.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista. 

PiazzaPulita, Guido Crosetto abbandona lo studio: "Plotone d'esecuzione contro Meloni, me ne vado". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. Guido Crosetto inaspettatamente abbandona lo studio di PiazzaPulita durante la diretta del programma su La7 del 14 ottobre per protesta: "Cosa ci faccio qui? Non è giornalismo. Ho sbagliato io a venire qui da libero cittadino e libero pensatore. Secondo me la trasmissione è stata un plotone d'esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Non voglio fare la foglia di fico.". Quindi, rivolto a Corrado Formigli: "La saluto, mi scuso e me ne vado". Il fondatore di Fratelli d'Italia, che ha detto addio alla politica tre anni fa e oggi fa l'imprenditore, si è irritato per la puntata dedicata in parte ancora all'inchiesta di Fanpage sulle vicende legate alla campagna elettorale delle comunali di Milano e alla condotta di esponenti del centrodestra, compreso l'europarlamentare di Fdi Carlo Fidanza. "Sono inadatto e me ne vado". "Mi sembra una scena teatrale, mi dispiace, non mi pare sia accaduto nulla di grave. Abbiamo invitato Giorgia Meloni fino all'ultimo momento. Non rincorro gli ospiti", ribatte Formigli. Quindi interviene Alessandro Sallusti: "Si sta facendo passare Fratelli d'Italia come un partito di corrotti. Un marziano, se avesse visto la trasmissione, avrebbe pensato che Fratelli d'Italia è un covo di briganti e di corrotti. Il problema è far passare il primo partito di questo paese come una banda di disperati", chiosa il direttore di Libero. Crosetto torna poi sulla questione con un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita".

"Ho lasciato gli studi di Piazza Pulita: plotone di esecuzione contro la Meloni". Fabrizio De Feo il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il j'accuse del cofondatore di Fdi: "Stavano costruendo un teorema in tv". «Credo che la democrazia si fondi sul confronto e non sui plotoni di esecuzione. Qui ho visto un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Ho lasciato la politica perché mi sentivo al di sopra di questo modo becero di farla. Mi sento inadatto a fare la foglia di fico. Per questo faccio l'unica cosa che può fare una persona quando si sente inadatta: la saluto, mi scuso e me ne vado». Con questo j'accuse Guido Crosetto, fondatore di Fdi giovedì ha abbandonato gli studi di Piazza Pulit a La7.

Come è maturata la sua decisione?

«Ho ascoltato per mezz'ora il monologo di Corrado Formigli e del direttore Cancellato sulla risposta data da Giorgia Meloni all'inchiesta di Fanpage. A quel punto è stata data la parola a Lilli Gruber che indossava le vesti di arbitro del bene e del male, per arrivare poi alle conclusioni di Prodi. Nel mirino c'era un unico obiettivo: Giorgia Meloni, tirata in ballo per fatti in cui evidentemente non c'entra nulla. Mentre aspettavo non potevo fare a meno di pensare che mi trovavo di fronte a una impostazione inaccettabile per chiunque, per Conte, Letta o Renzi. La trasmissione non stava facendo informazione corretta ed imparziale ma stava semplicemente costruendo un teorema».

Quale sarebbe stata l'impostazione giusta?

«Io credo che il conduttore debba fare l'arbitro tra due interlocutori, non diventare parte in causa».

Non sarebbe stato più giusto controbattere a quelle tesi?

«Dopo un'ora, in 3 minuti? Non ho nulla contro Corrado Formigli, sono stato suo ospite e certo non perdo il rispetto per lui. Ma ritengo si possa portare civiltà anche in un dibattito politico. Giorgia Meloni fino a pochi mesi fa veniva descritta come la faccia buona del sovranismo, ora visti i sondaggi è diventata una Mussolini in gonnella o un Hitler in sedicesimo. Con queste iperboli la si espone al rischio che qualche pazzo possa sceglierla come obiettivo, lei che, in un Paese in cui hanno scorte e tutele anche quelli che si spediscono da soli un proiettile, non ha mai voluto la scorta».

Lei fa politica da molti anni, sa bene che l'evocazione del fascismo è uno spartito consueto da circa 28 anni.

«Ho visto anch'io il titolo di un giornale del 1993 su Berlusconi fascista. Sì, la riesumazione del pericolo nero è un classico pre-elettorale, ma francamente applicarlo a una donna di 44 anni che da anni ha un atteggiamento molto fermo verso qualunque forma di nostalgismo è un po' deprimente. Conosciamo bene queste artiglierie sperimentate per distruggere, ma non è detto che sia scontato abituarcisi e fare finta che sia tutto normale. Gli avversari di Giorgia Meloni dovrebbero cercare di combatterla sui contenuti, non cercando di delegittimare lei».

C'è un elemento di autocritica che si sente di fare rispetto alle prese di posizione di Fratelli d'Italia di queste settimane?

«I movimenti di destra esistono così come i loro tentativi di usare Fdi come veicolo. L'attenzione è alta, a volte si può fare meglio, a volte peggio, ma pensare che i leader di partito possano avere responsabilità per episodi o atteggiamenti che avvengono in periferia è lunare. Qualche giorno fa è stato eletto un consigliere circoscrizionale della lista Manfredi a Napoli che sul suo profilo Facebook ha riferimenti al Ventennio. Nessuno, giustamente, ne ha chiesto conto a Manfredi o a Letta. Se fosse stato di Fdi avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con la Meloni? Questa comunicazione è il modo per tenere ferma la democrazia. La sinistra preferisce vincere spaventando il proprio elettorato piuttosto che confrontarsi sulle idee». Fabrizio De Feo

Che vergogna il bullismo televisivo. Davide Bartoccini il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'epoca in cui viviamo, il bullismo si combatte a scuola ma si insegna in televisione. E nessuno, professore, politico o giornalista, darebbe la vita - come Voltaire - per permettere a chi che sia di contraddirlo. Non so quando sia iniziato né perché. Non so come gli editori lo consentano, né perché i conduttori televisivi, nella maggior parte dei casi giornalisti fin troppo navigati sempre appellatisi alla democrazia e alle più buone maniere, lo esercitino senza pudore; ma finiamo sempre più spesso con l'assistere a imbarazzanti siparietti che sfociano nel "bullismo televisivo" che scandisce quest'epoca. E francamente è vergognoso. Fa bene dunque un Guido Crosetto, che giovedì si è riconfermato un sobrissimo gentiluomo, ad abbandonare un talk televisivo dove il copione scritto dagli autori poteva e doveva avere un solo epilogo: mettere nell'angolo l'unico contraddittorio presente in studio, sapendo che l'altrettanto gentiluomo, sempre sobrio e rispettoso nei toni, Alessandro Sallusti, non si sarebbe messo a fare la fronda dell'ultimo dei mohicani. Destrorso chi scrive? Ma per favore. Difensore di Giorgia Meloni, detrattore dei giornalisti che in "tre anni di barbe finte", come hanno scritto sul Riformista, hanno "svelato" le malefatte del Barone Nero? Ma per carità. Non è una questione di "vittimismo da camerati", come scherzano sui social. È una questione di coerenza e onestà intellettuale: non si possono continuamente camuffare da talk televisivi delle trasmissione disegnate per "moralizzare" metodicamente la propria audiance. Alle lunghe i non maoisti sono costretti a cambiare canale. Le altre emittenti, per bilanciare le forze, a costruire gli stessi siparietti al contrario, e chiunque abbia conservato un po' di buon gusto, a spegnere il televisore e ad aprire un libro. Questo j'accuse potrà apparire banale, anche fuori tempo, perché è da anni che si consumano queste pantomime. Ma la pandemia che ci ha costretti a guardare più televisione del necessario, e tutto il dibattito tra vaccinisti coatti e no-vax da protesi di complotto, sembrerebbe aver alzato il livello di spocchia di un'ampia schiera di conduttori e ospiti che in virtù delle loro competenza - chi gliele nega per carità - vogliono apparire senza essere contraddetti come dei narratori onniscienti e non come quello che dovrebbero in vero essere: moderatori e interlocutori accreditati. Chi viene chiamato in una trasmissione, in presenza o in collegamento esterno, dovrebbe essere in primis ascoltato, e poi rispettato, anche dovesse abbandonarsi al delirio. Senza dover ripetere l'immancabile "Non mi interrompa perché io non l'ho interrotta" che ormai occupa metà nel minutaggio delle trasmissioni. E senza che il conduttore s'innalzi a paladino della lotta alle fake news: se ti colleghi con un terrapiattista, quello a domanda risponderà che la "terra è piatta". Risibile? Non obietto. Ma neppure si può deriderlo in diretta. Altrimenti è un evidente caso di bullismo. E noi siamo tutti contrari al bullismo no? Facciamo corsi per estirpare il problema nelle scuole e poi lo consentiamo in televisione tra gli adulti con lauree, cattedre e ministeri? Eh no. Così non va. Oggi per esempio, giornata di fuoco per l'opinionismo data l'entrata in vigore nel Green pass per i lavoratori di tutti i settori, ho sentito un ospite del quale non ricordo il nome, che derideva a microfono aperto un camionista che aveva detto di chiamarsi Sirio, e che non si è vaccinato per scelta. Gli diceva ghignando: "Sirio, ma che vivi su una stella?" E poi rincarava con una doppia dose di classismo: "Si vede che sei uno scienziato". Gli altri del "plotone d'esecuzione opinionistico", come siamo ormai abituati a vedere, scuotevano la testa ad intervalli regolari scambiandosi battute ed encomi. Ecco, se non è bullismo questo. Chissà dov'è finito quello spirito voltariano del "Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo". Forse nei vecchi palinsesti. Nelle vecchie trasmissioni. Nell'epoca del tubocatodico e dei telecomandi Mivar dello zapping fantozziano. Tempi più civilizzati.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nomina

Giorgia Meloni, fango di Repubblica: "Gli effetti del sabato fascista", ai limiti della legge. Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Secondo Repubblica il “sabato fascista” della scorsa settimana a Roma starebbe frenando l’ascesa di Giorgia Meloni. Tesi però che viene mezzo smentita da Repubblica stessa, dato che riporta il sondaggio Swg realizzato per il TgLa7 di lunedì, dal quale è emersa ben altra realtà: ovvero che Fratelli d’Italia - nonostante l’inchiesta di FanPage e i più recenti fatti romani - è ancora il primo partito nazionale al 21 per cento, con un punto di vantaggio sulla Lega e sul Pd. “Qualsiasi cosa faccia - avrebbe ironizzato la Meloni con la sua cerchia - qualsiasi cosa io tocchi diventa fascismo. Sono una specie di Re Mida mussoliniano”. Una battuta per sdrammatizzare un momento pesante a livello personale e di partito, con gli attacchi che piovono costanti da tutte le direzioni, in particolare da sinistra. Quando ha visto il sondaggio Swg, la leader di Fdi sarebbe rimasta piacevolmente sorpresa e avrebbe confidato ai suoi che “con la campagna di delegittimazione che ci hanno fatto mi aspettavo un tracollo. Evidentemente la gente non è così stupida come pensa la sinistra”. “Prima Berlusconi, poi Salvini e infine Meloni… curiosamente diventa sempre impresentabile chi è in testa”, sarebbe stato il senso del discorso della leader di Fdi. Ora però arrivano i ballottaggi, e soprattutto quello di Roma è molto importante per la Meloni: per questo ha attaccato in aula la ministra Lamorgese, avvertendo una “strategia della tensione” per condurre alla sconfitta il suo candidato, Enrico Michetti. In ogni caso Giorgia sarebbe convinta di non essere davanti a un bivio: una volta passata la tempesta, e anche in caso di sconfitta a Roma, sarà ancora artefice del suo destino politico.

Alessia Morani, vergogna senza precedenti: "Una molotov alla Cgil e la Meloni..." Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Alessia Morani tocca il fondo. La deputata del Partito democratico con un tweet affianca il nome di Giorgia Meloni a una notizia di cronaca. "Queste immagini arrivano da Jesi. Pare abbiano piazzato una molotov alla sede della Cgil. Aspettiamo di capire cosa è accaduto ma credo che i distinguo di questi giorni e le accuse della Meloni al Viminale siano molto gravi. Il clima è preoccupante e serve responsabilità". Un cinguettio che manda la leader di Fratelli d'Italia su tutte le furie. Ed ecco la replica: "Cosa ne pensa Letta di questo modo indegno di fare propaganda da parte del suo partito?". Semplice: il leader dem non ha ancora proferito parola, mentre la Morani rincara invece la dose: "Ribadisco: le accuse della Meloni nei confronti del Viminale sono gravissime. Mi auguro che prima o poi comprenda la responsabilità che ha nei confronti del Paese".  Insomma, una vera e propria guerra contro la leader di FdI. Giusto qualche giorno fa Beppe Provenzano, altro esponente del Pd, aveva detto che la Meloni è fuori dall'area democratica. Una frase che ha fatto pensare a FdI a un chiaro suggerimento di sciogliere il partito. "Il che - aveva commentato la Meloni - a norma di legge significa che anche noi, primo partito italiano, andremmo sciolti. Magari con il voto a maggioranza di Pd e 5Stelle in parlamento, capito? Il primo partito italiano va sciolto perché lo ha deciso il Pd, questo è il gioco".

Manifestazione dei sindacati a San Giovanni: selfie, Bella ciao e operai in tuta tra Letta e Di Maio. «Su questo palco c’era Berlinguer».  Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Nella piazza blindata, striscioni e bandiere arcobaleno: prove generali di un «Ulivo Bis». Lo sguardo scorre sulla folla. Massiccia, forte ma non nervosa, e però consapevole, ostinata, questo sì. Nel cielo limpido centinaia di palloncini (rossi, verdi e azzurri, come i colori dei tre sindacati) galleggiano allegramente su una scena piena di striscioni e bandiere arcobaleno, pugni chiusi e Bella Ciao, Resistenza, i metalmeccanici sono venuti con la tuta, i disoccupati con i loro cartelli, le mamme con i bambini, i giovani accanto agli anziani che raccontano di quando lassù c’era Enrico Berlinguer, molta tenerezza, molta luce. Piazza San Giovanni: un pomeriggio di antifascismo martellante, vivo, attuale; in dissolvenza, da qualche parte nella mente e nel cuore di tutti, le immagini delle squadracce nere, del canagliume che, sette giorni fa, esattamente a quest’ora, assaltò la sede della Cgil, indifesa. Nel dubbio, nonostante il Viminale stavolta abbia organizzato le cose per bene, agenti e carabinieri in quantità, e i blindati, e gli elicotteri che volano bassi, è tornato a schierarsi anche il leggendario servizio d’ordine della Fiom.

Transenne. Sottopalco. Capire chi c’è. 

Ecco Enrico Letta. Il segretario del Pd arriva a piedi e cerca subito Maurizio Landini. Fotografi e cameraman, eccitati, in semicerchio: tra i due un abbraccio lungo, sinceramente affettuoso; poi si aggiunge Pier Luigi Bersani, dicendo una cosa nell’orecchio di Landini. («Anche negli anni Settanta, in una stagione ben più dura di questa, era il sindacato che toglieva tutti dall’imbarazzo delle bandiere. E infatti, in alcune manifestazioni, c’era sempre una certa destra liberale, costituzionale — riflette Bersani — Mi chiedo allora dove sia quella attuale. Lo sanno o no che questa è una Repubblica fondata sull’antifascismo?»).

Arrivano pizzette calde e pasticcini nel gazebo della Cisl. I compagni della Cgil, più sobri, vanno di pizza con la mortadella. Arrivano anche i sindaci di Palermo e di Firenze, Leoluca Orlando e Dario Nardella. Vigili urbani in alta uniforme con i gonfaloni della Campania, dell’Emilia-Romagna, della Puglia («Michele Emiliano non è potuto venire, ma è qui con il cuore», dice un tipo in ghingheri come un generale napoleonico). Gira voce che laggiù ci sia Massimo D’Alema. Molto intervistata Susanna Camusso. Sergio Cofferati, noto anche come «il Cinese» (che parlò davanti a un milione di lavoratori): «Osservo la risposta democratica che mi aspettavo».

Sugli appunti, dopo mezz’ora, c’è scritto: Pd al completo, visti i ministri Franceschini e Orlando, cercare di parlare con Orlando, Franceschini tanto non ti dirà niente, molto a suo agio — in quest’atmosfera operaista/militante — il vice-segretario Provenzano, Nicola Zingaretti è con l’assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato (ricordare che è merito suo se, da queste parti, ad un certo punto, ci siamo vaccinati tutti con ordine e rapidità), non dimenticarsi di citare Valeria Fedeli, sottolineare la lucidità e la rara sobrietà politica di Walter Verini che, essendo tesoriere del partito, potrebbe anche tirarsela. 

Nessuno degna Carlo Calenda, grande assente, di mezza parola. Calenda s’è sfilato dicendo che in questa piazza unitaria non si fa solo antifascismo, ma politica. Ruvido: però, forse, un po’ ci ha preso. 

Prove di Ulivo bis, di Unione bis? Fate voi. Ci sono pezzi di Italia Viva (Nobili, Migliore, Bellanova: chissà cos’ha in testa Renzi), ci sono il verde Angelo Bonelli e Roberto Speranza, seguito da tutta la complessa truppa sinistrorsa. Da Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, a Stefano Fassina. Nichi Vendola semplifica il dubbio: «Come si traduce, politicamente, la potenza di questa piazza?».

Vendola va via incrociando Roberto Gualtieri, che per diventare sindaco di Roma deve giocarsela al ballottaggio con Enrico Michetti (il quale si conferma un personaggione: ignorando il divieto assoluto di Meloni e Salvini, aveva espresso il desiderio di venire. «Scusate: ma quale occasione migliore per dimostrare che sono davvero antifascista?»; l’hanno incenerito con due sguardi). Gualtieri invece è venuto ma resta muto, rispetta le regole, mette su una smorfia fissa, tra rammarico e ironia. Fotografo: «A Gualtié, te lo dico: pare che te fa male un dente…».

Poi, all’improvviso, sotto la Basilica, compare un corteo di auto blu. Al centro, un grosso suv blindato. Vetri neri. Guardie del corpo. 

Stupore. Curiosità. Chi sarà? 

Una della Uil: «È Draghi!». Cameraman: «Ma no! Draghi ha solo due macchine di scorta. Questo sembra Biden». «Escluso — fa un delegato Cisl — Biden mica è a Roma». 

Lo sportello del suv, dopo lunghi minuti, finalmente si apre. E compare la testa di Luigi Di Maio. 

«E meno male che nun te piaceveno le auto blu!», gli grida una signora con i capelli ricci aggrappata alle transenne. Di Maio la ignora e incede nel mischione dei fotografi, nel groviglio di microfoni e telecamere (intanto, dall’ultima auto, è sceso Alfonso Bonafede, ignorato da tutti). 

Un tipo forzuto dello staff soffia a Di Maio: guarda che c’è pure Conte. I due si osservano da lontano. Gelo? Gelo. Segue foto di gruppo con Paola Taverna (solito meraviglioso fotografo: «Aho’, e mica v’hanno condannato a morte!»). 

Enrico Letta capisce che l’aria s’è fatta appiccicosa, si fa aprire le transenne e va a mischiarsi con la folla (dove trova le due capogruppo di Camera e Senato, Serracchiani e Malpezzi). Grida di evviva, selfie, pacche sulle spalle, accoglienza notevole. 

Intanto Landini sta per cominciare il suo intervento. Tra gli alberi, tirano su uno striscione: «Noi con i fascisti abbiamo finito di parlare il 25 aprile del 1945».

Rinaldo Frignani per corriere.it il 16 ottobre 2021. «C’è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione». Così sabato mattina il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, nel corso del corteo per le strade dell’Esquilino che ha portato i manifestanti dell’iniziativa di solidarietà alla Cgil al sit-in nazionale dei sindacati in piazza San Giovanni a Roma. «Libertà, diritti, pluralismo, libera informazione e lavoro», le richieste della piazza sulla quale sventolano le bandiere dei tre sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil tra palloncini rossi, verdi e blu. Il lungo applauso alla richiesta di «sciogliere le forze neofasciste». «Siamo in piazza per ribadire la forza della democrazia nel nostro Paese, la voglia di cambiare e la forza della Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti li problema se erano in campagna elettorale o meno - aggiunge Landini -. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia. Ringrazio Lamorgese per il lavoro compiuto e le forze di polizia per quello che hanno fatto». Tanti i temi abbracciati da Landini, non ultimo, il caso Regeni: «Vogliamo la verità». «Mai più fascismi» lo slogan scelto per chiedere lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste. L’appuntamento con Cgil, Cisl e Uil a partire dalle 14 in piazza San Giovanni, ma con un prologo: un corteo partito da piazzale dell’Esquilino alle 12.30. Flussi da tutta Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole. La stima finale secondo gli stessi sindacati è di 200 mila persone in piazza, mentre per la Questura i partecipanti sono circa 50 mila. Di sicuro c’è che ci sono tantissimi pensionati, con bandiere e palloncini delle sigle delle tre categorie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp: sotto il palco, le «pantere grigie» sono il gruppo più nutrito. All’indomani dell’obbligo di presentazione del Green Pass sul luogo di lavoro, e alla vigilia del secondo turno delle elezioni amministrative nella Capitale e in altre grandi città,i sindacati richiamano l’attenzione sull’attacco «squadrista» alla sede della Cgil ritenuto una sfida a tutto il sindacato confederale, al mondo del lavoro e alla democrazia: mercoledì 20 ottobre è attesa l’apertura della discussione in Senato sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «Una grande festa democratica senza colore politico» per Giuseppe Conte, presidente del M5s. «Una grande risposta di popolo per sottolineare i valori costituzionali» il commento a distanza di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed esponente del M5s. «In questa piazza c’è la nuova Resistenza — afferma il segretario generale della Uil Bombardieri —. La Resistenza è quella che ha combattuto il fascismo; vogliamo riaffermare i valori della democrazia, della partecipazione e il rifiuto della violenza». Per il segretario della Confederazione europea dei sindacati, Luca Visentini, l’impegno è «per ottenere la sospensione dei brevetti a livello internazionale e per l’aumento della capacità tecnologica e di produzione dei vaccini in Europa e nel mondo». E ancora: «Ai fascisti del nuovo millennio diciamo che non passeranno. Noi li fermeremo». Intento condiviso anche da Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl: «L’Italia riparte con il lavoro», con «le riforme e gli investimenti concertati. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le `bestie´ degli estremismi». E Sbarra affonda la stoccata sui vaccini: «Cosa si aspetta a renderli obbligatori? Grave che il governo e il Parlamento non l’abbiamo ancora fatto per mera convenienza politica. È grave che per non affrontare queste contraddizioni si siano scaricati i conflitti sul mondo del lavoro». Nella folla anche il candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Roberto Gualtieri, rispettoso del silenzio elettorale. Sotto il palco anche il ministro della Salute, Roberto Speranza e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. E Massimo D’Alema: «La violenza fascista non è una forma qualsiasi di violenza, ma è una violenza di impronta totalitaria messa al bando dalla Costituzione e che nasce dal rifiuto del totalitarismo fascista». Il segretario del Pd, Enrico Letta, abbraccia il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Per lui in regalo una maglietta con la scritta «La matrice dell’Europa è antifascista», realizzata dall’associazione EuropaNow. «Studenti antifascisti - lavoro, reddito, istruzione e diritti contro ogni fascismo» la scritta sullo striscione di Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Link. «Da tutta Italia siamo arrivati a Roma per una manifestazione urgente e necessaria: sciogliere le organizzazioni neofasciste e chiuderne le sedi è oggi una priorità» dicono gli studenti. Tra la folla, diverse magliette blu con scritto: «Vaccinato dal 25 aprile 1945». Tante e diverse le bandiere, tra cui quelle dell’Anpi e di Legambiente. «L’antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione», si legge su un cartello di un manifestante firmato «Cgil Bari». Presenti anche le realtà arcobaleno, insieme al movimento Disability Pride. Presidiato il centro storico di Roma durante tutta la manifestazione. Sorvegliati dalle forze dell’ordine, non solo i palazzi istituzionali, ma anche alcuni obiettivi ritenuti sensibili come cantieri edili che si trovano nell’area, palazzi occupati e sedi dei sindacati. Sotto la lente, inoltre, la sede di CasaPound.

“Bella Ciao” e pugni chiusi: a piazza San Giovanni la passerella di sinistra beffa il silenzio elettorale. Eleonora Guerra sabato 16 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Pugni chiusi, Avanti popolo, bandiere rosse e l’immancabile Bella Ciao, che ha chiuso il comizio. Pardon, la manifestazione. A piazza San Giovanni oggi ha fatto sfoggio di sé tutto l’armamentario tipico della sinistra più a sinistra, ma a sentire gli organizzatori in piazza c’era «l’Italia». Si badi bene, però, non un’Italia qualsiasi, ma «l’Italia migliore» come non ha mancato di rivendicare la capogruppo di Leu al Senato, Loredana De Petris. Insomma, tutto come da copione, compreso l’immancabile vizio della sinistra di mettersi su un piedistallo, che in questo caso aveva la forma di un palco. Il palco antifascista. Gli organizzatori hanno parlato prima di 100mila, poi di 200mila partecipanti. La Questura ha nettamente ridimensionato il dato a 60mila. Si tratta comunque di un numero di tutto rispetto, ma abbastanza per sostenere, come ha fatto il leader della Cgil, Maurizio Landini, che «tutta Italia vuole cambiare questo Paese»? Il leader Cgil non si è limitato a dire che «tutta Italia vuole chiudere con la violenza», ma anche che «vogliamo essere protagonisti del cambiamento economico. Tutto il governo assuma questa sfida e apra una fase di cambiamento sociale del Paese». Insomma, va bene l’antifascismo, va bene il ripudio della violenza, va bene la solidarietà, ma perché farsi sfuggire l’occasione di mettere in chiaro che qua si rivendicano anche i temi prettamente legati all’agenda politica? D’altra parte che si trattasse di un’occasione politica imperdibile era evidente fin dalle premesse, ovvero dalla scelta di fissare la manifestazione in pieno silenzio elettorale. Lo svolgimento è stato all’altezza delle aspettative. A piazza San Giovanni hanno fatto passerella tutti i big della sinistra, affiancati dagli aspiranti sindaci, un Roberto Gualtieri molto fotografato in testa. Per il Pd c’erano, tra gli altri, Enrico Letta, Andrea Orlando e Dario Franceschini. Per Articolo 1, Roberto Speranza, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Per la sinistra Nicola Fratoianni e Nichi Vendola. Per Italia Viva Teresa Bellanova. Per il M5S Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. «È una bella festa senza colore politico nel nome della democrazia», ha sostenuto Conte. Sipario e sigla di chiusura, sulle note di Bella ciao.

Fascismo e quota 100. Da anni la Fiom scrive il programma con cui la destra poi vince le elezioni. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 16 Ottobre 2021. La Fiom ha pubblicato una piattaforma politica in cui è vaga su tutto tranne nell’anticipare le pensioni e condannare la globalizzazione. Non stupisce. Lega e Fratelli d’Italia usano le stesse parole gridate dalla sinistra sociale: lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza. Per la manifestazione “Mai più fascismi”, convocata per oggi a Roma da CGIL, CISL e UIL, come risposta all’invasione squadristica della sede del maggiore sindacato italiano, la FIOM ha predisposto una piattaforma (come si dice in sindacalese), che partendo dalla condanna «di ogni forma di fascismo e di violenza» e dalla richiesta «dello scioglimento immediato di tutte le organizzazioni di matrice neo-fascista e neo-nazista», arriva a chiedere di «ridurre l’età pensionabile, introducendo elementi di flessibilità in uscita (41 anni di contribuzione o 62 anni di età anagrafica)», passando per tutto il repertorio di evocazioni (precariato, progressività fiscale, sanità pubblica…), che descrivono l’immaginario ideologico e sentimentale di sindacati da anni in crisi di ruolo e di identità. Però su tutto, fuorché sulle pensioni, si rimane nel vago. Insomma, lo scioglimento di Forza Nuova e la sostituzione di quota 100 con quota 41 sono le sole due precise richieste antifasciste dei metalmeccanici della CGIL. Manca nella piattaforma della FIOM il riferimento testuale al liberismo, che da quelle parti non si ha troppi scrupoli a rubricare come una versione economica evoluta del produttivismo fascista. È comunque decisamente chiaro che nel mirino c’è quell’idea di società che, nelle analisi del mondo sindacale e della CGIL in particolare, è considerata la matrice dei rigurgiti reazionari dell’Occidente, sia nel senso del modello di riferimento (il capitalismo globalizzato come universalizzazione del “sistema Pinochet”), sia nel senso della causa della frustrazione e del disagio sociale, destinato a capitolare nell’illusione fascista. Purtroppo, la discussione sul fascismo in Italia è condannata a confrontarsi con gli obblighi e i divieti, di un antifascismo da guerra fredda anni ‘50 o da autunno caldo anni ‘60. L’idea conformistica del fascismo come regime dei padroni e dei fascisti come mazzieri del Capitale impedisce di vederne la seduzione sempre ricorrente, soprattutto in forme più subdole, pervasive, strutturalmente interclassistiche e potenzialmente maggioritarie della violenza di piazza di infime minoranze, che hanno più parentele con la criminalità organizzata e con le curve ultrà che con il fascismo del Ventennio, inteso come regime, come sistema di consenso e come vera e propria ideologia nazionale. Nessuno (o pochi e quasi tutti silenti) nel mondo sindacale sembra rendersi conto che non tanto nelle organizzazioni dichiaratamente neo-fasciste, come Forza Nuova, ma in quelle della destra ultra-fascista, a partire dai primi due partiti italiani, Lega e FdI, l’aggregazione del consenso è fatta sulle stesse parole d’ordine sterilmente gridate dalla sinistra sociale negli ultimi decenni: guerra alla globalizzazione, lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza, protezionismo e pensionismo, antagonismo nazionalista sulle regole di bilancio e di mercato imposte dai trattati Ue. Possibile che nessuno abbia visto che proprio su quota 100 Salvini ha resuscitato e nazionalizzato il territorialismo leghista e che il «fermiamo il mondo, vogliamo scendere», biascicato dal sindacato italiano confederale (anche qui con pochissime eccezioni), è, questo sì, il canone retorico di quella destra nazionalista, che, in senso proprio, cioè storico e ideologico, è più fascista delle bande di picchiatori sottoproletarizzati e ampiamente manovrabili di Forza Nuova? Tanti auguri, allora, a chi pensa di combattere il fascismo contemporaneo con la legge Scelba e con un nazionalismo economico leftist.

La Cgil dei furbetti: pensioni antifasciste e spot di piazza per il ballottaggio coi leader giallorossi. Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. I sindacati in corteo a Roma: 50 mila persone. Landini: "Grande festa senza colore politico" ma con lui sfila tutto il centrosinistra. E dicono no a Quota 100. Salvini: "Campagna elettorale inseguendo i fascisti che non ci sono". Dall'antifascismo alle pensioni. Tutto nella stessa piazza, alla vigilia del voto dei ballottaggi, sotto lo slogan «Mai più contro i fascismi». Il motivo per cui Carlo Calenda, leader di Azione, aveva deciso di annullare la sua presenza ieri a San Giovanni («Doveva essere una manifestazione in difesa della democrazia, è diventata una questione di lotta politica, fatta tra l'altro il giorno prima delle elezioni durante il silenzio elettorale»), si è plasticamente manifestato sul palco nelle parole del segretario generale Maurizio Landini. «C'è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti il problema se erano in campagna elettorale o meno. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia». Tra i cori antifascisti Landini rilancia i temi della piattaforma sindacale, invoca il superamento di Quota cento, misura bandiera della Lega, e incalza il governo: «Bisogna rinnovare i contratti salariali pubblici e privati, ma anche varare una riforma del fisco, delle pensioni e degli ammortizzatori sociali. La riforma del fisco deve avere un effetto chiaro: la lotta all'evasione fiscale deve aumentare il netto in busta paga e delle pensioni». Con lui in piazza molti esponenti del centrosinistra e del governo, dal segretario del Pd, Enrico Letta, al leader del M5s Giuseppe Conte con il ministro Luigi Di Maio e il ministro dem Andrea Orlando. «È una grande festa democratica senza colore politico», dice il leader dei cinque stelle. Ma dal palco c'è spazio anche per un comizio dei sindacati contro le delocalizzazioni delle imprese, contro i condoni che sono «uno schiaffo» a tutti quelli che pagano le tasse, per poi passare agli incidenti sul lavoro e alla neonata Ita: per i sindacati è «inaccettabile» che non applichi il contratto nazionale. Una lista programmatica indirizzata all'esecutivo Draghi. Eppure Landini rivendica: «Non è una piazza di parte. È una manifestazione che difende la democrazia di tutti». Una risposta indirizzata al leader della Lega Matteo Salvini che accusava la manifestazione di violare il silenzio elettorale alla vigilia dei ballottaggi: «A Roma la sinistra fa campagna elettorale inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più». In piazza a rispondere al richiamo di Cgil, Cisl e Uil dopo l'assalto di sabato scorso alla sede del sindacato da parte di Forza Nuova, hanno risposto 50mila persone secondo la questura, 200mila invece secondo gli organizzatori. Nessuno scontro, né si verificano le temute infiltrazioni di estremisti. Una festa colorata, con canti, striscioni e un cielo di palloncini, lontana dalle premesse dei giorni precedenti, che già vedevano piazza San Giovanni trasformata in campo di battaglia nella Capitale. Questa volta era invece blindata dal dispositivo di sicurezza messo in campo dal Viminale per scongiurare le violenze di sabato scorso. Un corteo partito da piazzale dell'Esquilino alle 12.30, con un esercito di lavoratori, molti addetti del settore scuola giunti da ogni parte d'Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole ha raggiunto piazza San Giovanni alle 14. Tantissimi i pensionati, che sollevavano cartelloni con scritto «l'antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione» e «Zero morti sul lavoro». Non sono mancati anche questa volta i nostalgici con le magliette rosse con la faccia di Che Guevara. E mentre i segretari parlavano dal palco, nella folla tutti a discutere dell'appuntamento di mercoledì prossimo quando si aprirà in Senato la discussione sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «L'Italia riparte solo con il lavoro le riforme e gli investimenti concertati - dice Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che chiede il vaccino obbligatorio per tutti -. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le bestie degli estremismi». Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci

Vittorio Sgarbi contro il corteo Cgil: "Ridicola passerella. C'era anche Di Maio, che passa la vita a schivare il lavoro". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. "Triste che la CGIL si sia prestata a squallida strumentalizzazione alla vigila del ballottaggio di Roma. Ridicola passerella politica che con il lavoro non ha nulla a che fare. C’era anche Luigi Di Maio, uno che ha passato la sua vita a schivarlo, il lavoro". Questo il tweet di Vittorio Sgarbi a proposito della manifestazione indetta dalla Cgil dopo l'assalto alla sede del sindacato da parte di alcuni appartenenti a Forza Nuova. Per Sgarbi è inaccettabile che una manifestazione si svolga alla vigilia del voto politico sul sindaco di Roma, concetto ribadito più volte negli ultimi giorni. Si strumentalizza, secondo il critico d'arte, per dare contro a Fratelli d’Italia in vista del ballottaggio tra Enrico Michetti e Roberto Gualtieri. E non perde, ovviamente e sempre Sgarbi, l'occasione per attaccare uno dei suo0i bersagli preferiti: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presente alla manifestazione indetta dalla Cgil. Vittorio Sgarbi è candidato nella Lista Civica Michetti come assessore alla Cultura e questo sarà il suo ruolo in caso di vittoria del centrodestra al ballottaggio. Ma alla vigilia del voto ha voluto dire il suo punto di vista sulla questione. Una questione per lui politica e ha deciso di attaccare la Cgil. Le polemiche certo non mancheranno.

Corteo Cgil, Matteo Salvini all'attacco: "Mentre in Europa scorre il sangue del terrorismo, inseguono fascisti inesistenti". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. La manifestazione antifascista organizzata dalla Cgil a Roma non ha alcun senso secondo Matteo Salvini, che su Twitter ha commentato: "Mentre in Europa scorre il sangue per mano del terrorismo islamico, unico reale pericolo di questi tempi, a Roma la sinistra fa campagna elettorale (nel giorno del silenzio) inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più". Il riferimento è ai due episodi che sono successi nei giorni scorsi in Europa. Il primo in Norvegia, dove un uomo armato di arco e frecce ha ucciso 5 persone, pare dopo essersi convertito all'Islam. Il secondo episodio invece riguarda l'uccisione di un deputato nel Regno Unito, un omicidio probabilmente legato all’estremismo islamico. La manifestazione di questo pomeriggio a Roma, comunque, è stata organizzata in risposta all'assalto di una settimana fa alla sede della Cgil, nel bel mezzo di una protesta contro il Green pass. Continuando a commentare sui social, il leader della Lega ha citato Leonardo Sciascia: "Il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa imbattere oggi…è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è". Già prima dell'inizio della manifestazione, comunque, il segretario del Carroccio aveva aveva fatto sapere che la Lega non avrebbe presenziato oggi, così come Fratelli d'Italia. Salvini ha motivato la sua assenza spiegando di non voler violare il silenzio elettorale, in vista dei ballottaggi di domani e dopodomani.

La "Reductio ad Hitlerum": l'abitudine ridicola di "fascistizzare" l'interlocutore per ogni cosa. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“Reductio ad Hitlerum”: con questa curiosa ed efficace espressione latina viene definita l’abitudine ridicola di nazificare o fascistizzare qualsiasi interlocutore non allineato alle proprie idee. Ciò che colpisce è come la sinistra, nella sua spirale di declino cognitivo ormai senza ritorno, non riesca a esercitare ormai più alcun controllo su questo piede di porco dialettico che, pure, usato cum grano salis, a volte ha dimostrato la sua efficacia. Uno esprime un parere contrario, magari appena venato di un approccio al reale meno zuccherosamente emotivo, un filo più pragmatico, un poco più orientato verso un equilibrato sistema diritti/doveri, diventa automaticamente un membro del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, ruolo d'onore, camicia bruna, stivali e pugnaletto al fianco. Di converso, a destra, non ci sono cascati. Quando Berlusconi indulgeva un po’ troppo nel definire i piddini come “comunisti”, da sinistra lo spernacchiavano: “Eh, sì, noi comunisti mangiamo i bambini”. E infatti, poi, la battuta è caduta in disuso e nessuno ha seguito il Cavaliere per questa china pericolosa. Invece, dall’altra parte, la fascio-psicosi si dimostra sempre viva, tanto da aver fatto creare numerosi “meme” che circolano sui social. Quello più noto raffigura Sigmund Freud con la scritta: “Riguardo a questi “fascisti”, li vede spesso? Sono nella stanza qui con noi, adesso?”. Ma ancor più surreale è che, con l’abuso della Reductio, i sinistri stanno facendo del Nazifascismo … un’”icona del libero pensiero”. Uno dei tanti paradossi del Mondo alla Rovescia in cui siamo immersi. Non si rendono conto, infatti, che loro stessi, negli ultimi anni, hanno sposato il più cupo e tetragono pensiero unico: ormai schiacciati su un politically correct vittoriano, sono divenuti le Sturmtruppen della Ue, i secondini di un conformismo piccolo-medio borghese asfissiante. Al motto di "FEDEZ HA SEMPRE RAGIONE", qui censurano, là bloccano, lì confinano o mettono fuori legge, riscrivono il linguaggio, questo si dice, questo no: ci manca solo l’olio di ricino.  E poi “nazificano” chiunque osi protestare. Ovvio che, per un banale meccanismo psicologico, avvenga il ribaltamento di cui sopra. E così, il tale si compra il vino con Hitler sull’etichetta e lo porta alle grigliate, con matte risate; un altro, si mette il bustino del Duce in ufficio e l’edicolante smercia a pacchi i calendari col Crapùn. Anche le grandi aziende sfruttano la “boccata d’ossigeno” inconscia che offre – oggi - la premiata ditta nero-bruna. Persino giornaloni come il Corriere ci danno dentro con le collane di libri dedicate ai due dittatori perché, si sa, se metti Hitler o Mussolini in copertina vendi 10 volte di più. Il cinema, non ne parliamo: lo scorso anno, nelle sale, otto film a tema olocaustico per la Settimana della Memoria. Dagli e dagli, nell’inconscio collettivo i ruoli si invertono, ma a sinistra non ci arrivano. Il senso della misura non fa parte del loro Rna, oggi meno che mai. E’ il “Murgia effect”. Ricordate quando la nostra critica letteraria preferita elaborò il test su “Quanto sei fascista”? Ovunque gente che si disperava per aver raggiunto un punteggio troppo basso, dopo aver risposto a quiz tipo: “Credi che l’immigrazione sia un tantino fuori controllo?”. La sensazione è che gli elettori siano completamente immunizzati alla Reductio, un po’ come avviene per i soliti provvedimenti giudiziari a 16 ore dal voto. Gli unici a subirla ancora un poco sono i politici meloniani. Tranquillizzatevi, la soluzione è a portata di mano: risata pronta e una bella lingua del Negus Menelicche. 

Corteo Cgil, Giorgia Meloni all'attacco: "Manifestazione contro i fascismi, ma c'è la bandiera dell'Urss". Libero Quotidiano il 17 ottobre 2021. Per Maurizio Landini era "la piazza di tutti". Per Massimo D'Alema, che l'ha buttata direttamente in polemica politica, gli assenti "hanno perso una bella occasione". Si sta parlando del corteo di ieri, sabato 16 ottobre, a Roma, la manifestazione di solidarietà alla Cgil e "contro ogni fascismo" organizzata dopo gli scontri del weekend precedente e dopo l'assalto alla sede del sindacato. Eppure, quella piazza, "di tutti", non è affatto sembrata. E non solo per chi sfilava, ossia tutti tranne le forze di centrodestra, Forza Italia compresa. Ma anche per "come" si sfilava: la colonna sonora, incessante e invariabile, era Bella Ciao. E ancora una volta, non è tutto. Già, perché una plastica dimostrazione relativa al fatto che quella piazza non fosse di tutti arriva direttamente da Giorgia Meloni, che sui suoi profili social rilancia quanto segue. Una foto di una bandiera dell'Urss, rossa e con falce e martello, che dominava nella piazza. Insomma, il simbolo di uno dei regimi più violenti, totalitari e omicidi che la storia dell'uomo conosca. Alla faccia della manifestazione "apartitica" e della piazza di tutti. A corredo della foto rilanciata su Instagram, la Meloni ha scritto: "Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell'Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità. Alè". Niente da aggiungere.

Giorgia, lezione di antifascismo sulla Shoah. Fabrizio De Feo il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi: "L'antisemitismo è un abominio". Ma evita la passerella. È una presa di posizione forte, non equivocabile e non manipolabile, quella che Giorgia Meloni prende in occasione della ricorrenza del rastrellamento nel Ghetto Ebraico di Roma. Un messaggio inviato per ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, la distanza di Fratelli d'Italia dall'antisemitismo e l'amicizia verso la Comunità ebraica. «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici» scrive la leader di FdI in un messaggio. Giorgia Meloni avrebbe voluto fare anche di più. Qualche giorno fa, infatti, durante la conferenza stampa al Jerusalem prayer Breakfast a Roma prima si era detta «contenta di partecipare» a questo evento «come romana e cattolica, qui risiede la più antica comunità ebraica dell'occidente». E ricordando la «terribile deportazione dei 1259 ebrei del ghetto a opera della follia nazi-fascista», aveva annunciato che sarebbe stata presente alla deposizione della corona di fiori in ricordo delle vittime del rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 del Ghetto di Roma, «rappresentando la vicinanza e l'amicizia di Fratelli d'Italia e dei Conservatori europei di ECR alla comunità ebraica romana e italiana in questa terribile ricorrenza di dolore per l'intera comunità nazionale». Insieme a Giorgia Meloni avrebbero dovuto partecipare il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, il capogruppo a Montecitorio Francesco Lollobrigida e Giovanbattista Fazzolari. Una telefonata tra Giorgia Meloni e Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica Romana ha poi fatto scattare un rinvio. «La visita è stata rinviata per questioni di opportunità nell'imminenza del voto, non ci sono altri temi, sarà riprogrammata», la spiegazione di Dureghello. A determinare il rinvio una doppia vigilia: quella del ballottaggio a Roma, ma anche il rinnovo del Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche in programma oggi, con liste e candidati in lizza per i 20 seggi di spettanza della Comunità di Roma. Di fronte allo stop la leader di Fratelli d'Italia aveva commentato: «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici. Il virus dell'antisemitismo non è stato ancora debellato e ribadiamo il nostro impegno per combatterlo senza reticenze e in ogni forma, vecchia e nuova, nella quale si manifesta». I rapporti di FdI con la Comunità Ebraica romana in realtà sono ottimi, così come sono ottimi quelli con l'ambasciata di Israele, alla luce delle posizioni fortemente filo-israeliane del partito. La vicinanza di Giorgia Meloni, d'altra parte, è di antica data. Parecchi anni fa, in veste di ministro della Gioventù visitò il Museo Yad Vashem a Gerusalemme e scrisse: «C'è sempre un'alternativa all'odio, alla sopraffazione, alla violenza e alla guerra. Nostro dovere, ovunque e per sempre, è costruire». Fabrizio De Feo

"Antisemitismo? L'ho subìto da sinistra". Alberto Giannoni il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il portavoce della sinagoga di Milano: "Inutile sciogliere le sigle come Fn". Milano. Davide Romano, lei è portavoce della sinagoga Beth Shlomo ed è stato assessore alla Cultura della Comunità di Milano, cosa pensa di questo «allarme fascismo» che torna a essere agitato dopo l'assalto di estrema destra alla Cgil di Roma?

«Penso che in questo momento la situazione sociale sia problematica. Che sfoci in violenza è grave, la violenza va fermata in modo rapido ed efficiente, che sia di destra o di sinistra è meno rilevante.

Il suo mondo è molto attento a questa minaccia. Sta dicendo che non è rilevante ciò che sono quei gruppi ma ciò che fanno.

«Dico che non mi interessa la battaglia simbolica. Mi interessa che le persone violente vengano fermate, isolate, eventualmente punite per quel che fanno. Poi certo, io provo odio per fascisti e nazisti, per quel che hanno fatto ai miei nonni e bisnonni, ma se penso a mente fredda dico: facciamo ciò che è utile, non per istinto o partito preso. Se li chiudo cosa succede?».

Cosa succede secondo lei?

«Magari andiamo a letto tranquilli se sciolgono una sigla, ma se cambia nome o i militanti si aggregano ad altre siamo punto e a capo. Forse la priorità è un canale preferenziale e veloce per perseguire i fatti di violenza politica».

Meglio far emergere le realtà estremiste?

«Le forze dell'ordine, dicono che è meglio sapere chi si ha di fonte. Se finiscono in clandestinità non sai dove sono, dov'è la sede. Anni fa non c'erano social, oggi esistono canali irraggiungibili. Mi interessano risultati concreti e non si ottengono facendo scomparire le sigle».

La rassicura di più una realtà polverizzata?

«Sono ben contento che l'estrema destra sia divisa in mille gruppi. Invece potrebbe esserci un'eterogenesi dei fini, magari i militanti di Forza Nuova vanno su altre formazioni rafforzandole. Parafrasando Andreotti, meglio avere venti gruppi dello 0,1% che uno del 2».

Parlarne tanto è utile?

«La sinistra è forte su questo tema e insiste pensando che sia sentito da tutti in Italia. Non so, è stato molto usato».

Una destra integrata nelle istituzioni è un bene? Fdi?

«A Fini, all'epoca della svolta l'intero ebraismo strinse la mano. Ma non voglio parlare di politica. Posso dire che il Pdl di Berlusconi era una cosa, Fdi un'altra. Dentro Fdi ci sono personalità democratiche e amiche di Israele e delle comunità, ma anche frange più inquietanti. Meloni dovrebbe accelerare le pulizie, è interesse suo e del Paese. Di Salvini, tutto si può dire tranne che non sia amico di Israele».

Comunque, l'antisemitismo non è solo di destra.

«Se devo essere sincero, io nella mia vita sono stato aggredito sempre dai centri sociali, gente di sinistra o estrema sinistra. Parlo di Milano. Alla fine degli anni Ottanta da qualche fascista, poi tutti gli attacchi, al Gay pride con la bandiera israeliana o al 25 aprile con la Brigata ebraica, sono arrivati da sinistra».

Un sondaggio, due anni fa, ha rilevato che l'antisemitismo alberga più nell'elettorato di sinistra e «grillino».

«Non mi sorprende. Nelle istituzioni no, ma sui social, dietro certi svarioni su Israele tipici di una certa sinistra ci sono stereotipi sulla Shoah. Mi dispiace ma è così». Alberto Giannoni

Giovanni Orsina smaschera la sinistra: "No green pass? Ma quale fascismo, il vero obiettivo è il Quirinale". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Devastare la sede della Cgil a Roma è stato un atto di teppismo che va punito con la massima durezza": Giovanni Orsina, professore e storico della Luiss-Guido Carli, ha commentato così la protesta di sabato scorso nella Capitale. Secondo lui, è sbagliato mettere sullo stesso piano la manifestazione di una settimana fa e il fascismo del secolo scorso: "I livelli di violenza attuali non sono in alcun modo comparabili con quelli del primo dopoguerra". Orsina, intervistato da Italia Oggi, ha poi definito "ridicolo" qualsiasi paragone di questo tipo. "Enfatizzare il pericolo fascista è una strategia storica della sinistra italiana, utilizzata dal Partito comunista per rilegittimarsi ed egemonizzare lo schieramento progressista e poi, dopo il 1989, necessaria a ricompattare un centro sinistra diviso e rissoso": questa l'analisi fatta dallo storico. Secondo lui, comunque, tutto questo avrà effetti modesti sul ballottaggio dei prossimi giorni. Gli effetti potranno vedersi più avanti, quando arriverà il momento di eleggere il futuro capo dello Stato dopo Sergio Mattarella: "Dietro c'è una partita più grossa. Mettere in mora Salvini e Meloni sulla base dell'antifascismo è un modo per indebolirli, magari isolarli, nella partita del Quirinale". Sull'imposizione del Green pass da parte del governo in molti settori della vita quotidiana, quello del lavoro in primis, Orsina ha detto di comprendere la misura ma solo fino a un certo punto: "Continuo a chiedermi se, visti i livelli di vaccinazione spontanea raggiunti in Italia, fosse davvero necessario rendere il pass obbligatorio. Ossia sottoporre a un'ulteriore fonte di irritazione uno spirito pubblico piuttosto precario".

Gli insulti alla Segre? Sputati dal No Vax di sinistra. Francesco Curridori il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gian Marco Capitani, esponente del movimento novax "Primum non nocere", ha attaccato duramente la senatrice Liliana Segre. Un feroce antisemita, dire? E, invece, no... È un anti-fa. “La Segre dovrebbe sparire”. La senatrice a vita, superstite della Shoah, è stata vittima degli insulti che un novax gli ha rivolto dal palco di una manifestazione contro il green-pass. Immediatamente è arrivata la condanna unanime dal mondo della politica per le offese che il novax Gian Marco Capitani, le ha rivolto. L'esponente del movimento "Primum non nocere" ha definito Liliana Segre "una donna che ricopre un seggio che non dovrebbe avere perché porta vergogna alla sua storia, che dovrebbe sparire da dove è", salvo poi pentirsi e fare mea culpa. Ma chi è Capitani? La sinistra si è lanciata nelle solite accuse di fascismo, ma il novax in questione è un 'kompagno' a tutti gli effetti. Il movimento “Primum non nocere”, infatti, sui social si descrive come un gruppo “formato esclusivamente per segnalare gli effetti collaterali dei farmaci e delle terapie comunemente usati, all'interno del quadro scientifico” eppure, come fa notare il quotidiano Libero, è un gruppo dichiaratamente antifascista e di sinistra. Tra gli slogan"El pueblo unido jamás será vencido", mentre Capitani, lo scorso 25 aprile si trovava in piazza ad arringare la folla contro il governatore Stefano Bonaccini con argomentazioni dichiaratamente novax. Capitani, infatti, è un analista programmatore che proviene dalla “rossa Bologna” dove si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni all'Alma Mater. Ieri, in una lettera aperta, affidata all'Ansa, si è scusato con la Segre precisando: "Non sono un razzista non ho mai negato la Shoah e di certo non sono antisemita”. E ha aggiunto: “Ho provato ad interloquire con Lei nella certezza di poter trovare ascolto e mi son ritrovato giudicato per una singola parola. Nell'ultimo anno e mezzo non si contano le frasi violente e le istigazioni alla violenza espresse nei confronti di chi ha una diversa opinione sulla campagna di vaccinazione di massa in corso. A reti unificate, 24 ore su 24, si è scatenata un'autentica campagna d'odio che, temo, abbia fatto molto male al Paese" . Capitani si dice dispiaciuto di non essersi espresso “in modo più appropriato", ma ha ribadito che “la sua opinione è semplicemente legata al ruolo di presidenza della commissione per il contrasto dell'intolleranza da Lei ricoperto. In quel ruolo ritengo che Lei abbia il dovere di esprimersi contro ogni violenza, anche se è rivolta a chi non la pensa come Lei". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

L'altra faccia della protesta: sindacalisti e centri sociali, ecco i No Pass di sinistra in concorrenza coi fascisti. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 18 ottobre 2021. La discussione attorno al lasciapassare verde accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione. Per dirla con le parole di Luciano Muhlbauer, una vita nei movimenti a partire dalla Pantera, questa storia del Green Pass "produce spaccature trasversali e una polarizzazione inutile, anche nel nostro mondo". Cioè a sinistra, in quella più radicale: dai sindacati di base fino ai centri sociali. La discussione attorno al lasciapassare accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione.

Volevano assaltare la Cgil a Milano: 40 anarchici denunciati. Letta ammetterà la matrice comunista? Lucio Meo domenica 17 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Green pass e violenza, gli anarchici sono in prima fila e nessuno lo dice. A Milano volevano assaltare la Cgil E’ di due persone arrestate e otto denunciate per interruzione di servizio pubblico, violenza privata, istigazione a disobbedire alle leggi e per manifestazione non preavvisata il bilancio dell’attività della polizia di Milano, che ieri ha bloccato in più occasioni il corteo dei 10mila no Green pass iniziato alle 17.30 e finito dopo più di cinque ore in piazzale Loreto. Si tratta di anarchici, provenienti dai centri sociali. La matrice “comunista” e di sinistra è evidente, senza alcuna responsabilità del Pd, ovviamente. Ma se è stati chiesto a Fratelli d’Italia e alla Meloni di condannare, con un esplicito riferimento alla violenza fascista, gli assalti alla Cgil dell’altro sabato, Enrico Letta e gli altri leader del centrosinistra faranno altrettanto con le violenze di Milano. La manifestazione, senza preavviso, ha attraversato il centro della città tentando, senza riuscirci, di avvicinarsi alla stazione, alla Regione Lombardia, alla sede del Corriere della Sera e alla Cgil. Degli oltre 100 manifestanti identificati, la polizia sta valutando la posizione di circa 40 persone aderenti all’area anarchica milanese e varesina per il deferimento all’autorità giudiziaria. Dell’inchiesta su quanto accaduto durante il corteo No Green pass si occupa il capo del Pool antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili, il quale ha elogiato le Forze dell’ordine per la loro capacità, come accade da settimane, di “gestire il disordine”, ovvero di riuscire a contenere cortei variegati e senza una guida precisa.  Il pm milanese ha più volte sottolineato come in questi cortei vi sia il rischio di infiltrazioni di estremisti di destra e anarchici e ieri, in alcune circostanze, sono stati questi ultimi a cercare di prenderne la testa, inutilmente. “Con decisione, ma allo stesso tempo senza arrivare a scontri aperti, le Forze dell’ordine sono riuscite a tenere sotto controllo migliaia di persone”, ha spiegato il magistrato.

I partiti litigano sulla piazza della Cgil. Ancora tensione nel giorno del voto. Il centrodestra sulla manifestazione: violato il silenzio elettorale. Il centrosinistra replica: occasione per tutti, sbagliato disertarla. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2021. La certezza è che, comunque vada il voto, se ne tornerà a parlare. Perché la manifestazione dei sindacati di San Giovanni ha spaccato il mondo politico: da una parte il centrosinistra, che ha trovato doveroso partecipare e incalza gli avversari: «Nessuno doveva sottrarsi — spiega la capogruppo alla Camera del Pd, Debora Serracchiani — era un momento di unità»; dall’altra l’intero centrodestra che ha disertato un appuntamento «strumentale» e «in violazione del silenzio elettorale». Facile immaginare che da oggi il centrodestra, soprattutto per Roma, chiamerà in causa la manifestazione come fattore distorsivo, sia in caso di sconfitta sia di vittoria. Ha già attaccato ieri Giorgia Meloni: «Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell’Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell’umanità. Ale’», il commento su Facebook a una foto di San Giovanni. E poi, al seggio, ha aggiunto che «votare è importantissimo», i politici «sono lo specchio della società che rappresentano: ce n’è di buoni e di cattivi, bisogna saper scegliere» ma sulla manifestazione è stata definitiva: «Mica sono come il Pd che viola il silenzio elettorale». «C’è un regime totalitario (ancora al potere in certi Paesi) che ha lasciato dietro sé morte e povertà. È lo stesso che tra pugni chiusi e bandiere rosse veniva omaggiato in piazza ieri. Per chi non volesse rinunciare alla memoria, si chiama comunismo?», ha aggiunto per FdI Daniela Santanché.Se il candidato Enrico Michetti ha scelto un polemico no comment («Noi rispettiamo la legge sempre»), e Salvini ieri non è intervenuto dopo aver censurato duramente il giorno prima la manifestazione, è Licia Ronzulli a dar voce all’irritazione di Forza Italia: «Abbiamo scelto di non andare in piazza a Roma con chi nel corso di una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si vuole arrogare il diritto di dividere l’Italia tra buoni e cattivi, tolleranti e intolleranti, fingendo che gli estremismi siano solo di una parte». E dunque a una «inopportuna passerella abbiamo preferito essere sui territori, tra i nostri elettori e tra i cittadini». «Purtroppo —chiosa Fabrizio Cicchitto — la manifestazione dei sindacati si è tradotta in una sostanziale rottura del giorno del silenzio elettorale e in una manifestazione politica a favore del centrosinistra». Accuse respinte da sinistra. Enrico Letta, su Twitter, pubblica una sua foto al seggio e si limita a un «Buon voto a tutti. Viva la democrazia». Ma è la capogruppo Pd Serracchiani a replicare: «È stata la piazza dei lavoratori, della democrazia, dei valori costituzionali. Una piazza di tutti gli italiani, così come chiesto e voluto dai sindacati, per dare una risposta popolare e democratica all’assalto fascista alla Cgil. Una risposta di unità a cui nessuno avrebbe dovuto sottrarsi», è la contro accusa. Condivisa da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana: «C’era un popolo pieno di dignità. Antifascista. Perché antifascista è il cuore dell’Italia».

Alla faccia della par condicio: la Cgil ha stracciato le regole. Analisti concordi: "Manifestazione per influenzare il voto". Cardini: "In piazza c'era un'oligarchia". Domenico Di Sanzo su Il Giornale il 18/10/2021. La materia è scivolosa. E se molti costituzionalisti sono convinti che la manifestazione di sabato organizzata dai sindacati non abbia violato - almeno formalmente - la legge sul silenzio elettorale, la politica e l'opinione pubblica sono divise sull'opportunità di convocare un grande evento in cui non sono mancate le coloriture identitarie nel giorno precedente l'apertura dei seggi per i ballottaggi in alcune delle principali città italiane. Compresa Roma, la sfida regina di questo turno. Teatro, a Piazza San Giovanni della sfilata della triplice sindacale e del centrosinistra al gran completo. Dal segretario del Pd Enrico Letta al presidente del M5s Giuseppe Conte. La chiamata a raccolta nel segno dell'antifascismo ha finito per provocare divisioni. Con il centrodestra che ha parlato di «manifestazione di parte» e ha stigmatizzato la violazione del silenzio elettorale e delle leggi sulla par condicio, particolarmente severe prima delle elezioni. Basti pensare alle polemiche, al primo turno, sulla mancata messa in onda da parte della Rai del film Hammamet su Bettino Craxi, ufficialmente per un cambiamento del palinsesto, secondo il figlio del leader socialista Bobo, invece lo sbianchettamento sarebbe stato dovuto alla sua candidatura al consiglio comunale di Roma a sostegno di Gualtieri. Surreale la discussione sulla trasmissione di Rai1 È sempre mezzogiorno condotta da Antonella Clerici. Nella puntata del cooking show del 4 ottobre è stato fatto ascoltare uno spezzone di una canzone di Pippo Franco e si sono registrati risentimenti perché il comico era candidato a Roma con il centrodestra. Per Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di You Trend, tutto parte dagli eventi violenti di sabato 9 ottobre, con l'assalto alla Cgil della frangia violenta dei No Pass guidata dai neofascisti di Forza Nuova. «Secondo me - dice al Giornale - sono gli eventi di due sabati fa ad aver avuto come conseguenza potenziale un compattamento del centrosinistra in vista dei ballottaggi, con effetti che potrebbero essere più favorevoli al centrosinistra che al centrodestra». E sulla manifestazione di sabato sottolinea: «In piazza c'erano molti politici di centrosinistra e nel manifesto della Cgil erano presenti temi dell'agenda politica del sindacato come ad esempio l'età pensionabile», riflette. Alessandro Campi, politologo e direttore dell'Istituto di Politica, va oltre e ci spiega che «un sindacato come la Cgil invece di ergersi a paladino dell'antifascismo e custode della democrazia dovrebbe interrogarsi sullo sfilacciamento del suo rapporto con i lavoratori». Molti settori del lavoro «non si sentono rappresentati dai sindacati e con le trasformazioni in atto rischiano di diventare disoccupati anche gli stessi sindacalisti oltre ai lavoratori che dovrebbero rappresentare». Franco Cardini, storico e medievalista, non ha dubbi. Con il Giornale parla di «una manifestazione di potere da parte di un'oligarchia». «È ovvio che la manifestazione della Cgil a poche ore dall'apertura delle urne serva anche a raccogliere dei voti per il ballottaggio - continua lo studioso - soprattutto in questi tempi in cui il colpo d'occhio di una piazza piena può influenzare le elezioni, sta di fatto che sabato lì c'era più che altro il paese legale, completamente scollato dal paese reale».

Fotografie dal passato: i soliti comunisti in piazza. Andrea Indini il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Alla manifestazione della Cgil i soliti gesti nostalgici: da Bella ciao al pugno chiuso. E i volti in piazza ricordano una sinistra ancorata al passato comunista. Come se il tempo non fosse mai trascorso. Di colpo ieri pomeriggio, mentre Maurizio Landini arringava i 60mila in piazza, è stato come essere catapultati nel passato. Eccola lì la sinistra, radunata sotto il vessillo dell'intramontabile brand dell'antifascismo. Eccola lì, in piazza San Giovanni ("La stessa di Enrico Berlinguer...", fanno presente in molti), a infrangere il silenzio elettorale (loro possono) e tirare la volata a Roberto Gualtieri nella corsa al Campidoglio. I volti sono sempre gli stessi, forse un po' più stanchi, ma comunque i medesimi che calcavano quella stessa piazza e quegli stessi slogan decenni fa. Le foto sbiadite di ieri ci riportano, tutto d'un botto, indietro nel tempo: esattamente come durante i corti del primo maggio e del 25 aprile, rivive uno stanco rito nostalgico che non troverebbe più spazio nell'Italia di oggi se non servisse a dare ossigeno a una parte politica fiaccata dal Partito democratico di Enrico Letta e compagni. L'impatto è una marea rossa. Rosso Cgil, rosso comunista. Ma qua e là, a guardar bene, oltre alle bandiere del sindacato, spuntano anche i drappi russi, non della Russia di Vladimir Putin ma della sanguinaria Unione sovietica, quella dei gulag e delle purghe. Sfondo rosso con la falce e il martello incasellati nell'angolo in alto a destra. Nessuno tra i "democratici" presenti in piazza sembra notare la macabra ironia. Giorgia Meloni sì. "Nella manifestazione contro tutti i fascismi - annota - sventolava la bandiera di uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità". Forse Landini non l'ha vista, esattamente come non ha visto tutto quello che di stonato c'è stato alla manifestazione indetta dopo l'assalto dei no pass alla sede della Cgil a Roma. "Questa piazza rappresenta tutta l'Italia che vuole cambiare questo Paese e chiudere la storia con la violenza politica", tuona il segretario del sindacato che, in quanto a slogan, sembra rimasto ai tempi in cui incitava allo sciopero le tute blu della Fiom. Quello che Landini sembra non vedere è il vero volto della piazza. Ieri, al suo fianco, non c'era certo "l'Italia che vuole cambiare", ma chi è drammaticamente rimasto ancorato a un passato che non ha saputo evolversi. La rappresentazione plastica di questa nostalgia sta nei gesti e nei volti che spuntano tra i palloncini colorati della Triplice e le bandiere dell'Anpi. A guardarli, mentre si stringono in onore dei fotografi, tornano in mente i tempi dell'Ulivo di Romano Prodi. Ci sono un po' tutti. Immortalato mentre abbraccia Susanna Camusso, troviamo Pier Luigi Bersani. E poi, poco più in là, c'è Massimo D'Alema. I due, il premier mancato e l'ex premier, entrambi rottamati dall'ondata renziana che travolse il Pd, tornano a sentirsi a casa e a spendere buone parole per Gualtieri. "L'Italia siamo noi", recita un cartellone sbandierato con forza da un manifestante. "Bisogna bandire la violenza da qualsiasi iniziativa politica", fa eco un altro ex Cgil, il "Cinese" Sergio Cofferati. Accanto ai big del presente (vedi Letta, Zingaretti e Franceschini) e del passato, sfilano a proprio agio gli outsider che hanno risposto alla chiamata alle armi di Landini. C'è la truppa pentastellata: Giuseppe Conte, teorico del fallimentare matrimonio tra Pd e Movimento 5 Stelle, i ministri Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede e la vice presidente del Senato Paola Taverna. "È una grande festa democratica senza colore politico", dice l'avvocato del popolo che in questi giorni, proprio a causa delle nozze coi dem, deve tenere a bada i mal di pancia della base grillina. Le dichiarazioni, tutte di maniera, sembrano fatte con lo stampino. "Oggi non c'è alcuna bandiera, è pretestuoso definirla una piazza elettorale", si accoda pure la sardina Mattia Santori che una decina di giorni fa, in piena campagna elettorale per il Comune di Bologna, aveva sugellato il patto con la sinistra dei salotti andando a pranzo a casa Prodi. Ieri pomeriggio la manifestazione si è conclusa sulle note di Bella ciao. Qua e là molti pugni chiusi puntati verso il cielo terso di Roma. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Tutto come sempre. La solita sinistra ancorata al passato e ai suoi fantasmi. 

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leaders 

"È pericolosa la nostalgia degli anni Settanta. Ora stiamo tutti all'erta se no ci scappa il morto". Luigi Mascheroni il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta, uno dei momenti più tragici della storia recente del Paese. C'è chi magari ne ha nostalgia, altri giustamente paura. Come Pierluigi Battista, scrittore, giornalista e attento osservatore della realtà politica, che nel suo nuovo romanzo «La casa di Roma» (La nave di Teseo) - presentato qui al Salone del Libro di Torino con un grande successo di pubblico è come se ci mettesse in guardia su alcune insidiose analogie. Nel romanzo - storia di una famiglia romana che lungo tre generazioni attraversa il Novecento, dal fascismo a oggi - un intero capitolo è dedicato a due cugini, schierati politicamente su fronti contrapposti, i quali precipitano dentro l'uragano ideologico di disordini e scontri di piazza che esploderà nell'omicidio di Mikis Mantakas, lo studente e militante del Fronte universitario d'azione nazionale, il Fuan, abbattuto da due proiettili davanti alla sezione del Msi di via Ottaviano a Roma era il 28 febbraio 1975 - nel corso degli scontri di strada nei giorni del processo agli imputati accusati del rogo di Primavalle.

Pierluigi Battista: «La casa di Roma» racconta di quello che potrebbe succedere ancora.

«Speriamo di no. Ma sento in giro una insidiosa nostalgia di quei terribili anni 70, una stagione infernale di antifascismo militante, di attacchi a sedi di partiti, di demonizzazione dell'avversario politico che diventa il nemico da annientare, o da escludere dal dibattito pubblico. Dimenticandosi che quegli anni, che qualcuno oggi rimpiange, furono il decennio che ha battuto ogni record degli omicidi politici, e non solo sul piano delle stragi e del terrorismo, nero o rosso che fosse, ma sul piano della vita quotidiana: aggressioni, spranghe, agguati, macchine incendiate, cariche della polizia, morti in strada. Un perenne scontro tra fascismo e antifascismo di bassa intensità ma sanguinoso. Attenzione a evocare spettri... Stiamo parlando di un momento tragico della nostra storia, scherzare è pericoloso».

Può scapparci il morto.

«Certo. Io non voglio fare facili similitudini. Dico solo: stiamo attenti. Negli anni 70 mettere fuori legge piccoli movimenti politici come Avanguardia nazionale o Ordine Nuovo non fu per niente utile. Non ricadiamo nello stesso errore. Prendere un'idea malata e cacciarla dentro il recinto infetto dell'illegalità sarà foriero di ulteriori violenze. Se Giuliano Castellino e Roberto Fiore commettono un crimine, come l'assalto alla sede della Cgil, devono essere arrestati e rispondere di quell'atto. Ma sciogliere il loro movimento porterebbe pericolosamente indietro l'orologio della Storia. E metto in chiaro le cose: io non ho alcuna simpatia per Forza Nuova, anzi mi hanno portato a processo per averli definiti cialtroni. Ma un conto è perseguire un reato, un altro voler cancellare una forza politica, piccola o grande che sia».

L'impressione è che si voglia demonizzare Forza Nuova per colpire meglio Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni, che hanno grandi consensi, collegando strumentalmente le due cose.

«E riecco gli anni Settanta. Lo ripeto: attenzione, attenzione, attenzione. In quella stagione gli estremisti di sinistra gridavano: Msi fuorilegge, a morte la Dc che lo protegge. Volevano mettere fuori gioco l'Msi imbrattando di fascismo anche la Democrazia cristiana, che era il loro vero avversario. Anzi: il nemico, cioè il Male assoluto. Tutto ritorna».

È ritornata anche un'espressione che volevamo dimenticare: «strategia della tensione».

«Sì, ma usata malamente, come se dietro gli scontri di piazza e le proteste ci fosse una regia occulta, un qualcuno che ha deciso nell'ombra come manovrare a suo piacimento il Paese. Quell'espressione è la radice di tutti i complottismi, è l'idea paranoica degli anni 70 che ci fosse un filo segreto che collega tutto e tutti, da piazza Fontana alle Br, in un unico disegno eversivo pensato da oscuri burattinai. Un'idea completamente sbagliata allora come è sbagliata oggi. E allora come oggi non c'era e non c'è una strategia, ma una forte tensione sì: una paura e un'inquietudine diffuse. Io non sono preoccupato di una possibile regia, che non c'è, ma del clima di violenza che si diffonde, e del ritorno di quel fantasma creato negli anni 70 che si chiama neofascismo: è da allora che il nemico da azzerare lo si chiama fascista. Così non si fa altro che radicalizzare lo scontro. Ma poi: proprio quella sinistra che vuole essere inclusiva con tutti chiede di cancellare qualcuno? L'avversario non va cacciato in un ghetto, ma costituzionalizzato».

Quello della costituzionalizzazione degli estremismi è un discorso vecchio, e irrisolto

«Infatti. E comunque, sia chiaro: ciò vale per la sinistra come per la destra. È altrettanto sbagliato voler chiudere i centri sociali, come a volte chiedono Salvini e Meloni. Compito della politica è ricomprendere le ali estreme, non di buttarle in galera. Non si deve chiudere niente! Che democrazia è quella che accetta di vedere sparire i centri sociali o anarchici o neofascisti? E poi è irresponsabile: il rischio è che esploda una guerra civile».

Qualcuno dice che è irresponsabile anche come si è gestita la protesta contro il green pass. Chi c'è dentro o dietro questo movimento?

«Dietro direi nessuno. Dentro c'è un po' tutto: per me è un calderone in cui ribollono - pericolosamente tante cose: neofascisti, anarco-insurrezionalisti, estremismi di destra come di sinistra. Solo che la sinistra, con il solito doppiopesismo che la contraddistingue, tende a ingigantire i primi e dimenticare i secondi. Preferisce l'unidirezionalità: più semplice e più utile. E poi dentro il movimento che dice no al green pass ci sono anche rabbie e paure che vanno a toccare nodi delicatissimi del diritto al lavoro. Attenzione: quando si dice che un'azienda che ha meno di 15 lavoratori può sostituire chi non ha il green pass, si sta dicendo che può licenziare. Io sono graniticamente a favore del green pass, ma non sottovaluto la forte fiammata di tensione sociale cui stiamo assistendo e in cui convergono risentimenti, rancori, crisi economica, posti di lavoro perduti, dolore e lo sciacallaggio dei politici che in tutto questo ci nuotano come pesci...».

Quale sarà l'effetto di tutte queste giornate di manifestazioni e scontri?

«Non lo so. Ma mi ha molto colpito una cosa nelle rivolte delle scorse settimane: che accanto ai gruppi diciamo militarizzati che cercavano lo scontro con la polizia ci fossero anche persone non inquadrate in precisi movimenti politici, ma che non indietreggiavano quando i poliziotti caricavano, e dicevano: Uccideteci tutti!. Ho paura di quello che cova sotto la cenere. E dico di stare all'erta».

In quel capitolo del suo romanzo La casa di Roma racconta proprio questo: come si iniziò con i cortei, poi si arrivò agli scontri, poi le spranghe, poi alle molotov e le pistolettate

«Infatti. E in tutto questo il terrorismo non c'entra. Qui non stiamo parlando di Br ma del movimento del 77, cioè di qualcosa che alimentò una violenza endemica diffusa che mise in ginocchio il Paese. E rischiare tutto questo - lo dico alla Sinistra - per uno strumentale gioco politico e mettere in difficoltà un partito, sto parlando di Fratelli d'Italia, che comunque ha un importante consenso popolare, è una cosa da pazzi. E pericolosa».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

L'antifascismo corrotto dalla sinistra. Fiamma Nirenstein il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'antifascismo è una battaglia sacrosanta, le leggi che ci conservano la democrazia contro i cosiddetti «rigurgiti» (che strana espressione) sono la cassaforte che ne proteggono l'universalità. L'antifascismo, però, deve appunto essere propagato e protetto in nome della democrazia, tutta. Invece non funziona così quando l'antifascismo diventa «militante». In quest'ottica, il nemico è stato storicamente di destra. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la sinistra ha avuto buon gioco a lavare i suoi crimini e i suoi errori tingendo solo di «nero» le acque della violazione dei diritti umani. La battaglia antifascista e l'esaltazione dell'epopea partigiana si sono sviluppate lasciando che al sogno della libertà si sovrapponesse quello di una società socialista o comunista. L'antifascismo ha così perso la sua universalità, ed è stato un peccato. Una parte della Resistenza, quella cattolica di Dossetti, Gorrieri, Tina Anselmi e dei preti fuggiti in montagna, è stata cancellata dalla figura del partigiano rosso. Inoltre, per la narrazione antifascista la vittoria russa sui tedeschi è stata mitizzata nonostante il comunismo mostrasse sin dal principio molte somiglianze con il totalitarismo di destra: ipernazionalismo, militarismo, glorificazione e uso della violenza, feticizzazione della giovinezza, della mascolinità, del culto del leader, della massa obbediente, gerarchica e militarizzata, e anche razzismo e odio antisemita. Il doppio standard è da sempre una caratteristica dell'antifascismo militante. La Brigata Ebraica, che in un miracolo di eroismo, in piena Shoah, portò dei giovani «palestinesi» ebrei a combattere sul nostro suolo contro i nazifascisti, è stata sconfessata e vilipesa nelle manifestazioni Anpi perché Israele non è gradita a sinistra. Non erano antifascisti? E non era invece nazi-fascista il muftì Haj Amin Al Husseini che con Hitler progettava lo sterminio degli ebrei? Quanti sono stati tacciati di fascismo solo perché non di sinistra? Il lavoro di bonifica dell'unità nazionale intorno alla Resistenza è stato valoroso, ma il termine antifascista deve prescindere dall'appartenenza politica, perché la genesi della Repubblica Italiana deve diventare finalmente patrimonio comune. Ma quanto è duro mandare giù questo rospo quando le radici culturali affondano nel terreno comune, acquisito, politicamente stratificato, del socialismo. La cosa vale per l'Europa intera, ambigua e ammiccante: dici democrazia, ma alludi a un'utopia socialista, almeno sospirata. Molte delle difficoltà della Ue, infatti, risiedono nel sogno palingenetico post bellico, quando l'antifascismo caricò a bordo il sogno socialista invece di fare i conti con la soggettività dei Paesi europei. Perché anche «nazione» può non essere una parolaccia, se non ha mire oppressive ed espansive. Occorre deporre sul serio le ideologie del Novecento per restare antifascisti veri. Cioè, amanti della democrazia. Fiamma Nirenstein

Anche l'Anpi soffia sul fuoco: "FdI ha cultura fascista". Giuseppe De Lorenzo il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. I partigiani si schierano con Provenzano per mettere fuori Meloni dall'arco democratico: "Giusto il paragone con Msi fuori dall'arco costituzionale". In fondo c’era da aspettarselo. La sparata di Peppe Provenzano su Fdi e l’”arco democratico e repubblicano” non poteva che trovare l’appoggio dell’Anpi. Scontato. Non poteva essere altrimenti: la fantomatica lotta al fascismo, oggi che il fascismo rimane solo negli incubi di certi ossessionati, si traduce nella guerra a Fratelli d’Italia, colpevole di conservare nel cuore del proprio simbolo la fiamma ardente del Movimento Sociale Italiano. E l'Anpi su questo è sempre in prima fila. “Provenzano si è riferito a un presupposto politico degli anni ’70 - ha detto Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Associazione dei partigiani all'agenzia AdnKronos- quando si parlava dell’arco costituzionale riferendosi a tutti i partiti ad eccezione del Movimento Sociale Italiano”. Una “metafora” corretta perché “la cultura fascista è talmente incistata in Fratelli d'Italia che il simbolo è lo stesso dell'Msi, la fiamma tricolore, segno di una scelta consapevole di continuità politica”. Per carità, per Pagliarulo i contesti sono diversi (deo gratias), ma il discorso non cambia. Se il Msi era da tagliare fuori, lo è oggi anche FdI. E Fiuggi? E An? E il partito di destra che ha governato il Paese segnando un decennio? Cosa facciamo: li buttiamo nel water e tiriamo lo sciacquone antifascista, per far tornare la lotta destra-sinistra all’età degli anni di Piombo? Evidentemente sì. Sono però almeno tre gli errori commessi dall’Anpi. Primo. Nel passato con “arco costituzionale” ci si riferiva ai quei partiti che avevano eletto deputati alla Costituente e che dunque avevano partecipato alla scrittura della Carta. Il Msi, per ovvi motivi, venne escluso da questo consesso, anche se neppure il Pci si sognò mai di chiudere il partito di Almirante. Tutto questo, comunque, con FdI non c'entra un bel nulla: anche il Pd, che alla scrittura della Costituzione non ha partecipato, sarebbe tecnicamente “fuori dall’arco costituzionale”. Chiaro? Secondo strafalcione: Provenzano ha utilizzato termini differenti e ben più gravi. Il piddino ha infatti posto FdI fuori dall’arco “democratico e repubblicano”, che è molto peggio. Intanto perché non ha motivazioni storiche. E poi perché “democratico” e “repubblicano” FdI lo è sicuramente, checché ne dica Provenzano. Primo: partecipa alle elezioni legittimamente, come richiede “democrazia”. Secondo: non ha mire monarchiche né tantomeno dittatoriali. È così difficile da accettare? Il terzo errore dell’Anpi è quello di imputare a FdI l’eredità del Msi prima e di An poi. Senza dubbio vi è continuità ideale. E quindi? La paura che il Movimento Sociale tentasse di instaurare una nuova dittatura fascista poteva esistere nei primi anni della neonata Repubblica, non oggi. Chiediamo forse ai romani di dichiararsi anti-papisti per paura che torni lo Stato Pontificio? O ai francesi di firmare un documento anti-napoleonico? Suvvia. Rivendicare la fiamma che arde nel proprio simbolo significa collegarsi idealmente ad un comune sentire. Non significa essere “fascisti” o avere una “cultura fascista”. Significa riconoscersi in una comunità, in una cultura politica che è cresciuta nel Msi, è maturata in An ed è diventata oggi Fratelli d’Italia. Si può essere di destra, senza per questo diventare automaticamente delle squadracce nere fasciste. In fondo l’ultimo segretario del Msi fu Massimo Fini, che è stato terza carica dello Stato. Nessuno oggi potrebbe dire che An, che pure nel simbolo faceva ardere la stessa fiamma, sia stata una minaccia per la democrazia o la repubblica. O no? Anche perché, se applicassimo lo stesso metro, dovremmo dire che “la cultura” dell’Anpi è “incistata” dalle violenze del triangolo della morte emiliano. O che si pone in continuità con le stragi partigiane. È così? Ovviamente no. Allo stesso modo, Bersani può tranquillamente dire nel 2021 che il comunismo significhi ancora per lui “uguaglianza come uguale dignità”. Qualcuno gli fa mai notare che il “comunismo” significa Gulag, Stalin, Praga, Budapest e le foibe di Tito? No. Perché una cosa è la storia, un’altra le idee. Che crescono, si modificano, evolvono. Senza necessarie abiure totali. Meloni, peraltro, ha già condannato tutto il condannabile sul fascismo. Senza ambiguità.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad  

"La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso". Gabriele Barberis il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Ecco il vero danno scolastico". Il saggio del sociologo e della scrittrice Paola Mastrocola. Torna in campo il sociologo Luca Ricolfi, mente lucida e voce critica dell'area liberal-progressista. Con la moglie Paola Mastrocola (scrittrice, premio Campiello 2004 ed ex docente) ha appena scritto il libro «Il danno scolastico» che denuncia le gravi responsabilità della sinistra sullo scadimento dell'istruzione pubblica.

Professor Ricolfi, un saggio sulla scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Scusi la provocazione, ma dove sarebbe la novità?

«Forse non è una novità per lei, ma forse non sa che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sociologi non ha mai riconosciuto né analizzato l'impatto della qualità dell'istruzione sulla diseguaglianza. In questo libro noi dimostriamo, credo per la prima volta, che più la scuola abbassa il livello, più si allarga il divario fra le chance di promozione sociale dei ceti bassi e quelle dei ceti alti: la scuola senza qualità è un regalo ai ricchi. E la dispersione scolastica, su cui da decenni ci si straccia le vesti, è anche un effetto non voluto dell'abbassamento».

I danni dell'«istruzione democratica» sono il fardello finale del Sessantotto o ci sono responsabilità più recenti da parte di una sinistra ideologica?

«Sì, ci sono responsabilità posteriori al '68, ma ce ne sono anche di anteriori, prima fra tutte la istituzione della scuola media unica (1962), con la progressiva eliminazione del latino e il costante annacquamento dei programmi. Per non parlare dei danni del donmilanismo (Lettera a una professoressa è del 1967), un'ideologia che avrebbe avuto un senso negli anni '50, ma che alla fine dei '60, quando si diffuse, era divenuta del largamente inattuale e profondamente anti-popolare».

E le responsabilità successive al Sessantotto?

«Sono innumerevoli, a tutti i livelli. A partire dalla liberalizzazione degli accessi (1969), passando per la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990), fino alle grandi riforme della fine degli anni '90 nella scuola e nell'università, con la trasformazione delle scuole in pseudo-aziende e delle università in esamifici: il capolavoro del ministro Berlinguer».

Lei elenca casi concreti di totale ignoranza o scarsa capacità di comprensione da parte di studenti universitari preparati male. Prevede una classe dirigente nazionale fatta da figure incompetenti e inadeguate?

«Più che prevederla, la osservo. L'abbassamento è iniziato quasi 60 anni fa, e quindi ha avuto tutto il tempo di produrre un ricambio completo di classe dirigente. Direi che lo spartiacque è negli anni '70: chi è nato dopo non ha più usufruito di un'istruzione decente, semplicemente perché la maggior parte di coloro che avrebbero potuto impartirgliela era uscito di scena, e la maggior parte dei nuovi docenti avevano un livello di preparazione decisamente meno soddisfacente. Naturalmente non mancano le eccezioni (pessimi docenti di ieri, ottimi docenti di oggi), ma il trend è quello che è: chiaro e inesorabile».

Vogliamo parlare anche di docenti non all'altezza, se non imbarazzanti in certi casi? Anche loro sono passati attraverso le maglie larghe dell'egualitarismo?

«Il problema non è solo l'egualitarismo, o meglio l'egualitarismo malinteso che ha dominato la scena per mezzo secolo. Il punto cruciale, quello che rende i problemi dell'istruzione maledettamente complicati (e probabilmente irrisolvibili), è che la maggior parte delle famiglie e degli studenti hanno oggi altre priorità, e nuove scale di valori: la priorità numero 1 è il consumo, e la sciatteria non è considerata un difetto. Bastano queste due circostanze, che ogni docente trova bell'e fatte davanti a sé, a ostacolare enormemente il lavoro di chi prova a insegnare qualcosa».

Le riforme Moratti e Gelmini, varate durante i governi di centrodestra, hanno tentato di correggere storture ideologiche del passato. Come ne giudica gli effetti ad anni di distanza?

«Direi che, se ci hanno provato, hanno fallito completamente. Ma a mio parere non ci hanno provato granché, probabilmente perché condividevano un punto centrale delle mode degli anni '90: l'idea che la scuola vada pensata come un'azienda, di cui va valutata l'efficienza, e i cui azionisti di maggioranza sono le famiglie. Su questo punto cruciale vedo poche differenze fra destra e sinistra».

Se lei fosse il ministro dell'Istruzione quale provvedimento adotterebbe d'urgenza?

«Come sociologo, penso che dovremmo avere il coraggio di ammettere che ci sono problemi sociali non risolvibili. O meglio, ormai non più risolvibili perché si è lasciato passare troppo tempo. Quindi non ho proposte, tutt'al più provocazioni per far capire qual è il problema.

Una provocazione?

«Beh, un'idea ce l'avrei. Così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa (si può dire così?) del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma. Basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell'università, ossia il rilascio di certificati che attestano il falso».

Doppia domanda come analista politico. Dove sfocerà la tensione politica sul green pass? Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, si immagina un'Italia che torna alle urne tra pochi mesi al culmine di un clima di odio?

«Alla fine credo che il governo dovrà concedere qualcosa a chi non vuole né vaccinarsi, né accollarsi, per poter lavorare, 100-150 euro al mese di spesa per i tamponi. Quanto a Draghi presidente della Repubblica, la conseguente andata alle urne a primavera mi pare difficilmente evitabile. Però mi chiedo: siamo sicuri che votare nel 2022 sarebbe un male peggiore che andare alle urne nel 2023? In fondo prima o poi al voto dovremo andare. E sarebbe anche ora, visto che è da 13 anni che non riusciamo più a scegliere i nostri governanti».

Chiudiamo con la giustizia. Le continue invasioni di campo della magistratura condizionano la politica. Anche per lei sarebbe positivo il pieno ritorno dell'immunità costituzionale per i parlamentari per frenare lo strapotere delle procure?

«Anche in questo caso, come in quello della scuola, bisognerebbe prendere atto che una soluzione soddisfacente non esiste, e che siamo costretti a scegliere fra due mali. Nel 1993 il male maggiore era, o sembrava, il vizietto del Parlamento di negare in automatico l'autorizzazione a procedere. Dopo quasi trent'anni, il male maggiore è, o sembra, il protagonismo dei Pm, che ora si accanisce anche nei confronti dei sindaci. Di qui, per noi liberali e garantisti, il paradosso: la magistratura è caduta così in basso che siamo tentati di invocare l'immunità per un ceto politico che sappiamo essere il peggiore di sempre».

Gabriele Barberis Caporedattore Politica, Il Giornale

Orlando Sacchelli per ilgiornale.it il 14 ottobre 2021. Milano, 25 aprile 2016. Al campo X del cimitero Maggiore si ritrovano alcune centinaia di persone per commemorare i caduti della Repubblica sociale italiana. Lo fanno ogni anno. A un certo punto, alla chiamata del "presente", fanno il saluto romano. Alcuni vengono identificati e indagati, sulla base di quanto prevede la Legge Mancino, per apologia del fascismo. Ora, a distanza di cinque anni, la Cassazione scrive la parola fine e annulla la condanna dei quattro imputati, tra cui il presidente dell'associazione Lealtà Azione, Stefano Del Miglio. Nel processo di primo grado gli imputati furono tutti assolti, con la riqualificazione del fatto in articolo 5 della legge Scelba. Ma la procura si oppose e ricorse in appello, con la V sezione penale che riqualificò il fatto riportando l'articolo 2 della legge Mancino: gli imputati furono condannati a due mesi e 10 giorni di carcere. La sentenza fu impugnata e si è arrivati davanti ai giudici della Cassazione. All'udienza del 12 ottobre, discussa davanti alla I sezione penale, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dalla difesa e la conferma della sentenza di appello. La suprema corte però ha riconosciuto le ragioni esposte dalla difesa, annullando senza rinvio la sentenza di appello perché "il fatto non sussiste". "Siamo soddisfatti del risultato ottenuto all'udienza del 12 ottobre - commenta all'Adnkronos l'avvocato Antonio Radaelli -. Attendiamo il deposito delle motivazioni per capire l'iter logico della Suprema Corte di Cassazione. Resta il punto che compiere il saluto romano in ambito commemorativo, proprio come è accaduto in questo caso, non è reato".

La sinistra non è di sinistra. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 12 Ottobre 2021. «Se sindacati, partiti (di sinistra?), pseudo-intellettuali e giornaloni si fossero scagliati contro l’abolizione dell’articolo 18, lo sblocco dei licenziamenti, le delocalizzazioni, i salari da fame e la trasformazione della FIAT in una multinazionale di diritto olandese controllata dai francesi come oggi si stanno scagliando contro il ‘presunto’ ritorno del fascismo, beh, l’Italia sarebbe un paese migliore». Così parla Alessandro Di Battista – sempre diretto – e il suo ragionamento non fa una grinza, non fa una grinza, non fa una grinza. A riprova che la sinistra non è di sinistra (è solo radical, e moralista).

La galassia comunista che incita a "insorgere". Ma nessuno s'indigna. Dai Carc ai leninisti, tutti contro il green pass. Ieri incendiata l'immagine di Draghi.  Paolo Bracalini il 12/10/2021 su Il Giornale. Sul fronte dei disordini sociali e dei cortei violenti la sinistra estrema non ha nulla da invidiare a Forza Nuova e affini, anzi. Nelle manifestazioni no green pass erano infatti presenti anche i centri sociali, anche se il protagonismo del gruppetto di Fn ha dirottato l'attenzione e fatto passare l'idea che il mondo no vax e no green pass sia animato solo della destra estrema. Non è così, anzi in generale tra i movimenti che vedono nel «banchiere» Mario Draghi uno strumento delle élite finanziarie per chissà realizzare in Italia chissà quale piano occulto (il «grande reset» è l'ultima fantasticheria di questi ambienti), la sinistra radicale è presente in forze. Giusto ieri un gruppo di studenti antagonisti durante il corteo dei sindacati di base a Torino ha dato fuoco a una gigantografia del premier Draghi, mentre a Milano cori e insulti contro la Cgil e Landini «servi dei padroni». La matrice ideologica è opposta (là il neofascismo, qui il marxismo-leninismo) ma con esiti identici e spesso anche slogan identici (entrambi parlano di «lavoratori» e «popolo» oppressi dai «poteri forti»). Le organizzazioni che si richiamano esplicitamente alla lotta di classe leninista e alla resistenza contro il «governo capitalista italiano» sono svariate. Il «Partito Marxista-Leninista Italiano» con sede a Firenze, ad esempio, sostiene che «il governo del banchiere massone Draghi, al servizio del regime capitalista neofascista, deve ritirare immediatamente il decreto sul green pass perché le lavoratrici e i lavoratori che sono contrari non possono e non devono essere sospesi dal lavoro e privati del salario». Il partito, che pubblica un settimanale dal titolo Il Bolscevico (foto di Mao), a settembre ha organizzato una commemorazione per il 45 anni dalla scomparsa di Mao, per riflettere sugli insegnamenti sulla «lotta di classe per il socialismo». Nei suoi manifesti Draghi viene rappresentato come un drago con i simboli di Bce, euro e massoneria, mentre gli ebrei di Israele sono «criminali nazisti sionisti» che vanno fermati con la resistenza palestinese fino alla vittoria» (foto di un palestinese a volto coperto che lancia una pietra con una fionda). Poi ci sono il «Partito dei Carc» (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo), sede a Milano, il cui obiettivo è «insorgere», che significa - spiegano - costruire un fronte per cacciare Draghi e imporre un governo che sia espressione delle masse popolari organizzate». Anche i Carc sono no-pass, la loro tesi è che i fascisti sono stati infiltrati dal governo per screditare il movimento popolare contro il green pass, «imposto da Draghi e da Confindustria». I Carc negli anni scorsi sono stati protagonisti di scontri e vicende giudiziarie, insieme al «Nuovo Partito Comunista Italiano», che invita i compagni rivoluzionari a «violare la legalità borghese», cioè a commettere reati, sull'esempio di Mimmo Lucano. Con toni un po' meno minacciosi, anche altre due organizzazioni di estrema sinistra, «Rete Comunista» e «Partito di Alternativa Comunista» a lottare contro il governo Draghi e i suoi mandanti, e contro il green pass, uno strumento creato «per tutelare gli interessi economici della borghesia». Idee e posizioni, come si vede, speculari a quelle di Forza Nuova. E spesso, come per i centri sociali e i movimenti antagonisti, altrettanto violente.

Gli apprendisti stregoni. Tutti uniti contro i fascisti, ma parliamo anche di un altro paio di cosette tra noi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. In troppi hanno attizzato il fuoco, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti. Una volta spento l’incendio, bisognerà discuterne molto seriamente. L’assalto di sabato alla sede della Cgil, invasa e devastata da fascisti e no vax provenienti dal corteo contro il green pass, e il tentativo di fare lo stesso con il Parlamento, sventato in extremis dalle forze dell’ordine, rappresentano quanto di più vicino all’attacco del 6 gennaio al Congresso americano sia capitato in Italia, almeno finora. Dietro il paradossale connubio di movimenti di estrema destra e parole d’ordine anarco-libertarie s’intravede un sommovimento profondo che non tocca soltanto il nostro Paese. Dietro i neofascisti che gridano slogan contro la dittatura (sanitaria, s’intende), dietro gli squadristi che hanno devastato la sede della Cgil – e che in piazza gridavano «Libertà! Libertà!» – non è difficile vedere lo stesso magma che in Francia alimenta le proteste di piazza in cui Emmanuel Macron viene paragonato a Hitler e le misure anti-Covid al nazismo, raccogliendo il consueto impasto di estrema destra, gilet gialli e ultrasinistra populista (Jean-Luc Mélenchon, il massimo esponente di quella che potremmo definire la linea giallorossa d’Oltralpe, si è schierato contro il green pass con parole analoghe a quelle usate qui da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari). Per non parlare degli Stati Uniti, dove la presa di Donald Trump sul Partito repubblicano è ancora fortissima, i no vax numerosissimi e aggressivi, e la situazione assai più pericolosa di quanto possa sembrare a prima vista. Il rischio di un cortocircuito tra crisi sanitaria e crisi sociale è alto ovunque, e l’Italia non fa eccezione, come denuncia proprio l’inatteso richiamo delle manifestazioni di sabato e la violenza che da quelle dimostrazioni si è sprigionata. Si tratta di episodi gravi, in se stessi e per quello che promettono per il futuro, in vista del 15 ottobre, data in cui entrerà in vigore l’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro. È dunque altamente auspicabile una presa di coscienza generale del pericolo, anzitutto da parte delle forze politiche, ma anche dei mezzi di comunicazione e di tutti coloro che hanno una qualche influenza sul dibattito pubblico. C’è bisogno della più larga unità e della massima fermezza, ed è giusto subordinare a questa priorità ogni altra esigenza. Compresa quella di chiarire un paio di cose, che prima o poi andranno chiarite comunque, ai tanti che finora hanno giocato sul filo dell’ambiguità, per non dire di peggio, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti, offrendo ai propalatori di una simile spazzatura tribune autorevoli e spazi assolutamente ingiustificati. In troppi hanno contribuito irresponsabilmente ad attizzare il fuoco, e bisognerà discuterne a fondo, perché una simile tendenza mette in luce una fragilità strutturale della democrazia italiana, o perlomeno del nostro dibattito pubblico. Adesso, però, occorre pensare a spegnere l’incendio, che fortunatamente, nonostante tutto, appare ancora relativamente circoscritto. Delle sue origini parleremo poi. Ma presto o tardi ne dovremo parlare. Eccome se ne dovremo parlare.

"Una protesta pacifica infiltrata da utili idioti. Le teste rasate usate: si scredita il dissenso". Luigi Mascheroni l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il filosofo del "pensare altrimenti": "Dire No al pass non è né di destra né di sinistra, il movimento è a-politico. Ora si limiteranno le manifestazioni". Diego Fusaro, filosofo del «pensare altrimenti», né di destra né di sinistra, lo ha scritto in modo chiaro nel suo nuovo libro, Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset (Piemme): l'emergenza è diventata un metodo di governo, che sfrutta la paura del contagio per ristrutturare società, economia e politica mentre è la sua tesi - diritti e libertà fondamentali vengono sospesi.

Diego Fusaro, cosa è successo ieri a Roma?

«È successo che sono scesi in pazza moltissimi italiani in forma pacifica e democratica: uomini, donne, famiglie, anziani e lavoratori che vogliono dire no all'infame tessera verde chiamarla green pass è già legittimarla e poi, puntualmente, è arrivato un gruppo di scalmanati con la testa rasata che ha usato una violenza oscena e inqualificabile che, a sua volta, ha giustificato una violenza di ritorno da parte del potere. E così sono stati etichettati come violenti tutti quelli che hanno manifestato, quando invece così non è».

Perché dice puntualmente?

«Perché accade sempre così: movimenti di protesta pacifici e democratici vengono infiltrati da gruppi di utili idioti che il potere usa di volta in volta per creare una tensione per citare la celebre strategia - che non ha nulla a che vedere con i pacifici manifestanti che in maniera democratica si oppongono a un provvedimento che reputano illegittimo».

Quindi ieri un movimento moderato di piazza è stato inficiato da un una minoranza di teste calde.

«Una modalità prefetta per screditare il dissenso».

È possibile che gli opposti estremismi, a destra e sinistra, si saldino nella protesta contro il green pass?

«Non ho elementi per dirlo. Ciò almeno non avviene nelle piazze Non finora. Quello che so invece è che dire No al green pass non è né di destra né di sinistra né di centro. È una protesta che non ha matrici ideologiche e davvero trasversale - tanto è vero che ci sono anche pezzi dell'estrema destra e dell'estrema sinistra invece favorevoli al green pass - che tiene dentro tutte le anime della politica, da quella socialista a quella liberale Al di là delle teste rasate che vanno in piazza e dei filosofi di sinistra che stanno nei talk show o sui social, è un movimento a-ideologico che riguarda gente comune che non accetta l'esproprio dei diritti costituzionali. Che poi qualcuno voglia capitalizzare politicamente il dissenso, questo va da sé».

Ci sono delle colpe in quello che è successo ieri? Qualcuno ha soffiato sul fuoco?

«No, non credo. Chi doveva vigilare ha fatto quello che doveva fare. La gente che era in piazza era gente tranquilla, fino a che è arrivato qualcuno che mi è sembrato organizzato - col compito di rovinare la protesta pacifica. Le colpe non sono né delle forze ordine né dei manifestanti, ma di qualcun altro».

Cosa succederà ora?

«Temo che adesso ci sarà un inasprimento nel modo di trattare chi si oppone alla famigerata infame tessera verde. Si limiteranno spazi e modi di aggregazione e raggruppamento, si generalizzerà dicendo che tutti sono facinoroso e violenti E così chi ha organizzato devastazioni e assalti di ieri avrà raggiunto lo scopo. Screditare chi va in piazza e criminalizzare la protesta in quanto tale. Io resto fermamente convinto che occorra opporsi, in maniera pacifica e democratica, alla tessera verde della discriminazione e del controllo totalitario delle esistenze».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Gli sfascisti. Francesco Maria Del Vigo l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Capiamo che la sinistra, a corto di idee, abbia la necessità elettorale di trovare un nemico a tutti i costi, se possibile il «nemico assoluto», cioè quel fascismo morto e sepolto più di settant'anni fa. Tra pochi giorni si tornerà alle urne e, crollato l'impianto accusatorio del caso Morisi e finita l'eco delle inchieste giornalistiche su Fidanza e Fdi, c'era bisogno di resuscitare il cadavere delle camicie nere per colpire anche tutta la destra, che con testoni del Duce, fez e labari non ha nulla a che spartire. L'assist lo offrono gli imbecilli squadristi che hanno assaltato le camionette della polizia, devastato la sede della Cgil e assediato il cuore della Capitale in nome di non si sa quale libertà. Probabilmente quella di essere criminali. Un attacco al cuore dello Stato e delle istituzioni che deve essere punito con il massimo rigore, non solo con i sacrosanti arresti del giorno dopo, ma possibilmente con un'opera di intelligence e prevenzione. Però sabato nelle piazze, oltre a Forza Nuova, c'erano le frange più violente degli ultras, la galassia dei vari «No» a tutto - ovviamente a partire dai vaccini e dal green pass - e c'erano anche gli anarchici. Perché i delinquenti tra loro si attraggono, sono la manovalanza della violenza a ogni costo, quelli che appena c'è un'occasione scendono in strada per spaccare tutto. A Milano, su cinquanta fermati, la metà proveniva dalla galassia dei centri sociali. Anche se è brutto dirlo e qualcuno fa finta di non saperlo. Perché la sinistra chic ama flirtare con le ali più estreme e quando la «meglio gioventù» si trastulla devastando i centri urbani, c'è sempre un clima di tolleranza, riecheggia lo stomachevole ritornello di «compagni che sbagliano». Come se la violenza rossa fosse un po' meno violenta. Ecco, la fermezza bipartisan con la quale sono stati condannati gli scontri di Roma ci piacerebbe vederla sempre, di fronte a ogni atto di violenza. Noi, da queste colonne, abbiamo sempre chiesto il massimo della severità per chi devasta le città: che sia di destra o di sinistra. E continueremo a farlo.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021.  

Guido Crosetto, qual è il significato di queste piazze e di queste violenze?

«Da una parte c'è il legittimo diritto di ognuno di noi a protestare o comunque a manifestare il proprio pensiero. Questo le Costituzioni democratiche lo concedono anche a un solo cittadino su 60 milioni. Quando i cittadini che protestano sono decine di migliaia, e nel caso di non possessori di Green pass parliamo di milioni di persone, uno Stato il problema deve porselo e affrontarlo con serietà ed equilibrio».

Sta dicendo che non si deve semplificare e considerare tutti violenti?

«Per fortuna, non sono tutti violenti. I violenti sono quelli che utilizzano ogni manifestazione legittima di protesta, per auto-promuoversi, distruggendo le città e smontando con le loro violenze qualunque ragione, anche sbagliata, delle manifestazioni». 

Sta naturalmente parlando di Forza Nuova?

«Ma certo. Non è la prima volta che questi nazi-fascisti (di cui non capisco come possano essere liberi i capi, visto che hanno la proibizione di uscire di casa) approfittano per prendersi visibilità mediatica e politica. E non mi stupirei che guadagnassero pure. Mi sono sempre chiesto come facciano a sostenersi queste organizzazioni estremiste. E come mai le loro violenze molto spesso hanno come risultato solo quello di annullare il messaggio di alcune manifestazioni».

Sta dicendo che c'è qualcuno che li paga?

«Non lo so, ma non mi stupirebbe». 

Quelli che legittimamente protestano finiscono per essere strumentalizzati dai peggiori?

«Purtroppo, sì. Vengono strumentalizzati e purtroppo tacitati. Tra quei 10mila in piazza penso ci siano persone di destra, di sinistra, di centro, apartitici, apolitici, astensionisti. C'è di tutto». 

Un mondo di non rappresentati che si sente vittima dei violenti?

«E' un mondo che non trova interlocuzioni con le istituzioni. Quando una democrazia perde la capacità di discutere e di confrontarsi con un pezzo del Paese, fa un passo indietro e lascia spazio a quelli che, come Forza Nuova, vogliono minare e distruggere la democrazia». 

I 5 stelle, quando erano forti, dicevano: noi siamo l'argine alla rabbia sociale. Senza di noi sarà solo violenza. Non c'è il rischio che sia così?

«Il tema è che l'argine alla rabbia sociale deve essere lo Stato, devono essere le Istituzioni. E' lo Stato che deve avere meccanismi di dialogo, di convincimento, di approccio con chiunque, anzi quelli di cui non capisce le ragioni. Chi pensa che si possano cavalcare movimenti di protesta, solo per incalanarli in un voto a un partito e in violenza, gioca contro lo Stato e contro ognuno di noi. I partiti non devono assecondare le proteste ma devono ascoltarle e proporre soluzioni alle tematiche sollevate. E semmai aiutare lo Stato a riprendere un dialogo interrotto. Mi è sempre sembrata superficiale l'auto-descrizione di M5S come argine. Basti vedere dove è finito l'argine».

Salvini e Meloni però vengono accusati di fomentare sotto sotto queste piazze. 

«Questo è un altro modo per alimentare, per motivi politici, fratture tra partiti che diventano ferite nel corpo dello Stato. I partiti hanno il dovere di rappresentare nelle istituzioni tutte le istanze sociali, se queste hanno una legittimità, tutte. Questa consapevolezza, pare mancare. Fratelli d'Italia e Lega non sono mai stati partiti No Vax. Hanno però posto questioni, sollevato dubbi su alcune scelte politiche riguardanti la lotta alla pandemia. Ad esempio sul Green pass non hanno attaccato lo strumento, ma l'estensione di questo strumento ad alcuni ambiti, come il lavoro, che portano a conseguenze molto dure. Ricordo inoltre che le questioni sul Green pass che questi partiti pongono al governo provocano spaccature anche al loro stesso interno. Lega ed Fdi hanno loro stesse un fortissimo dibattito interno, molto duro, tra chi sostiene scelte rigoriste vicine alle posizioni del governo e chi invece cita le posizioni anti Green pass di pensatori di sinistra come Cacciari, Agamben e Barbero». 

Guai a minimizzare però gli attacchi squadristi?

«Mai. Vanno condannati con durezza. Dopo queste orrende vicende, anche chi guardava a quella piazza con rispetto, anche se non la condivideva, oggi non ne può neanche parlare. Io mi preoccupo se qualcuno, che ha sempre rispettato le idee di tutti, comincia ad avere paura di esprimere le proprie. A me ad esempio capita sui social. Per non aver assecondato una lettura sulla Meloni in tivvù, subisco attacchi come se fossi un fascista. Ed invece sono da sempre un cattolico liberal democratico, da tempo fuori dalla politica».

Lei è Giorgia. Non è fascista, la Meloni, ma nemmeno antifascista. Così le prende da tutti ed è colpa sua. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La leader di FdI, frastornata da accuse di cui si sente vittima, condanna una generica zuppa di “ismi” ma non serve: in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto. Fini lo sanò in An e ora rampolla di nuovo tra gli eredi del Msi. Proviamo a fare lo sforzo di entrare nella testa di Giorgia Meloni, nella psicologia di una giovane donna che improvvisamente rischia di passare dalle stelle alle stalle per qualcosa che non riesce ad afferrare, a capire, e che vive queste ore con un certo sgomento oscurato solo dal suo arrogante sbuffare. Fascismo? Quale fascismo? Che c’entro io, che non ero nemmeno nata eccetera eccetera?

Lei probabilmente si sente come un pesce finito nella rete di un complotto che non può che essere stato ordito, nell’ordine: dai poteri forti; dalla sinistra; dai giornali; dalla tecnocrazia europea. Tutto un armamentario tecnicamente reazionario: torna l’Europa cattiva, hanno ragione polacchi e ungheresi. Lei è la vittima. «Sono Giorgia», ricordate? Sembra tanto tempo fa, stava prevalendo nei sondaggi, vendeva tante copie del suo libretto, giusto? Ed eccoli là, da Fanpage a Ursula von der Leyen me la stanno facendo pagare: dopo Matteo Salvini (che starà godendo) adesso tocca a me – si dirà nel suo flusso di coscienza – certo i gravi fatti di Roma vanno condannati, senza dubbio, quella non è gente “nostra”, i Fiore e i Castellino anzi ci odiano, dunque che volete da noi? E poi si fa presto a dire fascisti, ma io non so quale fosse «la matrice» degli squadristi che hanno assaltato la Cgil, ho preso le distanze, che altro volete da me… Già chissà a chi gli può venire in mente di sfondare il portone della Cgil, un bel rebus, Giorgia, ma perché ieri non sei andata da Landini invece che dai franchisti di Vox? Appare chiaro che Meloni non ha capito la situazione. Vede la strumentalizzazione anche laddove c’è persino una indiretta sollecitazione a venir fuori una volta per tutte dalla melma della Storia. Non è capace di intendere che i conti con il passato bisogna farli non solo per mondarsi di certe sozzure ma che la chiarezza è un’opportunità per disegnare per sé e la propria parte un nuovo inizio. Non ha la forza d’animo né la passione intellettuale per cogliere che la politica è anche dolore, fatica, dialettica. Altrimenti non farebbe di tutto per impedire che il passato diventi il fantasma che la innervosisce tanto. E inciampa di continuo: non lo sapeva che Enrico Michetti scriveva frasi antisemite? Scriveva il filosofo marxista György Lukács: «I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi». Ce l’aveva con i sovietici del post-destalinizzazione, ma la frase ben si attaglia alla destra italiana di oggi: «Non ero nata», che c’entro col fascismo? È una risposta burocratica, se non sciocca, che ignora che la Storia è un rapporto tra il passato e il presente. Che il passato va elaborato, come il vissuto personale, e non rimosso come fa lei, perché altrimenti i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco perché la sua intervista al Corriere della Sera è intrinsecamente debolissima, perché non fa conto di quel rapporto, non prende in considerazione che certi germi di ieri – un po’ come la variante Delta – si rinnovellano, forse non spariscono mai. Ecco, dovrebbero essere questi germi l’oggetto del discorso della leader dei Fratelli d’Italia più che l’aggiunta, che pare fatta tanto per farla, del fascismo tra le cose brutte. FdI tolga la fiamma missina dal simbolo, o compia comunque un atto forte di rottura. Perché non lo fa? Perché in certi quartieri di Roma, in alcuni posti del Sud, in diverse zone disagiate del Paese, non si rinuncia al voto nostalgico, maschio, tosto. Meglio non strappare quei fili. Peccato, perché così non diventerà mai grande, Giorgia Meloni, che non ce la proprio a impersonare una destra moderna. È un discorso che lei non sente perché Giorgia pensa che i brutti “sogni neri” siano finiti. Infatti ancora ieri, sulle squadracce romane, è tornata con quella sua vaghezza infastidita: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto». E così ci risiamo. Fascismo, nazismo, comunismo, totalitarismo: stessa zuppa. Non comprendendo, al di là delle evidenti lacune storiche, che in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto, che si chiama fascismo. Gianfranco Fini, alla fine, aveva compreso che questo era il punto e che non si poteva più girare intorno. «Anche io ero in An», dice Giorgia. Vero, ma lei a Gerusalemme a dire che il fascismo è il male assoluto non ci è mai andata. Né si ricorda una qualche sua elaborazione a sostegno della svolta finiana, probabilmente vissuta come mossa tattica, marketing politico, nulla più, tanto è vero che lei non seguì la vicenda di Futuro e libertà ma restò con Silvio Berlusconi in attesa di rifare prima o poi un Msi 2.0. Non capendo che «la storia non ha nascondigli», soprattutto la propria storia. Giorgia Meloni, se andasse al governo, farebbe molti pasticci ma certo non abolirebbe le libertà democratiche. Non è questo il punto. Il punto è che lei è estranea all’antifascismo – probabilmente considera la Resistenza una roba dei comunisti per nulla edificante – e dunque al valore fondante della Costituzione. È questo che le impedisce da stare al di qua della barricata contro i neofascisti per i quali prova soprattutto un’enorme animosità perché le rendono impervia la strada verso il governo, e solo questo. Non è fascista, Giorgia, e nemmeno antifascista. Nel mezzo, le prende da entrambi i fronti, ed è solo colpa sua. 

Il cortocircuito delle idiozie. L’appropriazione culturale del neofascismo sull’umana scemenza no vax.

Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. C’è una parte della popolazione che non capisce un cazzo di niente. Neppure l’istruzione obbligatoria ha risolto questo problema, figuriamoci se lo risolve l’uso delle stigmatizzazioni sciatte (“fascisti!”) che usiamo per fare delle analisi sociologiche che rientrino in una storia su Instagram. La didascalia della foto in apertura della prima pagina di Repubblica, ieri, diceva: «Il momento in cui NoVax e neofascisti irrompono nella sede nazionale della Cgil». Di spalle, si vedono un po’ di bomber neri (il 1985 non è mai finito), pochi passamontagna, alcune teste rasate, un paio di bandiere tricolore. Nella parte bassa della foto, in primo piano, si vedono soprattutto tre cellulari. Tre persone – due uomini e una donna, perdonate la binarietà – che, mentre noi indichiamo il fascismo, pensano alla storia da postare su Instagram. Nell’ipotesi improbabile in cui una dittatura d’ottant’anni fa costituisse un pericolo imminente nelle democrazie occidentali del Ventunesimo secolo, il presente avrebbe già trovato l’antidoto: scriversi «antifa» nelle bio sui social. Non mi meraviglierei se tra quelli che hanno devastato alcune strade di Roma sabato ci fossero alcuni di coloro che sui social si definiscono «antifa»: per loro la dittatura è fargli il vaccino gratis, mica fare i teppisti (e in effetti i teppisti, in dittatura, finiscono in galera, mica nelle storie di Instagram). “Fascismo” è una parola confortevole. È comoda per mettere una distanza – loro sono fascisti, noi no – e per evitare di pensare. Per evitare di fare un’analisi del presente invece d’impigrirsi a liquidare qualunque teppista come nostalgico d’un’ideologia che neppure ha vissuto, durante la quale neppure era nato. Un’ideologia che, per inciso, l’avrebbe preso a coppini (eufemismo) se a una regola imposta dallo Stato, fosse stata una mascherina o un lasciapassare, avesse risposto con dei capricci da cinquenne. Sì, lo so che hanno assaltato la Cgil, facendo subito commentare ai social di sinistra: «E perché non Confindustria?». Forse perché sta due ore di strada più a Sud, in quell’ingorgo cinghialesco che è il traffico romano? È solo un’ipotesi, per carità. E lo so che, tra gli assalitori d’un’istituzione di sinistra, c’erano dei capetti neofascisti: ma non sarà che sono semplicemente andati ad appropriarsi d’una scemenza (malcontento, bisognerebbe dire: “scemenza” è troppo diretto) che esisteva a prescindere da loro? Quella del neofascismo nei confronti dell’umana scemenza non sarà appropriazione culturale? Dice eh, ma erano violenti, la violenza è fascista. Mah, mi sembra che gli esseri umani fossero violenti da un bel po’ prima che venisse immaginato il fascismo e abbiano continuato a esserlo quando il fascismo è finito (sì, lo so che secondo voi non è mai finito perché non siete disposti a rinunciare a una categoria così comoda per stigmatizzare chiunque non la pensi come voi: fascisti, radical chic, populisti – una volta svuotate di senso, le categorie sono comode come vecchi cashmere slabbrati). Forse “lassismo” è uno slogan più adatto. Sono quasi due anni che facciamo – parlo a nome della maggioranza – tutte le cose richieste dalla logica, dal buonsenso, dallo Stato. Ci mettiamo la mascherina, stiamo a casa, compriamo l’amuchina, ci vacciniamo, urliamo dentro le mascherine all’ufficio postale e dalla manicure perché tra distanziamento e plexiglas e mascherine è come esser diventati tutti sordomuti (che è una frase abilista, ma ora non cambiamo settore di scemenza sennò ci perdiamo). Sono quasi due anni che quotidianamente c’è qualche notizia di gente che – con continuità caratteriale, come prima parcheggiava in seconda fila «solo due minuti» – concede a sé stessa deroghe. Falsifica certificazioni verdi, si affolla ad aperitivi, tiene la mascherina abbassata perché si sente soffocare: scegliete voi la cialtronata del giorno. A quel punto la cittadinanza si divide in minoranza isterica che urla «si metta quella cazzo di mascherina» (sì, ogni tanto anch’io: bisogna pur sfogarsi); e maggioranza lassista che sospira «eh, ma la gente è stanca». Ma stanca di cosa? I manuali di autoaiuto non dicono che per acquisire una nuova abitudine ci vogliono tre settimane? Non dovrebbe ormai essere un automatismo, mettersi quella cazzo di mascherina su quel cazzo di naso? Non hai preso l’abitudine, se quest’anno e mezzo l’hai passato a rimuginare che la mascherina è una vessazione, il vaccino è un sopruso, la dittatura sanitaria no pasará. Non al fascismo, hai aderito, ma all’assai più contemporanea dittatura del vittimismo, che usa l’eccezione – sia essa costituita da un infinitesimale numero d’intersessuali o di allergici al vaccino – per spacciare per vessazione qualunque ovvietà, da «i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali» a «se c’è una malattia mortale e un vaccino che la previene, ci si vaccina»; e a quel punto, se vessazione è, la ribellione violenta è non solo consentita ma plaudita. L’altro giorno il governatore del Veneto, Zaia, ha detto che l’obbligo della certificazione verde sarà un casino perché solo in Veneto ci sono 590mila non vaccinati in età lavorativa, e non si riesce a fare a tutti loro il tampone ogni due giorni. Ricopio dall’intervista di Concetto Vecchio: «Non si tratta di contestare il Green Pass, bensì di guardare in faccia la realtà: gran parte di questi 590mila probabilmente non si vaccineranno mai». Zaia non lo dice, perché i politici non possono permettersi il lusso di dire che l’elettorato è scemo, ma la questione quella è. C’è un’ampia parte dell’umanità che non capisce un cazzo di niente, è un problema che non s’è risolto con l’istruzione obbligatoria, figuriamoci se si risolve con stigmatizzazioni sciatte quali “fascismo”. E invece siamo qui, a chiederci se Cacciari abbia preso le distanze dalla manifestazione degenerata, Giorgia Meloni dalle leggi razziali, Muhammad Ali dagli attentati alle Torri Gemelle. Siamo come quelli che stavano sulla prima pagina di Repubblica ieri: alla ricerca di analisi sociologiche che rientrino in quindici secondi di storia Instagram.

Sinistra e Cgil si mobilitano. "Ora Forza Nuova va sciolta". Pasquale Napolitano l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il sindacato lancia un corteo antifascista per sabato prossimo. Pd e M5s: è un partito contro la Costituzione. In piazza sabato 16 ottobre e scioglimento di Forza Nuova: sono due richieste che partono dall'assemblea generale della Cgil convocata ieri in risposta all'assalto avvenuto contro la sede di Roma del sindacato dai manifestanti del corteo no green pass. Al presidio in Corso Italia a Roma fanno tappa tutti i leader dei partiti: Nicola Zingaretti ed Enrico Letta (Pd), Giuseppe Conte (M5S), Teresa Bellanova ed Ettore Rosato (Italia Viva), Francesco Lollobrigida (Fdi), i candidati sindaco di Roma Roberto Gualtieri ed Enrico Michetti, l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Tra bandiere rosse e cori antifascisti, centinaia di dimostranti manifestano intonando «Bella Ciao». Il clima è quello dei grandi raduni. Ad aprire la manifestazione, l'intervento del segretario generale della Cgil Maurizio Landini: «Ci attaccano perché siamo sulla strada giusta ma noi non ci fermeremo. Da domani all'apertura, alla ripresa del lavoro, in ogni città in ogni condominio dobbiamo riprenderci la parola senza paura. Tutte le formazioni che si rifanno al fascismo vanno sciolte, e questo è il momento di dirlo con chiarezza. Sabato 16 abbiamo deciso, insieme a Cisl e Uil, che è giunto il momento di organizzare una manifestazione nazionale antifascista e democratica: il titolo sarà Mai più fascismi». L'appuntamento è per sabato 16 ottobre: tutti in piazza alla vigilia del voto per i ballottaggi. Il leader della Cgil chiede uno scatto in più: «È molto importante che le forze politiche oggi qui ci siano, la difesa della democrazia e della Costituzione è centrale. Mi auguro che tutti siano coerenti con la loro presenza qui davanti». L'ex presidente del Consiglio Conte annuncia l'adesione del M5s alla manifestazione di sabato e chiama in ballo i partiti di destra: «Auspico che anche Salvini e Meloni partecipino». Poi si unisce alla richiesta di scioglimento per Forza Nuova: «Non possiamo accettare che nel nostro paese ci siano aggressioni di questo tipo. Quindi su Forza Nuova è una valutazione che affidiamo alla magistratura ma anche io ritengo che ci siano le condizioni per lo scioglimento. È evidente che ci sia una volontà deliberata di condurre attacchi squadristi e questo non lo possiamo accettare». Letta fa tappa nel pomeriggio al presidio e avverte: «Esiste un fermento e cova un malessere fortissimo. Credo che bisogna alzare la guardia, ed essere netti sulla questione dello scioglimento Forza Nuova. Le immagini sono chiare, non ci sono molti dubbi. Presenteremo una mozione, poi sono altri i meccanismi che portano allo scioglimento. Ma la Costituzione è chiarissima, non ci sono dubbi che Forza Nuova debba essere sciolta». La presidente del Pd Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, il paese dell'Appennino bolognese colpito dal grande eccidio nazifascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lancia su Change.org una petizione per sciogliere organizzazioni e partiti neofascisti. «I fatti di Roma sono solamente l'ultima goccia. È ora i dire basta alla violenza squadrista e fascista. Un basta definitivo. È ora, come già richiesto dall'Anpi nell'appello Mai più fascismi, di sciogliere Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Fiamma Tricolore e tutti i partiti e movimenti che si rifanno alle idee e alle pratiche del fascismo» - rilancia Cuppi. Per Fratelli d'Italia arrivano Francesco Lollobrigida ed Enrico Michetti. «Sono andato a Corso Italia perchè noi condanniamo ogni forma di violenza politica, specie quando colpisce i lavoratori e le loro rappresentanze» spiega il capogruppo Fdi alla Camera dei deputati. Pasquale Napolitano

Forza Nuova? Perché con la destra non c'entra niente: anzi, ne è nemica. Andrea Morigi su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Sono vent' anni o giù di lì che Forza Nuova si presenta alle elezioni andando sì a pescare consensi negli ambienti di destra, ma in alternativa alla destra. Sono gli avversari e i concorrenti di Fratelli d'Italia, come lo sono stati di Alleanza Nazionale e lo furono del Msi. Non contigui e nemmeno ramificazioni dello stesso albero. Soltanto che, ai tempi di Giorgio Almirante, non accadeva mai di assistere a superamenti a destra. Al massimo vi fu la sfortunata scissione a sinistra, cioè centrista, di Democrazia Nazionale. Qui però, destra sembra ormai un termine improprio. "Le destre", come le chiamano i nostalgici della Resistenza, semplicemente non esistono. Semmai quella che si è radunata sabato in piazza del Popolo a Roma è un'organizzazione antisistema, "oltre la destra e la sinistra", che non accetta etichette sebbene affondi le sue radici politico-culturali nella cosiddetta "autonomia nera", da sempre estranea al "partito", giudicato borghese e compromissorio. Sono realtà nemiche l'una dell'altra, con obiettivi politici diversi e un atteggiamento opposto nei confronti delle istituzioni democratiche. Mancano loro infatti un terreno e un nemico comune, paragonabili a quelli che condivide la sinistra quando va in piazza il 25 aprile per festeggiare la Liberazione. A meno che s' intenda l'opposizione al gender, al ddl Zan e all'aborto come un tema unificante, ma a quel punto occorrerebbe includere nel fronte reazionario anche il Sommo Pontefice. Le frange neofasciste tuttavia si pongono fuori dalla Chiesa, in opposizione al Concilio Vaticano II. Forza Nuova, comunque, non gradisce nemmeno la definizione di "fascista" e forse non sarà soltanto per ottenere lauti risarcimenti se i loro dirigenti hanno querelato - vincendo in giudizio - gli organi d'informazione che hanno osato definirli tali. La genealogia è un'altra. È l'area che, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1969 del manualetto La disintegrazione del sistema di Franco Giorgio Freda, teorizza l'unificazione fra movimenti rivoluzionari, dopo essersi alimentata dell'antiamericanismo dei reduci della Repubblica Sociale Italiana e perfino dell'opposizione alla Nato del primo Msi. Da quelle parti e a quell'epoca, i cosiddetti nazimaoisti ammirano Ernesto Che Guevara e i vietcong, perché sono nemici giurati degli Stati Uniti tanto quanto i "camerati" che hanno combattuto contro le truppe alleate durante la Seconda Guerra mondiale. Qualche riferimento nazionalbolscevico o al fascismo immenso e rosso, in fondo, conferisce anche un'atmosfera romantica all'ideale totalitario del patto Molotov-Ribbentrop. Il trasbordo ideologico si può dire pienamente compiuto nel 1979, quando vede la luce il numero zero del periodico Terza Posizione, che saluta il trionfo della rivoluzione khomeinista in Iran. "Né Usa né Urss!", slogan da Paesi non allineati, cessa così di inneggiare all'Europa Nazione e acquista da quel momento una sinistra e cupa deriva verso il fondamentalismo islamico. Forza Nuova, in realtà, subisce già dalle sue origini l'influenza di un tradizionalismo cattolico che vede nelle gesta dei combattenti maroniti un esempio di testimonianza cristiana, salvo poi trovare negli anni un punto di contatto anche con Hezbollah, il partito sciita libanese. Anche questi ultimi, del resto, salutano col braccio teso. Come i militanti che si ritrovano a Predappio alla tomba di Benito Mussolini, senza trascurarne il passato socialista.

"Quali prove vogliono ancora contro il fascismo". Meloni, gioco sporco a sinistra: fin dove si spingono, persecuzione? Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 ottobre 2021. Le avevano chiesto di dire parole chiare sul fascismo. E ieri, sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni le ha dette. «Nel dna di Fratelli d'Italia», ha spiegato, «non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro». E ancora, se non fosse stata abbastanza netta: «I nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato». Insomma, piacciano o meno le sue dichiarazioni, non si può dire che Giorgia sia stata vaga o non abbia voluto affrontare la questione. Quindi? Archiviamo le polemiche di queste settimane sul pericolo fascista e torniamo ad occuparci di quello che succede nel ventunesimo secolo? Ovviamente no. Perché la sinistra non è soddisfatta. E chiede ulteriori prove...

UN CRIMINE

«Anche oggi», attacca Andrea De Maria, deputato del Partito democratico e già sindaco di Marzabotto, «Giorgia Meloni fa finta di non capire: nella sua intervista non c'è alcuna condanna del fascismo né l'intenzione di chiudere con quel mondo che ancora si ispira agli orrori del Ventennio. C'è invece la presunzione di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo. Come se non conoscesse la storia del nostro Paese e il ruolo dei comunisti italiani per la conquista della libertà e la costruzione della democrazia. Per una che vorrebbe guidare il Paese non solo è ormai tardi ma è ancora davvero troppo poco». Anche i Cinque Stelle, poi si sentono in diritto di chiedere alla Meloni ulteriori prove di democraticità. «Sul fascismo», sostiene Mario Perantoni, deputato M5S e presidente della commissione Giustizia della Camera, «ha detto parole definitive un uomo che lo aveva subito, Sandro Pertini. Spiegò che il fascismo non è un'opinione ma un crimine. In commissione Giustizia abbiamo avviato l'iter della proposta di legge contro l'uso di simboli e immagini che possano propagandare le idee nazifasciste: è un testo di iniziativa popolare sostenuto dal sindaco di Sant' Anna di Stazzema Maurizio Verona al quale personalmente tengo molto e che credo debba essere condiviso da ogni forza democratica». E poi: «La leader di Fdi, impegnata in questi giorni a prendere le distanze da personaggi e vicende raccontate nel video di Fanpage, è disposta, in concreto, a sostenere questa proposta?».

LA COSTITUZIONE

E non poteva mancare la solita Anpi. «La Meloni afferma che l'Anpi chiede lo scioglimento di Fratelli d'Italia», dice l'associazione dei partigiani. «È falso. L'Anpi chiede lo scioglimento di Lealtà Azione, Forza Nuova, CasaPound. Dato che lei, folgorata sulla via di Damasco, anzi di Fanpage, nega qualsiasi nostalgia del Ventennio e si erge a baluardo democratico, perché non propone lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste come previsto dalla Costituzione?». Insomma, la fondatrice di Fdi, oltre prendere le distanze dal fascismo, dovrebbe anche esaltare il ruolo storico del Partito comunista, sottoscrivere una legge contro la propaganda fascista e pure chiedere lo scioglimento dei gruppi di estrema destra. Ed è probabile che non basterebbe ancora...

Meloni: “Noi fascisti? Nel dna di Fdi c’è il rifiuto per ogni regime”. In un'intervista al Corriere della Sera, Giorgia Meloni rifiuta l'accostamento con le ideologie "fasciste, razziste e antisemite". E su Lavarini dice...Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Nel dna di Fratelli d’Italia “non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite“, c’è “il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro. E non c’è niente nella mia vita, come nella storia della destra che rappresento, di cui mi debba vergognare o per cui debba chiedere scusa. Tantomeno a chi i conti con il proprio passato, a differenza di noi, non li ha mai fatti e non ha la dignità per darmi lezioni”. Lo dice in un’intervista al Corriere della Sera Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. «Il “pericolo nero”, guarda caso, arriva sempre in prossimità di una campagna elettorale…» aggiunge, parlando dell’inchiesta di Fanpage, sottolineando però che la più arrabbiata per quelle immagini è lei, che ha “allontanato soggetti ambigui, chiesto ai miei dirigenti la massima severità su ogni rappresentazione folkloristica e imbecille, anche con circolari ad hoc”. Perché “i nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato”. Immaginare «che Fratelli d’Italia possa essere influenzato o peggio manovrato da gruppi di estrema destra è ridicolo e falso”. Meloni ricorda che certi nostalgici il partito li ha sempre cacciati, “a partire da Jonghi Lavarini, ora “lo faremo ancora di più”. La colpa di Fidanza “è aver frequentato una persona come Jonghi Lavarini che con noi non ha niente a che fare per ragioni di campagna elettorale. Un errore molto grave, infatti adesso è sospeso. Poi vedremo cosa verrà fuori da un’inchiesta a tratti surreale”. Fdi è il primo partito in Italia “perché non guardiamo indietro ma avanti, ai problemi veri degli italiani, le tasse, la casa, il lavoro, la povertà”. Nella battaglia politica, la leader di Fratelli d’Italia difende anche scelte come quella della candidatura di Rachele Mussolini: “È una persona preparatissima, competente, consigliera uscente che è stata rieletta perché ha fatto bene e non la discrimino per il nome che porta”.

Guerriglia. La fatwa in Tv contro la consigliera di FdI. Per il "ducetto" Formigli, Rachele Mussolini è apologia del fascismo solo per il cognome…Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Sono rimasto di pietra, l’altra sera, quando ho sentito Corrado Formigli, su La 7, annientare Rachele Mussolini – in contumacia – e contestarle, in sostanza, il diritto di presentarsi alle elezioni con quel cognome. Ha fatto bene Guido Crosetto (che ha idee politiche, spesso, molto lontane dalle mie) a indignarsi e ad alzare la voce. Formigli ha reagito all’intervento di Crosetto togliendogli la parola con l’aria… (posso dirlo?) con l’aria del ducetto che il potere ce l’ha e non lo cede a nessuno. Io non conosco neppure alla lontana Rachele Mussolini. So che è una signora che fa politica da molti anni, che è di destra, che si presenta alle elezioni e le vince. E mi hanno abituato a pensare che chi vince le elezioni è bravo, e che se gli elettori lo votano lui è democraticamente legittimato. Non ha bisogno del timbro di Formigli e neppure del timbro del mio amico Bersani. Dove me le hanno insegnate queste cose? Nel Pci. Circa 50 anni fa me le spiegò Luigi Petroselli, che era il capo della federazione romana del partito e del quale l’altro giorno abbiamo celebrato i quarant’anni dalla morte, che avvenne a Botteghe Oscure, mentre scendeva dal palchetto dopo aver pronunciato – nella solenne seduta del Comitato centrale – un intervento critico verso il segretario. Che era Berlinguer. Rachele Mussolini è accusata di tre cose. La prima è di portare il nome che porta. La seconda è di non avere abiurato. La terza è di avere detto che lei non festeggia il 25 aprile. Accusare una persona per il nome che porta, dal mio punto di vista di vecchio antifascista, è una manifestazione di fascismo. Tra qualche riga provo a spiegare cosa intendo per antifascismo. Chiedere a una persona di abiurare, chiedere a chiunque qualunque tipo di abiura, per me è ripetizione delle idee e dei metodi della Santa Inquisizione. È una richiesta oscena, che getta discredito e vergogna su chi la avanza. Sul 25 aprile ci sono due cose da dire. La prima è che Rachele Mussolini ha dichiarato in questi giorni di avere sbagliato a postare (due anni fa) quella foto nella quale mostrava un cartello con su scritto che il 25 aprile lei festeggia solo San Marco. Ma a me questo non interessa. Per me chiunque è legittimato a festeggiare o no le feste di Stato. Legittimato e libero. Non so se la capite questa parola: li-be-ro. Io da ragazzo non festeggiavo il 4 novembre, festa della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale. Non perché io fossi, o sia, anti italiano o filoaustriaco, ma perché sono – e sono libero di esserlo – antimilitarista. E vi dico le verità: se il 25 aprile fosse una festa per ricordare la fucilazione di mio nonno, il papà di mio padre (in realtà Mussolini fu fucilato il 28 aprile e poi appeso per i piedi a Milano, in piazzale Loreto, il giorno dopo, e però è il 25 aprile il giorno nel quale si celebra e si festeggia la sua morte) io in nessun caso la festeggerei, a prescindere dalle mie idee politiche. Democrazia, liberalità, modernità, onestà – butto giù a caso un po’ di parole perché non è che io abbia capito bene quali siano i nuovi valori della politica di oggi – chiedono ai nipoti di sputare sul corpo dei propri genitori o nonni prima di essere ammessi in società? Beh, ma allora perché ce l’avevate con Pol Pot? Io tutti gli anni festeggio il 25 aprile. Lo festeggio, e penso che sia una grande festa, proprio perché so che è legittimo non festeggiarlo. Se fosse una festa obbligatoria, per me, non sarebbe più il 25 aprile. Sarebbe un rito sciocco. Infine Formigli ha detto che aveva invitato Giorgia Meloni per chiederle se era pronta a ripetere la frase attribuita a Gianfranco Fini una quindicina di anni fa, e cioè “il fascismo è il male assoluto”. Io penso che non ci sia niente di male a credere che il fascismo sia il male assoluto – forse sarebbe meglio dire che l’olocausto, del quale il fascismo fu complice, è stato il male assoluto – ma a me non sembra normale che un conduttore televisivo pensi di poter convocare nello studio televisivo il capo di un partito (forse, addirittura, del primo partito) per umiliarlo e costringerlo a piegarsi ai suoi diktat. A questo punto è ridotta la politica? È l’ancella di conduttori televisivi rudi e sceriffi? Delle nuove guardie? Ommammamia. Questi atteggiamenti, e anche il fatto che non facciano indignare nessuno, a me fanno paura. Sì, mi fanno paura perché il vero rischio fascismo, per me, è esattamente questo. Tutti sanno che il pericolo non è né Borghese, né questo nuovo personaggio che mi pare si chiami Jonghi Lavarini. Non è Casapound, né Forza Nuova, né l’incombere della tradizione del vecchio regime. I rischi sono tre: antisemitismo, razzismo e autoritarismo. Quando penso a un antifascismo serio e moderno penso esattamente a questo. A un ordine di idee e di lotte contro l’antisemitismo, il razzismo e l’autoritarismo. Dove sono queste tre malattie? In vastissime zone del populismo italiano. L’antisemitismo, purtroppo, è diffuso, sotterraneo e terribile. Vive e prospera a destra e anche a sinistra. Anche il razzismo (che comunque non va confuso con la xenofobia, che è anche questa una malattia della politica moderna, ma diversa dal razzismo) è diffuso a destra e a sinistra, soprattutto a destra. L’autoritarismo, che spesso si confonde e si salda col giustizialismo, è forte in tutto lo schieramento politico, e, misurato a spanne, è più diffuso a sinistra e dilaga tra i 5 Stelle dove è quasi l’ideologia dominante. Bene, se le cose stanno così, lo dico francamente, antifascismo vuol dire opporsi al formiglismo. Che è un costume diffusissimo nel giornalismo italiano. Prepotente, maschilista, narciso e sopraffattore.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Il regime del pensiero unico. Marco Gervasoni il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lo diciamo da docenti universitari di storia contemporanea: basta con tutta questa litania sul fascismo, sull'Italia che non avrebbe fatto i conti con il regime, sugli eredi del Duce a cui sarebbe chissà perché preclusa una candidatura: in una parola, su questo continuo guardare indietro. Tipico di un paese anagraficamente anziano, con élite vecchie anche mentalmente e in cui i giovani sono considerati delle fastidiose anomalie. Che poi non è neanche storia, questo continuo cianciare di fascismo, ma è uso politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra. Inoltre pur con tutto il parlare di fascismo, nell'ultimo ventennio gli studi storici sul regime non hanno marcato nessuna evoluzione: più si strumentalizza il fascismo, meno lo si conosce. Come non se ne può più della protervia di chi si erge a rilasciare patenti di antifascismo, ora soprattutto nei confronti di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia. Abbiamo già scritto giorni fa qui che possiamo dirci antifascisti in quanto anticomunisti: come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Mario Scelba e tanti altri. Ma l'intervista che Giorgia Meloni ha rilasciato ieri al Corriere della sera dovrebbe chiudere la questione. La presidente di Fratelli d'Italia ripete (sottolineiamo, ripete) la condanna del regime fascista già espresso tante volte, e pure sullo stesso giornale nel 2006. Ha ripetuto che dentro Fratelli d'Italia non vi sono né antisemiti né neofascisti: e non basta qualche personaggio folcloristico ripreso dai video. Folclore per folclore, andiamo a vedere nelle sezioni del Pd in Toscana o in Emilia Romagna. Laddove esistono vie e busti dedicato a Lenin, e nessuno ha nulla da fiatare. Così come nessuna ha rimproverato Zingaretti perché in un suo libro del 2019 ha elogiato il regime sovietico: quello dei gulag, della censura, degli stermini. E vogliamo parlare di dirigenti come Pier Luigi Bersani, abbastanza maturi da aver fatto parte del Pci, per decenni finanziato dai regimi rossi, che peraltro puntavano i loro missili su di noi? Se c'è qualcuno che dovrebbe invocare l'oblio della storia, dovrebbero essere i post comunisti. Per parafrasare il grande storico Marc Bloch sulla Rivoluzione francese, è il tempo di dire agli intellettuali «Fascisti, antifascisti noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, cosa fu il fascismo». E ai politici di sinistra chiediamo di entrare finalmente nel XXI secolo. Marco Gervasoni

Rachele Mussolini e Gualtieri, due eredi sono, ma è il comunismo furbo che tiene famiglia a Roma. Anche Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso è già inghiottito dai comunisti. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2021. Il fascismo di certo non c’è più ma il comunismo furbo del comparaggio di potere quello sì, altroché. Rachele Mussolini che prende tutti i voti a Roma – con buona pace del Corriere della Sera che se ne scandalizza – non sposta un bicchiere ma Gualtieri che arriva al Campidoglio, di una torta a doppio strato guarnita di Giubileo in arrivo e l’Expo da fare, sa che farsene, altroché. Rachele può solo essere una nipote ma un Gualtieri cresciuto alla scuola di partito del Pci è un erede, e tutta quella furbizia della doppiezza ce l’ha nel suo corredo, altroché. Il comunismo da temere non è certo quello genuino di Marco Rizzo ma quello furbo che comanda, quello dei magistrati compiacenti, sempre loro, ed è quello dei giornalisti di regime – sempre loro – nonché quello degli affaristi sempre pronti a farsi gli affari loro. Nella cupola loro, col comunismo furbo che sa sempre dove stare. Per stare al meglio a tavola. E figurarsi cosa non stanno facendo per riconquistare Roma. Tiene famiglia il comunismo furbo del comparaggio e sa dove andare a prendersi il dovuto tributo. Il vero sondaggio è la sostanza di un calcolo facile. Con tutti i dipendenti Rai che vivono a Roma, e coi loro parenti, con tutti quelli che lavorano nei ministeri, col parastato, con tutto il gregge di Santa Romana Chiesa, sempre grata al potere – e con tutti quelli che devono far carriera – altroché se non è solida la democrazia compiuta del comunismo implicito di tutto questo potere esplicito. Una massa fabbricata in anni di egemonia stagna nell’automatismo. Con l’accorta assenza del popolo – presente solo nell’astensione sempre più forte – e nel riflesso condizionato poi, dei cosiddetti veri liberali, storicamente incapaci di alloggiare fuori dall’ombra rassicurante del comunismo fatto sistema. Certo, non lo chiamano comunismo il loro comunismo, i comunisti. Dicono sia progressismo, perfino riformismo, magari liberal-socialismo e di certo è la cuccia calda della sinistra, la botola in cui – e lo sanno benissimo – prima o poi andranno a rinchiudersi tutti, ma proprio tutti, senza eccezione alcuna. Come Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso già inghiottito dai comunisti in marcia verso il municipio, a confermare – nell’illusione di averli presi, i suoi nemici – il dettato di Vladimir Il’i Ul’janov: “Ci venderanno la corda con cui li impiccheremo”. Inghiottito, altroché. Preso al laccio.

Francesco Borgonovo per La Verità il 9 ottobre 2021. Prendiamo atto, con appena un filo di sconforto, che in Italia non si deve rendere conto dei clamorosi errori commessi all'inizio della pandemia, i quali hanno causato migliaia di morti. Non si deve rendere conto nemmeno delle discriminazioni e degli atteggiamenti autoritari assunti negli ultimi mesi ai danni di chi sta esercitando un diritto costituzionale. No: si deve rendere conto soltanto del legame (al solito pretestuoso) con il fascismo. Ora, che la macchina politico-mediatica del progressismo militante cerchi regolarmente di occultare le colpe della propria area - seppellendole sotto montagne di scemenze sulle «lobby nere» - non stupisce. Stupisce molto di più, e un po' dispiace, che la destra ci caschi ogni volta. Che accetti non solo di stare al gioco, ma che appaia spesso terrorizzata e corra a piegare il capo ai nuovi inquisitori. A questo proposito, vale la pena di soffermarsi un momento su quanto accaduto giovedì sera nello studio di Corrado Formigli. A un certo punto, Alessandro Sallusti ha posto una questione interessante: perché non si chiede mai a un Pier Luigi Bersani di dichiarare che il comunismo è stato il male assoluto? Formigli ha risposto ridacchiando, come se si trattasse di una proposta irricevibile. Poi è intervenuto Antonio Padellaro che ha dichiarato quanto segue: «Bersani viene dal Partito comunista italiano. Pretendere che definisca il comunismo - che era nella sigla del suo partito - il male assoluto mi sembra un po' troppo». Ecco, in questo scambio c'è tutta l'ipocrisia che da decenni corrode la nostra nazione. Il Partito comunista italiano ha avuto legami d'acciaio con il Partito comunista sovietico che incarcerava gli oppositori e spediva la gente nei gulag. Il Pci è stato finanziato dal mostro russo. Ma chi ha fatto parte del Pci non deve giustificarsi di nulla, anzi il solo pensiero che ciò avvenga suscita risatine. Eppure i comunisti esistono ancora, non si fanno problemi ad alzare il pugno chiuso (lo ha fatto una volta persino il sindaco di Milano, Beppe Sala). Vanno orgogliosi della loro storia perché - anche giustamente - non accettano che sia ridotta alla complicità con la macchina di morte sovietica. Quando si è trattato di approvare, in sede europea, l'equiparazione - per altro molto discutibile - tra nazifascismo e comunismo, la sinistra italiana (quella istituzionale, non i centri sociali) ha vivamente protestato. E allora perché la destra continua imperterrita a giustificarsi? «Che non si commettano viltà verso le proprie azioni», scriveva Nietzsche. «Che non le si pianti poi in asso!». Ebbene, perché insistere con l'autoflagellazione? Ci sono almeno due dati di fatto da tenere presenti. Il primo è che la sinistra non ha alcun titolo per giudicare gli avversari. Da sempre detiene il primato dell'ipocrisia, non esita a compiere le peggiori azioni e mai se ne scusa. Pretende che gli altri facciano esami del sangue e non è nemmeno stata in grado di riconoscere le colpe più recenti. Avete mai sentito qualcuno dire, ad esempio: «Sì, forse se a Bibbiano portavano via i bambini alle loro famiglie qualche motivazione ideologica c'era, e aveva a che fare con la nostra ideologia?». Certo che no. Del resto, i comunisti e i post comunisti ci hanno messo anni a riconoscere che i terroristi facevano parte del loro album di famiglia e ancora adesso lo ricordano a malincuore. Pensate realmente che possano, un giorno, mostrare un po' di rispetto per gli avversari? Se le condizioni sono queste, davvero si vuole continuare a rendere conto a giornalisti che s' ingozzavano di involtini primavera alla faccia delle responsabilità cinesi sull'esplosione della pandemia? Prima si dissocino dai ravioli, poi vedremo se ragionare con costoro. Veniamo al secondo dato di fatto. Forse è ora di comprendere che non ci sarà mai abiura sufficiente. La destra, compresa quella cosiddetta estrema, riflette criticamente sul fascismo (anzi, sui fascismi) da decenni. Nel 1961 lo scrittore francese Maurice Bardèche - che si definiva fascista - condannava implacabilmente le mostruosità naziste e pure il cesarismo mussoliniano in un libro intitolato Che cosa è il fascismo? (Settimo sigillo). Risale al 1985 il saggio in cui Alain De Benoist rispose una volta per tutte ai critici (di destra) della democrazia: «Non resta che una legittimità plausibile: la legittimità democratica, cioè la sovranità del popolo». Nel 2021, però, gli indici sono ancora puntati, le cattedre ancora abbondano di maestrini. Se poi vogliamo riferirci alla destra «istituzionale», giova ricordare ciò che avvenne a Gianfranco Fini. Pronunciò le famose parole sul male assoluto, a Fiuggi ruppe con la tradizione missina, si avvicinò ad Israele Eppure, pensate un po', continuarono a dargli del fascista, a insultarlo e ad attaccarlo per anni. Almeno fino a quando non si schierò contro Silvio Berlusconi: allora, per un po', a sinistra lo coprirono di elogi, salvo poi abbandonarlo senza pietà al suo destino. Altro esempio? Ieri, all'Aria che tira, alcuni illustri ospiti continuavano a ripetermi che la Costituzione italiana è fondata sull'antifascismo (cosa falsa), ma ovviamente si sono ben guardati dal condannare l'aggiramento della Costituzione medesima che porta il nome di green pass. Poi hanno cominciato a dire che «il 25 aprile dovrebbe essere la festa di tutti». Beh, ricordate i fischi e gli attacchi subiti da Silvio Berlusconi e Letizia Moratti quando si presentarono alle manifestazioni di piazza? Ricordate i costanti attacchi alla Brigata ebraica? Se pure Giorgia Meloni andasse in piazza il 25 aprile a sventolare la bandiera dell'Anpi, la insulterebbero senza pietà. Sapete che significa? Che non ne avranno mai abbastanza. Che i progressisti continueranno sempre e comunque a pretendere «scuse» e «prese di distanza» dalla destra, perché l'accusa di fascismo è l'unica arma che hanno in mano, sgangherati come sono. Figurarsi: accusano di nazismo gli israeliani nazionalisti, i critici dell'immigrazione di sinistra, le femministe che si oppongono all'ideologia gender Non esiste e non esisterà mai un perimento entro il quale la destra italiana verrà ufficialmente riconosciuta come «presentabile». Non accadrebbe nemmeno se la destra diventasse all'improvviso di sinistra: la riterrebbero, comunque, moralmente inferiore. Quindi, cari amici, basta con le scuse, le prese di distanza, le giustificazioni e gli arretramenti. È ora di capire che il meccanismo è truccato, è ora di togliere dal piedistallo i mangiainvoltini, i prelati della Cattedrale politicamente corretta, gli ipocriti di mestiere che hanno fatto dell'intolleranza una professione. Se qualcuno commette dei reati, è giusto che paghi in conformità alla legge. Ma, appunto, si deve rendere conto dei reati, non delle idee, almeno in democrazia. Soprattutto, si rende conto di fronte ai tribunali, non ai tribuni. Costoro pretendono che la destra si scusi di esistere. Ma ciò che vogliono davvero è che la destra smetta di esistere. Per lo meno, non aiutiamoli.

Solo i regimi sciolgono i partiti. Sciogliere Forza Nuova è un’idea cretina, tentazione autoritaria e illiberale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. La legge Scelba è del 1952. Prevede il reato di apologia di fascismo. Probabilmente era stata immaginata per poi permettere un secondo passo e la messa fuorilegge del Msi, partito neofascista fondato nel 1947 da Giorgio Almirante e Arturo Michelini. Pochi mesi dopo la legge Scelba nacque l’idea della nuova legge elettorale – che la sinistra ribattezzò “legge truffa” – la quale doveva servire a consegnare il 65 per cento dei seggi parlamentari ai partiti che – dichiarandosi alleati – avessero ottenuto più del 50 per cento dei voti alle elezioni. La Dc disponeva nel 1952 del 48 per cento dei voti e il successo della legge truffa era quasi assicurato, e avrebbe ridotto in modo evidentissimo la forza parlamentare delle opposizioni. In particolare del Psi e del Pci. Che si opposero fieramente, insieme al Msi. La legge fu approvata, dopo una feroce battaglia parlamentare, dopo l’ostruzionismo e lotte persino fisiche tra Dc e sinistre. Ma alle successive elezioni il blocco centrista prese solo il 49,9 per cento dei voti, il premio di maggioranza non scattò, De Gasperi fu travolto, la legge cancellata. E nessuno più pensò l’idea balzana di sciogliere il Msi. Poi, negli anni settanta, la questione tornò a porsi. Lotta Continua, nei cortei, gridava lo slogan “Emme esse i / fuorilegge/ a morte la Diccì / che lo protegge”. Però il Pci si oppose sempre a questa linea. Il Pci – dico – quello ancora legato stretto stretto a tutte le sue tradizioni e litanie comuniste. Però il Pci era un partito politico. Faceva politica. Era guidato da dirigenti colti, preparati, esperti. Nel Pci si capiva quali conseguenze devastanti poteva avere lo scioglimento del Msi. Specialmente per le opposizioni, che sarebbero finite tutte sotto tiro e minacciate. Ma anche – in generale – per la tenuta della democrazia. Il Pci ci teneva molto alla saldezza della democrazia, perché era l’acqua nella quale nuotava. Del resto si sapeva benissimo che la stessa legge Scelba, varata per colpire il Msi, apriva la prospettiva di iniziative legislative contro il Pci, se non anche contro il Psi. Mario Scelba, ministro dell’Interno, era l’espressione della parte più reazionaria della Democrazia cristiana. Ho scritto queste cose perché mi pare che l’idea di sciogliere Forza Nuova sia una assoluta idiozia. È chiaro che non è possibile nessun paragone tra Forza Nuova e il Msi anni 50. Forza Nuova è un gruppetto, il Msi era un partito strutturato e popolare. Ed era anche – nessuno credo che lo possa negare – un partito abbastanza nettamente fascista. Il problema sta nella natura del provvedimento, a prescindere dal bersaglio. Sciogliere un partito, un gruppo, un’organizzazione, per motivi ideologici è una stupidaggine gigantesca, che porta all’immagine della democrazia una ferita molto più grande della modestia del gesto. E che apre varchi pericolosissimi. Se oggi si scioglie Forza Nuova niente esclude che tra qualche mese o tra qualche anno qualcuno chieda lo scioglimento di organizzazioni di sinistra. Anche più forti e radicate di Forza Nuova. Riducendo sempre di più i margini del possibile dissenso politico. Oltretutto alle richieste di scioglimento di Forza Nuova – che sembrano un po’ ripetizioni quasi automatiche di slogan e atteggiamenti di 30 anni fa – si accompagna la folle idea del vicesegretario del Pd di mettere il partito di Giorgia Meloni (che forse oggi, secondo i sondaggi, è il più grande partito italiano) fuori dall’arco democratico e repubblicano. Siamo al diapason della tentazione autoritaria e illiberale. Io mi auguro che Letta intervenga in fretta. Può restare vicesegretario del Partito democratico una persona che chiede di prendere a frustate la nostra democrazia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il solito vizietto della sinistra: l'allarme fascismo scatta alla vigilia di ogni elezione. Francesco Giubilei il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. ​A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. Siano elezioni politiche, regionali o amministrative, le accuse della sinistra al centrodestra di essere fascista o di strizzare l'occhio al fascismo, tornano in auge e le elezioni di questi giorni non sono da meno. Poco importa se la coalizione di centrodestra non abbia nulla a che fare e abbia preso le distanze in modo netto dall'attacco alla Cgil e da Forza Nuova, la retorica della destra fascista è dura a morire ed è funzionale agli scopi politici della sinistra. D'altro canto, come sottolinea la trasmissione Quarta Repubblica, le tempistiche degli ultimi giorni sono quantomeno sospette: a poche ore dal voto è uscita l'inchiesta di Fanpage, la settimana successiva è stata mandata in onda la seconda puntata fino ai fatti di Roma in cui c'è stata un'evidente falla nella sicurezza. Il pericolo fascista evocato da più parti torna con cadenza ciclica nonostante i leader del centrodestra si siano espressi con chiarezza contro ogni forma di estremismo e violenza. Basta scorrere le cronache degli ultimi trent'anni per rendersi conto di come lo spauracchio fascista sia utilizzato dalla sinistra con finalità politiche ed elettorali. Vale la pena rileggere la prima pagina de l'Unità del 12 settembre 2003 che titola a carattere cubitali «Berlusconi come Mussolini». Sin dalla sua discesa in campo, Berlusconi si è dovuto difendere dalle accuse di fascismo nonostante la sua estrazione liberale, in particolare per l'alleanza con An. Così, mentre Gustavo Zagrebelsky nel 1994 affermava «c'è il rischio di un nuovo regime», Berlusconi rispondeva «Fascismo? L'ho già condannato, i pericoli sono altri». Una condanna non sufficiente visto che nel 2009 il vicedirettore de l'Unità firmava un editoriale dal titolo emblematico: «Il fascista di Arcore». Nonostante la svolta di Fiuggi e la lezione di Pinuccio Tatarella di allargare la destra fondando Alleanza Nazionale, Giorgio Bocca, intervistato su l'Unità, bollava il nuovo partito come composto da «veri fascisti». A poco sono servite le parole di Gianfranco Fini nel 2003 sul «fascismo male assoluto» che fecero tanto discutere e, se oggi Fini è riabilitato dalla sinistra per attaccare gli attuali leader del centrodestra, al tempo le accuse ad An di essere un partito neofascista erano quotidiane. Più o meno lo stesso che accade a Fdi nonostante Giorgia Meloni, già nel 2016, alla domanda di Lucia Annunziata «lei è fascista?», avesse risposto: «Io sono di destra. Sono nata nel 1977, quindi mai stata fascista». Non è andata meglio alla Lega e, se le dichiarazioni contro Salvini si sprecano, già nel 2005, l'allora parlamentare socialista Ugo Intini, intervistato su l'Unità, affermava: «gli estremismi di Pontida sono di tutto il Polo» aggiungendo «il fascismo leghista è sottovalutato». Gli attacchi peggiori a Salvini avvengono proprio nelle settimane precedenti le elezioni come nel caso delle europee del 2019 quando Furio Colombo dichiarava: «Salvini fascista, ma nega come facevano i mafiosi», stessa accusa rivolta dal fotografo Oliviero Toscani, mentre a inizio 2019 lo storico Luciano Canfora a l'Espresso sosteneva «Matteo Salvini alimenta la mentalità fascista». Ma c'è chi, come lo scrittore Claudio Gatti, si è spinto oltre intitolando un suo libro I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. Un modus operandi utilizzato anche in occasione delle elezioni del 2018 e testimoniato da un articolo di Annalisa Camilli del 5 febbraio 2018 su Internazionale intitolato «Da Fermo a Macerata, la vera emergenza è il fascismo». Come se non bastassero i media nostrani, anche il New York Times, a poche settimane dalle politiche, denunciava il rischio di «antieuropeismo e ritorno al fascismo». Ripercorrendo questi episodi, viene da chiedersi se non esista un altro problema nel nostro paese: una sinistra incapace di accettare un confronto democratico con il centrodestra senza dover in ogni occasione attualizzare un clima da guerra civile polarizzando il dibattito e accusando di fascismo anche chi non ha nulla a che fare con violenti ed estremisti e, pur riconoscendosi nei valori democratici, non si definisce di sinistra.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più i 

Smascherata l'ipocrisia della sinistra: "Quando Fn li faceva vincere..." Francesco Boezi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Storace ricorda quando, con Forza Nuova sulla scheda, il centrodestra perse voti. E sulla fiamma nel simbolo rammenta la parabola di Fini. É un Francesco Storace in vena di ricordi quello che ha commentato le recenti vicende riguardanti Forza Nuova e la relativa mozione di scioglimento dell'organizzazione estremista avanzata da parte del Partito Democratico. Storace ha infatti elencato una serie di circostanze in cui, la presenza del partito di Roberto Fiore sulle schede elettorali, ha a parer suo penalizzato la destra parlamentare, contribuendo ad una dispersione di voti che è servita al centrosinistra per trionfare in determinati appuntamenti elettivi. La prima riflessione del vicedirettore de Il Tempo, però, è dedicata all'accomunare la destra in generale:"La gravità del comportamento politico della sinistra - ha fatto presente l'ex presidente della Regione Lazio - è voler assimilare chi ha fatto violenze a una comunità che le violenze le subisce. Mentre parliamo, in questi mesi si sono accumulate azioni criminali contro FdI, Lega e addirittura il sindacato Ugl, senza che nessuno abbia condannato o si sia sognato di sciogliere le organizzazioni di sinistra". Insomma, la destra che siede in Parlamento sarebbe la prima vittima delle violenze. E l'associazione con Forza Nuova sarebbe unicamente strumentale. Poi l'ex Alleanza Nazionale, che è stato sentito in merito dall'Agi, presenta un excursus sui rapporti tra la destra di governo ed i microcosmi posizionati sul lato dell'estremismo ideologico: "È evidente - ha continuato l'ex leader laziale - che c’è la strumentalità. Chi conosce la destra sa che c’è sempre stato fin dai tempi del Msi uno spartiacque tra i partiti e le formazioni extraparlamentari. Ci sono state occasioni di contatto - ha ammesso - ma mai sulla pratica della violenza, e comunque si è trattato di occasioni contingenti. Si vuol far partire una sorta di abiura per un’operazione politica di parte". Quindi Forza Nuova e Fratelli d'Italia, ad esempio, sono due universi ben distanti, pure per via del pregresso. A questo punto, arriva il passaggio sulle sconfitte subite, secondo Storace, pure per via di Forza Nuova: "Fiore e Casapound - ha ricordato alla fonte sopracitata - li ho avuti contro alle Regionali, quando correvo contro Zingaretti ma all’epoca la sinistra non insorgeva perchè toglievano i voti a me. Nel 2005 stessa storia, con la Mussolini, che fece vincere Marrazzo". Due episodi precisi in cui il centrodestra non è riuscito ad affermarsi pure a causa dei voti andati a finire tra le sacche di Forza Nuova e dintorni. Sulla mozione di scioglimento, peraltro, l'ex vertice di An segnala la mancata unità persino tra gli esponenti della sinistra, citando Stefano Fassina: "Ho letto le sue affermazioni e ha ragione: se la mozione sullo scioglimento di Forza Nuova venisse votata solo dalla sinistra, vorrebbe dire che solo quella parte è depositaria di valori come la democrazia". E ancora: "Tutto appare quindi strumentale, in campagna elettorale. Addirittura è stata indetta una manifestazione sindacale durante il silenzio elettorale. Che ci andrebbero a fare Salvini e la Meloni, a prendersi i fischi?". Dunque la manifestazione antifascista annunciata sarebbe, in buona sostanza, una trappola. C'è, infine, chi ha attaccato Giorgia Meloni per via della presenza della fiamma nel simbolo del partito che presiede. Ebbene, Storace ha ancora pescato dalla memoria, rammentando a tutti come la vicenda non sia proprio una novità, per usare un eufemismo: "Ebbene - ha detto riferendosi a Gianfranco Fini - lui è andato al governo nel 1994 come ultimo segretario del Msi, è stato vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera, e nessuno gli ha mai rinfacciato la Fiamma tricolore. Addirittura Mirko Tremaglia - ha chiosato Storace - ex-combattente della Rsi, è stato ministro. Punire violenza d’accordo, ma che c’entra con l’abiura".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali e

Quei fantasmi del Novecento. Vittorio Macioce il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana: evoca l'ostracismo contro l'avversario parlamentare. Non lo riconosce e lo indica come nemico. A tracciare la linea è Giuseppe Provenzano, ex ministro del governo Conte e soprattutto vice segretario del Partito democratico. Dice Provenzano: «L'ambiguità della Meloni la pone inevitabilmente fuori dall'arco democratico e repubblicano». È un foglio di via. Alla base di questo discorso ci sono gli squadristi di Forza Nuova, un movimento che si definisce fascista e da tempo sguazza nel caos e nella paura. Sono perfetti per il ruolo e si godono il quarto d'ora di celebrità. Non si preoccupano più di tanto di essere messi fuori legge. È quello che in fondo aspettano da tempo. È la loro reale legittimazione. È il segno che la democrazia li teme, li porta al centro del discorso, dentro la storia. Non sono mai stati così centrali. L'assalto alla sede dalla Cgil, violento e vergognoso, sembra una citazione del «biennio rosso», vecchia un secolo. È il teatro delle camicie nere. L'obiettivo è spargere pezzi di Novecento per sentirsi protagonisti. È prendere i fantasmi, le questioni irrisolte, e incarnarli nelle nostre paure, vomitando vecchie parole d'ordine e nuovi razzismi. E sono furbi, perché ottengono le contromosse sperate. Al Novecento si risponde con il Novecento e ci si impantana nel passato, riesumandolo, scommettendo sull'eterna roulette del rosso e del nero. Come disarmare Forza Nuova? La strada più diretta è punirli per quello che fanno: la violenza è un reato. Non sottovalutarli, ma neppure farli diventare i protagonisti di una campagna elettorale. Non giocare questa partita per conquistare Roma. Non sciogliere Forza Nuova solo per colpire la Meloni. Il rischio è fare danni, perché delegittimi l'opposizione e disconosci più o meno il 18 per cento degli elettori. Non è un bene per nessuno. Se la Meloni è fascista allora tutto torna in discussione. È fascista un ex ministro. È fascista un partito che sta in Parlamento e partecipa alla vita democratica. È fascista il presidente dei conservatori europei e sono fascisti i suoi alleati. È fascista chi la vota. Davvero il Pd è pronto a sottoscrivere tutto questo? Non c'è democrazia se un solo partito concede patenti di legittimità a tutti gli altri. E questo perfino Enrico Letta e Giuseppe Provenzano, forse, lo sanno. Il buon senso è quello di Mattarella: «Il turbamento è forte, la preoccupazione no. Si è trattato di fenomeni limitati». Vittorio Macioce

L'aria che tira, Guido Crosetto gela Fiano: "Per fortuna che sono un ex democristiano, altrimenti..." Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. Ora tocca a Giorgia Meloni. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia, riflette sulla "strategia" contro FdI messa in atto anche da esponenti ufficiali del Pd come Beppe Provenzano. "Un classico di ogni campagna elettorale - spiega Crosetto -. Ma è un tema che deve porsi innanzitutto la Meloni: deve togliere queste frecce dalle mani dei suoi avversari, che alla fine non la fanno parlare delle sue proposte e la costringono a difendersi". Dietro l'onda di indignazione "a comando" che si sta riversando sulla Meloni per effetto dell'inchiesta Lobby nera di Fanpage e Piazzapulita prima e delle violenze di piazza dei No Green pass di sabato scorso a Roma (e frettolosamente spedite nel "campo" della Meloni, secondo Crosetto però c'è una buona dose di strumentalizzazione politica. E a Emanuele Fiano, big democratico anche lui in collegamento con La7, forse fischieranno le orecchie. "Parlate di Fratelli d'Italia come un partito nato ieri da quello Nazista - sottolinea Crosetto in collegamento -. Il percorso di Giorgia Meloni è passato attraverso la svolta di Fiuggi, non ha mai avuto legami col fascismo. Ricordo che La Russa è stato ministro della Difesa e non ha invaso Libia ed Etiopia, che anche la Meloni è stata ministra...". Qualora non bastasse questo elenco, arriva l'ironia amara di Crosetto: quelli di Fratelli d'Italia "sono gli avversari principali di Forza Nuova o degli elementi estremistici di destra. Fossi in loro mi sentirei offeso di questa necessità di chiedere patenti di democrazia a persone che sono sempre state democratiche. Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero...". Qualcuno ride di fronte a questa battuta, ma la situazione è decisamente deprimente.

Ecco chi sono i veri violenti: estremisti rossi e anarchici. Lo dice lo studio Ue. Chiara Giannini il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. I dati del rapporto sul terrorismo: nel 2020 mai attacchi da destra. L'Italia è il Paese più colpito dagli assalti degli ultrà di sinistra. I partiti di sinistra chiedono di sciogliere Forza Nuova e tutte le realtà legate al neofascismo, ma la realtà è che la maggior parte degli attacchi terroristici non di matrice jihadista avvenuti negli ultimi anni in Europa e in Italia sono stati messi in atto da gruppi di estrema sinistra o anarco-insurrezionalisti. La conferma arriva dalla pubblicazione del report annuale Te-Sat (Terrorism situation and trend report 2021) che riporta come nel corso del 2020 gli attacchi di tipo terroristico avvenuti in Europa sono stati 422. Di questi 314 sono attribuibili a jihadisti e 48 a gruppi di estrema sinistra. In Italia lo scorso anno non si è avuto alcun episodio terroristico legato all'estrema destra, mentre 23 sono stati i casi di attacchi da parte dei gruppi anarco-insurrezionalisti o similari. Basti ricordare i cortei violenti di Torino, l'attacco ai cantieri Tav e molti altri episodi che quando si tratta di attaccare tutto ciò che è di destra magicamente scompaiono dai ricordi degli esponenti di sinistra. Nel rapporto 2021 dell'osservatorio ReAct sul radicalismo e il contrasto al terrorismo si specifica che «gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti nel 2018 in Europa - 19 eventi, di cui 13 in Italia - si situano al secondo posto dopo quelli di matrice jihadista - 24 azioni con 13 morti. Nel complesso si impone l'inconsistenza degli attacchi attribuiti a gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei 5 del 2017». Si chiarisce anche che l'Italia «nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70% di tutti gli attacchi in Europa». Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e dell'Osservatorio ReaCt, specifica: «La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti rilevanti sulla società, andando ad alimentare e a fomentare forme di disagio sociale latente che sono presto esplose. Un fenomeno sommerso che si diffonde e consolida con le chat di Telegram, di Signal o con la diffusione di video e notizie false attraverso altri social. E sono proprio le notizie false, spesso associate a fittizi studi scientifici o informatori anonimi, che alimentano il fenomeno di un sempre più pericoloso e diffuso fenomeno cospirazionista». Peraltro sempre più ampio e tutt'altro che imprevedibile. «Questo - dice ancora - accomuna per le strategie operative e le metodologie comunicative sia gli ambienti di estrema destra che quelli di estrema sinistra, come dimostrano i numerosi episodi di violenza, anche in Italia, nelle manifestazioni del 9 ottobre che richiamano alla memoria gli episodi di violenza insurrezionale alimentata dall'ideologia di QAnon dello scorso 6 gennaio a Washington e alle immagini evocative che sono giunte da Capitol Hill». Bertolotti chiarisce che «l'estremismo violento di destra si sta evolvendo in un fenomeno transnazionale, mentre sviluppa una preoccupante relazione simbiotica e una stretta interdipendenza con l'estremismo di matrice islamista e si pone in un rapporto di competizione collaborativa, condividendone alcune ragioni di fondo (in particolare l'opposizione all'imposizione da parte dello Stato di regole e presidi sanitari, recepiti come minaccia alla libertà), con la violenza della sinistra estrema e dei movimenti anarco-insurrezionalisti. Un'evoluzione che avviene attraverso il comune terreno dell'ideologia No vax e, ora, No green pass».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dil barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo. 

Altro che galassia fascista. Le chat No Vax inneggiano alle Br. Francesca Galici il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gli scontri di Roma e Milano sono stati solo "un'anteprima": i no pass alzano il tiro e minacciano azioni sempre più violente in vista del 15 ottobre. I no pass non si arrendono e dopo gli scontri di Roma lo dicono chiaro e tondo nelle ormai celebri chat su Telegram: "Sabato 9 ottobre è stata solo un'anteprima". Annunciano un crescendo di tensioni nelle città italiane per arrivare al 15 ottobre quando, dicono, "sarà guerrà". Il Viminale si sta organizzando per scongiurare altre piazze calde come quelle di Roma e di Milano dello scorso weekend, si stanno predisponendo controlli serrati e strette sulle manifestazioni ma dall'altra parte non sembrano intenzionati ad arrendersi, alzi, considerano le azioni del governo come una sfida nei loro confronti. "Che guerra sia, per come si stanno muovendo le cose", dicono spavaldi facendosi forza gli uni con gli altri. Al momento, nei gruppi Telegram e su Facebook si stanno organizzando per scendere in piazza dal 15 ottobre, giorno in cui il Green pass diventerà obbligatorio per tutti i lavoratori. Vogliono manifestare a oltranza e il 19 ottobre pare sia in programma un "girotondo" a Montecitorio. Sono tanti quelli che spingono per la protesta pacifica ma quelli che, invece, vogliono arrivare allo scontro frontale non sono certo pochi. "Gli devi tirare le bombe a questi per capire come si lotta", si legge scorrendo nei loro discorsi, spesso deliranti, che inneggiano alle "bombe a mano per i poliziotti antisommossa". I due grandi cortei di sabato 9 si sono svolti a Milano e a Roma. In entrambe le città i manifestanti e le forze dell'ordine sono arrivati allo scontro ma è nella Capitale che la lotta si è fatta più dura. "La prossima volta non ci troverete a mani nude", minacciano i no pass violenti, come se a Roma non siano state lanciate bombe carta nei pressi di Montecitorio. E sono proprio i palazzi di piazza Colonna l'obiettivo di parte dei manifestanti, che nelle loro intenzioni vorrebbero occupare palazzo Chigi e il parlamento per spingere i politici al passo indietro. "Prendete i Palazzi", "Draghi, ti veniamo a prendere sotto casa", si legge ancora. Ma gli obiettivi sono molto più ampi, perché l'auspicio di qualcuno è che "brucino in piazza tutti quei criminali". Ma la strategia sembra più complessa di quello che non appare limitandosi a leggere questi discorsi, perché scorrendo nelle chat si intuisce che i fronti sui quali vogliono combattere sono molteplici e non si fanno scrupoli nel portare in piazza i più deboli da utilizzare come scudi umani davanti alle forze dell'ordine. "Ma se mettiamo anziani e bambini davanti alle manifestazioni, che faranno?", si domanda qualcuno. Il popolo dei "pronti a tutto", come si definiscono in alcuni scambi di vedute, ha principalmente tre obiettivi: la politica, la stampa e le forze dell'ordine. I giornalisti vengono definiti "servi del potere", "schiavi della dittatura" ed ecco che arrivano anche le proposte di "sfasciare" le redazioni perché "dicono una marea di cazzate", oppure di "occupare le emittenti tv". Ai manifestanti di Milano è stato chiesto di andare a Mediaset e alla Rai e i giornalisti, come si è visto sabato 9 ottobre, hanno rischiato in più di un'occasione di essere aggrediti dai manifestanti mentre documentavano gli scontri. E così, tra chi incita alla violenza al grido di "speriamo di bruciarli tutti", ci sono anche i nostalgici, non solo quelli neri, che rimpiangono gli anni di piombo: "Purtroppo non ci sono più le Br". E ci sono anche gli irriducibili dei primi Duemila: "Sono qui, no Global 100%, insieme a molti altri. Combattevo allora per diritti di altri che sono nati in altri Paesi, oggi combatto per il mio, dove i diritti sono stati corrotti e negoziati per Big pharma. Ora come oggi mi oppongo allo strapotere delle multinazionali. Di black block non voglio sentir parlare". Nelle chat le minacce non sono più troppo velate e nemmeno la consapevolezza che i gruppi siano strettamente attenzionati dalle forze dell'ordine che, nello svolgimento del loro lavoro, controllano le frange più eversive funziona come deterrente. "Guardarli in faccia e poi aspettarli sotto casa... Vedi come gli passa", è la promessa fatta ai poliziotti, ai politici e ai giornalisti.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Landini vittima di se stesso: suoi gli slogan più feroci contro il green pass. Laura Cesaretti il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato il leader Cgil ad aizzare il popolo No Vax: "Non si può pagare per lavorare". E anche il ministro Orlando l'ha bacchettato: "Ambiguo". La nemesi, a volte: «Non si può pagare per lavorare», era lo slogan più ripetuto per eccitare le caotiche piazze novax che manifestavano contro il Green Pass obbligatorio. Compresa la piazza di Roma, quella che ha prodotto l'assalto teppistico dei manifestanti, guidati da neofascisti noti alle cronache giudiziarie della Capitale, alla sede della Cgil. Peccato che l'inventore del fortunato slogan fosse proprio il padrone di casa, Maurizio Landini, che per settimane lo ha ripetuto in ogni microfono a sua disposizione, guidando una bellicosa resistenza alla decisione del governo Draghi di introdurre l'obbligo di vaccino o tampone per accedere ai luoghi di lavoro e di socialità. «Il lavoro è un diritto - era il suo ragionamento - non può esistere che si debba pagare per poter entrare in fabbrica o in ufficio». Una questione di principio, per Landini, che (siamo a metà settembre) sfidava Draghi: «Il governo non ha saputo prendere la decisione dell'obbligo vaccinale per le sue divisioni interne, abbia il coraggio di dirlo. Hanno fatto tutto senza consultarci, come sempre, e ora pretendono che a pagare siano i lavoratori». La soluzione proposta dal leader sindacale era la stessa escogitata ora da Beppe Grillo: tamponi gratis (ossia a spese dei «padroni» e dei contribuenti vaccinati) per i novax: «Il costo non può essere a carico del lavoratore: siano le aziende, con l'aiuto dello Stato, a sostenere le spese per garantire a tutti il diritto di lavorare». Rivendicazioni simili a quelle arrivate dai tumulti no-green pass, in sostanza. È una classica vicenda da apprendisti stregoni, che prima invocano e animano la sarabanda, e poi ne rimangono vittime. Prova ne sia il fatto che non sono stati solo gli squadristi di Forza Nuova a prendersela col capo della Cgil, ma anche il fronte uguale e contrario della «protesta rossa»: dai Cobas a Rifondazione comunista, passando per centri sociali e studenti di sinistra, che hanno bersagliato Landini e la Cgil, che ha contestato prima ma non impedito poi l'introduzione del pass, a suon di «venduti» e «servi dei padroni». Che la posizione iniziale di Landini sia stata ambigua lo ha riconosciuto anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando: «Si è illuso, secondo me sbagliando, che l'obbligo vaccinale gli risparmiasse la gestione dei conflitti sui luoghi di lavoro: credo sia stata una scelta errata». E non è un caso che, dopo l'assalto novax alla Cgil, Landini abbia un po' pattinato sui fatti, negando l'evidenza: «L'attacco squadrista non c'entra nulla con il Green Pass», ha sostenuto. «È stato un assalto contro il mondo del lavoro e il sindacato». E subito ha convocato una manifestazione pro-Cgil (da tenere, certo del tutto casualmente, alla vigilia dei ballottaggi) con parole d'ordine sufficientemente vaghe da non entrare minimamente nel merito delle agitazioni degenerate in vandalismo: «Per il lavoro e la democrazia». Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma non un fiato contro i novax del no-green pass. Laura Cesaretti 

I disordini, i terribili giorni del Quirinale e le Porte dell'Inferno. Piccole Note l'11 ottobre 2021. “Né con lo Stato né con i No Vax è un lusso che nessuno può concedersi”. Così Michele Serra sulla Repubblica (vedi Dagospia) a commento delle recenti violenze di piazza. L’azione degli estremisti di destra, che è riuscita a dirottare una manifestazione contro il Green pass su lidi violenti e contro la sede della Cgil, si è così realizzata con successo, avendo conseguito il risultato di criminalizzare la resistenza a un’iniziativa politica discutibile e che si vuole indiscutibile. Ciò non perché lo scriva il povero Serra, ma perché egli dà voce alla narrativa che va consolidandosi e che porta in tale direzione. Gli estremi, al solito, fanno il gioco del potere, anzi ne sono utilizzati, una pratica che l’Italia conosce dai tempi della strategia della tensione. Ma allora occorreva cercare i manovratori dei fili – i Burattinai, come da titolo di un interessante libro di Philip Willan, cronista inglese e quindi più libero di altri – oltre i nostri confini, come ad esempio la scuola parigina di lingue Hyperion, frequentata da Mario Moretti e Corrado Simioni, alti funzionari della macchina del Terrore. Oggi le scuole dove si intrecciano tali indebiti rapporti sembrano essere più prossime, dato che quelle che un tempo erano infiltrazioni negli apparati dello Stato e nella politica hanno ormai rotto gli argini e dilagato. Peraltro, la funzionalità al potere di tali frange estreme la denota l’obiettivo delle violenze: la sede della Cgil, che nulla ha a che vedere con l’introduzione del green pass. Si restringono così i già esigui spazi di resistenza al provvedimento, diventato, agli occhi di tanti, un simbolo di un’asserita deriva autoritaria, nonostante forse tale deriva si concretizzi in altro e ben più stringente (anche se un pass per lavorare, in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, così il primo articolo della Costituzione, lascia ovviamente perplessi). In realtà, reputare che il green pass sia un mezzo di controllo dei cittadini, almeno al momento e in tali forme, appare tema controverso, per il fatto che, ad esempio, tale controllo si verifica da tempo e in modo ben più capillare attraverso la rete e l’intelligenza artificiale che la scandaglia a strascico a uso e consumo del potere reale.

Certo, il pass è un simbolo, ma la guerra ai simboli rischia di diventare anch’essa simbolica, cioè distaccata dal reale e, come tale, si presta alle strumentalizzazioni del caso. Il potere, quello reale, vive di simboli, e nella dialettica simbolica si rafforza. Servirebbe un singulto di realismo, ma sembra ormai troppo tardi, dato che l’Italia è stata consegnata, e si è consegnata, a certo potere transnazionale, con la politica inerme o funzionale a esso (ma meglio gli inermi, ovviamente). Da questo punto di vista, le elezioni amministrative sembrano aver confermato tale deriva: non per nulla, all’indomani di queste, Dagospia, l’ultimo media italiano e come tale organo ufficiale del potere reale (con labili spazi alternativi), dichiarava con enfasi: “Ha vinto Draghi”. E ciò non tanto per la vittoria del cosiddetto centro-sinistra (che di sinistra non ha più nulla) nelle città più importanti, un risultato che dopo i disordini di sabato sembra doversi confermare nel secondo turno romano – dove tale vittoria era più che probabile, ma non certa -, quanto per la stretta che il potere ha operato in questa occasione, come confermato dai disordini in oggetto. Da questo punto di vista, per tornare nel campo dei simboli, come il crollo del ponte Morandi ha salutato, con saluto nefasto, l’intemerata sfida al potere reale posta, nonostante le tante ambiguità, dal cosiddetto governo giallo-verde, le fiamme che hanno divorato il ponte di ferro di Roma sembrano inaugurare una nuova stagione italica. Una stagione che vede aprirsi i terribili giorni del Quirinale, come ebbe a definirli l’ex presidente Francesco Cossiga al momento di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato. Giorni che, in maniera simbolica, si aprono con una mostra realizzata presso le Scuderie del Quirinale, dedicata all’Inferno, con i visitatori che verranno accolti al loro ingresso, come recita la guida, dall’opera di Rodin “Le porte dell’Inferno“. In realtà, si tratta di una celebrazione in onore di Dante, nella quale le artistiche evocazioni infernali vanno a concludersi col noto finale della sua Commedia divina, cioè con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Conclusione di una commedia, appunto, che, come tale, ha il lieto fine ascritto nella sua essenza. Nel caso italico, che più che commedia appare tragedia, tale conclusione resta tutta da vedere.

Alessandro Sallusti, tra le spranghe di Forza Nuova e le parole del Pd non vedo grande differenza. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. È vero, la democrazia è in pericolo. Ma non perché quattro pregiudicati di estrema destra hanno trascinato qualche decina di idioti a sfasciare una sede della Cgil, tanto è vero che sono stati arrestati e denunciati. No, la democrazia è più in pericolo perché ieri il vicesegretario del Pd ed ex ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha buttato lì l'idea di chiudere per legge Fratelli d'Italia, unico partito democratico di opposizione di questo Paese, oltre che di governo in quasi tutte le più importanti regioni italiane senza che ciò provochi alcun turbamento democratico. Tra le spranghe di Fiore, leader di Forza Nuova a capo dell'assalto alla Cgil, e le parole di Provenzano non vedo una grande differenza: l'avversario va distrutto materialmente con la forza dei bastoni o con quella della legge. C'è però una differenza non da poco: quelli di Forza Nuova vivono ai margini della società e oggi sono in galera, Provenzano e quelli come lui siedono in Parlamento. Ricordate il teorema secondo il quale "Berlusconi non è legittimato a governare" espresso più volte dalla sinistra (anche giudiziaria) nonostante gli oltre dieci milioni di voti raccolti ad ogni elezione? Ecco, ci risiamo. In Italia o sei di sinistra - e allora i conti con la storia e con le tue frange estreme puoi non doverli fare - oppure sei fuori dall'arco costituzionale a prescindere. Altro che fascismo, questa è la peggiore forma di totalitarismo perché non dichiarata, subdola. Ci fu un momento nella storia recente d'Italia - primi anni Settanta - in cui il Pci e i sindacati furono, loro sì, se non collaterali almeno omertosi e quindi protettivi nei confronti del nascente terrorismo rosso, che stava attecchendo nelle fabbriche e nei quartieri popolari come ha raccontato uno che c'era, Giuliano Ferrara. Ma nessuno si permise di chiedere la messa al bando del Pci e il terrorismo fu sconfitto anche dall'argine che quel partito poi innalzò contro la violenza. Ecco, Fratelli d'Italia è l'argine più sicuro e democratico che abbiamo contro rigurgiti fascisti e chi lo nega è in evidente malafede. Se non fosse ridicola, se dovessimo prenderla sul serio, la proposta di Provenzano metterebbe di fatto il Pd fuori dall'arco costituzionale.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 ottobre 2021. Caro Dago, il mio amico e conterraneo Francesco Merlo, che non è soltanto uno dei più valorosi giornalisti della sua generazione ma anche uno dei più colti (Il che non guasta persino nell’attività giornalistica), mi fa via mail alcune obiezioni alla mia riluttanza a usare il termine “fascismo” a proposito di quelle oscene macchiette che hanno sfondato le finestre per poi devastare gli arredi della sede nazionale della Cgil. A me che sul “Foglio” avevo scritto che Benito Mussolini e Giuseppe Bottai si stanno rivoltando nella tomba a sentire chiamare “fascisti” le suddette macchiette. Francesco replica che nel fascismo non c’erano soltanto tipi come Bottai ma anche come il famigerato Alessandro Carosi, strenuo combattente nella Prima guerra mondiale, uno che da squadrista e uomo di fiducia del capo della federazione fascista pisana si autoproclamava autore a colpi di una rivoltella Mauser di 11 omicidi e 20 ferimenti. Se è per questo era un fascista cento per cento anche Amerigo Dumini (accento sulla “u”), quello che a capo di altri quattro squadristi agguantò per una strada di Roma il deputato socialista Giacomo Matteotti per poi martoriarlo e ucciderlo nella stessa auto con cui lo avevano rapito. Ebbene, nell’usare noi il termine “fascista” a cento anni dalla marcia su Roma è su personaggi alla maniera di Carosi e di Dumini che dobbiamo fare perno - e dunque stabilire eguaglianze tra ieri e oggi - o valutare il fascismo italiano (forse sarebbe più esatto dire “il mussolinismo”) nel quadro dello spaventoso collasso delle democrazie occidentali nel primo dopoguerra, e tanto più alla luce della minaccia che su quelle democrazie proveniva dal riuscitissimo colpo di mano bolscevico nella San Pietroburgo dell’ottobre 1917? A cento anni di distanza dobbiamo valutare il fascismo (e la sua riuscita e la sua durata) come un fenomeno storico-politico o come un fenomeno meramente criminale? A cento anni di distanza, ripeto. E’ assurdo dire che il fascismo storico è morto e sepolto il 25 aprile 1945, e che da quel giorno tutti coloro che levano la mano destra nel saluto fascista rientrano in una tutt’altra narrazione civile e culturale? E’ assurdo, caro Francesco, dire che a usare il termine “fascismo” oggi come un randello con cui bastonare i più volgari tra quelli che ci stanno antipatici non spieghi nulla di ciò che è proprio alle democrazie complesse dell’Europa del terzo millennio? A me sembra evidente che non è assurdo affatto, anzi è salutare a voler fronteggiare i pericoli odierni che incombono sulla nostra democrazia. Dirò di più. E’ totale la mia riluttanza a usare termini generalissimi nati nei contesti i più drammatici del Novecento. Fosse per me non userei mai e poi mai il termine “Resistenza”, e bensì il termine “guerra civile”, un termine che fino a vent’anni fa era off-limits fra le persone politicamente dabbene e che invece spiega cento volte meglio che cosa accadde lungo tutto lo stivale in quei due anni stramaledetti. Certo che nel fascismo c’era anche Carosi. Epperò nella Resistenza c’erano anche quei partigiani che al limitare di Bologna - non ricordo più se alla fine del 1945 o all’inizio del 1946 - intercettarono un diciassettenne in bicicletta e gli chiesero chi fosse. Era il figlio di Giorgio Pini, un giornalista fascista (e persona immacolata) che era in quel momento in carcere e al quale suo figlio aveva appena fatto visita. Il cadavere di quel diciassettenne non è mai più stato ritrovato. Per essere un episodio meramente criminale, fa adeguatamente il paio con l’atroce itinerario umano e politico di Carosi. Non per questo noi useremo il termine “Resistenza” a partire da questo episodio. Semplicemente, almeno per quanto mi riguarda, lo useremo il meno possibile. Tutto qui. Un abbraccio, Francesco

Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro il 12 Maggio 2019 su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su

La lezione di Pasolini a Fiano: “Antifascismo, arma di distrazione di massa”. Redazione martedì 12 Dicembre 2017 su Il Secolo D’Italia. “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Un’arma di distrazione di massa, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia, con la quale, se oggi fosse vivo, sarebbe stato additato di collateralismo con Mussolini e la destra estrema e magari sarebbe sto sbattuto in prima pagina con un editoriale su Repubblica. Pasolini, oggi, non piacerebbe Fiano, l’artefice della legge contro la nostalgia del fascismo, ma neanche a Laura Boldrini, paladina della sinistra partigiana che getta benzina sul fuoco per alimentare una vecchia contrapposizione ormai inattuale. E che per Pasolini lo era già negli anni Settanta, altro che onda nera. Ecco cosa scriveva nei suoi “Scritti corsari”. “Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E i fascisti dell’epoca? “Si tratta di una definizione puramente nominalistica e che porta fuori strada. È inutile e retorico fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo ,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Oggi, ovviamente, la distrazione di massa impone di cavalcare l’allarme fascista, unico collante di una sinistra che forse stava iniziano a morire fin dai tempi di Pasolini…

“MI CHIEDO, CARO ALBERTO, SE QUESTO ANTIFASCISMO RABBIOSO…” – DALLA SECONDA LETTERA DI PASOLINI A MORAVIA (?) “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso…” – dalla seconda lettera di Pasolini a Moravia (?)  Shadow Ranger 3 Aprile 2019 su Bufale.net. La lettera del caro Alberto è uno degli apocrifi più famigerati della storia Italiana, seguito solo dall’apocrifo di Pertini cavernicolo armato di mazze e pietre. Ricostruzione di uno dei memes originali dell'”apocrifo di Pasolini del “Caro Alberto”. 

L’apocrifo del Caro Alberto, per intero, recita così: Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda. E sostanzialmente non è mai comparso in alcuna produzione letteraria prima di un post (ora rimosso e non più accessibile) di un blog del 2016, archiviato e censito dalla fondazione Elia Spallanzani. Il linguaggio è un evidente centone Pasoliniano nel quale l’imitazione del linguaggio dello scrittore è quasi perfetta, un falso creato a tavolino da un autore zelante ma non troppo. In primo luogo, la locuzione arma di distrazione, che nelle versioni più arcaiche del testo viene addirittura esplicitata nella forma estesa “arma di distrazione di massa” non è apparsa nell’orizzonte letterario e linguistico italiano prima del 1997. Come ricorda Internazionale, tale frase fu resa popolare dapprima da un film di quegli anni, e poi, sei anni dopo, da una trasmissione satirica di Sabina Guzzanti (chiamata appunto RaiOT – Armi di distrazione di massa). E sarebbe ben strano per Pasolini, morto nel 1975, arricchire il suo linguaggio con costrutti e metafore introdotti dopo la sua morte. Neppure possiamo credere all’immagine di un Pasolini “teledipendente” che si abbassa a svilire il suo ricercato linguaggio coi tormentoni del piccolo schermo come l’ultimo dei vidioti, i teledipendenti drogati dal piccolo schermo descritti dalla fantascienza del fumetto americano Machine Man. In secondo luogo, come anticipato non esistono iterazioni della frase precedenti al post del 2016 che ha dato origine a questa singolare buriana. Non esistono nell’epistolario di Pasolini, né alla data indicata e neppure altrove. Non esistono in alcun altro luogo testuale possibile, o malamente attribuito da ulteriori iterazioni della bufala.

La querelle epistolare tra Moravia, Pasolini e Calvino infatti non era ancora partita. L’avrebbe inaugurata un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974, intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, poi incluso negli Scritti corsari con il titolo “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”. Il che ci porta a dover ricercare le origini del Caro Alberto dapprima in un periodo letterario in cui semplicemente Pasolini si occupava di tutt’altro, per poi cercare, anche volendo posdatarla, una sua traccia negli Scritti Corsari nel quale… appunto non ve ne è traccia. Siamo quindi al confine tra l’inversione dell’onere della prova ed il sempiterno analfabetismo funzionale del la notizia è su Internet, e quindi non vi è ragione di dubitarne, quel triste fenomeno in cui domani potrei dichiarare convinto che Albert Einstein è il noto autore della frase “Due mucche fanno muu, ma una fa mu-mu!” e limitarmi, dichiarando di essere convinto che Albert Einstein abbia proferito una simile frase, a rispondere a chiunque mi dica di aver analizzato l’opera omnia del noto scienziato alla ricerca della stessa con: E chi ti dice che magari non l’ha scritta ma l’ha solo pensata, o l’ha detta a suo cugino una volta che erano chiusi in una stanza senza testimoni e poi il cugino è morto professorone?!?! E non solo: come tutte le bufale, la bufala del Caro Alberto si è evoluta nel tempo. La misteriosa ed ineffabile “epistola al caro Alberto Moravia” si trasfigura infatti in un intervento televisivo alla RAI del 1973 (del quale, altrettanto curiosamente, non si trova traccia in alcuna delle ricche Teche RAI) o un “dialogo”se non, ancora più grottescamente, in una lettera o intervento televisivo dove il “Caro Alberto” non è più Moravia, ma diventa l’amato attore comico, regista, sceneggiatore, compositore e doppiatore Alberto Sordi. Se questi non fosse spirato nel 2003 (tredici anni prima della presumibile creazione della bufala) avrebbe col suo sorriso buono ed il suo senso dell’umorismo trovato assai divertente diventare il centro di una storia sfuggita di mano e finita nel novero degli apocrifi rilanciati dalla stampa e dalla politica nazionale. Da una lettura del corpus Pasoliniano inoltre non si evince mai, in una singola riga, una critica contro un presunto “antifascismo”, bensì una teoria per cui Il Pasolini degli ultimi anni sostiene, tornando più volte sul tema, che il vecchio fascismo, coi suoi codici, le sue retoriche, il suo rapporto tra capo e massa, è stato superato da un “fascismo” peggiore, quello del neocapitalismo, della “società dei consumi”. I fascisti non scompaiono né diventano innocui, ma sono integrati nel nuovo sistema, omologati e funzionali alla sua logica. Del tutto antitetica rispetto al meme costruito scimmiottandone il linguaggio. Rimandiamo a questa analisi pubblicata su Internazionale per chi volesse approfondire il tema: l’oggetto di questa pagina si ferma ad appurare l’esistenza di una bufala.

L’antifascismo più dannoso del fascismo, l’eterna lezione di Pasolini all’Italia. Gian Luca Campagna e Redazione il 13 Febbraio 2018 su nazionefutura.it. Se parli ti tacciano di (estrema) destra o di (estrema) sinistra, anche se poi dentro si è anarcoindividualiberisti (e talvolta anarcoindividuaibertini). Se non parli ti indicano come un qualunquista menefreghista lontano dalla res publica. Allora, cito. Non in giudizio, per carità, che una volta m’è bastato per il senso del grottesco che alberga nelle aule giudiziarie. Mi ripeto, allora cito. E citiamo. PPP. Cioè PierPaolo Pasolini, che resta il più grande intellettuale italiano del Novecento, visionario e anticipatore. Mi limito a due sue citazioni, che faccio mie. La prima, caro PierPaolo (tanto questa confidenza me l’avrebbe concessa, abbiamo un poker di passioni comuni: il mare-lago-dune di Sabaudia, il calcio come sacra rappresentazione della vita, la narrativa e il senso di obiettività fotografando la realtà anticipando il futuro) affonda il parallelo col brutale pestaggio di un carabiniere a Piacenza durante un corteo pacifico. Ecco, appunto, fotografiamo il reale, con l’obiettivo di PPP. Eccola la prima citazione. “II PCI ai giovani! È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati… Adesso i giornalisti di tutto il mondo vi leccano il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Beh, il blob coraggioso che sfilava per la lama d’asfalto di Piacenza in un corteo pacifico (!) in nome del razzismo e dell’antifascismo poi ha preso a sberle e calci un (uno!) carabiniere, che era lì per scortarli, per salvaguardarli, per proteggerli, che ha giurato sulla Costituzione che difenderà sempre questo Paese dal Fascismo. Bella prova di coerenza da parte di chi inneggiava alla pax. E poi, ancora, la seconda citazione di PPP. Uno dei maggiori pensatori del secolo scorso e della storia italiana scriveva a Moravia: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. È il 1973. E siamo nel brutto mezzo degli anni di piombo. Ah, vorrei continuare con la parte finale dell’ode al poliziotto da parte di PPP, tornando alla prima citazione: “Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. Ecco, appunto, che fine ha fatto il mantra peace and love che scandiva le vostre giornate? I più grandi nemici degli italiani sono gli italiani, appartenenti a un Paese evidentemente fermo a quarant’anni fa (secondo PPP) e a oltre settant’anni fa (secondo me, perché non abbiamo fatto i conti con la Storia) e che fatica a immaginare che possa esserci un domani, altrimenti spiegatemi – perché ancora non l’ho capito – che a Macerata sfila il corteo antirazzista e antifascista contro un povero demente (tal Traini) mentre ci si è dimenticato che tre (ora sono diventati quattro) spacciatori in carriera (neri rossi verdi o gialli o bianchi non ha importanza) hanno squartato una povera ragazza. Gian Luca Campagna

(Nessuna) Pietà per la nazione che crede alle bufale su #Pasolini. Pubblicato il 06.07.2018 da Wu Ming su wumingfoundation.com. Una poesia di Lawrence Ferlinghetti, per giunta scritta trentadue anni dopo la morte di Pasolini, prima viene attribuita a quest’ultimo, poi viene usata come pezza d’appoggio per sostenere che era… cosa? Nazionalista? «Sovranista»? Non l’hanno nemmeno letta: plausibilmente, qualcuno ha visto la parola «nazione» e si è eccitato all’istante.  Wu Ming 1 (con la collaborazione di Yàdad de Guerre e Nicoletta Bourbaki)

INDICE

1. Pietà per la nazione?

2. Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

3. Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto»

4. Due parole in più su questo “network”

5. Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

6. Ma sempre Pasolini? Come mai?

Lo psichiatra di destra e personaggio televisivo Alessandro Meluzzi è solo uno dei tanti diffusori del meme che vedete qui sopra. È composto da una delle più celebri foto di Pier Paolo Pasolini e da una traduzione italiana di Pity The Nation, componimento di Lawrence Ferlinghetti, 99 anni, poeta e scrittore, libraio ed editore, esponente di spicco e mentore della Beat Generation, pilastro della letteratura e della controcultura americana del XX secolo. Un libertario che si è sempre espresso contro ogni nazionalismo, bigottismo, razzismo e ha scritto: «I am waiting for the final withering away of all governments» [Attendo la scomparsa definitiva di ogni governo]. Nel meme, la poesia è però firmata «P. P. P.». Meluzzi, poi, l’introduce con una balzana domanda retorica: «Anche Pasolini era fascista?» Il senso sembra essere: voi che chiamate “fascista” chi ama la propria nazione, beccatevi questa poesia di Pasolini contro chi non la ama! Vale a dire: se hanno letto la poesia (cosa di cui dubito), l’hanno capita esattamente al contrario. Diamole un’occhiata.

Pietà per la nazione?

Ferlinghetti scrisse Pity The Nation nel 2007, ultimo anno dell’amministrazione Bush Jr. Un’epoca segnata a fondo dalla «War on Terror», dal liberticida Patriot Act, da imperialismo e militarismo imbellettati con la retorica sull’«esportare la democrazia», dalle torture nel carcere di Abu Ghraib, dalle detenzioni illegali nella base di Guantanamo (che peraltro proseguono). La poesia rimane attualissima. Al titolo si accompagna una specificazione tra parentesi: «(After Kahlil Gibran)», che potremmo rendere con «Alla maniera di Kahlil Gibran». La poesia, infatti, è anche un omaggio al grande poeta libanese-americano morto nel 1931. È costruita su un’anafora, figura retorica che consiste nel cominciare ogni frase con la stessa parola o sequenza di parole. L’anafora «Pity the nation» — che sarebbe più corretto tradurre con «compatite la nazione» o «commiserate la nazione» — si trova nel libro postumo di Gibran Il giardino del profeta (1933), nel quale il profeta Almustafa, «l’eletto e l’amato», pronuncia un sermone di questo tenore:

«Compatite la nazione il cui uomo di stato è un furbo, il cui filosofo è un giocoliere e la cui arte è l’arte del raffazzonare e dello scimmiottare». [Se volessimo fare il giochino ozioso delle allegorie a chiave retroattive, tradurremmo: compatite la nazione dove al governo c’è Salvini, dove l’intellettuale organico è Fusaro e dove si fabbricano memi con false citazioni.]

Ecco il testo completo, in inglese, della poesia di Ferlinghetti, con mia traduzione di ogni strofa.

«PITY THE NATION»

(After Khalil Gibran)

Pity the nation whose people are sheep And whose shepherds mislead them

(Compatite la nazione il cui popolo è un gregge che i suoi pastori mal conducono)

Pity the nation whose leaders are liars Whose sages are silenced And whose bigots haunt the airwaves

(Compatite la nazione i cui capi sono bugiardi e i cui saggi sono messi a tacere e i cui bigotti infestano le frequenze radio e tv)

Pity the nation that raises not its voice Except to praise conquerers And acclaim the bully as hero And aims to rule the world By force and by torture

(Compatite la nazione che non alza la voce se non per lodare i conquistatori e acclamare il bullo come eroe e punta a dominare il mondo con la forza e con la tortura)

Pity the nation that knows No other language but its own And no other culture but its own

(Compatite la nazione che non conosce altra lingua che la propria e altra cultura che la propria)

Pity the nation whose breath is money And sleeps the sleep of the too well fed

(Compatite la nazione il cui fiato è denaro e dorme il sonno del troppo ben pasciuto)

Pity the nation oh pity the people who allow their rights to erode and their freedoms to be washed away My country, tears of thee Sweet land of liberty!

(Compatite la nazione, oh, compatite la gente che lascia erodere i propri diritti e spazzare via le proprie libertà. Mio paese, lacrime per te dolce terra di libertà!)

Gli ultimi due versi sono ironici, parodiano la canzone patriottica My Country, ‘Tis Of Thee [Paese mio, parlo di te], scritta da Samuel Francis Smith nel 1831 e rimasta per un secolo inno nazionale ufficioso degli USA, finché nel 1931 non fu imposto per legge Star Spangled Banner. In questo finale Ferlinghetti si autocita, perché il verso «My country, tears of thee» lo aveva già usato nella sua raccolta più famosa, A Coney Island Of The Mind (1958), per la precisione nella poesia Junkman’s Obbligato.

Dovrebbe risultare evidente a chiunque che Pity The Nation non esprime alcun «amore per la nazione», né veicola alcunché di «sovranista» o che altro. Ferlinghetti, del resto, ha definito il nazionalismo «la superstizione idiota che può far saltare in aria il mondo», e in una celebre intervista rilasciata a Robert Dana ha detto: «I nazionalismi devono scomparire. Sono i postumi barbarici di tempi antichi.» Perché usare questa poesia per inventarsi un Pasolini nazionalista? Pasolini una poesia dedicata alla sua nazione la scrisse, si intitola proprio Alla mia nazione, ed è difficilmente appropriabile dai “sovranisti”: negli ultimi versi si augura che l’Italia, paese di «milioni di piccoli borghesi come milioni di porci», sprofondi in mare e «liberi il mondo». Eccola musicata dal gruppo metal bolognese Malnàtt: Ma l’uso di memi pseudo-pasoliniani come pezze d’appoggio per discorsi di destra, nazionalisti, a volte razzisti e tout court fascisti, non si limita a questo caso.

Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

Nei giorni scorsi qualcuno ha provato a rimettere in circolazione il meme del «Caro Alberto», del quale ci siamo occupati un mese fa. Si tratta di una frase che Pasolini non ha mai scritto né pronunciato, inventata di sana pianta nel gennaio 2017, circolante con la dicitura «Lettera di Pasolini a Moravia, 1973». 

La bufala anti-antifascista del «Caro Alberto», riproposta dalla pagina FB Fronte dei Popoli il 4 luglio 2018. Su questa pagina e sul milieu di cui fa parte, si veda sotto.

Nel mio articolo su Internazionale facevo notare che:

la frase non si trova in nessun punto dell’opera omnia di Pasolini;

nel 1973 la polemica pasoliniana sul «nuovo fascismo della società dei consumi» non era ancora cominciata;

l’espressione «arma di distrazione» non era in uso nell’Italia degli anni Settanta;

soprattutto, ricostruendo il contesto, dimostravo che Pasolini non avrebbe mai potuto scrivere una frase così, perché se è vero che individuava il «nuovo fascismo» nel consumismo, è altrettanto vero che non sottovalutò mai la violenza dei neofascisti. Come avrebbe potuto, lui che diverse volte l’aveva subita? Pasolini, in quegli anni, non solo non condannò mai le manifestazioni antifasciste, ma chiamò più volte i fascisti «assassini» e li additò come esecutori materiali di stragi e attentati. Nel marzo 1974, in un intervento poi incluso negli Scritti corsari, Pasolini chiamò a un «impegno totale» per il quale indicava «ragioni oggettive», tra le quali la necessità di difendersi dai «vecchi assassini fascisti che cercano la tensione non più lanciando le loro bombe, ma mobilitando le piazze in disordini in parte giustificati dal malcontento estremo». Dopo aver letto il mio pezzo, il blogger Yàdad de Guerre, in un commento pubblicato su Giap il 24 giugno scorso, ha ricostruito la genesi del meme, dimostrando che è nato in ambienti a cavallo tra neofascismo e rossobrunismo. Ripropongo qui la sua ricostruzione.

Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto» di Yàdad de Guerre. Quando la farlocca citazione sull’antifascismo «rabbioso» attribuita a Pasolini cominciò a girare cercai di spiegarmela. Eppure, nonostante le varie spiegazioni che cercavo di darmi, una cosa non tornava mai, insieme alle parole «arma di distrazione»: l’uso dell’aggettivo «rabbioso». Avrebbe mai potuto Pasolini usare l’aggettivo «rabbioso» in quel modo, così sbrigativo e approssimativo? Non solo e non tanto per il film del 1963 intitolato La rabbia, ma anche per il documentario televisivo del 1966 realizzato da Jean-André Fieschi e intitolato Pasolini l’enragé, ossia Pasolini l’arrabbiato. In uno dei momenti del film, Pasolini parla apertamente del concetto di rabbia, associandola alla rivolta, alla rivoluzione, alla Resistenza, al marxismo. Dice chiaramente: «In fondo la Resistenza è stata una sorta di grande rabbia organizzata, organizzata e impiantata soprattutto sull’ideologia marxista». Questa sua definizione di «rabbia», cioè di motore primario per una rivoluzione condivisa (innanzitutto contro il fascismo e la borghesia, evidentemente), serve a Pasolini per spiegare la mancanza di “arrabbiati” nell’Italia degli anni Sessanta. Per il Pasolini intervistato da Fieschi, i giovani (borghesi) del tempo trovavano conforto in uno schema di critica già pronto ma invecchiato – invecchiato «come tutti gli schemi» – quello della Resistenza e della cultura marxista italiana. Uno schema che non funzionava più perché il tempo l’aveva reso borghese. Quindi, per Pasolini, l’arrabbiato (principalmente giovane) «sent[iva] immediatamente il dovere di non essere arrabbiato, ma rivoluzionario». Questo non vuol dire che Pasolini rinnegasse la rivoluzione, chiaramente. Voleva piuttosto indicare come il senso dell’essere rivoluzionario fosse stato svuotato, privato della rabbia come motore. Il “rivoluzionario” è qui associato a una forma di morale borghese, già sussunta dalla borghesia, tanto da permettere a certi «comunisti rivoluzionari italiani» di essere nient’altro che piccolo-borghesi «in doppio petto» schiacciati dai «dogmi» dell’ideologia marxista. Fin qui la lettura dell’antifascismo «rabbioso» potrebbe ancora trovare un suo senso, se non fosse che – come ricorda il titolo stesso del documentario – Pasolini rivendica la rabbia, la sua rabbia «non catalogabile», e precisa che l’arrabbiato ideale, il «meraviglioso arrabbiato della tradizione storica», è Socrate. Pasolini, a me pare, cerca cioè una strada per attualizzare e rinnovare la rabbia, renderla collettiva, cercando strumenti che portino alla rivolta e alla rivoluzione contro la borghesia. Questo non può voler dire disconoscere le forme di fascismo o la Resistenza. «Rabbioso» e «arrabbiato» hanno due significati differenti, ovviamente, ma proprio in questa differenza si è fondata la mia diffidenza nei confronti di quella citazione. Avrebbe mai potuto Pasolini usare la parola «rabbioso» nel 1973, lui che sul concetto di rabbia ci aveva costruito un discorso nella metà degli anni ’60? Avrebbe mai potuto disconoscere la «rabbia! con tanto sdegno, medicalizzandola mi verrebbe da dire, sminuendola a una sorta di malattia animalesca e momentanea? Avrebbe potuto associare un antifascismo «rabbioso» alla classe dominante, se la rabbia è uno strumento (emotivo e politico) di azione che non fa gli interessi della borghesia? Avrebbe potuto Pasolini associare la rabbia, anche solo in una sua versione deformata, alla classe dominante che – si ricava dal suo ragionamento – mai potrebbe essere arrabbiata (e forse neanche «rabbiosa»)? Mi sono quindi concentrato sulle parole «antifascismo rabbioso» e le ho cercate ovunque nei testi di Pasolini che possiedo, nelle interviste e nei documentari. Non sono mai venute alla luce. Ho usato Google, ristretto i campi di ricerca. Quando è spuntata la prima volta quella citazione e quell’uso delle parole «antifascismo rabbioso» da parte di Pasolini? Prima del 29 gennaio 2017, non spunta nulla, da nessuna parte. In quel giorno, su Facebook si sono moltiplicati i post con la citazione: «Mi chiedo, caro Alberto…» accompagnata da foto di Pasolini e Moravia o di Pasolini e basta. Il più vecchio risultato che avevo ottenuto non è più online, ma era di un tale che lavora per il sito fascista Oltre la Linea (ho ancora l’URL, se mai qualcun* volesse controllare da sé). La citazione, però, non era riferita a una fantomatica lettera del 1973 a Moravia, bensì recitava: «Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, “Incontro con…”, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia». Cito qui, a mo’ d’esempio, l’uso che si modifica col tempo da parte di una stessa pagina Facebook, cioè La Via Culturale, «network» fondato da Alessandro Catto. Il 31 gennaio 2017, La Via Culturale pubblica la citazione con gli stessi riferimenti che ho dato prima. L’11 luglio 2017, in un attacco di rimozione mnemonica, la stessa pagina Facebook pubblica la stessa citazione con riferimenti più generici da un punto di vista temporale ma più precisi rispetto al momento: «Pier Paolo Pasolini in una discussione con Alberto Moravia». Non sappiamo più quando, ma sappiamo che c’era una discussione tra Pasolini e Moravia. Ancor meglio fa la pagina Facebook Il RossoBruno che, addirittura, scrive che la citazione deriverebbe da «Pierpaolo [sic] Pasolini ad Alberto Moravia, Incontro con Ezra Pound, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia».

Che cosa c’entri Ezra Pound non è chiaro;

che cosa ci facesse Alberto Moravia tra Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini e perché si parlasse di antifascismo italiano è un non-sense;

come Ezra Pound potesse nel 1973 essere vivo, quand’è morto nel 1972, resta un miracolo divino;

perché un’intervista di Pasolini a Pound del 1967 sia celebre e discussa ancora oggi e una rubrica RAI con Pound, Pasolini e presumibilmente Moravia del 1973 non la conosca nessuno è un mistero.

Comunque sia, il 29 gennaio 2017 su RaiStoria, in tempi coincidenti con le prime apparizioni della citazione, andava in onda Italiani con Paolo Mieli. Forse la puntata dedicata ad Alberto Moravia, «Appunti di viaggio», in cui effettivamente si parla dello scontro intellettuale tra Moravia e Pasolini ma, ovviamente, mai si citano quelle esatte parole. Né, a scanso di equivoci, se ne trova traccia nell’episodio dedicato a Pasolini stesso, «Il santo infame», recuperabile tranquillamente sul web. Dicembre 2017: dopo l’invenzione e “tornitura” della falsa frase di Pasolini, Antonio Marras la riprende sul Secolo d’Italia, ex-organo ufficiale del MSI, oggi sito crivellato di pubblicità. Sarà, invece, Antonio Marras per Il Secolo d’Italia a trasformare la citazione in uno stralcio di lettera, il 12 dicembre 2017, quando — già da qualche mese — aveva cominciato a strabordare fuori da Facebook per via del disegno di legge contro la propaganda fascista, il cosiddetto DDL Fiano. Da quel momento in particolare, la citazione ha cominciato a viaggiare da sé perché, tanto, chi va a controllare le lettere di Pasolini, anche quelle non raccolte e pubblicate da Nico Naldini? (Disclaimer: non esiste alcuna lettera scritta da Pasolini a Moravia che contenga quelle parole.) Una cosa è certa, in tutto questo: non solo nessun@ ha compiuto mai alcun lavoro di ricerca per portare alla luce la citazione (che su internet non si trova se non in forme ridicole), ma soprattutto nessun@ si è preso la briga di insegnare a Matteo Salvini che cos’è, davvero, la rabbia.

Due parole in più su questo «network»

Abbiamo visto che il meme del «Caro Alberto», prima di essere ripreso dal Secolo d’Italia, è circolato per mesi e ha preso la sua forma odierna in un certo arcipelago di blog e pagine Facebook. Descriviamolo brevemente. Oltre La Linea, Giano Bifronte e Azione culturale sono sigle riconducibili allo stesso progetto rossobruno. Il simbolo è Giano che guarda sia a destra sia a sinistra. Un altro simbolo ricorrente è la bandiera dell’Eurasia, progetto geopolitico caro ai rossobruni e teorizzato principalmente dal guru russo Aleksandr Dugin. Animatore di Oltre La Linea (che è solo un altro nome di Giano Bifronte) è almeno fino al maggio 2017 tale Luigi Ciancio, che oggi su Facebook si firma «Luigi Cianciox». 

Alessandro Catto

Azione Culturale — come dichiarano loro stessi  —  è stata formata da Giano Bifronte e La Via Culturale (già La Via Culturale al Socialismo), blog “sovranista” gestito da Alessandro Catto sul sito de Il Giornale.

A quanto sembra, la “mente” è Catto. Tanto per capirci, Catto, per conto di Azione Culturale, ha intervistato Simone Di Stefano di Casapound per cercare una sinergia tra “comunismo” e fascismo. Ecco uno stralcio dell’intervista: 

Simone Di Stefano

Lei è aperto ad un dialogo con formazioni coerentemente comuniste che si rifanno alle esperienze di governo del socialismo reale, per come abbiamo imparato a conoscerle nel ‘900? Se sì, su quali temi? 

«Come detto precedentemente la base del dialogo deve essere il riconoscimento della nazione Italia, l’esistenza dei suoi confini e del suo popolo. I temi possono essere la critica al liberismo, la lotta alla globalizzazione e tanti altri. Resta un fatto: siamo incompatibili con l’idea di abolizione della proprietà privata e della esclusiva proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Il fine ultimo della nostra rivoluzione è la potenza della nazione Italia e di conseguenza la piena giustizia sociale […]» 

Stelio Fergola

Oltre a Ciancio e Catto, in relazione a tutto questo va menzionato Stelio Fergola, direttore responsabile e co-fondatore di Azione Culturale, Oltre la Linea, ecc. Fergola è autore del libro L’inganno antirazzista, che ha pubblicato con Passaggio al bosco, casa editrice la cui impronta ideologica è chiarissima.

In questo milieu telematico troviamo anche Fronte dei Popoli, pagina Facebook attualmente gestita dal bolognese Dario Giovetti. Nel dicembre 2016 Fronte dei Popoli annunciava soddisfatto e ammiccante «la nuova stagione di Azione Culturale».

Fronte dei Popoli condivide spesso contenuti delle pagine di Ciancio e Catto, come del resto fa Ufficio Sinistri, pagina FB gestita dal sanremese Roberto Vallepiano, autore di un libro dallo stesso titolo. Vallepiano condivide e commenta favorevolmente contenuti di Ciancio, Catto e Giovetti, che a loro volta condividono e commentano favorevolmente le prese di posizione di Vallepiano.

Il campionario ha poco di sorprendente: contro l’immigrazione, il complotto di Soros, chiudere i porti alle ONG, la sinistra “buonista”, la nazione ecc. Il tutto ornato di specchietti rossi, per le allodole che volano nei dintorni.

Attualmente, la vecchia pagina Facebook di Azione Culturale rimanda a Il Mondo Nuovo.

Da quest’arcipelago di siti e pagine FB, come dimostrato nei dettagli da Nicoletta Bourbaki, è partita anche la diffusione di una falsa frase di Samora Machel contro i migranti.

In costante interazione con tutte queste pagine è il sito rossobruno L’Antidiplomatico.

Si incazzino pure, descrivano il paragrafo che avete appena letto come una «lista di proscrizione». È la reazione standard ogni volta che qualcuno, fuori e contro una certa omertà «tra compagni», ha l’onestà di fare nomi e cognomi.

I rossobruni non sono miei compagni, perché, molto semplicemente, non sono compagni.

Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

Il meme del «Caro Alberto» è stato riproposto il 4 luglio — insieme ad altre citazioni pasoliniane formalmente corrette ma decontestualizzate — da Fronte dei Popoli, evidentemente non contento della figuraccia appena rimediata con la frase falsa di Samora Machel.

Quando gli è stato fatto notare — a un certo punto anche da Nicoletta Bourbaki  — che pure quella frase era un fake, per giunta “debunkato” settimane prima, Giovetti ha arrampicato specchi unti, ha più volte citato come “fonte” il — per la precisione: dato la colpa al  —  Secolo d’Italia, infine si è “incantato”, come un vinile graffiato, a ripetere «anche Wu Ming 1 ha detto che la frase era verosimile!». Una balla presto ripetuta a pappagallo da altri commentatori. 

Due esempi tra i molti rinvenibili sulla pagina Facebook «Fronte dei Popoli».

Ovviamente, costoro si sono ben guardati dal riportare il passaggio del mio articolo in cui la parola «verosimile» compariva. Ebbene, lo faccio io, con tanto di sottolineature for dummies. 

Clicca per leggere l’articolo completo Pasolini e il neofascismo come merce.

Vorrei però soffermarmi sulla cosa più interessante scritta dall’amministratore di Fronte dei Popoli: secondo lui Pasolini

«in “Scritti corsari”, come del resto nell’editoriale per il “Corriere della Sera” “il fascismo degli antifascisti” esprimere [sic] concetti che risultano assolutamente compatibili con quelli della citazione di cui stiamo parlando».

Abbiamo già spiegato che non è così: gli Scritti corsari contengono molte condanne della violenza neofascista, e i neofascisti vi sono chiamati più volte «sicari», «assassini» e quant’altro. Basterebbe leggere l’intero libro, anziché ravanare nel web in cerca di virgolettati. Addirittura, nell’intervento intitolato «Fascista», incluso nella sezione «Documenti e allegati», Pasolini dice che la violenza dei neofascisti suoi contemporanei è peggiore di quella del vecchio regime mussoliniano: «Vent’anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime che ha fatto il fascismo di questi ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia, di Bologna [quella del treno Italicus, N.d.R.] non erano mai avvenute in vent’anni. C’è stato il delitto Matteotti certo, ci sono state altre vittime da tutte due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei delitti compiuti dal 12 dicembre del 1969 in poi non s’era mai vista in Italia.» Pasolini sbagliava: il fascismo “storico” di stragi ne aveva fatte eccome, non solo all’estero ma anche in Italia, e anche prima della RSI. Basti dire che era andato al potere sull’onda del terrorismo squadrista, che aveva ucciso mezzo migliaio di persone e ne aveva ferite migliaia.

Il punto, tuttavia, non è questo: il punto è che negli Scritti corsari Pasolini non sminuisce mai la violenza dei neofascisti, anzi, delle due la accentua.

Il commento di Fronte dei Popoli contiene altri sfondoni:

quello uscito sul Corriere il 16 luglio 1974 non era un «editoriale»;

sul giornale l’articolo si intitolava «Apriamo un dibattito sul caso Pannella»;

nel testo l’espressione «fascismo degli antifascisti» non compariva mai;

l’oggetto della critica non erano affatto gli antifascisti tout court bensì i sedicenti «antifascisti» che stavano al governo e sedevano in parlamento, colpevoli di non accogliere alcune richieste di Marco Pannella che digiunava da settanta giorni.

Se non si fosse fermato alla parola «verosimile» e avesse letto il mio pezzo per intero, Giovetti queste cose le saprebbe: sono spiegate in un apposito paragrafo, intitolato proprio «L’equivoco sul “fascismo degli antifascisti”». Problemi ed equivoci, ad ogni modo, sono a monte, e conviene esporli con la massima chiarezza. Il primo riguarda specificamente Pasolini, o meglio: la sua ricezione nell’Italia di oggi. Scritti corsari è una raccolta di articoli di giornale e interventi estemporanei risalenti a quasi mezzo secolo fa. Il libro è pieno zeppo di riferimenti alla cronaca e alla situazione politica di quei giorni, di allusioni oggi indecifrabili ai più, di nomi e cognomi oggi ricordati da pochissime persone. Il senso di molti interventi può essere ricostruito solo con la loro, spesso faticosa, ricontestualizzazione. Non solo del libro manca un’edizione critica, ma è stato eternato, pietrificato dalla morte e dalla santificazione post mortem di Pasolini, ergo continua a essere ristampato e a tornare in libreria completamente fuori contesto e come una sorta di «libro sacro». Posizioni transitorie, che di certo l’autore avrebbe approfondito o superato, sono diventate comandamenti incisi su pietra. Formulazioni ambigue sono diventate corpi contundenti da usare nelle tenzoni di oggi. Se aggiungiamo che su alcuni fenomeni allora in corso Pasolini sbagliò clamorosamente il giudizio, non penso di esagerare se dico che Scritti corsari, suo malgrado, si è trasformato in qualcosa di molto simile a uno sciocchezzaio. L’altro problema è la generale ignoranza su cosa sia una fonte. 

– E dove starebbe ‘sta frase di Pasolini?

– Cosa credi, di cogliermi in castagna? Sta sul Secolo d’Italia!

Ieri, su Twitter, Benedetta Pierfederici ha citato una frase di Marc Bloch: Marc Bloch (1886 – 1944) «In tutti i casi in cui non si tratti dei liberi giochi della fantasia, un’affermazione non ha il diritto di presentarsi se non a condizione di poter essere verificata; per uno storico, se usa un documento, indicarne il più brevemente possibile la collocazione, cioè il modo di ritrovarlo, non equivale ad altro che a sottomettersi ad una regola universale di probità. Avvelenata dai dogmi e dai miti, la nostra opinione, anche la meno nemica dei “lumi”, ha perduto persino il gusto del controllo. Il giorno in cui noi, avendo prima avuto cura di non disgustarla con una vana pedanteria, saremo riusciti a persuaderla a misurare il valore di una conoscenza dalla sua premura di offrirsi in anticipo alla confutazione, le forze della ragione riporteranno una delle loro più significative vittorie.» (Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998, pp. 68-69)

Benedetta aggiungeva: «Cosa significa “poter essere verificata”? Significa che chi presenta, ad esempio, una citazione deve rintracciarne e poi dirne l’origine (la fonte, appunto). Chi legge la citazione deve poter rifare la strada a ritroso e, se necessario, confutarla. Se chiedo conto di una citazione “Pasolini a Moravia”, la fonte non è un articolo online o un blog o un tweet. La fonte è il documento che contiene la citazione. È faticoso trovare le fonti e presentarle? Il più delle volte, in effetti, lo è. Risalire la corrente, evitare le rapide, non perdersi negli affluenti… Ma non ci sono altri modi per procedere nella conoscenza.» Dovrebbe essere l’ABC, ma non lo è, per tanti motivi. Per questo Nicoletta Bourbaki ha scritto il suo “manuale” su come riconoscere le bufale, intitolato Questo chi lo dice? E perché?

Ma sempre Pasolini? Come mai?

Pasolini, lo abbiamo visto, non è l’unico intellettuale di sinistra morto e impossibilitato a difendersi il cui pensiero viene decontestualizzato, distorto, falsificato. Ma è di gran lunga il più utilizzato. Perché? Ripropongo qui, per discuterne insieme, uno spunto di riflessione risalente a qualche mese fa, quando il lavoro di debunking del Pasolini «anti-antifascista» era ancora agli inizi. «Prima o poi andrà ricostruita la genealogia di quest’utilizzo di Pasolini come auctoritas per ogni stagione e occasione. Un processo di lungo corso che, banalizzandone l’opera e la figura, lo ha trasformato in fashion icon per ipse dixit pronti da indossare. Di sicuro c’entra la sua “santificazione” dopo il martirio, ma non basta a spiegare tutto. C’entra anche la contraddittoria complessità del suo percorso, unita all’oltraggiosità di molte sue prese di posizione. E c’entra il suo modo di esprimersi, il suo “senso della frase” […] Il contesto discorsivo costruito da Pasolini è un campo di tensioni, un vasto reticolo di corde tese all’estremo, a collegare vari temi, concetti, momenti. Corde sempre sul punto di spezzarsi. Seguendole con lo sguardo si trovano vere e proprie “rime narrative” e tematiche, ed è ciò che più affascina nell’installazione. Ma c’è anche un aspetto spaventoso: si capisce che per snaturare un’affermazione di Pasolini basta davvero pochissimo. Il modo più facile di snaturarla è dire, su qualunque argomento: “Pasolini la pensava così, punto”.» Questo punto, che rende perentorie affermazioni spesso insensate, toccherà ogni volta farlo saltare, finché, un giorno, non smetteranno di usare Pasolini, e si concentreranno su qualcun altro. Noi dobbiamo restare vigili.

Nel suo The Mexican Night Ferlinghetti si fa una domanda che vale la pena riproporre: «From which way will the fascists come this time, baby?»

“Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)”, di Alessandro Viola il 13 maggio 2021 su centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it. Tra i libri dedicati a Pier Paolo Pasolini usciti nel corso del 2020 non si può non ricordare l’interessante volume di Alessandro Viola intitolato Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975), pubblicato a maggio dalla casa editrice Mimesis. «Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)», di Alessandro Viola (Mimesis, 2020). La riflessione pasoliniana sul fascismo è complessa, peculiare, controversa. Complice la natura letteraria del suo linguaggio, Pasolini è diventato in tempi recenti un’autorità ambigua, contesa e rivendicata, a colpi di citazioni, dalle parti politiche più varie. Questo lavoro si propone di affrontare tale ambiguità, comprendendola. Che cosa pensava Pasolini del fascismo, vecchio e nuovo? E che cosa pensava dell’antifascismo e degli antifascisti del suo tempo? Il saggio cerca di rispondere a questi interrogativi calandoli all’interno del pensiero e della poetica dell’autore, a partire dai primi contributi giornalistici degli anni Quaranta, fino a culminare con gli interventi critici e polemici degli anni Settanta. Ne viene fuori una genealogia a tutto tondo della riflessione pasoliniana, che contempla tanto la natura intimamente letteraria quanto l’ispirazione politica della sua prospettiva. Il volume che è dedicato “A Guido Pasolini, caduto durante la Resistenza; e al nostro Guido, che ancora resiste” si apre con, in exergo, un brano della “celebre” lettera che Pasolini avrebbe scritto ad Alberto Moravia nel 1973: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Questo presunto brano pasoliniano, che è stato usato perfino da Matteo Salvini in un suo comizio del 24 febbraio 2018 in piazza Duomo a Milano, sempre più frequentemente viene citato dalla destra in modo strumentale per minimizzare la portata della violenza squadristica e razzista di questi ultimi tempi. In realtà l’autore di questo lavoro svela, dopo aver setacciato i tanti scritti pasoliniani ed in particolare l’epistolario pubblicato da Einaudi nel 1988 per la cura di Nico Naldini, l’inesistenza di tale lettera a Moravia. Affermazione che trova ulteriore conferma in un articolo apparso su “L’Internazionale” dal titolo Pasolini, Salvini e il neofascismo come merce, dove il collettivo Wu Ming 1 è in grado di dimostrare, dopo un’attenta analisi linguistica, che si tratta di una citazione assolutamente falsa. Alessandro Viola nel suo approfondito studio cerca anche di mettere in guardia il lettore dal rischio che anche chi cerca di dimostrare l’antifascismo intransigente di Pasolini finisce per trascurare il rigore nell’analisi dei suoi testi. Per questo motivo l’autore ha scelto di analizzare i testi e il suo autore calandoli all’interno della cornice storica corrispondente, tentando in questo modo di far emergere la visione che Pasolini ha del fascismo il più possibile in stretta aderenza con i testi considerati. Il volume si suddivide in due ampi capitoli: nel primo, intitolato “Le due strade che sole potevano portarmi all’antifascismo (1942-1948)”, si cerca di dare una panoramica della formazione culturale di Pasolini, e della sua prima opposizione al fascismo. Nel secondo capitolo, “Il fascismo secondo Pasolini”, si entra nel cuore dell’analisi pasoliniana introducendo anche il nuovo punto di vista che assimila il nuovo fascismo alla mutazione antropologica in atto causata dal consumismo e dalla nuova cultura edonistica imperante. L’autore in conclusione pone l’attenzione sui versi bilingui della poesia Saluto e Augurio contenuta nella raccolta La nuova gioventù (1975) dove si rivolge ad un giovane ragazzo fascista come già aveva fatto nel testo teatrale Bestia da stile (1974). – Alessandro Viola è dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si occupa di Storia culturale e di Letteratura italiana moderna e contemporanea. 

Ma Pasolini non stava con i poliziotti. Il 1° marzo ’68 gli scontri di Valle Giulia che gli ispirarono la famosa (e fraintesa) poesia contro gli studenti borghesi. Giovanni De Luna l'1 Marzo 2018 modificato il 16 Giugno 2019 su La Stampa. Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news. Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espresso del 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica. Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità. Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti». Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia…I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda. Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti. Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati - l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana». Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare.

Pier Paolo Pasolini. Lo ricordiamo con questo articolo per l'interpretazione autentica, scritto per il Corriere della Sera il 24 giugno 1974, che fa parte dei famosi scritti corsari. Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975). «Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo “Potere” con la P maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su «l’Unità» (12-6-1974) – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale). Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare. L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. Maurizio Ferrara, nell’articolo citato (come del resto Ferrarotti, in « Paese Sera », 14-6-1974) mi accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la mia può essere l’ottica di un «artista», cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere (che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo) si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di «anomia». Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli. Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza. Per tornare così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni per sostenere che la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e estremamente povero – di linguaggio verbale. È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. I problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa. Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il cosiddetto «compromesso storico», unico modo per cercare di correggere quello Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al CC del partito comunista (cfr. «l’Unità », 4-6-1974). Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non competono le «facce», a me non compete questa manovra di pratica politica. Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica, donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i miei problemi? Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa polemica («Corriere della sera», 10-6-1974) dicevo che i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla:

1) perché parlare di « Strage di Stato » non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì;

2) (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza.

In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima (letteratura per letteratura!) ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto (come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane) perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore. Pensate (se ne avete la forza) a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza dì Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, si, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo… Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.

Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975)

L'intervista del 74 a Pier Paolo Pasolini: "Oggi buona parte dell'antifascismo è ingenuo, stupido o in malafede". Massimo Fini il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Massimo Fini chiese il parere dello scrittore che sorprese tutti: "La società dei consumi è peggio del Regime". Mai come in questi anni in Italia si è sentita risuonare la parola «antifascista», insieme ai suoi due corollari «laico» e «democratico». Non c'è persona oggi in Italia (a parte i fascisti dichiarati) che non si proclami tutta insieme «laica, democratica e antifascista». Eppure mai come in questi anni la Repubblica è stata, al di là di certe apparenze permissive, percorsa da sindromi di intolleranza, di corporativismo, di antidemocrazia: di fascismo, infine, se fascismo significa anche la prepotenza del potere... Il fatto è che essere genericamente antifascista oggi in Italia non costa nulla, anzi spesso e volentieri paga. Ecco perché il termine è diventato ambiguo, si è consumato al punto da non voler dire quasi più nulla. Del resto è già abbastanza straordinario che a trent'anni dalla Resistenza e dalla caduta del regime si ragioni ancora in termini di fascismo e antifascismo. Questo vuol dire solo due cose: o che siamo rimasti perfettamente immobili e che trent'anni sono passati invano, o che dietro un certo antifascismo di maniera (che nulla ha a che vedere con l'antifascismo reale pagato di persona) si nascondono sotto mentite spoglie i vizi di ieri, le intolleranze, il conformismo, il servilismo di fronte al potere. Un «antifascismo» oltretutto pericoloso perché rischia con il suo conformismo e la sua intolleranza di fare dei fascisti reali dei martiri ingiustificati, e rischia di fare apparire quasi dalla parte della ragione chi ha indiscutibilmente torto. Da questi dubbi nasce la nostra inchiesta. Un'inchiesta, come si vede, delicata (l'accusa che ci verrà immediatamente rivolta, lo sappiamo, è di «fare il gioco delle destre»). Per questo abbiamo chiamato a rispondere a questi dubbi e a queste domande uomini della cui reale, antica e provata fede antifascista non è lecito dubitare.

PASOLINI: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. Partiamo dal recente film di Naldini: Fascista. Ebbene quel film, che si è posto il problema del rapporto fra un capo e la folla, ha dimostrato che sia quel capo, Mussolini, che quella folla sono due personaggi assolutamente archeologici. Un capo come quello oggi è assolutamente inconcepibile non solo per la nullità e per l'irrazionalità di quello che dice, per il nulla logico che sta dietro quello che dice, ma anche perché non troverebbe assolutamente spazio e credibilità nel mondo moderno. Basterebbe la televisione per vanificarlo, per ucciderlo politicamente. Le tecniche di quel capo andavano bene su di un palco, in un comizio, di fronte alle folle oceaniche, non funzionerebbero assolutamente su uno schermo a 22 pollici... Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo, io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell'urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa bonaria e grassoccia società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un fascismo bello e buono. Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa. Ma se noi guardiamo i giovani di oggi, anch'essi sono inquadrati, in divisa. Con una differenza però. Allora i giovani, nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant'anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, li aveva repressi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio nel fondo dell'anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell'intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all'epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato la loro anima. Il che significa, in definitiva, che questa civiltà dei consumi è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo... Secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività fatta cadere dall'alto, voluta dall'alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l'antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime. Se vogliamo fare dell'antifascismo sul serio noi non dobbiamo pronunciare nei confronti dei fascisti dei giudizi intellettuali o moralistici ma dei giudizi storici e politici. Non sono dei peccatori: sono dei nemici. Dei nemici di cui si deve tener conto, della cui cultura si deve tener conto. In questo senso gli intellettuali italiani di sinistra hanno delle gravissime colpe. Perché hanno sempre giudicato con sufficienza, con boria, con stupida superficialità la cultura di destra. Hanno sempre preferito ignorare la cultura di destra, chiudere gli occhi, basti pensare al caso clamoroso di Nietzsche. Le tesi di destra non vanno respinte a priori. Vanno giudicate. Perché, per quanto possa sembrare strano, i fascisti hanno un pensiero, una filosofia, una cultura. Che è una grande cultura che partecipa strettamente della cultura democratica e antifascista: perché il pensiero di Gentile è l'altra faccia di Croce. Perché la filosofia di Gentile la ritroviamo in Hegel. Ci si vergogna a dover spiegare ancora queste cose. Infine l'antifascismo, anche il più vero, anche quello vissuto e pagato sul campo non significa mancanza di misericordia. E voglio concludere col distico che Paul Éluard, poeta comunista, dedicò alle ragazze rapate a zero perché erano state con i nazisti: A quel tempo per non punire i colpevoli si rapavano delle ragazze». Massimo Fini

Moravia, uno scrittore passato dagli omissis all’oblio. Marcello Veneziani il  30 Settembre 2020 su La Verità. È passato quasi inosservato nei giorni scorsi il trentennale della morte di Alberto Moravia. Quando era in vita Moravia era lo Scrittore per antonomasia, l’Intellettuale civile impegnato, il personaggio pubblico. Veniva citato e omaggiato come un Classico vivente. La sua immagine era dappertutto, al centro dei dibattiti, punto di riferimento dell’Intellettuale Collettivo. Le sue prese di posizione, i suoi ritratti, come quello che gli fece Guttuso (nella foto), le sue pose, le sue donne – da Elsa Morante che grandeggia su di lui a Dacia Maraini che alla sua ombra prende corpo come scrittrice – i suoi reportage di viaggi, il cinema, la sua Sabaudia che fu la Capalbio ante litteram, il suo moralismo ideologico, il suo vibrante discorso alla morte di Pasolini. Tanti suoi libri diventarono film. Poi subito dopo la sua morte, il suo nome scomparve, i suoi libri pure, tutto apparve passato remoto e polveroso. Di lui restò solo il secondo cognome a Carmen Llera, l’ultima sua consorte. E un paio di folte sopracciglia grandeggianti come cespugli nei suoi ritratti.

Pasolini

Eppure si parlava e si parla ancora tanto del suo sodale PierPaolo Pasolini, morto molto prima di lui, si ripubblicano i suoi scritti, si ridiscutono le sue tesi; invece di Moravia si sono perse le tracce. Dimenticato. Ora, a trent’anni dalla morte, quasi coeva alla morte del Pci, è difficile risvegliare interesse intorno a lui. Eppure, nonostante tutto alcune sue opere, dagli Indifferenti, opera più che precoce, alla Noia e La Ciociara, hanno il respiro di testi significativi. Rispecchiano una condizione, riflettono un’epoca e un mondo. Moravia restò il prototipo dell’Intellettuale Impegnato, antifascista, vicino al Pci, di cui fu pure europarlamentare seppure “laico”.  La macchina del consenso che a volte è macchina dell’oblio, aveva dimenticato il suo primo libro pubblicato con la casa editrice di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, l’Alpes; e poi la lettera col cappello in mano che Moravia aveva scritto a Galeazzo Ciano, genero del duce e ministro, per rassicurarlo che il suo libro Le ambizioni sbagliate era “tutt’altro che antitetico alla Rivoluzione fascista”; aveva dimenticato le coperture fasciste assicurategli da suo zio Augusto de Marsanich, gerarca e viceministro ai tempi del regime e poi primo presidente dell’Msi nel dopoguerra; non ricordava che suo cugino antifascista Carlo Rosselli lo riteneva un esponente scettico ma verace della “nuova generazione fascista”.

Prezzolini

Si dimenticò di Prezzolini che ai tempi del fascismo lo aveva invitato alla Columbia University negli Stati Uniti per far conoscere i suoi romanzi in America e che il famigerato Minculpop lo reclutò per un viaggio di Cina degli intellettuali nazionali (che poi, sull’onda di Malaparte, diventerà anni dopo la sua infatuazione maoista). Nessuno ricordava più, ai tempi del suo antifascismo militante e del suo ruolo di vetrina, gli aiutini di regime e la protezione dello stesso Duce ai suoi “Indifferenti”. Nessuno ricordava più che per anni Alberto Moravia era stato nel dopoguerra il segretario personale dell’Arcitaliano Curzio Malaparte a partire dalla sua rivista Prospettive. Può essere ancora istruttivo scorrere libri come Intellettuali sotto due bandiere di Nino Tripodi o Camerata dove sei? di Claudio Quarantotto (che si firmava Anonimo Nero) per rendersi conto di lui e dei suoi tanti compagni di viaggio che voltarono gabbana. Col passare del tempo, Moravia era diventato “Il Conformista”, per citare il titolo di un suo libro, incarnava il Canone ideologico della cultura italiana. E dava la linea, sgridava gli eretici che non seguivano la linea progressista, marx-freudiana e filocomunista. Per esempio, nell’aprile del 1963 su L’Espresso Moravia rimproverava il compagno Pasolini per aver accettato di girare un film con Giovannino Guareschi un conservatore che era stato nel campo di concentramento nazista per la sua fedeltà al regno d’Italia.

Guareschi

Moravia scriveva che “in questi tempi ci accade di vergognarci degli altri, riferendosi a Guareschi e invitando Pasolini a non cadere nella “trappola”. Sei troppo candido per Guareschi, diceva Alberto a Pierpaolo, non contaminarti. E usava proprio l’espressione “candido” per alludere all’omonimo settimanale di battaglia di Guareschi. Divertente era il perbenismo di Moravia che accusava Guareschi di scrivere per una rivista “pornografica” che era poi Il Borghese, per via delle foto osé al centro della rivista. Eppure alla letteratura pornografica in salsa psicanalitica Moravia avrebbe presto dato i suoi contributi (per esempio il pessimo romanzo Io e lui, solo per fare un esempio, dove lui è il suo organo sessuale).

Certo, uno scrittore non si può ridurre al suo ruolo civile e alle sue amnesie, alle sue piccole viltà, ai suoi camaleontismi e alle sue opere peggiori. E gli scrittori in fondo vanno giudicati per le opere e non per la biografia o il mondo in cui si comportarono nella vita pubblica. Però è bene non dimenticare l’emisfero in ombra di Moravia, soprattutto quando tutti gli altri tendono a non ricordarsene. MV, La Verità

Il Pci si celebra Cento anni di menzogne. Alessandro Gnocchi il 19 Gennaio 2021 su Il Giornale. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un'invenzione della propaganda. L'Unione Sovietica era pacifista a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da... (ex?) comunisti. Massì. Non facciamo i bastian contrari a tutti i costi. È stupido ricordare fatti sgradevoli. San Gramsci disse che la piccola e media borghesia erano «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè». Quindi proseguiva, con divino afflato, che la classe sociale in questione bisognava «espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Col ferro e col fuoco, che carino. Sul riformismo di Togliatti, sarebbe proprio cercare il pelo nell'uovo il voler ricordare queste parole del Migliore: «Nella persona e nell'attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L'insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l'insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero». Uno zero, dai Palmiro, non fare l'invidioso, sappiamo tutti (?) che in realtà Turati fu il tuo maestro. Quanto alla guerra di Liberazione, chiedere informazioni nel triangolo rosso e lungo il confine orientale: regolamento di conti a mano armata (quella comunista), brigate tradite e sotterrate (dai gappisti), infoibamenti (dai gappisti e dai compagni titini). La «svolta» democratica era tatticismo, voluto e ordinato da Mosca, che stava rafforzando la presa sull'Europa dell'Est e non poteva permettersi l'apertura di un fronte in Italia. In quanto alle posizioni del Partito comunista davanti all'ingresso dei carri armati in Ungheria, sono limpide. Ecco qua cosa scriveva Giorgio Napolitano: «L'intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo». Secondo l'Unità, gli insorti non erano socialisti in cerca di riforme ma «teppisti, spregevoli provocatori e fascisti». Beh, direte voi, però a Praga nel 1968... No, signori, davanti alla repressione, il Partito comunista, con Berlinguer in ascesa a fianco di Luigi Longo, non riuscì ad andare oltre un «forte dissenso». Ah, il dissenso. Vogliamo parlare del tentativo, andato a vuoto, di impedire la pubblicazione del Dottor Zivago di Boris Pasternak? Rossana Rossanda si prese la briga di far capire all'editore Giangiacomo Feltrinelli che quel romanzo era brutta propaganda anti-comunista. Darlo alle stampe significava «passare il segno». Non solo Rossana Rossanda. Scese in campo tutta la prima linea della dirigenza: Pietro Secchia, Paolo Robotti, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Mario Alicata. E quando il premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solgenitsin fu esiliato? I comunisti di casa nostra giudicarono l'atto proporzionato, una dimostrazione di responsabilità da parte dei sovietici. Certo, l'esilio era una misura restrittiva dei diritti individuali, ma Solgenitsin aveva sfidato lo Stato e sostenuto aberranti tesi controrivoluzionarie. Sì, però dopo... a un certo punto le cose saranno cambiate. Nel 1977, non ancora. Quello fu l'anno della Biennale del dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana. Ordine diretto di Mosca, subito raccolto dai compagni italiani: boicottate la mostra veneziana. Inutilmente cercherete notizia di questi o analoghi fatti. Prevale, nella stampa e nell'editoria, l'adorazione per la storia formidabile del comunismo italiano, senza macchia e senza paura. D'altronde, il comunismo ha perso come sistema politico ma ha vinto come sistema culturale, come mentalità di massa. Facciamo un esempio. Chi ha pagato il conto più salato in questi mesi piagati dalla pandemia? La piccola o media borghesia, impossibilitata a lavorare e ingannata dai mitici ristori, ovvero soldi a pioggia che non arriveranno mai nella misura necessaria e promessa. D'altro canto come potrebbe lo Stato italiano, che non ha un centesimo, provvedere davvero a tutto? Bene, ricordate le parole di Gramsci da cui siamo partiti? La borghesia «da espellere... col ferro e col fuoco»? Alessandro Gnocchi 

VERITÀ STORICA E STRATEGIA DELLA MENZOGNA: IL TOTALITARISMO COMUNISTA. Renato Cristin il 24 aprile 2019 su opinione.it. «Ciò che più colpisce gli studiosi che hanno esaminato con attenzione i regimi comunisti non è tanto l’entità e la mostruosità dei crimini commessi, quanto la vastità delle complicità e delle omertà che essi sono sempre riusciti a trovare nei Paesi occidentali». Infatti, «il comunismo è riuscito, per durata e diffusione, a condizionare la vita politica e sociale di tanti popoli e a soggiogare, con i suoi metodi e con le sue menzogne, interi continenti», ma «la sua influenza è stata enorme anche perché era sorretta da una formidabile organizzazione internazionale», che consisteva in una incomparabile potenza ideologica e in un vastissimo appoggio negli ambienti culturali, accademici e giornalistici occidentali. Così scriveva Sandro Fontana dieci anni fa in un libro intitolato Le grandi menzogne della storia contemporanea (Edizioni Ares, Milano 2009). In quanto entità statale, a parte alcune sacche marginali di persistenza (la Cina, pur essendo guidata dal partito comunista, è un fenomeno più complesso e non immediatamente classificabile), il comunismo è crollato, ma la sua idea, deflagrata oggi in molte metamorfosi, è sopravvissuta, e il sostegno a questa ideologia sanguinaria (oltre cento milioni di morti, secondo gli studi più accurati, come quello a cura di R. Conquest, Il costo umano del comunismo, Edizioni del Borghese, Roma 1973), è ancora forte in tutti gli ambienti che sono in grado di plasmare l’opinione pubblica occidentale. Le forme di questo sostegno sono svariate e dalle molteplici sfumature, ma hanno in comune l’affermazione di una presunta superiorità intellettuale e l’intento di consolidamento del potere, istituzionale quando possibile e culturale in ogni caso. In questa logica, detto in breve, ideologia comunista e produzione culturale sono diventate sinonimi: dove c’è l’una, dovrà per forza esserci anche l’altra. Su questo assioma si sono rette per decenni molte delle coordinate politiche dell’Europa occidentale e su di esso hanno fatto la loro fortuna i partiti della sinistra europea. Questa però è una menzogna che ha potuto passare per verità solo perché l’ideologia che l’ha spacciata ha un intrinseco carattere violento e totalitario, come aveva perfettamente visto il bulgaro Tzvetan Todorov: «mentre i Paesi occidentali hanno imboccato la via della democrazia, scelta per decisione maggioritaria della popolazione, i loro intellettuali hanno invece optato per regimi violenti e tirannici. Se in quei Paesi il voto fosse stato riservato ai soli intellettuali, oggi vivremmo sotto regimi totalitari». A questa tendenza ideologica va aggiunto il fatto che la retorica sinistrista si è, quasi sempre, fondata sulla falsità, perché, uso ancora parole di Sandro Fontana, «con la menzogna è facile distruggere l’avversario politico e anche conquistare il potere». Tuttavia l’impostura, per quanto grande e ramificata, non consente di governare Stati di grande complessità e di grande autoconsapevolezza come quelli europei, e quindi il limite di quella ideologia consiste nella sua stessa strategia. Per poter avere successo, la strategia della menzogna deve spingere ogni discorso al parossismo, deve portare ogni situazione al suo estremo, deve torcere il linguaggio a scopi sofistici. Se non viene scoperta, questa tecnica offre esiti pragmatici durevoli, ma se viene smascherata, il velo cade, il fumo si dirada e si svela la verità.

L’eccezione e la legge

Un filo di questa trama pende oggi in una polemica che le sinistre genericamente definibili hanno lanciato contro l’amministrazione regionale del Friuli-Venezia Giulia, il cui Presidente Massimiliano Fedriga ha deciso di recepire una mozione approvata dal Consiglio finalizzata a «sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo o in qualunque modo a diffondere azioni volte a non accettare l’esistenza di vicende quali le Foibe o l’Esodo, ovvero a sminuirne la portata». Da qualunque parte del mondo una simile mozione verrebbe classificata nella normale attività legislativa: è normale che la politica contribuisca a custodire la memoria storica, difendendola da menzogne e mistificazioni. È normale che il crimine forse più spregevole che ha colpito gli italiani, in quanto comunità etnica-nazionale, in tutta la loro storia venga definito come tale e, in quanto tale, diventi una sorta di unicum che non può essere associato ad altri, pur gravi. Se dunque quella pulizia etnica contro gli italiani in quanto tali ha il carattere di eccezione storica, eccezionale dev’essere anche la considerazione che la riguarda, e quindi anche il potere legislativo deve trattarla in forma di eccezione. Con ciò, la ricerca storica non viene inficiata nella sua libertà, ma, analogamente a quanto accade per la legislazione tedesca in materia di Shoah, fatte ovviamente salve tutte le differenze, per portata e per conseguenze, fra queste due tragedie storiche, quando si scalfisce il perimetro che protegge l’eccezione si infrange un limite. Da qui la mozione e la decisione del Presidente Fedriga. È normale dunque che una eccezione sia trattata distintamente dagli altri casi. Ma in Italia, e soprattutto a Trieste, sembra che questa normalità non venga accettata da coloro che, dunque, non ritengono che quella spaventosa tragedia costituisca eccezione, e la ridimensionano, la minimizzano. Le forme di questa denegazione (termine psicoanalitico quanto mai appropriato) sono svariate: si rifiuta la realtà storica (oggi però i casi di questa forma estrema non sono più molto frequenti), le si nega dignità, le si nega visibilità, le si nega memoria piena, le si nega il senso dell’unicità, ma tutte queste versioni si discostano dalla verità, che dunque sarebbe oggetto di confutazione storica, non di esperienza esistenziale, come se la verità dovesse essere stabilita dalla storiografia e non dalla memoria delle persone, sempre vivente perché incarnata nell’esperienza. Agli storici spetterebbe sancire la verità dell’esperienza esistenziale? L’oggettività dello storico sarebbe superiore all’esperienza della vittima o alla memoria di coloro che ne rivivono la testimonianza? Alla denigrazione diretta si affianca lo scherno: oltre al disconoscimento di un crimine eccezionale nella sua portata etnico-politica, si mostra qui un positivismo gretto e totalitario, che pretende di imporre agli individui, ai popoli e allo spirito le tabelle del computo storiografico. La tesi della superiorità intellettuale della sinistra applicata al terreno dell’esperienza vissuta: l’ideologia di sinistra ci dice cosa è politicamente giusto; la storiografia di sinistra determina come interpretare gli eventi storici. Ma poiché questi ultimi sono un intreccio inestricabile di fatti reali e di vissuti esistenziali, la loro verità – nel senso filosofico e quindi nel senso originario – non è riducibile agli schemi storiografici. E, in questo senso, il caso di cui sto parlando è paradigmatico.

Il totalitarismo dell’ideologia comunista

Siamo di fronte a un frutto velenoso del pensiero totalitario, perché il totalitarismo si produce mediante la negazione della verità e l’imposizione di schemi strumentali. E a questo scopo si dice pure che quella mozione e la sua conseguente adozione sarebbero divisive. È uno schema talmente vecchio da risultare noioso, se non fosse però sempre dannoso: solo ciò che propone o impone la sinistra sarebbe unitivo, tutto il resto è divisivo. Se si accettano i dettami della sinistra si ha la pace, altrimenti scatenano la guerra. Questa miscela tra sofisma e intimidazione è micidiale, ma da qualche tempo si intravedono alcune crepe nella corazza politicamente corretta, si incominciano a vedere le menzogne che la strutturano; gli italiani si stanno rendendo conto, e lo hanno spesso dimostrato nell’esercizio democratico del voto, che quella retorica è finalizzata all’inganno. Infatti, sotto la maschera di un appello alla libertà di ricerca si vogliono imporre schemi ideologici e, molto più in basso, sistemi di finanziamento che retroalimentano quegli schemi, in un circolo che serve a consolidare e magari rafforzare posizioni acquisite nel corso di decenni di dominio culturale. In gioco dunque è il potere che per decenni la sinistra, la sua retorica e la sua storiografia sono riuscite a imporre all’opinione pubblica. Il confine orientale continua ad essere aggredito da un’ideologia che, nonostante il passare del tempo, nonostante l’affermarsi delle verità storiche, nonostante i suoi fallimenti planetari, sembra la stessa di settant’anni fa, con la stessa struttura logica e con le stesse formule. È la prova che, detto sommariamente, il comunismo, come teoria e come prassi, è vivo, e non è limitato solo all’estremo lembo del Nordest, ma è diffuso in tutto il Paese e, in forme diverse, ovunque nel mondo. Dopo un secolo di aggressioni verbali (per non parlare delle violenze fisiche e degli stermini di massa), i militanti di questa ideologia, oggi mascherati da buonisti e proliferati nella galassia progressista, hanno la spudoratezza di ergersi a paladini del discorso pacato e da inflessibili fustigatori di quelli che, furbescamente, essi chiamano «i discorsi d’odio» e che, invece, sono argomenti teorico-politici avversi al dilagante politicamente corretto o, talvolta, semplici espressioni di buon senso. Con la sicumera che solo i professionisti della menzogna e della dissimulazione riescono ad avere, gli apologeti del buonismo si sono ritagliati uno spazio ragguardevole nel discorso pubblico, nei media e nei social, e lo consolidano con la sistematica aggressione nei confronti di qualsiasi espressione che possa anche solo minimamente mettere in crisi la loro ideologia. È la solita e arcinota mossa dell’attacco preventivo: da un punto di vista politico, tutto ciò che minaccia il piedestallo etico-linguistico su cui si ergono questi sinistri censori va attaccato con accuse pesanti anche se infondate: nazionalismo, populismo, xenofobia, fascismo e così via; da un punto di vista psicologico, bisogna diffamare qualsiasi persona e qualunque idea che possa smascherare la menzogna su cui si regge il politicamente corretto. Che questa truce ideologia, in più di un secolo di vita, non abbia mai cambiato questo schema è un fatto inquietante e al tempo stesso risibile. L’assurda tesi della superiorità etica e politica della sinistra, pur essendo palesemente errata è talmente diffusa da esser diventata luogo comune. Nonostante il crollo dei consensi ai partiti della sinistra, dovuta anche alla diffusione delle idee liberali, del liberal-conservatorismo e del cattolicesimo non di sinistra, nonostante il lavoro di smascheramento ideologico che dal 1994 il centrodestra italiano ha realizzato (e a cui bisognerà attribuire il giusto riconoscimento storico e teorico), le carte continuano a darle gli esponenti di quella ideologia: politici, intellettuali, giornalisti, docenti che assegnano patenti di democraticità, di antifascismo e di qualsivoglia definizione utile ai propri scopi. E gran parte della popolazione, spesso inconsciamente o per timore reverenziale, con comprensibile ma immotivata sudditanza, accetta quelle classificazioni, quelle categorie che hanno la pretesa di regolare i processi culturali, i rapporti sociali e perfino le dinamiche psicologiche degli individui: una pretesa chiaramente totalitaria. Si tratta di una sceneggiata ideologica i cui numerosi attori però hanno fatto e continuano a fare tremendamente sul serio: un tempo agivano per conto dell’internazionale comunista, sul sottile e rovente filo che congiunge l’impegno politico al terrorismo; oggi agiscono in nome dell’internazionale buonista (camuffamento di quella precedente), non più contigui alle frange terroristiche, ma con il medesimo atteggiamento di terrorismo psicologico e linguistico di un tempo. Se, come sosteneva Guglielmo Ferrero, il terrore è lo sbocco inevitabile della rivoluzione, e se il terrore si pratica non solo con la violenza fisica ma pure con quella linguistica, il terrore della nostra epoca è quel blocco culturale che chiamiamo «il politicamente corretto», forma modificata e aggiornata del rivoluzionarismo comunista.

Il diritto democratico di governare

Se la sofistica classica, detestabile ma eccellente, porta al limite ogni ragionamento, la deprimente sofistica attuale, che è un perfetto impasto di leninismo e di postmodernismo (e che nel nostro caso specifico è la sofistica con cui agiscono i negazionisti, i riduzionisti e i loro conniventi, in tutte le numerose sfumature), adotta lo stesso canone eristico, ma poiché è oggettivamente molto al di sotto del livello di quella antica, non riesce a reggere il discorso al limite, tradendo una volontà che sotto la nuova retorica sofistico-decostruzionistica continua a riprodurre la vecchia pretesa di superiorità, la tendenza alla sopraffazione, la concezione totalitaria. Difficile stare sul limite senza varcarlo, se si è tronfi di suprematismo ideologico, culturale, politico e perfino morale. Il vizio antico della sinistra trova in se stesso la causa del suo fallimento. Questo recente episodio – che dalle cronache locali si è esteso alla ribalta nazionale, sia perché, riguardando la pulizia etnica anti-italiana, tocca un nodo molto sentito nella coscienza nazionale, sia perché fra i contestatori di quella mozione del centrodestra ci sono istituti di importanza nazionale – mostra infatti che, in un crescendo di risentimento, la sinistra, che pur raccoglie studiosi seri insieme a ciarlatani, che raggruppa moderati ed estremisti, persone oneste e faccendieri in malafede, negazionisti e riduzionisti, ha oltrepassato quel limite. Forse non lo ha nemmeno visto, ritenendosi infallibile e al di sopra di ogni vincolo morale, ma di fatto ha superato una linea di demarcazione: la tragedia delle foibe è intangibile. Questo è il limite invalicabile, al di là del quale si aprono scenari raccapriccianti, che ci fanno ripiombare a epoche in cui l’ideologia comunista imperava. E forse proprio questa è la nostalgia segreta che spinge a spostare sempre più in avanti il limite del discorso, in una pulsione di autoaffermazione che vuole distruggere, tacitare o negare l’avversario politico e culturale. Sul crimine delle foibe non si transige, come non si transige sulla criminale aberrazione della Shoah. Tutto qui. Al di là di questa linea c’è il divieto, perché si entra nella zona oscura in cui tutto è possibile, anche Auschwitz, in un territorio mefitico in cui si nega l’essenza dell’essere umano. Con questo divieto la libertà della ricerca non viene impedita né minimamente compromessa, e consiste nella responsabilità scientifica e morale di ciascuno, che può liberamente decidere se valicare o meno il limite. Ma la politica, quando ha la responsabilità di governare, ha anche il diritto di decidere come perseguire nel modo migliore il bene comune, perché il potere democratico si fonda su tale diritto. E poiché la nozione di bene comune non è soltanto oggettiva ma si determina anche in base alla concezione della società e del mondo propria di chi è stato eletto per governare, questi decide come indirizzare gli investimenti pubblici per il conseguimento di ciò che è ritenuto bene e giusto. Questo è il senso di legittimità del potere, di quello costituente e di quello ordinario, perché in ciò consiste il principio della democrazia nella sua applicazione concreta. Si può contestare una decisione, e anche questo è un aspetto della dialettica democratica, ma non si può discutere il diritto di decidere, perché se il potere è legittimato dalla maggioranza degli elettori, negare questo diritto è un atto eversivo.

I crimini del comunismo

Il linguaggio è un’arma a doppio taglio, come ben sapeva Freud. Infatti può anche tradire intenzioni nascoste, come nel caso di un recente documento di un istituto di ricerca storica, nel quale la parola «crimini», che è la più adatta per designare gli eventi delle foibe e dintorni, viene usata solo per i «crimini di guerra italiani». I crimini delle foibe vengono chiamati «stragi», con un termine neutro, semanticamente ambiguo, ideologicamente idoneo. E ancora, in una lettera di protesta contro la mozione del Consiglio Regionale FVG, sarebbero «velenose nostalgie» gli sforzi che l’amministrazione regionale e le associazioni a difesa della memoria della tragedia istriano-dalmata stanno compiendo affinché l’intangibilità di quella memoria venga preservata nella sua integrità. Ma in realtà quell’espressione è una parola, freudianamente, caduta, che tradisce la volontà di riprodurre gli inganni ideologici su cui si sono costruite le strutture del potere culturale e che, quindi, evoca la nostalgia di un predominio parzialmente compromesso e, ci si augura, in esaurimento. Questa sì che è nostalgia, e pure venefica. E su questa linea semantica si inserisce pure uno schiaffo denigratorio lanciato contro la Lega Nazionale, associazione insignita benemerita per l’italianità, che nella medesima lettera di protesta viene definita «un ente privo delle necessarie credenziali di competenza e serietà sul terreno della ricerca storica». Ancora una volta la prassi della denigrazione, ma la Lega Nazionale non necessita di difensori: la sua storia, la sua caratura scientifica e la sua integrità morale bastano, da sole, a rintuzzare qualsiasi aggressione, qualsiasi diffamazione. Il modulo è sempre il medesimo: i migliori stanno a sinistra, e chiunque altro, singolo o associazione, si collochi dall’altra parte è per definizione peggiore. E così si svela il nucleo teorico e ideologico da cui discendono, come conseguenze applicative, tutte le pratiche qui brevemente descritte e molte altre non esaminate. I crimini del comunismo sarebbero, per varie ragioni, meno gravi di quelli del nazionalsocialismo: questa è la logica, chiamiamola così, che ancora oggi sembra guidare, talvolta anche come un riflesso condizionato (imposto da decenni di ideologico lavaggio del cervello), le mosse degli intellettuali di sinistra e, più in generale, l’azione del politicamente corretto applicato alla storia. Contro l’essenza criminogena e gli esiti criminali del nazionalsocialismo abbiamo, tutti, non solo la sinistra, detto parole definitive, che si riassumono in un’espressione un poco usurata ma del tutto adeguata: male assoluto. Lo stesso però va detto, e su ciò una parte non marginale della sinistra continua a non essere d’accordo, nei confronti dell’essenza e degli esiti, parimenti criminali del comunismo, pur nella diversità di scenario, di implicazioni e di conseguenze. Di qui la necessità, ormai improcrastinabile, di affiancare oggi al sacrosanto Processo di Norimberga (e a tutti i sotto-processi che hanno permesso di catturare e condannare altri criminali nazionalsocialisti; uno per tutti: il processo che a Gerusalemme ha visto alla sbarra Eichmann) una Norimberga del comunismo, ovviamente nelle forme che la nostra epoca può concedere. O si accetta di stare su questo piano culturale, scientifico ed etico, oppure si sta dalla parte del comunismo: tertium non datur. 

Comunismo: quando il falso diventa vero. Marco Gervasoni il 23 Giugno 2020 su culturaidentita.it. Sorvegliare e mentire: se c’è un distico che caratterizza il comunismo, come ideologia e come regime, è proprio questo. Sorvegliare e pure reprimere, ovvio; anzi in questo il comunismo non accetta confronti, salvo forse con il nazional-socialismo tedesco. Il mentire però è una caratteristica che definisce ancor più l’esperienza storica comunista, ne è anzi il tratto saliente: il comunista è comunista soprattutto perché mente. Bisogna intendersi sul concetto di menzogna e in ciò ci aiuta l’etimologia. Proveniente dal latino mentiri, che sta anche per “indicare”, condivide la radice sanscrita men, cioè “ricordare”. Mentire quindi non significa tanto celare la verità, quanto indicarne un’altra, alternativa a quella vera. Una verità che deve essere intesa in tre forme: empirica (vero è ciò che vedo), logica (vero è ciò che è conforme al principio di non contraddizione) e ontologica (vero è ciò che è coerente con il senso metafisico). Per questo distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, fin dall’antica Grecia diventa uno degli obiettivi fondamentali della filosofia. Perché il falso si maschera da vero o si confonde con esso e anzi, come scrive Sant’Agostino nel De Mendacio, il falso è tanto più dannoso quanto più si presenta come vero, come gli dei pagani.

Il comunismo rappresenta l’esempio più compiuto nella storia di falso che si presenta vero. Dal punto di vista dottrinale, è infatti figlio dell’Illuminismo e della idea settecentesca di “critica”. Secondo la celebre definizione di Paul Ricoeur, Marx assieme a Nietzsche e Freud, è uno dei tre “maestri del sospetto”. E infatti per Marx quello che si presenta come “vero” è, in realtà, frutto della costruzione del mondo ideologico della classe dominante. Per Marx la realtà è già una narrazione e in qualche modo egli è il primo decostruzionista, non per caso Michel Foucault e Jacques Derrida si definivano seguaci di Marx. Compito dei comunisti è quindi criticare, cioè decostruire, la narrazione dominante. Alla quale però, essi oppongono un’altra narrazione, che si presenta come vera: non vera in assoluto, perché la verità per Marx non esiste, ma vera agli occhi della classe operaia. Finché i marxisti stanno all’opposizione, la critica prevale sulla costruzione della verità alternativa, anche se essa è già presente nella propaganda moderna, di cui i partiti socialisti della Seconda Internazionale, a fine Ottocento, sono gli inventori. I problemi si pongono quando il comunismo, da opposizione, diventa governo, cioè regime. Ciò avviene per la prima volta in Russia, dove la cultura politica marxista si incontra con un’altra, pure di matrice europea occidentale, ma che aveva molto attecchito nel populismo russo. Vale a dire il nichilismo di Sergej Gennadievič Nečaev, seguace del tedesco Max Stirner, per il quale la realtà è solo proiezione della volontà del soggetto individuale, il mondo esterno essendo una sua costruzione. Nonostante la cultura positivista, che pure Lenin e i bolscevichi condividono, nel regime comunista si affermano l’idea e la prassi nichilistiche che è il partito a costruire la realtà. Da quel momento verità sarà solo ciò che viene affermato, deciso e messo in pratica dal Partito comunista. Ma poiché il Partito comunista coincide con lo Stato, i comunisti si impegnano a costruire una realtà e una verità alternative. Cosicché, da quel momento, nella propaganda comunista la menzogna diventa ciò che è vero, mentre ciò che è falso dal punto di vista empirico, logico ed ontologico, diventa il vero. Si potrebbero riportare centinaia di esempi della realtà alternativa, fondata sulla menzogna, che i regimi comunisti, da quello sovietico a quelli sudamericani e asiatici a quello cinese, hanno costruito nel corso dei decenni, tanto che i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quei paesi, si trovavano di fronte una sorta di Disneyland comunista: i più smaliziati se ne accorgevano e magari cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni di strada ci cascava o faceva finta di cascarci. Vecchia storia, si dirà. Mica tanto. In primo luogo, mentre nazismo e fascismo sono spariti da decenni, i regimi comunisti sono vivi e vegeti: da Cuba al Vietnam fino, ovviamente, alla Cina. Che sul tema della menzogna è perfettamente in linea con la tradizione di Marx, Lenin, Stalin, Mao (del resto tutti, tranne il georgiano, sempre rivendicati laggiù). In secondo luogo, gli eredi dei Partiti comunisti sono ben attivi: dal Pd in Italia alle varie opposizioni in paesi come Ungheria e Polonia. Molti dei loro dirigenti sono cresciuti nelle scuole di partito che, anche se alle Frattocchie, condividevano l’idea di “verità” di Mosca, cioè la logica della menzogna. E che ora, nel governo Conte, ammiratori di XI ed eredi di Togliatti e di Berlinguer siano fianco a fianco spiega molte cose: tutte preoccupanti.

La storia a metà. Il 25 aprile e la menzogna rossa che impedisce la riconciliazione nazionale. Alfonso Baviera il 25 aprile 2021 su loccidentale.it. E’ un nuovo 25 aprile, data che per la Repubblica Italiana segna un momento di svolta storico. Terminava la seconda guerra mondiale e con essa doveva scomparire ogni traccia del regime fascista che aveva governato il Paese per oltre 20 anni. Per ancora pochi giorni truppe dello sconfitto esercito fascista repubblichino avrebbero ancora imbracciato le armi, più in azioni di autodifesa che di vera e propria guerra. La guerra in Italia era stata brutale. Non solo tra gli eserciti regolari che combattevano al fronte, ma anche per “gli eserciti di partito”, da un lato i fascisti e dall’altro i partigiani (comunisti e non), che forse si combatterono con ancor più brutalità con episodi di impiccagioni e fucilazioni quasi quotidiane. Non mancarono episodi di violenza inaudita che coinvolsero anche le inermi popolazioni civili. Tanto brutale fu questa guerra civile che non fu possibile interromperla all’improvviso e, purtroppo, fece ancora molte vittime nei mesi successivi al 25 aprile 1945 tra fascisti, ex fascisti, conservatori, cattolici ed anche gente innocente. Questa scia di sangue fu dovuta ad un semplice fatto che storicamente in Italia si è sempre cercato di far dimenticare. Oltre alla guerra di liberazione nazionale era in corso una vera e propria rivoluzione “rossa” con il tentativo delle forze comuniste sia di egemonizzare il movimento partigiano (anche con atti violenti come la strage di Porzus che vide la morte di 17 partigiani cattolici per mano di partigiani comunisti) sia di favorire l’ingresso in Italia di eserciti stranieri ma di fede comunista (l’esercito nazionale yugoslavo del regime comunista guidato da Tito che condusse numerose azioni violente come le stragi delle foibe). Purtroppo per chi era favorevole a tale progetto, ma fortunatamente per molti altri, altri eserciti si trovarono ad invadere il territorio nazionale. Gli inglesi e gli americani oramai dilagavano per tutta pianura padana e, in un clima di diffidenza reciproca in embrione tra gli alleati vincitori, riuscirono ad arginare sia le forze partigiane, portando avanti un processo di rapida smilitarizzazione, che quelle dell’esercito yugoslavo. Risulta, quindi, evidente che tale circostanza ha sempre avuto un posto secondario nella Storia italiana (quella con la lettera S maiuscola), poiché ammettere tale fatto storico avrebbe significato allargare il concetto di “liberazione” collegato alla ricorrenza del 25 aprile. Perché se fu liberazione, ed è certo che lo fu, lo fu riferita a due pericoli antidemocratici che avevano dominato in passato il Paese o cercavano di farlo in futuro: quello fascista e quello comunista. Purtroppo per l’onestà storica i partiti di origine comunista si trovarono dalla parte dei vincitori e, quindi, ebbero facile gioco ad accreditarsi come “liberatori” e difensori della democrazia. Per comprendere come questo dato sia falsato basta verificare il livello di democrazia che è stato presente in tutti i regimi comunisti europei dopo la seconda guerra mondiale. Elezioni truccate, opposizioni arrestate, militarizzazione dell’apparato statale, costruzioni di barriere e muri quasi invalicabili, crollo del benessere popolare. Tutto questo “percorso democratico comunista” all’Italia fu evitato grazie alla presenza di migliaia di militari americani e inglesi e non perché le forze partigiane comuniste mirassero ad instaurare realmente un regime democratico nel nostro Paese. Chi lo affermava, e lo continua ad affermare, mentiva allora e mente oggi. E questa menzogna costringe l’attuale sinistra a mantenere costantemente un livello di scontro ideologico contro tutti coloro che o dichiaravano o dichiarano legami ideologici con il passato regime fascista. Questo scontro è servito a mantenere le forze ideologiche di origine comunista dalla parte dei vincitori e, quindi, gli ha permesso di creare una barriera nebulosa sui fatti storici di quegli anni. Sappiamo bene quante critiche furono indirizzate allo storico Renzo De Felice, che per molti anni cercò di riportare la “verità storica istituzionale” sui binari “della verità Storica”. Purtroppo, accettare questa verità storica, porterebbe molti di coloro che oggi sventolano la bandiera dell’antifascismo militante, in versione di forza democratica, a dover considerare proprio avversario anche chi rappresenta una ideologia come quella comunista, con la possibilità di potersi trovare nello stesso momento nella duplice posizione di democratico e antidemocratico. Forse accettare la verità storica sarebbe il primo passo fondamentale per iniziare un vero percorso di riconciliazione nazionale. Fascisti e comunisti, ex fascisti ed ex comunisti, post fascisti e post comunisti, tutti insieme messi dalla stessa parte della barricata, non avrebbero più motivo di continuare uno scontro politico e dialettico che oramai dura da oltre 75 anni e si potrebbe realmente considerare la data del 25 aprile come la “festa della riconciliazione nazionale”.

Berlusconi: Il comunismo é un grande viaggio dentro la menzogna. Il Presidente alla presentazione del libro ''Il sangue di Abele'' su forzaitalia.it. "Il comunismo fu un grande viaggio dentro la menzogna che coinvolse anche il mondo libero. E ancora oggi sul comunismo l’occidente fa fatica ad accettare e riconoscere la verità storica. E’ come se si dovesse fare conti con la propria coscienza e con l’indifferenza e la superficialità con cui molti intellettuali spalleggiarono il comunismo e qualcuno continua così ancora. Con questo libro ho avuto la conferma di ciò che sapevo e pensavo: l’ideologia comunista é la più criminale e disumana della storia dell’uomo. 16 anni fa ho voluto che Mondadori pubblicasse una testimonianza, forse la più vasta, di cosa è’ stato il comunismo e credo che tutti si siano resi conto dell’efferatezze di quell’ideologia. L’Ideologia comunista mirava a prendere il potere, era il potere per il potere. Ho letto questo libro e non sono riuscito a dormire. Sono poi d’accordo sul fatto che sia stato una malattia, una vera follia tanto e’ stata esasperata la sua realizzazione. E’ una speranza di tutti noi, seguiamo le vicende e vediamo se davvero la sinistra italiana riuscirà a fare quello che fece l’Inghilterra 100 anni fa. Sarebbe una cosa meravigliosa se anche il Pci che ha fatto molti lifting cambiando molte volte il nome si trasformerà in un partito socialdemocratico"

PILLOLE LETTERARIE. I maiali comunisti e le loro menzogne, in George Orwell. Simone Chiani il 20 luglio 2021 su lacittanews.it. In “La Fattoria degli Animali” George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair) compie un’impressionante denuncia allegorica al comunismo, colpevole di distruggere nella pratica tutto ciò che promette nella teoria. Il tradimento della rivoluzione bolscevica osservato da vasta distanza ha permesso allo scrittore britannico di comporre questa pungente novella in maniera impeccabile. Gli animali sono stufi di sottostare alle ingiuste prepotenze degli uomini, così decidono di ribellarsi tutti insieme: nella Fattoria Padronale gli esseri su due zampe sono cacciati durante una rivoluzione e rimangono, in “autogestione”, le bestie; la fattoria, pertanto, diviene “degli animali”. Tuttavia dopo un’iniziale gioia incontenibile, data dal fatto che per la prima volta sono coloro sempre consideratisi “schiavi” al potere, si iniziano a delineare nuove dinamiche, e nuove gerarchie. I maiali, capitani dell’insurrezione, sembrano via via dimenticarsi sempre più delle promesse fatte durante la rivolta, e arrivano ad accomodarsi così tanto al potere da divenire, alla fine del racconto, veri e propri umani. E’ l’utopia del comunismo raccontata con una pungente allegoria: i maiali, cioè i principali comunisti autori della rivoluzione, finiscono per diventare come i padroni, cioè i ricchi/borghesi/industriali/aristocratici, e per tradire dunque il resto degli animali, cioè il popolo che aveva creduto nella rivoluzione ed è finito per essere più schiavo di quanto non fosse in partenza. Con la sua lucidità disarmante, Orwell riesce a cogliere il declinare della situazione giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, finendo per regalare al lettore una favola socio-politica facilmente rapportabile alla realtà per tutta la durata del racconto. Il popolo (cioè il resto degli animali) finisce, come avviene in 1984, per perdere addirittura la memoria, pilotato dall’abile Gazzettino (chiamato così nella traduzione di Luca Manini per Liberamente) e da alcuni comandamenti che paiono cambiare nel corso del tempo. E allora non è difficile rivedere alcuni grandi nomi della storia russa nei principali personaggi della novella: Lenin è il “Vecchio Maggiore”, che dà il via alla rivolta con i più buoni propositi ma vedrà poi, dopo la sua morte, svanire ogni progetto di parità e uguaglianza; Stalin è “Napoleone”, il colpevole di aver tramutato, con metodi scorretti, la rivolta dei pari in un nuovo totalitarismo; infine, “Palla di Neve” è Trockij, comunista incorruttibile costretto a scappare dalla fattoria perché fedele sostenitore dei principi contro le nuove pieghe impresse dal nuovo Capo. In molte porzioni di testo, in realtà, pare di rivedere anche tutti gli altri totalitarismi: il culto del capo, la modifica perpetua della memoria popolare e una sorta di schiavitù lavorativa eretta a incontestabile virtù, oltre che l’allontanamento dalle proposte iniziali, possono facilmente rimandare anche a situazioni viste in dittature realmente avvenute sotto la fazione politica opposta, ossia l’Estrema Destra. Rimane comunque il fatto che, nei caldissimi anni ’40, con questa novella Orwell preferì scagliarsi contro il comunismo, in maniera incontestabilmente evidente. Forse scioccato dal totale ribaltamento degli ideali utopici pre-rivoluzione, e forse preoccupato che qualcosa di simile potesse avvenire anche negli altri Paesi europei, sentì la necessità di farsi portavoce di tutte le menzogne e dell’impossibilità effettiva di concretizzarsi che sono proprie dell’Estrema Sinistra. Sono esemplari, sennonché lapidarie, le battute finali dell’opera, nelle quali i maiali comunisti che avevano promesso la rivoluzione, dopo un climax prolungato per tutto il racconto, finiscono con l’assimilarsi confusamente agli umani, ossia proprio coloro contro i quali insorsero molti anni prima, anche a livello fisiologico: “Dodici voci gridavano piene di rabbia e tutti loro erano uguali. Non importava ormai che cosa fosse accaduto alle facce dei maiali. Le creature, da fuori, spostavano lo sguardo da maiale a uomo e da uomo a maiale, e ancora da maiale a uomo; ma già era impossibile dire chi fosse chi.”

Alcuni spezzoni allegorici evidentemente riferiti al regime comunista sovietico: “Dopo di che, non parve strano che, il giorno seguente, i maiali che sovrintendevano il lavoro della fattoria reggessero tutti una frusta nella zampa. Non parve strano venire a sapere che i maiali si erano comprati una radio senza fili, che stavano facendo i preparativi per installare un telefono e che si erano abbonati a John Bull, Tit-Bits e al Daily Mirror. Non parve strano quando si vide Napoleone che passeggiava nel giardino della casa padronale con una pipa in bocca… no, neppure quando i maiali tolsero dall’armadio del signor Jones i vestiti e li indossarono. Napoleone si fece vedere con indosso una giacca nera, calzoni da caccia e gambali di pelle, mentre la sua scrofa favorita apparve nell’abito di seta marezzata che la signora Jones indossava solitamente la domenica.” – A sottolineare, nel finale, l’assoggettamento e asservimento degli ormai ex-rivoluzionari al mondo capitalista/borghese del resto d’Europa. “Non si parlava più, però, dei lussi che Palla di Neve aveva insegnato agli animali a sognare: le stalle con la luce elettrica e l’acqua calda e fredda. e la settimana lavorativa di tre giorni. Napoleone aveva dichiarato che quell’idea era contraria allo spirito dell’Animalismo. La felicità più autentica, diceva, consisteva nel lavorare duramente e nel vivere frugalmente.” – L’allontanamento progressivo dagli ideali bolscevichi. “Gli anni passarono. Le stagioni vennero e se ne andarono, le brevi vite degli animali fuggirono via. Venne il giorno in cui non ci fu più nessuno che ricordasse i giorni prima della Ribellione […]” – Il tempo (e l’informazione corrotta) che cancella la memoria ed elimina le premesse iniziali della rivoluzione “Verrà il giorno, o presto o tardi, che abbattuto sarà l’Uomo Tiranno e che d’Inghilterra i fertili campi solo dalle bestie saranno calpestati” – Un canto popolare degli animali che intende mostrare la bellezza priva di concretezza delle utopiche promesse comuniste. “Ben presto fu svelato il mistero di dove andasse a finire il latte. Ogni giorno, veniva mescolato al pastone per i maiali. Le prime mele stavano in quel periodo giungendo a maturazione e l’erba del frutteto era cosparsa di mele cadute. Gli animali supponevano che, naturalmente, esse sarebbero state distribuite in modo equo. Un giorno, però, giunse l’ordine che tutte le mele […] fossero portate alla selleria per l’uso esclusivo dei maiali. […] Gazzettino fu mandato in giro per dare la necessaria spiegazione: ‘Compagni! Non immaginerete, spero, che i maiali lo stiano facendo per puro egoismo e per avere un privilegio? A molti di noi in verità non piacciono né il latte né le mele. Non piacciono neanche a me. […] Il latte e le mele contengono sostanze assolutamente necessarie al benessere di un maiale. Noi maiali lavoriamo di cervello. Da noi dipende completamente la gestione e l’amministrazione di questa fattoria. Giorno e notte noi vegliamo sul vostro benessere. E’ per il vostro bene che noi beviamo quel latte e mangiamo quelle mele. […] Così, senza ulteriori discussioni, tutti furono d’accordo che il latte e le mele cadute dai rami dovessero essere riservati ai soli maiali.” – Il paradosso implicito di un regime comunista.

Simone Chiani. Nato nel 1997. Viterbo. Diplomato al Liceo Psicopedagogico e laureato in Lettere Moderne. Autore dei libri Evasione (Settecittà, 2018) e Impronte (Ensemble, 2020).

Ballottaggi, Giorgia Meloni: "Centrodestra sconfitto. Ma la sinistra lotta nel fango per criminalizzarci". Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. "Buona sera, diciamo per mordo di dire". Esordisce così Giorgia Meloni nella conferenza stampa post-ballottaggi, che hanno visto il centrodestra sconfitto. "Si deve riconoscere che il centrodestra esce sconfitto e ne siamo tutti consapevoli. Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia confermano Trieste, ma non riescono a strappare le altre cinque grandi città". Per la leader di FdI non si tratta affatto di una débâcle come molti vogliono far credere. Piuttosto, chi esce ampiamente battuto è il Movimento 5 Stelle. Una buona notizia per la Meloni, perché "si sta lentamente tornando a un sistema bipolare". In ogni caso, confermato Fratelli d'Italia il primo partito nei sondaggi a livello nazionale, la Meloni non intende indietreggiare: "Anche noi ci prenderemo le nostre responsabilità".  Non sono comunque mancate le difficoltà. In particolare la leader di FdI ne rivela due: "Prima tra tutte l'astensionismo. Nessuno può veramente gioire con i dati con cui viene eletto un sindaco di Roma. Questa è una crisi a cui tutti devono rispondere e per me è legata a una politica che con i suoi giochi di palazzo ha mortificato il voto". Ma non è l'unico problema. "Poi - prosegue - la campagna elettorale è stata trasformata dalla sinistra in una lotta nel fango, criminalizzando l'avversario e rendendolo impresentabile. Questo ha portato i cittadini interessati al lavoro e all'economia a non presentarsi alle urne. Questo ha comportato la mobilitazione di un elettorato molto ideologico della sinistra lasciando invece indietro tutti gli altri". Un capolavoro per cui la Meloni vorrebbe "farei i complimenti alla sinistra", se non fosse che così "si distrugge la democrazia". A quel punto a FdI non resta che guardare al futuro ragionando sugli errori commessi: "Condivido con Salvini l'idea che la prossima volta dobbiamo scegliere i candidati più in fretta e questi dovranno essere politici anche a dispetto di queste campagne elettorali aggressive dei nostri avversari". Da qui l'auspicio: "Fra un anno e mezzo votiamo e voglio chiedere alla sinistra se farà ancora così criminalizzando l'avversario e non scendendo ad armi pari, a loro d'altronde basta stare al potere".

Mattia Feltri per "la Stampa" il 19 ottobre 2021. Giorgia Meloni, persuasa di aver perso per la lotta nel fango in cui la sinistra ha trasformato la battaglia elettorale, scorda che il fango è l'elemento naturale in cui la politica sguazza ormai da un trentennio e la gara è a chi ne rimane addosso di meno. E scorda che per quanto gliene abbiano tirato addosso, Silvio Berlusconi nelle città perdeva e spesso vinceva, e quando Massimo D'Alema nel 2008 tirò fuori l'onda nera, a Roma vinse lo stesso Gianni Alemanno. Il fango e le onde nere e le onde rosse non sono mai servite per disincentivare l'elettorato avversario, piuttosto per incentivare il proprio, e sulle pulsioni più elementari. Ma stavolta è capitato qualcosa di diverso: i candidati di destra hanno preso il prendibile al primo turno e non hanno preso un voto in più al secondo, tutti gli altri voti sono diventati voti contro di loro. Una specie di Fronte repubblicano, quello francese contro Jean-Marie e Marine Le Pen, adattato ai ballottaggi italiani. A furia di chiedere l'affondamento delle barche dei migranti, di invocare celle piene e chiavi buttate, di accompagnarsi coi peggiori ceffi del mercato internazionale, da Putin a Orban, di tratteggiare l'Europa come una congrega di borseggiatori e massoni, di tenere su il capino ai No Vax e ai no Green Pass, senza rendersi conto che il nemico comune, alla stragrande maggioranza del Paese, è il Covid e solo il Covid, insomma a furia di ritirarsi nella ridotta del peggio della destra, hanno respinto il meglio della destra. Oggi c'è un pezzo di destra a cui questa destra fa ribrezzo, e preferisce votare a sinistra o rimanersene a casa.

Quarta Repubblica, "Giorgia Meloni a piazzale Loreto": ecco chi c'era in piazza per la Cgil. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2021. “Giorgia Meloni la immagino più a piazzale Loreto”, ovvero a testa in giù. Lo ha dichiarato ai microfoni di Quarta Repubblica uno dei manifestanti che sabato è sceso in piazza, rispondendo alla chiamata della Cgil e della sinistra per sfilare contro il fascismo. Quella convocata dal sindacato in risposta alla violenza squadrista e all’assedio di Forza Nuova non è stata propriamente una piazza “trasversale”. Addirittura c’era una bandiera dell’Unione Sovietica, oltre all’immancabile Bella Ciao e ad inni del tipo “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. Il Giornale lo definisce “armamentario ideologico” schierato al suo completo, senza dimenticare nostalgici dell’Urss, marxisti, leninisti e castristi. E allora alla luce di tutto ciò forse il centrodestra ha fatto una scelta saggia a non presentarsi in piazza, pur condannando fermamente le violenze squadriste e fasciste perpetrate ai danni della Cgil. Probabilmente se Giorgia Meloni e Matteo Salvini si fossero presentati alla manifestazione - aperta a tutti solo apparentemente, ma poi si è rivelata a dir poco “schierata” - sarebbero stati sommersi dai fischi una volta saliti sul palco, seppur per condannare il fascismo. Ufficialmente i due leader hanno disertato perché non ritenevano fosse il caso di tenere una manifestazione proprio alla vigilia dei ballottaggi: difficile dargli torto, anche se ormai l’esito della tornata elettorale era già scritto. 

Milano, anarchici assaltano la sede della Cgil ma stavolta la sinistra tace...Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. Mentre a Roma, sabato scorso, il segretario della Cgil Maurizio Landini riempiva piazza San Giovanni per denunciare la «minaccia fascista» dopo l’assalto alla sede del sindacato ad opera di militanti di Forza Nuova, nel mezzo delle manifestazioni contro il Green pass, a Milano nelle stesse ore veniva presa di mira un’altra sede della Cgil. Sempre durante una manifestazione contro il lasciapassare verde, ma questa volta con tre differenze. La prima: a puntare sulla sede del sindacato questa volta sono stati gli anarchici. La seconda: a differenza di quanto accaduto con il blitz di Forza Nuova, a Milano le forze dell’ordine hanno prontamente bloccato i manifestanti. Due di loro sono stati arrestati e otto denunciati al pool antiterrorismo della procura lombarda. La terza differenza: da sinistra non si sono sentite voci allarmate contro il «pericolo anarchico». E chissà se adesso la Cgil vorrà organizzare un’altra manifestazione per denunciare, dopo la minaccia fascista, questa minaccia di diverso colore.

"Rimandare tutto". Covid, come saremo ridotti a Natale. No global e "Sentinelli" parte la caccia al fascista.

Chiara Campo il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Giovedì presidio davanti a Palazzo Marino Verri (Lega): «Noi pensiamo ai problemi seri». Sul volantino c'è un wc a muro e lo slogan: «Fascisti, il loro posto non è in consiglio comunale». Opera dei Sentinelli di Milano, l'associazione per i diritti gay che ha organizzato per giovedì alle 17.45, in concomitanza con la prima seduta del nuovo consiglio comunale, un presidio davanti a Palazzo Marino. «Un'eletta in Fratelli d'Italia orgogliosamente fascista e tre eletti nella Lega grazie al sostegno di Lealtà e Azione» tuona il portavoce Luca Paladino sull'onda dell'inchiesta di Fanpage sulla presunta «Lobby nera». I Sentinelli saranno in buona compagnia, visto che anche sui canali social dei centri sociali gira la chiamata a radunarsi in piazza Scala dalle 18 per «pretendere la chiusura delle sedi delle organizzazioni neofasciste subito» e «le dimissioni» dei consiglieri citati nell'inchiesta. E, guarda un po', osservano «con sgomento e orrore come ancora in queste ore ci siano tentativi a livello cittadino e nazionale di riproporre vecchie e irricevibili equiparazioni» tra orrori del fascismo e di matrice comunista, «no al revisionismo storico con mozioni e contromozioni». Il centrodestra ha già anticipato una mozione di condanna a ogni forma di estremismo. Il coordinatore di Fdi Stefano Maullu già giorni fa ha anticipato che sarà depositato un documento «contro ogni forma di violenza e totalitarismo, seguendo esattamente la risoluzione approvata esattamente due anni fa dal Parlamento europeo dove si equipara nazismo, fascismo e comunismo ricordando la tragedia di questi totalitarismi che hanno commesso omicidi di massa, genocidi, deportazioni e perdite di libertà. Vedremo se il sindaco Beppe Sala sarà con noi e voterà questa mozione oppure preferirà la solita scorciatoia a uso e consumo dei soliti noti a sinistra». Approderà in aula però la prossima settimana. Il deputato milanese di Fdi Marco Osnato osservato il volantino dei Sentinelli e commenta: «Immagino che questa elegante proposta sia il massimo della capacità democratica di queste persone». Il neo capogruppo della Lega Alessandro Verri ribadisce che «stanno facendo una caccia alle streghe senza senso. Noi pensiamo al bene di Milano e stiamo lavorando su questioni più impellenti, come la sicurezza dopo gli accoltellamenti in zona corso Como dello questo weekend. E siamo già pronti a portare la questione in aula per chiedere all'assessore Granelli cosa farà per controllare la movida violenta». Sulla movida violenta Sala ha premesso ieri che «è un problema in tutte le grandi città, è inutile nasconderlo, e se tutte le forze dell'ordine sono necessariamente concentrate nel contrasto di manifestazioni che avvengono, non sono illimitate, anche questo può essere parte del tema. Inutile negare che le tensioni che ci sono nelle città dopo la pandemia vanno gestite, i più giovani spesso in mancanza di luoghi dove incontrarsi sono più difficili da gestire». E dopo l'ennesimo sabato di proteste No Pass e caos ha rimarcato: «Era incontrollabile. Per ogni corteo in Italia bisogna indicare e autorizzare il percorso, con loro non avviene e questa è l'unica eccezione che ho visto in questi anni». Chiara Campo

 L'allarme fascismo finisce con le elezioni. Ma presto ritornerà. Paolo Bracalini il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. Anche progressisti come Mieli, Mentana e Mauro lo ammettono: era strumentale. Finite le elezioni, finito l'allarme fascismo. È stato il tema che ha dominato la campagna elettorale, anche se c'entrava pochissimo con l'amministrazione delle città al voto, eppure ha monopolizzato il dibattito come se fossimo all'alba di una nuova marcia su Roma. Dal filmato-trappolone su Fratelli d'Italia, alla caccia ai «neonazisti» infiltrati anche nella Lega, alle dichiarazioni sulla shoah di Michetti, ex tesserato Dc trasformato in un nostalgico dell'olio di ricino. Ma tutto lascia supporre che il clima sia cambiato in un sol colpo, con la chiusura delle urne. Puff, svanite le camicie nere, fino a nuovo ordine. Improvvisamente diventa chiaro che parlare di un ritorno al Ventennio sia una manipolazione a fini elettorali. Ed è una evidenza testimoniata da opinionisti di chiara fama antifascista, come Paolo Mieli. L'altro giorno a La7 ha colto di sorpresa lo studio: «Com'è possibile che questo tema spunti magicamente in ogni tornata elettorale?» si è domandato l'ex direttore del Corriere della Sera, ricordando come già nel 1946 un simile trattamento era toccato ad Alcide De Gasperi, e da allora in poi «fascisti sono diventati Fanfani, Craxi, Berlusconi e persino Renzi», tutti gli avversari della sinistra postcomunista. Una analisi che ha trovato concorde Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, rete che sull'«allarme fascismo» ci ha costruito ore e ore di talk show: «Il fascismo ha osservato, chiosando Mieli - è come il conflitto d'interesse di Berlusconi. Ricordate? Lo tiravano fuori solo quando il Cavaliere era al governo e spariva magicamente quando tornava all'opposizione». Quel che era incosciente anche solo pensare fino a pochi giorni fa, diventa una constatazione elementare, innocua. Dopo il voto.

Una circostanza che colpisce Guido Crosetto, che l'altro giorno si ha lasciato gli studi di Piazza Pulita perché il programma era orchestrato come «un plotone di esecuzione contro Giorgia Meloni». «Anche per questa volta il pericolo dell'insediamento di un regime nazi-fascista è scongiurato. Riemergerà con estrema gravità, nei 45/60 giorni prima della prossima scadenza elettorale. La Meloni da oggi torna ad essere una peracottara pesciaiola della Garbatella» twitta il cofondatore di Fdi. Anche Pierluigi Battista sfotte la propaganda: «Ora che il nazismo è stato sbaragliato a Romagrad vogliamo sbaragliare pure la monnezza?». Ma addirittura su Repubblica, e a firma del suo ex direttore Ezio Mauro, si prende coscienza di quel che appare lampante, ma che ha alimentato paginate sullo stesso giornale. Il chiarimento chiesto alla Meloni «non significa automaticamente evocare il pericolo di una riemersione del fascismo - scrive Mauro -. È chiaro che il dramma italiano del secolo scorso non potrà riproporsi in mezzo all'Europa delle costituzioni liberali e nel cuore dell'Occidente democratico. Nessuno lo pensa». A Repubblica forse qualcuno sì, vista la frequenza con cui compare la parola fascismo nei pezzi e titoli del quotidiano («Fondi illeciti e culto del fascismo. Il volto nero di Fratelli d'Italia», «Fascismo e Tolkien. L'educazione sentimentale di Giorgia-Calimera», due titoli a caso). Ieri scambio di tweet tra una giornalista appunto di Repubblica e la Meloni. La prima appunta che la leader Fdi, alla Camera per sentire la ministra Lamorgese sugli scontri di Roma, è «vestita interamente di nero». Le risponde la Meloni: «È blu. Interamente vestita di blu. Quanto vi piace la mistificazione». Paolo Bracalini

Le ideologie sono finite ma ancora ci tormentano. Stenio Solinas il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. "I rondoni" mette in scena gli strascichi, anche famigliari, delle guerre politiche del XX secolo. Cinquantenne, professore di filosofia che detesta i colleghi quanto gli studenti, un matrimonio fallito alle spalle, un figlio difficile, un unico amico, nessuna vita affettiva, Toni, il protagonista di I rondoni, il nuovo libro di Fernando Aramburu (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pagg. 720, euro 22), si dà ancora un anno di tempo prima di togliersi la vita. Proprio perché è in buona salute, non vuole correre il rischio di ritrovarsi un domani solo, vecchio e malato. Proprio perché la sua è stata al fondo un'esistenza noiosa ritiene che a un certo punto anche la noia rischi di farsi insopportabile. Viene in mente quella frase di André Malraux: «Al mercato della vita le cose si comprano in azioni. La maggior parte degli uomini non compra nulla». Toni, almeno in questo, fa parte della maggioranza. I rondoni appartiene a quel genere di narrativa che si potrebbe definire minimalista nella storia, consolatrice nello stile. Non succede nulla, ma è il nulla che in fondo ci accomuna tutti, dissapori familiari, insoddisfazioni sul lavoro, rimpianti e rimorsi, stanchezza esistenziale, lutti. Nel leggerla ci si può insomma identificare, il che non è esaltante, ma fa sentire meno soli. Una scrittura familiare, quasi colloquiale funge poi da anestetico, una sorta di lungo fiume che si snoda tranquillo, senza mulinelli ritmici che impegnino la mente del lettore-nuotatore, senza correnti di pensiero che lo obblighino a riflettere più di tanto. Ci si lascia trascinare, semplicemente, e che questo possa funzionare, nel caso in questione, per più di settecento pagine è comunque una prova d'autore. Naturalmente, Aramburu è uno scrittore interessante e basterebbe Patria, il libro che lo ha fatto conoscere in Italia, per rendersene conto. Ma mentre lì si aveva a che fare con le passioni ideologiche e politiche, con la violenza della Storia e delle idee, con la cecità che spesso si accompagna alla prima come alle seconde, qui siamo come di fronte a un'atarassia dei sentimenti come del pensiero, un'atarassia non appagata però e che rimanda all'unico gesto possibile per dare un senso al non senso dell'esistere. Spagnolo, Aramburu è un autore contemporaneo e la Spagna novecentesca ha molti tratti in comune con l'Italia, una dittatura, una democrazia che ne prende il posto, ma che comunque deve fare i conti con un passato che non si decide a passare. Toni, il protagonista come abbiamo già detto del suo romanzo, ha un padre comunista, come si può essere comunisti nella Spagna franchista degli anni Cinquanta e Sessanta. È anche lui un professore, universitario, però, la cui carriera dipende dal grado di acquiescenza al regime, e quindi il suo è un comunismo sommerso, non esibito, che però non gli ha evitato una volta il carcere e la tortura E però il nonno di Toni, e quindi il padre di suo padre, era un falangista caduto nella Guerra civile e non sorprende che il figlio comunista se ne vergogni e gli inventi un passato e una morte da eroe repubblicano. Sono gli scherzi della storia quando ci si ostina a vederla in bianco e nero, Bene e Male. I compromessi del padre, il suo conformismo, per quanto riluttante, rispetto al franchismo in cui è vissuto, Toni non li ha dovuti fare. Quando ha vent'anni quel regime non c'è più e lui in fondo è un conformista-eroe del nostro tempo: è uno studente universitario di sinistra, il che, «volente o nolente, ti dava in facoltà una specie di salvacondotto, così come nei secoli passati per evitare problemi con il Sant'Uffizio, la gente approfittava di qualunque pretesto per affermare in pubblico la sua fedeltà alla fede. Tutti noi studenti eravamo di sinistra. Essere di destra, alla nostra età, ci sembrava una disgrazia; non so, come avere una deformità o la faccia punteggiata dall'acne». Il problema di Toni è che la sua è una sinistra mainstream, nel ventre di vacca del progresso, quella che, illudendosi, pensa che il non essere di destra sia la condizione sufficiente perché tutto vada avanti e vada bene. Più che una sinistra all'acqua di rose, è una sinistra insapore, che non nutre dubbi semplicemente perché non ha idee, se non generiche, ecumeniche, rassicuranti. Sotto questo aspetto, lì dove Toni si è ritrovato in democrazia grazie semplicemente all'anagrafe, il padre ha fiutato subito che non era roba per lui: «Mi sono ricordato della sua amarezza politica, dell'uscita dal partito due anni dopo la sua legalizzazione. Per questo ho rischiato la pelle?' si lamentava. Per continuare con la stessa bandiera, lo stesso inno, e restaurare la monarchia?'» Andando più in profondità, anche Toni però si rende conto che «papà sognava una Spagna simile a quella di Franco, ma con un leader comunista al posto di un caudillo ultracattolico e militare» Del resto, è un marito manesco e un padre che non sopporta figli piagnucolosi, tanto meno effemminati Il mainstream di oggi lo definirebbe un fascista, il che aggiunge confusione, ma rassicura comunque le coscienze. Se un comunista si comporta male è perché si comporta da fascista, evidentemente una categoria dello Spirito ignota a Kant. Alla fine, il risultato a cui il cinquantenne Toni arriva, mentre contempla l'idea del proprio suicidio, è quello di essere un militante «da lunghi anni del PPSS, del Partito di chi preferisce Stare Solo, in cui non ho alcun incarico. Tutto il programma del mio partito si riduce a uno slogan: lasciatemi in pace». È un approdo interessante che riguarda molti della sua generazione, e non solo in Spagna, ma anche in Italia, dove a un certo punto il mainstream del politicamente corretto va in tilt per il troppo uso, per il voler essere sempre e comunque in accordo con le idee «giuste», con il ron ron benpensante del mondo senza guerre, dove tutti si devono voler bene, dove non si devono avere pensieri cattivi, dove c'è spazio solo per i buoni sentimenti e dove, va da sé, ci si deve sempre scusare di qualcosa Per quanto seppellito, c'è sempre un fondo reazionario che spunta fuori quando la misura è colma e l'acqua del politicamente corretto tracima: «I nostri attuali legislatori si sono inventati un cosiddetto delitto di odio'. Immagino che pensino al terrorismo e cose del genere; ma dov'è il limite fra dimensione pubblica e quella privata? Ci mancherebbe soltanto che una legge approvata alla Camera dei Deputati mi proibisse di odiare la preside della mia scuola. Il giorno dopo mi incatenerei con un cartello di protesta al carro della Fontana di Cibele. Ora i governanti si mettono a regolare a scopi restrittivi i nostri sentimenti come chi detta le norme del traffico. Fa un po' schifo quest'epoca». Sulla stessa lunghezza d'onda si situa del resto il programma ministeriale spagnolo volto alla Prevenzione del Suicidio, con annessa Giornata Mondiale dedicata all'argomento: «Mi domando come faranno a dissuadermi dalle mie intenzioni. Circuendomi con denaro pubblico? Ricoverandomi in un frenocomio? Mandandomi ogni mattina un cantautore a casa a cantarmi Gracias a la vida? Il programma ministeriale contempla il rilevamento precoce di indizi chiamati, in linguaggio burocratico, ideazioni suicide', per la qual cosa si richiede la collaborazione delle persone vicine all'imminente suicida». Senza scomodare la Spagna, vale la pena ricordare che anni fa andava di moda in Italia lo slogan «intercettateci tutti», una sorta di polizia del pensiero travestita da principio etico. Torneremo alla fine sul tema del suicidio, che è poi il tema centrale di I rondoni. Prima però l'altro elemento di questo mainstream progressista cui Aramburu accenna nel libro è un tipo di letteratura «superficiale nel suo pretenzioso psicologismo, nell'eccessivo peso dell'introversione sentimentale», tipico di chi «si unisce al coro dei grilli che cantano alla luna, per vedere se pensando in gruppo la sua mediocrità passi inosservata». È un po' quella narrativa ombelicale da cui siamo partiti, che è una cosa diversa dal solipsismo di certa grande letteratura che sente il suo io diverso dagli altri e perciò lo racconta. Qui l'importante è essere assolutamente come gli altri, cercarne e/o vellicarne il consenso. Anche I rondoni qui e lì cade in questa trappola-cliché, non fosse che Aramburu ha sufficiente padronanza di scrittore per limitarne i danni. Lo salva anche, è una considerazione di Toni, mai come in questo caso alter ego dell'autore, il suo essere «di sinistra, ma non in forma permanente». Applicato al tema del suicidio, questa intermittenza suona tuttavia paradossale. Toni ritiene che la celebre frase di Camus «c'è soltanto un problema filosofico davvero serio. Il suicidio», sia «una trovata gratuita». Vivere, dice, non è un compito filosofico e quindi «ci mancava soltanto questo: suicidarsi perché non quadrano gli enunciati di un sillogismo!». Per quello che lo riguarda, il suo è una forma di stanchezza e di noia nello «svolgere un ruolo in un film che mi sembra mal concepito e peggio realizzato. Questo è tutto, Nuland». Anche il nulla è però un tema filosofico, e se Camus non lo convince non si capisce perché dovrebbe andargli bene Sartre... Ma è, sia pure ironicamente, la «permanenza» della sinistra a prevalere alla fine, l'idea di una sorta di solidarietà: «Perché non avere l'eleganza, persino la dignità, di lasciare il posto ad altri? Uscire di scena sulle mie gambe non potrebbe anche essere interpretato come un apporto?» Il gesto più individuale che ci sia, diventa un surrogato del benessere altrui, il che è tipicamente del mainstream del progresso. Noi restiamo con Montherlant: «Essere padroni del proprio destino: almeno del suo strumento, e della sua ora». Stenio Solinas

Il suo “marchio indelebile” è il dispotismo. Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 12 Ottobre 2021.

1917 – Rivoluzione Russa. Piazza di Pietroburgo con rivoluzionari attorno alla statua dello zar. Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”. A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto. Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana. Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo. Biagio De Giovanni

Antifascisti, siete anticomunisti? Marco Gervasoni il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi "antifascisti" ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi «antifascisti» ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. Quando poi nel 2009 a Onna, sulle rovine del terremoto, il Cavaliere presidente del Consiglio vi prese parte e pronunciò anche un bel discorso, la sinistra spostò il tiro su altre questioni, e accadde quel che sappiamo. Questo per dire che, in buona parte dei casi, come questo di una «inchiesta» diffusa a due giorni dal voto, l'antifascismo è solo un pretesto, e anche molto ipocrita e peloso. Sarebbe tuttavia limitativo fare spallucce e rispondere solo in questo modo. In primo luogo perché l'argomento fa parte della lotta politica ed è utilizzato come arma, a cui bisogna rispondere. In secondo luogo, perché l'antifascismo è si qualcosa che appartiene al passato ma il passato, anche quello antico, fa sempre parte del presente - la storia è sempre storia contemporanea, noto adagio crociano. E tra fascismo e antifascismo non ha solo vinto quest'ultimo ma la ragione stava da questa parte: da quella di Roosevelt, di Churchill, di De Gaulle, di De Gasperi, di Sturzo, di Einaudi, di Matteotti e dei Fratelli Rosselli, e così via. A un regime che si impose con la violenza, soffocando la libertà e la democrazia, come quello fascista, Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e tutti i militanti ed elettori di Fdi sono lontani anni luce; e oggi sicuramente lo combatterebbero. Dal nostro punto di vista quindi, non dovrebbe esserci problema alcuno a dichiararsi antifascisti. Purché ci si dica al tempo stesso anticomunisti. I due termini dovrebbero essere inseparabili: non si può essere antifascisti se non si è anche anticomunisti. Come scriveva François Furet, tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici: basti pensare a Stalin, a Tito, e via dicendo. Allo stesso tempo, non si può essere anticomunisti se non ci si definisce pure antifascisti: perché la lotta al comunismo va condotta avendo in mente la democrazia e la libertà, non esperimenti autoritari. Si tratta di questioni storiche passate? Forse. Sta di fatto che il fascismo è morto nel 1945 mentre il comunismo è vivo e vegeto (la Cina, a Cuba, alla Corea del Nord ecc) e alle Comunali si parano miriade di liste con falce e martello. E allora rivolgiamo noi la domanda agli antifascisti (a fascismo morto) in servizio permanente ed effettivo: siete disposti a dichiararvi anticomunisti? Marco Gervasoni 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 6 ottobre 2021. Io voglio sapere come fa Michele Serra a scrivere che «è risaputo» che gli italiani di estrema destra sarebbero «qualche milione, storicamente attorno al 10-15 per cento dell'elettorato». Voglio sapere come fa a scrivere che «la destra non ha mai fatto i conti con il fascismo» senza che gli si spezzi la penna, e definendo la frase, anzi, «per niente retorica», e non spiegando perché Casapound e Forza Nuova abbiano consensi da entomologi. Voglio sapere come lo storico Franco Cardini (ex scritto al Msi che faceva il saluto romano, poi nel 1965 si innamorò di Fidel Castro) faccia a dire che «l'eredità neofascista non è stata sufficientemente elaborata». Voglio sapere dalla politologa Sofia Ventura che cosa intenda quando parla di «contraddizione irrisolta». Voglio sapere da Serra, Cardini e la Ventura se ricordano che Gianfranco Fini disse che le leggi razziali furono «un'infamia», che «Salò fu una pagina vergognosa», che «il fascismo fu il male assoluto», che visitò le Fosse Ardeatine, la Risiera di San Sabba e il museo dell'Olocausto (con la kippah in testa) e che non servì a nulla, anzi, rese Fini ridicolo in un Paese dove sopravvivono l'Anpi, i negazionisti delle foibe, e dove qualche sindaco che ha dedicato vie al Maresciallo Tito, a Lenin, Ho Chi Minh, Mao Tze Tung, financo a Josef Stalin il quale persino Putin, nel 2015, definì ufficialmente un criminale comunista.

A destra ferve il dibattito per appurare quale sia la matrice di tutte le stronzate che fanno. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Rampelli si autosmentisce, La Russa denuncia una strategia della tensione e Meloni rivendica in spagnolo il suo essere italiana. Ma se in piazza i neonazi protestano contro la dittatura e invocano una nuova Norimberga, forse la causa non è così chiara nemmeno a loro. Scoccata l’ora delle decisioni irrevocabili, poco dopo pranzo, Fabio Rampelli ha annunciato ieri la scelta di votare la mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova – ma no, che avete capito? Mica quella del centrosinistra. A chi ha l’ingrato compito di raccontare o commentare la politica italiana, ormai, conviene partire dalle precisazioni. Ecco dunque la precisazione di Rampelli, vicepresidente della Camera e dirigente di primo piano di Fratelli d’Italia: «Il voto favorevole di Fratelli d’Italia cui mi riferivo in un’intervista radiofonica è sulla mozione unitaria proposta dal centrodestra che, partendo dall’assalto alla sede della Cgil, chiede la condanna di ogni forma di totalitarismo e auspica lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica. Quindi non riguarda Forza Nuova, ma tutti i soggetti che utilizzano i suoi stessi metodi». Avendo riportato, preventivamente, il testo integrale della precisazione, mi permetto di sottolineare quello che mi pare il passaggio-chiave: «Non riguarda Forza Nuova». Ricapitolando, siccome sabato scorso esponenti di Forza Nuova hanno guidato un assalto alla sede della Cgil, devastandone gli uffici, per poi tentare di attaccare anche Palazzo Chigi e il Parlamento, il centrodestra ha ritenuto giusto presentare una mozione che condanna «ogni forma di totalitarismo» e auspica «lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica». Ma perché – si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori – c’erano forse altri partiti, movimenti, associazioni culturali o circoli ricreativi, a parte Forza Nuova, a dare l’assalto alla Cgil? No, nessun altro. Fermamente intenzionato a spezzare le reni alla logica, sempre ieri, Rampelli dichiara inoltre all’Huffington post: «Per coincidenza astrale, questi fatti accadono solo sotto elezioni. Ne deduco che Forza Nuova ha un’alleanza di ferro con il Partito democratico». Coincidenza astrale o congiunzione casuale che sia, l’affermazione sembra riecheggiare la teoria di Ignazio La Russa, altro autorevolissimo esponente di Fratelli d’Italia, riportata due giorni fa dal Corriere della sera, circa la reale motivazione per cui, fino alla settimana scorsa, né l’attuale esecutivo né i precedenti si sarebbero preoccupati di sciogliere partiti e movimenti neofascisti: «Delle due l’una: non avevano le motivazioni per scioglierli o hanno preferito tenerli lì, magari come strumenti utili per la strategia della tensione?».

L’ipotesi che nessuno lo abbia fatto prima semplicemente perché fino alla settimana scorsa nessuno aveva assaltato la sede della Cgil, evidentemente, non ha sfiorato né La Russa né Rampelli nemmeno per un attimo. Eppure, considerando da dove erano partiti, l’intero dibattito potrebbe sembrare persino un passo avanti. La prima dichiarazione a caldo di Giorgia Meloni, che di Fratelli d’Italia è la leader, cominciava infatti con le parole: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco». E pensare che sarebbe bastato cercare la parola «squadrismo» su un buon dizionario. D’altronde, nel momento in cui faceva queste dichiarazioni, Meloni si trovava nel contesto non troppo adatto di una manifestazione di Vox, il partito neofranchista spagnolo, impegnata a ripetere dal palco, in perfetto castigliano, perché si sente orgogliosamente italiana. Riciclando per l’occasione la traduzione letterale del suo cavallo di battaglia: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana…». In pratica, una via di mezzo tra un comizio di Giorgio Almirante e un balletto su Tik Tok. Nonché la conferma del fatto che, se mai un giorno lontano rivivremo la tragedia di una dittatura fascista, al posto dei cinegiornali Luce ci sarà Striscia la notizia. E questa sarà la sigla. Del resto, stiamo parlando del partito che ha candidato a sindaco di Roma un signore, Enrico Michetti, che l’anno scorso, non settant’anni fa, a proposito dell’Olocausto, scriveva: «Mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta». Una frase talmente vergognosa che ha spinto Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, a twittare subito (pur senza alcun diretto riferimento a Michetti, beninteso): «Il ricordo della Shoah non può e non deve essere patrimonio degli ebrei ma di tutti ed ognuno. Perché la Shoah è l’emblema del male, il male ontologico, come direbbe Heidegger, l’essenza categoriale del male. Ed il male si combatte tutti uniti, senza dubbi, senza divisioni». Forse però un dubbio sarebbe stato meglio farselo venire, considerato che Martin Heidegger, oltre che un grande filosofo, era un nazista convinto. Ma queste ormai sono sottigliezze cui non fa più caso nessuno. Alla manifestazione dei no green pass, non so se l’avete notato, esponenti di un partito neofascista hanno sfilato per protestare contro la «dittatura sanitaria» e gridando «libertà! libertà!», prima di assaltare la sede della Cgil e dopo che il magistrato Angelo Giorgianni, dal palco, aveva invocato contro il governo nientemeno che un nuovo «processo di Norimberga». E quelli, con le loro belle svastiche tatuate sul braccio, ad applaudire a più non posso. Forse allora aveva ragione la mujer italiana, madre y cristiana di cui sopra: la matrice non è poi così chiara. Nemmeno agli autori. D’altra parte, parafrasando Altan, a chi di noi non capita di domandarsi, almeno ogni tanto, quale sia la matrice di tutte le stronzate che fa? 

Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Altro che minaccia fascista: ecco cosa interessa davvero agli italiani. Francesca Galici il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ultima rilevazione social ha evidenziato il solco tra i Palazzi e il popolo, preoccupato per il suo futuro in vista dell'introduzione del Green pass per i lavoratori. Il weekend di scontri nelle principali città italiana ha inevitabilmente influenzato il dibattito settimanale. La politica e i cittadini si sono confrontati su diversi temi legati a quanto è accaduto a Roma e a Milano e Socialcom ha restituito una fotografia fedele del sentimento del Paese attraverso il flusso delle discussioni social che, ormai, può essere considerato uno specchio affidabile del cosiddetto Paese reale. Le rilevazioni Socialcom hanno messo in evidenza come ci sia ormai una grande distanza tra i temi affrontati dal Paese reale e quelli che, invece, vengono spinti da una certa politica, che continua a muoversi sull'onda della propaganda ideologica, cieca davanti ai veri problemi degli italiani che riguardano soprattutto il lavoro. Al centro del dibattito nazionalpopolare c'è soprattutto il Green pass e ogni altro argomento, anche gli scontri, sono a questo correlato. Tra il 1 e l'11 ottobre, in Italia, "sono state oltre 1,53 milioni le conversazioni in rete sul tema, che hanno prodotto 7,26 milioni di interazioni". Numeri importanti che hanno raggiunto il picco il 10 ottobre, giorno successivo all'assalto alla Cgil e agli scontri, con 872mila pubblicazioni. È vero che le immagini di Roma in stato di guerriglia urbana hanno colpito l'opinione pubblica ma sono state le preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro e la conseguente sospensione del salario a catalizzare maggiormente l'attenzione. Il Paese reale è più interessato a capire come farà a mantenere le proprie famiglie piuttosto che a una ipotetica minaccia fascista, argomento che da sinistra viene sostenuto fin dai momenti immediatamente successivi allo scontro. Ma la percezione dei cittadini in questo momento è un'altra ed è alienata dalla preoccupazione per il proprio futuro lavorativo. Non c'è connessione tra le due posizioni e lo certifica anche il report Socialcom: "I termini legati al mondo del lavoro sono utilizzati con più frequenza rispetto al termine 'fascista'. Segno che gli italiani percepiscono con maggior preoccupazione il pericolo della perdita dell’impiego, o del salario, piuttosto che una minaccia estremista". Nella classifica dei termini correlati al macro argomento "Green pass", nei primi tre posti per numero di interazioni si trovano, in quest'ordine: "vaccinare", "15 ottobre", "vaccino". Seguiti da "entrare", "Italia", "vivere", "lavorare". Il termine "fascista" è scivolato al 14esimo posto.

E proprio questa distanza è alla base di un'altra importante rilevazione effettuata da Socialcom. Tutti i politici hanno subìto un contraccolpo nel sentiment ma, come si legge nel report, "a sorprendere più di tutti è il crollo del sentimento positivo nei confronti di Maurizio Landini, leader della Cgil". In particolare, in sole 48 ore il sentimento negativo verso Landini è passato dal 50% dell’8 ottobre al 91,21% del 10 ottobre. E questo nonostante l'assalto alla sede romana del sindacato di cui Landini è segretario. Socialcom fornisce un'ipotesi per giustificare questo calo, correlato a quello di Enrico Letta: "È presumibile ipotizzare che gli utenti abbiano giudicato affrettate le conclusioni dei due relative alla matrice degli atti di violenza".

Francesca Galici

Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

No pass, disoccupati, complottisti, centri sociali: le (molte) anime della protesta. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Non solo estremisti di destra o sinistra: c’è anche chi è in povertà, chi teme il futuro, precari, rider e pensionati. Il sociologo Domenico De Masi: ci sono cinque milioni di poveri assoluti e sette di poveri relativi, una insicurezza che tracima. Come i sanfedisti d’un tempo lontano, anche i ribelli del green pass possono pensare che lassù qualcuno li ami. Carlo Maria Viganò, dopo aver tuonato in videomessaggio contro «la tirannide globale» ed essersi spinto, crocefisso al collo, a sostenere che «i camion di Bergamo contenevano poche bare» e che ai medici d’ospedale era stato «vietato di somministrare cure» anti Covid, ha benedetto i diecimila di piazza del Popolo invitandoli a recitare il Padre Nostro prima della pugna. La predica complottista del controverso monsignore ostile a Bergoglio è stata poi oscurata dall’assalto di Castellino, Fiore e dei camerati di Forza nuova contro la sede della Cgil. E tuttavia sarebbe miope derubricare a folclore antilluminista da un lato o a rigurgito neofascista dall’altro il magma ribollente che da sabato scorso a sabato prossimo ha unito e unirà, in decine di sit-in e marce, sindacati di base e antagonisti, disoccupati e camalli, camionisti, mamme spaventate e pensionati indigenti, rider e insegnanti, contro il lavoro povero, l’esclusione dalla ripresa, la precarietà, le scorie di un anno e mezzo di reclusione collettiva: un mix di rivendicazioni per un nuovo autunno caldo al quale l’obbligo di passaporto sanitario sembra fare da collante e casus belli. Siano centomila come i manifestanti delle quaranta piazze di sabato scorso o il milione in sciopero lunedì secondo le sigle di base o, ancora, siano quelli che già domani si sono dati nuovi appuntamenti di battaglia, i disagiati di questa stagione ribollente si muovono veloci e si autoconvocano sui social (quarantuno le chat e i canali Telegram censiti a settembre dagli analisti di «Baia.Tech», con circa duecentomila partecipanti). Fatte salve le buone ragioni per sciogliere un’organizzazione che pare ricadere in pieno nelle previsioni della legge Scelba, le manifestazioni successive, da Milano a Trieste, da Torino a Napoli e in mezza Italia, dicono molto altro. «Al netto della violenza, la tensione sociale e le preoccupazioni per lavoro e condizioni di vita sono oggettive», ammette Valeria Fedeli, senatrice pd dalla lunga militanza sindacale: «È un passaggio anche drammatico, con scadenze come lo stop al blocco dei licenziamenti a fine mese e la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali. La responsabilità delle organizzazioni confederali è aumentata, le associazioni minoritarie cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio». Le ricorda il clima del ’77? «Con una differenza, però: stavolta abbiamo risorse di sostegno che dobbiamo fare arrivare, effettivamente, alla gente. Politica e sindacato devono controllare che avvenga».

Un carico di rancore

La sfilata di Milano sotto la Camera del Lavoro, con Cobas, Usb, neocomunisti e centri sociali che hanno strillato «i fascisti siete voi!» ai militanti della Cgil, in cordone a difesa della loro sede, ha impressionato per il carico di rancore in giornate (dopo il sabato egemonizzato da Forza nuova a Roma) che avrebbero dovuto portare solidarietà nella sinistra: pia illusione. Ai microfoni di Radio Radio (l’emittente romana cara al candidato del centrodestra capitolino Enrico Michetti), il segretario comunista Marco Rizzo (stalinista mai davvero pentito), dopo aver bastonato il Pd come «geneticamente mutato» e il green pass quale «misura discriminatoria», s’è avventurato a intravedere una «nuova strategia della tensione» (teoria peraltro rilanciata ieri alla Camera da Giorgia Meloni) che avrebbe «permesso» l’aggressione alla Cgil di Roma: «La polizia aveva tutti gli strumenti per fermare quel gruppo di persone. O hanno lasciato fare o qualcosa di peggio. Dopo quell’episodio si rafforza il governo e vengono criminalizzati i movimenti di opposizione. Si stringe sulle manifestazioni e i cortei d’autunno. Questo governo vuole la divisione del popolo perché così non si vedono 60 milioni di cartelle esattoriali che arriveranno, non si vedono le nuove norme sulla Green economy con un aumento delle bollette dell’energia». Se radicalismi di destra e sinistra s’incrociano nel complottismo, teorie di sapore antico si mescolano e si moltiplicano, oggi, tramite i moderni strumenti del mondo globale. Su Telegram i legali del Movimento Libera Scelta indottrinano chi, fra i tre milioni e passa di lavoratori sprovvisti di green pass, voglia tenere duro e chiamano allo sciopero generale per domani: «Non presentatevi al lavoro e impugnate la sanzione, il governo non ha dimostrato la persistenza dell’epidemia, si viola l’articolo 13 della Costituzione». L’avvocata Linda Corrias, citando Gandhi, invita anche «alla preghiera e al digiuno, che necessitano di dedizione e pertanto di astensione dal lavoro per essere in pienezza di grazia: questo l’informazione di regime non ve lo dirà mai».

Veri dolori e assurde paranoie

E mentre rimbalzano di post in post locandine sulle manifestazioni di domani (a Messina in piazza Antonello ore 10, a Roma in Santi Apostoli con la pasionaria Sara Cunial), Hard Lock si chiede se «qualcosa di concreto si organizzerà anche a Napoli» (dove sbucano gli immancabili neoborbonici), Michele impreca perché «le ore passano e tra poco resterò senza lavoro, Paese gestito da parassiti velenosi», si minacciano blocchi a porti, trasporti e rifornimenti, Gianluca è convinto che «ricattano i giovani con la discoteca e li spingono a vaccinarsi», e Angelo scolpisce il suo aforisma: «Non ci sono più i giovani d’una volta!». È questo insondabile minestrone di pubblico e privato, veri dolori e assurde paranoie a complicare le analisi. Perché se è ovvio che vadano presi molto sul serio gli 800 (su 950) portuali triestini i quali (cantilenando «Draghi in miniera/Bonomi in fonderia/questa la cura per l’economia») minacciano di fermare lo scalo, o i loro compagni di Genova che già hanno fermato Voltri non tanto per il green pass quanto per il contratto integrativo, una vertigine coglie chi si imbatta nella teoria del «transumanesimo» di cui Draghi sarebbe apostolo («fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti, siano questi umani, intelligenze artificiali, animali o eventuali extraterrestri...») o nelle «rivelazioni» sulla soluzione fisiologica inoculata a Speranza in luogo del vaccino e sulla letalità dei vaccini medesimi (un caso su due su un campione di... dieci) propugnata da una dottoressa altoatesina assai contrita. Per una testa balenga di «Io Apro» finito in copertina per essersi filmato durante l’incursione nella Cgil, «si sfonda! si sfonda!», ci sono tanti gestori di bistrot, bar e ristoranti piegati da diciotto mesi di provvedimenti ballerini. Per un violento, cento violentati.

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

Antonio Rapisarda per “Libero Quotidiano” il 12 ottobre 2021. «È impossibile che Beppe, nato a Milena, abbia fatto un errore così enorme...».

E invece Peppe Provenzano, vice di Letta, lo ha detto eccome: vuole Giorgia Meloni fuori dall'arco repubblicano...

 «Uno come lui, formato alla scuola del Pci siciliano, un allievo di Emanuele Macaluso - il comunista che fece in Sicilia il governo col Msi - non può conoscere l'odio politico. Due sono le cose: o lo ha rovinato Roma o non è stato lui ad aver scritto tale follia. Ma il suo fake...».

Pietrangelo Buttafuoco, quando si parla dei suoi compatrioti di Sicilia, adotta la moratoria della polemica. Li affonda, quando il caso lo richiede, con l'ironia. La stessa cosa capita quando la fiction della politica lo costringe ad intervenire su un tema che reputa lunare come il procurato allarme chiamato "onda nera".

Prima l'inchiesta sulla fantomatica "lobby sovranista". Poi la tirata di giacchetta dopo l'assalto alla sede della Cgil, ad opera di facinorosi che nulla hanno a che fare con FdI. E mancano ancora cinque giorni al ballottaggio...

«Strategia della tensione, per tutta questa settimana saremo negli anni '70... Detto ciò, se al posto di Giorgia Meloni ci fosse Gianfranco Rotondi al 20%, in contrapposizione alla sinistra, Fanpage e Formigli avrebbero di certo approntato un reportage con un infiltrato mettendo insieme la lobby dei pedofili della Chiesa, le tangenti della neo-Dc, la Mafia e le organizzazioni clandestine inneggianti a Sbardella o a Salvo Lima...».

Si è capito che il "metodo Fanpage" non ti piace...

«No, anzi, mi piace. Peccato sprecarlo per così poco. Sarebbe stato utile un infiltrato sulla rotta della Via della Seta alle calcagna di Romano Prodi a Pechino: un bel Watergate. Così invece fa ridere: troppo olio per un cavolo...».

Che poi fa sorridere che con tutti questi presunti "neri" in azione sia sempre la sinistra ad occupare i ' posti di governo senza vincere un'elezione.

«Premessa. È perfettamente inutile vincere le elezioni se non sei nelle condizioni di poter comandare. Dal dopoguerra a oggi c'è un unico sistema di potere: che è quello guelfo. In assenza di ghibellini, i guelfi hanno preso tutte le parti in commedia: ereditando un sistema di potere che è figlio dei due fondamentali partiti, il Pci e la Dc, con un'unica metodologia, che è quella gesuitica. Ora non c'è dubbio che per fare carriera una signorina di buona famiglia debba avere la tessera del Pd: questa gli consente di avere carriere in tutti gli ambiti a prescindere da qualunque sia il risultato elettorale».

Diciamo poi che questa cospirazione sembra una copia venuta male de "Vogliamo i colonnelli" di Monicelli...

«Non Monicelli, Renzo Arbore piuttosto. Il Barone Nero su cui Formigli mobilita l'allarme nero altro non è che la prosecuzione di Catenacci in altro canale radio».

Catenacci?

«Era il personaggio interpretato da Giorgio Bracardi in Alto Gradimento, la trasmissione di Renzo Arbore. Il Barone Nero di oggi, invece, prende notorietà grazie ai microfoni de La Zanzara di Cruciani. Soltanto la malafede e la raffinata furbizia può costruire un capitolo del giornalismo su personaggi simili. Altrimenti l'ultimo Nobel lo avrebbero già dato a loro». 

Il punto è che il pueblo unido nelle redazioni sembra essersi messo in testa un obiettivo: spegnere la Fiamma. Fare del 20% di FdI una caricatura.

«Il metodo è sempre quello: o ridicolizzi o criminalizzi. Accadde col Psi di Bettino Craxi. E il berlusconismo naturalmente: c'erano le donne che venivano considerate alla stregua di puttane; il partito di plastica; "il banana" e "al Tappone". Sono cose che abbiamo già visto. È Karl Mark ad avere dato un indirizzo e un metodo: calunniate, calunniate, calunniate, qualcosa resterà. Ma poi soprattutto è una capacità di distrazione rispetto ai fatti veri».

 Si aggrappano a un saluto romano, fatto come sfottò...

«Ti confesso che chi mi ha insegnato come si fa perfettamente è Eugenio Scalfari. Ora, con questa logica da cancel culture che succede, che lo tolgono dalla gerenza del suo giornale e invece che Fondatore di Repubblica diventa Fondatore dell'Impero? C'è anche molto provincialismo in queste cose. È un'applicazione psicotica della cancel culture».

Come si risponde a questa campagna nevrotica?

«Avendo una struttura d'industria editoriale davvero autorevole, professionale e incisiva. Quelli parlano di saluti romani? E tu parlagli invece dello scandalo delle mascherine di Arcuri - cosa loro - e dei traffici in seno alla magistratura, sempre cosa loro, delle lottizzazioni in Rai, cosissima loro...».

Dimenticavo. Non si contano le esortazioni a Giorgia Meloni da parte dei soliti noti: devi fare come Fini. Ossia, per dirla con la critica di Tarchi, rinnegare senza elaborare...

«Ha ragione Tarchi ma questa formulazione retorica - devi fare, devi fare - è l'estremo collante della malafede italiana. Finirà quando Meloni non diventerà più "pericolosa" per il sistema di potere. L'argomento disarmante è quello che ha usato lei stessa: Rachele Mussolini che prende i voti è pericolosa. Alessandra Mussolini, la sorella, che invece è a favore del ddl Zan è meravigliosa. Nel frattempo ti buttano nel '900 con l'aiuto dell'arbitro: perché sanno che quando tu subirai fallo - grazie agli utili idioti sempre presenti - l'arbitro chiuderà un occhio sì, ma per l'altro». 

Questa caccia alle streghe durerà fino alle Politiche. Cosa deve fare la destra per scansare la trappola?

«Misurarsi con la realtà. Come dice sempre Giancarlo Giorgetti "quando sei all'opposizione devi approfittarne per studiare e per farti trovare pronto". L'unica cosa da fare è quella di avere una prospettiva... uscire fuori dalla pesca delle occasioni». 

FdI al 20% non sembra frutto del caso.

«È il 20% di Giorgia Meloni, non di FdI. La vera scommessa è costruire un progetto politico, non un partito». 

La sinistra, invece, continuerà a sperare politicamente - come scrivesti più di dieci anni fa - di cavasela con un "fascista"...

«Tutti quelli che fanno professione d'antifascismo in assenza di fascismo, oggi - compresi tanti degli attuali vertici di potere - hanno l'aria e la faccia di quelli che, ieri, in presenza di fascismo, se ne sarebbero stati in orbace, fascistissimi. E già li vedi: gli scrittori sinceramente democratici reclutati nei Littoriali, gli attori dell'impegno al seguito di Vittorio Mussolini, il Corriere della Sera in camicia nera e con Otto e Mezzo - ogni sera - a segnare l'ora del destino»!

I vigilanti dell’antifascismo sono come gli stalker. E la loro vittima è Giorgia Meloni. Annalisa Terranova mercoledì 6 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. Gli animi sono sovreccitati. Un po’ troppo. La sinistra crede che la destra sia già liquidata. I talk show si stanno attrezzando per la caccia al nostalgico. Ora hanno trovato un consigliere circoscrizionale di FdI a Torino che in un messaggio privato ringrazia i “camerati” che lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Sono cose gravi, cose che allarmano, cose che devono mobilitare le coscienze. Poi ci sono quelli della redazione di Fanpage che pensano di meritare il Pulitzer. E quelli che sui social vanno facendo loro complimenti da una settimana. Sono veri ghostbusters, acchiappafantasmi, dovrebbero fare un film su questi eroi del bene. In questo impazzimento generale, occhio, possono rimproverarti di tutto. Tipo: hai votato Rachele Mussolini. Che brutto segnale. Il Paese si preoccupa, il Paese non lo meritava. Dice: ma scusate era in lista, era candidabile, era tutto ok, non è mica un reato darle la preferenza. E no caro elettore: prima di votarla dovevi dire che eri antifascista. Che so al presidente del seggio, oppure scriverlo sulla scheda, una notarella a margine: scusate, voto Rachele Mussolini ma sono antifascista eh, tranquilli. Dice: ma prima di lei è stata votata e rivotata Alessandra Mussolini. Non fa niente. Alessandra ora è una “pentita”. C’è del fascismo strisciante, signori. Occorre denunciarlo. La Meloni non lo denuncia, vergogna.  Ma chi lo dice? Lo dice un certo Andrea Scanzi. Ma anche Enrico Letta, quello che crede di avere l’Italia in pugno ed è diventato più querulo di un cardellino. E allora bisogna fare molta attenzione, perché i vigilanti dell’antifascismo sono sempre in agguato, proprio come gli stalker che non mollano la vittima un secondo. Ogni segnale, anche il più innocente, rientra nel pacchetto “fascista perfetto”. Pure se ti vesti di nero. Il look è importante. Il nero evoca lo squadrismo, non sia mai. Tutto è ormai sotto il loro controllo. Sono pervasivi, sono maestri del lessico. Meloni dice che non c’è posto per i nazisti nel suo partito? Mica basta eh. Deve dire non c’è posto per i fa-sci-sti. Se dice che è contro ogni regime totalitario vuol dire che si rifugia in un artificio dialettico. Dice: ma nella Costituzione non c’è l’obbligo di dichiararsi antifascisti. Ma stiamo scherzando? I vigilanti antifascisti non ti consentono questa osservazione. Bisogna perpetuare gli schemi del 1945 perché altrimenti la sinistra che fine fa? A che serve? Chi se la fila più? Va bene, allora condanniamo il fascismo e finalmente storicizziamo il periodo. Non l’ha già fatto Alleanza nazionale a Fiuggi? Ma siamo matti? Non si può fare. Il fascismo è eterno. Lo dice Umberto Eco. E poi certi riti di purificazione vanno ripetuti nel tempo. Tutte le “religioni” lo impongono, e quella antifascista non fa eccezione.

Dice: ma allora siete ossessionati dal fascismo. E no, non si è mai abbastanza adoratori della religione dell’antifascismo. Mica lo si fa per fanatismo, ma per essere buoni cittadini. E chi non vuole aderire a questa religione? Lasciamo stare, per loro “a Piazzale Loreto c’è sempre posto”. Dice: ma fior di storici hanno confutato la tesi crociana del fascismo come “malattia morale” degli italiani. Storici? E chi sono? Noi si guarda ai topic trend, ai troll di Putin. E’ così che la Bestia ti azzanna…Ma non si potrebbe guardare avanti? Lasciarsi alle spalle il passato? Consegnare gli odi della guerra civile alla storia? No, mica si può. E perché? Eppure lo disse un comunista, uno che si chiamava Luciano Violante. Siamo impazziti? E Saviano poi cosa scrive sui social? E Jonghi Lavarini, lo vuoi lasciare lì a ricostituire il partito fascista senza battere ciglio? I vigilanti antifascisti non ti mollano un secondo. Ti spiano i messaggi su whatsapp, già è tanto che non pretendano di guardarti in biblioteca. Ascoltano come parli, che sport fai, cosa ordini dal menu, osservano i like che hai messo sui social, e magari te ne è scappato uno a un post della cugina di tuo cognato che dava ragione a Salvini. E magari sei passato una volta nella vita vicino a Predappio. O ti sei fatto un selfie al Foro Italico (ex Foro Mussolini). E allora non c’è scampo. Il fascismo è un’infezione che ritorna come un herpes e i guardiani lo devono segnalare al primo sintomo. Guai a distrarsi. Lo fanno per tutti noi. Per renderci più democratici, per renderci migliori. Loro sono i detentori del tampone ideologico che scova il contagio. Non c’è obiezione che tenga. Lo stalking politico ti insegue ovunque. Siamo tutti sotto sorveglianza.

Donna Rachele. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 07 ottobre 2021. Se un partito candida una persona che si chiama Mussolini ed è nipote di Mussolini, lo fa per attrarre i voti di chi rimpiange Mussolini. Punto. Ha ragione Rachele Mussolini, prima eletta a Roma nelle liste di Fratelli d’Italia, quando dice che è stata votata non solo per il cognome. L’hanno votata anche per il nome: quello della nonna, moglie del dittatore. Rachele M. — proprio come la sua leader Giorgia M. — appena le si chiede che cosa pensa del fascismo risponde che si tratta di un discorso troppo lungo. Dipende. In realtà può essere anche molto breve. Se un partito candida una persona che si chiama Mussolini ed è nipote di Mussolini, lo fa per attrarre i voti di chi rimpiange Mussolini. Punto. Uno dei libri più amati dalla comunità di Giorgia Meloni e Rachele Mussolini jr. è «Il Signore degli Anelli» di Tolkien. Entrambe ricorderanno senz’altro che l’eroe della saga non rischia la pelle per conquistare qualcosa, ma per sbarazzarsene. Lo abbiamo sperimentato un po’ tutti nella vita: si evolve solo rinunciando, anche dolorosamente, a un pezzo del proprio passato. L’Anello dei Fratelli (e delle Sorelle) d’Italia è il legame ambiguo con il fascismo. Se lo gettano via, perdono un consistente pacchetto di voti e di candidati che parlano a braccio (teso), ma in compenso possono finalmente intercettare quel vasto elettorato allergico alla sinistra, però non reazionario, che un tempo fu terreno di caccia della democrazia cristiana e di Berlusconi. Se invece l’Anello se lo legano al dito, resteranno per sempre prigionieri nella terra di mezzo: arroccati in un angolo, a destra.

Rachele Mussolini, la "colpa" del suo cognome: "Da bambina, a scuola...", l'orrore subito dalla nipote del Duce. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. È Rachele Mussolini la consigliera di Fratelli d'Italia più votata a Roma. Un vero e proprio successo quello della nipote del Duce, da sempre costretta a fare i conti con il peso del suo cognome. "Ho imparato sin da bambina a conviverci. A scuola mi additavano, ma poi è venuta fuori Rachele e la persona prevale sul proprio cognome, per quanto pesante. Ho molte amiche di sinistra. Una ha certamente votato per me. Ma non mi hanno votata per il cognome". D'altronde, come ammesso a Repubblica, la Mussolini nutre buoni rapporti con tutti. Perfino con i colleghi del Partito democratico: "La politica è una cosa, i rapporti umani un'altra". E a proposito di rapporti Rachele parla anche della sorella Alessandra Mussolini. Con lei invece "non ci sono grandi rapporti. Mio padre si è risposato. Io sono l'unica figlia nata nel 1974 dalle seconde nozze". Figlia di Romano Mussolini, uno dei figli di Benito, la consigliera di FdI dice di essere sempre stata "pudica, equilibrata. Le pose colorite non mi sono mai piaciute". Insomma alla Mussolini l'esaltazione del fascismo ha sempre dato fastidio, lasciandola perplessa: "Anche mio padre era così. Se uno gli faceva il saluto romano lui si schermiva". La sua, tiene a precisare, era una famiglia molto aperta: "Papà è stato un jazzista importante. Mi ha educato alla tolleranza. Ha portato il suo cognome con molta dignità. Inizialmente si esibiva con uno pseudonimo, poi anche per lui il jazzista ha prevalso sul cognome". A chi le contesta la presenza a Predappio, la Mussolini replica: "Lì è sepolto mio padre". Anche sul fiocco pubblicato sui social all'anniversario della morte di Benito Mussolini la consigliera ha la risposta pronta: "È mio nonno. Quel fiocco aveva un valore esclusivamente familiare".

Tony Damascelli per "il Giornale" il 6 ottobre 2021. Non bastava il cognome, ha aggiunto il nome. Dunque Mussolini e poi Rachele, il massimo della provocazione e il minimo per il disprezzo e la derisione dei suoi avversari, direi nemici. Rachele Mussolini ha ricevuto il più alto numero di preferenze nella lista di Fratelli d'Italia, ribadendo il posto nel consiglio comunale di Roma. L'elezione provoca malumori vari e commenti di repertorio, i Mussolini si portano avanti non soltanto nella storia ma pure nella cronaca. Rachele è figlia di Carla Maria Puccini, donna affascinante e attrice di televisione e di teatro, seconda moglie di Romano Mussolini; se portasse il cognome della madre non creerebbe fastidi di salotto e di piazza ma si ritrova a fare i conti con Alessandra, figlia di Maria Scicolone, prima consorte del succitato Romano grande artista di musica jazz e figlio di Benito. Va da sé che l'araldica di famiglia non segnala rapporti sempre sereni, non siamo a Parenti Serpenti (Monicelli) ma non sono tutti fratelli d'Italia, al di là dell'appartenenza di partito. Ad esempio va segnalato Caio Giulio Cesare, nato a Buenos Aires il 4 marzo del Sessantotto, pure lui Mussolini, figlio di Guido e nipote di Vittorio, primo maschio del duce, divenuto famoso anche come produttore e sceneggiatore cinematografico con lo pseudonimo di Tito Silvio Mursino (trattavasi dell'anagramma del nome e del cognome) scrivendo soggetti di un film, «Un pilota ritorna», con Massimo Girotti e Michela Belmonte, sceneggiato, tra gli altri, da Michelangelo Antonioni e diretto dalla regia di Roberto Rossellini. Vittorio, fedele al regime e al padre, dopo la guerra si rifugiò in Sudamerica da cui l'origine natale argentina del Caio Giulio Cesare sposo di Francesca Boselli e padre di Carlo Alberto che prosegue la dinastia, insieme con la sorella Costanza, la quale, dicono, si sia data all'ippica nel senso della disciplina dell'equitazione. C'è sempre aria di spettacolo nel reality mussoliniano. Ad esempio il Caio Giulio Cesare ha preso le distanze dall'Alessandra, ricordandone il curriculum di attrice del cinema e frequentatrice di gossip, territorio che lui disconosce essendo titolare di due lauree e frequentatore di tre lingue e non di salotti televisivi del pettegolezzo. La saga continua nel vociare romano, Rachele si deve difendere da pregiudizi di repertorio, nella sana democrazia nostrana il suo cognome è un handicap che non ha alcuna zona di parcheggio riservato, anzi le viene negato l'accesso a Instagram nel momento in cui ha osato commemorare l'anniversario della morte del nonno, che da vivo commise errori mille ma pure da defunto non permette a parenti vicini e lontani qualunque tipo di memoria e rispetto. La chiacchiera corre veloce nella capitale, Rachele ha spiazzato chi la dava fuori dai nuovi giochi comunali, dopo aver riconosciuto maggiore perizia e militanza politica alla «sorellastra», termine che lei respinge con fastidio, sta prendendo gusto alla carriera, lo riprovano gli oltre 5mila voti di preferenza che ha raccolto, nonostante il nome e nonostante il cognome. È un nuovo inizio, come si usa dire, evitando spettacoli in prima serata, cantando e ballando. Come palcoscenico, basta il comune di Roma.

Se i razzisti, quelli veri, parlano da antirazzisti. Alessandro Gnocchi il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nirenstein smonta le tesi di chi alimenta l'odio per gli ebrei in nome dei diritti umani. L'accusa di razzismo è forse la più infamante e comporta l'esclusione dal dibattito pubblico. Ma... Un tempo l'antirazzismo era la sacrosanta protezione delle razze perseguitate. Ora ha cambiato direzione, si è espanso, ha conquistato territori sempre più ampi e dai confini generici. I razzisti veri parlano oggi la lingua degli antirazzisti (falsi). In nome dei diritti umani, gli antirazzisti falsi si comportano proprio come i razzisti veri più violenti: linciaggi mediatici, cause giudiziarie, distruzione della libertà d'espressione... Per questo è così difficile combattere il razzismo, specie l'antisemitismo. Nella agenda dei falsi antirazzisti, è razzista rifiutare il burkini, è razzista chiedersi quali siano i benefici dell'immigrazione, è razzista difendere il diritto alla continuità storica per l'Italia e l'Europa. Tutti argomenti sui quali si può (si deve) dibattere senza correre il rischio di essere squalificati come razzisti. Gli antisemiti oggi si nascondono dietro all'antirazzismo. Ci dicono: Israele è razzista nei confronti dei palestinesi. Israele è lo Stato degli ebrei. Quindi gli ebrei sono razzisti ed eredi del vecchio colonialismo europeo. È un falso sillogismo. Ma funziona e scatena l'antisemitismo. Così l'Europa diventa un posto sempre meno sicuro per gli ebrei, un posto dove sedicenti associazioni per la pace bruciano la bandiera di Israele nelle piazze. Nel frattempo, in America, movimenti come Black Lives Matter, partendo da una giusta rivendicazione, deragliano nell'odio per il bianco e non ripudiano certo le maniere spicce. In Francia, autori come Pascal Bruckner, Pierre-André Taguieff e Alain Finkielkraut, figlio di sopravvissuti alla Shoah, ma comunque accusato di sionismo razzista, hanno cercato di smontare questo micidiale meccanismo linguistico, costruito per celare, appunto, il vero razzismo dietro alle litanie sui diritti umani. Ad esempio, Taguieff ha detto a questo giornale parole illuminanti: «Essere antirazzista nella vita sociale ordinaria significa prendere posizione contro gli incitamenti all'odio, al disprezzo, all'esclusione o alla violenza nei confronti di certe persone, a causa delle loro appartenenze o delle loro origini. Ma il presunto nuovo antirazzismo, chiamato anche antirazzismo politico dagli ideologi del decolonialismo, non è altro che una macchina da guerra contro i bianchi e la società bianca». L'antirazzismo politico esercita una critica radicale ma suicida contro l'Occidente. È erede di Karl Marx, non di Martin Luther King, perfino quando crede il contrario. Ora anche l'Italia, finalmente, porta un contributo al dibattito con il prezioso libro di Fiamma Nirenstein, Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo (Giuntina, pagg. 126, euro 10). Non è una difesa d'ufficio di Israele, semmai è una difesa ben argomentata, passo dopo passo, data dopo data, guerra dopo guerra. Terminata la lettura, non si possono mettere in discussione l'esistenza di Israele e il suo diritto a difendersi, anche con la deterrenza. Il libro va ben oltre, alla radice del problema. Come è possibile che gli ebrei siano accusati di razzismo, dopo aver subito l'oltraggio della Shoah? Spiega Nirenstein: «Molte delle manifestazioni di odio antiisraeliano che hanno un evidente aspetto antisemita hanno il loro motivo nel fatto che i movimenti filopalestinesi odierni hanno trovato, specie in America ma anche in Francia tramite il nesso islamico, un legame concettuale col tema dell'ingiustizia razziale, del razzismo coloniale, della persecuzione dei neri e delle donne nella storia. Per quanto gli ebrei solo da un osservatore molto distratto e manipolatore possano essere identificati con l'oppressore bianco o maschio, questo è proprio ciò che è accaduto. È stata la cosiddetta intersezionalità per i diritti umani il concime dell'ondata di antisemitismo attuale». Ecco qua, la saldatura errata, il trucco linguistico, la confusione lessicale fra il biasimo verso gli ebrei e l'esaltazione dei diritti umani: in un battibaleno i veri razzisti si camuffano da (falsi) antirazzisti. In realtà, per trovare un desiderio esplicito di genocidio, non si deve cercare in Israele ma tra i suoi nemici. Il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha condannato Israele in totale 95 volte. Uguale attenzione non è stata riservata all'abuso dei diritti, all'oppressione islamista, allo Statuto di Hamas, che invita a spazzare via Israele, prima tappa per soggiogare l'Occidente. Cosa sarebbe oggi la Striscia di Gaza se i leader politico-religiosi, invece di comprare missili, avessero investito nello sviluppo le centinaia di milioni di aiuti internazionali? Il libro di Nirenstein è anche rivolto agli amici, che tentennano di fronte al pericolo di essere indicati come fiancheggiatori di uno Stato accusato di non rispettare i diritti umani. Sono amici di destra e di sinistra, a ulteriore riprova che antichi schemi sono saltati. Ma il problema è ancora vivo e non riguarda soltanto gli ebrei e il risorgere dell'antisemitismo. La battaglia culturale, per i veri diritti umani, riguarda tutto l'Occidente. Alessandro Gnocchi

Shylock eterno. La menzogna antisemita degli ebrei inventori del capitalismo. Joshua Sukoff, da Unsplash. Francesca Trivellato su L’Inkiesta il 7 ottobre 2021. Il libro di Francesca Trivellato, pubblicato da Laterza, esplora una leggenda che per secoli ha accompagnato lo sviluppo dei primi strumenti finanziari (come le lettere di cambio), tanto da essere ripresa come verità dai pensatori illuministi. Ora è caduta nel dimenticatoio, ma racconta una ennesima storia di diffidenza e pregiudizio. Cleirac giunse così a formulare la sua prima tesi: «Le lettere di cambio e le polizze d’assicurazione sono ebraiche di nascita, sia per invenzione che per denominazione». Ogni espulsione venne accompagnata dalla confisca dei beni degli ebrei, i quali prima di partire – spiega l’autore – consegnarono mercanzie e denari nelle mani di persone di loro fiducia; e per riscattare il valore di questi beni all’estero, inventarono le lettere di cambio. Cleirac ne sottolineava quindi le caratteristiche di opacità – «biglietti scritti con poche parole e sostanza» –, e così facendo inaugurava un tema sui cui la letteratura successiva continuerà a tornare.

Abbiamo visto nel capitolo precedente come dietro la terminologia tecnica e le frasi laconiche delle lettere di cambio si annidassero innumerevoli diritti e obblighi. Ma il vantaggio di omettere le formule prolisse e circonvolute utilizzate da avvocati e notai poteva tramutarsi in un inconveniente. L’opacità delle lettere di cambio rendeva diffidenti quanti non erano in grado di decifrarne tutti i codici, separando così gli insider dagli outsider nei mercati del credito. Agli occhi dei cristiani, l’opacità era anche un tratto distintivo degli ebrei, che riguardava tanto la loro infedeltà religiosa quanto la loro slealtà economica, e li rendeva sospetti di essere una cricca di infedeli dedita ai raggiri. Per i cristiani, insomma, gli ebrei erano enigmatici come una lettera di cambio: avevano respinto la natura divina di Cristo e continuavano a seguire tradizioni e riti che i cristiani trovavano incomprensibili e irrazionali. La pubblicazione, nel 1637, della prima spiegazione dei rituali religiosi ebraici destinata a un pubblico cristiano, la “Historia de’ riti hebraici” del rabbino veneziano Leon Modena, non servì a dissipare questa impressione diffusa; ancora all’epoca della Rivoluzione francese, i massimi fautori dell’eguaglianza dei diritti per gli ebrei invocarono l’eliminazione dell’yiddish (descritto talvolta come un «gergo todescoebraico-rabbinico»), perché lo consideravano da un lato un segno di ignoranza e dall’altro la fonte di infiniti raggiri perpetrati da prestatori ebrei ai danni di poveri contadini ignari di quella lingua. Dopo aver inventato questi portentosi biglietti (un’affermazione che, apparentemente, non richiedeva ulteriori prove), secondo Cleirac gli ebrei impiegarono le loro superiori abilità finanziarie per assicurarsi di «non essere truffati al cambio» o addirittura «per ricavarne un profitto». In questa storia, gli ebrei e pochi prestatori cristiani loro adepti erano gli unici depositari di tutte le conoscenze utili, sia riguardo al cambio della valuta straniera, sia riguardo al valore intrinseco delle monete metalliche, comprese quelle sullo svilimento (cioè la diminuzione del contenuto di metallo prezioso), sul signoraggio (ovvero i redditi ricavati dalle autorità sulla coniazione di nuova moneta) e sulla tosatura (cioè la rasatura del metallo prezioso dai bordi della moneta). Cleirac, e con lui i suoi lettori, davano dunque per scontato che gli ebrei possedessero la perizia necessaria per controllare la volatilità dei mercati finanziari. Agli occhi dei cristiani, gli ebrei erano un gruppo di interesse coeso e dotato di un talento innato per il commercio, che disponeva di un indebito vantaggio sui propri concorrenti e prosperava ingannando clienti male informati. Le accuse di infedeltà in materia di religione e di opportunismo in materia di economia si rafforzavano a vicenda. Cleirac sembra aver scelto con cura le parole: sebbene fossero entrate nell’uso corrente all’epoca in cui scriveva, quelle con cui si riferiva agli ebrei erano pur sempre cariche di significati teologici. Affermava infatti che gli ebrei erano stati banditi dalla Francia «per i loro misfatti e crimini esecrabili», una formula di origine ecclesiastica entrata nel linguaggio comune con riferimento a ebrei ed eretici. Descriveva inoltre gli ebrei come «furbi infami» (dove infami significa, secondo l’etimologia, privi di fama, cioè di pubblica fiducia o reputazione, pertanto sforniti di una qualità indispensabile per partecipare alla vita sociale) e «persone prive di coscienza». Per lui gli ebrei erano sempre separati dal mondo che li circondava e, nutrendo «diffidenza» anche nei confronti di coloro che li aiutavano a fuggire, fecero tesoro della loro destrezza per tramutare «i rischi e i pericoli di un viaggio» in «un dono o un prezzo modesto», ovvero in profitto. Questa presunta ossessione degli ebrei per il guadagno era un sintomo della loro separazione dalla società cristiana e del loro mettere le proprie abilità finanziarie al servizio dell’interesse personale invece che di quello collettivo. In un libretto più tardo (pubblicato un anno prima della sua morte), dedicato esclusivamente alle lettere di cambio (un genere di monografia allora relativamente nuovo) e intitolato Usance du négoce, il linguaggio di Cleirac si caricava ulteriormente di significati teologici. Non solo qualificava di nuovo gli ebrei come «infami», ma giungeva ad affermare che il commercio di lettere di cambio non si era mai affrancato dal «suo peccato originale, cioè la perfidia ebraica». Perfidia era un’altra parola chiave del linguaggio teologico, ricca di echi e risonanze. Derivata dalla parola latina che indicava il rifiuto degli ebrei di riconoscere la natura divina di Cristo, transitando nelle lingue volgari europee acquisì un significato al contempo più ampio e più minaccioso e divenne sinonimo della generale inaffidabilità degli ebrei e della loro esclusione dalla cristianità. Perfidia era anche un lemma strettamente legato all’usura. Il canone 67 (Quanto amplius) del Concilio Lateranense IV del 1215, dedicato interamente all’usura ebraica e citato da Cleirac nel suo commento sull’assicurazione marittima, prendeva le mosse dalla nozione che «la perfidia degli ebrei» (Iudaeorum perfidia) – ossia ciò che li spingeva a esigere tassi di interesse esorbitanti – era cresciuta in proporzione alla capacità dei cristiani di astenersi dal prestito a interesse, e dunque drenava denaro e risorse dalla comunità cristiana. Poco dopo il Concilio Lateranense IV, il re di Francia fece realizzare un manoscritto riccamente illustrato dove questi e altri precetti dottrinali vennero tradotti in un sinistro repertorio visivo. Il commento di Cleirac rivela la straordinaria longevità della retorica e dell’immaginario antigiudaici medievali: intorno alla metà del XVII secolo era ancora possibile attingere a una serie di consolidate associazioni lessicali e discorsive per dipingere l’assicurazione marittima e le lettere di cambio come «ebree di nascita» e frutti di un «intrigo ebraico».

da “Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata”, di Francesca Trivellato, Laterza, 2021, pagine 384, euro 25

·        Le donne di sinistra che odiano le donne.

Niccolò Magnani per ilsussidiario.net il 21 ottobre 2021. «Quando un uomo arriva a fare una violenza contro una donna, nella sua testa malata, ha l’idea di essere lui proprietario della vita di un’altra persona. Provate a pensare che danni può creare l’idea della proprietà privata»: le parole dette sabato dal leader Cgil Maurizio Landini durante la manifestazione “Contro i fascismi” sono emerse solo in queste ultime ore ma (comprensibilmente) hanno scatenato social e politica. Il "salto" logico impressiona e inquieta, con un “revanscismo” in salsa comunista che viene appiccicato dal leader infervorato (gli concediamo la parziale scusante della foga con cui stava aizzando la folla nel comizio contro la minaccia “fascista”) contro una vicenda grave come le violenze di genere e i cosiddetti “femminicidi”. Dalle panchine alle scarpette rosse, è proprio da sinistra che tradizionalmente si alza l’invocazione di leggi per proteggere le donne dai mariti/compagni/uomini violenti: con la dichiarazione di Landini però la gaffe è immediata, anche se non è certo l’unica in quelle parole partorite dal palco di Piazza San Giovanni a Roma. Ma come ci è arrivato Landini a dire una “cosa” del genere? Il discorso era partito dal “salto culturale” necessario da fare per superare le differenze latenti ancora nel nostro Paese: e così il segretario generale della Cgil sottolineava a gran voce, «Dobbiamo fare un salto culturale. In particolare noi uomini, perché questo è il Paese delle differenze che aumentano tra uomini e donne, ma questo è il Paese in cui anche durante la pandemia, sono aumentate le violenze contro le donne, e la vogliamo dire in italiano, senza girarci intorno: la violenza contro le donne la fanno gli uomini, e se ci pensate qui c’è un punto fondamentale». Ecco, è proprio sul “punto” che cade il già fragile eloquio landiniano: «Quando un uomo arriva a fare una violenza contro una donna, nella sua testa malata, ha l’idea di essere lui proprietario della vita di un’altra persona. Provate a pensare che danni può creare l’idea della proprietà privata: le persone non sono proprietà di nessuno». Insomma un femminicidio, un delitto atroce di un uomo contro la compagna, non è imputabile solamente alla furia egoista e disperante scaturita in un malsano rapporto di coppia: no, c’è una motivazione ben più “grande” e che affonda le radici in Marx, Engels e Lenin. Il problema è la proprietà privata, sì, per Landini è proprio quel concetto tra l’altro permesso e garantito dalla Costituzione (quella super-antifascista di cui, giustamente, ci si vanta ad ogni comizio della Cgil). Laconico e, per il sottoscritto, condivisibile il commento piccato dato da Francesco Specchia oggi su “Libero” in merito al “caso Landini”: «Quello di Landini è un automatismo. Non è colpa sua, è il vecchio istinto da falce e martello. Sin da quando era apprendista saldatore, appena sente, legge o vede “proprietà privata” – dai libri di Adam Smith ai cartelli attaccati ai cancelli sotto i divieti di sosta - Landini va quasi in trance, si irrigidisce e gli torna su tutto Marx: la proprietà privata è un furto, la sua abolizione è l’essenza del comunismo…». Fa specie che il fondatore di “Libera” Don Luigi Ciotti, sacerdote presente sul palco della manifestazione Cgil a fianco di Landini, non abbia di che contestare del “passaggio illogico” fatto dal sindacalista.

Perché una donna sceglie di stare a destra. Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo uno stralcio dal terzo capitolo, dedicato agli anni Ottanta, di La donna s'è destra. L'altra storia della cultura e della politica femminile italiana di Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara. Per gentile concessione dell'editore Giubilei Regnani, pubblichiamo uno stralcio dal terzo capitolo, dedicato agli anni Ottanta, di La donna s'è destra. L'altra storia della cultura e della politica femminile italiana di Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara. Il saggio (pagg. 228, euro 17) è in libreria dal 25 settembre. Italia, 1988. Un anno prima della caduta del muro di Berlino, due anni prima dell’implosione dell’Unione Sovietica. Nel mondo si stava alzando un refolo di cambiamento che da lì a poco sarebbe esploso in una tempesta che avrebbe lavato via tutte le scorie dell’inizio del Novecento, ma in Italia era ancora tutto fermo: il clima per i giovani di destra era sempre quello di vent’anni prima. Tutto doveva essere conquistato, giorno per giorno, con tenacia, incoscienza e molta testardaggine. Secondo alcune, quegli anni sono stati una sorta di naja, la costruzione di un metodo – «nulla è dovuto, tutto va conquistato» – che poi utilizzeranno nel corso delle loro carriere professionali o politiche. Ma il clima di caccia alle streghe nei confronti delle donne di destra arriva, in modo meno violento ma sempre insidioso, fino agli anni Duemila. «Io non ho vissuto ovviamente gli anni di Piombo per questioni di età», racconta Chiara Colosimo, prima mi- litante di Azione Giovani e ora consigliere regionale della Regione Lazio, «ma essendo cresciuta nella sezione di Giorgia Meloni ho conosciuto i compagni. Parliamo dei primi anni del Duemila, la Garbatella è l’unico municipio di Roma con otto centri sociali, era un laboratorio politico di extraparlamentari di 75 sinistra. Io ho iniziato a scuola molto presto, subito dopo la scuola sono andata alla sezione di Garbatella e per un periodo ho fatto anche il segretario giovanile. Ero in prima linea e ci sono stati diversi episodi di violenza. Una notte siamo stati aggrediti e alcuni miei amici sono finiti al pronto soccorso. La sezione era molto attiva, quando apriva, tutti i pomeriggi si trovavano scritte sopra la serranda, il clima fino a sette-otto anni fa era molto diverso rispetto a quello che succedeva nel resto della città e delle città». Altri tempi, certo. Ma serpeggia sempre lo spettro dello scontro fisico, l’idea che impegnandosi attivamente in politica si debba mettere in conto anche la violenza. A quarant’anni di distanza da Acca Larenzia e dall’omicidio di Sergio Ramelli, essere di destra può essere ancora pericoloso. A questo punto non si può evitare un quesito: perché così tante donne, nel corso degli anni, hanno deciso di schierarsi a destra, di imboccare la strada più scomoda, di rischiare di essere sequestrate, insultate o più generalmente emarginate? Sicuramente hanno contribuito la forza dell’ideologia, la spericolatezza dell’età, il gusto per il rischio e un po’ di spirito da bastian contrario. Ma anche la fascinazione per le proprie radici, il peccato originale di essere germogliati nel prato sbagliato della storia del Novecento e di volerlo rivendicare con orgoglio. Il mito 76 della Repubblica Sociale e i racconti delle rappresaglie partigiane a guerra finita, il senso di vendetta per le ingiustizie che si riteneva di aver subito, contribuiscono a consolidare un mondo a parte. Una società dentro la società, che ha le sue regole, i suoi riferimenti culturali, i suoi linguaggi e le sue liturgie. Un mito che rafforza la propria identità, ma che rischia di trasformare il ghetto in una comfort zone dalla quale non è facile uscire. «La forza ce la dava il fatto di credere fortemente in qualcosa, il senso di cameratismo, ti sembrava di tradire i tuoi amici se anche tu ti fossi tirato indietro, il fatto di essere attaccati in questo modo non faceva che convincerci di più. A 20 anni hai il mondo in mano, ti senti immortale, c’è un coraggio anagrafico e un coraggio di gruppo e poi la convinzione di essere sempre più democratica a fronte dell’intolleranza insopportabile», rammenta Stefania Paternò. 

Francesco Maria Del Vigo. Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

La destra italiana? Parla al femminile. Eleonora Barbieri il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Idee, lotte e vite delle donne "non di sinistra": spesso vituperate, tutt'altro che irrilevanti. L'altra metà del cielo è facilmente divisa a sua volta. Succede perfino nella lotta alla discriminazione, come dimostrano decine di polemicucce trite, i j'accuse e l'indifferenza calibrati col bilancino, a seconda dell'area di appartenenza. Donne, sì, ma non proprio tutte uguali... E, anche nella storia del nostro Paese (o meglio, nella sua autorappresentazione politico/ideologica) ci sono donne e donne, cioè donne di sinistra - portabandiera della narrazione del femminismo e della battaglia femminile - e donne di destra - curiosamente, quasi inesistenti o, se esistenti, da criticare. Eppure, le donne a destra ci sono state, e ci sono, nel senso che nel corso del Novecento italiano è esistito «un mondo femminile politicamente impegnato, culturalmente attivo e socialmente partecipe» anche «al di là della sinistra», come raccontano Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara in La donna s'è destra (Giubilei Regnani, pagg. 228, euro 17; in libreria dal 25 settembre); in appendice al saggio, una intervista a Giorgia Meloni, unica donna a capo di un partito nel nostro Paese. Una realtà nonostante la quale, ancora oggi, molti e molte rimangono convinti che certe battaglie siano appannaggio di una parte sola, quella «giusta», cioè la sinistra. E basta. Certo, come spiegano Del Vigo e Ferrara, per molti anni la destra ha proposto una narrazione di sé fatta di una «realtà virilmente rappresentata dal corpo del capo, dall'epica delle marce e delle trincee, dallo sforzo e dallo scontro fisico»; ma, dal Futurismo in poi, passando per Fiume, il Ventennio e la Seconda guerra mondiale e, in seguito, attraverso la fondazione dell'Msi, le battaglie degli anni Ottanta, la nascita di An e poi l'arrivo al governo dopo il '94, a destra le donne hanno un ruolo, portano avanti le loro idee e hanno vite a volte straordinarie (come Margherita Besozzi o Piera Gatteschi), a volte terribilmente segnate dalla violenza, come accade negli anni Settanta. Un capitolo, guarda caso, facilmente dimenticato...«Ci sono storie, esperienze ed esistenze dimenticate per pigrizia, per indolenza, per il timore di confrontarsi con un'idea differente dalla propria e poi magari scoprire di avere qualcosa in comune» dicono gli autori e, forse, proprio queste cose in comune sono quelle che incutono più timore, soprattutto sotto la stessa metà del cielo. Invece sono storie che vale la pena (ri)scoprire. Eleonora Barbieri

Insulti, sputi, violenze, sequestri e minacce. Così i "compagni" attaccavano le ragazze. Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Le testimonianze sconvolgenti delle giovani di destra negli anni Settanta. Per alcuni, gli anni Settanta sono stati una scuola di vita: in quel periodo hanno gettato le fondamenta del proprio futuro politico e hanno intessuto quella trama di rapporti di amicizia e fratellanza che ancora oggi sussiste. Per altri, sono un passato scomodo, magari rinnegato, del quale si preferisce non parlare. E anche sulla violenza le testimonianze sono discordanti: c'è chi la ricorda come un'esperienza necessaria, chi come una persecuzione e chi invece tende a minimizzarla o a rimuoverla. Ma tutti tratteggiano un paesaggio fosco, nel quale la caccia al camerata era tollerata, se non addirittura incentivata dai ceti intellettuali dominanti. Alcuni diritti basilari, come il diritto allo studio o il diritto di esprimere le proprie idee, erano di fatto sospesi per chi stava a destra. Picchiare, sputare, insultare, sequestrare, svilire una donna di destra, in alcuni contesti, era considerato normale. Lo ripetiamo: visto con gli occhi di oggi sembra una follia. Ma stiamo parlando di un Paese nel quale i camerieri si rifiutavano di servire un caffè a Giorgio Almirante perché fascista e nel quale si sosteneva che «uccidere un fascista non è un reato». Questo è il contesto, la cornice all'interno della quale si muovono le ragazze del Fronte della Gioventù, del FUAN. Erano nel mirino perché chi vedeva nei giovani missini un nemico da combattere pensava di stare lottando per la libertà. Nel nome della quale credeva fosse legittimo utilizzare qualunque mezzo. Per calarsi in quell'epoca bisogna rivedere il concetto di situazione di pericolo e, come vedremo, non era necessario infilarsi in una manifestazione tra le croci celtiche e le fiamme tricolori per finire nei guai. «Il clima terribile degli anni di piombo registrava episodi di violenza persino nell'acquisto di un giornale all'edicola se, per esempio, era una testata ritenuta di destra. Per quanto mi riguarda, ricordo l'episodio di bullismo accaduto il giorno della discussione della mia tesi di laurea su Ugo Spirito a Scienze Politiche con relatore Augusto Del Noce. All'uscita della facoltà mi aspettavano un centinaio di studenti di sinistra che pensarono bene di accompagnarmi in corteo, con tutta una serie di insulti e cori non certo di simpatia, solo perché avevo trattato un autore che non rientrava nei loro paradigmi. Alcuni anni più tardi anche sotto all'ufficio spesso e volentieri mi ritrovavo scritte con il mio nome che mi imputavano la responsabilità dei più efferati fatti di cronaca. Per non parlare di altri episodi più gravi di discriminazione che mi sono accaduti addirittura quando ero sul posto di lavoro e in gravidanza», ricorda Marina Vuoli, militante e moglie di Teodoro Buontempo, storico esponente del MSI. Sembrano cronache di guerra: centinaia di persone che accompagnano una ragazza nel giorno della sua laurea solo perché ha trattato argomenti non di sinistra, intimidazioni, insulti, minacce. E poi la discriminazione, un termine ancora oggi molto in voga e, a volte, usato in modo improprio. (...) «Io mi sono reso conto della pericolosità del periodo quando è morto uno della mia sezione, Acca Larenzia. Quella è stata una tragedia, un evento che ha segnato la mia vita. È stato un episodio di rottura, perché ti rendi conto che il contesto è drammatico e tragico. Non c'era alcuna differenza tra ragazzi e ragazze. Anche le ragazze si difendevano bene davanti alle manifestazioni non autorizzate e alle cariche della polizia, però c'era una protezione fortissima da parte dei maschi. Erano molto paterni, non le consideravano inferiori, nelle sezioni del MSI non ho mai visto episodi di maschilismo esasperato», spiega Annalisa Terranova, ex animatrice di Eowyn e del Centro Studi Futura, autrice del libro Camicette Nere e poi redattrice del Secolo d'Italia, introducendo un duplice tema. Innanzitutto, quello della tragedia, dell'evento drammatico che svela i rischi che stanno correndo dei ragazzi in alcuni casi nemmeno del tutto consapevolmente semplicemente facendo politica. E poi il tema della violenza che si abbatte in egual misura e senza nessuna distinzione su ragazzi e ragazze. Una guerra invisibile che si protrae per anni, nell'indifferenza generale. «Credo di poter dire che quel periodo, dal secondo semestre del 1970 sino al 1980, fu caratterizzato da un vero e proprio stato di guerra civile. Ricordo mio padre che metteva i sacchetti di sabbia dietro la porta di casa per paura di incendi dolosi. La caccia al fascista era diffusa nelle scuole, e all'università il FUAN di fatto chiuse i battenti per qualche anno», racconta Andrea Augello, ex militante del Fronte della Gioventù, poi saggista e parlamentare italiano. Scegliere di stare a destra ed essere una donna, in quegli anni, significava quindi imboccare una via in salita. E significava, soprattutto, scegliere la strada della ghettizzazione e della marginalizzazione, perché l'etichetta, il marchio a fuoco, era qualcosa che difficilmente si poteva cancellare. Entrando in una sezione del Fronte della Gioventù o del FUAN, mettendo una firma su quella tessera si entrava in un club esclusivo, ma al rovescio.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati. 

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...Dal 2015 sono viceresponsabile del sito de il Giornale e responsabile dei collaboratori esterni. Ho scritto "Il metodo Salvini", edito da Sperling & Kupfer. Per la collana Fuori dal coro del Giornale ho pubblicato: "Gli estremisti delle nostre vite"; "La sinistra dei fratelli 

Emilio Pucci per “il Messaggero” il 22 marzo 2021. «O si cambia o si muore». Il neo segretario del Pd Enrico Letta lo aveva già annunciato nella direzione nazionale, soprattutto parlando del tema della parità di genere. Un obiettivo che ieri ha iniziato a prendere consistenza, prima quando ha chiesto in un' intervista - spaccando le correnti - che i due posti da capogruppo a Camera e Senato vengano occupati da delle donne, e poi quando il suo ministro del Lavoro Andrea Orlando è intervenuto lanciando una proposta: «Bisogna valutare l' introduzione di piattaforme anonime per denunciare la violazione del Codice per le pari opportunità» ha detto intervenendo al webinar Obiettivo 62% - l' occupazione femminile come rilancio nazionale. «Sarebbe uno strumento che si potrebbe studiare per evitare che, durante le assunzioni, una donna sia discriminata rispetto ad un candidato uomo» ha detto. La proposta 'idea ha generato un vortice di consensi e dissensi nel partito. Alcuni la ritengono «un mostro giuridico perché difficilmente attuabile» in quanto «andrebbe a ledere l' autonomia di giudizio» (come ci si potrebbe difendere dalle querele temerarie?). Per altri, come il senatore Mirabelli, capogruppo dem in commissione giustizia, «È una proposta che dà il senso di quanto sia necessario eliminare le discriminazioni sul lavoro, ancora evidenti nonostante le leggi esistenti».

LE CORRENTI. Ma c' è anche chi fa notare il tempismo tra la mossa di Letta e la dichiarazione di Orlando. Nella seconda ci sarebbe una sponda del ministro al segretario, arrivata proprio mentre quest' ultimo prova a far leva sulla questione delle quote rosa per scalzare i capogruppo Delrio e Marcucci. Base riformista ad esempio, la vede come un tentativo di cambiare con forza gli equilibri interni. «È una mossa alla Renzi con il lanciafiamme», spiega un deputato. «C'è - ha sottolineato Letta - un problema enorme di presenza femminile nel partito: tre ministri sono uomini, io sono un uomo. Non possiamo fare una foto di gruppo del vertice del partito e presentare volti di soli maschi». Non è però una bocciatura, a suo dire, per Delrio e Marcucci, sono «fra le figure di maggiore rilievo che abbiamo». «Mi sono battuto - ha ricordato Delrio - perché a 3 delle 5 presidenze delle commissioni alla Camera spettanti al Pd fossero indicate donne. Condivido anche che, in ogni caso, l' autonomia dei gruppi parlamentari vada rispettata». Delrio darà la sua disponibilità a fare un passo indietro ma a decidere saranno i deputati. Se poi si andasse subito alla votazione Serracchiani o Ascani avrebbero più chance rispetto a De Micheli e Madia. La tesi, anche al gruppo dem al Senato, è che debba ripetersi lo schema' Benifei, il capodelegazione del Pd in Ue che si è dimesso e poi è stato riconfermato. «Basta con le appartenenze per filiere, con le affiliazioni di potere» è però la linea del Nazareno. In ogni caso Letta vuole chiudere in fretta, aveva annunciato la richiesta a Delrio e Marcucci sabato ma senza specificare che avrebbe poi fatto un' intervista al Tirreno' e alla Gazzetta di Reggio'. «A casa dei due capigruppo - dicono fonti dei gruppi dem - è stata una mancanza di stile». Ieri i big' di Base riformista, area guidata da Guerini, si sono riuniti in video collegamento. A palazzo Madama la situazione è più complessa, la maggioranza dem ricorda che i ruoli apicali sono ricoperti tutti da figure maschili. «Il Pd non è un partito personale», spiega un senatore. Il sospetto in Base riformista è che Letta voglia un' umiliazione politica, che non consideri il lavoro svolto dal gruppo in questi anni. «Per gli incarichi dello stesso Letta e del ministro Orlando, la parità di genere evidentemente non era una priorità», la tesi.

DAGONOTA il 22 marzo 2021. Letta vuole due donne alla guida dei gruppi parlamentari del Pd. Ma a guardare la fine che hanno fatto le ministre del suo governo, verrebbe da dire a Enrichetto di lasciar perdere l'idiozia politicamente corretta delle quote rosa. Le "sue" magnifiche sette erano Emma Bonino, Annamaria Cancellieri, Maria Chiara Carrozza, Nunzia De Girolamo, Josefa Idem, Cecile Kyenge e Beatrice Lorenzin. Di loro, solo Emma Bonino e Beatrice Lorenzin sono rimaste in politica (e in Parlamento). Anzi, Emma Bonino ha da poco dato l'addio a +Europa, dopo essere finita nel mirino degli altri radicali liberi. Le altre sono state o travolte dagli scandali o dagli elettori. La campionessa olimpica Idem fu impallinata due mesi dopo il giuramento per la famosa questione dell’ ICI non pagata: prima escluse le dimissioni e poi fu praticamente costretta a rassegnarle il 24 giugno del 2013 (l’esecutivo si era insediato il 28 aprile). Di Maria Chiara Carrozza si sono perse le tracce: aveva lasciato la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa per la Camera dei Deputati ma, dopo la non esaltante esperienza da ministro dell’Istruzione, non fu nemmeno ricandidata nel 2018. Cecile Kyenge avrebbe invece tanto voluto continuare la sua esperienza in politica, solo che gli elettori non erano d’accordo. Dopo una prima elezione all’europarlamento nel 2014, si ricandida alle elezioni europee nel 2019 nella circoscrizione Nord-Est ma si piazza ottava e non viene rieletta. L’unica vittoria che ottiene è quella in Tribunale contro Calderoli, che l’aveva apostrofata “Orango” ed è stato condannato a 18 mesi (ma lui è ancora in Senato). Infine, che dire di Nunziarella De Girolamo? Dopo le dimissioni per lo scandalo della ASL di Benevento e la sconfitta alle elezioni del 2018, la moglie di Boccia ha deciso di smettere i panni della politica per indossare quelli da showgirl: prima come “inviata” di Giletti, poi come concorrente di “Ballando con le Stelle” e infine con un programma tutto suo in Rai, dal titolo a suo modo evocativo, anche per il neo segretario del Partito Democratico: “Ciao maschio!”.

Laura Mari per repubblica.it il 24 marzo 2021. "Chiedo di sottoscrivere la candidatura non di Andrea Marcucci ma di Simona Malpezzi". Lo ha detto il capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci, in una conferenza stampa al Senato, parlando della nuova capogruppo dem. Parole che sanno di resa dopo la lunga assemblea di ieri dei senatori dem con il segretario del Pd, Enrico Letta. Proprio Letta aveva chiesto a Marcucci un passo indietro analogo a quello fatto dal capogruppo della Camera, Graziano Delrio, così da poter nominare come responsabili  dem a Palazzo Madama e Montecitorio due donne. Una richiesta su cui il senatore dem si era riservato di decidere, spiegando che avrebbe comunicato la sua scelta durante l'assemblea dem a Palazzo Madama di domani. Una riunione in cui sarà votato il nuovo capogruppo. Dunque, domani all'assemblea dei dem a Palazzo Madama Marcucci si presenterà dimissionario e non si ricandiderà ma, con il gruppo riformista, proporrà la nomina a capogruppo Pd in Senato di Simona Malpezzi. "Abbiamo bisogno di qualità, di uomini e donne capaci, con esperienze e capacità necessarie a svolgere un ruolo così delicato. Mi auguro di votare Malpezzi all'unanimità, lo merita, la componente riformista del mio gruppo sostiene questa mia decisione, questa è la strada che abbiamo scelto", ha spiegato Marcucci durante la conferenza stampa. Il senatore ha poi aggiunto: "Vedrò fra poco Letta,  gli ho già comunicato questa nostra scelta, nelle prossime ore raccoglieremo le firme, sono felice, orgoglioso di quello che abbiamo fatto in questi tre anni". Il senatore non nega comunque le divergenze di opinioni con il segretario del Pd. "Con Letta sono stato molto franco - ha spiegato - ho sollevato critiche sul metodo e ho detto che ci vuole coerenza. Voglio vedere per esempio i candidati sindaci del Pd nelle grandi città, mi auguro che anche lì si lavori per avere tante candidate". Poi il senatore ha chiarito: "Non ho intenzione di lasciare il gruppo, né il partito, né di chiedere ruoli per me. Qualcuno anche di prestigio mi è stato offerto".

Carlo Lottieri per “il Giornale” il 22 marzo 2021. È uno Stato fallito quello che non è in grado di far rispettare la legge e che per giunta chiede ai cittadini di avanzare accuse anonime, dato che è incapace di tutelarli. Per questo fanno rabbrividire le parole usate dal ministro del Lavoro del Pd, Andrea Orlando, che di fronte all' ipotesi che vi siano imprese che non rispettano qualche norma in tema di parità di genere ha sottolineato la necessità di «studiare meccanismi di piattaforme anonime in cui denunciare chi viola questa regola». Invitare a delazioni in incognito vuol dire prendere atto che vi sono soggetti che non possono liberamente esprimersi e rivendicare le proprie prerogative in maniera aperta; al punto che lo Stato chiede loro di avanzare accuse a volto coperto. Per giunta, è evidente che chi propone tutto questo desidera soltanto un aumento della conflittualità sociale e, di conseguenza, una disgregazione del nostro tessuto civile. Questo è grave in generale, ma ancor più in questo momento storico, se si considera che le scelte politiche adottate in quest' ultimo anno ci hanno cacciato in una crisi terribile e non appena sarà tolto il blocco dei licenziamenti si dovrà fare i conti con tensioni sempre maggiori. Appare chiaro, però, che per gli eredi del vecchio Pci i «padroni» restano i nemici di sempre e ogni mezzo può essere usato per continuare, in altre forme, una lotta di classe mai del tutto abbandonata. Se in generale è inquietante uno Stato che incita taluni cittadini a denunciarne altri, nello specifico va anche detto quanto sia ridicola la giustificazione che viene data dal ministro. La proposta nasce dalla preoccupazione che in molti casi non sia rispettata quella norma secondo cui un datore di lavoro non potrebbe rivolgere talune domande a una candidata all' assunzione. In particolare, questo è il tema, si tratta di evitare che egli chieda se la futura dipendente intendere avere figli, è incinta o vuole sposarsi. Questa rocciosa difesa di tale norma, spinta fino alla promozione di denunce anonime, pare proprio ignorare che lungo questa strada le imprese nemmeno convocheranno le candidate e preferiranno orientarsi ancor di più verso i candidati maschi: o ulteriore danno delle donne. Le ragioni delle difficoltà femminili sul mercato del lavoro sono nell' interventismo statale ed è lì che si dovrebbe intervenire. Quello che gli statalisti non capiscono è che con simili misure illiberali non si promuovono davvero i diritti di tutti, e in questo caso delle donne, perché ogni intervento di questo tipo provoca reazioni. Ovviamente la sinistra sogna una società in cui tutte le imprese siano pubbliche o comunque regolamentate in ogni dettaglio. In un certo senso ha ragione, perché solo un sistema produttivo di quel genere potrebbe seguire passivamente ogni tipo di direttiva. Se vuoi pianificare la vita di tutti, in effetti, la libertà di parola, scelta, iniziativa e via dicendo sono ostacoli da eliminare. Con meno libertà e più denunce anonime, però, ci aspetta un futuro assai penoso.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore,  per Dagospia il 24 marzo 2021. Caro Dago, avrei deciso di venire incontro a un’ossessione tutta interna al Politicamente Corretto che sta turbando assai le notti di Enrico Letta, neosegretario del Piddì (o di quel che ne rimane). Da quando è rientrato in Italia dall’esilio (ben poco) volontario parigino, Letta sta infatti tutto meno che sereno, e ha mostrato da subito di calarsi nelle priorità avvertite dalla popolazione dentro la più grande emergenza dal Dopoguerra: lo ius soli, il voto ai sedicenni e la sottorappresentanza delle signore all’interno degli organismi dirigenti del Piddì. I primi due temi eccedono le modeste forze di chi scrive, ma sul terzo vorrei dare a un leader pur così lucido e concreto un piccolo consiglio non richiesto. Per cui mi perdonerai, caro Dago, se da ora mi rivolgerò direttamente a lui: esimio segretario, lei ha l’opportunità straordinaria di conferire due cariche di spessore all’interno del partito a due donne che rappresenterebbero un simbolo straordinario, che racchiuderebbero tutta una “narrazione” (come dicono i consulenti di moda al Nazareno, quelli che invariabilmente perdono le elezioni) sul lavoro femminile mortificato, sul gap salariale, sull’arretratezza culturale del Paese. Penso, chessò, a due vicepresidenze, magari anche una vicesegretaria, o una delega speciale per la “questione femminile” e le “battaglie di genere”, quel genere di cose per cui incasserà in automatico l’unanimità in assemblea e gli applausi dei giornaloni d’area (cioè quasi tutti). Pensi, segretario, la prima di queste due donne, la signora Lilia, è una collaboratrice domestica moldava, che ha sgobbato a lungo per una personalità molto potente, e che ha dovuto rivolgersi al patronato del Caf e a un legale perché a 10 mesi dall’interruzione del rapporto lavorativo non ha ancora ottenuto la liquidazione, peraltro consistente in una cifra ridicola rispetto alle disponibilità della personalità in questione. Una lavoratrice straniera impegnata in una rivendicazione a difesa del proprio salario contro un membro reticente dell’establishment, è perfetta. La seconda donna che mi permetto di suggerirle, eminente segretario, per un ruolo apicale nel Piddì, è la signora Roberta. Si figuri, Roberta ha perfino fatto da assistente parlamentare alla personalità potente. O meglio, assistente parlamentare sulla carta, in realtà la professionalità di Roberta era costantemente svilita e mortificata con la continua richiesta di attività politicamente salienti come ritirare in lavanderia gli abiti della suddetta personalità, comprarle giacche e pantaloni, prenotarle il parrucchiere. Addirittura, a maggio Roberta chiede alla personalità di prolungare lo smart working, perché uno dei suoi figli ha un grosso problema di salute e i pochi treni rimasti (da Lodi) sono costosissimi a fronte di uno stipendio mignon, e l’umanissima risposta che ottiene suona: beh ma cara, col lockdown hai risparmiato. Insomma, Roberta è uno spot vivente contro il demansionamento costante delle donne, l’impossibilità in questa nazione di coniugare maternità e professione, l’abitudine dei datori di lavoro (specie di fronte a giovani di sesso femminile) a non rispettare ruoli contrattualizzati e competenze acquisite. Per una volta, l’abusatissima espressione “storia paradigmatica” corrisponde al vero, quella di Roberta è una storia paradigmatica sullo stato delle politiche di genere e delle politiche del lavoro di quest’Italietta scassata e guastata da anni di becera propaganda sovranista. Come dice, segretario? La personalità potente in questione è l’ex presidente, pardon “presidenta” (la desinenza, segretario, la desinenza sessualmente corretta, accidenti a lei!) della Camera Laura Boldrini? Del Piddì, e del bel mondo arcobaleno, femminista, antisessista, Politicamente Correttissimo internazionale? Scusi, cancelli tutto.

Alessandra Arachi per corriere.it il 9 aprile 2021. Un post sulla sua pagina Facebook e un messaggio indirizzato direttamente ai colleghi parlamentari: «Care e cari, devo operarmi e starò lontana dai lavori parlamentari, mi dispiace molto ma è così». Laura Boldrini, ex presidente della Camera e ora deputata del Pd, ha voluto far sapere del suo intervento chirurgico a cui si sottoporrà oggi per un tumore, senza nascondere la sua paura. «Dopo giorni e giorni di accertamenti è arrivata la notizia che più temevo, che ogni persona maggiormente teme», scrive l’ ex presidente della Camera sul suo profilo Facebook, quasi scusandosi per questo intervento che la terrà lontana dalla politica. Non sarà una operazione lieve, lo dice lei stessa parlando di settimane e settimane che la porteranno lontana dai suoi impegni parlamentari e politici, spiegando che è proprio «per questo motivo che ho voluto rendere nota la mia malattia, perché dovrò stare lontana dai lavori della Camera per l’intervento e poi mi attende un cammino di cure e di riabilitazione». Boldrini, alle soglie dei sessant’anni, scrive con grande umanità un post dove mette in rilievo in maniera esplicita: la sua fragilità umana. «Ho paura? Sì un po’ di paura». Non ha dubbi: «Penso che chiunque al mio posto avrebbe paura. Al tempo stesso però ho una grande fiducia in chi mi opererà e ho anche la determinazione di combattere per ritornare presto alla normalità della mia vita». Boldrini subì un intervento alla tiroide nel 2016, nel reparto di endocrinologia dell’ospedale Cisanello di Pisa. All’epoca Boldrini sedeva sullo scranno più alto di Montecitorio, eletta all’ epoca nelle file di «Liberi e uguali». Ieri sera, dopo aver annunciato la malattia, l’ ex-presidente della Camera si è stretta ai suoi familiari, accanto a lei la figlia Anastasia, e i parenti più stretti. «Purtroppo la malattia fa parte della vita, ma non si è mai pronti ad affrontarla», ha aggiunto facendo capire che molte delle sue forze le vorrà ritrovare poi nel suo lavoro al quale si è sempre dedicata con passione. Per oltre vent’anni portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, l’Unhcr, Laura Boldrini è arrivata alla politica con il partito di Pietro Grasso, e solamente dopo aver abbandonato la presidenza della Camera è passata con i democratici continuando a occuparsi dei migranti e dei profughi. Tra i numerosi messaggi di solidarietà anche quello del leader della Lega, Matteo Salvini, spesso polemico con Boldrini: «Le battaglie politiche lasciano il posto agli auguri di pronta guarigione, sulla salute non si scherza. In bocca al lupo Laura».

Boldrini attacca: "Nel Pd potere a uomini". L'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, fa autocritica: "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini". Rosa Scognamiglio, Lunedì 15/02/2021 su Il Giornale. "Girl power", direbbero agli inglesi. Uno slogan che ben si addice alla ex presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, che in questi anni ha condotto fior fior battaglie femministe - o presunte tali - nell'aula parlamentare di Palazzo Chigi. Ma stavolta lo fa, con un pizzico di inaspettata autocritica, nei confronti del partito democratico dove è approdata appena 2 anni fa, nel 2019, dopo esser passata da SI (2017) e Futura (2018) nel giro di un biennio. "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini", dichiara in un'intervista all'agenzia stampa Adnkronos. Tira già aria di burrasca? Chissà. Le "rappresaglie di genere" della Boldrini, di certo, non sono una novità. Tuttavia, stupisce che "si armi" proprio contro il PD, di cui ha sempre tessuto le lodi. "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini e in questa occasione il partito si è dimostrato per quello che è: un partito che non mette l'uguaglianza di genere tra le sue priorità. - dice ai microfoni di Adnkronos - Non fa parte della cultura di questo partito. Basta vedere i candidati alle regionali. Ora vedremo come andrà con le amministrative...". Che non abbia mai digerito l'assenza di una "quota rosa" consistente ai piani alti di Palazzo Chigi, era noto già da tempo. Lo conferma l'idea di adibire una "sala delle donne" in quel di Montecitorio dove ci sono "specchi appesi al posto dei ritratti mancanti di donne nei ruoli di presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio". Ma adesso sembra avere tutta l'intenzione di dare seguito concreto ai suoi nobili propositi. La ex-presidente della Camera ha seguito oggi la riunione via remoto delle donne dem - dopo la rivolta per la delegazione dem di governo tutta al maschile - che è stata riaggiornata a domani. "specchi appesi al posto dei ritratti mancanti di donne nei ruoli di presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio - ha spiegato - Qui noi siamo di fronte a uno scollamento dalla realtà: da una parte i documenti, gli odg, le iniziative, i materiali e poi niente di tutto questo si concretizza. E questo stride se messo a confronto con i partiti progressisti degli altri Paesi europei. Prendiamo la Spagna, paese latino come il nostro: al governo ci sono 6 ministri uomini e 11 donne. In Francia sono pari. Ma in Italia ancora il Pd non ha capito che questo è un tema imprescindibile anche in termini di consenso". E quindi, che cosa si propone? "Intanto occorre la compattezza delle donne, innanzitutto. I posti si devono ottenere combattendo e non per cooptazione. Ma serve anche uno sforzo culturale di questo partito: l'uguaglianza di genere deve essere una priorità. A partire dal vicesegretario. Ma sarebbe bene che" una dualità di genere "ci fosse per ogni incarico: un uomo e una donna per ogni incarico sul modello dei Verdi europei. Le proposte ci sono. Il punto è che così non si può andare avanti e quello che è accaduto non può essere derubricato come una cosa marginale".

Laura Boldrini, la brutta fine della pasionaria di sinistra e femminista senza gioia rovinata da quattro soldi. Costanza Cavalli su Libero Quotidiano il 29 marzo 2021. È proprio bravetto, quel giallista anonimo che ha inventato il personaggio di Laura Boldrini, pasionaria di sinistra, femminista senza gioia, manipolatrice di passioni civili, Barnum di questioni marginali, che dietro una determinazione ferina nasconde inconfessabili pulsioni, da manuale del thriller, che svelano un doppio disturbante, l'esatto inverso della sua figura pubblica. Si badi, questa è una difesa, anche se non strenua, dell'ex presidente della Camera, che ci pare doverosa dopo i fatti recenti a causa dei quali la fin troppo ciarliera torre di babele ideologica che ne ha distinto il perimetro politico è venuta giù, e probabilmente non tornerà più su. La rivelazione dell'ultima pagina scritta dall'anonimo scrittore bravetto è che Laura Boldrini non esiste. Meglio, non è esistita. Ed è una difesa (anche se non strenua) perché quelli che adesso la deridono hanno poco da ridere: abbiamo sempre avuto sotto il naso gli indicatori della verità, ma anche quando ci siamo accorti di qualcosa di strano non ci abbiamo davvero badato, per il meccanismo inconscio che induce al rifiuto, perché in fondo siamo gente perbenino e pur sapendo che niente è come sembra, continuiamo a desiderare che lo sia. Vale sia per chi ha creduto nella pubblica Boldrini, ma anche per chi l'ha detestata e ha buttato tempo e fatica a prendersela con qualcuno che non c'era. Ma questo è il fascino dell'immaginazione: con questo stratagemma Conan Doyle ha messo alla frusta il genio di Sherlock Holmes per quattro romanzi e 56 racconti. Lo ha fatto perfino il buonissimo G.K. Chesterton: in "La forma errata", la soluzione del caso si trova nelle forme impercettibilmente sbagliate di vari oggetti. Lo scrittore anonimo bravetto ha disseminato la trama boldriniana di indizi: la formazione nell'Unhcr e i discorsi programmatici (fatti depistanti, almeno per i salotti devoti alle apparenze); la crescita politica in seno ai vendoliani (qualche sospetto doveva venire), l'appoggio di Dario Franceschini che l'ha spinta al soglio della presidenza della Camera (volere un personaggio dall'indole maniacale su una sedia dove si richiede equilibrio, vedete voi).

FUORI FUOCO. Un segnale molto più chiaro si era palesato quando, già presidente, scatenò la sua furia contro Paola Perego, quattro anni fa. Su RaiUno la presentatrice commise l'imprudenza di elencare, con tono faceto, le "doti" delle donne dell'Est, permissive sui tradimenti, con i corpi insensibili agli urti del parto. Si divertirono tutti tranne la Boldrini: ma la facezia è peccato mortale, per un volto sul quale sono depositati un sempiterno broncetto e un naso che taglia le nuvole. Chiese e ottenne la testa della Perego e la chiusura del programma, mandando a spasso chi ci lavorava. Una donna che fa fuori una donna, una donna di sinistra che fa sparire il lavoro a gente incolpevole per una questione di principio inconsistente ed esclusivamente sua. Un'avvisaglia di quel suo tipico "fuori fuoco" sulla realtà si era manifestato l'anno precedente, quando aveva istituito una commissione contro intolleranza e crimini d'odio: eravamo ancora scioccati dalla strage al Bataclan, ma, pur con una donna italiana tra le vittime, Valeria Solesin, la Boldrini si mostrò insensibile all'odio islamista, preferendo concentrarsi sul nazismo e intitolò la commissione a Jo Cox, deputata britannica uccisa da un filonazista. "La" Boldrini: avete visto? Possiamo nuovamente mettere il vietatissimo articolo di genere davanti al suo cognome, la la la Boldrini, che nella sua ossessione per i dettagli femministi superflui è anche stata un meraviglioso cittadino (va bene, cittadina) di Gotham City, la metropoli di Batman popolata da incubi psicanalitici: pensate a Due-Facce, a Poison Ivy, all'Enigmista. Tutti personaggi doppi, dediti al nascondimento, affaticati da fissazioni, prima fra tutte il potere, in cui invariabilmente precipitano e si sfracellano nell'attimo spietato in cui la loro corporea fallibilità prende il sopravvento. È gothamiana, per dirne una, la dedizione con cui la Boldrini ha cercato di "femminare" ogni parola neutra riguardasse una femmina: quando si insediò alla terza carica dello Stato fece rifare le carte intestate, imponendo la dicitura "la presidente". Provocando una slavina di pubbliche discussioni e ipercorrettismi. La terza carica dello Stato che s' impunta su questa cosa e sulle mille altre analogamente decorative convertite in vitali (la indignò che i busti e i ritratti presenti in parlamento fossero solo di uomini e pretese una sala dedicata alle effigi delle donne, "la prima sindaca, la prima deputata, la prima ministra") non può che essere un personaggio letterario. Le ultime cronache raccontano di atteggiamenti da prima ballerina, di villanie dittatoriali nei confronti della colf al suo servizio per otto anni (inclusa una inspiegabile ritrosia a pagare il dovuto dopo averla allontanata), di un'assistente parlamentare (molto malpagata, ma non si doveva combattere il gender gap?) trasformata, un incarico extra dopo l'altro, in personal shopper. Ma Laura Boldrini non deve aver capito neppure la sua sceneggiatura e ha replicato che si è comportata così perché è «una donna sola». Noi lasciamo una porta aperta alla possibilità che ella sia una donna sola perché si comporta così. Il disvelamento è arrivato tardi, perché la Boldrini non ha più cariche di primo piano, ma questo è l'escamotage narrativo finale dello scrittore anonimo e bravetto, la cifra dell'ineluttabilità dell'assurdo fra le mura di Montecitorio. Colpa vostra, nostra, averla presa su serio, come se fosse vera. Fosse stata vera, pardon.

Pietro De Leo per iltempo.it il 28 marzo 2021. Partire dalle parole, innanzitutto, e usarle bene. «Non chiamateci portaborse, ma collaboratori parlamentari». A dirlo al Tempo è Josè De Falco, presidente dell'associazione che annovera 200 iscritti in questa categoria, tornata agli onori della cronaca politica con il caso di Laura Boldrini. E le rimostranze di una ormai sua ex collaboratrice nel Palazzo. Una storia di interruzione del rapporto del lavoro dopo una formula in smartworking negata dalla già Presidente della Camera. Ma tra le pieghe di tutto emerso che questa persona, oltre a supportare l'attività del Palazzo dell'ex Terza Carica dello Stato com' era nel suo ruolo, spesso veniva chiamata per fare altre cose, tipo prenotare il parrucchiere oppure ritirare i vestiti dal sarto. «Era nei patti», ha provato a giustificarsi Laura Boldrini. «E invece non dovrebbe essere così», dice De Falco, con il quale abbiamo provato ad inquadrare la figura del collaboratore. Partendo da un presupposto: nessuna generalizzazione. Ci sono moltissimi rapporti professionali virtuosi tra il parlamentare e la persona di fiducia che lo aiuta nella sua attività da eletto. Ma ci sono anche delle anomalie, e dei rapporti di lavoro «che finiscono per comprendere anche la risposta ad esigenze personali. Questo è sbagliatissimo, perché lede alla dignità delle istituzioni oltreché a quella del professionista», spiega De Falco. L'antologia di questo comprende una casistica molto varia e sconfortante. «Abbiamo avuto dei casi di collaboratrici cui è stato chiesto di dedicarsi al "baby-sitting", poi c'un caso di un collaboratore incaricato anche del cambio d'abiti in albergo del "suo" parlamentare . In altri casi era stato proposto lo stesso schema contrattuale delle colf». E poi ci sono stati casi, già emersi nella stampa, in cui il parlamentare aveva chiesto al collaboratore di restituirgli parte dei soldi che gli corrispondeva. E qui entriamo nell'anomalia tutta italiana. Che riguarda l'inquadramento economico del tutto. Funziona così: ogni parlamentare ha diritto ad un riconoscimento economico per lo svolgimento dell'incarico. Sono 3690 alla Camera e 4180 euro al Senato, ogni mese. Soltanto la metà va rendi contata, l'altra no. Sono soldi che andrebbero impiegati, appunto, per impegni di spesa relativi allo svolgimento della propria funzione. Dunque il pagamento della sala per un convegno, l'accesso a banche dati e, appunto, il reclutamento di collaboratori. E lì che si annida, quando accade, la stortura. Perché poi la formalizzazione del rapporto di lavoro, e anche il successivo pagamento, è questione che riguarda soltanto il parlamentare e il suo collaboratore. «Quelli più esperti, quando vanno a negoziare - prosegue De Falco - possono ottenere dei contratti dettagliati, con delle mansioni precise. Ma quelli meno esperti, a volte, pur di non "uscire dal giro" accettano di tutto». Come si può superare questa situazione? Se ne parla da anni, guardando ai modelli degli altri Paesi e del Parla mento europeo, in cui si coinvolgono direttamente le istituzioni. A volte proprio nella genesi nel rapporto di lavoro (come al Parlamento europeo), a volte con delle variazioni. In Gran Bretagna, per esempio, a gestire i contratti dei collaboratori parlamentari è un ente indipendente che si occupa del trattamento economico dei deputati. In Germania il rapporto tra parlamentare e collaboratore è di diritto privato, ma poi paga il Bundestag, a cui va consegnato il contratto. «Trovare formule di questo tipo aiuterebbe anche a reclutare del personale altamente qualificato», ragiona De Falco, che osserva: «Adesso è il momento della riforma, rendendola contestuale al taglio dei parlamentari che entrerà in vigore la prossima legislatura. Basterebbe veramente poco, qualche ora di riunione degli uffici di presidenza di Camera e Senato, come avvenuto per i vitalizi». Pere) la legislatura ha scavallato il metà cammino, «avevamo parlato del cambiamento con Roberto Fico, così come con la stessa Laura Boldrini la scorsa legislatura, ma al momento non se n'è fatto nulla». Una materia da riordinare, dunque, considerando che non c'nemmeno un numero preci sodi quanti siano i collaboratori. Sempre De Falco spiega che una mappatura vera e propria non c'è e che indicativamente per la Camera si parla di 612 contratti, se si esclude consulenze di breve durata, quelli continuativi sono 315. Del Senato non si sa nulla. «Non si può aspettare oltre, ne va del bene delle istituzioni democratiche».

Laura Boldrini, la strepitosa bordata del re del gossip: "Sempre dalla parte delle donne. Infatti..." Libero Quotidiano il 28 marzo 2021. Come tutti sanno, due ex collaboratrici si sono lamentate pesantemente di Laura Boldrini (notizia di Selvaggia Lucarelli), roba di contratti, pare, ma l'ex presidente della Camera s' è difesa: era tutto regolare, come da contratto, nessun contenzioso. Il caso non esiste. Possibile che proprio due donne abbiano da lamentarsi del trattamento subito dalla signora (erano sue sottoposte)? D'altra parte la signora è sempre stata dalla parte delle donne. Non abbastanza? La domanda la fanno i soliti facinorosi: la Boldrini non si discute e non discute, come la sua proverbiale simpatia.

Di Roberto Alessi (tratto da Alta Portineria, la rubrica su Libero) "Sono una donna sola, fango dai giornali di destra". Colf umiliata, Boldrini fuori controllo: spiegazione surreale, ma è seria? "Perché sono una donna sola". Questa la surreale spiegazione fornita da Laura Boldrini in un'intervista a Repubblica, dove è tornata a difendersi dalle accuse piovute contro di lei dopo lo scoop di Selvaggia Lucarelli. Quest'ultima, sul Fatto Quotidiano, ha infatti raccolto la voce della ex colf della fu presidenta, la quale lamenta il mancato pagamento del Tfr, e ha raccolto anche la voce di una ex assistente parlamentare, che dopo aver subito quelle che riteneva essere delle umiliazioni decise di licenziarsi. Tra le umiliazioni, raccontava la ragazza, il dover prendere appuntamenti dal parrucchiere per la Boldrini, oltre a comprarle vestiti o ritirale i capi stirati. Insomma, tutto tranne che politica. E, si diceva, la Boldrini ha parlato con Repubblica, dove ha spiegato che "la mia assistente mi prenotava il parrucchiere perché sono una donna sola". Parole francamente sconcertanti. Dunque, lady Boldrinova ha insistito sul fatto che contro di lei, copioso, pioverebbe fango dai giornali "di destra", quando il tutto è iniziato dal Fatto Quotidiano, che per certo "di destra" non è. Insomma, una Boldrini piuttosto fuori controllo. E a rincarare la dose contro di lei, ecco scendere in campo anche Matteo Salvini. Il leader della Lega rilancia sui social una foto della Boldrini che riporta in calce la frase incriminata sui parrucchieri. Dunque, da par suo, Salvini aggiunge: "No comment. Un pensiero alle donne veramente sole e veramente in difficoltà". Niente da aggiungere. Per inciso, dopo l'intervista, anche Selvaggia Lucarelli ha nuovamente replicato alla Boldrini. Interpellata dalla AdnKronos, ha affermato: "Credo che l’intervista di oggi della Boldrini confermi tutto. A questo punto mi pare che spetti al sindacato dei collaboratori parlamentari intervenire, visto che lei ritiene normale che un'assistente parlamentare prenoti il parrucchiere, le visite mediche e vada in lavanderia a ritirare i vestiti. Il collaboratore è pagato dai cittadini che non credo siano felici di pagare un assistente personale, perché queste sono mansioni da assistente personale e non da collaboratore parlamentare". E ancora, ha aggiunto: "Temo che la sua replica sia peggio dei fatti". Difficile, in questo caso, dare torto a Selvaggia.

Le donne che accusano Laura Boldrini di averle maltrattate e mal pagate. La Notizia Giornale il 23/3/2021. L’ex presidente della Camera Laura Boldrini è da sempre in prima linea nelle battaglie sulle donne. Oggi dovrà fronteggiare un’accusa molto grave che arriva da un articolo del Fatto Quotidiano a firma di Selvaggia Lucarelli. Che riporta le testimonianze di alcune persone le quali hanno lavorato per lei. E la accusano di averle maltrattate e mal pagate.

Le donne che accusano Laura Boldrini di averle maltrattate e mal pagate. In attesa della replica di Boldrini vediamo le accuse.

Si comincia con Lilia, collaboratrice domestica di nazionalità moldava, che si è dovuta rivolgere a un patronato della Capitale. La sua datrice di lavoro per otto anni, a dieci mesi dalla chiusura del contratto, non le ha pagato la liquidazione. L’articolo riporta le parole di Lilia: “Io non voglio pubblicità, ma confermo che a maggio dello scorso anno ho dovuto dare le dimissioni. La signora, dopo tanti anni in cui avevo lavorato dal lunedì al venerdì, mi chiedeva di lavorare meno ore, ma anche il sabato. Siamo rimaste che faceva i calcoli e mi pagava quello che mi doveva, non l’ho più sentita. Io sono andata al patronato, ho fatto fare da loro i calcoli. La sua commercialista mi ha detto che mi contattava e invece è sparita. Alla fine, tramite l’avvocato messo a disposizione dal patronato, ora siamo in contatto, mi faranno sapere. Mi dispiace perché non sono tanti soldi, circa 3.000 euro, forse è rimasta male che non abbia accettato di andare il sabato”.

Nell’articolo si racconta anche la storia di Roberta, ex collaboratrice parlamentare che da Lodi andava a lavorare a Roma. “Guadagnavo 1.200/1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi”, dice. E aggiunge: “Praticamente facevo anche il suo assistente personale, che è un altro lavoro e non dovuto. Dovevo comprarle trucchi o pantaloni”. A maggio ha chiesto di rimanere in smart working anche dopo il lockdown. Boldrini, secondo Roberta, le ha detto di no. E allora lei ha dato le dimissioni.

Anche un’altra persona conferma: “Tutti i giorni scrive post sui bonus baby-sitter o sui migranti in mare, poi però c’erano situazioni non belle in ufficio. O capricci assurdi. Se l’hotel che le veniva prenotato da noi era che so, rumoroso, in piena notte magari chiamava urlando. Poi magari non ti parlava per due giorni. Io credo che ritenga un privilegio lavorare con lei, questo è il problema. Chiarisco però che alcuni dipendenti li tratta bene, specie chi la adula o chi si occupa della comunicazione, perché quello è il ramo che le interessa di più”.

Selvaggia Lucarelli per il "Fatto quotidiano" il 23 marzo 2021. Lilia è una collaboratrice domestica moldava e qualche giorno fa si è dovuta rivolgere a un patronato della Capitale perché quella che è stata la sua datrice di lavoro per otto anni, a dieci mesi dalla rottura del contratto, non le pagava la liquidazione. Fin qui non ci sarebbe nulla di così inedito se quella datrice di lavoro non avesse un nome che pesa. […] quel nome è Laura Boldrini. Il racconto parte da qui, da una soffiata dal mondo vicino ai Caf, e poi si allarga, perché cercando di comprendere come sia stato possibile arrivare a una frizione così insanabile da chiedere l'intervento del patronato, succede di scoprire che i rapporti di lavoro con la Boldrini sono stati complicati anche per altre sue ex collaboratrici. […] Lilia […] precisa subito: "Io non voglio pubblicità, ma confermo che a maggio dello scorso anno ho dovuto dare le dimissioni perché la signora, dopo tanti anni in cui avevo lavorato dal lunedì al venerdì, mi chiedeva di lavorare meno ore, ma anche il sabato. E io ho famiglia, dovevo partire da Nettuno e andare a casa sua a Roma, per tre ore di lavoro. Siamo rimaste che faceva i calcoli e mi pagava quello che mi doveva, non l'ho più sentita. […] La sua commercialista mi ha detto che mi contattava e invece è sparita. […] Mi dispiace perché non sono tanti soldi, circa 3.000 euro […]". A questo punto, contatto alcune persone vicine alla Boldrini per sapere se conoscono questa vicenda, qualcuno mi dice di sì con imbarazzo, […] Lilia non è la sua prima dipendente donna ad aver avuto dei problemi e che in fondo quella è la punta dell'iceberg. Addirittura, mi viene riferito con una certa reticenza, che il suo portavoce storico Flavio, la scorsa estate, abbia interrotto il suo rapporto di lavoro con la Boldrini anche a seguito di numerosi scontri avuti con lei per il trattamento riservato ad alcune collaboratrici. […] Roberta, una sua ex collaboratrice parlamentare, invece accetta di parlare: "Ho lavorato due anni e mezzo con la Boldrini e posso dire che ho tre figli, partivo il martedì alle 4.30 da Lodi per Roma, lavoravo per tre giorni 12 ore al giorno, dalla mattina presto alle nove di sera. Per il resto lavoravo da casa, vacanze comprese. Guadagnavo 1.200/1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi". […] "Ero assunta come collaboratrice parlamentare e pagata quindi dalla politica per agevolare il lavoro di un parlamentare, ma il mio ruolo era anche pagare gli stipendi alla colf, andarle a ritirare le giacche dal sarto, prenotare il parrucchiere. Praticamente facevo anche il suo assistente personale, che è un altro lavoro e non dovuto. Dovevo comprarle trucchi o pantaloni. […]". Roberta mi spiega quale sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: "A maggio, finito il lockdown, ho chiesto di rimanere in smart working anche perché ho tre figli, di cui uno che si era ammalato seriamente che doveva essere operato. Di treni poi ce n'erano pochi e costosissimi. Lei mi ha risposto che durante il lockdown con lo smart working avevo risparmiato. A un certo punto parte del suo staff aveva pensato di fare una colletta per pagarmi i treni. Ho dato le dimissioni sfinita". E aggiunge: "Chiede di essere eletta perché dice che la sua politica tutela le donne e poi chi lavora con lei non si sente tutelata. Io mi sentivo senza più autostima, pensavo di essere capace solo di prenotare alberghi e fare fotocopie, ora faccio un lavoro che mi gratifica". Un'altra persona che collaborava con la Boldrini conferma: "Tutti i giorni scrive post sui bonus baby-sitter o sui migranti in mare, poi però c'erano situazioni non belle in ufficio. O capricci assurdi. Se l'hotel che le veniva prenotato da noi era che so, rumoroso, in piena notte magari chiamava urlando. Poi magari non ti parlava per due giorni. Io credo che ritenga un privilegio lavorare con lei […]".

Dal "Fatto quotidiano" il 24 marzo 2021. In riferimento a quanto pubblicato ieri sul vostro giornale in un articolo a firma di Selvaggia Lucarelli, dal titolo "Maltrattate e mal pagate. Donne contro la Boldrini", vorrei avanzare le seguenti precisazioni. Riguardo la mia ex collaboratrice domestica, Lilia, stiamo trovando un accordo per formalizzare la chiusura del rapporto di lavoro, purtroppo con un ritardo da me non voluto ma causato da una difficoltà oggettiva a contattare la persona del Caf referente della vicenda. Il punto è che ci sono delle discrepanze da verificare sui saldi finali del Tfr da me già versato per ogni anno di lavoro. Dunque è in corso una verifica, che sta terminando, da parte della mia commercialista e del Caf. Questi raffronti si rendono abitualmente necessari quando si conclude un rapporto di lavoro regolare, com' è stato quello tra Lilia e me. Per quanto riguarda la mia collaboratrice alla Camera, Roberta, la cui retribuzione corrispondeva a criteri stabiliti dall' amministrazione della Camera, devo dire che ha svolto un buon lavoro in anni intensi e complessi, sempre manifestandomi la volontà di voler far parte della mia squadra, nonostante le difficoltà logistiche che doveva affrontare ogni settimana, venendo da Lodi, e che io stessa fin dall' inizio le avevo fatto presente. Per questo sono rimasta stupita e dispiaciuta nel leggere quanto da lei dichiarato, visto il rapporto che si era sviluppato con lei. Alla luce di quanto spiegato, penso sia comprensibile l' amarezza provata anche nel leggere il titolo che mi indicava come una persona che maltratta e mal paga le donne. Laura Boldrini

La risposta di Selvaggia Lucarelli. Il rapporto di lavoro con la colf è terminato 10 mesi fa, risulta dunque poco realistico che in tutto questo tempo non sia stato possibile contattare il commercialista del Caf e che la ex collaboratrice domestica si sia dovuta rivolgere a un avvocato, sebbene la si stesse cercando da quasi un anno. Inoltre, la colf ha lavorato per lei per ben 8 anni, la vicenda si sarebbe potuta sbloccare pacificamente con una semplice telefonata alla signora Lilia, che di sicuro non era introvabile. Riguardo invece la vicenda relativa alla sua ex collaboratrice Roberta, è vero che gli accordi economici iniziali con lei erano quelli, ma è anche vero che la pandemia, la malattia del figlio e, semplicemente, un po' di empatia per una condizione di difficoltà economica di una lavoratrice madre di tre figli avrebbero potuto comportare un adeguamento almeno per il rimborso delle spese. Inoltre, se è vero che gli accordi sullo stipendio erano quelli, forse non era altrettanto chiaro fin dall' inizio che tra le mansioni richieste a una collaboratrice parlamentare potessero esservi anche la prenotazione di parrucchieri e il ritiro abiti in lavanderia.

"Ritardi col Caf", "Ci metti 10 mesi?": ora è rissa tra la Lucarelli e la Boldrini. Laura Boldrini ha replicato a Selvaggia Lucarelli dopo l'articolo sul trattamento riservato alle collaboratrici ma per la giornalista le giustificazioni non sono credibili. Francesca Galici - Mer, 24/03/2021 - su Il Giornale. Ha creato un piccolo caso l'articolo di Selvaggia Lucarelli per Il Fatto Quotidiano sui rapporti tra Laura Boldrini e le sue collaboratrici. L'ex presidente della Camera, con una lettera inviata al quotidiano, si è difesa dalle accuse mosse dalle donne che, fino a poco tempo fa, hanno lavorato per lei. L'esponente dem ha affrontato punto per punto tutti i casi presentati da Selvaggia Lucarelli nel suo articolo che ha destato molto scalpore, scatenando una piccola bufera mediatica su Laura Boldrini, che da sempre regge il vessillo del femminismo. "Stiamo trovando un accordo per formalizzare la chiusura del rapporto di lavoro, purtroppo con un ritardo da me non voluto ma causato da una difficoltà oggettiva a contattare la persona del Caf referente della vicenda", ha spiegato Laura Boldrini in riferimento alle accuse della sua ex collaboratrice domestica Lilia. Un ritardo nella chiusura del rapporto di lavoro che sembra da imputare ai disordini della burocrazia italiana, quindi, e che non dipende dalla volontà dell'ex presidente della Camera: "Il punto è che ci sono delle discrepanze da verificare sui saldi finali del Tfr da me già versato per ogni anno di lavoro. Dunque è in corso una verifica, che sta terminando, da parte della mia commercialista e del Caf". Discorso diverso per Roberta, collaboratrice parlamentare tuttofare, "la cui retribuzione corrispondeva a criteri stabiliti dall'amministrazione della Camera. Devo dire che ha svolto un buon lavoro in anni intensi e complessi, sempre manifestandomi la volontà di voler far parte della mia squadra, nonostante le difficoltà logistiche che doveva affrontare ogni settimana, venendo da Lodi, e che io stessa fin dall'inizio le avevo fatto presente". Laura Boldrini pare non si sarebbe aspettata un simile racconto da Roberta: "Sono rimasta stupita e dispiaciuta nel leggere quanto da lei dichiarato, visto il rapporto che si era sviluppato con lei". Le spiegazioni di Laura Boldrini, però, non hanno convinto Selvaggia Lucarelli, che sempre su Il Fatto Quotidiano ha replicato all'ex presidente della Camera: "Il rapporto di lavoro con la colf è terminato 10 mesi fa. Risulta dunque poco realistico che in tutto questo tempo non sia stato possibile contattare il commercialista del Caf e che la ex collaboratrice domestica si sia dovuta rivolgere a un avvocato, sebbene la si stesse cercando da quasi un anno". Sulla collaboratrice parlamentare, invece, Selvaggia Lucarelli dà formalmente ragione a Laura Boldrini ma la punzecchia sul non aver avuto uno slancio di umanità: "È vero che gli accordi economici iniziali con lei erano quelli, ma è anche vero che la pandemia, la malattia del figlio e, semplicemente, un pò di empatia per una condizione di difficoltà economica di una lavoratrice madre di tre figli avrebbero potuto comportare un adeguamento almeno per il rimborso delle spese". Infine, la stoccata finale da parte della giornalista: "Se è vero che gli accordi sullo stipendio erano quelli, forse non era altrettanto chiaro fin dall'inizio che tra le mansioni richieste a una collaboratrice parlamentare potessero esservi anche la prenotazione di parrucchieri e il ritiro abiti in lavanderia".

Laura Boldrini, l'affondo di Alessandro Giuli: "Stronz*** con femmine e maschi senza fare differenza. Quella voglia di far carriera...". Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 24 marzo 2021. La verità è che Laura Boldrini è l'italiana che meglio applica la parità di genere: stronzeggia con femmine e maschi senza fare differenza alcuna. Lei è molto più avanti sia di noi cavernicoli analogici e patriarcali ancora convinti che alle donne, si tratti di una colf o d'una principessa, I tedeschi ce l'hanno con noi... Sai che novità. È passato sotto traccia, ripresa in apertura solo dal quotidiano il Tempo, il violentissimo attacco che il settimanale teutonico Der Spiegel ha sferrato contro Giuseppe Conte e Roberto Speranza per la loro gestione fallimentare della pandemia. La pubblicazione di Amburgo riporta la notizia dell'inchiesta aperta dalla Procura di Bergamo nella primavera scorsa, si debba quel sovrappiù di cura e rispetto cavalleresco; sia del branco delle sue colleghe stregate o angelicate. E celebra così la dichiarazione dei diritti dell'uomo (e della donna!): sempre devota alla lettera immateriale ma a quanto pare approfittandosi dei bipedi in carne e ossa d'ogni sesso. La sublime realtà boldriniana svelata ieri da Selvaggia Lucarelli sul Fatto quotidiano, costellata di angherie inflitte a collaboratrici domestiche e assistenti politiche nella più completa incuranza verso le esigenze della maternità e degli appannaggi contributivi, rappresenta la giusta chiave con la quale leggere in controluce l'essenza della lotta di genere nell'epoca della sua morbosa serialità mediatica. Cosa c'è di più facile che servirsi della minorità femminile per avanzare nella propria carriera passeggiando sulle spoglie del maschio prevaricatore, salvo poi abbandonare per strada le credulone e godersi la vita da solitarie inquiline del privilegio? Prima d'incontrare in Selvaggia un'Erinni più spietata di lei, la nostra Laura su questo spartito ha costruito un'immagine apparentemente invincibile: dalla rivendicazione delle quote rosa alla rivolta corporale del #metoo passando per la denuncia quotidiana del maschilismo imperante anche a sinistra, non è trascorso un giorno senza che l'ex matriarca di Leu e poi del Pd, perdesse occasione per avanzare a passo di carica verso le vette istituzionali. Dall'agenzia dell'Onu per i rifugiati fino alla presidenza della Camera assunta nella precedente legislatura, un traguardo dovuto allo spirito del tempo e al tempo stesso il palcoscenico dal quale inondarci di sguardi colpevolizzanti e indignati. Memorabile, e per certi versi involontariamente profetico, fu al riguardo il suo discorso d'insediamento al vertice di Montecitorio nel 2013, quando la neopresidente intrattenne l'Aula sul concetto di «violenza travestita da amore» contro le donne, che appunto «non è una cosa che si risolve in casa, in silenzio: è una violazione dei diritti umani, non faccenda privata». Appena cinque anni dopo, sempre alla Camera, per celebrare con l'evento #InQuantoDonna la Giornata Mondiale contro la violenza di genere, la fiammante Boldrini avrebbe poi chiamato l'universo femminile alla sollevazione: «Noi donne siamo il 51 per cento della popolazione. E questo non significa qualcosa, secondo voi? Siamo la maggioranza, non una sparuta minoranza! Non ci possiamo sempre comportare da minoranza esigua!». Come a dire: donne tutto il mondo, unitevi all'insegna di un comunismo matriarcale passivo-aggressivo per trasformare finalmente il piagnucoloso sindacalismo femminista nel bastone del comando di una conclamata egemonia rosa. In teoria non fa una piega ma nella pratica, a ben vedere, le bastonate più forti sono arrivate in testa alla moldava Lilia e all'italiana Roberta, vittime per contratto di una servitù pendolare per spicciarle casa e della schiavitù stanziale per gestire l'agenda politica o prenotare il coiffeur di Laura B., madonna addolorata in servizio cinico e permanente. C'è in tutto questo una formidabile astuzia della ragione, una nemesi impersonale che colpisce l'ipocrisia del virtuismo rovesciandolo nella sua limacciosa autenticità. Se già era lecito sospettare delle battaglie boldriniste tese a sostituire i termini "padre" e "madre" con l'astratta dizione di "genitore 1" e "genitore 2", foss' anche per il semplice fatto che obliterare la maternità equivale a un proditorio femminicidio culturale; e se già risultava quantomeno risibile il tentativo (apparentemente riuscito presso i parrucconi della Consulta) di negare ai figli il conferimento automatico del solo cognome paterno, per la semplicissima circostanza che anche il cognome materno ha invalicabili origini paterne; adesso, noi maschi selvatici e fuorilegge che in Costituzione scolpiremmo per le donne anche il diritto al sonno e all'orgasmo, possiamo dunque goderci l'atto conclusivo di una commedia che nemmeno Aristofane sarebbe riuscito a scrivere. Dopo tanto affaccendarsi per stabilire in pubblico il primato dell'eterno femminino, Madonna Laura, novella Lisistrata, s' è smarrita coi suoi peccatucci nella notte in cui tutti i sessi sono grigi ed equivalenti, nell'illusione tutta privata di poterci campare a sbafo trasformandoli in "servitrice 1", "servitrice 2" e via così lungo i sentieri della parità degenere.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 24 marzo 2021. Laura Boldrini è stata a lungo presidente della Camera, ignoro per quali pregi, forse qualcuno ce l' ha anche lei come molti politici poi spariti senza che nessuno li rimpianga. Oggi la signora è una semplice parlamentare e non mi aspettavo che all' improvviso salisse sul podio della cronaca. Merito o colpa, staremo a vedere, di Selvaggia Lucarelli che le ha dedicato una articolessa sul Fatto Quotidiano in cui si rendono pubbliche le dichiarazioni di due collaboratrici e un collaboratore di madame, i quali raccontano di essere stati maltrattati durante il loro servizio in favore della ex terza carica dello Stato. Non posso sapere se esse abbiano raccontato la pura verità alla giornalista oppure abbiano caricato i toni. I dettagli della questione in ogni caso sono esposti in un altro pezzo pubblicato oggi da Libero. Nella eventualità in cui i tre collaboratori della Boldrini non si fossero sognati tutto e le accuse rivolte alla loro datrice di lavoro fossero fondate, si avrebbe la conferma che la già padrona di Montecitorio è una che predica bene e razzola male. Noi giornalisti, per fortuna, non siamo magistrati e non siamo in grado di giudicare l'accaduto. Io poi non sono più iscritto all'Ordine, poiché mi faceva orrore appartenervi, e attendo chiarimenti prima di esprimere una opinione sulla delicata vicenda. Posso soltanto osservare che Selvaggia non è l'ultima arrivata e mi parrebbe strano se avesse riportato tre testimonianze false, è un'abile commentatrice, aspra e polemica, non una che si è fumata il cervello. Pertanto tendo a credere a tutto ciò che ha vergato, dettagli inclusi. D' altronde la gentile Signora Laura ha già dato prova di non essere completamente lucida quando, sollevando un caso di censura, scrisse un servizietto per il giornale diretto da mio figlio Mattia, nel quale, in sintesi sessista, mi dava del coglione in quanto avevo affermato pubblicamente che la vittima dello stupratore Genovese era stata imprudente a recarsi con lui in camera da letto, dopo aver assunto droga. Trattavasi di una osservazione corretta, la mia, e per nulla offensiva. Il mio erede, davanti a certi insulti rivolti a me, si rifiutò legittimamente (essendo responsabile del prodotto giornalistico) di divulgarle. Al che la Boldrini non si trattenne e vi risparmio i suoi rimbrotti: tra l' altro ritenne di essere stata appunto censurata, trascurando il dettaglio che il direttore responsabile di un quotidiano mette in circolo solamente quello che gli garba. Questo episodio fa riflettere circa l'equilibrio culturale di Laura, benché non basti ad avvalorare le recriminazioni delle tre persone intervistate da Lucarelli. Recriminazioni per le quali, se venissero verificate, non resterebbe che mettersi le mani nei capelli. Significherebbe che abbiamo la dimostrazione che la sinistra non perde né il pelo né il vizio, essendo sempre arrogante e supponente, attenta al proprio portafogli e distratta a riguardo dei diritti altrui.

Marco Gervasoni per "il Giornale" il 25 marzo 2021. Se un lettore ieri avesse acquistato una copia di questo giornale e assieme quella di uno dei principali quotidiani (per numero di copie vendute) avrebbe pensato di vivere in due mondi diversi. Queste colonne si aprivano con «Boldrini maschilista non paga la colf», mentre sugli altri giornali del gruppo Elkann e di Cairo, la notizia delle accuse a Laura Boldrini non è che non fosse in risalto: non c'era proprio. Li abbiamo sfogliati meticolosamente, con la lente d'ingrandimento, senza trascurare le pagine dell'oroscopo e del meteo; ma niente. Su Repubblica si dava largo spazio a uno degli «allievi» di Letta che si è portato in Italia e al fondamentale ritorno della senatrice Rojc (di cui fino a ieri ignoravamo l'esistenza) nel Pd. Mentre, sul Corriere, si dava notizia della app «Chiama Clemente» (Mastella), si intervistava un altro carneade, tal senatore Parrini del Pd, c'erano persino quattro righe sull'ex sottosegretario Tofalo, restio a mollare l'appartamento di servizio. Ma nulla su Boldrini. Non domi, abbiamo pensato che il titolo «molestie e discriminazioni» potesse alludere al caso Boldrini: ma no, riguardava le giornaliste francesi, ovviamente molestate dai maschi bianchi (i maschi neri sembra non lo facciano). Non vogliamo qui tornare sul comportamento di Laura Boldrini. Diversamente da lei, siamo garantisti e tolleranti e pensiamo che possa essere innocente fino a giudizio, se ci sarà. Vogliamo andarle ancora più incontro e pensare che quelle accuse pesantissime siano frutto di malinteso o addirittura di quell'«odio» di cui, poverella, sarebbe vittima solo lei (è noto infatti che i suoi seguaci non odiano). No, quel che ci colpisce è che un fatto del genere sia stato considerato una non notizia, non meritevole neppure di una breve, da parte dei «giornali autorevoli». Eppure la Boldrini non è una Rojc o un Parrini qualsiasi, è stata presidente della Camera e afferma di essere la principale paladina delle donne e degli sfruttati: donne che però accusano ora lei di averle sfruttate. Non siamo giornalisti, ma crediamo che la notizia ci fosse, se non altro per dare la parola all'accusata stessa. E ci è venuto in mente cosa scrive spesso l'ex direttore del Wall Street Journal, Gerard Baker. Che ovviamente non sa neppure chi sia Boldrini ma che da anni denuncia la «sovietizzazione» del giornalismo occidentale: per cui quello che con Trump era considerato abominevole, viene invece nascosto se realizzato da Biden: vedi da ultimo i campi per trattenere gli immigrati clandestini, evento giudicato non notizia, anche ovviamente da Repubblica e da Corriere della sera. Nel nostro caso, se le medesime accuse fossero state rivolte a un'esponente del centrodestra, siamo sicuri che i suddetti giornali ne avrebbero parlato, eccome. E anzi, anche senza accuse, uno di questi, La Stampa, tempo fa era andata a sfrucugliare molto vilmente nella vita privata di Giorgia Meloni. Il privato è politico dicevano le femministe: ma non se riguarda Laura Boldrini.

Il bianco e il nero, Rotta: "Linciaggio sulla Boldrini", Montaruli: "Cosa sarebbe successo a parti invertite?" Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo sentito l'opinione della meloniana Augusta Montaruli e della democratica Alessia Rotta sul caso che ha coinvolto Laura Boldrini. Francesco Curridori - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. In questi giorni l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, è finita al centro delle polemiche dopo lo scoop di Selvaggia Lucarelli. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo sentito l'opinione della meloniana Augusta Montaruli e della democratica Alessia Rotta.

Questa vicenda segna il crollo mito della Boldrini?

Montaruli: "L’onorevole Boldrini semplicemente non è un mito. Una parte della sinistra l’ha presa come riferimento delle politiche da storpiatura dell’italiano e dell’a finale, purtroppo è tutto vero".

Rotta: "Credo che una storia di battaglia e difesa dei più deboli come quella di Laura Boldrini non si mette in discussione. Pensiamo alla difesa dei migranti e dei diritti delle femministe. Ha passato la sua vita a sostenere sia prima nel lavoro sia dopo in Parlamento a difendere i più deboli e, quindi, non credo vi sia alcun segno del mito. E, invece, leggiamo delle parole che vanno sulla scia del linciaggio come aguzzina, padrona maschilista non mi sembra si addicano alla Boldrini".

È il tipico caso di “doppia morale” delle femministe?

Montaruli: "Le accuse sono gravi e l’onorevole Boldrini per quanto distante da me merita di difendersi nelle sedi opportune. Una doppia morale però esiste a prescindere dell’episodio che l’ha coinvolta recentemente. Troppe dita puntate quando a essere messe sotto accusa sono le donne di destra e troppi silenzi quando vengono ingiustamente infangate. Cosa sarebbe successo a parti invertite? Abbiamo un altro stile e ne andiamo orgogliosi".

Rotta: "Non c'è una doppia morale delle femministe. La Boldrini ha raccontato un'altra versione. Sono tanti i lavoratori che quest'anno hanno fatto ricorso alla cassa integrazione ed è oggettivo che i sistemi dell'Inps erano sotto pressione. So che la questione si risolverà brevemente, ma il ritardo non era intenzionale e, infatti, i tfr alla colf sono sempre stati pagati regolarmente. C'è stato un ritardo nel trattamento di fine mandato, ma è un problema a cui si sta ponendo fine. È bello il ritardo? No, ma non è una violazione dei loro diritti. La Boldrini non si è resa colpevole di vessazioni nei confronti del suo personale per cui credo che il problema abbia la gravità di un ritardo. Sono risorse che verranno corrisposte".

Questo conferma la teoria secondo cui le donne sono proprio le meno solidali con le altre donne?

Montaruli: "Non credo che sia davvero così. La solidarietà non è una questione di genere ma di intelligenza".

Rotta: "Penso che sia una teoria sconclusionata. Non è così. Sarà che io sono sempre in mezzo a storie di solidarietà e di donne che sanno fare squadra e combattere per i loro diritti. Penso anche che, per il suo impegno, la Boldrini è vista come un simbolo credibile. Le donne sono sempre state solidali con lei per i vili attacchi e la campagna di odio social e di denigrazione che ha subìto e su cui ha scritto anche un libro. Qui stiamo parlando di violazioni che non ravvedo tant'è che non ci sono cause in corso. In un caso c'è un ritardo di corresponsione, nell'altro caso la segretaria che si è licenziata aveva un regolare contratto della Camera, le sue condizioni evidentemente sono cambiate per entrambe e succede che tra uno dei due contraenti decida che quella modalità lavorativa non vada più bene".

Casi come questi sono frequenti. Cosa si può fare per evitarli?

Montaruli: "Esiste la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Riuscissimo a raggiungere questo risultato sarebbe già un passo in avanti".

Rotta: "Ci sono delle norme e bisogna farle rispettare. Noi stiamo lavorando sul tema della parità di genere salariale e credo che vadano applicate le leggi che già ci sono e vadano fatte conoscere. In questo caso, però, stiamo parlando di una persona il cui contratto di assistente parlamentare era scritto dalla Camera, ma le era diventato gravoso doversi spostare da una città all'altra. Poi, è vero che ci sono donne che vengono licenziate per ingiusta causa e c'è un tema di occupazione femminile da incentivare".

Esiste una “questione femminile” a sinistra?

Montaruli: "Sicuramente sì, ma non sono io a dirlo, lo ammettono le stesse donne di sinistra reiterando sempre lo stesso errore. Loro ragionano per quote invece l’unico metro giusto è il merito. Solo così si raggiungono straordinari risultati come quello di Giorgia Meloni, leader indiscusso non perché donna ma perché brava".

Rotta: "La questione femminile supera i confini nazionali e non solo a sinistra. Le donne, con il covid, sono quelle che maggiormente hanno perso il lavoro. La parità è un obiettivo da raggiungere e da supportare anche con i soldi del Recovery. La sinistra ha una grande storia di emancipazione delle donne e dei suoi diritti e, ora, come Pd stiamo appunto ponendo l'accento sul questo perché, dal punto di vista politico, dobbiamo supportare le candidature femminili".

Laura Boldrini sul caso della colf: "Sono una donna sola. Fango dai giornali di destra". Ma lo scoop è del "Fatto". Libero Quotidiano il 25 marzo 2021. E' accusata dalle sue ex collaboratrici di averle maltrattate e mal pagate ma Laura Boldrini prova a difendersi e contrattacca i giornali di destra per il "fango" contro di lei (anche se la notizia è stata pubblicata sul Fatto Quotidiano, a firma di Selvaggia Lucarelli). Insomma, è subito cortocircuito. La ex presidente della Camera, in una intervista a La Repubblica spiega la vicenda di Lilia, la colf che sostiene di non aver avuto la liquidazione dopo dieci mesi "perché la commercialista della Boldrini è sparita". "No, non è vero. Lilia, con la quale ho avuto un rapporto sereno per otto anni, ha regolarmente ricevuto il trattamento di fine rapporto. Restano da saldare gli scatti di anzianità maturati". Ma, continua la Boldrini, "i calcoli per gli scatti di anzianità si sono rivelati complicatissimi", "da settembre la commercialista ha provato a contattare la funzionaria del Caf che si occupava della pratica, ma non è mai riuscita a rintracciarla". Spiegazione poco credibile ma la Boldrini insiste: "Sostiene di avere provato più volte, senza successo. È stato un periodo complicato per tutti. Però ammetto che sei mesi sono troppi". Lilia dice che le spettano 3000 euro, "la commercialista dice che la cifra è un po' inferiore". Quindi se la prende con i giornali di destra: "Questi giornali mi definiscono aguzzina, padrona, maschilista. È macchina del fango. Alla Camera anche alcune colleghe di destra mi hanno espresso solidarietà", dice. Eppure Roberta, la sua ex collaboratrice parlamentare, è stata costretta a licenziarsi: "Rimaneva a Roma tre giorni. Ha lavorato benissimo, facendo tanti sacrifici, perché con lo stipendio da 1300-1400 euro doveva coprire anche le spese. Poi è arrivato il Covid e da febbraio a maggio ha lavorato da casa, perché eravamo in zona rossa". Poi a maggio voleva lavorare ancora da casa, perché era insorto un problema con il figlio. Le ho fatto presente che sarebbe stato complicato vista la complessità del lavoro da svolgere. Il mio ufficio ha ritmi serrati, avevo bisogno che fosse presente a Roma almeno alcuni giorni. Roberta ha capito. Abbiamo deciso di dividere le nostre strade. Ci siamo salutate con un abbraccio commosso". Ma Roberta ha raccontato che la mandava a ritirare i vestiti dal sarto, le faceva prenotare il parrucchiere, la mandava in farmacia: "Con me non si è mai lamentata. Vivo sola, mia figlia è all'estero, non mi muovo in autonomia avendo una tutela", risponde. "Può essere capitato che mi prenotasse il parrucchiere. Si occupava anche delle visite mediche. Gestiva la mia agenda e riusciva così a incastrare questi impegni con quelli pubblici". Ma rientra tra i compiti di un'assistente parlamentare prenotare il parrucchiere? "Non accade solo a me, ma a tutte le persone che hanno agende complesse: dispongono di persone di fiducia per simili incombenze. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no". Sembra non vedere il problema: "Sono una persona esigente. Ma lo sono anche con me stessa. Posso essere dura, ma sempre rispettando la dignità dei collaboratori". Anche se loro sostengono il contrario. Anche se lei si dipinge come una paladina dei diritti delle donne. "Da anni sono oggetto di campagne di odio", conclude. 

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2021. «Sono esterrefatta e addolorata - dice l' ex presidente della Camera Laura Boldrini - La vicenda è stata cavalcata da una certa stampa per cui, stando ai loro titoli, sarei "maschilista", "padrona" e addirittura «aguzzina"». «Dichiarazioni inaccettabili, siamo indignati», replica José De Falco, presidente dell' Associazione collaboratori parlamentari. Non è facile muoversi nella polemica sull' ex colf moldava e sull' ex collaboratrice parlamentare, «maltrattate e mal pagate» da Boldrini, secondo il titolo dell' articolo di Selvaggia Lucarelli che ha raccontato la storia sul Fatto Quotidiano. Non è facile perché, innanzitutto, l'ex esponente di Sel e Leu ora transitata al Pd, in passato è stata oggetto di molte accuse e molte fake news, spesso a sfondo sessista e cavalcate dalla destra, tanto che il suo portavoce di un tempo, Flavio Alivernini, ne trasse un libro di denuncia: «La grande nemica. Il caso Boldrini». Ma non è facile anche perché Boldrini si è fatta molti nemici anche a sinistra, lasciando una scia di collaboratori ed ex colleghi che raccontano di comportamenti che, a loro dire, mal si conciliano con uno spirito femminista e di sinistra. Ma partiamo dall' inizio. Il Fatto viene a sapere di due questioni distinte. La prima riguarda una ex colf straniera, con la quale collaborava da molti anni, che si era rivolta al patronato «perché quella che è stata la sua datrice di lavoro per otto anni, a dieci mesi dalla rottura del contratto, non le pagava la liquidazione». La Boldrini ricostruisce così: «A maggio mi ha detto che non poteva venire a lavorare di sabato, come le avevo chiesto, ed abbiamo deciso di sospendere il rapporto professionale. Ho pagato ogni anno il Tfr. Restavano da saldare gli scatti di anzianità che né Lilia né io sapevamo stabilire a quanto corrispondessero. Quindi abbiamo deciso di rivolgerci al Caf (lei) ed alla commercialista (io)». Poi, però, passano mesi e la colf non riceve nulla. Ieri il secondo incontro in patronato, dopo quello di giovedì scorso: i calcoli sono diversi (per un migliaio di euro) ma, fa sapere la Boldrini, si raggiunge un accordo. La seconda questione è più delicata. Perché l'ex assistente parlamentare Roberta, che è scossa dalla vicenda e non vuole più parlare, ha raccontato che nelle sue mansioni, oltre al lavoro più prettamente politico, era previsto anche il pagamento degli stipendi alla colf, andare a ritirare le giacche dal sarto, prenotare il parrucchiere e attività simili. Un ruolo quasi da segreteria tutto fare, a 1.300 euro, pagati con i fondi pubblici. In più, avendo chiesto di lavorare in smart working, a causa di un figlio malato, le è stato risposto che non era possibile e il rapporto si è interrotto. La Boldrini si è difesa con Repubblica, spiegando che «un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no». Secondo l'ex presidente della Camera la «campagna d'odio» contro di lei, anzi, «la macchina del fango», dipende dal fatto che «c'è una parte della società che non digerisce le donne assertive». Eppure, in Leu c'è chi ricorda di molti conflitti quando era presidente della Camera, con diversi dirigenti generali della polizia dell' ufficio sostituiti e continui ricambi nello staff. José De Falco, a nome degli assistenti parlamentari, respinge in toto la difesa della Boldrini: «Nessuno può avvalersi di personale stipendiato per scopi privati con fondi pubblici. C'è una dignità della funzione un rispetto dei lavoratori da preservare. Anche perché spesso chi si lamenta viene cacciato e denunciato. E molti casi non vengono a galla perché coperti da accordi di riservatezza. Servirebbe una riforma dei contratti, che è ferma da troppo tempo».

Concetto Vecchio per "la Repubblica" il 25 marzo 2021.

Laura Boldrini, la accusano di non aver versato la liquidazione alla ex colf. È così?

«No, non è vero. Lilia, con la quale ho avuto un rapporto sereno per otto anni, ha regolarmente ricevuto il trattamento di fine rapporto. Restano da saldare gli scatti di anzianità maturati».

Li aspetta da dieci mesi, «perché la commercialista di Boldrini è sparita», ha dichiarato al Fatto.

«Non è così. La scorsa estate avevo proposto a Lilia di lavorare anche il sabato, ma lei mi disse di non essere interessata. Abbiamo quindi deciso di interrompere la collaborazione. Era ovviamente messa in regola, e quindi bisognava fare gli ultimi conteggi per chiudere il rapporto di lavoro. I calcoli per gli scatti di anzianità si sono rivelati complicatissimi. "Mi faccio aiutare dal patronato", mi ha detto Lilia. E io mi sono rivolta alla mia commercialista».

Quindi Lilia è andata dal patronato subito, e non perché lei tardava con il pagamento, come invece affermato?

«Sì. Da settembre la commercialista ha provato a contattare la funzionaria del Caf che si occupava della pratica, ma non è mai riuscita a rintracciarla».

Le sembra una spiegazione plausibile?

«Sostiene di avere provato più volte, senza successo. È stato un periodo complicato per tutti. Però ammetto che sei mesi sono troppi».

Ha più sentito Lilia?

«Sì, anche ieri. Era dispiaciuta per l'eco mediatica. Oggi ci sarà un nuovo incontro per definire il tutto».

Sostiene che le spettano 3000 euro. Conferma?

«La commercialista dice che la cifra è un po' inferiore».

I giornali di destra titolano: "La Boldrini non versa la liquidazione alla colf".

«Figuriamoci, l'ho già pagata. Questi giornali mi definiscono "aguzzina", "padrona" "maschilista". È macchina del fango. Alla Camera anche alcune colleghe di destra mi hanno espresso solidarietà».

La sua ex collaboratrice parlamentare si è licenziata perché lei le avrebbe negato lo smart working.

«Ho conosciuto Roberta in campagna elettorale. È molto appassionata di politica e mi ha chiesto di entrare nella mia squadra. Abita a Lodi, con i tre figli. Le ho detto: "Sei sicura di potercela fare, facendo la spola con Roma?". "Ci tengo", mi ha detto».

Che contratto aveva?

«Part time. Rimaneva a Roma tre giorni. Ha lavorato benissimo, facendo tanti sacrifici, perché con lo stipendio da 1300-1400 euro doveva coprire anche le spese. Poi è arrivato il Covid e da febbraio a maggio ha lavorato da casa, perché eravamo in zona rossa».

Quando ha chiesto di poter proseguire con lo smart working?

«A maggio. Voleva lavorare ancora da casa, perché era insorto un problema con il figlio. Le ho fatto presente che sarebbe stato complicato vista la complessità del lavoro da svolgere. Il mio ufficio ha ritmi serrati, avevo bisogno che fosse presente a Roma almeno alcuni giorni. Roberta ha capito. Abbiamo deciso di dividere le nostre strade. Ci siamo salutate con un abbraccio commosso».

Roberta ora racconta un'altra storia.

«Sono colpita e dispiaciuta dal suo risentimento».

Lei le ha chiesto di andare in farmacia e di ritirare le giacche dal sarto?

«Sì, ma era nei patti. Sapeva che avevo anche delle esigenze personali».

Roberta sostiene il contrario.

«Con me non si è mai lamentata. Vivo sola, mia figlia è all' estero, non mi muovo in autonomia avendo una tutela».

Le prenotava anche il parrucchiere?

«Può essere capitato. Si occupava anche delle visite mediche. Gestiva la mia agenda e riusciva così a incastrare questi impegni con quelli pubblici».

Lei si è lamentata con telefonate notturne perché il suo albergo era rumoroso?

«No! È successo che io me ne sia lamentata educatamente all' indomani, perché non avevo chiuso occhio».

Ha un carattere difficile?

«Sono una persona esigente. Ma lo sono anche con me stessa. Posso essere dura, ma sempre rispettando la dignità dei collaboratori».

Rientra tra i compiti di un'assistente parlamentare prenotare il parrucchiere?

«Non accade solo a me, ma a tutte le persone che hanno agende complesse: dispongono di persone di fiducia per simili incombenze. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no».

La sua immagine di paladina dei diritti delle donne ne uscirà ammaccata?

«Non credo. Da anni sono oggetto di campagne di odio. Ci hanno fatto anche le tesi di laurea».

Questa storia lei la chiama una campagna di odio?

«Il modo in cui la storia è stata trattata dalla stampa di destra sì. C'è una parte della società che non digerisce le donne assertive e fa di tutto per azzopparle. Non mi farò intimidire».

Da liberoquotidiano.it il 25 marzo 2021. Selvaggia Lucarelli rincara la dose contro Laura Boldrini. Dopo aver visto pubblicati sul Fatto Quotidiano i maltrattamenti subiti da collaboratrici e colf, ecco che la paladina delle donne finisce di nuovo nel tritacarne. Tutta colpa delle giustificazioni rilasciate a Repubblica. Qui la deputata del Pd ammette quanto fatto emergere dalla Lucarelli, dando però una versione tutta sua. Una a caso? A suo dire la colf non avrebbe ricevuto gli scatti di anzianità maturati, perché "la commercialista ha provato a contattare la funzionaria del Caf, ma non è mai riuscita a rintracciarla". Poi in merito alle accuse rivolta dalla sue collaboratrice chiamata spesso e volentieri a ritirare i vestiti dal sarto, a prenotare il parrucchiere e ad andare in farmacia: "Vivo sola, mia figlia è all'estero, non mi muovo in autonomia avendo una tutela". E ancora: "Gestiva la mia agenda e riusciva così a incastrare questi impegni con quelli pubblici". Ma rientra tra i compiti di un'assistente parlamentare prenotare il parrucchiere? Viene lecito chiedersi. Ed ecco che la Boldrini ha già la risposta pronta: "Non accade solo a me, ma a tutte le persone che hanno agende complesse: dispongono di persone di fiducia per simili incombenze. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no". Uscite che aizzano la Lucarelli. "Credo che l’intervista di oggi della Boldrini confermi tutto - tuona all'Adnkronos -. A questo punto mi pare che spetti al sindacato dei collaboratori parlamentari intervenire, visto che lei ritiene normale che un assistente parlamentare prenoti il parrucchiere, le visite mediche e vada in lavanderia a ritirare i vestiti. Il collaboratore è pagato dai cittadini che non credo siano felici di pagare un assistente personale, perché queste sono mansioni da assistente personale e non da collaboratore parlamentare". Una cosa è certa, dopo l'articolo qualcosa si è mosso. Almeno per la colf Lilia. "Dice che ha parlato con la colf e oggi avranno un incontro - spiega -. Mi chiedo: come mai tutto così fluido e rapido dopo l’articolo? Credo che dopo un rapporto continuativo di otto anni la Boldrini avrebbe potuto chiamare prima la colf che invece ha sentito soltanto ieri, dopo il mio articolo. Temo - conclude - che la sua replica sia peggio dei fatti. Ma la cosa importante è che lei conferma tutto quello che ho scritto io".

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 26 marzo 2021. Se l' assistente parlamentare della Boldrini non fosse stata costretta a dimettersi «sfinita», «senza più autostima» perché umiliata dal trattamento ricevuto dalla sua ex datrice di lavoro, le avrebbe sicuramente consigliato di non rilasciare nessuna intervista a Repubblica (per una volta, chissà perché, dalla parte del datore di lavoro e non dei lavoratori). Molto meglio il silenzio (coadiuvato da quello dei giornali amici) rispetto alle incredibili spiegazioni, se così si possono chiamare, addotte dalla deputata Pd per giustificare il mancato pagamento della liquidazione alla sua povera ex domestica moldava e rispondere, se così si può dire, alle accuse molto dettagliate fornite da Roberta, l' ex assistente alla Camera (ma anche al parrucchiere, alla tintoria, alla contabilità domestica, alla prenotazione di hotel, visite mediche e altre necessità). Se c' è in atto un tentativo per colpire l' immagine della Boldrini, cosa che lei denuncia spesso accusando «i giornali di destra» (ma la notizia l' ha tirata fuori il Fatto), è evidente che il principale artefice di questa campagna sia la Boldrini stessa. Altrimenti non si spiegano le imbarazzanti argomentazioni con cui lei stessa «chiarisce» la vicenda che la riguarda. Perché mai, infatti, pretendeva dall' assistente parlamentare mansioni da cameriera come prenotare il parrucchiere? Risposta memorabile: «Accade a tutte le persone che hanno agende complesse: dispongono di persone di fiducia per simili incombenze. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no». Chissà allora come faranno milioni di donne che lavorano e devono magari anche seguire i figli, a prenotarsi da sole il parrucchiere, senza nemmeno l' aiuto di una segretaria (pagata dai contribuenti, peraltro). Strabiliante anche sulla questione della colf, a cui deve il saldo della liquidazione quantificato in 3mila euro. Oltre al mistero di non essere mai riuscita a contattare il Caf durante svariati mesi (mentre l' altroieri, miracolosamente proprio dopo che il caso è scoppiato, è riuscita subito a trovare la linea della colf), la Boldrini fa capire che il ritardo si deve anche al fatto che a lei risulta una cifra «un po' inferiore». Insomma 3mila euro per la donna delle pulizie che l' ha aiutata per otto anni, sono troppi, meglio perdere mesi e mesi a fare bene i calcoli per darle alla fine una cifra più bassa. Non un atto di grande generosità verso una donna, per giunta straniera.

"Non usateci così", "È fango...". Ed è rissa tra la Boldrini e i collaboratori. Ancora polemiche dopo le denunce della colf moldava e dell'assistente alla Camera che hanno accusato la deputata del Pd di averle sottopagate e maltrattate. Ignazio Riccio - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. Monta sempre di più il caso dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, accusata di sottopagare e maltrattare le sue collaboratrici, dopo le denunce di alcune donne che erano al suo servizio. A rincarare la dose è il presidente dell’associazione collaboratori parlamentari Josè De Falco che ha dichiarato al Corriere della Sera: “Nessuno può avvalersi di personale stipendiato per scopi privati con fondi pubblici. C'è una dignità della funzione, un rispetto dei lavoratori da preservare. Anche perché spesso chi si lamenta viene cacciato e denunciato. E molti casi non vengono a galla perché coperti da accordi di riservatezza. Servirebbe una riforma dei contratti, che è ferma da troppo tempo”. Un colpo duro da ammortizzare per la paladina dei diritti delle donne, la quale, in questi giorni, si è dovuta difendere dalle accuse mosse dalle sue ex dipendenti: una colf moldava e una collaboratrice parlamentare. Era stata Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano a evidenziare la polemica, raccontando le due vicende separate. “A maggio 2020 – aveva dichiarato la domestica – ho dovuto dare le dimissioni perché la signora (Laura Boldrini, ndr), dopo tanti anni in cui avevo lavorato dal lunedì al venerdì, mi chiedeva di lavorare meno ore, ma anche il sabato, ma io ho famiglia, dovevo partire da Nettuno e andare a casa sua a Roma, per tre ore di lavoro. Siamo rimaste che faceva i calcoli e mi pagava quello che mi doveva, non l'ho più sentita. La sua commercialista mi ha detto che mi contattava e invece è sparita”. La donna è stata costretta, così, a rivolgersi agli avvocati di un patronato capitolino per chiedere il pagamento della liquidazione a lei spettante. Una cifra irrisoria per la parlamentare del Pd, pari a 3mila euro. La seconda questione, invece, e riguarda un’assistente parlamentare di Laura Boldrini, pagata con fondi pubblici. La donna si è lamentata del fatto che, in cambio di uno stipendio di 1.300 euro mensili, sarebbe stata costretta a sbrigare anche faccende private della deputata, come andare a ritirare le giacche dal sarto e prenotare il parrucchiere. In più, avendo un figlio malato, l’assistente aveva chiesto di lavorare in smart working, ricevendo come risposta il licenziamento. Da qui la presa di posizione del presidente dell’associazione collaboratori parlamentari De Falco. Da parte sua, la Boldrini ha respinto le accuse, parlando di una “campagna d’odio” nei suoi confronti e di “macchina del fango”. L’ex presidente della Camera si è definita “esterrefatta e addolorata”, eppure non è la prima volta che vengono a galla conflitti e litigi. Già in passato la deputata dem si è resa protagonista di alterchi con diversi dirigenti generali della polizia dell'ufficio, sfociati in continui ricambi nello staff.

Scanzi-Boldrini, la storia mai letta degli ipocriti rossi. Racconto semiserio sulle polemiche che hanno investito Andrea Scanzi e Laura Boldrini. Giuseppe De Lorenzo - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. I riferimenti a fatti e persone non sono volutamente casuali, ma la ricostruzione è completamente inventata. All’interno della cucina che ha curato e pulito negli ultimi otto anni, Lilia, collaboratrice domestica moldava, guarda sconfortata il suo potente datore di lavoro. “Non posso venire a lavorare anche il sabato - dice - E poi per meno ore di quante ne faccio adesso. Parto ogni giorno da Nettuno per raggiungere Roma… così non converrebbe più”. Di fronte a lei, altezzosa come sempre, c’è Laura Boldrini, ex presidente della Camera, deputata della sinistra, una vita spesa a sostenere le cause degli stranieri e delle donne.

“Io ho bisogno di qualcuno anche il sabato”, ribatte lei.

“Mi dispiace signora. Così non posso accettare: venire da lì per sole tre ore di lavoro non ha senso”.

“Allora dovremo chiudere il nostro rapporto”, replica inflessibile la padrona di casa. “Ti pagherò il tfr e quando previsto dal contratto. Poi amici come prima”.

Sul volto di Lilia cade un velo di tristezza. Boldrini non dovrebbe comportarsi come un capitalista qualsiasi: da lei non si sarebbe aspettata così poca empatia. Decide allora di farsi coraggio: “Signora mi scusi… dovrebbe anche versarmi gli scatti di anzianità”.

“Quanti soldi sono?”

“Beh, direi circa tremila euro: sa, di questi tempi ogni soldino in più aiuta…”.

Boldrini fa una smorfia. Prende dalla borsetta il cellulare, digita il numero dal commercialista e attende la risposta. Dopo qualche minuto di silenzio passato in ascolto, rimette a posto il telefono e si rivolge alla colf: “La dottoressa mi conferma che la cifra è un po’ inferiore, cara Lilia. Avrai solo quanto ti spetta”.

“Non è vero, glielo giuro”.

“Facciamo così: tu parlane col Caf, io con la mia commercialista. Appena troviamo un accordo ti darò quanto previsto dalla legge”.

Passano pochi minuti di silenzio. Lilia è a pezzi. “Otto anni a sgobbare in silenzio e questa si impunta su 3mila euro?”. Il pensiero le martella in testa con così tanto ardore che teme di averlo urlato ad alta voce. La pancia ribolle rabbia, il cuore dolore. Improvvisamente le guance le rigano il viso, ma evita di singhiozzare. È in quel momento che si rende conto di aver perso il lavoro proprio adesso che trovarne uno è un terno al lotto. “Ci sarà un altro impiego così?”.

Fuori dalla finestra intanto il sole riscalda una Capitale al solito mite. Il coronavirus ha da poco allentato la presa su un’Italia ancora scossa dalla crisi pandemica: migliaia di morti, un Pil in calo dell’8,8%, il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, i ristori che non arrivano. Entrambe guardano l’orizzonte. In cucina cala uno strano silenzio. Poi all’improvviso Laura guarda Lilia piangere e, come colpita da quel gesto dignitoso, si blocca. I pensieri le si accavallano in testa: “E se stessi sbagliando tutto?”. Lei, paladina dei diritti delle donne, madrina delle pari opportunità, in meno di un attimo afferra al volo: si rende conto che lasciare per strada la signora che per anni le ha fatto da colf, in un momento così drammatico per il mercato del lavoro, sarebbe un’ingiustizia. Soprattutto per colpa di un capriccio del sabato. Privare di un contratto una donna che in tanti anni non ha dato alcun problema, improvvisamente appare all’ex Presidente della Camera uno schiaffo a tutti i lavorator* in difficoltà. “In fondo in fondo, ho un reddito di 108mila euro all’anno”, pensa tra sé e sé la deputata, “e Montecitorio il mio stipendio non ha mancato di versarlo neppure nei momenti più drammatici della pandemia”.

Così si gira verso la collaboratrice e, sorridendo, le dà la buona notizia:
“Senti Lilia, fai finta di nulla. Continua pure a lavorare per me dal lunedì al venerdì. Per il sabato farò uno sforzo, cercherò qualcun altro cui fare un nuovo contratto. Mi costerà di più, ma in questo momento mi sembra più corretto”.

“Grazie signora”, singhiozza la colf.

“Ah, e ho deciso di darti anche un premio di produzione da 3mila euro: credo facciano più bene a te che a me”.

Il volto di Lilia si illumina di gioia: “Lei sì è una donna meravigliosa, una vera militante di sinistra e un politico coerente”.

Intanto nel silenzio del lussuoso Hotel Palace di Merano, Andrea Scanzi si sta guardando allo specchio. È da poco finita l’ultima puntata di Otto e Mezzo. “Quanto sono bello e quanto sono bravo”, sorride sottovoce.

“Anche oggi li ho stesi tutti: vedrai domani come cresco nelle interazioni social. Sarò ancora il giornalista italiano più potente di tutta la Rete”.

Improvvisamente squilla il telefono.

“Pronto?”, risponde Scanzi.

“Salve Andrea, sono il medico di base”.

“Dottore, mi dica”.

“Guarda che può darsi che ti chiamino per fare un vaccino: come avevi chiesto sei stato inserito nella lista dei riservisti”.

Scanzi, un po’ sorpreso, non sta più nella pelle: “Va bene, cosa devo fare?”

“Niente: devi aspettare che ti chiami il referente dell’Asl. Però ti avverto: non potrai scegliere quale vaccino farti inoculare e dovrai essere qui ad Arezzo, perché ti chiameranno all’ultimo”.

“Ottimo, non mancherò”.

Messo giù il cellulare, Scanzi torna a osservare il suo riflesso allo specchio. “Mi farò vaccinare e poi lo racconterò a tutti, così sai che figata: like a non finire, condivisioni che si sprecano. Potrei pure diventare il testimonial di AstraZeneca, mica ho paura dei trombi io”.

Qualche giorno dopo, arriva la chiamata dall’Asl. Scanzi carico a pallettoni si presenta al centro vaccinale aretino, tira giù la maglietta nera da simil rockettaro e protende il braccio con fare eroico. Passano 15 minuti, nessuna controindicazione. Scanzi torna verso casa in sella alla moto e già sulle dita sente prudere le parole del prossimo post. “Deve spaccare”, dice. “Anzi: faccio un video che è pure meglio e magari diventa virale come quello in cui dicevo che il coronavirus era poco più di una influenza”.

Appena parcheggia la moto davanti casa, squilla di nuovo il telefono. È Peter Gomez.

“Direttore, come ti butta?”

“Ciao Andrea, ho saputo che sei andato a fare il vaccino. È vero?”

“Sì Peter, una figata. Adesso lo sparo su Facebook, Youtube, Instagram, Twitch, e se riesco mi faccio intervistare pure da Lilly. Che te ne pare?”

“No fare cazzate, Andrea. Avrai anche fatto tutto nelle regole, ma non andare a sbandierarlo ai quattro venti. Qui ci sono 80enni che non hanno visto uno straccio di dose, persone che rischiano di crepare. Mica come te”.

“Ho capito ma io sono un caregaver, i miei genitori sono fragili”.

“Ecco appunto, e perché allora non hai inserito loro nelle liste dei riservisti?”

“Ehm…”

“Senti Andrea, tienitela per te questa cosa. Se poi esce vabbè, ma è meglio non fare gli spacconi. Pensa ai politici toscani, o agli avvocati, che avrebbero potuto vaccinarsi e hanno deciso di evitare. Quando sei un personaggio pubblico a queste cose devi pensare. Non fare il gradasso”.

Scanzi chiude la chiamata un po’ irritato. Ma pensieroso. “Forse Peter ha ragione. Meglio se evito: cosa avrei scritto io di Maria Elena Boschi se si fosse vaccinata saltando la fila? Anche se si fosse iscritta seguendo tutte le regole, avrei scritto: ‘E che cazzo, prima gli anziani e poi i privilegiati renziani’. Forse è meglio se me lo tengo per me”.

A quel punto mette il cavalletto alla moto, rientra in casa, poggia le chiavi sul bel piatto all’ingresso. E mentre sale le scale riflette: “Ora che ci penso, quando la scorsa estate uscì la notizia dei deputati che, in pieno lockdown, hanno chiesto e ottenuto il bonus partite iva da 600 euro, io mi incazzai come un riccio”.

Entrato in camera, si mette subito al pc per ripescare quel vecchio post. É datato 9 agosto. Scanzi lo rilegge rapidamente: “Direi il massimo dello schifo… Sarebbe bello conoscere questi sei nomi.… Non appena li saprò, li pubblicherò su questa pagina… Che bella gente esiste al mondo…”.

Quelle frasi hanno un effetto dirompente su Scanzi: “E che cazzo… a pensarci bene pure quei 5 parlamentari avevano rispettato tutte le regole, come me col vaccino. Se ho bacchettato loro, dovrei redarguire pure me stesso.

a davvero ragione Peter: per coerenza è meglio se me ne sto zitto e buono”.

Roma, palazzo Montecitorio. Squilla il cellulare di Laura Boldrini.
“Onorevole, sono Roberta da Lodi”.

“Salve Roberta, dimmi”.

“Senta mio figlio sta male. Non riesco più a venire da Lodi tre giorni alla settimana per farle da collaboratore parlamentare. Posso continuare a lavorare in smartworking?”

Boldrini, irritata, sbuffa senza timore di nascondere il disappunto: “No Roberta, mi dispiace. Ho bisogno di persone che stiano qui”.

“Ma scusi, in fondo le devo solo tenere l’agenda. Poi lei mi fa prenotare il parrucchiere, le visite mediche. Non mi dica che mi vuole lì perché devo andarle a ritirare le giacche dal sarto, i trucchi e i pantaloni. Sarei una collaboratrice parlamentare, non la sua schiava”.

“Ora non fare la vittima”, replica Boldrini, “ti pago anche per questo”.

Dopo un attimo di silenzio, Roberta si fa coraggio: “Ecco, a proposito di stipendio. Con 1.200/1.300 euro al mese non riesco a viverci. Da quei soldi devo togliere i costi di alloggio a Roma e i treni da Lodi. È troppo. Come do da mangiare ai miei figli?”

“Fai poco la spiritosa: col lockdown non sei mai venuta a Roma e hai risparmiato. E poi lavorare con me è un privilegio, mica uno lo fa per viverci. Se i problemi sono questi, è meglio se dividiamo le nostre strade”.

Roberta piange e riattacca la chiamata. Boldrini è soddisfatta: non si è fatta fregare. Cammina per i corridoi della Camera e pensa di fare un post su Facebook. Dopo una mezz’ora telefona all’addetto stampa: “Ciao Mario, scrivi qualcosa sulle mamme lavoratrici. Un bel post sule donne che sono costrette a doversi licenziare perché col coronavirus, le zone rosse e le scuole chiuse devono scegliere tra la famiglia e il lavoro. Il governo deve garantire bonus babysitter. E i datori di lavoro non possono costringerle a scegliere tra i figli e la carriera. È una battaglia di civiltà”.

“Onorevole mi scusi…”

“Dimmi Mario, che c’è?!”

“Ho parlato con Roberta poco fa, mi ha detto che non le ha permesso di restare in smartworking col figlio malato e che quindi si è dovuta dimettere. Non le sembra un po’ incoerente mettersi a pontificare sui diritti delle donne lavoratrici?”

“Ehm…”
“Io eviterei”.

Laura allora capisce l’errore. Vuole riparare. Richiama subito Roberta ma il telefono suona a vuoto. “Dai Roberta rispondi, ti prego”. Il telefono continua a squillare. Una, due, tre volte. Niente. “Tuut… Tuuut…

Tuut…”. Boldrini riprova. Uno, due, tre squilli. Nulla. Poi all’improvviso…. DRIIIN DRIIIN DRIIIN
In quell’istante suona la sveglia.

Sia Scanzi che Boldrini si svegliano di soprassalto, tutti sudati. Lui è nel letto col suo pigiama di lino, lei in camicia da notte tutta sola in casa. Fuori la luna è ancora alta. Dopo un attimo di smarrimento, i due capiscono: per fortuna era tutto solo un brutto sogno. La colf riassunta, il silenzio sul vaccino, la collaboratrice parlamentare lasciata in smartworking: tutto finto. E senza saperlo, a chilometri di distanza l’uno dall’altra, dicono all’unisono: “Che incubo. Nella vita mostrarsi coerenti va bene. Ma è sempre meglio non esagerare”. Così l’indomani lasceranno a casa Lilia, faranno dimettere Roberta e racconteranno al mondo di essersi vaccinati in barba agli ottantenni che muoiono di Covid. Facendo l'esatto contrario di quello che normalmente predicano. Alla faccia della coerenza dei bacchettoni radical chic.

Selvaggia Lucarelli, sulle colf due pesi due misure: su Fico (in nero) difende e su Boldrini (non in nero) attacca? Le Iene News il 25 marzo 2021. Selvaggia Lucarelli pubblica i racconti di un’ex colf e di un’ex assistente parlamentare contro Laura Boldrini. Stessa carica ma partito diverso: perché nel 2018 se la prese allora con Le Iene per il caso della colf in nero nella casa dove viveva a Napoli Roberto Fico, sollevato da Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, e difese l’esponente Cinque Stelle? Ecco come sono andate le cose, compresa la querela persa da Fico contro di noi. Cambia il presidente della Camera e il partito e cambia anche la posizione di Selvaggia Lucarelli? Il dubbio viene a seguire le prese di posizione della giornalista del Fatto Quotidiano che ha appena attaccato l’ex presidente di Montecitorio, Laura Boldrini, eletta con Leu e ora nel Pd. Quando invece siamo stati noi a sollevare un caso di lavoro nero per l’attuale Presidente Roberto Fico del M5S, Selvaggia Lucarelli infatti se l’era presa con Le Iene e aveva difeso l’esponente dei Cinque Stelle.

IL CASO BOLDRINI. Andiamo con ordine. Il caso Boldrini è scoppiato per un articolo di Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano che raccoglie i racconti di un’ex colf e un’ex collaboratrice parlamentare che avrebbero detto di essere state “maltrattate e malpagate” da Laura Boldrini. Selvaggia Lucarelli rincara la dose sottolineando come queste accuse arrivino contro un’ex presidente della Camera “che ha impostato la sua politica e la sua comunicazione politica sulla difesa delle donne”. L’ex colf moldava sosterrebbe di aver dovuto dare le dimissioni dopo 8 anni perché le si chiedeva di “lavorare meno ore, ma anche il sabato” e di essere dovuta ricorrere dieci mesi fa al patronato di Roma per cercare di avere dopo 10 mesi  3.000 euro di liquidazione. Anche l’ex collaboratrice parlamentare Roberta direbbe di essersi dimessa, dopo due anni e mezzo a 1.200/1.300 euro al mese: “Facevo anche il suo assistente personale. A maggio, finito il lockdown ho chiesto di rimanere in smart working anche perché ho tre figli. Lei mi ha risposto che durante il lockdown con lo smart working avevo risparmiato. Ho dato le dimissioni sfinita”. Insomma si accusa la Boldrini, che ha smentito parlando di "ricostruzioni non veritiere”, di avere due pesi e due misure: difendere le donne in pubblico e non farlo poi nella vita privata. Laura Boldrini ha replicato parlando di "falsità" e "ricostruzioni non veritiere". Sul caso dell'ex assistente parlamentare che vive a Lodi ha detto che dopo il lockdown dell’anno scoro: “Mi ha chiesto di lavorare ancora da casa, perché era insorto un problema con il figlio. Le ho fatto presente che sarebbe stato complicato vista la complessità del lavoro da svolgere. Abbiamo deciso di dividere le nostre strade. Ci siamo salutate con un abbraccio commosso”. Sull’ex colf: “Stiamo trovando un accordo per formalizzare la chiusura del rapporto di lavoro. Purtroppo con un ritardo da me non voluto ma causato da una difficoltà oggettiva a contattare la persona del Caf referente della vicenda. Il punto è che ci sono delle discrepanze da verificare sui saldi finali del Tfr da me già versato per ogni anno di lavoro”. Comunque sembrerebbero contrasti che possono sorgere tra lavoratori e datori di lavoro e in nessun caso si parla di lavoro nero. Vedremo come andrà a finire.

IL CASO FICO. Nell’aprile 2018 vi abbiamo raccontato con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti la vicenda della colf in nero Imma o che ha prestato servizio nella casa di Napoli della compagna dell’attuale presidente della Camera Roberto Fico e in cui viveva anche il rappresentante del Movimento 5 Stelle nei giorni della settimana trascorsi nel capoluogo campano. Qui potete rivedere il primo servizio e qui il secondo. Fico aveva definito Imma “una carissima amica” della compagna, confermando che frequentava la casa e sostenendo che le due si aiutavano a vicenda. Imma in persona però, ai nostri microfoni, aveva smentito anche la versione di un aiuto tra vicine di casa, parlando di un lavoro con turni e orario: “da mezzogiorno alle 3 e dalle 6 alle 7 e mezza, dal lunedì al venerdì”, con uno stipendio di 500 euro al mese. Ma non era la sola a prestare servizio in quella casa, secondo il testimone sentito dalle Iene, e poi anche dalla procura di Napoli. C’era anche Roman, un immigrato ucraino, senza permesso di soggiorno, che non frequentava più la casa da quando Fico era diventato presidente e veniva accompagnato dalla scorta presso l’abitazione in cui viveva quando stava a Napoli. Il presidente della Camera sosteneva di averlo conosciuto alla fermata dell’autobus e che per lui ha fatto un atto di “beneficenza”. In cambio Roman si sarebbe sdebitato “facendo dei lavoretti a casa ogni tanto”. L’ammissione era arrivata però dopo le domande a riguardo di Antonino Monteleone, visto che pochi minuti prima lo stesso Fico aveva negato alla Iena che ci fossero collaboratori con situazione contrattuale borderline in quella casa. "Collaboratori domestici no, non ce ne sono collaboratori domestici", aveva risposto alla Iena. Mai stati? "No". Con contratto, senza contratto? "No". E per giustificare queste dichiarazioni aveva chiosato: “Imma è solo un’amica, Roman solo beneficenza”. Poi, andato in onda, il servizio ci aveva querelato. Un anno dopo la magistratura ha dato ragione a noi, come potete vedere nel servizio qui sopra. “La fonte della notizia è risultata qualificata e la ricostruzione della vicenda è apparsa veritiera, in quanto è certamente consentito al giornalista operare accostamenti tra notizie vere...”, scrive il giudice. Nessuna diffamazione quindi e la notizia data da Le Iene era vera. Cosa diceva Selvaggia Lucarelli in quel periodo sul caso di una colf che non aveva nemmeno un regolare contratto come invece nel caso della Boldrini? Se la prendeva con Le Iene e difendeva Fico per le nostre presunte “incongruenze”. Per non esserci rivolti cioè direttamente alla compagna Yvonne, ma a Fico. A parte il fatto che Yvonne non era e non è un personaggio pubblico, come lo era ed è invece il suo compagno presidente della Camera. A parte il fatto che è stato Fico a ingaggiare direttamente il giovane immigrato Roman, come lui stesso ammise. A parte il fatto che nel caso dell’abitazione dove viveva Fico, quando stava a Napoli, parliamo di persone che hanno prestato servizio totalmente in nero, mentre nel caso di Laura Boldrini i contratti erano registrati. Cambia presidente della Camera e partito di appartenenza e cambia anche la presa di posizione di Selvaggia Lucarelli. Nel caso Fico schierata contro chi ha dato la notizia, nel caso Boldrini a spada tratta contro il politico accusato di predicare bene e razzolare male. Resta il dubbio: non è che è anche Selvaggia Lucarelli ad avere due pesi e due misure quando si parla di lavoro nero e politici? Se sono dei Cinque Stelle, come Fico vanno difesi i politici (anche se non c’è nemmeno un contratto), mentre se sono di un altro partito vanno difese le colf?

Quarta Repubblica, per Laura Boldrini 2mila euro sono noccioline: "Colf imbrogliata per quella cifra? Ma per favore..." Libero Quotidiano il 30 marzo 2021. Siamo a Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4. La puntata è quella di lunedì 29 marzo. E tra i temi affrontati, oltre a Covid, vaccino e dintorni, c'è tempo e modo per parlare di Laura Boldrini, la fu presidenta della Camera travolta dalle testimonianze della sua ex colf e della sua ex assistente parlamentare. La prima, Lilia, è in attesa della liquidazione da parecchio tempo, tanto da essersi rivolta a un patronato: aveva lasciato il lavoro dopo che la Boldrini le aveva chiesto di lavorare anche il sabato, lei rispose che almeno nel weekend aveva una famiglia di cui occuparsi. La collaboratrice parlamentare, invece, ha denunciato come lady Boldrinova la costringesse a mansioni umilianti: prenotare il parrucchiere, ritirare vestiti e comprarne di nuovi soltanto per citarne due. Insomma, un clamoroso imbarazzo per la Boldrini, la paladina di immigrati e donne: in un sol boccone, ha di fatto raso al suolo anno di battaglie, smentendo se stessa. E a Quarta Repubblica viene mostrato un breve filmato in cui la esponente del Pd si difende delle accuse, nel merito quelle che vengono mosse contro di lei dalla colf. E parlando dei ritardi sulla liquidazione, spiega: "Ma perché deve essere sempre un modo per imbrogliare? Perché dovrei imbrogliare Lilia? Era sempre stata regolare... per 2mila euro? Ma per favore... ma siamo seri". Parole che la dicono lunghissima. In primis perché, imbroglio o no, la signora moldava aspetta quei denari da tanto, troppo, tempo: tanto che si è rivolta a un patronato per avere giustizia. Ma soprattutto perché la Boldrini, con quel "per 2mila euro? Ma per favore...", si smaschera da sola. Già, cosa sono per lei 2mila "miseri" euro? Noccioline, bazzecole. Eppure, si immagina, per una signora moldava che fa la colf in Italia sarebbero ossigeno puro, un tesoro. Ma certo la percezione di Boldrini e Lilia è molto diversa. Tanto che, ammesso che correttamente si creda alla buonissima fede della fu della presidente dalla Camera, quest'ultima tratta 2mila euro alla stregua di una moneta da 2 euro. Quando si torna in studio, ecco il commento di Gianluigi Paragone, infuriato per quanto sentito uscire dalla bocca della Boldrinova. Il senatore e leader di Italexit, con un passato da grillino, tuona. "Gian Roberto Casaleggio li avrebbe presi a scudisciate. Laura Boldrini è un politico di polistirolo". Definitivo.

Laura Boldrini, la rivolta dei collaboratori parlamentari: "Fondi pubblici e uso privato, siamo indignati". Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. Dopo le accuse della colf e della sua ex collaboratrice parlamentare come rivelato da Selvaggia Lucarelli su Il Fatto quotidiano, Laura Boldrini si è detta "esterrefatta e addolorata" per la vicenda che "è stata cavalcata da una certa stampa per cui, stando ai loro titoli, sarei maschilista, padrona e addirittura aguzzina". La ex presidente della Camera ha quindi cercato di difendersi dalle accuse delle donne che hanno lavorato per lei. Ma secondo José De Falco, presidente dell' Associazione collaboratori parlamentari, quelle della Boldrini sono "dichiarazioni inaccettabili, siamo indignati". De Falco, a nome degli assistenti parlamentari, sentito dal Corriere della Sera, respinge in toto la difesa della Boldrini: "Nessuno può avvalersi di personale stipendiato per scopi privati con fondi pubblici", attacca riferendosi al caso di Roberta, la ex collaboratrice parlamentare della Boldrini che ha raccontato che tra le sue mansioni doveva anche ritirarle i vestiti dal sarto, prenotarle gli appuntamenti dal parrucchiere e le visite mediche. "C'è una dignità della funzione, un rispetto dei lavoratori da preservare. Anche perché spesso chi si lamenta viene cacciato e denunciato", continua De Falco. "E molti casi non vengono a galla perché coperti da accordi di riservatezza. Servirebbe una riforma dei contratti, che è ferma da troppo tempo", conclude il presidente dell'Associazione. Ma la Boldrini, rivela sempre il Corriere, ha avuto diversi problemi anche in Leu. Nel suo ex partito c'è chi ricorda i molti conflitti, quando lei era presidente della Camera, con diversi dirigenti generali della polizia dell' ufficio sostituiti e continui ricambi nello staff.  

Insomma, se è vero che l'ex esponente di Sel e Leu poi passata al Pd, in passato è stata oggetto di fastidiosi insulti e molte fake news, spesso a sfondo sessista, è anche vero che Laura Boldrini si è fatta molti nemici anche a sinistra, lasciando una scia di collaboratori ed ex colleghi che raccontano di comportamenti che, a loro dire, non si conciliano con la difesa dei diritti delle donne e dei più deboli di cui lei si sente paladina.

Alessandro Barbera per “la Stampa” il 26 marzo 2021. Non versa la liquidazione alla colf. Nega lo smart working all'assistente, nonostante l'emergenza Covid e tre figli a carico. Siccome la sua agenda «è complessa», nei 1.300-1.400 euro di stipendio sono ricompresi le lamentele per l'albergo sbagliato e le prenotazioni dal parrucchiere. Niente di ciò che una persona fa è all'altezza dell'ideale che nutre dentro di sé, scrive Philip Roth in Nemesi. Quella di Laura Boldrini è beffarda. Giovane funzionaria alla Fao di Roma, portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, paladina delle donne. Prima di sedersi sulla poltrona di presidente della Camera, capitava spesso di incontrarla in mezzo agli ultimi, nei luoghi più caldi del mondo. In Jugoslavia, Afghanistan, Angola, Ruanda, e poi Sudan, Iraq, Iran. Oggi di lei si parla per aver costretto una persona agli acquisti in farmacia e ai ritiri in sartoria. «Da anni sono oggetto di una campagna di odio», si difende lei. Solidarietà.

Mario Giordano per “la Verità” il 26 marzo 2021. Contrordine, compagne femministe. La donna può essere schiavizzata a patto che a schiavizzarla sia «una donna sola». Una donna sposata non può farlo, una donna fidanzata neppure, una donna che vive con mamma e papà men che meno. Ma una «donna sola» sì. Lei può farlo. Può schiavizzare una donna. Ne ha il diritto. A teorizzare l' incredibile svolta rosa-schiavo del nostro ordinamento è niente meno che Laura Boldrini, già presidente della Camera e punta di diamante del movimento femminista: ha rivelato infatti di aver usato la sua assistente parlamentare (poco pagata e un po' maltrattata) per le incombenze più umili, come andare a ritirare abiti in tintoria e prenotare il parrucchiere. Ma ha spiegato che tutto ciò non costituisce reato per il fatto che lei, Laura Boldrini, è per l' appunto «una donna sola». Accusata di angherie nei confronti di due donne, la sua ex colf e per l' appunto la sua ex collaboratrice a Montecitorio, la Boldrini ha scelto di difendersi con una intervista su Repubblica da far impazzire d' invidia Comunardo Niccolai, il mitico re degli autogol. Non so quale sia l'addetto stampa che gliel' ha suggerita, ma immagino sia pure lei una donna, e pure lei trattata non troppo bene dalla medesima Boldrini. Solo una collaboratrice avvelenata e desiderosa di far fuori il suo capo, infatti, si permette di consegnare ai giornali una simile difesa d' ufficio. Che chiamare difesa è pure eccessivo: è come se uno volesse ripararsi dal temporale mettendosi un colabrodo in testa e rovesciandoci sopra una bacinella d' acqua. Infatti, dopo aver riciclato le solite parole d' ordine sulla «macchina del fango» e sulle «campagne d' odio» (non possono mancare, per contratto, in ogni sua intervista), l' ex presidente della Camera ammette di non aver ancora liquidato quel che spetta alla sua colf (a dieci mesi dal licenziamento) e di aver usato la sua addetta parlamentare come se fosse la sua cameriera. Poi, non contenta, si avventura a giustificare questi comportamenti raggiungendo le vette dell' autolesionismo. Per quanto riguarda la colf, infatti, butta la colpa sulla commercialista che in dieci mesi (pensate un po') «non è mai riuscita a rintracciare la funzionaria del Caf», cui si era rivolta la colf. Per quanto riguarda l' addetta parlamentare, costretta ad andare a ritirare le giacche dal sarto, la motivazione testuale è: «Vivo sola. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no». Chiaro: se una donna vive da sola, insomma, volete pure toglierle il piacere di qualche sopruso? Colabrodo in testa a parte, siamo seriamente preoccupati per l'onorevole (si fa per dire) Boldrini. Innanzitutto, fossimo in lei, cominceremmo a cambiare commercialista. Perché una commercialista che in dieci mesi non riesce a contattare un funzionario del Caf per liquidare la pratica di una colf, beh, o è un' incapace oppure è una lavativa. Oppure, tertium datur, anche lei è stata maltrattata dalla Lauretta Del Foulard e ha cercato di vendicarsi, un po' come l' addetta stampa. Se fosse vero, sarebbe terribile: vuol dire che maltratta di qui, maltratta di là, l' ex presidente della Camera è ormai circondata da persone che non vedono l' ora di sputtanarla. E allora hai un bel prendertela con la «macchina del fango», con la «campagna d' odio» e con la «società che non digerisce le donne assertive (sic)»: resta solo un castello di finto buonismo che crolla di colpo. E lascia, dietro di sé, il monumento dell' ipocrisia (eufemismo). Per altro la «donna assertiva» dovrebbe anche spiegare come mai, di fronte a una colf che dopo otto anni di fedele servizio chiede meno di 3.000 euro per chiudere i conti e sparire per sempre, non mette mano al portafoglio in silenzio senza perdersi nei burocratici calcoli di Caf e commercialisti, magari aggiungendoci pure qualche spicciolo in più, come ringraziamento per gli umili lavori svolti mentre lei faceva la primadonna in tour. Così come la «donna assertiva» dovrebbe spiegare come mai non accetta lo smart working di un' assistente parlamentare che «ha lavorato benissimo» e che ha fatto «molti sacrifici», tenuto presente che l' assistente parlamentare ha tre figli e che c' è la pandemia. Non c' era nei programmi della sinistra agevolare il lavoro delle donne? E di chi ha figli? E lo smart working? E questo è il modo? Ci si può fidare di una persona che in pubblico si fa paladina dei diritti e poi in privato se ne fotte? O la signora Boldrini è troppo «assertiva» per rispondere? Già questo sarebbe sufficiente a liquidare la pratica nella top ten delle figure di merda del decennio. Ma siccome l' ex presidente assertiva della Camera ha voluto strafare, ecco che se ne è uscita con quella spiegazione indimenticabile che punta a traguardi ancor più prestigiosi. Come mai, le hanno chiesto, usava l' assistente parlamentare per farsi ritirare le giacche dal sarto o per prenotare il parrucchiere? E lei: «Era nei patti. Sapeva che avevo delle esigenze personali». Obiezione: l' assistente parlamentare sostiene il contrario. Risposta finale: «Vivo sola. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna e una donna sola no». Dal che si deduce, per l' appunto, che le «donne sole» hanno diritto di maltrattare le donne con tre figli. E che la Boldrini è innocente per il semplice fatto che non ha un compagno. Altrimenti, è chiaro, avrebbe mandato lui a ritirare le giacche in tintoria o a comprare i trucchi in profumeria. Avviso ai potenziali spasimanti: l' amore è amore, ma sappiate, nel caso, a che cosa andate incontro. Per quanto mi riguarda, scusatemi, se vi lascio. Ma, come ogni giorno, devo andare a prenotare il parrucchiere di mia moglie.

Da liberoquotidiano.it il 30 marzo 2021. Siamo a Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4. La puntata è quella di lunedì 29 marzo. E tra i temi affrontati, oltre a Covid, vaccino e dintorni, c'è tempo e modo per parlare di Laura Boldrini, la fu presidenta della Camera travolta dalle testimonianze della sua ex colf e della sua ex assistente parlamentare. La prima, Lilia, è in attesa della liquidazione da parecchio tempo, tanto da essersi rivolta a un patronato: aveva lasciato il lavoro dopo che la Boldrini le aveva chiesto di lavorare anche il sabato, lei rispose che almeno nel weekend aveva una famiglia di cui occuparsi. La collaboratrice parlamentare, invece, ha denunciato come lady Boldrinova la costringesse a mansioni umilianti: prenotare il parrucchiere, ritirare vestiti e comprarne di nuovi soltanto per citarne due. Insomma, un clamoroso imbarazzo per la Boldrini, la paladina di immigrati e donne: in un sol boccone, ha di fatto raso al suolo anno di battaglie, smentendo se stessa. E a Quarta Repubblica viene mostrato un breve filmato in cui la esponente del Pd si difende delle accuse, nel merito quelle che vengono mosse contro di lei dalla colf. E parlando dei ritardi sulla liquidazione, spiega: "Ma perché deve essere sempre un modo per imbrogliare? Perché dovrei imbrogliare Lilia? Era sempre stata regolare... per 2mila euro? Ma per favore... ma siamo seri". Parole che la dicono lunghissima. In primis perché, imbroglio o no, la signora moldava aspetta quei denari da tanto, troppo, tempo: tanto che si è rivolta a un patronato per avere giustizia. Ma soprattutto perché la Boldrini, con quel "per 2mila euro? Ma per favore...", si smaschera da sola. Già, cosa sono per lei 2mila "miseri" euro? Noccioline, bazzecole. Eppure, si immagina, per una signora moldava che fa la colf in Italia sarebbero ossigeno puro, un tesoro. Ma certo la percezione di Boldrini e Lilia è molto diversa. Tanto che, ammesso che correttamente si creda alla buonissima fede della fu della presidente dalla Camera, quest'ultima tratta 2mila euro alla stregua di una moneta da 2 euro. Quando si torna in studio, ecco il commento di Gianluigi Paragone, infuriato per quanto sentito uscire dalla bocca della Boldrinova. Il senatore e leader di Italexit, con un passato da grillino, tuona. "Gian Roberto Casaleggio li avrebbe presi a scudisciate. Laura Boldrini è un politico di polistirolo". Definitivo.

Striscia la Notizia, Laura Boldrini e la polemica sulla collaboratrice-colf: qualcuno l'aveva smascherata già nel 2014. Libero Quotidiano il 30 marzo 2021. Tengono banco da giorni le polemiche su Laura Boldrini e la sua ex collaboratrice, che sarebbe stata trattata come assistente personale e colf. Si è parlato del fatto che la dipendente non avrebbe ricevuto la liquidazione, ma anche delle vessazioni e umiliazioni che avrebbe subito da parte dell'ex presidente della Camera. In realtà, però, l'intera vicenda era già nota da anni. Lo dimostrano le esilaranti imitazioni che il comico Paolo Kessisoglu faceva della Boldrini a Giass, lo show condotto da Luca e Paolo su Canale 5 nel 2014. In una delle clip, per esempio, si vede la fake Boldrini che dice: "Ho passato tanti anni a viaggiare per il mondo con la delegazione dell’Onu, ho visto tanta sofferenza e tanto dolore". Alla domanda sul momento più difficile vissuto, la deputata interpretata da Paolo risponde: "Sicuramente a Belgrado, ma non per la guerra. Dov’ero io, al Four season, dopo le 9 e 30 non davano più la colazione, una grave e sessista mancanza di rispetto". Ma non è tutto. In un altro video ironico, la Boldrini fake dichiara: "Che questo Paese sia alla rovina si evince dagli spot pubblicitari in tv. Non si può concepire come normale uno spot in cui i bambini e il papà sono tutti seduti ed è solo la mamma a servire a tavola. Cosa vuol dire questo? Che non hanno la filippina". Insomma, una serie di video ironici e caricaturali che sembrano aver previsto da tempo gli atteggiamenti oggi sotto accusa della Boldrini.

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 22 marzo 2021. Stesso bersaglio, battute simili. A cambiare però sono le epoche.  Giovanna Botteri teneva banco anche dieci anni fa, come testimonia una puntata di Victor Victoria del 2011 nel corso della quale Geppi Cucciari prese di mira proprio la giornalista del Tg3. Nel mirino finirono i capelli, l’abbigliamento e il trucco dell’allora corrispondente da New York che nel 2020 ha invece raccontato da Pechino i momenti più bui della pandemia. Proprio in una di quelle occasioni Striscia la Notizia dedicò un servizio alla Botteri, spesso presa in giro da comici e colleghi per il suo look, considerato poco curato. Sulla sua reale riuscita si potrebbe discutere per settimane, così come di tutte le interpretazioni e le polemiche che seguirono. La questione, infatti, non rimase circoscritta ai confini televisivi. Divenne un affare di Stato, tra accuse di body shaming e difese ferree, sia aziendaliste (da parte della Rai) che di genere. “Sono stati giorni difficili per lei ed è piuttosto giù di morale”, spiegò Maurizio Mannoni in una puntata di Linea Notte. “Non si aspettava una cosa del genere, tutto si sarebbe aspettata tranne attacchi di questo genere. Le rinnoviamo tutta la nostra stima, del resto chi segue questa rete e questo tg da tanti anni non può che apprezzare la bravura di una collega inviata di guerra straordinaria. Appare del tutto incomprensibile come qualcuno abbia sentito l’esigenza di fare attacchi su un look normale, dovrei dire”. Attenzione, il coinvolgimento di Mannoni non è causale. Il giornalista era infatti ospite di Victoria Cabello negli istanti in cui la Cucciari faceva battute mostrando i risultati di un sondaggio – realmente effettuato – tutto incentrato sullo stile della Botteri. “Potendo, metterebbe dieci euro di tasca sua per pagare un parrucchiere alla Botteri, quella da New York, ed evitare che vada in onda con un mocio vileda in testa?”. Per la cronaca rispose sì quasi il 50% degli interpellati, tra le risate generali. Stette al gioco pure Mannoni che, va sottolineato, espresse parole al miele: “Sta benissimo così, Giovanna la difendo con passione”. Cucciari rincarò tuttavia la dose, mostrando una foto in diretta, accompagnata a quelle di altri inviati uomini: “Vediamo se vuoi ridire questa frase dopo averla vista. Ha i capelli un po’ anni ottanta, probabilmente nella diaria non ci sono i soldi per il parrucchiere, quindi lei si organizza con la spazzola come può. E’ uno stile preciso quello del Tg3. Vi vestite ancora come se il muro di Berlino fosse appena crollato e voi foste rimasti sotto”. Salvo poi precisare: “Non parliamo del suo lavoro, ma della sua dimensione tricologica. Come giornalista va benissimo”. Nonostante le analogie evidenti, nessuna bufera si imbatté sul programma. Non che la Cucciari meritasse furenti attacchi, sia chiaro, ma una riflessione sui tabù innescati in appena due lustri si potrebbe tranquillamente avviare. Si eccedeva troppo prima? Si è spinto troppo sull’acceleratore del moralismo dopo? A tal proposito, tornano alla mente le recenti esternazioni dell’attrice Matilda De Angelis, protagonista all’ultimo Festival di Sanremo: “Ho trovato veramente assurdo essere giudicata per come ero andata vestita o avevo portato i capelli”. Potrebbe essere un eccesso di permalosità. O forse la perfetta fotografia dell’attuale momento storico dove anche le virgole finiscono sotto la lente d’ingrandimento.

Da "il Giornale" il 9 marzo 2021. Quando si tratta di alzare l'asticella dello scontro con le altre donne, nemmeno la scrittrice Michela Murgia ci va giù leggera. Nonostante sia una femminista in prima linea, autrice di un libro uscito proprio ieri, intitolato Stai Zitta, tutto a tema lotta al patriarcato e libertà delle donne. Sacrosanto. Eppure anche la Murgia ha individuato nell'unica donna leader di partito, Giorgia Meloni, un bersaglio perfetto. Così la leader di Fratelli d' Italia diventava autrice di «squadrismo mediatico» nel 2019 per le critiche alla direttrice artistica di un festival culturale de L' Aquila. E ancora, nello stesso anno, diceva: «La Meloni usa il crocifisso e il presepe come corpi contundenti». Con commenti sulla vita privata: «Questa è una donna che nella sua vita personale ha fatto delle scelte che certamente non sono congruenti con l'idea di famiglia cristiana». La Murgia nel 2014, dopo le elezioni regionali sarde, riusciva a offendere le donne del Pd sardo e Daniela Santanché nella stessa frase. Si diceva vittima di «livore e menzogne» da parte delle donne dem, colpevoli di «aver idolatrato la Santanchè solo perché mi attaccava in pubblico».

Le donne di sinistra che odiano le donne. Invocano parità e solidarietà, ma sono pronte a demolire chi non la pensa come loro. Domenico Di Sanzo - Mer, 10/03/2021 - su Il Giornale. Eccoli, i danni di alcune donne nei confronti di altre donne. Da sinistra verso destra. Perché soprattutto in questa direzione è concessa la «licenza di uccidere», dialetticamente e metaforicamente si intende, i personaggi dello stesso sesso ma dello schieramento politico opposto. E così, nella ricorrenza dell'8 marzo, da sinistra verso destra, non si contano le aggressioni sguaiate, gli sfottò ai limiti del bullismo. Sempre in questo senso di marcia parte la caccia alla donna non allineata, all'anomalia, alla voce stonata. Addio al femminismo, bando anche alla cara vecchia solidarietà femminile. In uno schema secondo cui gli avversari politici uomini sono da colpire, ma le donne che la pensano diversamente devono essere fiaccate, umiliate, aggredite. I bersagli di certa sinistra non cambiano. Da Mara Carfagna a Giorgia Meloni, lo spartito è collaudato.

L'ultimo bersaglio della Lucarelli: la Palombelli. Evidentemente non basta essere chiamata «Vacca» o «Scrofa» per ottenere la solidarietà di Selvaggia Lucarelli (nella foto). Ne sa qualcosa Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia. Dopo gli insulti che le sono piovuti addosso dal professore universitario Giovanni Gozzini sembrava che proprio tutti e tutte fossero d'accordo nel condannare l'accaduto, esprimendo di conseguenza solidarietà alla Meloni. Invece no. L'unanimità è una chimera per la donna di destra. La Lucarelli non se la sente di solidarizzare. «Non esprimerò alcuna solidarietà a Giorgia Meloni. E non la esprimerò nonostante mi faccia orrore il linguaggio del professore Giovanni Gozzini», ha scritto su Facebook la giornalista dopo aver appreso la notizia. E perché mai? Niente solidarietà a «chi ha fatto dell'intolleranza e della divisione il suo credo politico». Inconcepibile la solidarietà, se l'altra donna la pensa in modo diverso. Violenta anche la critica a Barbara Palombelli. La firma del Fatto ha definito «imbarazzante» il monologo sanremese della giornalista Mediaset in un articolo sul giornale online Tpi. Un lungo sfottò, non privo di attacchi personali e colpi bassi sferrati alla Palombelli.

Murgia, la scrittrice che detesta la destra "rosa". Quando si tratta di alzare l'asticella dello scontro con le altre donne, nemmeno la scrittrice Michela Murgia (nella foto) ci va giù leggera. Nonostante sia una femminista in prima linea, autrice di un libro uscito proprio ieri, intitolato Stai Zitta, tutto a tema lotta al patriarcato e libertà delle donne. Sacrosanto. Eppure anche la Murgia ha individuato nell'unica donna leader di partito, Giorgia Meloni, un bersaglio perfetto. Così la leader di Fratelli d'Italia diventava autrice di «squadrismo mediatico» nel 2019 per le critiche alla direttrice artistica di un festival culturale de L'Aquila. E ancora, nello stesso anno, diceva: «La Meloni usa il crocifisso e il presepe come corpi contundenti». Con commenti sulla vita privata: «Questa è una donna che nella sua vita personale ha fatto delle scelte che certamente non sono congruenti con l'idea di famiglia cristiana». La Murgia nel 2014, dopo le elezioni regionali sarde, riusciva a offendere le donne del Pd sardo e Daniela Santanché nella stessa frase. Si diceva vittima di «livore e menzogne» da parte delle donne dem, colpevoli di «aver idolatrato la Santanchè solo perché mi attaccava in pubblico».

Venezi, il "direttore" mobbizzato dalle femministe. «Direttrice d'orchestra? No, chiamatemi direttore». È bastato poco per far scoppiare il pandemonio al Festival e fuori. Galeotta Beatrice Venezi (nella foto), che sul palco dell'Ariston ha specificato: «Per me quello che conta in realtà è il talento, la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro, la posizione, il mestiere ha un nome preciso, e nel mio caso è quello di direttore d'orchestra». Frasi semplici, forse addirittura banali, seguite dall'ennesimo dibattito monstre sulle desinenze femminili. Parole che bastano a far percepire la Venezi come una voce fuori dal coro. Ed ecco le reazioni. La solita Lucarelli le ha ricordato che «da donna avrebbe pulito gli spartiti anni fa». Più soft all'inizio Laura Boldrini, che ha invitato il direttore d'orchestra a «non dimenticare i sacrifici delle donne». Salvo poi attaccare: «È un problema serio che dimostra poca autostima». Si butta nella canea la collega Gianna Fratta, che parla di «salto indietro di 50 anni» e di messaggio «pericoloso». Peccato che la stessa Fratta nel suo sito si definisca «direttore d'orchestra» e «direttore artistico» in un curriculum vitae facilmente reperibile sul web.

Insulti legati al fisico: la vera violenza della Argento. Ed ecco Asia Argento. Dal metoo al bodyshaming è un attimo. Paladina dei diritti delle donne, bulla contro una donna al tavolo del ristorante. Dottor Jekyll e Mister Hyde. Siamo nel 2017 e l'attrice immortala di nascosto Giorgia Meloni mentre mangia in un locale romano. Foto a tradimento pubblicata su Instagram, con tanto di commento che dovrebbe far rabbrividire e saltare sulla sedia qualsiasi femminista. Nel messaggio della Argento c'è tutto: odio politico e insulti sul fisico di una donna. «La schiena lardosa di una ricca e senza vergogna - scriveva la figlia di Dario Argento - Make Italy Great Again. Fascista sorpresa a brucare». Un compendio di intolleranza tradotto anche in inglese, per i followers stranieri: «Back fat of the rich and shameless - Make Italy great again - #fascist spotted grazing». Tanto per essere sicuri di fare arrivare il messaggio a ogni latitudine. Anche qui, dopo le proteste, il solito copione. Con le scuse rituali, il dietrofront fuori tempo massimo. «Il mio tweet è stato inappropriato. Non avrei dovuto farlo - si arrampicava sugli specchi, indipendentemente da idee personali o politiche, contro una donna. Chiedo scusa». Dall'Argento scuse di bronzo.

La Cristallo e le Sardine che vomitano cattiverie. Alessandra Caiulo non è soltanto una delle militanti più attive del gruppo delle Sardine del Salento. È soprattutto la portavoce del presidente del consiglio regionale della Puglia Loredana Capone, del Pd. Ed è anche una cantante di musica popolare pugliese, esperta di pizzica salentina. Caiulo è solo l'ultima della lista delle donne che, negli anni, hanno offeso gratuitamente Mara Carfagna, ministro per il Sud, storica esponente di Forza Italia. Caiulo il 12 febbraio scorso scivolava su Facebook. Questo il post di cattivissimo gusto: «Ma è brutto se dico che mi viene da vomitare al solo pensiero della Carfagna ministro del Sud?», si chiedeva in un messaggio in cui seguitava a insultare tutta la delegazione azzurra al governo. Poi arrivano le piroette e le scuse di rito. Il post viene cancellato. Intanto la star della notte della Taranta conserva il posto in consiglio regionale, a 5mila euro netti al mese. Di sardina in sardina, arriviamo a Jasmine Cristallo (nella foto), leader nazionale del gruppo insieme a Mattia Santori. Domenica la Cristallo in un'intervista ha detto che se la Meloni diventasse premier sceglierebbe «l'espatrio». Ieri la precisazione: «Era solo una battuta».

Mara Carfagna, gli insulti della Sardina Alessandra Caiulo: "Mi fa vomitare". Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. La portavoce a volte deve sapere tenere a freno la lingua, soprattutto se usa i social dove i messaggi non passano inosservati. Nello specifico, Alessandra Caiulo, nome sconosciuto a livello nazionale ma noto in Puglia, il 12 febbraio ha scritto uno squallido post su Facebook che faceva più o meno così: «È brutto brutto se dico che mi viene da vomitare al solo pensiero della Carfagna ministro per il Sud?». Il messaggio, corredato da foto, prendeva di mira anche Mariastella Gelmini e Renato Brunetta, gli altri due azzurri che Mario Draghi ha scelto nella squadra di governo e il leghista Giorgetti e conferma ciò che era chiaro da molto tempo: la sinistra predica bene e razzola male. Caiulo, cantante della Notte della Taranta, esperta di pizzica e fedelissima della presidente Pd del consiglio regionale pugliese, Loredana Capone, di cui è, appunto, portavoce, è stata anche una delle più attive Sardine del Salento, proprio quel movimento di giovani fondato da Mattia Santori e compagni e così impegnato a cambiare il linguaggio della comunicazione politica affinché si rispettasse l'avversario e non lo si insultasse più. Inoltre è donna e quindi dovrebbe essere attenta alla solidarietà femminile, alle quote rosa e a tutto il contorno d'indignazione che le compagne hanno sempre rivendicato nelle loro battaglie contro il sessismo dilagante degli uomini e, ormai è chiaro, anche di certe donne. Invece Caiulo, pagata 91mila euro l'anno di soldi pubblici per ricoprire un ruolo istituzionale del quale molti sostengono non abbia le competenze, ha dimenticato i buoni propositi delle Sardine e il suo incarico in Regione e ha fatto l'ultrà come una Gozzini qualunque. Poi ha rimosso il post "vomitevole", ma intanto il centrodestra si è scatenato. Il capogruppo di Fratelli d'Italia, Ignazio Zullo, ha chiesto le dimissioni della portavoce della Capone perché, ha detto, «i toni usati non possono essere consoni a chi è il portavoce del presidente del Consiglio regionale della Puglia, che rappresenta non solo la maggioranza, pur essendo un consigliere regionale del Pd, ma tutti i 50 consiglieri, quindi anche il centrodestra». Accuse alla Sardina canterina sono giunte anche dal gruppo di Forza Italia, secondo cui il contenuto del post «ha leso, ancor prima che l'immagine di membri del governo e autorevoli rappresentanti di Fi, il principio del rispetto delle altrui opinioni e posizioni». La questione è stata sollevata anche ieri sia in ufficio di presidenza che nella capigruppo, ma centrosinistra e M5S hanno detto no alla revoca della nomina. Intanto, ieri, Laura Boldrini ha fatto sapere che è stato condannato a 6 mesi di reclusione e al risarcimento del danno l'uomo che su Facebook aveva scritto: «Per la Boldrini sempre più piombo delle P38». L'ex presidente della Camera si era costituita parte civile ed era andata a testimoniare. «Dobbiamo denunciare l'odio online», ha detto l'esponente Pd, «minacce e insulti non possono restare impuniti. È un modo anche per "riprenderci" la Rete come spazio di confronto. Una battaglia di libertà». 

Francesca Bernasconi per ilgiornale.it l'8 marzo 2021. "Se Giorgia Meloni diventa presidente, lascio la Nazione". Jasmine Cristallo, esponente del movimento delle Sardine, non usa mezzi termini e, in un'intervista rilasciata a Nextquotidiano, si scaglia contro la leader di Fratelli d'Italia.

Il ritorno delle Sardine. Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd hanno scatenato il panico. Tanto che, due giorni fa, le Sardine sono corse a Roma per un incontro con il Partito Democratico: "Chiediamo a tutti di fare un passo in più - aveva spiegato il leader del movimento, Mattia Santori - la crisi del Pd è parte della ricostruzione di un campo progressista, di cui abbiamo disperatamente bisogno. Al Nazareno si sta costruendo il futuro del centrosinistra". La crisi scoppiata all'interno del Pd, infatti riguarderebbe "tutti quelli che guardano a sinistra", spiega Jasmine Cristallo: le dimissioni di Zingaretti, infatti, potrebbero portare all'avanzata della parte destra del Pd che, a detta della Sardina, sarebbe rappresentata da Renzi e Bonaccini. "È la parte sinistra del Pd quella che ci interessa- spiega Cristallo- non i renziani o i destri. Bonaccini? È ovvio che io sto andando lì al Nazareno per evitare che possa avere la meglio Bonaccini, e che possa diventare segretario. Lui è un destro per quanto mi riguarda, è un liberale". E su Bonaccini, che aveva rinnegato il merito delle Sardine nella sua riconferma a governatore, Cristallo sottolinea: "Noi ci siamo resi conto che la posta in ballo era molto più alta della riconferma di Bonaccini: dovevamo fermare l’avanzata delle destre a trazione salviniana, e non potevamo permettere che il leader della Lega arrivasse con lo scalpo della regione "rossa" da sempre".

L'attacco alla Meloni. Dal punto di vista nazionale, poi, il Pd rappresenta "un partito importante" e di peso nella maggioranza. Per questo, "quello che sta accadendo ora all’interno del Partito Democratico non può lasciarci indifferenti, perché l’implosione del Pd in questo momento, l’approccio di guerre tribali che è in atto, non può che nuocere alla possibilità di creare un fronte largo che possa arginare le destre". Una paura che coinvolge "tutti quelli che hanno un approccio alla sinistra", che "non possono non pensare che una cosa che riguarda il Pd non riguardi tutti". E il timore di un cambio di rotta verso destra è così forte da aver scatenato le dure parole di Jasmine Cristallo contro Giorgia Meloni: "Noi ci auguriamo che il Pd possa dialogare con Leu, con i 5 Stelle, con la società civile, con i movimenti per creare un fronte largo per porre un argine alla deriva populista e sovranista - ha detto l'esponente delle Sardine a Nextquotidiano - Se Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio io devo lasciare la Nazione. Per questo a Zingaretti, quando ho letto l’annuncio delle sue dimissioni, ho detto: 'Ti prego non ci puoi fare questo'".

·        La nascita (e la morte) del Partito Comunista Italiano.

Centenari. La tanto celebrata epopea del Pci è anche la storia di una lunga lotta contro il populismo, non sempre vinta. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 Dicembre 2021. Il bel volume fotografico della Fondazione Gramsci, che ripercorre le vicende dei comunisti italiani, potrebbe essere l’occasione per una riflessione anche sulle scelte dei suoi eredi. Nell’abbondantissima produzione editoriale che per l’intero 2021 ha celebrato il centenario del Pci, confermando un’egemonia che almeno in libreria sembra ancora inscalfibile, sarebbe un peccato perdersi il bel libro fotografico «In movimento e in posa – album dei comunisti italiani» (Fondazione Gramsci – Marsilio), a cura di Marco Delogu e Francesco Giasi. Per l’occasione, l’altro ieri, anche la vecchia sede di via delle Botteghe Oscure, in un certo senso, ha riaperto i battenti, almeno per un giorno, ospitando la presentazione del volume nell’atrio disegnato da Giò Pomodoro, in cui ancora campeggiano la bandiera della Comune di Parigi e il busto di Gramsci. Giustamente, la prima foto che si incontra nel libro è quella di Amadeo Bordiga, da cui inizia la storia del partito ripercorsa per sommi capi ma senza reticenze nell’introduzione. Il fondatore e primo capo del Partito comunista d’Italia (come si chiamava allora) si era sempre distinto per l’ostinata contrarietà alla vita parlamentare e amministrativa, considerava «mefitica» l’aria del Parlamento, non volle mai candidarsi ed era «poco propenso ad alleanze e compromessi» (alla fondazione Gramsci, di cui Giasi è direttore, è rimasto un certo gusto per l’eufemismo, retaggio forse di un tempo in cui era prudente sapere come smussare gli aggettivi). Motivi per cui Bordiga si guadagnerà anche non benevole citazioni da parte di Lenin nel famoso opuscolo «L’estremismo, malattia infantile del comunismo».

Per i comunisti italiani, a ogni modo, il fascismo e la lunga clandestinità rappresenteranno un monito incancellabile contro i rischi del settarismo. Ma non meno vivida rimarrà nella memoria dei dirigenti la dura esperienza delle purghe staliniane, e degli ordini e dei contrordini impartiti da Mosca a seconda delle esigenze della politica sovietica (cui Bordiga, è giusto ricordare anche questo, non si piegò mai, essendo anzi tra i pochi ad avere avuto il coraggio di polemizzare direttamente con Stalin).

Di qui, forse, il sollievo che si intuisce nel tono con cui Palmiro Togliatti, appena rientrato in Italia, scrive alla moglie, Rita Montagnana, ancora a Mosca, lamentandosi del fatto che «sono finiti i giorni della beata clandestinità!». È il momento della svolta di Salerno. «E ora dopo la formazione del governo, è ancora peggio», prosegue Togliatti. «La portinaia e la ragazza che mi fa da mangiare mi chiamano “cavaliere”! Ma la cosa più curiosa è che, almeno per ora, non mi possono più arrestare: i commissari di pubblica sicurezza, che sono rimasti press’a poco gli stessi, mi guardano con l’aria di chi non ci capisce più niente, anzi, sono costretti a chiamarmi “eccellenza”, e i carabinieri a farmi il saluto col fucile!».

Al di là dell’ironia di Togliatti, e della storia, è quello il momento decisivo, in cui si gettano le basi dell’unità delle forze democratiche che insieme guideranno la Resistenza, scriveranno la Costituzione e avvieranno la ricostruzione dell’Italia. Un percorso non facile e non scontato, specialmente per i comunisti italiani. All’indomani dell’attentato a Togliatti, ad esempio, l’Italia sfiora la guerra civile. Ci vuole tutto l’impegno del gruppo dirigente per evitare che nel partito prevalgano le spinte insurrezionali e avvenga l’irreparabile.

Ripercorrendo oggi quella storia, per come la restituisce l’immediatezza delle immagini contenute nel libro (comprese le fotografie di alcuni dei più famosi fotografi internazionali, da Margaret Bourke-White a Robert Capa), non si può non rimanere colpiti da questo sforzo costante, da questa difficile e contraddittoria battaglia per mobilitare, ma anche per disciplinare, per accendere gli animi, ma anche per moderare le passioni, per chiamare alla lotta, ma anche allo studio, alla discussione, al compromesso. Non per niente, in uno dei momenti più difficili, quando le grandi conquiste democratiche appariranno nuovamente in pericolo, è a quella fase iniziale che Enrico Berlinguer tornerà a guardare, parlando di «nuovo grande compromesso storico» (essendo il vecchio compromesso, per l’appunto, quello tra il Pci togliattiano e le altre forze antifasciste, a cominciare ovviamente dalla Dc).

Questa traiettoria, ovviamente, non cancella le contraddizioni e le reazioni di quelli che di compromessi non vogliono nemmeno sentir parlare, né ai tempi di Togliatti né ai tempi di Berlinguer. Un modo di pensare, di sentirsi e di autorappresentarsi che emerge anche dalle parole di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della sera, quando nel 1974 scrive che «il Partito comunista è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico». In altri tempi lo si sarebbe chiamato forse senso di superiorità antropologica. Ma quando la strada del compromesso storico si rivelerà senza uscita, lo stesso Berlinguer ripiegherà in fondo su qualcosa di simile, trincerandosi dietro la denuncia della «questione morale».

È ripensando in particolare a questi passaggi che l’intera vicenda del Pci, con tutte le sue contraddizioni e i suoi passi falsi, sembra assumere dunque l’aspetto di una lenta, difficile ma progressiva e infine vittoriosa battaglia per portare un grande movimento popolare nelle istituzioni democratiche, e al tempo stesso, necessariamente, per affrancarlo dal populismo. Quanto poi si possa dire che a questo lascito i suoi eredi siano stati fedeli, lascio giudicare al lettore.

Gli irriducibili della lotta di classe: i partiti che evocano l'ideologia comunista. Stefano Iannaccone il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. Da Rifondazione comunista, che ha celebrato il congresso nei giorni scorsi, al Partito comunista di Marco Rizzo, passando per una marea di altre sigle. Che si battono contro il capitalismo. Rivoluzionari che si rifanno al marxismo-leninismo, giovani comunisti e ferventi anticapitalisti. È lunga e tortuosa la sfilza di sigle che ancora si collega al comunismo, evocando a ogni piè sospinto la lotta di classe. Tutti o quasi si sentono gli eredi del Partito comunista italiano (Pci), eppure nessuno è in grado di eleggere nemmeno un parlamentare. I partiti con falce e martello, insomma, abbondano in Italia, tenaci sostenitori della rivoluzione del proletariato. Il simbolo più noto è senza dubbio quello di Rifondazione comunista (Prc), che nel fine settimana ha celebrato il proprio congresso, rieleggendo Maurizio Acerbo nel ruolo di segretario. Ma sono ben lontani i tempi di Fausto Bertinotti, quando il Prc era in grado di condizionare la politica nazionale. Ne sa qualcosa Romano Prodi, caduto nel 1998 proprio perché Rifondazione comunista gli voltò le spalle. E non andò tanto diversamente nel 2008, quando l’allora presidente della Camera Bertinotti che, citando Ennio Flaiano, associò il Professore a Vincenzo Cardarelli: “Il più grande poeta morente”. Non una sfiducia, ma una funerea previsione. Sono trascorsi appena tredici anni, e sembra un’eternità per i nostalgici della falce e martello. Allora sulla scena si muovevano addirittura due partiti comunisti in Parlamento, oltre al Prc c’erano pure i Comunisti italiani di Oliviero Diliberto.

Potere al popolo tra Parlamento ed elezioni

Ancora oggi non c’è solo Rifondazione a promuovere il verbo anticapitalista, seppure il quadro di consenso sia molto differente. Potere al Popolo (Pap), per esempio, conta su un senatore, Matteo Mantero, acquisito lungo la legislatura dopo la fuoriuscita dal Movimento 5 Stelle. La lista di Pap si è presentata alle ultime Politiche in cui ha superato l’1% grazie all’alleanza siglata proprio con il Prc con cui successivamente si è verificata una scissione. Visto il contesto quell'esito elettorale fu festeggiato come un trionfo. Il volto mediatico dell’epoca, Viola Carofalo, è stata nel frattempo rimpiazzata da Marta Collot, presenza costante a DiMartedì su La7. Alle ultime Comunali a Bologna, da candidata sindaca, Collot ha strappato un significativo 2,5%. Tra gli ex leader di Pap, c’è una vecchia conoscenza della sinistra radicale: Giorgio Cremaschi, ex capo dell’ala dura della Fiom negli anni scorsi, almeno fino all’addio alla Cgil maturato nel 2015. Parlando di volti mediatici, non si può non parlare del Partito comunista, guidato da Marco Rizzo, che si è ritagliato in un minimo di spazio per aver preso, addirittura, lo 0,9% alle Europee del 2019. C’è poi un’altra miriade di “falce e martello”, che di tanto in tanto fanno capolino sulle schede elettorali. Il Partito comunista italiano (che è diverso dal precedente Partito comunista) è tuttora vivo e vegeto, tanto che celebra il centenario dalla nascita (il Pci fu fondato nel 1921). Il segretario in carica è Michele Alboresi. Alle Comunali di Roma è stata presentata la lista, capeggiata da Cristina Cirillo, che ha ottenuto poco più di 3mila preferenze, pari allo 0,3%, stessa percentuale (ma un centinaio di preferenze in meno) dell’altra comunista, Micaela Quintavalle, che però milita nel partito di Rizzo.

Gli irriducibili del trotzkismo

È tuttora in attività anche il Partito comunista dei lavoratori (Pcl), fondato da Marco Ferrando, trotzkista d’antan, fuoriuscito nel 2006 da Rifondazione, colpevole di aver accettato l’alleanza con il centrosinistra. Il Pcl, alle ultime Politiche si è presentato un rassemblement di soggetti trotzkisti, ribattezzato “Per una Sinistra rivoluzionaria”. Il risultato? Lo 0,1%. L’elenco non è affatto finito. Resiste il Partito marxista leninista italiano, guidato da Giovanni Scuderi. Non è da meno il Partito di alternativa comunista (Pdac) di Francesco Ricci, che secondo quanto riporta il sito ufficiale “edita la rivista teorica Trotskismo oggi”. È una pubblicazione semestrale “che raccoglie lavori di studio e di analisi della storia del movimento operaio”. Il Partito dei comitati di appoggio alla resistenza, riunito nell’etichetta Carc, alimenta il mito della resistenza al capitalismo, sotto l'egida di Pietro Vangeli, mentre Sinistra classe rivoluzione si è rinnovata, abbandonando il nome di FalceMartello, preso in prestito da una rivista pubblicata fin dal 1986. Il movimento, fino al 2016, era in realtà all’interno di Rifondazione comunista, nonostante le tensioni fossero preesistenti. Finito? Macché il Fronte della gioventù comunista, capeggiato da Lorenzo Lang, ha preso una vita autonomia dopo essere stato la costola del partito di Rizzo. E non si può evitare di menzionare uno degli ultimi trozkisti approdati in Parlamento: l’ex senatore Franco Turigliatto, spina nel fianco della maggioranza che appoggiava il secondo governo Prodi. Oggi è il riferimento di Sinistra anticapitalista. Alfiere della lotta di classe.

Stefano Iannaccone. Irpino di nascita, classe '81, vivo e lavoro a Roma dal 2005. Sono giornalista politoc-parlamentare e scrittore. Dagli studi in Scienze della Comunicazione ai primi passi nel mondo del giornalismo, sono trascorsi sati qualcosa come due decenni. Oltre che per IlGiornale.it scrivo per Panorama, IlFattoquotidiano.it, Impakter Italia e Fanpage. In pass

L’ambiguità di un partito “di lotta e di governo”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Luglio 2021. L’invenzione del partito di lotta e di governo ha un copyright: è berlingueriana. Stava per: “Noi siamo abbastanza forti e potenti per governare, ma poiché la congiuntura internazionale ce lo impedisce noi d’ora in poi saremo una forza di lotta e di governo”. La scelta della parola “lotta” in luogo di “opposizione” contiene la marcia in più della genialità: se io lotto, questo non vuol dire che ti voglio abbattere come farebbe una opposizione. No: io lotto, mi contrappongo, ma non ti voglio sostituire né radere al suolo. Semplicemente, lotto. Che male c’è? Il ragionamento corrispondeva ad un contesto storico reale: il PCI italiano restava lì, sempre impantanato in mezzo al guado senza portare a termine lo strappo definitivo dall’Unione Sovietica e a causa del tentennamento – né fuori né dentro – non aveva ottenuto il patentino per entrare nel governo di un Paese della Nato. Agli increduli anglosassoni, del resto, lo stesso Moro aveva amabilmente spiegato che il nostro non è un Paese euclideo ma un paese dove le “convergenze sono parallele”. Quando fu chiesto a uomini di Stato occidentali che cosa sarebbe successo se il PCI avesse vinto le elezioni e fosse andato al governo, la risposta fu che l’Italia sarebbe stata esclusa dalla condivisione dei segreti militari come per qualche tempo accadde al Portogallo dopo la rivoluzione dei garofani rossi. Tutto ciò detto, l’idea di brevettare un partito che fosse sia di lotta che di governo diventò trendy. Oggi si potrebbe e dire che fu una gran ficata: tu stai mezzo dentro e mezzo fuori, dove le masse assediano il Palazzo d’Inverno e dove fai colazione guardando con distaccato sospetto le folle con i forconi. La moda si estese e oggi ne vediamo i più recenti sussulti: ecco quindi la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia della Meloni che si si contendono i centimetri che separano il mezzo dentro dal mezzo fuori, sparando numeri al lotto circa l’età dei vaccinandi, la portabilità del Green Pass con gli altri colori eccetera eccetera. E la stessa cosa tocca fare a quel poveraccio di Conte, condannato a spiegare ai giornalisti con quali accorgimenti lui stia sia dentro che fuori, perché tanto si fida ciecamente di colui – Draghi- contro il quale non può combattere perché se lo facesse Grillo lo prenderebbe a martellate dopo aver indossato il suo caratteristico scafandro. Così l’ex premier per caso seguita a dire che la riforma Cartabia va rifatta e lo ripete come se non sapesse che Draghi gli ha già detto di no, salvo virgole e qualche punto e a capo. In questo modo, prosegue la commedia dell’arte italiana che è sia politica che non politica. Chi volete che si offenda. Semmai gli altri Paesi europei hanno rinunciato a decifrare i nostri rebus perché si tratta sempre dello stesso giochetto – stare sia dentro che fuori – affascinati dalla stravagante bizzarria italiana di cui ormai non importa un fico secco. Però, lasciatemelo dire: quando nacque, l’idea era geniale. Si cominciò con l’attuazione delle regioni nel 1970 per potere consentire al partito comunista di esercitare una vera attività di governo nelle “Regioni rosse” cosa che provocò grande scalpore e c’erano quelli preoccupatissimi all’idea che i vigili urbani bolognesi armati di pistola al servizio del grande complotto comunista, potessero insorgere contro lo Stato. Quel che è successo realmente allora fu che il partito comunista di Berlinguer ebbe davvero un successo formidabile perché giocava anche lui la stessa partita sul fronte internazionale, dal momento che i sovietici non riuscivano a capire che gioco facessero questi compagni italiani. Chi stava con chi? Chi tramava contro il compromesso storico che avrebbe dovuto produrre la grande entrée del Partito comunista nella stessa stanza dei bottoni in cui era stato invitato il socialista Pietro Nenni? Berlinguer ebbe un bruttissimo incidente d’auto in Bulgaria dove era stato pressantemente invitato, e Cossiga mi disse di averlo fatto riportare a casa da un gruppo di carabinieri sottraendolo alle cure dei compagni bulgari. Poi Berlinguer confessò in segreto a Macaluso che lui era certo che quell’incidente in Bulgaria era stato un attentato, cioè un tentativo fallito di eliminarlo da parte di Mosca. Ma il tentativo, appunto, era fallito. E Berlinguer andò avanti. Tutto il castello crollò quando Aldo Moro – garante del compromesso che avrebbe dovuto salire al Quirinale qualche mese dopo – fece la fine che fece e di tutta quella storia non sappiamo tutto, anzi a mio parere – e vi giuro che non sono incompetente – non sappiamo nulla. La necessità di quel gioco a rimpiattino ebbe termine con la caduta dell’impero sovietico e il cambio di nome da Pci a Pds operato in corsa da Achille Occhetto mentre oliava la “gioiosa macchina da guerra”. Comunque, poi, sì, Berlinguer: ma per amor di cronaca bisogna dire che i socialisti erano stati i primi maestri del piede in due staffe: la sinistra di Basso e Vecchietti era fuori, mentre Nenni stava dentro. E poi quando i due se ne andarono nel Psiup, foraggiato dal KGB russo, il Partito Socialista seguitò a marciare disunito e diviso tra chi voleva l’opposizione e chi il governo, restando sia all’opposizione che al governo. Stessa sorte sta subendo il Partito democratico che cambia pelle, nome, segretario, testa, obiettivi, alleati e sta sempre più di là che di qua, a geometria variabile. E la destra? La nostra ineffabile destra non si capisce bene ancora che cosa abbia di unificante tra la fiamma missina che ancora compare sul simbolo della Meloni e la Lega di Salvini che da federalista che era è diventata nazionalista ma con freno a mano sempre più tirato e non sai mai se ha nostalgia del fuori, sicché quando dalle piazze arrivano le starnazzate dei no-vax e dei libertari senza patente che pretendono di guidare la macchina (battuta rubata, lo ammetto, a Paolo Flores d’Arcais) ribelli senza un oggetto di ribellione ma in sintonica vibrazione con quei cuori che palpitano sia dentro che fuori dal Palazzo, ecco che riparte il balletto nostalgico sempre invidiosissimo del partner che ha fatto un passo di lato. Questa pantomima non ci scandalizza o come dicono a Roma, ci rimbalza: è così che siamo stati svezzati. E troviamo persino grazioso un sistema di coppie aperte a tutte le corna che poi produce famiglie allargate dove in fondo sono tutti sia parenti che serpenti. Ecco quindi come si sta solidificando una cultura fondata sulla quadriglia che calza a pennello ogni terrapiattismo grillismo rancore contro ciò che è ragionevole, perché in fondo. che c’è di male? Secondo gli ultimissimi dati sembra che l’economia italiana sia ripartita ruggendo meglio di quella tedesca, con lingue di fuoco. Abbiamo il sospetto che dipenda dal fattore umano e dalla leadership, un fenomeno dimenticato. Ma in fondo, nessuna sorpresa: dopo sei stagioni televisive del “Trono di Spade” sappiamo quale alito di fuoco abbiano i draghi e questo è un punto sul quale – come si diceva una volta – “i compagni dovrebbero fare una riflessione”.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Che fine ha fatto la sinistra italiana? I tormenti del Pd e la fine della vocazione originaria. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Una volta prima della catastrofe tutto era chiaro quanto a destra e sinistra. Di qua gli ambienti borghesi, i ricordi degli industriali con i residui del latifondo e dei palazzi di famiglia e di là i lavoratori, il quarto stato di Pellizza da Volpedo, Charlie Chaplin alla catena di montaggio, Cipputi ormai estinto anche nel bestiario di Altan, i contadini, i servi della gleba, il proletariato con la falce e quelli col martello fino al lumpen che già Marx aveva sbirciato come un sottoprodotto pericoloso da cui stare in guardia. Ma tutto era chiaro perché c’era la destra e c’era la sinistra. E Benjamin Disraeli e Georges Clemenceau che si contendevano il copyright della sentenza secondo cui «se non sei socialista a venti anni vuol dire che non hai cuore, ma se non sei conservatore a quaranta vuol dire che non hai cervello». I governi si facevano nelle rarefatte democrazie continentali in genere poco inclini al suffragio universale preferendo quello del censo, con delle alternanze fra una destra austera che stringeva i cordoni della borsa e una sinistra solidale e spendacciona. Era una commedia semplice, anzi elementare come i romanzi di Victor Hugo, con rari cenni alle violenze autoritarie dei generali che sparavano ad alzo zero contro la folla che chiedeva pane o gli anarchici italiani trattati come jihadisti in tutta l’Europa per il vizietto di far saltare alla bomba o al coltello le teste coronate. Ma il mondo era comunque di facile lettura. Persino il bene e il male erano di facile lettura.

Fino alla catastrofe. La catastrofe fu la Seconda guerra mondiale ma in un senso che va molto al di là dell’ovvio, il massacro unico e inimmaginabile della Storia. Il macello non soltanto dei milioni di barili di sangue innocente ma di generazioni e popoli estinti in laboratori mai sperimentati nella Storia che contengono Auschwitz ma non sono soltanto Auschwitz. Il problema ulteriore di quella guerra fu anche assolutamente politico, perché nei primi due anni del conflitto la Germania nazista e l’Unione sovietica combatterono insieme dalla stessa parte finché il più perfido dei due non si avventò sull’altro e ne uscì annientato. Ma non solo. Ci fu lo stravolgimento delle coscienze e delle parti, sicché i comunisti francesi furono messi al bando dalla loro patria come traditori al soldo del tedesco invasore e infatti riempivano i muri di Parigi di “Bravo camarade allemand” mentre le truppe hitleriane marciavano sotto l’Arc de Triomphe. Tonnellate di reticenza non sono riuscite a sciogliere nell’acido dell’oblio quei due anni e le menzogne che modificarono la geografia politica. Quella che sembra una vicenda soltanto militare fu invece la catastrofe che distrusse il mazzo da gioco normale della politica così come si era giocata dalla rivoluzione inglese del 1688 alla fine della Grande Guerra, perché subito dopo erano intervenuti ingegnerismi titanici nell’esercizio dei genocidi perpetrati in nome dei socialismi nazionali. Quegli eventi che ebbero una diabolica logica per molti anni ingannarono il distratto pubblico liberal europeo e americano. Lunga storia, lo sappiamo, e non è il momento di scendere in dettagli se non per ricordare che dopo la fine della Seconda guerra mondiale, erano cambiati attori e personaggi: a destra non c’erano più i conservatori ma nel caso italiano la destra sociale post-mussoliniana con la sua vocazione proletaria e massimalista cugina di quella dei descamisados argentini di Juan Peron. E a sinistra galleggeranno per decenni pezzi più o meno armati e in guerra dei tronconi del conflitto che c’era stato e di quello che avrebbe potuto esserci appunto per questa situazione terribilmente anomala che fu deformata ulteriormente negli altiforni della guerra fredda dove le cognizioni di sinistra e di destra furono annientate dalla posizione di schieramento geopolitico dell’uno dall’altra parte. Sicché quando finalmente tutti gli elementi della catastrofe collassarono in un mare di macerie morali e materiali, si era persa la cognizione totale di che cosa fosse la sinistra e la destra. Io che scrivo questo articolo sono stato un socialista iscritto al Psi dall’età di 17 anni, ero amico di Pietro Nenni, persino di Ferruccio Parri e di sua moglie che mi regalava i fazzoletti tricolori cuciti con la sua macchina a pedali. Li ho visti e conosciuti più o meno tutti ma più che altro ero un uomo di sinistra. Come socialista trovai la stessa sorpresa che mi avevano dato i miei capelli rossi, e cioè quella di essere riconosciuto a vista e bersagliato da invettive razziste perché a quei tempi in Italia il capello rosso era ancora l’unico cromatismo minoritario: rosso malpelo schizza veleno, mangia pagnotte schiatta stanotte. Come socialista con altrettanto sbalordimento mi accorsi che da parte dei miei amici adulti comunisti i quali in gioventù erano tutti stati convintamente e gioiosamente fascisti, mi guardavano malissimo perché il socialismo è per metà antagonista e per metà subalterno al Pci e il Pci era per metà antagonista e metà subalterno all’Unione sovietica e così via con tutte le altre catenelle che conosciamo ma che tendiamo a dimenticare. Oggi ci troviamo senza sinistra. Buona democrazia vivere senza una sinistra? No. Perché diciamo che non c’è sinistra? Vorremmo saperlo: abbiamo un partito che chiama se stesso democratico ed erede dell’antico Pci, il quale anziché fare delle guerre di classe ormai un po’ vecchiotte o almeno delle battaglie per proteggere le categorie che producono il progresso e permettono di inseguire l’eguaglianza nei diritti, nei doveri e nella dignità, inventano dei bersagli da luna park: i giovani. Risarcire o retribuire giovani per i danni che hanno subito con la crisi del 2008. Così disse Enrico Letta, che sembra il Marchesino Eufemio del Giusti, il quale andò a superare l’esame con coltissimi strafalcioni e banalità lapidarie e inutili ma in perfettissimo francese. Sono tutti vuoti a perdere. Tassare i ricchi è certamente di sinistra. Ma impedire ai ricchi che fabbricano la ricchezza di fabbricare la ricchezza che poi dovrebbe essere redistribuita, è come spararsi sui piedi o compiere quella famosa operazione coniugale da tutti sconsigliata. Ma l’attuale Pd che dovrebbe rappresentare la sinistra intera invece non sa che fare, tant’è vero che sta aggrappata al tram sgangherato dei 5 Stelle sperando che lo porti da qualche parte, mentre per ammazzare il tempo che è pur sempre un’attività venatoria, diffonde progetti opportunistici, iniqui e comunque che non hanno nulla a che vedere con la tradizione e lo spirito della sinistra. Perché mai si dovrebbe risarcire una generazione con una paghetta? Quale generazione è mai stata risarcita con una paghetta? Le generazioni si arricchiscono dando loro lavoro. Oggi il lavoro c’è ma mancano i lavoratori perché mancano scuole che abbiano creato personale utile per il lavoro che serve. Il nostro è un paese di disoccupati perché inutili, mentre le aziende non hanno chi assumere perché la scuola ha fallito gioiosamente nelle mani delle sinistre italiane che hanno scardinato ogni elemento di progressione. Racconto un piccolo aneddoto che riguarda me stesso: lo faccio per puro narcisismo ma anche per motivi di orgoglio. Per puro caso quando ero uno studente di medicina ho dato il terribile esame di fisica che allora si sosteneva al primo anno con un mostro sacro della fisica italiana che era Edoardo Amaldi, allievo di Enrico Fermi. Andai a quell’esame preparato in una maniera ossessiva. Sembrava un esame perfetto finché il grande fisico non mi chiese di dimostrare il teorema di Lorentz in cui si discute di un fascio di elettroni a zonzo in un campo magnetico. E mi bocciò per non aver pronunciato le parole “per unità di volume”. Quando gli chiesi se non gli sembrasse esagerato, visto l’intero esame, Amaldi mi rispose sorridendo: “Biada alta per i cavalli di razza”. Era un complimento e una bocciatura. E ovviamente una lezione di diversità, merito, separazione. La nostra generazione di sinistra faceva della scuola pubblica una bandiera perché era difficile e crudele e perché chi era di sinistra doveva eccellere, semplicemente eccellere in tutto. A quel tempo alla scuola privata ci andavano i somari, salvo rare eccezioni. Fu tutto spazzato via proprio da uno dei più mollaccioni e ipocriti accomodamenti della sinistra negli anni Settanta e amen. Così vivevo fra gente di sinistra che non ne poteva più delle ipocrisie opportuniste tra cui considerare la scuola prima di tutto un posto di lavoro e soltanto al secondo posto il servizio pubblico dell’istruzione. Passavano gli anni e non vedevamo l’ora che qualcuno mandasse al macero quelle tonnellate di ipocrisia uniformata. Gli intellettuali si sentivano scomodi e per farla breve quando emerse questo matto di Berlusconi s’alzò un grido: forse è la volta buona, proviamoci. In testa il guru del marxismo italiano Lucio Colletti. Ma la destra, nel frattempo, anziché essere conservatrice (non c’era poi molto da conservare del buon tempo antico) si era data al riformismo e dunque scavalcava la distinzione originaria fra conservatori e progressisti. Avevamo solo parassiti e gente mentalmente onesta. Lo so: troppo semplificato, direte. Ma è vero. Anche perché non ne posso più di sentirmi rompere i coglioni sul mio tradimento di uomo di sinistra passato a destra. A destra di che? Di Paperino? Dovrebbero ringraziarci – lo fanno dopo le riprese a microfoni spenti – perché tocca a noi, a noi “di destra” che veniamo dalla sinistra – fare tutto il lavoro di sinistra che la destra non sa fare e viceversa. E questo solo perché la sinistra ha accettato di rincoglionirsi nei luoghi comuni, e come un cucciolo sperduto senza collare né cervello, aspetta che le arrivi la pappa dai democratici americani dopo aver già preso la tranvata kennediana del pionieristico Walter Veltroni. Certo che ci manca, una sinistra. A me – che non sono mai stato comunista – manca anche Rinascita, il settimanale del Pci dove trovavi sputati i dati della realtà, specialmente quando era quella dura da inghiottire. Dov’è finito quello stile? Guardate la foto di gruppo: molta gente stanca di aspettare in balia di una classe, se così si può chiamare, balbuziente, reticente, incapace di distinguere fra luogo comune e dichiarazione politica. Persino i suoi comici deferenti all’autoreferenza non se la sentono di prendere per il culo una sinistra che non c’è più ma che noi vorremmo anche per chiederle perché, in nome di Dio, ci ha scaricato nella discarica dei pentastellati dove ha scambiato per idee i profilattici usati incerta su come usarli: gonfiarli a palloncino o stenderli insieme ai calzini? Segue dibattito.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Viaggio intorno a un partito che fu glorioso. Storia del PCI, partito glorioso che fece un giro largo per non abbracciare Craxi. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Maggio 2021. Uno che ha trascorso, come me, quasi trent’anni (quelli centrali e sicuramente i migliori) della propria vita all’interno della Cgil, arrivando a ricoprire importanti incarichi, se è intellettualmente onesto è costretto a dire di sé (parafrasando, mutatis mutandis, Benedetto Croce): non posso non dirmi un po’ comunista, anche se non lo sono mai stato. Quando si lavora così a lungo con persone della cultura, della formazione e della disciplina dei militanti comunisti – magari condividendo da altri punti di vista quelle loro stesse chimere ora svanite nel nulla – si finisce sempre per assomigliarsi, per condividere valori, prassi e riti comuni e soprattutto per conoscersi e stimarsi sul piano umano. A volte, per un socialista, diveniva insopportabile la loro convinzione di avere comunque e sempre ragione, di essere i migliori e di militare non in un partito come gli altri, ma nel Partito (senza aggiungere altro). In tanti anni ho potuto conoscere diverse generazioni di comunisti, e comprenderne i cambiamenti in rapporto all’evoluzione della politica. Paradossalmente succedeva persino che i comunisti, grazie al senso di disciplina insita nel centralismo democratico, assicurassero lungo tutta la filiera dell’organizzazione fino alla base, la tenuta delle mediazioni di vertice assunte a salvaguardia dell’unità della Cgil e di essa con le altre sigle. Purtroppo ai dirigenti comunisti della Cgil non fu sempre possibile preservare quella sostanziale dialettica col Partito (con il quale il confronto era frequente) che non era mancata in momenti duri e drammatici (si pensi alla vicenda dell’Ungheria nel 1956). In taluni casi (in particolare nelle vicende che, a metà degli anni 80, segnarono la “battaglia della scala mobile”) l’allineamento fu pressoché totale. Ma non sono qui a scrivere sommariamente la storia dei comunisti nel sindacato. Lo ha fatto, dal suo punto di vista, Luigi Agostini in un interessante articolo su Il diario del lavoro. Le mie domande riguardano il partito, nell’anno del centenario di quel Congresso di Livorno del Psi, in cui avvenne la scissione della corrente comunista più intransigente nell’eseguire le direttive (i ventuno punti) della Terza Internazionale. Ho letto pertanto in questi mesi di carcerazione domiciliare da covid-19 diversi saggi su quell’evento, sulla storia del partito e soprattutto sulle testimonianze di ex comunisti, i quali hanno avvertito il bisogno di spiegare – come se fosse un’autoanalisi psichiatrica – i motivi per cui divennero comunisti, sostenendo poi che lo erano stati ciascuno a modo suo. Addirittura un ex segretario ammise di non esserlo mai stato. In queste letture (forse le mie non sono state sufficienti) non ho trovato una spiegazione di come sia stato possibile che un partito come il Pci, tutto sommato in discreta salute nel 1989, abbia deciso di cambiare identità (il 12 novembre alla Bolognina) pochi giorni dopo che a Berlino (il 9 novembre) era caduto il Muro che rappresentava simbolicamente la divisione del Vecchio Continente scaturita dalla Seconda guerra mondiale. Ricordo che in quella storica giornata era in corso un’iniziativa della Cgil a Firenze a cui partecipavano tanti quadri e militanti. Le compagne e i compagni, la sera, si appostarono davanti agli schermi televisivi a seguire le scene della demolizione a furor di popolo. Alcuni piangevano; ma non erano lacrime di dolore, ma di commozione; come se anche loro si sentissero liberi di uscire. Eppure era in corso (venti anni dopo quello di Alexander Dubcek) il tentativo di Michail Gorbaciov di salvare il salvabile del comunismo, all’insegna della perestrojka e della glasnost. A questo punto, a me viene naturale un altro ragionamento: il marxismo restava pur sempre un pensiero solido che aveva preceduto e ispirato la Rivoluzione d’Ottobre. Molti osservatori hanno scritto che Marx ed Engels non avrebbero mai pensato che le loro teorie – elaborate con riferimento all’Inghilterra della rivoluzione internazionale – trovassero espressione in un Paese arretrato ed agricolo come la Russia zarista. Ma quando a dominare è l’ideologia anche la realtà deve adattarsi. Ricordo di aver letto da ragazzo un libro di propaganda sovietica nel quale l’autore si arrampicava sugli specchi per dimostrare che in verità la Russia era una nazione fortemente industrializzata. Ma la storia ha dato ancora una volta ragione a Filippo Turati che definì il bolscevismo russo “una forma di nazionalismo orientale”. Ma come scrivono Marcello Flores e Giovanni Gozzini (nel loro saggio Il vento della rivoluzione Glf 2021) con riguardo ai partiti comunisti europei, resta il fatto che «la fine dell’Unione sovietica risponde cronologicamente alla loro stessa fine sostanziale, magari attenuata da cambi di nome o stentate sopravvivenze». Nello stesso tempo – fanno notare gli autori – il comunismo non sparisce nel mondo, tanto da essere alla guida della Cina popolare, la nazione che compete con gli Usa non solo sul piano militare, ma anche su quello economico. Eppure – aggiungiamo noi – nessun ex comunista italiano oserebbe assumere come punto di riferimento l’ex Impero celeste ora divenuto rosso e potente. Per non parlare della Russia di Putin. Il Pci nel suo travagliato affrancarsi dalla osservanza moscovita (vuoi con le vie nazionali al socialismo, con l’eurocomunismo e con la terza via) non aveva mai messo in discussione né la portata storica della Rivoluzione del 1917, né l’obiettivo della conquista di un sistema diverso dal capitalismo. Enrico Berlinguer – durante la famosa “tribuna politica” del 15 dicembre 1981 in cui aveva evocato l’esaurimento della «spinta propulsiva», non si era limitato a confermare che «gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità»; ma, nello stesso tempo, il tema sul quale il Pci concentrava la sua elaborazione rimaneva «quello della via al socialismo e dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche quali sono le società dell’occidente europeo». Pochi anni dopo il suo successore Alessandro Natta nella relazione di apertura del XVII Congresso il 9 aprile del 1986 aveva esordito con orgoglio: «Noi siamo qui riuniti per trarre le conclusioni di una esperienza democratica che ha pochi paragoni possibili. La discussione che ci ha impegnati per molti mesi nei congressi delle sezioni e delle federazioni – e ancor prima di essi – ha appassionato non solo i comunisti, ma moltissimi che comunisti non sono; altri che duramente ci avversano». Poi Natta aveva aggiunto: «Ci si è detto che noi comunisti dovevamo ripensare noi stessi; e qualcuno ha dubitato o dubita che fossimo capaci di farlo. Abbiamo dimostrato e stiamo dimostrando il contrario, ammenocché non si intenda la pura e semplice nullificazione più che del nome della cosa stessa che noi siamo e rappresentiamo». Alla luce degli eventi del 1989 e degli anni immediatamente seguenti, il Pci vedeva confermate le sue critiche al “socialismo realizzato”, ma non smentiti i valori del socialismo (che fino poco tempo prima erano al centro della ricerca di strade nuove). Ciononostante, non si limitò a gettare a mare i rapporti di fratellanza, si affrettò anche a dismettere un ideale che aveva attraversato i secoli ed aperto alla mitica classe operaia l’ingresso nella storia. Avrebbe potuto ricomporre la scissione di Livorno nel nome di un socialismo democratico che aveva smesso da tempo di promettere palingenesi nei rapporti politici e sociali, ma che era pur sempre l’erede di una grande tradizione. La sequela di nomi adottati (Pds, Ds) dopo l’abiura di quello imposto dalla III Internazionale, hanno, nei fatti, accompagnato non una trasformazione, ma la perdita di una identità definita. Quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer si è consegnato agli ex democristiani e con loro ha fondato il Partito democratico, un novello Candide che si è accorto di una banale verità: si vive sempre nel migliore dei mondi possibili. Perché prendersi la briga, allora, di cercarne uno nuovo e differente? In breve: un partito spretato. Cresciuti alla scuola del “pensiero forte” del Capitale, gli ex comunisti si orientano ora col Manuale delle Giovani Marmotte. Anni or sono mi capitò di ascoltare dalla voce di Massimo D’Alema la spiegazione dei motivi della fuoriuscita del Pci da se stesso. Il lìder Maximo paragonò il suo partito a una nobile tribù pellerossa costretta ad abbandonare la valle in cui aveva sempre abitato. L’esodo le sarebbe stato assai più agevole attraverso il passo. Ma il valico era controllato da Bettino Craxi. Pertanto la tribù, per evitare di sottoporsi a quella dogana, aveva deciso di compiere un lungo giro attraverso le montagne e da lì raggiungere i nuovi pascoli. In sostanza, un’altra fuga, un altro cambio di identità. Come ha scritto Francesco Cundari su Il Foglio, il Pd è restato fedele all’idea del socialismo in un solo Paese. Purché sia all’estero e non in Italia. Giuliano Cazzola

A chi parla e di che cosa?. Da Stalin a Draghi la sinistra chiusa in una teca, si rivolge ad una società che non esiste più. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Ogni volta che riprende lo scoppiettante dibattito da capodanno cinese con drago e mortaretti su che cosa sia e serva a che cosa, la sinistra – ma certo che serve, ma fatta di chi e come? – mi viene voglia dall’ultimo banco di sbracciarmi e gridare: io! Guardi, se non le spiace, da questa parte. Magari ti soppesano e dicono: e tu chi saresti, piccolo sgorbio? Non sei mai stato comunista ma scavalcavi a sinistra e poi sei diventato berlusconiano, poi non lo sei più stato ma invece sì, e adesso che cosa avresti da dire? Ecco. Grazie, prima di tutto. Avrei da dire due cose. La prima: un secolo fa era il 1921, la Germania di Weimar faceva il primo patto segreto con la Russia di Lenin per impiantare officine militari e scuole d’addestramento proibite dal trattato di Versailles, dopo l’abbraccio e i molti baci fra tedeschi e russi nell’Hotel Imperiale di Rapallo mentre la lotta di classe si era rimodellata fra vincitori e vinti. Anzi, fu l’anno dopo, ma non importa. Accadde e nessuno fece una piega, neanche un plissé. Il Partito socialista nel giro di pochi anni aveva figliato un Partito Comunista d’Italia e un Partito Nazionale Fascista che si spacciava per soreliano socialista e sindacalista. Si guardavano ma non si vedevano. Stavano ma non erano. Le due entità si ignoravano senza avere la più pallida idea delle puntate successive. Lascio stare l’alleanza rosso-nera che scatenò la guerra e non dirò niente sui comunisti francesi messi al bando perché collaborazionisti del tedesco invasore. Tutta roba passata per il tubo digerente dell’oblio forzato su cui sto scrivendo un libretto per raccontare quel che accadde sul piano delle fusioni e confusioni. Poi scontri titanici, collassi titanici, morte e mummificazione delle ideologie (sono morte? stanno meglio? c’è un mausoleo?) e rieccoci qua un secolo dopo seduti intorno allo stesso divano ma con i giocattoli aggiornati: il populismo che già era stato brevettato da Giannini negli anni Quaranta, ma che riciccia a sorpresa con diversi cappelli e cotillon. Ma il riformismo, signora mia, oggigiorno che cosa sarà? E a vantaggio di chi e perché? Poi, ecco che qualcuno interrompe la musica e viene eliminato quello senza sedia, ma sempre rievocando. Idea: vogliamo comprare alla Città del Sole, giochi pregiati in legno per bimbi affluenti, la versione più aggiornata del gioco? Giusto per non restare sempre indietro, vestiti alla marinara? Sorpresa del tutto nota: mancano i pezzi principali: oltre al Grande Stalin-Saladino, manca la Borghesia, manca il Proletariato – giuro che l’avevo visto– e quanto ai reietti del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo non vediamo le figure cui eravamo affezionati ma le vittime. Il giocattolo ideologico del secolo è fatto di vittime e minoranze, nuove povertà e ovviamente multinazionali sempre pessime e carogne – ci mancherebbe – ma piene di roba strana come i fondi pensione dei pensionati che vagano per il pianeta. Ecco, dunque, che s’avanza uno strano soldato, ma non vien dall’oriente (anche se un po’ di Cina c’è) e non monta destrier. Chi sarà? È uno strano creaturo che si va diffondendo e sfugge all’allevamento in batteria per polli divisi in categorie. È un individuo individualista che cerca remunerazione, dice di creare valore e spesso ti tira in faccia manciate di monete inesistenti ma esistenti che si chiamano bitcoin. Con lui sono tutti coloro che possono vantare qualche titolo per dichiararsi minoranza e dunque vittima in attesa di risarcimento. Da noi è ancora uno spettacolo raro, ma negli Stati Uniti – dove cresce la sinistra più radicale, manesca e intransigente del mondo di cui in Italia pochissimi hanno una pallida idea – si assiste a un frazionamento della società e delle categorie per etnie, genere, quota di vittimismo acquisita. Il giovane filosofo conservatore Douglas Murray – conservatore gay britannico estremamente liberal – ha calcolato che le nuove possibilità di genere superano i cento e che sono in conflitto implacabile come e peggio che in una lotta di classe perché è anche una lotta di classe. L’ondata ha già colpito Regno Unito e tutti i Paesi di lingua inglese, poi Nord Europa e naturalmente Francia che è densissima di divisioni verticali. Da noi si avvertono avvisaglie, ma ci siamo e a quel punto – fra poco – salteranno tutti i parametri, le viti, i cerotti, gli album di famiglia. Che cosa è di sinistra, chi è di sinistra, che cosa vuole fare una sinistra, e per chi: ecco il non-problema. è un non-problema perché i problemi sono problemi soltanto se ammettono soluzioni. Perché non ammette soluzione ma un rovente e non riducibile conflitto. La visione conflittuale di una società divisa in classi e decrepita. Sono sparti i contadini figli dei figli della gleba e al loro posto ci sono laureati farmers, ci avete fatto caso? e gli operai hanno due lauree, qualcuno va per il master. L’immigrato integrato segue con entusiasmo. Allora – ecco il secondo punto che voglio consegnare per il mio compito in classe – sembra che a sinistra sia cresciuta la fame di rispetto individuale. Non tolleranza che parola paternalistica e concessiva, ma rispetto per le personali “boundaries”, i propri confini che assicurano l’individualità unica e irripetibile, e per questo diventata sacra prendendo il posto della sacralità di classe, delle masse, del mondo che è stramorto con tutte le tute blu, anche se ancora restano residui in fase di mutazione. Tutto ciò e molto di più a mio parere incenerisce o musealizza il dibattito su passato e presente perché ignora un futuro molto faticoso, quando Draghi ci avrà cablato in banda larghissima e noi non sapremo che farcene. Ultima idea, irrazionale. La sinistra è un sentimento. Un comune sentire, cantare Bella Ciao a voce stonata quando nessuno ricorda come andò questa faccenda di “è arrivato l’invasor”. La sinistra è prigioniera in una teca per creature emotive, molta rabbia per non avere uno straccio di montagna su cui darsi alla macchia, nella perdita tridimensionale della storia. Un sentimento, un brivido su per la schiena. Eravamo tutti compagni, questo almeno ve lo ricordate? E adesso, che cazzo facciamo? Segue ampio e approfondito dibattito, ma soltanto se avrete la pazienza di sorbirvi sei ore sei di documentario che neanche la corazzata Potemkin, con la famosa scena della carrozzina che precipita col pupo dentro e quel pupo siamo noi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La sinistra ridotta a scegliere tra un comico e Giuseppi. Che pena il Pd, passato da Marx e Proudhon a Grillo e Conte…Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Di tutta questa miserabile vicenda di Grillo, ciò che provoca maggior repulsione è la rete neuronale del Pd. Preparando l’articolo sul 1972 per il nostro giornale, ho ricordato che quello fu l’anno in cui Enrico Berlinguer diventò segretario del Pci. Il maggior partito della sinistra italiana (i socialisti erano frastornati e divisi) cercò una sua via originale e non fortunata, ma che segnò la storia di quel partito e dunque della politica italiana. Oggi i resti di quel partito, insieme a quelli della Dc e a filamenti socialisti, si contorcono su un grave conflitto ideologico: sarà meglio far razza col salvaschermo televisivo permanente in doppio petto Giuseppe Conte, oppure con il condannato per omicidio Grillo, ora sotto le luci della ribalta per un video che lo mostra tal quale è sempre stato? Altro che decidersi fra Karl Marx e Pierre-Joseph Proudhon. Certo, Conte ha più cravatta e miglior taglio di capelli, benché zoppichi sui congiuntivi, ma con le scarpe lustre. I compagni, collegati via Skype sono dilaniati. Il Grillo è uno che gira con lo scafandro e dunque piace al popolo di Nerone. Quello di Petrolini che gridava dalla piazza “bene-bravo” prima che il tiranno aprisse la bocca. Petrolini pigliava per i fondelli Mussolini il quale però astutamente lo sponsorizzava perché da esperto comunicatore si teneva buona la “fronda”, ovvero la valvola del dissenso minimo garantito. Oggi non c’è tempo per sottigliezze. Il clown è da tempo di scena, in servizio permanente effettivo. La questione, tracimando, investe gli intellettuali a invito del piccolo schermo, convocati secondo le appartenenze religiose dette in Italia “linee editoriali”. E così, da quattro giorni ormai, si simula – usando lo sperimentato format del dialogo fra sordi – l’ampio e approfondito dibbbattito (con tre “b”) sul nulla, il cazzeggio e la vaccinazione contro un temuto ritorno del decoro. Le donne del Partito democratico, tuttavia, sentono i nervi scoperti vedendo che dovrebbero far razza con il clown ideologo secondo cui la adolescente che giocava con il figlio smutandato del clown, non poteva che essere consenziente a una monta ruspante, perché il clown dice di possedere il video con l’esatto svolgimento delle zozzerie contestate. Questo è umorismo: tutti hanno riconosciuto la citazione di Nino Frassica ai tempi di Arbore notturno, che dovendo difendere l’indifendibile, tagliava corto: “C’ho il libro a casa”. Lui, l’ideologo, ha il video. Di qui, come potete vedere, riparte il dibattito della sinistra italiana. Dal video emergerebbe che i maschi sono forse un po’ “coglioni” a saltellare “col pisello di fuori”, ma le femmine (e questo è il punto ideologico, come i Grundrisse del giovane Marx) sono un po’ zoccole. La linea del progresso è garantita per lo stesso Paese in cui l’ideologo Grillo ha raccomandato che il Parlamento fosse “scoperchiato come una scatola di tonno”. Così disse il clown condannato per omicidio e interdetto da cariche elettive per essersi messo in salvo dalla jeep che non sapeva guidare, lasciando che i suoi passeggeri si sfracellassero in un burrone e che poi non si fece nemmeno mai vivo con la bambina che si vide a sette anni distrutta la famiglia. Clown e gentiluomo. Scoperchiatore sì, ma con video. Ed è lui che fa e disfa, col permesso del Pd, i governi. Che caso straordinario, filosofico e culturale, Quale inattesa protesi del pensiero di Berlinguer che aveva introdotto Santa Maria Goretti, martire dello stupro, nei riferimenti etici del suo partito. Che ci sia discontinuità? E il nostro Letta? L’esangue Enrico, che fa? Che pensa? Come si sente dopo tutto il casino per imporre le quote rosa nei gruppi parlamentari imponendo così la segregazione –capovolta – per genere, anzi gender? Come dicono giù in sezione, “cazzo, compagni, parliamone”. Noi che rappresentiamo quella sinistra che avendo a cuore prima di tutto la libertà, tanto da essere accusata di essere di destra, restiamo malgrado tutto scassacazzissimi ottimisti. E ci concediamo sogni profetici. E abbiamo sognato che un nuovo virus, buono, si avventasse sul Pd con forza la epidemica di una proteina Spike riattivando pudore e senso del ridicolo, con ripristino immunitario della dignità minima. Non siamo moralisti, non siamo manettari, ma non siamo neanche scemi. Come può questa palude dilaniata fra la tentazione del salvaschermo Conte e il Grillo della povertà umana, rompere ancora i coglioni con Ruby nipote di Mubarak? Con quale recondito pensiero questa gente può ancora seriamente pensare che un avvocato dirottato sulla via del Quirinale dal Gatto e dalla Volpe (Di Maio e Salvini) con un curriculum sputtanato dal New York Times e pazzescamente imposto per due anni anche durante le previsioni del tempo, essere considerato un leader? Forse (e diamo una botta di retorica, va…) come leader dell’epidemia fuori controllo? Dei milioni di mascherine sfondate che hanno infettato le corsie? Dei banchi a rotelle? Dell’incapacità ignorante e arrogante che ci ha regalato ventimila morti in più? Pensate: costoro ci pensano. Giocano a scacchi una partita in cui i pezzi sono Casaleggio figlio che è proprietario della scacchiera e reclama gli arretrati; il matto con lo scafandro che si riproduce in fase di colpo apoplettico per difendere un figlio che lo preferirebbe sedato; l’avvocato con in tasca un partito immaginario prodotto dall’illusione dei teleschermi (successe anche a Dini e a Monti) e un pallottoliere per conti ridicoli, malfermi, indegni della sinistra, indegni della democrazia, indegni della storia che si portano nello zainetto. Il sogno dicevamo. Sì, abbiamo fatto un sogno, Un sogno senza speranza, ma un bel sogno in cui una ventata di decenza, di umorismo e rossore benefico, produca un recupero di dignità e di rispetto per la democrazia. Il pagliaccio con lo scafandro, fa ricorso a una delle sue figure retoriche a lui più care: quella dei “calci in culo”, come boost o propellente. Ecco. Il popolo della sinistra potrebbe partire da lì. Dal calcio in culo. E poi, vedere l’effetto che fa.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Come giocavano i comunisti? I videogiochi in Unione Sovietica. Pubblichiamo per gentile concessione dell'autore un estratto da Insert Kopeyki. I videogiochi nell'universo comunista (Passaggio al Bosco) di Stelio Fergola. Stelio Fergola - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. L'anno cruciale dell’introduzione del videogioco nelle case dei sovietici è il 1978. In quell’annata, infatti, viene commercializzata la prima macchina per famiglie, il Palestra – 02 (Палестра-02). Il nome, del resto, era già una presentazione. La macchina includeva 4 giochi – tennis, calcetto, pallavolo, squash – e una modalità di allenamento. Ad eccezione di quest’ultima, tutti consentivano di giocare con gli amici, grazie ai due gamepad inclusi nella confezione. A pochissima distanza dall’uscita del Palestra, viene reso disponibile un altro set-top box, che tutt’oggi rimane la console sovietica più conosciuta: il Turnir (Турнир). Il che, tra l’altro, è abbastanza curioso, viste le differenze pressoché minime tra i due hardware: Turnir, però, utilizzava un chip AY-3-8500 straniero di importazione, per l’epoca abbastanza performante. Venduto all’inizio al prezzo 150 rubli, avrebbe subìto due adeguamenti verso i 99 e i 96 rubli alla fine del 1982. La compagnia bielorussa Elettronica, poi, lanciò ben due macchine da gioco: Elettronica Exi-Video 01 ed Elettonica Videosport, entrambe commercializzate nel 1980. In realtà, l’unica differenza tra le due console consisteva nella presenza della pistola quale periferica dell’edizione Videosport. Oltre ai vari esempi di console casalinghe rese disponibili sul suolo sovietico, l’URSS ha testimoniato, già dall’inizio degli anni Settanta, la diffusione delle cosiddette macchine arcade o “da bar”. I cabinati venivano impiegati soprattutto nei luoghi di svago quali parchi, cinema e sale giochi, oppure nelle stazioni e negli hotel. Esattamente come le controparti occidentali, erano dotati di gettoniera. I generi coperti da questo tipo di macchine, erano piuttosto variegati: si passava dai simulatori di guida agli sportivi, arrivando alle versioni diversificate di tiro a segno. Erano cabinati divisi in due categorie: elettromeccanici ed elettronici, dunque basati su veri e propri microchip. Sebbene la prima categoria non sia annoverabile propriamente ai videogiochi, l’effetto finale prodotto da alcuni di essi non se ne allontanava significativamente. In tal senso, giova citare Morskoi Boi, titolo di battaglia navale di cui parleremo più avanti. Considerata la concentrazione enorme della tecnologia nel cosiddetto complesso militare-industriale, furono proprio le fabbriche belliche a produrre gran parte degli arcade elettronici resi disponibili in URSS, che funzionavano, di norma, al costo di 15 copechi. Le macchine trovavano un certo impiego anche nei collegi o nei campi del Konsomol.

SOVIET E PEDAGOGIA. Il comunismo spiegato ai bambini. Torna alla luce una straordinaria raccolta di albi russi scritti tra la fine degli anni Venti e il 1933 e illustrati da grandi artisti. Una collezione appartenuta a due architetti, in fuga dalla Germania nazista. In mostra alla Biblioteca Braidense di Milano. Sabina Minardi su L'Espresso l'11 febbraio 2021. In bianco e nero la vita di prima, figure ricurve per gli stenti ed il lavoro. Colorato e radioso il mondo che ha appena salutato la Rivoluzione d’ottobre: è “Ieri e oggi” di Samuil Maršak, illustrato da Vladimir Lebedev. E mentre un postino, panciuto e spavaldo, avanza con una busta in mano - in “Posta”, elogio di un mestiere decisamente utile alla collettività, disegnato da Michail Cekanovskij, tra i padri dei cartoni animati in Urss – un bambino si staglia da un gruppo, e a mano alzata domanda “Cosa è bene, cosa è male”: risponde la penna di Vladimir Majakovskij, la grafica di Aleksei Pomochov. Libri rari, preziosi, testi per bambini che raccontano una società di adulti, colta in uno dei momenti storici più interessanti dell’umanità: il tempo nel quale il sogno di un mondo nuovo nutre speranze, produce fermento, incoraggia avanguardie artistiche e letterarie del tutto inconsapevoli del buio che li attende a un soffio di anni. “Tempi terribili – libri belli” riunisce 257 libri sovietici per bambini, in una mostra alla Biblioteca Braidense di Milano, appena riaperta. “Costruiremo un nuovo mondo” è il catalogo dell’esposizione (Corraini), curato dalla storica dell’arte Federica Rossi assieme al direttore della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca, il canadese James M. Bradburne: anima del progetto. «È vero, sono molto affezionato a questa mostra. Io colleziono da sempre libri sovietici per bambini – negli anni Ottanta ho lavorato in Unione Sovietica - ho passato parte della mia vita immerso nella letteratura per l’infanzia, ho anche scritto libri per i più piccoli. Inoltre, bambini e famiglie sono il target più importante dei nostri istituti di cultura: e se una biblioteca o un museo sa dare l’idea di essere un luogo magico, i bambini torneranno. Il punto di partenza è perciò aver fatto della Biblioteca Braidense un nuovo spazio didattico, con un rinnovato impegno verso l’infanzia, il tempo della vita dove tutto comincia». Suggestiva è la genesi di questa mostra. «Sin dai primi giorni di lockdown abbiamo messo a punto un ricchissimo palinsesto on line, che ha coinvolto anche la Biblioteca. Con il programma “C’era una volta nella biblioteca” attori famosi hanno letto storie per bambini. E tra loro anche attori russi», racconta Bradburne: «Ero alla ricerca di libri per illustrare queste favole, quando mi sono imbattuto nella valigia degli Adler. Un antiquario mi ha parlato di una collezione molto particolare, che probabilmente il proprietario era disposto a vendere. Ho manifestato il mio interesse, gli ho immediatamente chiesto di verificare la possibilità di una donazione, ma la realtà ha superato i miei auspici: la proprietaria si è rivelata una signora inglese che conosceva la Pinacoteca di Brera, perché l’aveva visitata venti anni fa. E ha accettato di mettere a disposizione questo suo patrimonio familiare». La malconcia valigia di pelle marrone era appartenuta ai genitori, gli architetti Hand Edward e Hedwig Adler, fuggiti dalla Germania nazista nel 1939, e rifugiati in Inghilterra. Alla loro morte, nel 1986, la figlia Susan, sgombrando la casa di famiglia a Colonia, l’aveva ritrovata abbandonata in soffitta: dentro c’erano i 257 libri per bambini, di cui 169 in russo, 85 in ucraino, 3 in yiddish, tutti pubblicati tra la fine degli anni Venti e il 1933. Testimoni in carta dell’entusiasmo e della creatività, precedenti allo scoppio della Guerra. «In quegli anni povertà e inflazione caratterizzavano la società. Il dissidio tra capitalismo e pensiero comunista emergeva in tutto il suo vigore. Ma raggiungere i bambini era un impegno ben preciso della neonata Unione Sovietica. Non a caso Nadežda Krupskaja, la moglie di Lenin, predicava che “il libro per bambini è una delle armi più potenti dell’educazione socialista delle giovani generazioni. Grazie ai libri per bambini devono essere gettate le basi della visione materialista del mondo delle giovani generazioni”». E la pedagogia trasuda con chiarezza dai libri. «Queste storielle intendono trasmettere i valori del perfetto cittadino, l’importanza del lavoro collettivo, dell’industria, il valore dell’esercito. Libri come “Il mio amico carbone”, o “Mani d’acciaio” invitano ad apprezzare le materie prime. Sono libri colorati, dinamici, interattivi: dipingevano una nuova era, dopo secoli di guerra e servitù. Adoro i momenti di rottura, perché sono quasi sempre tempi di estrema creatività. In uno scenario di lì a poco terribile - il terrore, lo stalinismo - questa collezione racconta l’intreccio tra un Paese alle prese con l’industrializzazione, con le trasformazioni sul lavoro, e l’emergere dell’orgoglio nazionale». Quei libri erano come dei souvenir di famiglia: la coppia li aveva acquistati negli anni trascorsi in Unione Sovietica, tra il 1930 e il 1933. «I due si erano incontrati a Mosca, entrambi giovani architetti col sogno di contribuire alla costruzione di quel paradiso di ideali che si andava delineando negli anni del Primo piano quinquennale di Stalin», continua a raccontare Bradburne: «Erano rimasti a Mosca tre anni, durante i quali avevano progettato e costruito cinema, scuole, case popolari. Ed è evidente che questa collezione sia una raccolta messa insieme da due architetti: libri che parlano al loro lavoro, che dialogano tra di loro. E che mostrano edifici nuovi: abitazioni sociali ma anche torri radio e planetari. Libri che rivelano un’attenzione tutta nuova verso il design. Ci sono poche collezioni così, fatte di libri coerenti tra di loro: un set preciso di volumi creato nel giro di pochi anni su un periodo storico ben individuato». Architetture costruttiviste e club operai, i nuovi luoghi della socialità, si stagliano tra le illustrazioni. E almeno altre tre sono le trame sottostanti alla mostra: «Innanzi tutto, ricostruisce un pezzo di storia dell’Unione sovietica. Ma racconta anche la vicenda personale ed emblematica di una giovane coppia di architetti, coi loro sogni e coi loro ideali, che a un certo punto si frantumano al punto da dover fuggire in Inghilterra. La mostra ha anche il merito di fotografare un segmento di letteratura per bambini, dove reale e fantastico convivono. Nell’allestimento di “Tempi terribili – libri belli” abbiamo voluto aggiungere dei volumi che mostrano le origini di questa tendenza pedagogica o che raccontano il contesto della collezione Adler: libri che hanno provocato polemiche, libri di particolare pregio per le illustrazioni, testi che ci sembravano irrinunciabili per capire il tempo». Uno spaccato di quell’ingente patrimonio di leggende e fiabe, da sempre affidato agli artisti più importanti. «Difficile dire quali siano i libri che mi emozionano di più», riflette Bradburne: «Ci sono alcuni libri importanti per il loro valore comunicativo: per esempio, per come raccontano l’esperienza della guerra e la quotidianità stravolta: cosa fare durante un attacco o un bombardamento, come usare le maschere antigas... Ci sono libri bellissimi dal punto di vista grafico: ne ho in mente uno sulla cavalleria russa, illustrata in diagonale su doppia pagina. Molti sono semplicemente libri adatti ai bambini, con piccoli animali per protagonisti. Ma diversi sono straordinari per l’uso della lingua, per i giochi linguistici proposti: ad esempio, ci sono due libri di rebus, che rappresentavano un format molto popolare. E libri curiosi, singolari, come quello che ritrae Lenin a dorso di un elefante, intitolato “Lenin in India”». Testimonianze che farebbero la gioia dei sempre più numerosi collezionisti di memorabilia con l’“olstalgie” dell’Est: del tutto indifferenti al fatto che persino quei libri sarebbero passati sotto l’ideologia di Stalin, della censura sui grandi illustratori - una fra tutte, Vera Ermolaeva, uccisa nel 1937 – e che le stesse edizioni sarebbero state riproposte senza più i colori sgargianti di soli pochi anni prima. «Il tempo ha certamente filtrato gli aspetti più tremendi dello stalinismo e della guerra. Ma non credo che sia sufficiente per parlare oggi di nostalgia. Siamo in un tempo di rapidi cambiamenti e di rottura verso il passato. Ciò che si rimpiange non è il tempo di Stalin, ma quell’impegno, quella responsabilità verso i più giovani, quella capacità di ascoltare i bisogni dei bambini che oggi mancano. E che invece mostre simili possono ispirare. In questi lunghi mesi la pandemia sta mettendo a dura prova il mondo dell’infanzia, i loro sogni, le possibilità di apprendere e di stare insieme. La sensibilità di questi artisti deve ispirarci a rinnovare il nostro impegno verso di loro. Un centinaio di autori ha scritto questi libri nel 1934. Nessuno di loro poteva neppure sospettare che di lì a qualche anno, alla fine degli anni Trenta, sarebbero finiti in un gulag. Noi oggi abbiamo la responsabilità di recuperare il loro impegno verso l’infanzia, di valorizzarne la cura nella redazione di questi libri meravigliosi, scritti appunto senza sapere cosa sarebbe accaduto loro: solo nella convinzione che cambiando ciò che i nostri bambini sperimentano nella loro infanzia si può mutare il corso della storia e, forse, creare un mondo migliore. Riportarli alla luce in questo momento vuol dire riportare al centro l’infanzia: attraverso quei libri destinati ai più piccoli, che costruiscono uomini nuovi».

L'eredità di Livorno spiegata ai giovani in cinque mosse. Miguel Gotor su la Repubblica il 27 gennaio 2021. Scuola di politica e di cittadinanza ma anche una risorsa per la democrazia: il Pci si è rivelato più utile alla nazione nei tempi di crisi quando ha stretto accordi con gli avversari. Non si sono ancora spente le polemiche sul centenario del Pci che hanno riguardato soprattutto i testimoni e i reduci di quell’esperienza storica, i compagni e gli avversari di un tempo che fu. Di nome Comunista e di cognome Italiano, nato a Livorno il 21 gennaio 1921 e morto a Rimini il 3 febbraio 1991, reciterebbe la lapide immaginaria di un cimitero inesistente. Ma se un trentenne di oggi, neonato ai tempi della fine di quel partito, volesse sapere che cosa è stato il Pci nella storia d’Italia faticherebbe a capirlo e, a costo di apparire didascalici, gli si potrebbe rispondere che ha significato soprattutto cinque cose. Primo: una scuola di alfabetizzazione politica e di cittadinanza all’insegna di un’idea dell’impegno come partecipazione attiva e militante. Insieme con gli altri partiti, i comunisti hanno contribuito a superare il tradizionale distacco tra masse e potere, educando milioni di cittadini, disabituati dopo vent’anni di dittatura fascista, alla vita politica e al confronto civile. Per capire questo aspetto gli consiglierei la lettura di Una scelta di vita di Giorgio Amendola o le pagine di Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, laddove racconta la propria militanza comunista e il travaglio vissuto quando decise di abbandonare il partito a causa dello stalinismo. Secondo: il Pci ha rappresentato una palestra di resistenza al fascismo sia sul piano armato con il movimento partigiano, ove ha pagato il tributo di sangue più elevato, sia sul piano culturale nel corso dei lunghi anni Trenta. Le riflessioni di Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere e quelle di Palmiro Togliatti nel Corso sugli avversari sono tra le letture più pregnanti sulle cause delle origini del fascismo come movimento di massa e ancora oggi un lucido strumento per comprendere i meccanismi di affermazione di nuovi plebiscitarismi. Terzo: è stato una risorsa democratica nei tempi di crisi, le volte in cui è riuscito a dispiegare al massimo le proprie capacità di stringere alleanze. Il Pci, infatti, si è rivelato più utile alla nazione quando ha stretto accordi con gli avversari che non nei momenti in cui ha rivendicato una sua purezza identitaria, ossia quando è stato più «comunista italiano» che non genericamente di «sinistra». I due periodi davvero rilevanti della sua azione politica hanno coinciso entrambi con fasi di “solidarietà nazionale”: quella con Palmiro Togliatti, dal 1944 al 1947, con l’elaborazione del “Partito nuovo” per la ricostruzione dell’Italia con le altre forze uscite dalla Resistenza; e poi quella con Enrico Berlinguer, dal 1973 al 1978, in cui il Pci ha svolto un ruolo fondamentale nel determinare la sconfitta del terrorismo. Quarto: ha costituito una comunità con i suoi riti di ingresso, di integrazione, di avanzamento, di disciplina, di marginalizzazione e di espulsione. Questo elemento ha svolto una preziosa funzione in alcuni passaggi delicati della storia d’Italia. Si pensi ai milioni di immigrati meridionali che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, sono saliti al Nord. Per costoro il partito ha costituito una casa di accoglienza, di dignità e di riscatto, dove le discriminazioni geografiche e persino razziste cessavano di contare perché, come recitava lo slogan, «il Nord e il Sud erano uniti nella lotta». Lo stesso si può dire per il sostegno offerto al movimento di occupazione delle terre contro il latifondo nel sud d’Italia e alle lotte dei contadini cui è stato insegnato a non levarsi il cappello davanti al padrone come racconta la storia di Emanuele Macaluso che ci ha appena lasciato. Quinto: il Pci ha costituito anche un problema, a causa dell’ineliminabile questione della sua collocazione internazionale dentro il movimento comunista sorto dalla Rivoluzione russa. Questo fattore congenito ha svolto una funzione di blocco del sistema democratico perché ha alimentato un inesauribile generatore di alibi. Si pensi solo alla connivenza — un misto di indifferenza, indulgenza, irresponsabilità, ambiguità — che una parte delle classi dirigenti italiane ha mostrato nei riguardi della mafia oppure verso ampie frange del Partito armato o di quello delle stragi nel corso della cosiddetta “Repubblica dei partiti”. Il posizionamento geopolitico del Pci è stato utilizzato per giustificare tali comportamenti giacché si riteneva utile mantenere queste dolorose spine nel fianco dei comunisti per arginare la loro azione, per disarticolare più in generale l’area progressista di cui quel partito era il fulcro e per favorire una gestione moderata del potere. Prova ne sia che nel nostro Paese è durato di più l’anticomunismo, declinato sotto forma di anti-piccismo (di destra, di sinistra e di centro) che quel partito. La storia del Pci non ha avuto eredi. Forse con un eccesso di zelo e di superficialità si è preferito buttare con l’acqua sporca — il rapporto con il movimento comunista internazionale — anche il bambino, ossia l’idea di un grande partito organizzato e popolare. Così il Pci è morto, ma non ha avuto una degna sepoltura e perciò continua ad aggirarsi tra noi come un fantasma senza pace.

Qualcuno era comunista. Il museo privato di Rondolino. Tessere, spille, manifesti elettorali, ritagli di giornali. Un viaggio alla ricerca del tempo perduto del (e dal) Pci. Vittorio Macioce, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale. Fabrizio Rondolino è un collezionista. Non lo ha mai detto troppo in giro, ma nell'anima più profonda della sua casa c'è una stanza dove potresti addormentarti con la voce stanca di uno Zingaretti e risvegliarti in una versione italiana di Good Bye, Lenin!. Rondolino colleziona cose. Non cose qualunque, ma pezzi di Pci. Frammenti di anima: tessere, spille, manifesti elettorali, pagine di giornali, medaglie, copertine di riviste, coccarde, poster, propaganda, piccoli spazi pubblicità. È come se ognuno di questi oggetti, di carta o di metallo, fosse un horcrux dove si nasconde il tempo perduto del partito comunista. Gli horcrux nel mondo dei maghi servono a custodire l'immortalità, anche se ormai non ci credi più o se non rinneghi e non rimpiangi, se non ritrovi la tua chiesa e vivi in campagna lontano dal rumore della politica. Quel museo domestico sta lì e poi un giorno, a cento anni dalla scissione di Livorno, pensi che valga la pena di farne un libro. Eccolo. Il nostro Pci (Rizzoli, pagg. 445, euro 23). Il risultato è un racconto per immagini. La prima tessera di Rondolino è del 1977. Insieme a lui ci sono un milione e ottocentoquattordici mila e centocinquantatre compagni (1.814.153). Il primo maggio andrà alla festa dei lavoratori, delle donne e dei giovani disoccupati. Il manifesto è un fiore rosso stilizzato. È l'ultima volta che il Pci utilizza l'immagine del garofano. Diventerà il simbolo ufficiale del Psi craxiano. I lavoratori di tutto il mondo non sono più uniti. L'anno prima, a pochi giorni dalle elezioni del 1976, sulla copertina di Time c'è la faccia di Enrico Berlinguer. Lo sfondo è vermiglio e sul titolo bianco c'è scritto: The red threat. La minaccia rossa ha il volto di un nobiluomo sardo. Alla Camera il partito prenderà più di dodici milioni e mezzo di voti. Per il Pci è il migliore risultato elettorale di sempre. Il partito per Rondolino è una comunità sentimentale. È una grande famiglia capace di badare a se stessa, rassicurante e protettiva, con una forte consapevolezza di sé. È qui che trova radici la pretesa superiorità morale dei comunisti, la «diversità berlingueriana». È l'idea che il futuro è già marxianamente scritto e loro sono i prescelti, i migliori. «Mi piaceva sentirmi dalla parte giusta della storia e militare in un partito la cui direzione nazionale aveva, al piano terra, una libreria; e detestavo l'estremismo, le urla, la violenza di piazza, l'intolleranza. Del resto, ero un borghese». La collezione di Rondolino è monumentale e non parte certo dal '77. Comincia con una tessera verde del Partito socialista italiano, rilasciata il 16 dicembre 1899 (sette anni dopo la fondazione) dalla sezione di Torino. Si chiude con una cartolina commemorativa del congresso di Rimini del 31 gennaio 1991. È l'ultimo atto del Pci. Il nuovo simbolo è una quercia verde, con la scritta rossa «Partito democratico della sinistra» e la falce e martello alla base. In basso si legge: «il coraggio di cambiare». Qualcuno potrebbe aggiungere «troppo tardi». In mezzo tra queste due date c'è il sale del Novecento. È davvero come leggere un romanzo dove ogni pezzo ti racconta una storia. Ti trascina nel suo flusso anche se non ne hai mai fatto parte. Ti appare un distintivo in metallo smaltato degli Arditi del Popolo, l'organizzazione paramilitare dei veterani «rossi» della Grande guerra. Sono anarchici, socialisti massimalisti e comunisti e ottengono il riconoscimento del Comintern. Il simbolo è un teschio con il pugnale tra i denti. Le orbite degli occhi e la lama sono rosso sangue. C'è la prima tessera della federazione giovanile comunista d'Italia. È del 1922, con l'immagine di un giovane a torso nudo che galleggia su un libro aperto. È l'unica tessera nella storia del Pci con un riferimento a Karl Marx. C'è la prima pagina di un opuscolo del 1944 che annuncia i discorsi di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni allo stadio del Palatino di Roma. Sulla foto una scritta: «viva la rivoluzione d'ottobre». C'è la copertina di un fumetto del 1956. È la storia d'amore di una giovane coppia che sogna un futuro migliore. Il titolo: «Più forte del destino». Scrive Rondolino: «Di questa grande comunità umana e politica i simboli più amati erano la bandiera e la tessera. Ma se la bandiera è un simbolo collettivo da appendere sulla porta della sezione o da sventolare nelle piazze, la tessera ha qualcosa di più intimo e personale: è un pezzo unico, perché porta inscritto il proprio nome». C'è un manifesto del 1974 per le elezioni regionali sarde. La bandiera americana, il profilo dell'isola e lo slogan: «la Sardegna non è una stella Usa». In basso: «fuori la Nato dal Mediterraneo». Non erano atlantisti. È negli anni '80 che il rosso scopre un po' di verde, Mosca si allontana e l'Europa si avvicina. C'è un manifesto del 1990 che sembra una profezia: «Hai idee per la sinistra? Non tenerle per te». In pochi avranno risposto o non sono stati ascoltati.

La doppia verità del Pci e l’eterno cantiere riformista. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Senza saperlo, come ho appurato, ma questo rende la cosa ancor più interessante, in questo bel confronto serrato (Comunisti a modo nostro. Storia di un partito lungo un secolo) Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli edito ora da Marsilio hanno in sostanza imitato il titolo del testamento spirituale di Pietro Scoppola (Un cattolico a modo suo), edito da Morcelliana nel 2008. Un segno di come le identità tradizionali, un po’ tutte, siano state sotto tensione e, ancor più, la connessione tra identità e strumenti, in primis i partiti politici, che avevano configurato fino al 1989 la nostra Repubblica, definita per l’appunto da Scoppola nel 1991 “Repubblica dei partiti”, a cui peraltro rinviano anche esplicitamente Macaluso e Petruccioli. I due fattori strutturanti di quella Repubblica, che si sostenevano a vicenda, erano appunto l’egemonia comunista sulla sinistra e l’unità politica dei cattolici. L’egemonia comunista si è sviluppata esattamente per le caratteristiche di flessibilità con cui il “partito nuovo” di Togliatti si radica nella società italiana con scelte quali il completamento dell’approvazione della Costituzione anche dopo la rottura di governo della primavera 1947. Questa flessibilità, però, se era positiva per quel partito e per quella parte della società italiana che contribuiva a far evolvere, era comunque limitata dal legame residuo con l’Urss, con annesso richiamo nel nome e nel simbolo, che rendeva impossibile l’alternanza di governo. Come in tutte le realtà complesse con una storia pesante (compresa la Chiesa cattolica prima del Concilio Vaticano II) il punto di crisi si realizza quando si viene a creare un eccesso di scarto tra le verità proclamate e quelle praticate, quando si ingenera un sistema di “doppia verità”, in questo caso addirittura rispetto al mito fondante dell’Urss, come segnala Petruccioli: «Quella alla quale accedono coloro che dirigono e quella riservata ai diretti, ai quali non dici tutto quello che sai ma solo quello che pensi sia utile». Se si abbandona di fatto, progressivamente, una prospettiva rivoluzionaria, se non si rinuncia a parlare di alternativa di sistema, a rifarsi a quel mito fondante nel nome e nel simbolo, come affermare la garanzia del biglietto di ritorno da un’eventuale vittoria elettorale di quel partito? «Questa è la contraddizione di fatto in cui si sviluppa fino al 1989 l’azione del Pci, contraddizione prolungata dall’esperimento gorbacioviano, che aveva rilanciato l’illusione della riformabilità interna di quel sistema. Per questa ragione, pur con tutti i limiti e le contraddizioni, la svolta tardiva del 1989, libera energie in tutto il sistema politico, pur indebolita sul momento, come sottolineano entrambi gli Autori, dal gravissimo errore del ritiro dei ministri dal governo Ciampi, che sarebbe pienamente stato altrimenti il primo laboratorio effettivo dell’unità dei riformisti al governo. Il tentativo riprende con l’Ulivo e con la creazione nei vari partiti di componenti “uliviste” tese a non concepirlo come un’alleanza ingessata tra partiti immobili, ma come embrione di un nuovo soggetto quale sarebbe poi stato il Pd. Utilissime quindi le pagine poco note sulla formazione del gruppo “La Quercia e l’Ulivo”, da cui, insieme ad altri, scaturisce poi l’associazione “Libertà Eguale”. Qui, poi, com’ noto, e come viene ben spiegato le prospettive si divaricano: Macaluso preferisce insistere sulla possibilità di formazione di un partito socialista che non vi è stato, mentre Petruccioli, al netto delle critiche sull’esperienza concreta del Pd, rivendica le ragioni di un approccio identitario meno rigido, intriso anche di filoni liberali e cristiani, dall’ “emergere del valore centrale della persona”. A questo punto, però, meglio leggere direttamente le loro argomentazioni nelle oltre quattrocento pagine del testo.

"Comunisti d'Italia", da Togliatti a Camilleri cento storie per i cento anni del partito che ha segnato la sinistra italiana.  Carmine Saviano. Le biografie dei "patrioti rossi" che hanno incarnato l'essenza del Pci nel centenario della scissione di Livorno. La Repubblica il 25 gennaio 2021. Cento anni di comunismo italiano in cento biografie. Uomini e donne che con pensieri e azioni hanno incarnato l'essenza del Partito Comunista e degli altri partiti della sinistra italiana: l'istaurazione, lo sviluppo e la difesa della democrazia in Italia. "Patrioti rossi", così li definisce Matteo Pucciarelli che con Sara Fabrizi ha appena pubblicato per Typimedia editore "Comunisti d'Italia": cento (anzi centotrè) storie, cento vite attraverso le quali leggere in controluce le vicende e i valori di un secolo di sinistra italiana. E non ci sono solo politici di professione. Perché se è vero - come è vero - che nell'avventura del comunismo italiano è impossibile scindere politica e cultura, allora è necessario affiancare alle vite di Togliatti, Gramsci, Berlinguer e Amendola quelle di Mario Monicelli e Gian Maria Volonté, di Pier Paolo Pasolini e di Alberto Moravia, fino ad Andrea Camilleri. Dai clandestini in lotta contro il fascismo ai partigiani, dai padri e dalle madri costituenti fino a registi e attori, scrittori e scienziati. Una fotografia in divenire di quel Partito-Stato, di quel paese migliore in un paese spesso meno che normale, di quella comunità di cittadini che ha fatto della politica il campo nel quale provare a costruire le fondamenta di un futuro dove al bene comune, al socialismo, ci si doveva arrivare non con la violenza e con le armi ma orientando e riformando di volta in volta la giovane democrazia italiana. Basti pensare a quel "mantenete la calma" che Togliatti pronunciò dal letto d'ospedale dopo l'attentato del 14 luglio 1948: parole che fermarono una nuova guerra civile che avrebbe portato l'Italia uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale chissà dove, di sicuro in un luoghi estranei allo Stato di diritto. Calma e lucidità che si affiancano alla lotta politica. "Non sono solo storie condite di buoni sentimenti, ma soprattutto di lotta, di conflitto, dentro le quali i comunisti prendevano posizione in maniera netta: contro i fascisti, contro i padroni, contro le mafie, contro la prepotenza, contro il razzismo", scrive Pucciarelli nell'introduzione al volume. Facendo seguire subito dopo la messa in luce di un altro tratto costitutivo del comunismo italiano: la continua analisi e messa in discussione dei risultati raggiunti e del contesto internazionale cui i comunisti italiani erano geneticamente legati. "Concedendosi ampi spazi per l'autocritica, per la riflessione sui propri limiti e fallimenti, compresi quelli del socialismo reale. A volte subendone tragicamente le conseguenze". E non mancano, naturalmente, le storie di chi ha difeso in prima linea i diritti dei lavoratori. Da Luciano Lama e dal suo discorso contestato alla Sapienza di Roma nel febbraio 1977 a quel "non dovete più togliervi il cappello di fronte a nessuno" con cui Giuseppe Di Vittorio infondeva dignità e coscienza di classe ai braccianti nell'Italia del dopoguerra. Fino alle parole profetiche scritte da Bruno Trentin nel 1992 sulla necessità di conservare la memoria di cosa è stata la lotta dei comunisti: "Nell'Italia di oggi questa memoria semplicemente non esiste per milioni di lavoratori: anche perché ci sono gli avvoltoi, gli avventurieri della politica che contribuiscono a cancellare anche le tracce di questa memoria per poter manipolare lo smarrimento, la decomposizione dell'unità di classe". E forse proprio la lettura delle cento vite raccolte in "Comunisti d'Italia" può essere un passo su quella strada necessaria che porta a fronteggiare avventurieri e avvoltoi che sacrificano il bene comune in nome di piccoli e meschini interessi di parte.  

Oggi, 100 anni fa la prima scissione a sinistra: così nacque il Partito Comunista d’Italia. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 21/1/2021. Il 21 gennaio 1921, a Livorno, si conclude il XVII congresso del Partito socialista. L’ala riformista di Turati prevale su quella comunista di Bordiga, che subito dopo fonda il Partito Comunista d’Italia.  All’inizio degli anni Venti, con le profonde ferite lasciate dalla Grande guerra, anche il bilancio del socialismo si fa problematico. Il partito guidato da Filippo Turati dispone ancora di un largo seguito di consensi: 156 deputati e un forte sindacato, ma sconta ora lacerante crisi interna. Dopo la Seconda Internazionale, tenutasi a Pietrogrado nell’agosto del 1920 con Lenin protagonista, le spinte per la Rivoluzione proletaria arrivano anche in Italia. È questo vento sovietico a rafforzare l’ala massimalista interna al Partito socialista, che il 21 gennaio conclude il suo XVII congresso presso il Teatro Goldoni di Livorno. Su 172.487 suffragi validi, i delegati assegnano 98.028 voti agli unitari (riformisti), 58.783 ai comunisti e 14.695 ai concentrazionisti, mentre le astensioni sono 981. Subito dopo la comunicazione dell’esito del voto Amadeo Bordiga, guida dell’ala comunista, comunica ai «compagni» di spostarsi nel vicino (e malmesso) Teatro Marconi per procedere alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, che quindi nasce dalla prima di una lunga serie di scissioni nella sinistra italiana. I protagonisti di quella storica fase, oltre a Bordiga, sono: Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Onorato Damen, Nicola Bombacci e Bruno Fortichiari. Oggi sulle ceneri del Teatro Marconi è sorto un asilo: a ricordare quell’evento c’è una targa, apposta dopo la sconfitta del fascismo. Ma parte dell’ingresso del Marconi è sopravvissuto grazie al restauro finanziato da Legacoop Toscana. La prima sede nazionale del Partito comunista viene aperta a Milano, nella palazzina di Porta Venezia. Il 12 febbraio 1924 Antonio Gramsci fonda l’Unità. L’attività del partito va avanti dal 1921 al 1926. Poi prosegue clandestinamente durante il fascismo, fino al 1943, quando rinasce come Partito Comunista italiano (Pci), che diventerà la più grande formazione comunista dell’Occidente. All’inizio degli anni Venti, con le profonde ferite lasciate dalla Grande guerra, anche il bilancio del socialismo si fa problematico. Il partito guidato da Filippo Turati dispone ancora di un largo seguito di consensi: 156 deputati e un forte sindacato, ma sconta ora lacerante crisi interna. Dopo la Seconda Internazionale, tenutasi a Pietrogrado nell’agosto del 1920 con Lenin protagonista, le spinte per la Rivoluzione proletaria arrivano anche in Italia. È questo vento sovietico a rafforzare l’ala massimalista interna al Partito socialista, che il 21 gennaio conclude il suo XVII congresso presso il Teatro Goldoni di Livorno. Su 172.487 suffragi validi, i delegati assegnano 98.028 voti agli unitari (riformisti), 58.783 ai comunisti e 14.695 ai concentrazionisti, mentre le astensioni sono 981. Subito dopo la comunicazione dell’esito del voto Amadeo Bordiga, guida dell’ala comunista, comunica ai «compagni» di spostarsi nel vicino (e malmesso) Teatro Marconi per procedere alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, che quindi nasce dalla prima di una lunga serie di scissioni nella sinistra italiana. I protagonisti di quella storica fase, oltre a Bordiga, sono: Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Onorato Damen, Nicola Bombacci e Bruno Fortichiari. Oggi sulle ceneri del Teatro Marconi è sorto un asilo: a ricordare quell’evento c’è una targa, apposta dopo la sconfitta del fascismo. Ma parte dell’ingresso del Marconi è sopravvissuto grazie al restauro finanziato da Legacoop Toscana. La prima sede nazionale del Partito comunista viene aperta a Milano, nella palazzina di Porta Venezia. Il 12 febbraio 1924 Antonio Gramsci fonda l’Unità. L’attività del partito va avanti dal 1921 al 1926. Poi prosegue clandestinamente durante il fascismo, fino al 1943, quando rinasce come Partito Comunista italiano (Pci), che diventerà la più grande formazione comunista dell’Occidente.

Pci, i cento anni della scissione che segnò il destino della sinistra italiana. Il Sole 24ore il 21/1/2021. Anche Ezio Mauro, per 20 anni direttore di Repubblica e autore della “Dannazione”, un libro uscito da pochi giorni in cui si rievoca come lo strappo con i socialisti abbia per sempre segnato la storia del Pci, coglie quel senso di vuoto che ha poi lasciato il partito di Gramsci e Togliatti. «È una assenza - precisa Mauro - che ha ben espresso Norberto Bobbio, mio professore di filosofia del diritto. Un intellettuale che pure non aveva risparmiato critiche anche a Berlinguer. Bobbio ha detto: è adesso? Adesso, senza il Pci, chi si farà carico di questa speranza? Credo che questa domanda non sia mai stata così attuale», conclude Mauro. Anche Sergio Staino, lo storico vignettista dell'Unità, che con Bobo ha messo in luce i tanti dubbi degli iscritti , ha scritto una sua “Storia sentimentale del Pci” in cui mette in luce, questa volta senza disegni, le grandi illusioni di quella stagione. «Sì, ma poi ebbi anche molte delusioni, come quando nel 1967 andai in Unione Sovietica e alle mie domande rispondevano cambiando sempre discorso», risponde Staino. «Però la mancanza del Pci oggi si sente. Mi manca il cuore, l'anima, i suoi valori. Tutto questo non c'è più ed è un guaio. Ora siamo in un quadro di liberalismo democratico, ma tutte ciò non basta a ritrasmettersi quel senso di sentimento perduto. Nel Pd questo sentimento non lo ritrovi…».

D'accordo, ma quante divisioni, quanto settarismo? Perchè?

«Non so darne una vera spiegazione. Mio nonno, iscritto dal ’21, mi disse che avrebbe votato comunista fino a quando il Pci sarebbe andato al potere. Poi lui sarebbe andato subito all'opposizione…Questo è il Pci: da un lato c'è un forte senso di appartenenza, dall'altro questi drammatici elementi di fuga che lasciano cicatrici indelebili. Penso ai grandi leader…. A Massimo D'Alema afflitto dalle sue megalomanie. A Bersani, bravo certo, ma con quel suo partitino… Non parliamo di Renzi, cinico inguaribile. O dell'attuale Pd che taglia i parlamentari per correre dietro ai grillini. Dei grandi leader salvo Berlinguer e poi Occhetto, che ha avuto molto coraggio. Io ero titubante, più per questioni affettive che razionali. Ma in verità, dopo la Russia e la Cina, la parola “comunismo” era diventata impronunciabile. Peccato, perchè la sinistra ha fatto moltissimo per costruire un popolo consapevole, e penso anche all'idea di Europa. Il Pci con le sue sezioni, e la sua presenza nel territorio, ha costruito una generazione di italiani colti e preparati. Li ha educati a leggere a imparare. Dove vado adesso? Dove vado?».

Piccola bibliografia recente sui 100 anni del Pci.

Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano, Laterza cultura storica, euro 22,80

Ezio Mauro, La dannazione, Feltrinelli, euro 18

Sergio Staino, Storia sentimentale del Pci, Piemme, euro 17,50

Luciano Canfora, La metamorfosi, Laterza, euro 12

Aldo Tortorella, Sui motivi di una metamorfosi, in Critica Marxista, gennaio aprile 2021

Mario Pendinelli, Marcello Sorgi, Quando c'erano i comunisti, Marsilio Specchi, euro 18

Claudio Petruccioli, Rendiconto. La sinistra italiana dal Pci a oggi, La nave di Teseo, euro 20

GianGiacomo Cavicchioli, Emilio Gianni, PCd'I 1921. 100 anni 100 militanti del Partito comunista italiano, Edizioni Lotta Comunista , euro 9,50

Domenico Del Prete, Il processo di via Barberia. La requisitoria che annunciò la fine del Pci, Edizioni Illustrata, euro 15

Piero Fassino, Dalla rivoluzione alla democrazia, Donzelli, euro 19

Luca Telese, Qualcuno era comunista, Sperling & Kupfer, euro 20

Il libro di Fabrizio Rondolino. Bandiere, volti e agit-prop: in quelle immagini il sogno del riscatto. Fulvio Abbate su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. La livrea grafica del Pci era blu. Il suo volto pubblico sui muri rispondeva soprattutto a quel colore, come lo sfondo di un leggendario manifesto elettorale, dove si mostrava il simbolo accompagnato da una scritta inequivocabile, un invito, un appello a simpatizzare, ad aderire: “Vota comunista”. Il rosso apparteneva semmai al tessuto che rivestiva i palchi dei comizi, da Togliatti a Longo, da Berlinguer a Natta e Occhetto, ed era un rosso brunito tra tela e velluto. Poi giungevano le bandiere, frangiate d’oro, i nomi delle sezioni riportati con un lavoro fitto di ricamo. Diversamente da altri partiti “fratelli” (pensiamo al Pcf) che non hanno mai fatto sfoggio di iconografia, il Partito comunista italiano aveva invece una cornucopia iconica inenarrabile, inesauribile, forte nel tempo delle affissioni pubbliche, in epoche non ancora dominate dalla “comunicazione” televisiva, per non dire “social”. Il repertorio completo mostrava, in ordine sparso: distintivi, tessere, manifesti, adesivi, opuscoli, fazzoletti, coccarde, “l’Almanacco” annuale, e ancora festoni per le Feste de l’Unità e le sue coreografie e i suoi carri, le stesse kermesse che Guareschi deride nelle pagine della saga di Don Camillo. Trattando invece del simbolo, errato che sia stato Renato Guttuso a disegnarlo, il pittore realizzò semmai, oltre a ogni genere di manifesto e disegno per la prima pagina dell’organo del partito nelle ricorrenze ufficiali, la tessera del 1945: falce e martello innalzate e affioranti da un vessillo, la bandiera rossa trionfante. Il simbolo invece nasce da un lavoro di “cucina” ordinaria dell’ufficio grafico. Le bandiere – la rossa accostata al tricolore, così come la stella che fa riferimento al simbolo della Repubblica Italiana – erano sul campo, inizialmente giallo, a riassumere la teoria togliattiana della “via nazionale al socialismo”. Albe Steiner, tra i più straordinari grafici del ‘900, lamentava in verità un eccesso di “roba” dentro quel cerchio: «… due aste, una falce, un martello, una stella, due bandiere, tre lettere, troppe cose». Resta però che il simbolo-contrassegno del Partito comunista italiano, nella sua evidenza, fa spesso da sfondo anche a molte pagine della nostra cinematografia, sia “civile” sia di intrattenimento, da Delitto d’amore di Luigi Comencini a Franco Franchi “deputato” comunista contrapposto al democristiano Ingrassia. Fino a Mimì metallurgico ferito nell’onore della Wertmuller. Fabrizio Rondolino, con Il nostro Pci 1921-1991 Un racconto per immagini (Rizzoli) ha realizzato un lavoro straordinario di recupero (e ricostruzione) filologico-storiografico e, va da sé, di scavo iconografico, restituendo nei dettagli cronologici la traccia, la scia, la bava di lumaca visiva del partito che aveva come motto: “Veniamo da lontano, andiamo lontano”. Dalla fondazione, a Livorno, il 21 gennaio del 1921, agli ultimi suoi sussulti dei primissimi anni Novanta, tra il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Urss. Il libro accompagna così la ricorrenza tonda dell’imminente centenario. Quel “lontano”, indicava sostanzialmente anche la Russia sovietica, il paese “guida” rispetto al quale il Pci mostrerà sovente una eticamente inaccettabile subalternità. Nei sotterranei della storica direzione di via delle Botteghe Oscure, a Roma, in una sorta di Fort Knox della memoria e della storia perfino burocratica dell’intera organizzazione, dimoravano, sistemati nei faldoni, gli archivi, i verbali d’ogni segreteria, direzione, comitato centrale e “ufficio politico”. In una stanza attigua trovava posto invece l’archivio fotografico e l’insieme della produzione grafica, frutto del lavoro sistematico di “stampa e propaganda”, agit-prop, si sarebbe anche detto con confidenzialità majakovskiana. Sfogliando il volume di Fabrizio R., c’è subito modo di veder riappare il tesoretto raccolto un tempo in quegli scaffali segreti. Le cui chiavi erano affidate a Susanna Loi, allora curatrice dell’archivio, figlia di Antonio Loi, comandante partigiano, liberatore di Genova. Tra i nostri primi ricordi: un manifesto dei giorni del referendum contro l’abrogazione della legge del divorzio, 1974: “Le donne di casa Cervi votano no”. Subito accanto gli adesivi disegnati da Gal, al secolo Gino Galli, su tutti: “Fai rabbia a Lyndon”, ossia Johnson, presidente Usa, durante la guerra del Vietnam. O ancora l’astio verso i socialdemocratici: “SoCIAlismo” c’era modo di leggere nel contrassegno che un figuro tutto nero mostra sotto l’impermeabile da spia. Fra molto altro, va detto, la propaganda del Pci provò perfino a utilizzare i fotoromanzi: la sezione era il luogo nel quale sciogliere infine ogni dubbio, ogni conflitto, il segretario di circolo, a suo modo, occupava il ruolo altrove affidato al parroco. Quanto a l’Unità, era da Togliatti concepita come Il Corriere della Sera della classe operaia, accanto a Vie Nuove, il rotocalco, così come Il Pioniere con i racconti di Gianni Rodari destinati alla prole dei “compagni militanti”. Singolare, se non incredibile, fare caso adesso – ossia in ciò che Pasolini chiama la Dopostoria – all’attenzione cerimoniale che il Pci mostrava tra il 1967, cinquant’anni dalla rivoluzione d’ottobre, e il 1970, centenario della sua nascita, alla figura di Lenin: in piedi sul planisfero terrestre, troneggiante, accompagnato da un distico: “Un terzo del mondo appartiene al socialismo”, con Cuba segnata in rosso, minuscola, “spina nel fianco” dell’“Imperialismo yankee”, un linguaggio assertivo mostrato con orgoglio, oggi risibile. Passano gli anni, giunge, ahimè, il 17° congresso. Per l’occasione il grafico Bruno Magno, futuro creatore della “Quercia” del succedaneo Pds di Achille Occhetto, dovrà trovare un espediente visivo affinché quel numero assai poco apotropaico figuri innocuo sui manifesti. Alla fine, il 7 assumerà la parvenza di una minuscola bandiera rossa. Quanto invece al logo del congresso successivo, il 18°, verrà accusato d’avere una forma decisamente fallica. Il tempo farà in modo che l’impianto iconografico generale rinunci all’asserzione ideologica, le tessere degli anni Ottanta sono disegnate infatti all’acquarello, i toni sempre più tenui, quasi come in una visione poetica degna di Paul Klee. Per la campagna elettorale del 1984 giungeranno, commissionati a un’agenzia esterna, due bambini nudi che si tengono per mano su uno sfondo monocromo giallo, “Un’Europa di pace e lavoro, per chi avrà vent’anni nel 2000”, lo slogan, anzi, il claim. Ricordo con i miei occhi, durante la Biennale d’arte di Venezia di quell’anno, Keith Haring ritoccare proprio quel manifesto con il suo pennarello fucsia fluorescente; peccato, non averlo tolto dal muro dei Magazzini del Sale, non averlo portato via, non averlo salvato. Alle spalle degli ultimi sussulti, restano comunque a crepitare nella memoria, forti di una loro capacità totalizzante, le immagini dell’iniziale sicumera ideologica e militante, talvolta priva della capacità di relativizzare l’essere comunisti nell’insieme del cosmo: dal “Quaderno dell’attivista” alle medaglie di “diffusore” della stampa di partito, dal “santino” votivo in occasione della morte di Stalin che promette “gloria eterna all’Uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell’umanità”. Si noti la maiuscola. Poi i democristiani indicati come “i forchettoni”, e Guttuso, artista ufficiale, che raffigura il garibaldino trombettiere, e ancora la cagnolina “cosmonauta” Laika che dal cielo saluta un perplesso Amintore Fanfani: “Perdinci, in 40 anni sono arrivati alle stelle!”, e Berlinguer che nei giorni della battaglia in difesa della “scala mobile” mostra l’Unità ai “compagni” che sfilano in piazza dell’Esquilino: “Eccoci”, il titolo. Nel 1985, il simbolo della Federazione giovanile comunista, la Fgci, mutuato da quello austero e decisamente militare del Komsomol sovietico, abbandona i colori tradizionali per trovare un arcobaleno proprio della nascente grafica destinata ai videoclip, alle copertine degli ellepì, la bandiera trova una sorta di festone gioioso, tale da assimilarla ai trend grafici che si accompagnano alla musica dei Talking Heads e i pattern del Memphis Design o di Mario Covertino. E questo che ai più potrà sembrare un semplice dettaglio di stile, porta con sé in realtà il tramonto di un mondo e delle sue forme originarie di comunicazione visiva e politica.

GRANDI OPERE. In principio fu Gramsci: nella storia del Pci un secolo di sinistra raccontato in quattro volumi.

Bruno Manfellotto su L'Espresso il 14 gennaio 2021. Dal congresso di Livorno del 1921, teatro della scissione, al Pd. Con tutti i personaggi e gli interpreti, da Togliatti alle sardine. I libri in edicola con Repubblica e L’Espresso. L’occasione per una storia della sinistra in Italia – racconto e bilancio di un secolo di passioni, di sacrifici e di grandi conquiste – era offerta naturalmente dal centenario del fatale 1921. L’anno in cui, dal 15 al 21 gennaio, si svolse al Teatro Goldoni di Livorno il congresso del partito socialista destinato a concludersi con una scissione e la nascita, tra il 21 e il 26 gennaio, del Pcd’I, il Partito comunista d’Italia: la sinistra irrompe nella storia del Novecento con una drammatica spaccatura. Un anno prima della marcia su Roma. Così come del resto la fine dell’Ottocento era stata segnata dalla fondazione, il 14 agosto 1892 a Genova, del Partito dei lavoratori italiani (poi dei lavoratori socialisti, poi socialista), anch’esso figlio di una frattura: con gli anarchici. Divisi alla meta. Secondo quella che Ezio Mauro ha chiamato “la dannazione”. Studiando però l’architettura di “Cento anni di sinistra-Personaggi e interpreti da Livorno al Pd” – quattro volumi in uscita con Repubblica e L’Espresso da mercoledì 20 gennaio a due settimane l’uno dall’altro – si è venuto componendo un quadro più ricco e articolato: una sorta di storia d’Italia di cui la sinistra nella sua pluralità – socialista, comunista, azionista, radicale, femminista, socialdemocratica, riformista… – è stata protagonista in ogni momento cruciale. Ha organizzato la resistenza al fascismo dall’esilio e dalla clandestinità; guidato la guerra di liberazione; fissato i principi di libertà e democrazia da cui è nata la Costituzione “più bella del mondo”; innervato un potente movimento sindacale; condotto ogni battaglia a tutela del lavoro e dei diritti civili; si è battuta per ridurre le disuguaglianze; non ha rinnegato i valori di solidarietà e accoglienza; ha difeso le istituzioni negli anni del terrorismo nero e della sfida allo Stato delle Brigate rosse; sognato e costruito l’Europa unita, arginato le dirompenti spinte populiste e sovraniste. Un viaggio appassionante. Che abbiamo deciso di percorrere attraverso i ritratti – firmati da scrittori, storici e giornalisti – dei personaggi principali di questa lunga vicenda: da Gramsci a Togliatti, da Saragat a La Malfa, da Rosselli a Pertini, da Nenni a Berlinguer, da Rossanda a Pannella, da Carla Lonzi a Prodi, Napolitano, D’Alema, Renzi… Con un’antologia di articoli d’epoca dell’Espresso e di Repubblica, e con approfondimenti d’autore sui rapporti con il cinema, la musica, la letteratura, il costume, il linguaggio, i poteri forti, la satira. Ricostruire la tormentata evoluzione della sinistra può aiutare anche a comprendere le ragioni di una crisi che, dopo gli anni dei trionfi e dei sogni maggioritari, è arrivata fino al «non c’è più né destra né sinistra», bandiera innalzata per dire che è la sola sinistra a non esserci più. Certo, è vera una sua preoccupante afasia che, non solo in Italia, ha coinciso con la Grande Crisi economica 2007-2013, anni di forti disuguaglianze e nuove povertà. All’appuntamento, peraltro, essa era arrivata già confusa, disorientata dagli anni della globalizzazione, delle migrazioni e dei mutamenti sociali, letti in ritardo e con vecchie lenti, affrontati senza risposte convincenti. Del resto, caduti i muri delle ideologie e dei mercati, la sinistra non ha imboccato strade nuove, sposando talvolta politiche troppo simili a quelle liberiste, già dimostratesi del tutto insufficienti. Giocando su quel campo, ha finito però per lasciare spazio a chi vi si trovava più a suo agio. Adesso, complice il Covid, s’è aperta un’altra crisi gravissima, e con essa un’ennesima sfida per la sinistra, che ruota però intorno alle questioni di sempre: disuguaglianze, lavoro, sviluppo, modernizzazione, Europa... Qui si misurerà ancora una volta la sua capacità di guidare il rinnovamento del Paese. Magari liberandosi dei vecchi armamentari, azzardando soluzioni originali, ma salvando i valori e i principi che ne hanno accompagnato un secolo di storia.

Ecco il piano dell'opera:

Da Livorno alla Resistenza. Nel primo dei quattro volumi, i ritratti di Gramsci, Togliatti, Iotti, Rosselli, Nenni, Foa con le firme di Mauro, Canfora, De Luna, Franchi, Caracciolo, Belpoliti, Anna Foa, Vecchio... E in più il racconto dei rapporti internazionali della sinistra, sempre divisa tra Mosca e Washington; un’antologia dei simboli, delle parole, degli oggetti e dei modi di fare che abbiamo visto e che non vedremo più; una cronologia e un “who’s who?” con tutti i nomi da non dimenticare.

Dalla guerra fredda al femminismo. Sono Saragat, La Malfa, Rossanda, Pannella, Zevi, Lama e Carla Lonzi i protagonisti del secondo volume. Personaggi che più di altri si identificano con la stagione politica che va “Dalla guerra fredda al femminismo”. Letti e interpretati da Emiliani, Magri, Lucia Annunziata, Merlo, Scalfari, Berta, Ritanna Armeni… Con un ricordo del suo 1956 scritto da Alberto Asor Rosa, e una scanzonata riflessione di Natalia Aspesi su quanto la sinistra abbia contribuito a cambiare il costume degli italiani.

Dal centrosinistra alla caduta del Muro. Gli anni Sessanta del centrosinistra, i Settanta del compromesso storico e del terrorismo, gli Ottanta del craxismo e della caduta del Muro. Attraverso i loro protagonisti: Berlinguer, Pertini, Bobbio, Craxi, Mara Cagol, gli intellettuali organici e i disubbidienti. Raccontati da Tobagi, Valentini, Crainz, Ceccarelli, Pons, Di Paolo… E in più, nel terzo volume, la maledizione del sinistrese secondo Bartezzaghi e la testimonianza di Michele Serra sulla difficoltà di fare satira.

Dall'ambiente al populismo. Negli anni Novanta e Duemila irrompono l’ambientalismo, la globalizzazione, il populismo sovranista, la rivoluzione digitale e la grande crisi economica. Che diventa anche crisi della sinistra. Personaggi e interpreti, Langer, Prodi, Napolitano, Occhetto D’Alema, Veltroni, Renzi, girotondi e sardine. Per le firme di Boato, Diamanti, Damilano, Folli, Cappellini, Ignazi… Con un affresco di Denise Pardo sui rapporti con i poteri forti, la musica della sinistra ricordata da Assante, e un’antologia dei colloqui di Scalfari con i protagonisti. La quarta puntata del “Who’s who?” e della cronologia chiudono la collana .

Simone Lanari per corriere.it il 21 gennaio 2021. Nel centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, che nacque a Livorno il 21 gennaio del 1921, nell’ex teatro San Marco, molteplici le iniziative in città per ricordare l’evento. Insieme alle diverse anime degli «eredi» odierni del Pci, anche il Partito Democratico, quest’anno, con una delegazione capitanata dal parlamentare Andrea Romano, ha partecipato alle celebrazioni con una visita al San Marco, luogo in cui si riunirono i fuoriusciti massimalisti dal XVII congresso del Partito Socialista, che in quei giorni si stava tenendo in un altro teatro della città, il Teatro Goldoni. E proprio la presenza di una delegazione del Pd ha scatenato l’ira degli «eredi» del Pci. Il Pc con in testa Lenny Bottai, segretario locale del partito ha contestato la delegazione con uno striscione con scritto:«Nazismo e comunismo equiparati, Pd oggi qui? Compagni sbagliati». I contestatori hanno lanciato alcuni slogan di scherno verso la delegazione e gridato: «Via da qui chi ha sciolto il PCI». Bottai ha dichiarato che «oggi tutti sono comunisti, stiamo aspettando i signori del Pd che hanno votato l’equiparazione tra nazismo e comunismo. Oggi si ricordano di essere comunisti».

Dal Pci al Pd: come la Sinistra italiana ha smarrito se stessa. Inside Over il 21 gennaio 2021. Dal 15 al 21 gennaio 1921 a Livorno andò in scena il XVII congresso del Partito Socialista Italiano, al termine del quale la corrente più radicale e massimalista della formazione optò per completare la scissione che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Il Pcd’I/Pci, presto costretto a subire l’esperienza della clandestinità e forgiatosi attraverso l’opposizione al regime fascista e la Resistenza, sarebbe stato per oltre mezzo secolo e fino alla fine della Guerra Fredda la colonna portante della sinistra italiana. A circa un secolo di distanza, quella che è stata storicamente definita “sinistra” è difficilmente riconoscibile nelle aree politiche che occupano la galassia progressista. Il Partito democratico è figlio dell’era post-Guerra Fredda, in cui la transizione politico-culturale degli eredi del Pci ha portato molti di essi ad abbracciare i dogmi politico-economici della globalizzazione neoliberista, a virare verso le élite urbane e i ceti professionali il loro obiettivo politico, a dimenticare le fondamenta di una lunga tradizione. Indipendentemente dall’opinione che se ne ha, è innegabile il fatto che la cultura politica che ha avuto la sua fonte in formazioni come il Psi e il Pci sia stata un’importante protagonista della storia italiana. In sinergia con la cultura politica cattolico-democratica ha portato al grande compromesso della Costituzione repubblicana del 1948. Ha consentito, con la cooptazione al governo del Psi a fianco della Democrazia Cristiana, l’avanzamento dell’economia pubblica, dei servizi essenziali, della dialettica politica interforze nel contesto di “bipolarismo imperfetto” che, come ha sottolineato Giorgio Galli, pur precludendo al Pci la via del potere nazionale gli permetteva di esercitare un enorme peso culturale e di portare la sua cultura politica a dialogare con le coalizioni maggioritarie nel Paese. Una dialettica a tutto campo che ebbe nello Statuto dei Lavoratori del 1970 e nell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978 il suo punto più alto. Lungi dall’essere un monolite, la sinistra italiana ha presentato al suo intero, a lungo, una profonda vivacità interna. Già ai tempi dell’inizio della Repubblica si segnalavano divergenze tra chi, come il segretario del Pci Palmiro Togliatti, pensava a un’istituzionalizzazione della sinistra e chi, Pietro Secchia in testa, aveva un atteggiamento più barricadero; la rivoluzione ungherese e i fatti di Praga furono, nel 1956 e nel 1968, cesure importanti per i rapporti con il blocco sovietico, fattisi sempre più autonomi alla fine dell’era Togliatti e durante le segreterie di Luigi Longo ed Enrico Berlinguer. Il Pci e il Psi furono poi due dighe fondamentali per frenare l’eversione brigatista e contenere la rabbia e il dissenso verso lo Stato, mentre le scissioni più importanti del Pci, come quella del gruppo del Manifesto, contribuirono a stimolare il dibattito interno all’area. Il filologo Luciano Canfora, in particolare, parlando a La Verità ha ben descritto quali fossero a suo avviso gli obiettivi del Pci nel periodo post-bellico: “Lo sbocco di quella linea doveva essere il recupero della tradizione social democratica, l’approdo a una socialdemocrazia seria, che difendesse gli interessi dei più deboli. Ma mi rendo conto che tutto questo si è perso per strada”. Canfora lo spiega nel suo recente saggio “La Metamorfosi”, edito da Laterza, in cui spiega come le dinamiche del mondo post-Guerra Fredda hanno influenzato la sinistra italiana. Ci troviamo dunque di fronte a un mondo che è stato profondamente turbato a partire dagli Anni Ottanta e Novanta. A partire cioè da quella “mutazione genetica” che ha fatto perdere alla sinistra italiana diversi punti di riferimento che, condivisi o meno che fossero dal grande pubblico, le garantivano coerenza interna e organicità: la difesa dei diritti del lavoro, un sostanziale processo di accettazione della Costituzione materiale, un’attenzione non solo politica ma anche culturale e “pedagogica” alle fasce più svantaggiate della popolazione. La svolta portò con sè la focalizzazione su temi di maniera come l’ambientalismo, il pacifismo, i diritti civili al posto della spinta sui diritti sociali. La sinistra di popolo si fece individualista, e anche il suo spirito riformista si perse graudalmente. L’elettorato tradizionale iniziò a liquefarsi, a garantire il proprio consenso agli avversari tradizionali della sinistra, e spesso gli esponenti di quest’ultima non hanno saputo rispondere in maniera diversa dalle solite semplificazioni sul populismo e sulla presunta “ignoranza” di chi ne ha abbandonato le schiere. Le roccaforti operaie e popolari della sinistra classica hanno iniziato a non essere più tali. Città come Siena, Genova e Pisa hanno eletto amministrazioni di centro-destra e perfino la “Stalingrado italiana”, l’operaia Sesto San Giovanni, è passata alla Lega. Canfora non si stupisce di tutto ciò: nella sinistra italiana “c’è stata una sorta di mutazione antropica”: dal popolo alle élite, dall’inclusione allo spirito di casta, dalle classi dirigenti di estrazione eterogenea ai ceti di partito che riproducono se stessi. “Cassate tutte le altre prospettive ideali, è rimasto solo l’europeismo, che nel migliore dei casi è un autoinganno, nel peggiore una grave scorrettezza”, nota lo studioso della storia classica e navigato militante comunista. La sinistra italiana, in fin dei conti, prima di perdere i fini del suo operato politico, ha smarrito i mezzi: ovvero lo stimolo ad analizzare criticamente l’attualità, la realtà e i sistemi politici ed istituzionali e a mediare uno studio complesso del contesto di riferimento con le proprie priorità ideologiche. Capacità del genere consentirono a Togliatti di giocare le sue carte nella redazione della Costituzione, di dissuadere i comunisti dalla suicida insurrezione che andava scatenandosi dopo l’attentato da lui subito nel 1948, a redigere il memoriale di Yalta, pubblicato postumo, in cui avvertiva dei rischi di un eccessivo legame con l’Urss. Già Enrico Berlinguer, trincerandosi sulla “questione morale” e sulla presunta superiorità ed incorruttibilità del partito iniziò a peccare di scarsa lucidità, ma questo non gli impedì di guidare il Pci alla responsabile avventura della solidarietà nazionale durante gli anni più duri dell’offensiva terroristica contro lo Stato tra il 1976 e il 1979. La “mutazione” che Canfora fa notare è in primo luogo quella di un mondo a cui la sinistra italiana ha voluto con troppa fretta adeguarsi perdendo lo stimolo ad interrogarsi criticamente su di esso. Un riflesso condizionato che ha il suo acme nel riflesso europeista che porta a vedere l’Unione come un fine e non come un mezzo dell’interesse nazionale e le formazioni progressiste scattare in difesa di qualsiasi iniziativa sia promossa da Bruxelles con acritico fideismo. Salvo poi rimuginare su come sia stato possibile regalare agli avversari ampie sacche di voto operaio e di classe media. A cento anni dalla scissione di Livorno la sinistra italiana è un guscio vuoto sotto il profilo ideale, e i partiti moderati e progressisti che hanno nel Pd il loro esponente maggiore sono tenuti assieme più dalla comune aspirazione al potere che da un reale stimolo ideale. E questo è un grave problema per l’intera dialettica istituzionale del sistema-Paese: è solo dal confronto di idee contrapposte, infatti, che può nascere lo stimolo a una crescita politica e civile per cittadini e istituzioni. Latitando le idee, cioè i mezzi, non ha neanche più senso interrogarsi sui fini di questo confronto.

I cento anni di sciagura comunista per i progressisti italiani. L’Inkiesta il 21/1/2021. Il vero rischio per i democratici, per i progressisti e per quanti hanno a cuore obiettivi di emancipazione e di giustizia sociale e quindi si collocano, convenzionalmente, a sinistra è quello di assistere a celebrazioni del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia (Livorno, 21 gennaio 1921) concepite per occultare le ragioni per cui quell’evento fu una vera e propria sciagura per la sinistra italiana, foriera di altre e successive disgrazie, che hanno accompagnato la storia politica nazionale, anche oltre la fine del Pci. La fondazione del Partito comunista è la data in cui in Italia il socialismo divorzia dalla democrazia e sposa il totalitarismo sovietico. Non che da allora siano spariti i socialisti cioè, secondo il lessico comunista, i «social-fascisti», indisponibili a rispondere agli ordini di Mosca e quindi accusati di essere il nemico più pericoloso del proletariato mondiale. Ma da allora in Italia hanno vissuto per lo più in una condizione di minorità elettorale e di subordinazione politico culturale rispetto ai comunisti. Per non parlare delle sinistre liberali e libertarie, a partire da quella radicale, cui il Pci semplicemente non riconosceva patente e dignità progressista. L’egemonia culturale comunista è culminata proprio nella riscrittura addomesticata della storia comunista nazionale e nella legittimazione postuma del PCI come partito riformista sotto mentite spoglie, alla cui modernità e normalità democratica (del tutto analoga a quella dei partiti socialisti europei) l’affiliazione sovietica nulla toglieva, né aggiungeva, limitandosi a fotografare una filiazione remota. Il risultato è che la retrodatazione del riformismo comunista è proseguita di pari passo con la relativizzazione (o la vera e propria negazione) della resistenza reazionaria del Pci a ogni trasformazione social-democratica, di cui la questione morale in funzione anti-craxiana rappresentò la perfetta maschera propagandistica. A differenza di quanto si è usi pensare, anche da parte di non comunisti e post-comunisti, il Pci non ha contribuito al progresso civile e sociale dell’Italia malgrado la sua obbedienza sovietica, ma l’ha di fatto ostacolato e pervertito, proprio perché l’ha dovuto rendere compatibile con quella obbedienza e proiettare in una prospettiva che, fino alla metà degli anni ’80, è rimasta quella della fuoriuscita dal modello liberal-capitalistico. L’avere avuto il partito comunista più grande e forte dell’Occidente, tanto grande e forte da mangiarsi qualunque altra sinistra e da “riclassificare” come destrorso qualunque progressismo non comunista, ha fatto dell’Italia un paese riformisticamente meno avanzato, non più avanzato. Le conseguenze arrivano fino ad oggi. Due anni fa, nel commemorare la morte di Enrico Berlinguer, Nicola Zingaretti si è detto persuaso che «nel patrimonio genetico del Partito Democratico ci sia ancora quella spinta propulsiva che deriva dall’aspirazione a cambiare l’ordine delle cose, di cui parlava Berlinguer. Un progetto “discusso fra la gente, con la gente”, come il segretario del Pci disse al Teatro Eliseo di Roma nel gennaio del 1977». Il riferimento è al Convegno degli intellettuali comunisti, che Berlinguer concluse rivendicando la politica dell’austerità, che non è quella della disciplina finanziaria e di bilancio, ma del ripudio della civiltà consumistica connessa all’ordine economico capitalistico: «Un ampio moto democratico al servizio di un’opera di trasformazione sociale» con lo scopo di «instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, ag­giungo, una moralità nuova». Non ci vuole molto a sentire gli echi “decrescisti”, “onestisti” e archeo-ambientalisti che spopolano tutt’oggi nella maggioranza demo-populista. E se questa è la spinta propulsiva che muove il Pd, cento anni dopo il Congresso di Livorno, la sinistra italiana ha davvero ben poco da festeggiare.

COME VIVERE, E BENE, SENZA I COMUNISTI – ANTONELLO PIROSO SCODELLA DIECI BUONI MOTIVI PER NON PARTECIPARE ALLA CELEBRAZIONE DEI 100 ANNI DEL PCI. Dagospia il 9 gennaio 2021.

Antonello Piroso per la Verità il 9 gennaio 2021. Guida ragionata per (non) partecipare alle celebrazioni dei 100 anni dalla nascita del Pci, Partito comunista italiano.

1 Il Pci è stato un partito costituente della prima repubblica (pur essendo nato nel 1921, prima della marcia fascista su Roma) e si estingue con essa: a 70 anni, nel 1991, travolto dallo tsunami provocato dal crollo del muro di Berlino nel 1989, mentre il sistema sarà investito dal ciclone Tangentopoli nel 1992.

2 Il Pci è stato l' eterno secondo dello schieramento politico, dietro la Dc. Non è mai andato al governo: al massimo lo ha sostenuto dall'esterno, due volte, con gli esecutivi di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti, prima e dopo il sequestro di Aldo Moro nel 1978. Unico sorpasso: alle europee del 1984 - 11.714.000 voti e il 33.33% contro gli 11.583.000 e il 32.96 della Dc - complice anche la suggestione collettiva innescata dai «funerali di popolo» (due milioni di persone) per la morte improvvisa del segretario Enrico Berlinguer in campagna elettorale.

3 Il Pci ha impiegato 63 anni (e quattro leader: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Berlinguer) per diventare, anche se solo per una volta, il primo partito italiano, ma gliene basteranno solo 7 (e due segretari: Alessandro Natta e Achille Occhetto) per scomparire. Come se la lunga marcia l' avesse sfiancato, un colosso dai piedi d' argilla. Ma allora su cosa si è fondata per decenni la pretesa solidità monolitica del Bottegone?

4 L' auto storytelling del Pci si nutre di alcuni miti. A cominciare da quello della «guerra di Liberazione», come se la cacciata dei nazifascisti non sia stata anche merito degli alleati angloamericani, ma esclusivamente dei partigiani, e manco di tutti: solo di quelli «rossi» della Brigata Garibaldi (tra questi, mio nonno). C' è voluto il presidente Carlo Azeglio Ciampi per dare dignità al sacrificio dei militari italiani a Cefalonia dopo l' 8 settembre 1943: rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi, caddero in almeno 6.500.

5 Nessuno nega che molti militanti del Pci abbiano pagato con la vita il loro impegno, e non soltanto durante la Resistenza: si pensi ai dirigenti assassinati dalla mafia come Pio La Torre o, negli anni del terrorismo, a Guido Rossa, sindacalista comunista, pronto a denunciare i fiancheggiatori delle Brigate rosse all' Italsider di Genova. A risultare intollerabile è la pretesa -"egemonica», per usare un concetto gramsciano - del monopolio sulle battaglie contro la criminalità organizzata e negli anni di piombo. Anche perché bisognerebbe non dimenticare quanto scritto da Rossana Rossanda sul Manifesto durante il sequestro Moro: «A leggere i comunicati delle Br si ha l' impressione di sfogliare un album di famiglia».

6 Altro mantra fondativo: la «diversità», da cui discende come corollario la «superiorità etica» di dirigenti e militanti. Diversi perché migliori, Togliatti «il Migliore» per antonomasia. A cancellare le tracce dei propri errori, di sicuro. Connivenza con lo stalinismo? Ma quando mai. Il silenzio sulla repressione in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968? Passiamo oltre. Si arrivò solo alla contorta ammissione berlingueriana, peraltro solo nel 1981: «La capacità di rinnovamento delle società dell' Est ha esaurito la sua spinta propulsiva», come se non stesse parlando del golpe comunista del generale Wojciech Jaruzelski in Polonia, ma del lancio di un vettore spaziale. Il tutto nel rispetto del totem del «centralismo democratico»: il partito dettava la linea, e amen. A chi non era d' accordo, veniva indicata la porta, come successe con i dissidenti del Manifesto, in testa proprio Rossanda, radiati per «frazionismo» nel 1969, colpevoli tra l' altro di aver criticato la linea tiepida sui morti di Praga.

7 E la retorica sulle «mani pulite», l' onestà, il «buon governo» nelle regioni rosse? In realtà, una perfetta macchina organizzativa, anche del consenso, che si basava sulla logica di appartenenza. Per farsene un' idea, basterebbe la lettura di Falce e carrello, scritto dal fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti, sugli ostacoli incontrati nel fare impresa causa opposizione del sistema delle cooperative rosse, accusate tra l' altro di veicolare i finanziamenti occulti in arrivo dall' Est. E anche sorvolando sul coinvolgimento del dirigente Primo Greganti nella Tangentopoli con epicentro a Milano, che dire della valigetta con un miliardo di lire di Raul Gardini entrata nella sede del partito a Roma, «e arrivata ai piani alti» (così Antonio Di Pietro)? E della sentenza di condanna per fatti antecedenti, 1987, ovvero le tangenti prese dal Pci sugli appalti per i lavori della metropolitana milanese?

8 Cosa aggiungere sul «consociativismo», la partecipazione del Pci alla spartizione di posti, leggi lottizzazione, negli enti pubblici tipo la Rai? E della longa manus sul più grande dei sindacati, la Cgil? E dell' influenza diretta sull' intelligencija nostrana? Pescando a caso nel nutrito elenco: Giulio Einaudi, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Luchino Visconti, Ettore Scola, Renato Guttuso...

9 Sbriciolatisi il muro di Berlino e l' Urss, sepolta dalle macerie la prima repubblica, dal momento che si capì Come vivere - e bene - senza i comunisti, pamphlet provocatorio di Roberto D' Agostino, il Pci si dissolse. Per mimetizzazione. Trasformandosi prima in Pds, segretari: Occhetto e poi Massimo D' Alema. Poi in Ds, segretari: D' Alema e poi Walter Veltroni, già capo dell' ufficio propaganda del Pci, che nel 2011 negherà in una lettera a La Repubblica di essere mai stato «ideologicamente» comunista. A seguire Piero Fassino, un altro comunista della vecchia scuola (capace di scrivere nella sua autobiografia del 2003 Per passione: «Sono nato nel tempo dell' uva matura, il 7 ottobre 1949, lo stesso giorno, mese e anno in cui nasceva la Repubblica democratica tedesca», mica cotica, che è il modo con cui i romani esprimono il loro «hai detto niente!"), che accompagnerà i Ds alla fusione con la Margherita di Francesco Rutelli nel Pd, primo segretario, ça va sans dire: l' ex-non comunista Veltroni.: Il Pd, erede del Pci, negli ultimi 10 anni è riuscito a governare per 8 (insieme a chi ha compiuto scissioni alla sua sinistra): dall' appoggio all' esecutivo di Mario Monti, alla presenza in quelli di Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte, con la sola eccezione del precedente di Giuseppi. Ma, al solito, chiamandosi fuori da ogni responsabilità: la politica è in crisi? Prevale il populismo? E che colpa abbiamo noi?, sembrano gorgheggiare molti suoi esponenti, come la band dei Rokes. In prima fila, gli ex comunisti: Zingaretti, che - come il fido Goffredo Bettini - proviene dalla Fgci, l' organizzazione giovanile del Pci (che formava i suoi quadri anche alla scuola delle Frattocchie, frazione alle porte di Roma). D' Alema, che ancora sale in cattedra: «Non si manda via l' uomo più popolare del Paese (Giuseppe Conte) per volere del più impopolare (Renzi)», frase che pronunciata da chi fa parte di un partito - Leu, Liberi e uguali - sotto il 3% nei sondaggi proprio come la renziana Italia viva, suona vagamente spiazzante. Pier Luigi Bersani, che secondo i maligni sarebbe il suggeritore di più di una mossa del ministro della Salute Roberto Speranza, in passato ai vertici della Sinistra giovanile dei citati Ds.

10. Morale. Il passato di un' illusione, è stata la sentenza sul comunismo dello storico francese François Furet nel 1995. L' illusione è trapassata. I finti illusi sono ancora tra noi.

Antonio Gramsci, il vero fondatore del Pci che viveva con 50 anni di anticipo. David Romoli su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. Nel 1975 il Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, allora diretto dal giamaicano e già fondatore della New Left Review, Stuart Hall, pubblicò un volume collettivo destinato a diventare nei decenni successivi una pietra miliare: Resistence Through Rituals. Per la prima volta un gruppo di giovani e giovanissimi studiosi marxisti analizzavano in termini di classe le sottoculture proletarie giovanili che avevano segnato il decennio precedente: Teddy Boys, Mods, Skinheads, presto i Punk. Era uno dei tentativi di riapplicare le categorie marxiste più eretiche, e non a caso quel testo, e gli studi che seguirono, sono la base di qualunque analisi successiva applicata alle subculture. La chiave interpretativa, il punto di partenza lo aveva fornito un intellettuale, studioso, militante e dirigente comunista italiano morto in carcere quasi 4 decenni prima: Antonio Gramsci. In quegli stessi anni, nella patria di Gramsci, la sinistra era dilaniata da un conflitto durissimo tra l’area istituzionale, il Partito comunista e i sindacati, e quella ribelle, la sinistra extraparlamentare e poi autonomia. Tra gli slogan ricorrenti nelle manifestazioni dei rivoluzionari ne risuonava uno dedicato specificamente ai segretari del Pci: “Gransci, Togliatti, Longo, Berlinguer: che cosa c’entra il primo con gli altre tre” (anche se la formulazione originale era più greve). I due esempi valgono a indicare la specificità, anzi l’unicità, di Antonio Gramsci nel Pantheon dei segretari del Pci, determinato dalla valenza secondaria del ruolo di leader rispetto a quello, in cui giganteggia, di intellettuale. Come si sarebbe rivelato il Gramsci segretario può essere oggetto solo di speculazioni azzardate. Mantenne la carica per meno di 10 mesi dal 26 gennaio all’8 novembre 1926, quando fu arrestato, inviato al confino a Ustica, dove si ritrovò con Bordiga, poi nel carcere di san Vittore. La condanna a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di carcere fu comminata dal Tribunale speciale fascista il 4 giugno 1927. In Parlamento svolse un unico intervento, il 16 maggio 1925 (parlò contro lo scioglimento della massoneria). Non era ancora formalmente segretario ma di fatto aveva guidato non ufficialmente il partito anche nel biennio precedente, dunque nella fase cruciale dell’Aventino seguita al delitto Matteotti, anche perché incarnava la linea dell’Internazionale contrapposta alla sinistra di Bordiga. Scontava però il limite di dover guidare un partito che restava nella sua grande maggioranza bordighista. Nella nascita e prima edificazione del Partito, il pensatore sardo aveva avuto, con tutto il gruppo torinese dell’Ordine nuovo, un ruolo essenziale ma minore rispetto a Bordiga. Le due figure centrali nella nascita del Pcd’I erano per molti versi opposte. Gramsci, sardo di origini albanesi, veniva da una famiglia povera precipitata nella miseria dopo la condanna del padre a cinque anni di prigione per peculato. A 12 anni, nonostante una salute gracile e la statura minuta, appena un metro e mezzo da adulto in conseguenza del morbo di Pott che lo aveva colpito a due anni, lavorava 10 ore al giorno. A Torino arrivò nel 1911, grazie a un’esigua borsa di studio. Si piazzò nono all’esame, sette postazioni sotto Palmiro Togliatti. Il risultato non stupisce. Togliatti era un classico secchione. Gramsci, intelligentissimo e lettore vorace, era più eclettico, capace di passare dalla critica letteraria a quella teatrale, dalla politica, che aveva scoperto ancora prima di lasciare l’isola, a un’analisi sociale brillante. A differenza di Bordiga, la cui preparazione era rigorosamente tecnico-scientifica, le radici di Gramsci erano filosofiche e crociane. Il suo marxismo non fu mai dogmatico, il suo percorso molto più ondeggiante di quello, rigido fino alle estreme conseguenze, dell’ingegnere napoletano. Nel 1914 Gramsci fu interventista. Come Bordiga, diventò presto leninista ma il loro leninismo era opposto. Per Bordiga, il capo dei bolscevichi non contraddiceva in niente ma al contrario inverava la verità di Marx. Gramsci salutò la Rivoluzione d’Ottobre con un articolo passato alla storia: “ Rivoluzione contro il Capitale”. Ancora nel 1920, quando Bordiga non vedeva orizzonte che non fosse la scissione del Psi, il dirigente sardo sperava in un rinnovamento radicale del partito e la sua attenzione per l’organizzazione operaia spontanea, per la costruzione di strumenti reali di contropotere e gestione operaia nelle fabbriche fu all’origine del contrasto più profondo tra le future anime del Pcd’I. L’Ordine Nuovo fu il giornale dei Consigli operai, al punto che persino il senatore Agnelli (il nonno del Gianni che abbiamo conosciuto), come ricorderà lo stesso Gramsci nel Quaderno su Americanismo e Fordismo, tentò di contattare il gruppo torinese in nome del comune interesse per una modernizzazione del modo di produzione in fabbrica. Dopo il delitto Matteotti (1924) quello che era già il vero leader del Pdc’I appoggiò la strategia aventiniana: del resto, nonostante alcuni equilibrismi dettati da esigenze diplomatiche in un partito la cui struttura era ancora bordighista, Gramsci era l’uomo dell’Internazionale e della strategia “frontista” dettata da Mosca e contrastata dalla sinistra di Bordiga. Fu però tra i primi a rendersi conto di quanto quella strategia fosse votata al fallimento. Tentò di correggere la rotta. Il 20 ottobre propose di trasformare l’Aventino in antiparlamento, nella speranza di forzare la mano al re. Le altre forze aventiniane respinsero la proposta. Il 12 novembre un deputato comunista, Luigi Repossi, rientrò in Parlamento per commemorare Matteotti. Il 26 lo seguì l’intero gruppo comunista, rompendo il fronte aventiniano. Il Gramsci dirigente e poi segretario del Pci non è quello rimasto nella storia, e tanto attuale da poter essere proficuamente adoperato per interpretare fenomeni come il punk oppure per seguire le tracce dell’invasività di un modo di produzione nelle sfere apparentemente distanti della morale o della sessualità. Quello è il Gramsci che, non senza un certo paradosso, ha lasciato un segno indelebile grazie a 33 blocchi di appunti non destinati alla pubblicazione, i Quaderni dal carcere, gli ultimi 12 dei quali furono scritti quando il detenuto aveva formalmente ottenuto, nell’ottobre 1934, una libertà condizionale per gravi motivi di salute che aveva modificato ben poco la sua condizione. Trasferito in una clinica a Formia nel dicembre 1934 rimase tuttavia sotto stretta sorveglianza e con il divieto di curarsi in una clinica meglio attrezzata per paura di una possibile fuga. Il permesso di curarsi a Roma gli fu concesso solo nell’agosto 1935, quando era ormai troppo grave per lasciare il letto. Il 21 aprile 1937 gli fu concessa la piena libertà. Morì sei giorni dopo. I Quaderni furono consegnati dalla cognata di Gramsci Tatiana Schucht – che viveva in Italia mentre la moglie Giulia era in Unione sovietica – all’ambasciata sovietica che li inviò a Mosca, dove furono affidati a Togliatti. La stessa Tatiana si era occupata di garantire i contatti del detenuto con Mosca, consegnando le sue lettere all’economista amico di Gramsci e “marxista indisciplinato” (come lui stesso si definiva) Piero Sraffa, allora a Cambridge, che le faceva poi pervenire a Mosca. I Quaderni, con le loro preziose e profonde riflessioni sul Risorgimento, la Questione meridionale, i limiti del capitalismo italiano (tanto precise che sono in larga misura ancora valide) e soprattutto con la scoperta del concetto modernissimo di “egemonia” furono pubblicati nel dopoguerra da Einaudi, curati dal dirigente del Pci Felice Platone, supervisionati da Togliatti.

Gramsci, la modernità dell’egemonia contro le solite “casematte” borghesi. A cento anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia e a centotrenta dalla nascita di uno dei suoi fondatori. Piero Bevilacqua u Il Quotidiano del Sud il 19 gennaio 2021. Il 21 di questo mese celebriamo i cento anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia e, curiosamente, i 130 anni dalla nascita di Antonio Gramsci, uno dei suoi fondatori, avvenuta il giorno 22 gennaio del 1891, ad Ales, piccolo villaggio della Sardegna. È dunque un’occasione – mentre ferveranno i convegni e le discussioni sulla storia di quel Partito – per tornare a ricordare la figura di colui che contribuì forse più di tutti, insieme a Togliatti, a creare un grande organismo politico, aderente alla storia italiana, diverso rispetto al modello bolscevico di impronta sovietica. La prima fase della vita di Antonio somiglia perfettamente a quella di due o tre generazioni di giovani meridionali. Anche a quella di chi scrive. Quella di giovani che aspirano a una formazione superiore e devono lasciare la famiglia, affrontando gli studi universitari in città del Centro-Nord. Nato in una famiglia impoverita da varie vicissitudini, il giovane, finiti gli studi liceali, vince una borsa di studio che gli consente di iscriversi alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino. E sono anni durissimi, soprattutto i primi, in cui deve combattere contro il freddo dell’inverno torinese, i pochi soldi e la cattiva salute che lo tormenta e gli impedisce di studiare, costringendolo spesso a saltare le sessioni di esame. Torna a ricordarlo Angelo D’Orsi in Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli 2018, citando alcune delle lettere inviate da Antonio ai familiari. Ma l’Università fa progressivamente emergere il talento del giovane, che segue le lezioni di illustri docenti come Luigi Einaudi, Achille Loria, Francesco Ruffini e tanti altri , mostrandosi particolarmente versato nello studio della linguistica. Ciò che tuttavia cambia il corso dei suoi studi e della sua vita è la città di Torino, divenuta ormai il più importante centro industriale d’Italia, e luogo di fermenti politici e sociali che, in quegli anni, diventano sempre più intensi. Gramsci già prima della Guerra Mondiale si avvicina al Partito Socialista e comincia a collaborare a Il grido del popolo e poi al foglio torinese dell’Avanti! Ma è alla fine della guerra e soprattutto nel 1919-20, durante il cosiddetto Biennio Rosso, che egli diventa un protagonista della vita politica torinese e italiana. Sono questi gli anni in cui Torino diventa teatro di violenti conflitti di classe, che culminano nell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, secondo modelli di lotta sperimentati in Russia. In quel paese, nel 1917, mentre era in corso la guerra, i movimenti rivoluzionari capeggiati da Lenin e dai suoi compagni avevano infatti abbattuto il potere zarista e fondato il primo stato proletario della storia. Per tutti i militanti rivoluzionari dell’epoca quell’evento grandioso e drammatico, in uno dei momenti più cupi e sanguinosi della storia d’Europa, rappresenta un esempio da imitare a cui legarsi. Quell’evento, com’è noto, darà una impronta decisiva a gran parte del secolo XX. Esso porterà alla nascita di una schiera di partiti comunisti a scala mondiale, costituendo un fronte oppositivo organizzato, quello del movimento operaio, contro gli stati capitalistici. In tale processo si inscrive la nascita del PCd’I a Livorno, nel 1921. Ma qual è il ruolo originale che Gramsci gioca in questa grandiosa partita, che ormai si svolge su uno scenario mondiale, che da Torino lo porta anche a Mosca, cuore del movimento rivoluzionario globale? Il giovane intellettuale sardo nel 1919 aveva fondato, insieme a Palmiro Togliatti e Umberto Terracini, il periodico L’Ordine Nuovo, diventato l’organo dei Consigli di Fabbrica, istituiti in alcuni stabilimenti, come la Fiat e la Lancia, a imitazione dei soviet russi. Quel periodico diventerà poi il quotidiano del partito comunista, sino al 1924. Anno in cui Gramsci fonda l’Unità. Pur muovendosi dentro la grande corrente del bolscevismo sovietico, il rivoluzionario sardo comincia a uscire dagli schemi di un’applicazione astratta dell’esperienza russa e intraprende una riflessione sui caratteri storici della società italiana e sulle sue peculiarità. Ben presto egli comprende che la trasformazione rivoluzionaria del nostro Paese non sarà possibile senza coinvolgere le masse contadine e dunque senza conquistare il Mezzogiorno. Influenzato dalle idee del socialista Gaetano Salvemini egli perciò teorizza l’alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud, resa possibile solo da un partito che sappia farsi carico della questione meridionale. Tuttavia, il contributo più profondo e duraturo di Gramsci, gli scritti che ne fanno uno dei più profondi pensatori politici dell’età contemporanea, ormai tradotto e studiato in tutto il mondo, sono​ le opere scritte in carcere, nel luogo che ha decretato la sua fine di uomo libero e lo ha escluso per sempre dalla lotta politica. Arrestato nel 1926 , nonostante fosse protetto dall’immunità parlamentare, egli farà dei luoghi del confino e del carcere in cui peregrinerà fino alla sua morte, avvenuta nel 1937, i laboratori di uno studio e di una ricerca instancabile che daranno vita ai Quaderni. È nei Quaderni che l’intellettuale sardo mette in piedi un monumento di analisi e di pensiero che – sia pure, talora, in forma di appunti e di frammento – costituisce un contributo ancora oggi vitale per comprendere i meccanismi della società del nostro tempo, le dinamiche del potere, il comportamento delle masse, i fenomeni culturali, il mutare delle psicologie collettive. Quel che fornisce a Gramsci la ragione fondativa del suo progetto intellettuale è una situazione storica drammatica, di cui deve prendere atto. Il movimento rivoluzionario iniziato in Russia nel 1917 si è bloccato, in Italia è stato duramente sconfitto. In Europa e nel mondo avanza il fascismo. La sua prigionia nel carcere fascista ne costituisce la conferma più dolorosa. Perché, dunque, un grandioso movimento di popolo, che aveva scosso dalla fondamenta il vecchio ordine borghese, si è arrestato? Perché l’esperimento sovietico è rimasto isolato? Gramsci risponde a queste domande decisive con una constatazione di fondo. La rivoluzione d’Ottobre non è replicabile in Occidente, dove esiste una società stratificata e complessa, dove il potere si articola ed esprime in forme molteplici, economiche, politiche, religiose, culturali. In Russia il dominio zarista poggiava su una società informe, una “massa gelatinosa” e inarticolata, come egli la definiva, all’interno della quale il potere centrale non aveva radici profonde. Una volta abbattuta l’autocrazia degli zar, lo stato non esisteva più e il controllo politico poteva essere assunto da chi occupava le sue principali sedi istituzionali. In Europa assumere il controllo delle leve pubbliche non era sufficiente per garantire il governo rivoluzionario del proletariato sull’intera società. Perché nella società industriale i poteri della borghesia, le “casematte”, come le chiamava Gramsci, sono disseminate e molteplici e non tutte controllabili tramite i corpi statali. Non era sufficiente conquistare lo Stato per conquistare anche la società e trasformarla in senso socialista. In Europa, dunque il compito era ben più complesso che nella Russia arretrata, dove l’immensa maggioranza della popolazione, fatta di contadini, era da poco uscita dalla servitù della gleba. Per trasformare la società capitalistica occorreva dunque un progetto molto più articolato di una semplice insurrezione di popolo, più o meno armata. Per conseguire quel fine si rendeva necessaria la conquista culturale di diversi strati popolari, resi persuasi dei vantaggi e della superiorità di un assetto socialista della società. Quel che appariva decisivo, se la classe operaia voleva realizzare la trasformazione rivoluzionaria dell’assetto borghese, era pertanto possedere una superiore capacità egemonica. Era qui la chiave di volta della rivoluzione in Occidente. E il concetto di egemonia, che significa potere e insieme persuasione, dominio e abilità di governo, comando e capacità di risolvere i problemi della masse, costituisce il culmine del pensiero rivoluzionario di Gramsci. Un concetto che dunque affida alla cultura e non alla lotta armata, il compito principale di agente rivoluzionario e consegna uno ruolo di prim’ordine agli intellettuali. Che per Gramsci non erano soltanto i filosofi e gli scrittori, ma anche gli avvocati, i medici, i professori di scuola, i maestri elementari. Tutti attori sociali in prima linea e produttori di ideologie.

Dante e Gramsci umanisti e radicali con un’ idea fissa: costruire l’Italia. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Nei “Quaderni del carcere” Gramsci riconosce a Dante di essere stato il tornitore della lingua che diventerà il primo fondamento della nostra identità. Cadono quest’anno due anniversari importanti, la nascita a Livorno il 21 gennaio del 1921 del Partito Comunista d’Italia – Sezione dell’Internazionale comunista ( che tale fu la denominazione propria fino allo scioglimento dell’Internazionale nel 1943, da cui rinacque come Partito comunista italiano) e la morte a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321 di Durante di Alighiero Alagherii o de Alagheriis, che tale era la sua denominazione propria, noto infine come Dante Alighieri o anche semplicemente: Dante.

È del primo che dovrei dire – e di quale significativo ruolo abbia avuto nella storia di questo Paese. Eppure, in qualche modo mi pare esistano delle correlazioni tra i due avvenimenti. Non parlo qui del fervore con cui Gramsci studiò Dante: nei Quaderni del carcere scritti tra il 1929 e il 1935 durante la prigionia impostagli dalla dittatura fascista l’unico approfondimento di intenzione assolutamente letteraria e non di “critica militante” fu una riflessione di esegesi dantesca: si tratta degli appunti sul Canto X dell’Inferno; a Gramsci era rimasto inappagato durante i corsi universitari torinesi un desiderio di conoscenza. La richiesta di poter avere in carcere «una Divina Commedia di pochi soldi» è immediata ma passerà del tempo prima che la cognata Tatiana possa cominciare a consegnargli libri e riviste; tra questi, entreranno nella sua cella «il Dante minuscolo hoepliano» e La poesia di Dante di Benedetto Croce. La “nota dantesca” è stesa tra il 1930 e il 1932. Il tema era annunciato nella prima pagina dei Quaderni, datata 8 febbraio 1929, quando il detenuto a Turi n. 7047 ha finalmente ottenuto carta e penna lungamente richieste, e un tavolino fatto fare a proprie spese: Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia. Arriverà pure, più tardi, un altro libro, Dante, Farinata, Cavalcanti del giornalista Vincenzo Morello, detto Rastignac, che diventerà obiettivo della sua critica – capovolgendo la gerarchia tradizionale fra i due personaggi del canto, Gramsci fa di Cavalcante il vero cuore dell’episodio – non meno della distinzione tra “poesia” e “struttura” che era propria della lettura crociana. A Croce Gramsci opporrà una lettura “stretta” tra capolavori dell’arte e rapporti sociali e la Commedia mostrerebbe proprio il carattere di passaggio tra un sistema culturale del passato, medievale, e l’emergere dei Comuni, che sarà anche l’emergere di un nuovo umanesimo e del ruolo dell’intellettuale: Cavalcanti, appunto, ne è un’anticipazione. Ma i riferimenti a Dante punteggiano tutta l’opera dei Quaderni in particolare nell’accostamento del Sommo Poeta a Machiavelli – devo dirlo che gli autori italiani più tradotti al mondo sono loro tre? – e per l’individuazione della Chiesa «come problema nazionale negativo» e per la distanza tra il «neo- ghibellinismo di Dante», che adombra una visione politica elitaria, e il Principe, in cui la crisi “delle strutture” sembra aprirsi verso la modernità. Sempre però Gramsci riconosce a Dante di essere stato il tornitore di quella lingua che diventerà il primo fondamento dell’identità nazionale. E forse qui potrei cominciare a dire propriamente di ciò di cui dovrei dire: il Partito comunista italiano ha sempre fatto dell’identità nazionale un elemento distintivo. La sua “anomalia” – essere il Partito comunista più forte d’Occidente, in un’Europa tagliata a metà dalla cortina di ferro – ha le sue radici propriamente in questo carattere nazionale, in questa forte appartenenza nazionale. Non che a Livorno fosse propriamente così. La nascita fu disagiata – la sede in cui si recarono i delegati comunisti che uscirono al canto dell’Internazionale dal Teatro Goldoni dove si era consumata la crisi del Partito socialista nel suo XVII Congresso era un vecchio teatro, il San Marco, diventato deposito militare, e non aveva sedute e si dovette stare tutti in piedi e con gli ombrelli, perché dalle finestre rotte e dal tetto entrava acqua a dirotto, raccontò poi tanti anni dopo su Rinascita Umberto Terracini, in Il 21 gennaio 1921 incomincia la lunga giornata senza crepuscolo. Soprattutto – era pieno di delegati stranieri comunisti e si svolse sotto il vigile sguardo di delegati russi dell’Internazionale. D’altronde, Lenin e Trotsky non avevano lasciato margini di dubbio: bisognava uscire dal rapporto con i “riformisti” e costruire un partito proprio. I compagni sovietici avrebbero dato il loro supporto. Questa “golden share” russa durò a lungo, almeno fino allo strappo di Berlinguer. Eppure, tra i tormenti storici di un’esperienza comunque straordinaria questo carattere “nazionale” – una lettura acuta dei fenomeni sociali, economici, culturali delle classi e delle élite italiane, dei loro mutamenti e delle loro permanenze – non si spense mai. Merito del lavorio di Gramsci, certamente, gigantesca figura che nel “dolce stil novo” delle sue scritture in carcere – lui, in esilio come Dante, lui che come Dante crede nel ruolo civile della letteratura, lui che come Dante crede nella possibilità della salvezza umana – traccia i fondamenti di una cultura politica a venire. Ma non solo: come non leggere un filo rosso di continuità tra il concetto di egemonia e la lettura della questione meridionale con la svolta di Salerno e il compromesso storico? Il crepuscolo, nonostante la ferma intenzione di Terracini, comunque arrivò. La “lingua comunista” si disperse in mille dialetti – che neanche più la guerra intestina fra guelfi bianchi e guelfi neri al tempo di Dante potrebbe dar conto. E io non so se questo abbia fatto poi davvero bene a questo Paese.

L’ing. Bordiga, il limpido ragazzo che fondò il Pci. David Romoli su Il Riformista il 16 Gennaio 2021. In occasione dei cento anni dalla nascita del partito comunista italiano avvenuta a Livorno il 21 gennaio, pubblichiamo il ritratto dei sette segretari. Partiamo con Bordiga, poi Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta, Achille Occhetto. Su Amadeo Bordiga e Achille Occhetto, il primo e l’ultimo segretario del Pci, l’uomo che più di ogni altro presiedette alla sua nascita e quello che dopo una settantina d’anni ne decretò la morte, pesa un destino singolarmente identico: qualcosa che va oltre l’amnesia collettiva, la rimozione, l’oblio. Quasi una damnatio memoriae che impone di cancellarne il ricordo, negarne il ruolo o almeno ridurlo a una nota a pie’ di pagina. E non solo, l’immagine che di entrambi viene restituita è quasi sempre caricaturale, e a Bordiga spetta la parte ingrata del dirigente rigido e bolso, prigioniero del proprio dogmatismo. Le cose non stanno proprio così. Amadeo Bordiga, 32 anni quando fondò di fatto il Pcd’I a Livorno nel 1921, anima nel 1912 del Circolo Carlo Marx di Napoli, poi leader all’interno del Psi della “Frazione Intransigente Rivoluzionaria” nel 1917 e dopo la Rivoluzione d’ottobre della “Frazione Comunista Astensionista”, direttore dal 1918 del giornale Il Soviet, non era affatto un miope sprovveduto. Amici e nemici gli riconoscevano una logica ferrea, derivata anche dall’essere uno dei pochi dirigenti della sinistra di formazione scientifica. Come tutti gli uomini del suo tempo era convinto che la scienza fosse sempre esatta. Come molto marxisti della sua epoca riteneva che il marxismo fosse una scienza rigorosa e non un’ideologia o una dottrina. A partire da questi assunti procedeva con logica consequenziale impeccabile. Nel 1914-15 era stato il più fermo nell’opporsi non solo alle tentazioni interventiste che avevano invece per un po’ sedotto Antonio Gramsci ma anche alla formula ambigua del Psi “Non aderire né sabotare”. Considerava la democrazia parlamentare l’opposto del comunismo e di conseguenza la non partecipazione del partito alle elezioni un elemento cardine. La sua “sua pregiudiziale astensionista” fu uno degli elementi che più ritardarono la nascita del Pcd’I, che vide la luce nel momento peggiore, quando la fase montante del conflitto sociale, il “biennio rosso” già declinava e la controffensiva fascista stava mettendo il Movimento operaio alle corde. Quella pregiudiziale fu oggetto di uno scontro diretto e violento, nel 1920 a Mosca, con Lenin, che nel suo pamphlet L’estremismo malattia infantile del comunismo, prendeva di mira proprio l’italiano. Una ricostruzione agiografica del conflitto tra i due gruppi alla base del nuovo partito nel biennio precedente Livorno, Il Soviet napoletano e il L’Ordine Nuovo torinese, ha contrapposto a lungo, almeno nella vulgata e nel senso comune, “l’apertura” all società e alla spinta operaia dei torinesi e la “chiusura settaria” dei bordighiani. Bordiga, che nonostante le polemiche sull’astensionismo era e rimase sino alla scomparsa nel 1970 rigorosamente leninista, seguiva una logica diversa ma non più discutibile di quella dei sostenitori dei “consigli operai”. Era convinto che la questione centrale, anzi unica, fosse la conquista del potere politico, rispetto alla quale il nodo del “potere nelle fabbriche” era secondario. Bordiga critica Gramsci perché, a suo parere, il leader del gruppo torinese crede «che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico». Con il rischio che ciò si risolva «in un puro esperimento riformista con la modificazione di certe funzioni dei sindacati». Sono i bordighisti a premere per la scissione e la costruzione di un nuovo partito, rifiutando di tentare la strada, che invece proverà a battere senza risultati Gramsci, di un “rinnovamento del Partito socialista”, come recita il titolo delle tesi gramsciane dell’aprile 1920. Ed è ancora la robusta struttura dei bordighisti che rende possibile la scissione al congresso di Livorno del Psi, nel gennaio 1921. La discussione e anche lo scontro fra le due anime del nascituro Pcd’I rivela l’errore e la debolezza intrinseca di entrambe, condivisi peraltro dalla III Internazionale: la convinzione che l’Italia sia, o sia ancora, sull’orlo di un’esplosione rivoluzionaria, che mette pertanto il tema della conquista del potere all’ordine del giorno, e non, invece, un Paese in piena e vincente controffensiva padronale, che obbligherebbe al contrario a considerare la resistenza e sopravvivenza come elementi prioritari nella lista delle urgenze. Ma all’interno di queste coordinate e letta con le lenti dell’epoca, la linea di Bordiga non era affatto un vaneggiamento dottrinario e intransigente. Anche a offensiva fascista ormai dilagata, nel 1923, il segretario del Pcd’I non esitò a contrapporsi all’Internazionale, che chiedeva alleanze politiche contro il fascismo. Le “Tesi di Roma” firmate da lui e Umberto Terracini accettavano le alleanze su specifici obiettivi ma non quelle politiche. Né è realistica l’interpretazione, a lungo egemone grazie alla storiografia del Pci, di un cambio della segreteria, da Bordiga e Gramsci, motivato dal conflitto tra la visione più lungimirante del nuovo segretario e quella più settaria del defenestrato. Il Congresso di Lione fu il riflesso fedele dello scontro tra i bolscevichi nell’Urss, che in quel momento passava per la doppia crociata contro Trockji e contro “il frazionismo”. Bordiga, non a caso assimilato dalle stesso Gramsci a Trockji, fu vittima della “boscevizzazione del Pcd’I”, cioè della sua totale omologazione al comando di Mosca. Si può accusare di tutto il fondatore del Pci ma non di opportunismo o ambiguità. Anche la sua scelta più giustamente criticata, quella a favore delle potenze nazifasciste nella guerra mondiale, era conseguenza diretta del suo modo di ragionare, rigoroso fino alle estreme conseguenze anche quando quelle conseguenze erano inaccettabili e mostravano un totale scollamento con la realtà. Se l’Inghilterra era il cuore del capitalismo mondiale, bisognava augurarsi, pur senza mai prendere parte attiva a fianco dei fascisti, senza scadere nell’antisemitismo e senza mai rinnegare la sua battaglia per il comunismo e contro lo stalinismo, la sconfitta dell’Inghilterra. Su Bordiga probabilmente ha visto più a fondo di tutti Costanzo Preve, che ne riconosceva i meriti intellettuali ma lo individuava come figura tipica di una robusta vena integralista che era ben presente nel marxismo e che non è affatto periferica né nella cultura comunista e neppure in quella del Pci: una sacralizzazione della triade Marx-Engels-Lenin e di tutto il loro pensiero dal quale deduceva poi tutto il resto. Se nella lunghissima attività pubblicistica dal dopoguerra al 1970 preferiva evitare di far comparire la sua firma era proprio perché si sarebbe trattato da un lato di manifestazione di individualismo “piccolo borghese” ma dall’altro anche di un fatto pleonastico. Bordiga riteneva di sviluppare le conseguenze matematiche di assunti che per lui erano certi e indiscutibili come fondamenti di una scienza esatta. E che senso avrebbe mai firmare un’equazione?

A cent'anni dal congresso di Livorno. Croce, Labriola e Gentile sono i veri fondatori del Partito Comunista Italiano. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 11 Dicembre 2020. Quello strano animale politico che è stato il PCI nacque storicamente come Pcd’I nel 1921 dalla scissione di Livorno, ma politicamente si costituì nel 1926 quando gli ordinovisti, e soprattutto Gramsci e Togliatti, ne presero la direzione. Esso non sarebbe stato quel potente e non illusorio ircocervo che è stato, se il suo vero atto di nascita culturale non fosse stato in quel dibattito, che si svolse tra fine 800 e primo 900, tra Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con il quale Marx entrò nella cultura italiana. Azzardo una ipotesi: una delle ragioni per le quali l’Italia non ha mai salutato la nascita di una socialdemocrazia è proprio in questo passaggio indicato, quanto mai decisivo: Marx non è entrato in Italia attraverso un Bernstein, come in Germania, pensatore che mobilitò il revisionismo riformista e socialista, ma attraverso la potenza di due “categorie” schiettamente legate a una filosofia della forza e del destino della storia: Materialismo storico, con Antonio Labriola; Marx filosofo del rovesciamento della prassi, con Giovanni Gentile, quest’ultimo considerato da Togliatti, ancora nel 1919, “il maestro delle nuove generazioni”. La cultura può avere un effetto dirompente sulla nascita delle formazioni storiche, e il dibattito che ho ricordato, lo ebbe sulla forma e sulla storia del PCI, e determinò largamente la sua originalità, unico partito comunista dell’Occidente governato da una grande e colta aristocrazia politica, non pochi dirigenti educati pure da Benedetto Croce; unico, arrivato alle soglie del governo, e con un ruolo decisivo nella storia d’Italia e nella sua cultura. Con Labriola fu introdotta la concezione materialistica della storia dotata di una raffinata “previsione morfologica” sul destino mondiale del comunismo; con Gentile entrò Marx filosofo della prassi, valorizzato al massimo con la traduzione delle marxiane “Tesi su Feuerbach” operata dallo stesso Gentile, che almeno in parte hanno orientato anche i “Quaderni” di Gramsci e l’insieme del dibattito italiano per lungo tempo. Croce, nel 1917, ripubblicando i suoi scritti su Marx, vide, nella idea di potenza e di genuinità della forza, il contributo decisivo che Marx aveva dato alla nuova elaborazione della politica, liberandola “dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”. Dove poteva trovar spazio ideale una socialdemocrazia? Il partito nascente si liberò del comunismo di sinistra antibolscevico e antistalinista di Bordiga, e si collocò nella cultura di uno storicismo pensato nella prospettiva di un destino necessario, carico di influenze “idealistiche”. La filosofia della prassi di marca gentiliana operò, pure oltre i suoi rigetti ufficiali, inevitabili dopo le scelte politiche del filosofo, come una filosofia del rovesciamento della prassi, tema intorno al quale si svolse la discussione sul marxismo in Italia, oltre i nomi ricordati, fino a Giuseppe Capograssi e Rodolfo Mondolfo. Al centro del dibattito originario non fu “Il Capitale”, se non per la tesi neutralizzante di Benedetto Croce sul significato della teoria marxiana del “valore-lavoro”. Il partito che rinacque nel dopoguerra, con la guida di Togliatti, fu, insieme, stalinista nella visione del destino della storia e “ultra-culturale”, se così si può dire, nella centralità che diede al rapporto con gli intellettuali e a una elaborazione relativamente autonoma sul destino della rivoluzione in Occidente, soprattutto dopo la pubblicazione dei “Quaderni” di Gramsci. Un ircocervo, capace di contribuire alla elaborazione della costituzione e a una forma di governo costante della società italiana, ma che restò irrimediabilmente legato al destino dell’Unione sovietica, tanto che morì insieme ad essa dopo il 1989: simul stabunt, simul cadent, la sempre riaffermata e anche reale autonomia non aveva la forza per opporsi a questo destino. Qui ancora si rivelava qualcosa dell’atto di nascita del partito, spesso irriconoscibile sotto la spinta degli eventi: un materialismo storico dotato di un destino necessario che era nella vittoria mondiale del 1917, l’umanità finalmente liberata; e una filosofia della prassi che doveva, democraticamente, rovesciare il senso di continuità della storia. Ortodossa la visione generale, che impedì ogni vero distacco dall’Unione sovietica, seguendo i ritmi di quella storia, legando ad essa, solo qualche volta problematicamente, il suo destino; tutt’altro che ortodossa la prassi politico-parlamentare e il pensiero che le corrispose, secondo la doppia natura dell’ircocervo. E su questo punto va detto qualcosa di più, per completare quella che chiamerei la prima puntata di una riflessione. Mai il Pci fu una socialdemocrazia, mai penetrato dalla sua cultura; il suo “riformismo”, per quel che operò fortemente nella società italiana, voleva sempre essere “di struttura”, ossia capace di toccare la radice di un rovesciamento della prassi che nessuna socialdemocrazia aveva pensato di smuovere. La democrazia in occidente implicava la lotta per la conquista dell’egemonia, un gran principio innovatore della scienza politica fondata da Gramsci, onde anche l’enorme lavoro culturale e i dibattiti filosofici degli intellettuali legati in forme varie al partito, che formarono il ricco filone del marxismo italiano. Una egemonia che, vincente, avrebbe trasformato la democrazia in “democrazia progressiva”, verso comunismo realizzato, problema tutto da discutere, ma che faceva intravedere una difesa concettualmente strumentale delle istituzioni com’erano.  Una “doppiezza” che non va criticata moralisticamente, dato che quella parola si definisce con una vera valenza storica, legata al destino previsto per la storia del mondo. Tema che aprirebbe un altro capitolo, rinviato, Direttore permettendo, a una seconda puntata.

Palmiro Togliatti, il Migliore o il peggiore? David Romoli su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Quando Benedetto Croce lo incontrò di nuovo nel 1944, dopo quasi 25 anni da quando si erano parlati per la prima volta, Palmiro Togliatti era appena tornato dal decennale esilio nell’Urss. I filosofo gli affibbiò, non senza un accento critico, la definizione destinata a rivelarsi per sempre la più calzante: “totus politicus”. Non era del tutto esatta, perché Togliatti fu intellettuale di razza, però coglieva il nocciolo non solo dell’uomo ma del marchio indelebile che impresse al suo partito. Se oggi, a un secolo dalla fondazione e a trent’anni dallo scioglimento del Pci, si chiedesse a un giovane di indicare il leader che più di ogni altro connota quel partito, risponderebbe probabilmente Enrico Berlinguer. Qualcuno, più colto e sofisticato, citerebbe forse Antonio Gramsci. Sarebbero entrambe risposte sbagliate. Il Pci è stato soprattutto Palmiro Togliatti. La sua struttura, la sua vocazione politica, la sua grandezza e le sue miserie portano la firma del capo che alcuni nel partito, con frequenza minore di quel che l’aneddotica lascia credere, definiva “il Migliore”. Togliatti guidò il Pci per 38 anni, dal 1926 alla morte nel 1964, anche se formalmente ne divenne segretario solo nel 1944: prima era semplicemente “il capo dei comunisti italiani”. Lo trasformò da partito di militanti a partito di massa onnipresente nella società italiana. Fece della sua personale interpretazione della “democrazia progressiva”, concetto coniato dal bulgaro e capo della III Internazionale Dimitrov, l’asse di una strategia che ha accompagnato il Pci dal dopoguerra sino allo scioglimento. L’incidenza del vero fondatore sul dna del più grande partito comunista d’occidente è stata però più profonda e pervasiva. Venivano da lui quell’estrema prudenza che aveva reso Togliatti forse il politico più oculato e accorto del movimento comunista internazionale ma anche l’alterigia così marcata tra i dirigenti comunisti italiani. C’è una certa ironia nel fatto che, tra tutti i leader della sinistra del Psi che diedero vita alla scissione e alla formazione del Pcd’I, l’unico assente al congresso di Livorno del 1921 fosse proprio Togliatti. Era rimasto a Torino, a dirigere L’Ordine Nuovo, il periodico di Gramsci nel quale era letteralmente nato alla politica. È bizzarro anche il fatto che il più “politico” tra gli esponenti della frazione comunista sia stato anche quello che più ha esitato prima di consacrare alla politica la sua intera esistenza. Nato a Genova da famiglia piemontese ma tornato molto giovane in Piemonte, prima a Novara e poi a Torino, sembrava destinato a una carriera di intellettuale più che di leader politico. Studioso, anzi “secchione”, era arrivato secondo al concorso per la borsa di studio all’Università di Torino nel quale il futuro amico e compagno Gramsci si era piazzato nono. Costretto dalla famiglia a iscriversi a Giurisprudenza invece che a Filosofia, dopo aver conseguito a pieni voti la laurea discutendo la tesi con Luigi Einaudi, si iscrisse di nuovo a Filosofia, per una seconda laurea. Socialista dal 1914 e, come Gramsci, interventista nella Grande Guerra, lasciava alla politica spazio marginale. Sui primi numeri dell’Ordine Nuovo scriveva di cultura, nella rubrica “La battaglia delle idee”. Nel 1923 fu di nuovo sul punto di abbandonare la politica attiva per riprendere quegli studi in Filosofia che aveva dovuto abbandonare prima della laurea. Dal 1924 però la vita di Togliatti e l’attività politica si sovrappongono quasi completamente: il congresso di Lione e la defenestrazione di Bordiga, l’esilio a Parigi e poi la lunghissima permanenza a Mosca, l’ascesa alla segreteria della III Internazionale, il ritorno in Italia, la rinascita del Pci come partito di massa, l’amnistia concessa ai fascisti e ai soldati di Salò come ministro della Giustizia, il ruolo centralissimo nella Costituente, la direzione del Pci fino all’improvvisa morte a Yalta, nel 1964. Togliatti è l’uomo della svolta di Salerno, che nell’aprile del 1944 pose le basi della collaborazione tra Pci e forze democratiche liberali per la ricostruzione della democrazia italiana, il costituente il cui ruolo nella definizione della Carta fu essenziale e insostituibile, il leader che, dopo l’attentato di cui era stato vittima il 14 luglio 1948 e la conseguente rivolta popolare, evitò che la situazione degenerasse in guerra civile ordinando al suo partito di tenere la testa fredda, i nervi a posto e i fucili nei ripostigli. È il capo del Pci che, negli anni della guerra fredda, in nome della “democrazia progressiva” avviò di fatto il più forte e temibile partito comunista occidentale sulla strada della democrazia. È un padre della patria e tutti gli effetti e se questo ruolo, non negatogli da nessuno, non è neppure esaltato come si dovrebbe è per colpa del compagno Ercole Ercoli, pseudonimo dello stesso Togliatti negli anni della III Internazionale. In quella veste il ruolo del numero uno del comunismo italiano fu più oscuro e più ambiguo. I dirigenti del Pci furono certamente complici nella denuncia e nella deportazione dei militanti italiani vittime dello stalinismo. Togliatti bollò come «una decisione errata e catastrofica» l’azzeramento del Partito polacco,nel 1938, una mattanza che risparmiò solo 21 militanti. Ma quella “decisione catastrofica” fu conseguenza diretta della condanna decretata, in data incerta e a porte chiuse, da quel Comintern di cui Ercoli era il principale dirigente dopo Dimitrov. In Spagna, durante la guerra civile, Togliatti maturò la concezione feconda di “democrazia progressiva”. Ma nelle vesti di Ercoli diresse lo sterminio del Poum catalano, tragedia immortalata da George Orwell nel suo Omaggio alla Catalogna. Anche dopo la guerra, quando riuscì a evitare il ritorno a Mosca rifiutando la guida del Cominform per restare al comando del Pci, il segretario si spese cercando di evitare la rottura tra Urss e Cina ma, nel 1956, scrisse personalmente a Mosca invocando l’invasione dell’Ungheria e plaudì quando i carri armati entrarono a Budapest. Al punto di irridere chi, il giorno dell’invasione, gli diceva con quanta angoscia sarebbe andato a letto quella notte: «E io invece mi berrò un bel bicchiere di vino». Tra Togliatti ed Ercoli, tra il dirigente dello stalinismo e quello del comunismo italiano, non c’è in realtà contraddizione. In entrambi i casi l’uomo agiva da politico dotato di un ferreo senso della realtà e da una innata prudenza. Quando, nel suo ultimo atto politico prima dell’arresto, Gramsci scrisse al Comitato centrale del partito sovietico la famosa lettera in cui, pur schierandosi con Stalin, invitava a non sacrificare l’unità del gruppo dirigente bolscevico, Togliatti scelse di non inoltrarla. Valutava la situazione con l’abituale realismo. Sapeva che quell’unità non si sarebbe mai più ricostruita. Immaginava come quella lettera del segretario italiano sarebbe stata interpretata a Mosca. Decise, provocando il risentimento di Gramsci, di chiudere la lettera in un cassetto. Era lo stesso realismo che lo avrebbe spinto a concedere l’amnistia ai fascisti in nome della necessaria pacificazione nazionale, a bloccare la sollevazione popolare dopo l’attentato del 1948, a guidare il Pci nella pacifica “via italiana al socialismo”. Forse lo stesso realismo era all’origine della ferrea scelta di restare sempre e comunque legato all’Urss, «la nostra parte, la nostra bandiera, la nostra vita». Ancora nei primi anni ‘60 minacciò le dimissioni a fronte di una posizione della Direzione che considerava troppo critica nei confronti dell’Urss. È probabile che anche su quel fronte, con la lucidità fredda che gli era propria, valutasse quali sarebbero state le conseguenze per il partito italiano di un divorzio dall’Urss. Di certo non si trattò mai di viltà. In più occasioni Togliatti dimostrò al contrario un notevole coraggio personale non solo di fronte ai rischi materiali. Ci voleva coraggio e parecchio, nell’Italia conformista e nel Pci ancora più perbenista degli anni ‘40 e ‘50, per lasciare senza nascondersi a moglie, Rita Montagnana, partigiana e dirigente comunista, e portare alla luce del sole il nuovo amore con l’allora giovanissima Nilde Iotti, nel 1948. Non furono né l’interesse né la viltà né il cinismo a dettare le scelte migliori ma anche quelle peggiori del Migliore. Furono la sua personalità, la vocazione e la forma specifica della sua intelligenza: “totus politicus”.

Un inedito di Togliatti, lezione al giovane dirigente Pci: "Il vostro invito è un'offesa". Luca Sancini su La Repubblica il 22 gennaio 2021. L'ex presidente dell'Emilia-Romagna Turci pubblica una lettera del "Migliore" che lo rimproverava duramente per un invito: "Un intervento di dieci minuti è culto della personalità". “Caro compagno il vostro invito è qualcosa che sta tra il culto della personalità e l'offesa alle norme elementari e al costume del nostro lavoro, firmato Togliatti”. Bacchettato dal “Migliore” per un inopportuno invito, succedeva anche questo nella vita del Pci di cui si sono celebrati il 21 gennaio i 100 anni dalla sua fondazione. L'episodio inedito e significativo è stato svelato sulla pagina facebook dell'ex presidente della Regione Lanfranco Turci, per lungi anni dirigente del Partito comunista, che è riandato ad una vicenda risalente al lontano gennaio del 1962. Con tanto di lettera scritta inchiostro verde da Palmiro Togliatti pubblicata a corredo che iniziava con “caro compagno” ma per poi impartire una rigorosa lezione di stile, Turci racconta di quando da dirigente della Fgci, arrivato in una Roma ancora sconosciuta da Modena, ebbe l'incarico dal segretario Rino Serri di invitare il leader del partito ad un riunione dell'organizzazione giovanile comunista. “Fui ammesso con qualche difficoltà alla segreteria di Togliatti, che stava al secondo piano di Botteghe Oscure, e mi venne permesso di scrivere due righe da consegnarli. Improvvisai scrivendola in piedi una lettera nella quale, sapendo dei suoi innumerevoli impegni, lo invitavamo ad una breve partecipazione alla riunione di dieci, quindici minuti”. Togliatti quella richiesta un po' informale non la prese bene e a stretto giro di posta replicò: “Venire a fare un saluto celebrativo di 10/15 minuti e poi venir via è una cosa secondo me inammissibile. Abbiate pazienza!, fraternamente Togliatti”. Racconta Turci che arrossì leggendo la sferzante risposta, tornò da Serri e gli disse: ”Questa risposta è per te”. Oggi l'ex presidente della Regione ammette che quella lettera era ingenua e superficiale: “Quanta lezione di vita di partito c'era in quelle parole. Una lezione di rigore e di rispetto per il partito cui si appartiene e per il proprio ruolo di dirigenti. Penso alla politica di oggi e dico: Quam mutata ab illo tempore!”.  “Ricordo - racconta Turci a Repubblica - quando mi presentai al Bottegone per entrare e consegnare la lettera. Avevo 22 anni e venivo da Modena, gli addetti alla vigilanza mi scrutarono sospettosi: “Chi cerchi compagno ?  Io dentro di me pensavo 'figurati se mi fanno parlare con Togliatti'. Infatti gli lasciai in anticamera quell'incauto invito. Quando lessi la risposta mi cadde il mondo addosso e capii subito la leggerezza fatta. Conservo ancora la missiva di scuse che poi mandai a Togliatti. Devo dire che in quei tre anni a Roma con il Migliore mi capitò anche un'altra volta di incappare nei suoi strali, un anno dopo nel 1963 durante un Comitato centrale. C'era stato il varo del primo governo di centrosinistra, con il Pci che era contrario ma non aveva una posizione rigida davanti a quell'esperimento politico, ma di attenzione. Fu una discussione aspra, con Luciano Barca che fece un duro intervento. Poi presi la parola io, che rappresentavo la Fgci e che come giovani avevamo una posizione intransigente contro l'entrata al governo del Psi. Fui interrotto anche da Giancarlo Pajetta durante il discorso, mentre mi scagliavo contro il “neocapitalismo”. Terminò i lavori Togliatti che rivolto a me disse: Compagno Turci lei fa una battaglia contro i mulini a vento. Rimasi inchiodato alla seggiola. Per la seconda volta in un anno il Migliore mi aveva fulminato. Ma per me fu una vera scuola di politica, una università. Quel modo di fare politica, di formare la classe dirigente la ritengo irriproponibile, ma serviva a formare chi poi sapeva occuparsi della cosa pubblica”.

Cazzullo spegne i nostalgici del Pci: «Non c’è da festeggiare, Togliatti si legò mani e piedi a Stalin». Mia Fenice venerdì 22 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Aldo Cazzullo boccia i festeggiamenti per il centenario del Pci. «Non mi pare ci sia molto da festeggiare; e non solo perché il Pci non esiste più. Cent’anni fa, la sua nascita contribuì a frammentare e a indebolire un fronte socialista già abbastanza diviso di suo; fu in quel quadro che i fascisti presero il potere». Così Aldo Cazzullo nella rubrica Lo dico al Corriere risponde a un lettore. D.M.T.  nel scrivergli una lettera sul centenario della nascita del Pci, osserva, «nel bene e nel male, è stato un protagonista della storia italiana del Novecento». Ma Cazzullo dissente. «Palmiro Togliatti – puntualizza Cazzullo – si legò mani e piedi a Stalin, finendo per portare il peso della corresponsabilità in alcuni delitti dello stalinismo, dalle fucilazioni di massa in Spagna alla rimozione fisica dei vertici del partito polacco». Cazzullo scrive ancora: «E se è vero che Giorgio Bocca nella sua bella biografia gli attribuisce il merito di aver temperato e razionalizzato alcune furie caucasiche del leader sovietico, Enzo Bettiza era convinto che Nagy fosse stato impiccato (al tempo di Krusciov) anche su sollecitazione di Togliatti. Ciò non toglie che il Pci e il suo segretario ebbero certo il merito, con la svolta di Salerno, di saldare il fronte antifascista». E poi ancora: «Sostenere ora che i partigiani comunisti non volevano la democrazia ma il bolscevismo è perfetto per la polemica politica di oggi, privo di senso quando c’era da decidere da quale parte stare: con chi portava gli ebrei ad Auschwitz e fucilava i renitenti ai bandi Graziani, o contro di loro. Certo il Pci contribuì alla nascita della Repubblica, alla stesura della Costituzione, al consolidamento della democrazia parlamentare; ma al prezzo di una doppiezza che non fu estranea alla grande ribellione di fine anni ’60 e al terrorismo rosso dei ’70. «I veri comunisti siamo noi, la rivoluzione che il Pci non vuole più fare la faremo noi»: questo era il ragionamento. E se il partito si mosse, a volte tardivamente, per arginare l’eversione nata alla propria sinistra, ciò non toglie che la contraddizione tra dittatura del proletariato e libertà borghesi non sia mai stata sciolta del tutto. Resta viva la memoria di milioni di italiani che credettero in buona fede a una causa di progresso».

Pci, c’è poco da celebrare. La storica Aga Rossi: Togliatti era uno stalinista e Berlinguer…Redazione mercoledì 20 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia.  Un partito “di lotta e di governo” che non è stato in grado di fare i conti con le contraddizione della propria storia, come quella di essere radicato in due patrie, l’Unione Sovietica e l’Italia. E’ il ritratto poco lusinghiero del Pci che fa la storica Elena Aga Rossi, professore di Storia contemporanea, autrice insieme a Viktor Zaslavskij del saggio “Togliatti e Stalin” (Il Mulino, 1997). In un’intervista all’AdnKronos sottolinea inoltre il fatto che il Pci “non fu democratico”. Una coraggiosa presa di posizione nel giorno in cui si celebra il centenario del Partito comunista e come al solito se ne rimuovono le molte ombre. 

Il partito di Gramsci. “Il partito che nasce nel gennaio del 1921 – spiega Aga Rossi – è molto diverso da quello che poi si ricostituirà dopo la fine del regime fascista e la sconfitta del Paese: il partito di Gramsci nasce come un partito di opposizione a quello socialista e rimarrà sempre piccolo e poco significativo”.

Il Pci di Togliatti. Mentre invece “quando il Pci viene ricostituito con i primi gruppi tra il 1942 e il 1943, Togliatti imprime una struttura molto diversa, composita. Riesce ad essere innanzi tutto un partito di massa attirando non solo gli operai, come il vecchio partito, ma anche i contadini, gli intellettuali”. Una formazione con alla base il “mito della giustizia sociale e della costruzione della società socialista con l’obiettivo della distruzione dell’ordine capitalista“.

Un partito di lotta e di governo. In questo quadro, afferma Elena Aga Rossi, Togliatti dà vita ad un partito “di lotta e di governo, trasformandolo via via in un partito nazionale attraverso l’inserimento nella vita del Paese con una formazione dei quadri molto preparati. Rimanendo, però, nello stesso tempo, un partito stalinista strettamente collegato all’Unione Sovietica“.

La politica estera era legata all’Urss. Un fatto, questo, “che è riuscito a nascondere: insomma, c’era il partito vero e quello che si presentava alla Nazione. Togliatti è stato stalinista fino alla fine e lo ha dimostrato nelle varie fasi. Tutta la politica estera era legata a quella dell’Unione Sovietica“.

Un partito con due patrie, Berlinguer aveva finanziamenti dai sovietici. Quello comunista, insomma, sostiene la professoressa Aga Rossi, è stato “un partito con due patrie, come diceva Miriam Mafai, una era Mosca e l’altra era l’Italia. Questa contraddizione non verrà mai sciolta. Tanto è vero che il partito entra in crisi e finisce quando si conclude l’esperienza dell’Unione Sovietica. Anche Berlinguer, leader della rottura, in realtà continuava ad avere finanziamenti. Una cosa sempre nascosta ma che è stata documentata”, sottolinea la storica.

Il Pci non era democratico. Questo aspetto costituisce un problema, dice Aga Rossi, “anche per quello che rimane nel partito di oggi: il partito comunista non c’è più ma i suoi seguaci non hanno mai fatto i conti con questo passato contraddittorio. Oltre a riconoscere il ruolo importante che ha avuto nella vita del Paese, dovrebbero riconoscere anche gli aspetti più negativi che si vedono anche adesso, la questione della mancanza di democraticità e di senso dello Stato mai riconosciuto. Si continua a celebrare Togliatti senza tenere in conto che il Pci di allora non era democratico”.

Tra i fondatori del Partito Comunista Italiano non dimentichiamoci Stalin. Fabrizio Cicchitto, Biagio Marzo su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. A proposito della nascita del Pci, com’era ovvio, sono già emerse, e altre ne seguiranno, molte riflessioni e ricostruzioni di vario segno. Quella più genialmente celebrativa, pur nelle conclusioni fortemente critiche e pessimiste sul presente e sul futuro è stata quella di Biagio De Giovanni. Afferma De Giovanni: «Croce, Labriola e Gentile sono loro i fondatori del Pci. Il partito comunista come poi lo abbiamo conosciuto non nasce nel 1921 con Bordiga, ma con la svolta del 1926 guidata da Gramsci e Togliatti. Le sue vere radici sono nel dibattito che si svolse a cavallo del secolo fra i tre grandi filosofi italiani». Secondo la versione canonica la triade era composta da Labriola, De Santis e Croce. De Giovanni è più spericolato e chiama in causa Giovanni Gentile. Si tratta di un’affascinante ricostruzione per quanto riguarda la formazione di Gramsci (su Togliatti al di là delle sue civetterie culturali e dell’indubbio spessore politico del personaggio bisogna essere molto cauti) e anche i materiali culturali che ispirano la sua teoria sull’egemonia come strumento di conquista del potere nelle società occidentali. Per ciò che riguarda sia la dialettica all’interno del Psi fra riformisti e massimalisti prima del 1921, sia le conseguenze della scissione di Livorno nel 1921, sia il confronto autentico fra Bordiga e Gramsci, e quello immediatamente successivo fra Gramsci e Togliatti, sia i reali materiali costitutivi del Pci rifondato da Togliatti nel ’44-’48, sia sulle ragioni dei limiti e del carattere asfittico della socialdemocrazia italiana, a nostro avviso va seguito un percorso meno angelicato dalla “filosofia” di quello indicato da Biagio De Giovanni. Come ha sottolineato giustamente Giuliano Cazzola già i massimalisti avevano anticipato molti degli errori e dei disastri che poi la scissione del ’21 avrebbe portato alle estreme conseguenze. Con quello Stato uscito dal 1861 e con quella borghesia agraria e industriale, per larga parte reazionari e autoritari, già il riformismo gradualista di Turati e le mediazioni politiche e sociali di Giovanni Giolitti erano molto avanzate ed esse erano già state messe in questione dal fuoco incrociato dei conservatori e dei reazionari alla Salandra e dei massimalisti alla Ferri, alla Serrati e alla Mussolini che da parte sua ci mise un carico da undici prima di diventare interventista. Nell’immediato dopoguerra, nel fuoco del diciannovismo e dell’occupazione delle fabbriche, i massimalisti non riuscirono certo ad arrivare ad uno sbocco rivoluzionario, ma operarono solo una sorta di trasposizione romantica e messianica della Rivoluzione russa (“e noi faremo come la Russia”) fino alla fondazione del partito comunista avvenuta proprio quando il movimento stava in riflusso e lo squadrismo invece stava crescendo. E qui proprio usando gli elementi fondamentali del leninismo si misura il tragico errore commesso prima dai massimalisti, poi da Bordiga e dalla frazione che fondò il PC d’Italia da lui guidata, con Gramsci e Togliatti allora consenzienti sulle cose fondamentali (anche se i riferimenti culturali dell’Ordine Nuovo erano ben diversi da quelli del Soviet). Essi nel momento in cui proclamarono di voler fare “come la Russia” non si misuravano con il fatto che Lenin e Trotskij per realizzare “quella” Rivoluzione avevano costruito il partito degli operai, dei contadini e specialmente dei soldati, cioè un autentico “partito armato” in grado di operare la conquista violenta del potere. Invece in Italia stava avvenendo esattamente l’opposto: la stessa evocazione della “violenza proletaria” della conquista armi alla mano del potere da parte dell’avanguardia bolscevica accentuava lo smottamento di pezzi dello Stato, della borghesia, del ceto medio sulla linea della “reazione preventiva” di tipo fascista e squadrista. Così il tragico paradosso fu che mentre Serrati, Ferri e Bordiga predicavano in modo puramente verbale “la Rivoluzione bolscevica”, nella realtà il vero “partito armato” lo stavano realizzando Mussolini e Michele Bianchi nelle città e Italo Balbo nelle campagne con lo squadrismo agrario. E rispetto a tutto ciò la tesi fondamentale di Bordiga (ma, ripeto, allora nel ’21 Gramsci e Togliatti non si differenziavano molto da lui) era che fra Salandra, Giolitti, Don Sturzo e il traditore Turati non c’erano differenze di fondo. Infatti i dirigenti massimalisti e comunisti avevano capito così bene ciò che stava accadendo che mentre si stava preparando e realizzando la marcia su Roma erano quasi tutti a Mosca a contendersi l’investitura di Lenin che, sprezzante, disse loro riferendosi a Mussolini: «Vi siete fatti sfuggire l’unico capace di farla, la Rivoluzione». Ruggero Grieco, uno dei pochi dirigenti comunisti rimasto in Italia, a commento della marcia scrisse un fondo dal titolo “Pietigrotteide”: aveva capito tutto. Allora rispetto a tutto ciò, Filippo Turati con tutto il suo positivismo era un gigante e la sua proposta di “Rifare l’Italia” era l’unico programma realistico per salvare la democrazia. Prima i massimalisti, poi massimalisti e comunisti resero impossibile questa operazione che era l’unica di grande spessore che proveniva dal movimento operaio e che “parlava” all’Italia, non ai comitati centrali dei partiti. Ma Turati (e con lui Mondolfo, vedi: “Sulle orme di Marx”) non va neanche sottovalutato per ciò che disse sulle conseguenze negative che avrebbe avuto la scissione sullo scontro in corso fra la democrazia e il fascismo e nel 1921 fece straordinarie previsioni sul comunismo (il suo sbocco totalitario, il suo successivo fallimento che avrebbe costretto i comunisti a tornare sui loro passi e a riconoscere la veridicità di quello che stavano dicendo quei rinnegati dei riformisti), quello che i dirigenti del Pci, con tutto il loro sofisticato bagaglio culturale di stampo idealista e storicista, avrebbero “scoperto” fra gli anni ’80 e gli anni ’90 del XX secolo. Ma non era tutt’oro quello che riluceva neanche nel rapporto fra Bordiga-Gramsci e fra Gramsci e Togliatti. Quando verso il 1923-1924 Gramsci prese le distanze da Bordiga che aveva comunque una larga maggioranza del partito, Togliatti fu a lungo incerto sul da farsi. Comunque Gramsci tenne duro e sul rifiuto di Bordiga del “fronte unito” andò alla rottura. Però solo in seguito alla “bolscevizzazione” (termine che stava per la totale conquista stalinista del movimento comunista), i dirigenti russi sostanzialmente “commissariarono” il PCd’I nominando un nuovo Comitato Centrale e un nuovo Comitato esecutivo al quale chiamarono Togliatti, Scoccimarro e Gramsci. Successivamente Gramsci fu nominato segretario politico, carica che prima non esisteva. Grazie a questa forzatura operata dall’alto alla fine Gramsci e Togliatti all’inizio del 1926 al Congresso di Lione conquistarono il PCd’I a larga maggioranza, come ricorda Biagio De Giovanni. Le cose, però, non si fermarono qui. Avendo conquistato pienamente il potere nel partito Stalin iniziò una guerra senza quartiere contro i trotskisti e le altre minoranze. A quel punto, poco prima di essere arrestato, nell’ottobre del 1926 Gramsci mandò una lettera a firma dell’ufficio politico del PCd’I al Comitato Centrale del partito russo nella quale esprimeva profonda “angoscia” perché vedeva verificarsi e approfondirsi una scissione nel gruppo centrale leninista che era stato sempre il nucleo dirigente del partito e dell’Internazionale e arrivò ad affermare: «Voi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Pci dell’URSS aveva conquistato per l’apporto di Lenin». Togliatti si guardò bene dall’inoltrare quella lettera al Comitato Centrale del partito russo e rispose a Gramsci in modo durissimo giustificando pienamente quello che stava accadendo nel PC: «Vi è senza dubbio un rigore nella vita interna del PC dell’Unione. Ma vi dev’essere. Se i partiti occidentali volessero intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo rigore essi commetterebbero un errore assai grave.» A sua volta Gramsci scrisse a Togliatti che la sua risposta gli aveva fatto «un’impressione pessima», che «tutto il tuo ragionamento è viziato da burocratismo.» Da allora i due non comunicarono più direttamente neanche per interposta persona. Non vorremmo abbassare il livello della riflessione sviluppata da De Giovanni, ma, leggendo Togliatti allora e dopo, nel 1956-1957 e fino al 1964, abbiamo l’impressione che tra i filosofi indicati da De Giovanni nel retroterra culturale e politico del Pci se ne debba aggiungere un altro abbastanza importante, cioè Giuseppe Stalin. Poco dopo la rottura con Togliatti Gramsci fu arrestato. Poi nel 1928 al VI Congresso dell’Internazionale Comunista ci fu la “svolta”, una svolta settaria: la situazione generale dell’Europa venne ritenuta prerivoluzionaria mentre i socialisti vennero ritenuti obiettivamente alleati dei fascisti. Di qui la teoria del socialfascismo che poi Berlinguer avrebbe di fatto riesumato contro Craxi, utilizzando le analisi di Antonio Tatò (vedi l’ultimo libro di Paolo Franchi, Il tramonto dell’avvenire). Di fronte alla durezza della svolta Togliatti, che in quegli anni aveva assunto posizioni vicine a quelle del “destro Bucharin” ebbe guai seri e ovviamente si salvò adeguandosi. Anche sulla svolta Gramsci fu in dissenso e per questo fu emarginato nella comunità dei prigionieri comunisti. Comunque da lì partì Gramsci, cioè da un impianto fortemente antistalinista, per elaborare una teoria della conquista del potere nella società occidentale che non poteva avvenire attraverso la rivoluzione con le armi, ma attraverso la conquista del “cervello” di quelle società, realizzata inserendosi e acquisendo le fondamentali “casematte” costituite dalla scuola, dalla magistratura, dal giornalismo, dall’editoria, dagli intellettuali e da tante altre cose attinenti alla “sovrastruttura”. Certamente nell’elaborazione del concetto di egemonia Gramsci si riferì ai tre grandi filosofi di cui ha parlato De Giovanni. Uno stalinista rozzo avrebbe bruciato i quaderni scritti da Gramsci nel carcere e nella clinica Quisisana. Uno stalinista organico, ma sottile e duttile come Togliatti, anche lui formatosi in quella temperie culturale coltivata nel suo foro interno, prese quei quaderni, forse ne fece scomparire uno, ne costruì, con il sostegno di una falange di “intellettuali organici”, un’interpretazione che cancellava il profondo antistalinismo che li caratterizzava e ne fece il fondamento per “rifondare” appunto il Pci, per fare il cosiddetto partito nuovo, il partito che aderiva alle “pieghe” della società italiana, che andava al di là della classe operaia (“Emilia rossa” e ceti medi). Lungo questa ispirazione Togliatti cooptò come nuovi dirigenti dei trentenni colti di estrazione borghese, fece svolgere al partito anche il ruolo di una sorta di “lavatrice” di trascorsi fascisti di larga parte degli intellettuali italiani che così passarono dai contributi dell’OVRA ricevuti durante gli anni ’30 alle case editrici influenzate dalla Commissione cultura del Pci (Mario Alicata) lungo gli anni ’40 e ‘50. Un’operazione perfetta che aveva un solo limite: tutto questo impianto politico-culturale che nella impostazione di Gramsci doveva servire a liberare un partito comunista dell’Occidente dall’ipotesi leninista della conquista per via insurrezionale del potere e dal “cesarismo” staliniano internazionale invece, attraverso Togliatti che dirigeva tutto lo spartito, fu segnato dal legame di ferro con l’URSS e con Giuseppe Stalin. Questo legame di ferro con l’URSS fu ribadito anche dopo la morte di Stalin e dopo il rapporto segreto di Kruscev quando fu repressa nel sangue la rivolta d’Ungheria. Di qui il 18 aprile 1948 e tutti i risultati elettorali successivi, fino al 1994 compreso. La maggioranza dei cittadini italiani convalidò con il voto la collocazione internazionale dell’Italia nell’Occidente in seguito alle regole del patto di Yalta e sostenne i partiti che la condividevano, in primis la Dc con i suoi alleati laici. Veniamo qui alle ragioni per cui in Italia non c’è stata un’affermazione della socialdemocrazia. A nostro avviso la spiegazione di fondo è meno sofisticata di quella avanzata da De Giovanni. Al fondo non è questione di Bernstein, di Antonio Labriola e del “rinnegato Kautsky”, ma di ben altro. Paradossalmente fu lo stesso socialismo italiano a rinunciare alle sue potenziali possibilità di espansione. In sostanza ci fu una sorta di rinuncia dall’interno stesso del Psi a giocare quella carta. Ciò è evidente prima del 1921 con la crescita nel Psi di una corrente massimalista che mise in scacco il lucido riformismo di Turati: se un partito non riesce né a fare le riforme, né la rivoluzione alla fine, dal suo stesso interno, emergono i suoi più acerrimi nemici, da un lato dal 1914 al 1919 Mussolini e i fascisti, dall’altro, dal 1917 al 1921, Bordiga, le riviste Il Soviet e L’Ordine Nuovo e i comunisti. Ancora più suicida fu quello che riuscì a combinare una parte del gruppo dirigente socialista (Nenni, Morandi, più i fusionisti Lizzadri, Tolloy, Cacciatore) negli anni cruciali 1945-1948. Malgrado che il Psi fosse scomparso come struttura politica organizzata nei vent’anni del fascismo (i suoi dirigenti erano o in esilio, o nelle carceri fasciste, o a casa), tuttavia prima alle elezioni amministrative, poi a quelle per l’Assemblea costituente del 2 giugno 1946, il Psi fu il secondo partito (21%), dopo la Dc. Era evidente che una parte significativa degli elettori non lo avevano dimenticato e lo riproponevano con grande forza. Quel voto esprimeva la domanda di un socialismo autonomo, di stampo laburista, conflittuale con la Dc, ma del tutto altra cosa rispetto al Pci, a Stalin, all’Urss e al Pcus. Ebbene, Nenni e Morandi (non parliamo dei fusionisti) non risposero affatto a quella domanda degli elettori e anzi fecero esattamente il contrario, cioè il Fronte popolare con il Pci, addirittura la lista unica in esso, e poi aderirono anche allo stalinismo come ideologia e Nenni si guadagnò il premio Stalin dando la copertura come Togliatti all’assassinio di Slansky e di altri. Fu su quella scelta scellerata, più che sul patrocinio di Bernstein o di Benedetto Croce, che non decollò un autentico e forte partito socialista di stampo riformista e occidentale in Italia. Saragat, forte della sua cultura austromarxista aveva capito tutto, ma fece l’errore della scissione e dell’alleanza subalterna con la Dc. La perversione politico-culturale di Nenni e di Morandi colpì il Psi in anni cruciali, decisivi per definire la forza, il peso e l’egemonia dei partiti per tutta la Prima Repubblica, cioè dal 1948 al 1994. Dopodiché, per concludere, è stata molto significativa la scelta fatta dalla maggioranza del Pci-Pds, cioè dai “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni) di scartare nettamente la proposta avanzata dai miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Bufalini, Cervetti, Ranieri) di dare al cambiamento di nome del Pci il senso di una scelta per la socialdemocrazia e per l’unità con il Psi. Invece i “ragazzi di Berlinguer” pur profondamente divisi fra di loro (ne fa un “rendiconto” Claudio Petruccioli nella nuova edizione del suo libro) hanno scelto un’altra via, quella di ritenere comunque i socialisti di Craxi i principali nemici, fornendo, come legittimi eredi di Berlinguer, una nuova e moderna versione del socialfascismo, più adatta alla dimensione del tutto mediatica della lotta politica attuale (i socialisti considerati non più la quintessenza del tradimento ideologico, ma della corruzione e del latrocinio, di qui dall’altra parte la conclusione di un percorso che da Stalin è arrivato fino a Di Pietro). Di conseguenza, uno dei fondamenti della Seconda Repubblica è stata l’eliminazione dei socialisti, dei laici, di una parte della Dc. Si sono così affermati Forza Italia di Berlusconi, il Movimento 5 stelle, la Lega versione Salvini, la destra organica di Fratelli d’Italia. Francamente non ci sembra che quella scelta, che ha avuto il suo punto di partenza e di sviluppo in Mani Pulite, ha rappresentato un salto di qualità positivo del sistema politico italiano. Il salto di qualità c’è stato, ma in senso opposto. Per parte sua il Pd, che dovrebbe rappresentare insieme la conclusione e la totale modernizzazione di quella storia, esprime una dimensione politica esangue e asettica.

Dal 1921 la dipendenza da Mosca costrinse il partito a sbagli imperdonabili. La storia del Partito comunista italiano la cui fondazione risale al 21 gennaio 1921 è a questo punto centenaria e ricca di profonde contraddizioni. Matteo Sacchi, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. La storia del Partito comunista italiano la cui fondazione risale al 21 gennaio 1921 è a questo punto centenaria e ricca di profonde contraddizioni. Alcune ben chiare sin dai giorni della fondazione. Una su tutte: la sudditanza di un entità politica che avrebbe dovuto essere italiana, o al massimo internazionalista, agli interessi e alle direttive di Mosca. E si trattò di un peccato originale. In Italia CGdL e i riformisti del Partito socialista avevano rifiutato di trasformare gli scioperi del biennio rosso in uno strumento (velleitario) per tentare di prendere il potere nel Paese, scardinando il meccanismo della Monarchia costituzionale. Gli equilibri interni del Psi si erano sì spostati a sinistra con l'egemonia dell'ala massimalista di Giacinto Menotti Serrati. Ma ci si rifiutava di allontanare dal partito i riformisti e di sposare in toto i cosiddetti 21 punti di Mosca. Questo provocò la scissione di una minoranza, rappresentava 58783 iscritti su 216337, che trasferitasi al teatro San Marco di Livorno diede vita al Partito Comunista d'Italia. La linea della nuova formazione si rivelò da subito dura e insurrezionalista: «Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l'abbattimento violento del potere borghese». Un programma che alimentando le paure dei ceti medi finì per avvantaggiare il fascismo. E che finì per schiacciare le posizioni del comunismo italiano su quelle dell'Urss. Il PCd'I riuscì in parte a mantenere una sua autonomia solo grazie al forte carisma personale di Gramsci. Ma anche tutto questo venne a cadere rapidamente quando il Partito fu soppresso dal regime fascista il 5 novembre 1926. I comunisti continuarono la loro attività clandestinamente in Italia, dove furono l'unica forza antifascista a essere presente in modo significativo. Ma iniziò anche una forte emigrazione all'estero, soprattutto verso l'Unione Sovietica. Così con l'arresto di Gramsci, l'8 novembre, la guida del Partito comunista, di fatto, passò a Togliatti, che rafforzò ulteriormente i rapporti con l'Unione Sovietica. L'Urss per molti espatriati si rivelò da subito diversa dal sognato Paradiso del proletariato. Ogni tentativo di insubordinazione o di tornare in Italia fu punito con durezza. Su segnalazione dei dirigenti italiani più di duecento militanti vennero accusati di essere bordighisti-trotskisti. Vennero inviati nei Gulag o fucilati. E per molto tempo su di loro calò il silenzio. Era solo l'inizio di una serie di omertà e violenze subite o perpetrate da un partito satellite che non aveva alcuna possibilità di opporsi a Stalin. Mosca diede l'input - tra il 1934 e il 1935- di riavvicinarsi ai partiti socialisti europei per opporsi al nazismo? Fatto ingoiando la giravolta che portava a riabbracciare i compagni riformisti infangati sino al giorno precedente. Eppure poco dopo il Partito subì il patto Ribentropp-Molotov del 1939. Una doccia freddissima per molti compagni. Si cercò di farla digerire a tutti con la dottrina che «tutti gli imperialismi sono uguali». Il livello dell'inganno era talmente evidente e mortificante che solo la discesa in guerra dell'Italia fascista e l'attacco diretto all'Urss riuscì a metterci una pezza ideologica. Ma nemmeno il tempo di riprendersi e i comunisti italiani si ritrovarono coinvolto direttamente nel lavaggio del cervello e nei maltrattamenti inflitti ai prigionieri italiani dell'Armir. Poi il Pci si vide coinvolto nell'organizzazione della Resistenza in Italia. Portò avanti un tentativo, riuscito, di egemonizzazione delle forze partigiane. Il che richiese un nuovo complesso doppio salto carpiato. Il Pci si presentava a Salerno come forza disposta a collaborare con gli altri partiti per il recupero di tutto il territorio nazionale. Ma nelle zone di confine con la Slovenia il Pci appoggiò le posizioni filo annessionistiche del Kps, favorendo la subordinazione delle stesse unità partigiane italiane alla direzione slovena. La strage di Porzus nacque così. Ovviamente quando le posizioni di Stalin e di Tito si divaricarono, ci pensò il Pci a portare avanti l'espulsione del partito comunista jugoslavo dal Cominform. Iniziava così il ruolo del Pci durante la Guerra fredda. Quel ruolo che lo portò ad appoggiare l'invasione dell'Ungheria da parte di Mosca nel 1956. E ancora dopo che nel 1968 venne repressa la primavera di Praga il Pci che pure aveva in Berlinguer (in ascesa all'ombra dell'ormai fragile Luigi Longo) un alfiere della minor dipendenza da Mosca, che sarebbe poi sfociata nell'idea dell'eurocomunismo, non poté spingersi oltre il dichiarare un «forte dissenso». Berlinguer, negli anni, alzò il tono dello scontro con Mosca e disse nel luglio 1980 alla Fallaci: «Se vuole che le dica quel che non va nell'Unione Sovietica glielo dico. Un regime politico che non garantisce il pieno esercizio delle libertà, anzitutto. Il che non è cosa da poco anzi è la più grave, ed è ciò che ci spinge a cercare una via diversa». Ma ormai il danno della doppia verità, del doppiopesismo, e della dipendenza economica da Mosca (durata sino agli anni '90), aveva minato la sinistra italiana.

L'Intervista. “Il PCI distante da Mosca fu una forza riformista”, intervista a Piero Fassino. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Una celebrazione, il centenario della nascita del Pci, che cade nel vivo di una crisi di governo che mette a nudo una debolezza strutturale della politica e dei suoi attori e comparse. Il Riformista ne discute con Piero Fassino. Segretario nazionale dei Democratici di Sinistra dal novembre 2001 all’ottobre 2007, tra i padri fondatori del Partito democratico, è stato sindaco di Torino, ministro della Giustizia e, prim’ancora, ministro del Commercio con l’estero e sottosegretario agli Esteri. Oggi è presidente della Commissione esteri della Camera.

“Dalla rivoluzione alla democrazia”. È il titolo del suo libro, edito da Donzelli, dedicato al centesimo anniversario della fondazione del Partito comunista italiano, che cade oggi. Quel titolo racchiude un percorso da “gambero”?

«Esattamente il contrario. Nel mio libro ricostruisco il cammino di un partito che nato per “far la rivoluzione come in Russia” in realtà diviene via via un protagonista della costruzione della democrazia italiana. Lo fa essendo la principale forza politica che si batte nella clandestinità contro la dittatura di Mussolini, poi nella Resistenza per liberare l’Italia, poi nella scrittura della Costituzione e nella costruzione della Repubblica e nella ricostruzione del Paese. E quando la democrazia italiana viene insidiata dallo stragismo nero e dal brigatismo rosso, il Pci è il principale partito che mobilita i cittadini per difendere lo Stato e la democrazia. Non solo, ma in questo percorso il Pci assume la democrazia come il regime politico imprescindibile: lo fa Togliatti con la svolta di Salerno e la via italiana al socialismo; e ancor di più lo fa Berlinguer che porta il Pci fuori dall’orbita sovietica, dichiara che la democrazia è un valore universale e con il compromesso storico costruisce l’alleanza tra le grandi forze popolari e democratiche. E su questa linea conquista un consenso via via crescente fino a rappresentare un terzo degli italiani. E non dimentichiamo il ruolo “democratico” assolto dal Pci nelle grandi organizzazioni sociali – a partire dal sindacato – e nel governo di città, comuni e regioni. E in questo cammino il Pci ha contribuito alla formazione della classe dirigente del Paese».

Rileggere il passato guardando al futuro. E allora le chiedo: cosa salva della storia centenaria del Pci e quale discontinuità andrebbe maggiormente marcata per dare una identità, una visione, una progettualità innovative a una sinistra all’altezza delle grandi sfide dell’oggi, a partire dalle risposte da dare alla drammatica crisi pandemica tutt’altro che risolta?

«Il Pci ha cessato di esistere trent’anni fa, ma ci ha consegnato molti lasciti. Ne cito alcuni. L’assunzione della categoria dell’ “interesse nazionale” come criterio prioritario per un partito che voglia assolvere a una “funzione nazionale”. Il partito di massa come il soggetto politico capace di vivere in sintonia e osmosi con la società, facendo divenire i cittadini protagonisti della vita del Paese. L’unità delle forze democratiche e delle culture popolari, condizione per realizzare quelle riforme strutturali indispensabili per modernizzare il Paese e renderlo più giusto. La necessità di dare alla politica “fondamento culturale”: il profondo e antidogmatico pensiero di Antonio Gramsci ha dato al Pci visione e identità, come ha contato moltissimo che – da Togliatti a Amendola, da Ingrao a Natta, da Bufalini a Di Giulio, da Reichlin a Macaluso, da Chiaromonte a Marisa Rodano, da Napolitano a Berlinguer – il gruppo dirigente del Pci sia sempre stato costituito da personalità di forte spessore intellettuale».

E la politica di oggi?

«Se guardo la politica di oggi vedo il prevalere degli interessi particolari, vedo partiti ridotti a serbatoi elettorali, vedo una politica che spacca piuttosto che unire, vedo leadership senza visione e ossessionate dall’esposizione mediatica. Certo un partito oggi non può che essere molto diverso da quello che era quaranta o cinquant’anni fa. Ma di un’organizzazione capace di dare protagonismo ai cittadini, di assolvere a una funzione nazionale, di essere fattore di coesione sociale c’è bisogno anche nel mondo di internet. Ma soprattutto il lascito più grande sono i valori di libertà, giustizia, solidarietà, uguasglianza che hanno ispirato il Pci. Le forme della politica cambiano con il mutare della società. Ma non cambiano i valori, che attraversano il tempo e si trasmettono di generazione in generazione. Anche in un mondo globale e tecnologico, libertà, democrazia, diritti sono valori insopprimibili. E non può, non deve mancare mai chi si batta per preservarli e affermarli. È questo il lascito politico e morale che il Pd ha il dovere di far vivere».

Ragionando sulla fondazione del Pci, c’è chi sostiene che fu un errore storico, la scissione di Livorno, e che la “doppiezza”, non solo togliattiana, ha impedito l’affermarsi in Italia di un grande partito socialdemocratico.

«Il Pci nacque in una temperie segnata dalle conseguenze della grande guerra e dall’emozione suscitata dalla Rivoluzione russa. E non solo la frazione comunista, ma anche la maggioranza massimalista del Psi evocava l’obiettivo della Rivoluzione, senza peraltro prendere atto che non ve ne era nessuna condizione. La scissione fu un atto di rifiuto del massimalismo velleitario del Psi, divenuto il principale avversario mentre si formava un blocco sociale conservatore e reazionario che si affidò a Mussolini e al fascismo. Gramsci – criticando il settarismo di Bordiga – scriverà “fummo anche noi parte della dissoluzione generale”. Quanto a Togliatti, al suo rientro in Italia rifondò di fatto il Pci, trasformandolo da partito di quadri a partito di massa, facendone uno dei pilastri dell’unità antifascista e lo collocò in un alveo democratico. Certo il ‘56 ungherese, con la mancata condanna dell’intervento sovietico, rappresentò un grave vulnus. Ma proprio da quella tragedia il Pci fu sollecitato ad assumere la “via italiana al socialismo” fondata sulla piena accettazione della democrazia».

Ma Togliatti continuò a parlare di socialismo. E anche Berlinguer. In che rapporto con la scelta democratica?

«Certo, Togliatti e anche Longo non rinunciano a un’“orizzonte socialista”, ancorché molto vago. Lo si può spiegare con la necessità di far accettare la via italiana senza che venga vissuta dai militanti come una rinuncia. Anche Berlinguer, nell’assumere la democrazia come valore universale, non rinunciò a evocare una generica trasformazione socialista. Lo fece nella speranza che i regimi comunisti si democratizzassero. Anzi la critica all’Urss era tanto più aspra pensando che fosse utile a una evoluzione di quel regime. Non a caso Berlinguer parlò di una “terza via” tra comunismo sovietico e socialdemocrazia. E Gorbaciov tentò. Ma proprio il suo fallimento dimostrò che il comunismo era irriformabile».

E con quella dissoluzione anche la storia del Pci si è conclusa.

«Certo, perché pur con una identità originale e di stampo riformista, la traiettoria politica del Pci era iscritta nel mondo bipolare. Il Pci era ormai lontano da Mosca, ma non “estraneo” a quel campo. E la logica conseguenza del cammino democratico del Pci non poteva che essere andare oltre la sua storia. Il New York Times sottolineò che il Pci era una forza riformista che di “comunista” aveva solo il nome. Peraltro il profilo del Pci degli anni 70 e 80 era fortemente affine ai partiti socialdemocratici europei. Non averlo riconosciuto – così come aver a lungo diffidato della parola “riformista” – è stata la contraddizione non risolta del Pci. La svolta di Occhetto non fu – come allora qualcuno disse – un inaspettato atto avanguardistico. No, fu un atto lucido e saggio per salvaguardare e dare nuova linfa a una politica che per essere feconda aveva bisogno di una nuova identità».

Tra i grandi dirigenti del Pci, che ne hanno segnato la storia, va ricordato Emanuele Macaluso, scomparso l’altro giorno. Un suo ricordo.

«Non era un uomo facile. La sua sincerità lo spingeva a dire le cose come le vedeva e le pensava. E talora era non solo severo, ma tagliente. Ma proprio questo ne faceva un dirigente rispettato, riconosciuto, sempre ascoltato. Scriveva molto, con la curiosità della notizia, il gusto della polemica, la lucidità dell’analisi. Lo si vide quando Berlinguer gli affidò la direzione dell’Unità che innovò con giovani giornalisti e facendone un giornale aperto alle idee e al confronto. Non ha mai smesso di “vivere la politica”. E ancora nelle scorse settimane non ha esitato a manifestare la sua ansia per una situazione politica che gli appariva troppo fragile e precaria a fronte della complessità e dell’asprezza delle sfide che l’Italia deve affrontare».

Lei è stato tra i fondatori del Partito democratico, passando per lo scioglimento dei Democratici di sinistra, di cui era il segretario. La metto giù brutalmente, guardando alla crisi di governo aperta da Matteo Renzi: ma cosa ci azzecca, direbbe qualcuno, Renzi con la storia della sinistra e con quell’”interesse nazionale” che è sempre stato un mantra del Pci?

«Renzi ha aderito al Pd fin dalla sua costituzione e come esponente del Pd è stato sindaco di Firenze, segretario del Partito e presidente del Consiglio. Fu eletto alla guida del partito suscitando grandi speranze che si tradussero nel 41% alle elezioni europee del 2014, con un consenso vero e largo nella società. Poi via via l’esperienza di governo si è consumata fino alle sconfitte nel referendum e nelle elezioni politiche. Renzi è personalità forte. Sta in un luogo se comanda. In fondo anche la crisi di questi giorni ha quella cifra: non potendo essere lui a guidare il governo, lo destabilizza. Come fece con il governo Letta e con la scissione dal Pd, senza considerare i rischi che fa correre al Paese».

Storia dei segretari del PCI. Luigi Longo, il segretario che portò il PCI lontano da Mosca. David Romoli su Il Riformista il 22 Gennaio 2021 15-07-48 Roma Luigi Longo detto Gallo (Fubine, 15 marzo 1900 – Roma, 16 ottobre 1980) è stato un politico e antifascista italiano, segretario generale del Partito Comunista Italiano dal 1964 al 1972. Esponente storico del comunismo italiano e mondiale, Nella foto: il grande cimizio popolare per l’attentato all’onorevole Togliatti. parla Luigi Longo. Sorte ingrata quella di Luigi Longo, leggendario comandante “Gallo” delle Brigate internazionali nella guerra spagnola, principale dirigente comunista nella Resistenza, successore di Togliatti e quarto segretario del Partito comunista italiano dall’agosto del 1964 al marzo del 1972. Con un mandato stretto tra quelli dei due principali e più celebri leader del Pci, Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer, e costretto dall’ictus che lo colpì alla fine del 1968 a delegare proprio a Berlinguer buona parte dei compiti dirigenziali. Longo sembra destinato a passare alla storia come un segretario di transizione: non solo un “ponte” tra i due leader più amati dal popolo comunista, ma anche tra due generazioni, quella dell’esilio, del Comintern, della guerra e quella successiva cresciuta nel dopoguerra. Come se il suo compito principale fosse quello di “sorvegliare il bidone” mentre i dirigenti si davano battaglia nel principale scontro congressuale nella storia del Pci nella Repubblica, l’XI congresso, svoltosi a Roma nel gennaio 1966, e mentre decidevano chi incoronare come primo segretario della nuova generazione, corsa riservata ai cavallini di razza Berlinguer, che fu prescelto, e Giorgio Napolitano. E’ un verdetto ingeneroso. Longo non fu un “segretario per caso” e non esercitò un ruolo burocratico. Per certi versi, al contrario, rappresenta un tentativo unico, originale e fallito, di coniugare l’indirizzo togliattiano della “via italiana al socialismo” con il mantenimento di una vigorosa spinta anticapitalista, venata sino alla fine da suggestioni rivoluzionarie, sia pure riadattate alla realtà della seconda metà del ‘900 e spogliate di ogni fantasia insurrezionale. Dopo l’incontro dell’aprile 1968 con una delegazione del Movimento studentesco romano, della quale faceva parte anche Oreste Scalzone, pubblicò su Rinascita un lungo articolo di estrema apertura al Movimento, in contrasto con la diffidenza che gran parte del Pci, in particolare ma non solo Giorgio Amendola, nutriva invece apertamente. A porte chiuse Longo, nel resoconto di Scalzone, si spinse anche oltre, con affermazioni inimmaginabili per un leader del Pci dell’epoca: “Un movimento rivoluzionario come il nostro avanza solo se c’è confronto di opinioni e opposizione. Invece alcuni compagni si spaventano se qualcuno fa il contraddittore”. E soprattutto: “Le riforme non sono riformiste in sé: lo sono solo se non diamo loro una chiara prospettiva rivoluzionaria”. In parte c’era di sicuro una certa piaggeria. L’obiettivo era spingere il Movimento, come in effetti avvenne, a indicare nelle imminenti elezioni politiche la “scheda rossa” e non l’astensione. Ma non si trattava solo di questo. Nell’accezione di Longo le riforme dovevano davvero essere la leva per “una larga mobilitazione in vista di un rovesciamento sociale radicale”. Non a caso, come presidente del Pci, fu l’unico tra i principali leader del partito a muovere critiche severe contro la strategia berlingueriana del “compromesso storico” e dell’accordo con la Dc. Nato nel 1900, veniva da una famiglia contadina della provincia di Alessandria, e l’esperienza della povertà dei contadini di inizio secolo non la avrebbe mai più dimenticata: nessuno tra i segretari comunisti è stato attento come lui alle esigenze e alle sofferenze dei contadini. Costretto dalla miseria a trasferirsi con la famiglia a Torino si era iscritto al Politecnico, ma sacrificò gli studi prima per la guerra poi per la militanza con il gruppo dell’Ordine nuovo e, dopo la scissione, nel Pcd’I. Dopo l’instaurazione del regime la sua parabola fu simile a quella dei dirigenti comunisti del suo tempo. Quando emigrò in Francia nel 1926, come capo della Federazione giovanile comunista, era già stato a Mosca nel 1922, aveva conosciuto Lenin e passato al ritorno un anno in carcere a San Vittore. Poi la spola tra Mosca e Parigi, l’ascesa ai vertici del Comintern, la guerra di Spagna, la difesa di Madrid, la fuga in Francia dopo la sconfitta, l’arresto a opera del regime di Vichy e il confino a Ventotene, il ritorno in Italia alla testa delle Brigate Garibaldi, i partigiani rossi. Per anni ha circolato la diceria, quasi certamente infondata, secondo cui sarebbe stato lui a uccidere Mussolini. Longo era un uomo d’azione e in buona parte sui meriti di comandante sul campo si basava la sua popolarità nel Movimento comunista e il suo enorme peso nel partito del dopoguerra. Non era un grande oratore, alla Camera organizzava e dirigeva le truppe parlamentari ma i suoi discorsi non facevano epoca. Era schivo, riservato, silenzioso. Appena indicato come successore di Togliatti chiarì le cose: “Sarò un segretario, non un capo”. Segretario per nulla passivo però. Decise lui di rendere pubblico il cosiddetto Memoriale di Yalta, vergato da Togliatti poco prima della scomparsa e tenuto in un primo momento segreto. Era il manifesto della via italiana al socialismo, senza violenza e attraverso l’accettazione della democrazia, ma conteneva anche critiche nei confronti dell’Unione sovietica per l’epoca molto severe, tanto più tenendo conto di chi le muoveva e di quanto Togliatti fosse legato all’Urss. In particolare veniva presa di mira “la difficilmente spiegabile lentezza e resistenza nel tornare alle norme leniniste che assicuravano, nel partito e fuori di esso, larga libertà di espressione e dibattito”. La diffusione del Memoriale fu un gesto di notevole coraggio e di clamorosa rottura con una pratica non solo staliniana ma profondamente radicata nell’intera cultura del Pci, al quale seguirono altre prese di posizione sull’integrazione europea e sul policentrismo del movimento comunista. Ma soprattutto fu proprio Longo il principale difensore del nuovo corso cecoslovacco di Dubcek e fu lui a decretare la prima clamorosa presa di distanza del Pci dall’Urss, dopo l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto 1968. Nella battaglia dell’XI congresso “Gallo” fu alleato e decretò la vittoria di Amendola contro la sinistra di Ingrao, sia pure su una posizione, come hanno dimostrato gli studi recenti, di mediazione maggiore di quanto non apparisse all’epoca. Su quello schieramento pesarono sia considerazioni di carattere internazionale, la paura cioè che un vittoria degli ingraiani potesse sbilanciare il partito italiano a favore della Cina nello scisma che divideva il movimento comunista internazionale, sia la convinzione che, in politica interna, l’urgenza principale fosse rompere l’isolamento in cui versava il Pci aprendo a un confronto anche con le forze di sinistra più centriste. Longo tuttavia frenò, almeno in parte, l’epurazione della sinistra sconfitta. Ingrao rimase nella direzione del partito. Il giovane Berlinguer, sospetto di eccessive simpatie per la sinistra, fu invece momentaneamente declassato a segretario del Lazio. Dopo l’ictus e la successiva ischemia, alla fine del 1968, Longo non fu più in grado di gestire davvero il partito di cui era segretario. Se ne occupò il delfino Berlinguer, indicato con la nomina a vicesegretario nel congresso del 1969, che però non era ancora segretario a tutti gli effetti. Poteva guidare il partito, non indicare la strategia politica di lungo corso. Il risultato fu che il Pci si presentò all’appuntamento con la principale insorgenza nella storia repubblicana, la rivolta operaia e sociale della fase 1969-73, con una guida incerta e dimidiata. Come si sarebbe orientato in quella fase cruciale il Pci se la guida fosse stata saldamente nelle mani di un segretario che aveva mostrato evidenti simpatie per il ‘68 però può essere oggetto solo di supposizioni. È possibile però che molte cose sarebbero state diverse perché dalla strategia indicata alla fine di quella fase dal nuovo e giovane segretario, il “compromesso storico” , Luigi Longo non fu mai tentato.

Enrico Berlinguer, perse tutte le battaglie ma fu lui il vincitore. David Romoli su Il Riformista il 24 Gennaio 2021. Per la stragrande maggioranza degli italiani Enrico Berlinguer non è il quinto segretario del Pci: è il Pci. Ne è il volto, il mito, la leggenda. Più precisamente Berlinguer è il simbolo di quella “diversità comunista” che lui stesso rivendicava. Il leader comunista ma profondamente e sinceramente democratico, incorrotto e incorruttibile, attento alla questione morale ben prima che Mani Pulite ne evidenziasse le dimensioni, sempre schierato con i più deboli senza prestarsi a giochi politici e mercimoni. Ma non è solo questione di posizioni politiche: l’immagine fa la sua parte. Schivo, modesto, silenzioso, mai tribunizio, mai coinvolto nello scintillio delle giostre parlamentari, Berlinguer incarnava davvero il mito di quella diversità che, nell’opinione diffusa del popolo di sinistra, è andata perduta con lo scioglimento del Pci ma forse, ancora prima, proprio con la scomparsa dell’ultimo vero segretario. La morte tragica, quasi sul palco del comizio a Padova ove fu colpito il 7 giugno 1984 dall’ictus che lo avrebbe ucciso poche ore dopo a 62 anni, sarebbe forse bastata da sola a consacrarne il mito, celebrato del resto subito, negli oceanici funerali a Roma, seguiti da una massa popolare enorme, davvero dolente e smarrita. Un popolo orfano. Come sempre c’è del vero nella mitologia che ha costruito un vero e proprio culto intorno al ricordo di Enrico Berlinguer ma c’è anche un massiccio processo di rimozione e addomesticamento della realtà storica. Valga per tutti l’esempio più eloquente: un’intera fase della biografia politica del quinto segretario viene quasi rimossa dall’esegesi, derubricata a particolare secondario. Quella del compromesso storico e dei governi dell’unità nazionale. Proprio quella partita politica fu invece l’elemento centrale della sua segreteria, il cuore della sua strategia politica. La scommessa persa alla quale seguirono anni confusi e di risulta che invece una lettura volutamente parziale ha trasformato nel “vero Berlinguer”. Quando, nell’ottobre 1973, dopo la tragedia del golpe cileno, Berlinguer lanciò con tre articoli su Rinascita la sua proposta di compromesso storico, che ricalcava ma forzandola e riadattandola a un quadro molto diverso l’ispirazione di Togliatti, era segretario del Pci da poco più di un anno. Guidava però il partito, pur con molti limiti, già dal congresso del 1969, avendo assunto molti dei compiti del segretario Longo colpito da ictus. Aveva 51 anni e alle spalle una carriera tanto folgorante da giustificare la battuta che circolava ovunque all’epoca: «Si iscrisse giovanissimo alla segreteria del Pci». Sardo, con parecchio sangue blu nelle vene, aveva aderito al Pci nel 1943 e l’anno dopo si era fatto tre mesi di carcere per una manifestazione contro la penuria di beni primari. Fermato era stato portato in una caserma dedicata al suo antenato Girolamo Berlinguer. Appena uscito dal carcere il padre Mario, figura tanto celebre quanto attiva nella politica sarda, lo portò a Salerno a conoscere l’ex compagno di scuola Palmiro Togliatti. Al “Migliore” il ragazzo piacque subito. Lo chiamò a Roma, a lavorare per il Pci come funzionario. Nel 1946 era alla guida del Fronte della Gioventù, spedito a Mosca a conoscere Stalin, poi, nel 1948, segretario della neonata Federazione giovanile comunista italiana, la Fgci, ma anche della Federazione mondiale della gioventù democratica, l’organizzazione internazionale dei giovani comunisti. Restò alla guida della Fgci fino al 1956, cercando di competere con i cattolici sulla moralità dei comportamenti anche sessuali: risalgono a quella fase l’esaltazione di Maria Goretti, in realtà meno significativa di quanto si sia fatto credere in seguito dal momento che si era limitato a paragonarla alla partigiana uccisa dai nazisti Irma Bandiera: entrambe si erano fatte uccidere per non tradire i propri ideali. Nessuna ambiguità invece sull’invito rivolto alle giovani comuniste di arrivare vergini al matrimonio per dimostrare di non aver nulla da imparare dai cattolici quanto a senso della morale. Ma questi sono particolari. La spina furono le 70mila tessere della Fgci perse, che gli costarono una sorta di retrocessione alla scuola di partito di Frattocchie. Eclisse meteorica. Nel 1958 il dirigente sardo era di nuovo a Roma, fresco di matrimonio con la cattolica Letizia Laurenti e di chiamata a collaborare con il vicesegretario Longo nella segreteria del partito. Nel 1960 entra nella Direzione, con il compito chiave di responsabile dell’Organizzazione. Altri due anni e si schiudono le porte del vero vertice del Bottegone, storica sede centrale del Pci in via delle Botteghe oscure a Roma: la Segreteria. Come responsabile delle Relazioni estere Berlinguer fu incaricato di muovere le prime critiche esplicite del Pci al partito fratello sovietico per le modalità opache con cui si era realizzata l’estromissione di Kruscev nel 1964. Da questo punto di vista, la coerenza di Berlinguer è assoluta. Dalle critiche all’invasione della Cecoslovacchia all’invenzione (fallita anche quella) dell’eurocomunismo negli anni ‘70 fino alla presa di distanza dopo il golpe del 1980 in Polonia, Berlinguer spinse sempre l’acceleratore sul processo di autonomizzazione del partito italiano da quello sovietico. Quando nel 1976 concesse a Gianpaolo Pansa la storica intervista in cui si diceva favorevole alla permanenza dell’Italia nella Nato lo faceva certamente per rassicurare l’elettorato in vista delle imminenti elezioni politiche, ma non tradiva il suo pensiero. Il sospetto di un attentato in Bulgaria, proprio nell’ottobre 1973, nell’incidente automobilistico, con un morto e due feriti gravi, in cui la sua macchina fu investita da un camion militare resta solo un’ipotesi. Non del tutto incredibile però. Dopo l’XI Congresso del 1966, il futuro leader fu di nuovo retrocesso a segretario del Lazio: forse una punizione per la sua eccessiva vicinanza allo sconfitto Ingrao, più probabilmente una mossa astuta del segretario Longo, che lo voleva come suo delfino, per metterlo al riparo dagli agguati prima della scelta del successore. Toccò effettivamente a lui, indicato nel febbraio 1969 dalla Direzione, chiamata a scegliere tra il compagno Enrico e il compagno Napolitano. Pochi mesi dopo, il primo segretario della nuova generazione lanciò la sua proposta. Il compromesso storico è la cifra della stagione berlingueriana, la sua essenza. Una svolta preparata nei tre anni della vicesegreteria reggente, messa in campo dopo il golpe cileno ma che sarebbe arrivata comunque. Fu una scommessa epocale e gravida di conseguenze, non tanto nella sua fase più teorica ma quando, dopo le elezioni del 1976, si tramutò in pratica concreta e partorì i governi di unità nazionale: prima quello Andreotti della non-sfiducia, poi, dal marzo 1978, quello, identico nella composizione, dell’ingresso del Pci in maggioranza con la formula dell’appoggio esterno. In quei tre anni si consumò una rottura irrecuperabile non solo con i movimenti giovanili ma anche con la base operaia. Il Pci accettò una politica di sacrifici tutta a spese della sua stessa gente, destinata a essere pagata a caro prezzo nelle urne. Le ricostruzioni storiche che attribuiscono alla scomparsa di Moro quel fallimento sono capziose e infondate. Moro mirava certamente a “normalizzare” il Pci come aveva fatto con il Psi e come suggerì di fare, non solo per salvarsi la pelle ma perché era il suo modo di intendere la politica, anche con le stesse Br. Ma era un progetto di lungo periodo, certo non prevedeva l’ingresso del Pci nel governo a breve. E se anche così fosse stato, la Dc non lo avrebbe seguito. Nelle elezioni del 1979 il Pci perse 2 mln di voti, imboccando un percorso in discesa che non si sarebbe più fermato. La sconfitta dei comunisti risolse lo stallo che durava dal 1976 e aprì le porte al ritorno dell’alleanza fra Dc e Psi. Il Pci fu costretto a subire un’offensiva sociale senza precedenti, che si risolse con la secca sconfitta operaia alla Fiat nel dicembre 1980, e quella politica dell’aggressivo e spregiudicato Bettino Craxi. Berlinguer non riuscì mai a impostare una strategia politica, dopo aver perso la sua grande scommessa. La proposta dell’Alternativa democratica era in quel momento del tutto priva di fondamento e la stessa “Questione morale”, pur non certo impuntuale, era solo una formula di risulta. Il referendum sulla scala mobile, che si svolse quando Berlinguer era ormai morto e fu vinto da Craxi, chiuse il cerchio. Nella memoria della sinistra gli anni di Berlinguer resteranno sempre circondati da un’aura mitologica. Ma sono gli anni della sconfitta del Pci.

Berlinguer e l’oro di Mosca. Dario Fertilio il 7 febbraio 2021 su Panorama. Dario Fertilio In occasione del centenario del Pci, un libro fa emergere nuovi particolari sul fiume di denaro che l’Unione sovietica non fece mai mancare ai compagni italiani. «Rubli! Rubli!», rinfacciavano polemicamente i socialisti ai loro compagni comunisti durante il congresso di Livorno, cent’anni fa. E avevano ragione, dal momento che la scissione che avrebbe portato alla nascita del Partito comunista d’Italia rispondeva agli ordini del Comintern, di obbedienza sovietica. Non soltanto in nome dell’ideale rivoluzionario, ma anche in virtù dei finanziamenti incassati sottobanco. Rubli? Non soltanto, ma anche e soprattutto lingotti d’oro, gioielli, pietre preziose, diverse valute straniere, spille, braccialetti, collane, anelli, persino fiale di morfina. Frutto di requisizioni più o meno legali, accumulate nel caveau del Cremlino dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre. Senza guardare troppo per il sottile, giacché la filosofia di Lenin prevedeva che qualsiasi fine potesse giustificare qualsiasi mezzo. Foraggiare i compagni comunisti italiani, dunque, si poteva considerare un investimento lungimirante. Ma neppure il più arrabbiato dei riformisti, in quel fatale inverno del 1921, avrebbe potuto immaginare la portata – e la durata futura – del fiume di denaro in movimento. Che si sarebbe ingrossato con gli anni, dapprima sotto la copertura internazionalista del «Soccorso rosso» e poi articolandosi nella sua branca italiana. E dando vita, quasi sotto gli occhi di Benito Mussolini, a un imponente apparato comunista, formato in Italia da 77 comitati provinciali, centinaia di sottocomitati, più di mille gruppi, per un totale di 135.000 aderenti. Una simile rete organizzativa non sarebbe mai stata raggiunta da nessun altro partito italiano – eccetto ovviamente quello fascista del Ventennio – né prima né durante e neppure dopo la Seconda guerra mondiale. Talmente perfetta, quella armata segreta, da tramandarsi di generazione in generazione, fino all’ultima eredità toccata al Pd. Cent’anni di comunismo italiano richiedevano un bilancio adeguato. Quando Francesco Bigazzi, storico corrispondente dalla Russia, ha riordinato l’imponente materiale in suo possesso in occasione del centenario del Pci, ha potuto finalmente mettere nero su bianco la storia dei finanziamenti da Mosca a Botteghe Oscure. Che sono continuati fino all’ultimo, nel 1991, e si possono oggi calcolare in circa mezzo miliardo di dollari. Mai come oggi, insomma, è importante rileggere e analizzare la storia quel fenomeno politico che tanta parte avrà nel Novecento; in particolar modo dal dopoguerra in avanti, sia dal punto di vista di Mosca che alla luce della interminabile, estenuante e alla fine mortale partita a scacchi giocata da Enrico Berlinguer con l’alleato-avversario (troppo più forte di lui) incarnato da Leonid Brežnev. Un fiume di denaro è stato segretamente convogliato nelle casse delle Botteghe Oscure fin dalla nascita del Pci, e poi istituzionalizzato, a partire dal 1950, con un Fondo di assistenza internazionale amministrato dal grande elemosiniere Boris Ponomarëv. Il libro contabile, spalancato oggi, può dare le vertigini: tutto era registrato minuziosamente, donazione per donazione (per esempio, il primo anno si era trattato di 400.000 dollari dell’epoca, saliti a mezzo milione l’anno seguente). Cifre che equivalevano a un’imponente iniezione di denaro destinata alla macchina organizzativa e di propaganda. Da inquadrare a sua volta in un piano generale in cui contavano ancora di più regali, provvigioni, tangenti, fondi neri accumulati dalle centinaia di società miste create dal Pci con partner collocati oltre la Cortina di ferro. Senza trascurare i proventi delle intermediazioni operate dalle cooperative rosse nei loro traffici col resto del mondo comunista, e le interessenze percepite sottobanco sui grossi affari conclusi dalle industrie pubbliche e private con l’Urss e la Germania dell’Est, o sulle forniture di petrolio e gas naturale concluse con i Paesi a regime comunista. Quanto a Enrico Berlinguer, sarà al corrente di tutto fin da quando, ancora giovanissimo capo della Fgci, la Federazione giovanile comunista italiana, potrà usufruirne nella campagna elettorale del 1953: quella che porterà alla bocciatura della cosiddetta «legge truffa» voluta dalla Dc. La sua ascesa, culminata nell’elezione a segretario del 1972, sarà parallela a quella dei finanziamenti segreti sovietici, in qualche caso – come risulta dai documenti – sollecitati da lui stesso. E accompagnata dallo scavo sotterraneo di un labirinto spionistico russo, oltre che dall’invio di militanti italiani nell’Est Europa per l’addestramento militare e di sabotaggio. Solo dopo il 1975, mentre in Italia prenderà corpo la strategia del compromesso storico e andrà materializzandosi il progetto dell’eurocomunismo, Berlinguer si renderà conto della pericolosità di quella compromettente rete clandestina fatta di soldi, armi, camuffamenti e radiotrasmittenti, e provvederà a togliere il comando delle operazioni al troppo scopertamente filosovietico Armando Cossutta. Sarà allora che il suo disegno ardito, emanciparsi progressivamente da Mosca, concepirà una riforma radicale del sistema. Non più – o molto meno – «verdoni» russi, e al loro posto una fitta rete di società di comodo, in grado di garantire il flusso dei finanziamenti senza compromettere irreparabilmente il partito. E qui si annida il mistero del rapporto fra Berlinguer e il «Belzebù» sovietico: fatto di strappi e riavvicinamenti, doppiezze e salti nel buio. Un interminabile braccio di ferro, fra un viaggio a Mosca di Berlinguer e l’altro, un colloquio amichevole con Brežnev e un improvviso irrigidimento. Il destino delle due invenzioni strategiche di Berlinguer, il compromesso storico e l’eurocomunismo, costituiranno infatti la posta in gioco nella partita. Il segretario del Pci tenterà di assicurarsele entrambe, muovendosi sul filo del rasoio. Ma l’eurocomunismo, accompagnato dal famoso «strappo» da Mosca – concordato con il Cremlino – fallirà miseramente. Perché, allestendo una trappola, Brežnev provvederà a liquidarlo. E lo farà servendosi, nientemeno, che del Maresciallo Tito. Durante un incontro in Unione Sovietica, infatti, registrerà una frase incauta del presidente jugoslavo – «l’eurocomunismo è un’eurocretinata» – riportandola per vie traverse sia a Berlinguer che al suo alleato francese François Marchais. E facendo naufragare il tutto nel ridicolo, disgustando il leader francese e minando l’autorevolezza del segretario italiano. Quanto al compromesso storico, il Belzebù sovietico attenderà sornione lungo il corso del fiume, aspettando il passaggio del cadavere. Che infatti sarà trascinato dalla corrente della politica italiana, dopo la scomparsa di Aldo Moro. È qui che il destino di Berlinguer si compie: fallisce il suo progetto di conquista indolore del potere in Italia, e anche il sogno di rifondare il comunismo riportandolo alla purezza iniziale di Lenin, con la correzione di Gramsci. Gli resteranno soltanto i famosi «pensieri lunghi», cioè quei temi che oggi – dall’ecologismo al femminismo, dal movimentismo giovanile alla moltiplicazione dei diritti – costituiscono la base del mass-radicalismo, unica ideologia possibile per il Pd. Il cerchio si chiude con la morte del protagonista nel 1984, durante un comizio a Padova.

Storia dei segretari del PCI.  Alessandro Natta, successore di Berlinguer e fatto fuori dalla congiura di Occhetto e D’Alema. David Romoli su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Alessandro Natta è stato davvero quel che Longo era stato per finta: un segretario di transizione. La morte di Berlinguer era stata tanto improvvisa quanto, vent’anni prima, quella di Togliatti, trovando però un partito ben più smarrito, diviso, privo di bussola. Privo anche di una figura come quella di Longo, il cui leggendario passato di combattente e di comunista della prima ora gli conferiva l’autorità e la popolarità necessarie per prendere in mano il partito orfano. Natta, classe 1918, aveva allora 67 anni. Nato a Oneglia in Liguria da famiglia cattolica e agiata, era militare in Grecia l’8 settembre 1943 ed era stato pertanto internato nei campi di prigionia tedeschi, esperienza che avrebbe poi raccontato in un celebre libro, L’altra resistenza. Rientrato in patria nel 1945 si era iscritto quasi subito al Pci e nel 1984 aveva già alle spalle 10 legislature in veste di parlamentare, a partire dalla prima elezione nel 1948. Collaboratore stretto di Togliatti e poi di Berlinguer, era un leader di grande e raffinata cultura. Laureato alla Normale di Pisa, appassionato conoscitore del latino e del greco, amico del grande latinista Scevola Mariotti e del filologo Sebastiano Timpanaro, con i quali era in contatto continuo, adorava infarcire i suoi discorsi, in aula e fuori, di citazioni latine. Storica l’espressione allibita di Onofrio Pirrotta, Tg2, quando, a domanda sulla situazione politica, il comunista rispose fluido: “Multa renascentur quae iam cecidere” (“Molte cose date per cadute possono tornare”). Al Tg2 dovettero cercare di corsa un traduttore. Non tutti conoscevano Orazio. Nei confronti dei movimenti giovanili e sociali del decennio precedente, a partire dal ‘68, Natta era stato diffidente. “Estremisti borghesi” li aveva definiti e proprio a lui era toccato il ruolo di pubblico accusatore nel processo contro gli eretici del manifesto che si concluse con la loro radiazione del partito. Aveva condiviso la linea di crescente autonomia dall’Urss di Togliatti e di Berlinguer, la via italiana al comunismo, l’eurocomunismo, l’avvicinamento alle forze socialdemocratiche europee. Ma con maggiore prudenza del suo predecessore. Natta doveva la nomina a segretario, che non aveva cercato e forse neppure voluto e che non si aspettava affatto, all’incarnare la figura più rassicurante tra i dirigenti comunisti dell’epoca. Sembrava il più capace di mediare tra le aree ormai apertamente divise del partito: i miglioristi di Napolitano e Chiaromonte, la sinistra ingraiana, i filosovietici di Cossutta, i giovani emergenti, impazienti e insofferenti, tra cui spiccavano D’Alema e, con qualche anno in più sulle spalle, Achille Occhetto. Natta mediò. Le divisioni si accentuarono nel corso del decennio ma non esplosero. Il prezzo fu la rinuncia a impostare una linea politica chiara e una strategia efficace da offrire a un partito che, dopo il fallimento del compromesso storico, era privo di entrambe e che neppure l’ultimo Berlinguer aveva saputo compiutamente definire e indicare. Nelle elezioni europee del 1984, pochi giorni dopo la morte di Enrico Berlinguer, il Pci era risultato, per la prima e unica volta, come primo partito. Natta provò a bissare l’anno successivo, in una importante tornata di elezioni regionali, caricando di valenza politica nazionale quelle amministrative. Il risultato, il 12 maggio 1985, fu deludente. Poco dopo arrivò la mazzata del referendum sulla scala mobile, lo scontro frontale tra il craxismo, aggressivo e rampante, e la resistenza del Pci. L’abrogazione della riforma della scala mobile, voluta dal Pci, fu sconfitta. I no ottennero il 54, 3%. Il Pci si consolò con il risultato dei Sì, un 45,7% che andava ben oltre il bacino di voti comunisti. Era una consolazione illusoria. La sconfitta nelle urne coronava quella sociale compiutasi con il trionfo della Fiat nei 35 giorni del 1980. Natta tentò la carta di un congresso di rilancio. Mirava a un’impossibile quadratura del cerchio: trasformazione nella continuità. La scelta dello schieramento a fianco delle socialdemocrazie occidentali fu esplicita ma la presa di distanza dall’Urss restò invece in sospeso. Si lasciò spazio ai “giovani” ma senza cesure reali nel gruppo dirigente, che restò in mano ai sessantenni. Soprattutto il Pci di Natta non riuscì neppure a impostare un’analisi dei mutamenti sociali che colpivano la sua tradizionale base sociale operaia e a elaborare una strategia per fronteggiare L’offensiva senza tregua di Craxi. Le elezioni dell’87 furono una batosta durissima che decretò la fine della segreteria Natta, orchestrata per la prima ma non ultima volta da Massimo D’Alema. Nel maggio 1988 il segretario fu colpito da un leggero infarto. In ospedale gli furono preannunciate le sue dimissioni a favore di Occhetto. Chiese di posticipare il passaggio di consegne di qualche mese, fino a ottobre, in modo da poter essere presente alla fatale Direzione. Gli fu assicurato che sarebbe andata così. Poi apprese dalla radio, ancora in ospedale, che si era invece dimesso subito. La prese malissimo. Scrisse una lettera alla Direzione rimasta poi secretata per anni: “Compagni, non vi siete comportati lealmente. C’è stato un tramestio, davanti alla mia stanza d’ospedale. Quello che avete fatto per me è stato offensivo, perché erano cose del tutto non necessarie”. Uomo scevro di ambizioni, era pronto, come scrisse lui stesso, a “tornare umile frate”. Avrebbe preferito farlo con rispetto e trasparenza. L’episodio della sua defenestrazione illustra una caduta di stile nei rapporti interni al partito destinata a proseguire e ingigantirsi egli anni successivi, sia nel Pci che nel successivo Pds e poi nei Ds. La segreteria di Natta fu senza dubbio statica, incapace dello slancio coraggioso che sarebbe stato necessario per fronteggiare una crisi profonda e latente del Pci, di cui la caduta del Muro, l’anno seguente, fu solo il fattore scatenante. Eppure forse mai come in quegli anni il Pci e la sua cultura cambiarono, sia pur non per spinta e decisione del segretario. Sino a quel momento, anche nel “partito nuovo” di Togliatti e nel tentativo fallimentare di incontro con la Dc di Berlinguer, il Pci era stato, nelle sue radici, il partito della classe operaia. Negli anni ‘80, con la rivoluzione industriale postfordista che muoveva già passi da gigante, dopo una sconfitta operaia senza precedenti, diventò un’altra cosa. Un partito pacifista, ecologista, per la prima volta attento alla differenza di genere, contrario ai blocchi, impegnato sul fronte dei diritti civili quanto e più che su quello dei diritti sociali. Quando di lì a pochissimo fu sepolto dai detriti del muro crollato, del partito di “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer” restava già molto poco.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 24 gennaio 2021. In questi giorni sono esplose le celebrazioni del centenario della nascita del Partito comunista italiano, che ha dominato la scena per oltre mezzo secolo. I giornali e le tv dedicano all'evento (funebre, dato che il comunismo per fortuna è morto) molto spazio, troppo, ricorrendo a toni elegiaci, prosa retorica come si usa in ogni festeggiamento. Praticamente i compagni di un tempo, anche recente, vengono descritti quali irresistibili innovatori, uomini visionari, impegnati a risolvere i problemi della società, pronti al sacrificio, capaci di migliorare l'umanità. I dirigenti di risulta del cosiddetto movimento operaio si presentano impettiti alla stampa quasi fossero eroi reduci di battaglie storiche combattute in favore dell'uguaglianza e della democrazia. Tutto ciò dimostra che falce e martello, a differenza dei fasci littori, hanno ancora il diritto di albergare nei cuori di un certo popolo nostalgico. Niente di grave, molto di assurdo. Perché il socialismo reale ha prodotto solo tragedie e ingiustizie macroscopiche, come ben sanno quelli della mia generazione, i quali ne hanno viste di ogni colore, trovandosi anche a dovere lottare fisicamente contro i rossi invasati e violenti. Chiunque avesse messo piede oltre la cosiddetta "cortina di ferro" comprendeva al volo la natura bieca del regime sovietico. Il grigiore plumbeo dei Paesi sotto il tallone di Mosca rivelava immediatamente lo stile comunista: era palpabile la miseria nonché l'appiattimento avvilente a cui era condannata la gente. Visitai l'Ungheria e la Jugoslavia, che passavano per evolute, e ne ricavai una sensazione di sgomento e di profonda tristezza. Sorvoliamo sulla Russia, che Piero Ostellino, mitico corrispondente del Corriere della Sera, raccontò magistralmente in articoli di una crudezza fotografica. La vita dei sovietici si svolgeva in una atmosfera da incubo. Nonostante ciò fosse arcinoto, bandiera rossa sventolava in Italia, patria del più forte partito marxista del mondo occidentale. Alle nostre elezioni nazionali, il Pci si avvicinava spesso al 30 per cento dei consensi, a pochi punti percentuali dalla dominante Democrazia Cristiana. Quelli di Botteghe oscure si davano arie, si consideravano intellettualmente più provveduti degli avversari, come tutti quelli che hanno torto pensavano di avere sempre ragione. Dettavano legge su qualsiasi argomento, forti dei crescenti suffragi che ottenevano per effetto di un dilagante conformismo, in grado di infettare milioni di cervelli bacati. Quando morì Breznev, una delegazione di politici nostri compatrioti, capeggiati da Sandro Pertini, si recò a Mosca per assistere ai funerali del dittatore spietato. Questo per illustrare a che punto eravamo arrivati anche noi italiani, succubi della moda purpurea. La storia del Pci è ricca di pagine vergognose che meriterebbero di essere nascoste sotto una coltre di polvere, e invece assistiamo a manifestazioni agiografiche che esaltano addirittura Togliatti, famoso braccio sinistro di Stalin, il quale non era esattamente un agnellino, avendo ucciso perfino una folla di compagni in odore di deviazionismo. Stendo un velo sul Sessantotto, durante il quale un cospicuo gruppo di giovani intendeva realizzare la rivoluzione a cui il Pci aveva rinunciato essendosi imborghesito. Seguì il terrorismo delle Brigate Rosse e similari, un disastro. Onore al comunismo? Macché, soltanto esequie e oblio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 gennaio 2021. Caro Dago, oggi alla pagina 23 del “Corriere della sera” c’è un colonnino di piombo che irradia verità. E’ la “Controbibliografia sul centenario del Pci” stilata dal mio vecchio compare Pigi Battista, uno che se ne intende. In quella lista c’è Solzgenitzsin, lo storico Robert Conquest, l’ex anarchico di sinistra Victor Serge, l’ex fondatore del Pci Angelo Tasca, Nina Berberova, il grande François Furet, Gide appena tornato dall’Urss dove Stalin per tenerselo buono lo aveva fatto circondare da “compagni” aitanti, il meraviglioso piccolo romanzo “La scheggia” dello scrittore russo Vladimir Zazubrin, il libro in cui Renato Mieli (padre di Paolo) racconta che cosa esattamente fece e approvò il Togliatti del 1937. E cento altri. A proposito del centenario del Pci (episodio sul quale ovviamente non c’è più il minimo dubbio che Filippo Turati avesse ragione, e Antonio Gramsci torto marcio) è la lista di libri uno più bello dell’altro che raccontano “il secolo delle idee assassine”, ossia le due idee, “il comunismo” e “il nazismo”, da cui sono venuti i massacri più spaventosi nella storia dell’uomo. I gulag nazi e i loro 6 milioni di ebrei assassinati? Spaventoso, certo. E che dire invece degli oltre 5 milioni di ucraini assassinati da Stalin nei primi anni Trenta, al tempo delle “collettivizzazioni” forzate? Lo dico in modo ancora più brutale: quanti nel tempo presente hanno chiara l’idea che “i crimini contro l’umanità” nel Novecento sono stati due, l’uno criminale esattamente quanto l’altro, il comunismo reale e il nazismo reale, e che quelle due parole vanno pronunciate entrambe con ripugnanza e disprezzo? (Due giorni fa sono stato alla Procura della Repubblica di Roma dove mi aspettava una querela che mi ha fatto un tipetto che si autodefinisce leader dei “Centri di appoggio alla Resistenza per il Comunismo”. Nel 2021.) Naturalmente il 95 per cento dei libri annoverati da Pigi li ho letti. Più che letti, annotati, compulsati, amati, divorati. Ecco, qui è il punto. Quali di quei libri sono entrati non dico della top ten dei libri più venduti (una graduatoria in sé indecente), ma sono stati al centro dell’attenzione di una qualche generazione intellettuale, ad esempio la mia? Mai da nessuno ho sentito pronunciare il nome di Victor Serge. Chi in Italia conosce lo storico ungherese François Fejto, quello che prendeva a schiaffi culturali il comunista Gyorgy Lukàcs e di cui ricordo nitidamente i momenti in cui lo stavo intervistando su una terrazza parigina e lui era un fiume di intelligenza? Quanto al genero di Benedetto Croce, il polacco Gustav Herling, uno che nel secondo dopoguerra era fuggito dalla Polonia stalinista ed era venuto a vivere in Italia, Laterza ci provò a pubblicare un suo libro che era un capolavoro ma si accorse che non c’era pubblico per quel libro e lo lasciò marcire negli scantinati. Così, esattamente così sono andate le cose sino all’altro ieri nell’editoria e nel consumo culturale degli italiani. Quando ero all’ “Europeo” scrissi una sorta di recensione a un libro che raccontava a puntino che cosa avevano fatto, in termini di stupri e di atrocità varie ai danni dei civili, i soldati russi penetrati vittoriosi in Germania. Due milioni di donne stuprate. Il caposervizio cultura dell’ “Europeo” - ho detto “L’ Europeo”, non “Rinascita” - non lo pubblicò mai. Non per eleganza ma per disprezzo intellettuale non ne farò il nome.

Pierluigi Battista per il Corriere della Sera il 25 gennaio 2021. Nella celebrazione di storici centenari, qui si suggerisce una molto sommaria integrazione per così dire bibliografica (di una bibliografia troppo oscurata o addirittura ignorata) che potrebbe almeno in parte simboleggiare un blando antidoto a una lettura troppo autoapologetica sparsa a piene mani a cento anni da Livorno ‘21. Arcipelago Gulag di Aleksandr Solgenitsin, I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, Gulag di Anne Applebaum, Koba il terribile di Martin Amis, Il Grande Terrore di Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine di Robert Conquest, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, La società aperta e i suoi nemici di Karl Raimund Popper, Prigioniera di Stalin e Hitler di Margarete Buber-Neumann, Il corsivo è mio di Nina Berberova, Ritorno dall’Urss di André Gide, Tutto scorre di Vasilij Grossman, Il passato di un’illusione di François Furet, L’epoca e i lupi di Nadezda Mandel’stam, tutte le opere di Osip Mandel’stam, tutte le opere di Marina Cvetaeva, tutte le opere di Anna Achmatova, tutte le opere di George Orwell, L’uomo in rivolta di Albert Camus, La mente prigioniera di Czeslaw Milosz, Un mondo a parte di Gustaw Herling, Il dottor Zivago di Boris Pasternak, Commissariato degli archivi di Alain Jaubert, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, Il dio che è fallito di Koestler, Silone, Wright, Gide, Spender, Fisher, Novecento il secolo del male di Alain Besançon, I fantasmi di Mosca di Enzo Bettiza, Il regime bolscevico di Richard Pipes, Togliatti 1937 di Renato Mieli, Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, Autobiografia 1945-1963 di Emmanuel Le Roy Ladurie, Nemici del popolo di Nicolas Werth, L’utopia al potere di Mihail Geller e Aleksandr Nekric, Stalin di Boris Souvarine, La scheggia di Vladimir Zazubrin, Viaggio nella vertigine di Evgenia Semionovna Ginzburg, Lettere a Olga di Vaclav Havel, Cime abissali di Aleksandr Zinoviev, tutte le opere di Milan Kundera, Il tempo della malafede di Nicola Chiaromonte, la collezione completa della rivista «Tempo Presente», Intervista politico-filosofica a Lucio Colletti, Atlante ideologico di Alberto Ronchey, Storia delle democrazie popolari di François Fejto, La nuova classe di Milovan Gilas, Due anni di alleanza germano-sovietica di Angelo Tasca. Tutte le opere di Filippo Turati. Buon centenario e buona lettura.

I 100 anni del Partito Comunista Italiano. La doppiezza del Pci non fu un limite ma arricchì il Paese. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Il centenario della nascita del Partito comunista in Italia sta diventando l’occasione per una riflessione politica, sino a ora mancata, e non casualmente, a sinistra. Così le questioni irrisolte e depositate nelle memorie e nella storia del Paese sono davvero tante e alcune di esse pesanti come macigni. Tre mi sembrano quelle capitali. A partire dal perché è nato in Italia un partito comunista e se la scissione dal Partito socialista, da cui ha preso vita nel 1921 a Livorno, è stato un bene o un male per le sorti del Movimento operaio e del Paese. Un’altra questione riguarda la natura stessa del partito e la sua influenza sulla storia d’Italia. Essa può andare sotto il nome di “doppiezza”. Si tratterebbe di sapere se c’è stata e, se sì, quale sia stata la sua conseguenza. Un problema enorme e del tutto irrisolto riguarda la fine stessa del Partito comunista, le cause che l’hanno prodotta. La questione è tanto più rilevante, in quanto essa si colloca da protagonista – io penso in senso negativo – nella transizione che segna la fine del dopoguerra e del caso italiano. Con la definizione del “caso italiano” si è voluto descrivere l’ultimo tentativo di grande riforma che è stato messo in atto nel Paese. Da questa cesura drastica, con quello che è avvenuto poi fino ai nostri giorni, si può intendere tutta la portata dell’interrogazione sulla fine del Pci, come della sua nascita e della sua vicenda intera. Si configurerebbe infatti così un programma di ricerca molto impegnativo per gli storici, gli studiosi e gli intellettuali, dovendo per questa via indagare un passaggio cruciale dell’intera storia di un Paese che è anche, nel contempo, la storia di un secolo intero, il Novecento. Con lo sguardo del militante si può essere più indulgenti e accettarne le semplificazioni. Si può in questo caso dire che il problema della nascita, che in quel momento si poneva come problema reale, sia stato poi risolto dalla storia che ha visto quella rottura generare il più grande partito comunista dell’Occidente. Non convince la sua cancellazione da parte di chi vuol collocarne la nascita successivamente. La storia del Pci è una sola e parte dal 1921. Non nasce, come vorrebbe una pure autorevole interpretazione, dal Congresso di Lione nel ’26, quello realizzatosi sul documento politico elaborato da Antonio Gramsci. Questa è stata certo una tappa molto importante, come lo è stata poi la svolta del partito di massa voluto da Togliatti dopo la vittoria contro il nazifascismo. Ma tutto questo non cancella l’evento del ’21 e ciò che da lì è entrato nelle vene del partito e che è nientemeno che il tema della rivoluzione. È stata la necessità di mettere questa prospettiva al centro della politica a produrre la scissione. Si può dire anzi che perciò la grande scelta sia stata necessitata. La divisione del Movimento operaio si era già prodotta sul piano teorico, e poi drammaticamente su quello pratico, in Germania. Ebbe inizio nel Bernstein-Debatte e nello scontro tra il suo protagonista e Rosa Luxemburg. Il ’17 radicalizza la divisione. I bolscevichi invocano la rivoluzione nei paesi europei, convinti che senza di questa anche l’ottobre russo sarebbe stato condannato. Quella chiamata è, per una parte del Movimento operaio irrifiutabile, come conferma poi anche la nascita del Partito comunista francese. Ma, ad esempio, per gli ordinovisti è più direttamente la dinamica sociale nel Paese a reclamare la rivoluzione, tanto che sarà proprio Gramsci da Torino a chiedere al Partito socialista la programmazione dell’insurrezione e la distribuzione delle armi agli operai, gli operai delle occupazioni delle fabbriche e dei consigli. Gli operai del contropotere in atto che rivendica il passaggio alla conquista del potere sono i profeti disarmati della scissione. Lo sono dopo il loro abbandono colpevolmente realizzato da parte del Partito socialista. La scissione di Livorno ne è la consumazione, come sembra confermare anche la partecipazione silenziosa di Gramsci al congresso di fondazione. La scissione porta con sé nel partito nascente la scintilla della rivoluzione. Nella storia del Pci, soprattutto in quella del lungo dopoguerra italiano e nel mondo diviso in due blocchi contrapposti, quella scintilla continuerà a vivere sebbene senza diventare mai la strategia generale del partito. Qui sta la sua doppiezza. Essa non risiede nel problema della democrazia e più specificatamente in quello della democrazia rappresentativa. Con la Repubblica, il Pci diventa il partito della Costituzione e un partito di popolo. Il legame con l’Urss, pur su molti aspetti influenti, sia su di sé che ancora più negativamente sui suoi avversari politici e sulla borghesia, su questo terreno quel legame risulta del tutto sterilizzato. L’opzione del partito è netta e radicale, come bene si evince ancora dagli scritti di Terracini pubblicati di recente. Nell’indicatore costituito dalla storia sociale, a questo proposito risulta del tutto chiarificatrice la scelta compiuta dal Pci e dalla Cgil di Di Vittorio nei confronti delle lotte operaie e del triangolo economico nell’immediato dopoguerra, una scelta volta a spegnere sul nascere ogni fuoriuscita dall’ordinamento costituzionale e dagli esiti politici generati dalla democrazia rappresentativa. Sono state scelte così nette da subire critiche da sinistra e non del tutto prive di fondamento. La divisione tra riformisti e rivoluzionari, e la stessa definizione di entrambi, dovrebbe indurre oggi a una riflessione meno partigiana. Oggi, che questa polarizzazione è diventata inattuale per la scomparsa dalla scena della politica di entrambi i poli della contesa. Lo scontro originario collocava i due partiti sul fronte opposto della scelta, della via per raggiungere la meta. Da una parte stava quello della rottura rivoluzionaria e dall’altra quello del processo graduale di conquiste sociali. La meta dichiarata restava in quel caso per entrambi la stessa. La meta veniva infatti individuata proprio nel socialismo, come testimonia anche il discorso di Turati a Livorno. Nel dopoguerra delle costituzioni democratiche, dei partiti di massa e del sindacalismo confederale di classe, i due termini, riformista e rivoluzionario, subiscono una sostanziale riscrittura. La pietra d’inciampo è, se vogliamo, Bad Godesberg, con l’abbandono da parte della Socialdemocrazia tedesca del tema della fuoriuscita dal capitalismo e con il suo rifiuto del marxismo. Si può dire che la distinzione tra riformisti e rivoluzionari diventa quella tra chi pensa che le riforme possano e debbano avvenire all’interno della società capitalista, e chi pensa invece che quelle siano incompatibili con il capitalismo e che, dunque, proprio la società capitalistica sia il problema della politica. La nuova discriminante, cioè il superamento del capitalismo, propone schieramenti assai diversi dalla geografia dei partiti tradizionali. Socialisti e comunisti non si dividono, infatti, secondo questa modalità. Socialisti come Morandi, Basso, Lombardi, Panzieri non stanno infatti certo nel primo dei due campi dove, al contrario, sta di fatto più di un dirigente del Partito comunista italiano. Ma la scintilla di Livorno trattiene il Pci nel campo del socialismo, qui inteso come necessità del superamento del capitalismo. Lo trattiene sino alla concezione delle riforme di struttura, finalizzate a questo stesso obiettivo. Qui, allora, sta la doppiezza del Pci. Non nella coppia democrazia-Unione sovietica. La doppiezza sta, da un lato, nell’immersione concreta nella società italiana esistente, la cui evoluzione concepibile e insieme obiettiva di lotta è il processo di realizzazione della Costituzione. È la democrazia progressiva. Di fatto, alfa e omega della strategia del partito, poi, democrazia tout court. L’altro polo è il superamento del capitalismo, Gerusalemme rimandata ma mai rinnegata. Un obiettivo, dunque, che torna ad affacciarsi nei momenti più acuti dello scontro di classe e in certi passaggi topici della storia del Paese e del mondo. Intendiamoci, l’Urss c’entra parecchio con questa doppiezza, ma non ne costituisce un polo. C’entra, in maniera diversa, nelle formazioni dei gruppi dirigenti del Partito e della sua base. Biagio De Giovanni ha compiuto su queste pagine un’analisi di grande interesse sulla storia del Pci, sulle ragioni della sua grandezza e sulle cause della sua fine. La tesi e il suo svolgimento costituiscono una sollecitazione ricca, anche per chi non la condivide per intero. Egli individua, con acutezza e anche con qualche condivisibile originalità, le produzioni culturali che hanno formato l’élite che ha diretto il Pci. Essa è infatti un’élite composta socialmente e culturalmente come in nessun altro partito comunista. Basti vedere per il confronto, quello del Partito comunista francese. Ma in quella formazione culturale c’era anche dell’altro e, in primo luogo, il debito riconosciuto, anche con qualche civetteria, a quel realismo politico di una tradizione molto forte nel Paese, che va da certo Rinascimento al Risorgimento di Cavour. Il peso attribuito alla tattica, alla relazione tra partiti, la centralità riposta nelle istituzioni non sono solo il portato di una raffinata cultura politica, sono anche la spia di una mancanza di centralità politica attribuita al conflitto di classe e ai suoi soggetti, appunto, a ciò che spunta ogni volta nella concretezza della contesa fuori da essa e che guarda a un orizzonte esterno al capitalismo. D’altro canto, il rapporto tra il partito e la società è stato così intenso da dar luogo a quel sentimento che Biagio De Giovani chiama significativamente “una malinconia”. Una malinconia per quella ricchezza di umanità andata perduta con la sua fine. Ma questo rapporto sarebbe stato impossibile senza la persistenza della scintilla del ’21, senza la convivenza del realismo della pratica politica della direzione del partito con l’orizzonte della rivoluzione e del superamento del capitalismo in esso inscritto. Oggi vediamo bene, dopo la sua demonizzazione, la forza dell’ideologia. Ed era proprio lì dentro che stava la doppiezza. L’Urss era una potenza in campo, ma anche la società post-rivoluzionaria e il mito che da essa si era formato. Nei gruppi dirigenti essa è entrata prevalentemente per la via del realismo, delle relazioni internazionali. La conferma potrebbe venire da una constatazione. Diversamente da tutti gli altri partiti europei, nel Pci a difendere più a lungo il legame con l’Unione Sovietica è stata la componente che, seppur impropriamente, è stata a volte chiamata socialdemocratica. Basti pensare a un leader come Giorgio Amendola, mentre proprio quella più radicale, nel linguaggio qui proposto rivoluzionaria, ne ha proposto e riproposto la rottura. Basti pensare al processo che ha dato vita al manifesto. Nella base del partito, l’Urss è entrata come mito, prima l’ottobre, poi Stalingrado, poi il sostegno ai movimenti antiimperialisti e anticolonialisti. Continuo a pensare che il deficit di ricerca sulla rivoluzione in Occidente e in particolare in Europa, e la mancanza di una centralità attribuita al conflitto di classe hanno contribuito a precludere la critica necessaria al modello dell’Unione Sovietica e al distacco da essa. Il distacco, infatti, sarebbe stato necessario, tanto in ragione delle libertà e della democrazia deprivata, quanto in nome della penuria di socialismo esistente in quei partiti, cioè in ragione della costruzione di una nuova prospettiva di liberazione da alimentare in tutta Europa. La doppiezza, questa è la tesi che propongo, anche se la so controcorrente, la doppiezza esistita nel Pci, che è stata sostanzialmente un’ambiguità non risolta, ha svolto un ruolo positivo. Ha funzionato come lievito alla sua crescita e al suo radicamento nella classe operaia, nel popolo e nella società italiana. Dentro e fuori il Pci è stato così possibile per le realtà impegnate su questo fronte interloquire con tutti i movimenti, con tutti i fruttuosi revisionismi ideologici o culturali, che sono venuti crescendo a partire dagli anni Sessanta, nei marxismi critici, nel femminismo, nell’ecologismo. Non la sconfitta della stagione della grande riforma e neppure lo scioglimento del Pci hanno generato da soli l’agonia della politica a cui stiamo assistendo. Questa è prodotta in primo luogo dalla mutazione genetica, definizione lombardiana, che hanno subìto le istituzioni del Movimento operaio e il partito per primo. La fine del Pci vi ha certo contribuito e indagarne le ragioni è dunque necessario. L’unilaterale perdita della doppiezza, con lo spegnimento della scintilla di Livorno, ne è stata a sua volta, una causa fondamentale. L’assalto al Palazzo d’Inverno andava di sicuro sottoposto al revisionismo promosso dalle nuove frontiere critiche, aperte sul capitalismo contemporaneo e suscitato dalle elezioni delle emergenti soggettività critiche, ma la sua sostituzione con Palazzo Chigi, la sostituzione della rivoluzione con il governo, è andata nella direzione opposta ed è stata la fine di una grande storia.

«Quando hanno sostituito il Palazzo d'Inverno con Palazzo Chigi è finita la storia del Pci». La scintilla della rivoluzione russa è stata rinnegata per governare a tutti i costi. L'ex segretario di Rifondazione Fausto Bertinotti ricorda, racconta, rimpiange. E distribuisce stroncature. Carmine Fotia su L'Espresso il 26 gennaio 2021. Cosa resta? «Rimane quel sentimento che Biagio De Giovanni chiama significativamente una malinconia. Una malinconia per quella ricchezza di umanità andata perduta con la sua fine, la storia di quei milioni di uomini e donne la cui vita è cambiata grazie a quelle lotte, come cantava Giorgio Gaber: “Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”. Perché racconta bene cosa è stato il Pci in Italia: prim’ancora che storia di gruppi dirigenti e strategia è la storia di un popolo, è il quarto stato di Pellizza Da Volpedo in marcia verso il Sol dell’Avvenire».

Bertinotti: "Sono comunista ma la speranza è Papa Francesco". Il rifiuto dell'attualità, il dialogo con il mondo cattolico e con la desta, lo sguardo rivolto a Joe Biden e l'ammirazione per Papa Francesco. Il "nuovo" Pantheon del comunista Fausto Bertinotti. Maria Scopece, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. “Non parlo dell’attualità, da tempo mi astengo dal commentare i fatti dell’attualità. Parlo solo di cultura politica”. L’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti è netto e categorico, la crisi del governo Conte, le instabilità della maggioranza alla quale partecipa anche il Partito Democratico, erede di quello che un tempo era il più importante Partito Comunista dell’occidente, non entreranno nella nostra chiacchierata che sarà, invece, un viaggio attraverso i ricordi e il presente del Presidente, con un’incursione nell’attualità di oltre oceano.

Il 21 gennaio del 1920 il XVII congresso del Partito socialista italiano si concluse con la scissione della componente comunista e la nascita del Partito comunista d’Italia. A 100 anni di distanza, secondo lei, qual è stato il contributo maggiore del Partito Comunista all’Italia?

"Io direi “i contributi” dei comunisti alla storia d’Italia, sono tanti e tutti rilevanti. Prima di tutto il PCI è stato il primo partito organizzato che si oppone al fascismo, il primo e l’unico per un lungo periodo. I comunisti danno un contributo in qualità e quantità rilevantissimo, seppur non esclusivo, a tutta la clandestinità e poi a tutta la resistenza con le brigate Garibaldi che insieme alle brigate Matteotti e quelle di origine cattolica hanno costituito il nerbo della lotta contro il nazifascismo".

E dopo la guerra?

"Dopo i comunisti italiani sono, in occidente, gli unici comunisti che hanno partecipato alla stesura della Carta costituzionale, un punto di novità nella cultura costituzionalista moderna e contemporanea, tanto che viene definita una costituzione democratica per distinguerla dalle costituzioni liberali che le avevano precedute. Nel secondo dopoguerra il contributo dei comunisti nei sindacati, nelle camere del lavoro, nel partito è stato quello prima di difendere l’assetto costituente negli anni della grande repressione centrista, per darle un’idea abbiamo avuto 50mila processati, e poi nella rinascita nel movimento di riforma che dall’opposizione caratterizza tutti gli anni ’70".

E quali sono stati i limiti, invece, del PCI.

"Il suo limite è non avere, in quest’ultimo ciclo, letto attentamente come si doveva il carattere rivoluzionario dei movimenti che stavano nascendo nel biennio 68-69 quando la grande storia del Partito Comunista Italiano incontra la novità che a partire da Praga non riesce giù a leggere".

Secondo lei oggi c’è ancora spazio per le idee comuniste?

"Sì, c’è spazio perché il capitalismo finanziario globale, cioè il nuovo capitalismo, è ormai sottoposto a una critica dal basso e dall’alto. Pensi a gli ultimi movimenti statunitensi. Le idee di critica al capitalismo che sono le ragioni per cui sono nati i partiti socialisti e comunisti sono assolutamente attuali. Quello che non è attuale è il partito che è finito nel ‘900".

Forse è per questo che non ci sono state grandi celebrazioni per cento anni dalla nascita del PCI?

"Bisogna avere lucidamente presente che il ‘900 è finito, è stato un secolo grande e terribile, iniziato con l’ottobre del ’17 e finito con un fallimento delle società dell’est e con la sconfitta del movimento operaio in occidente nell’ultimo biennio del secolo scorso. C’è una cesura che spiega storicamente perché non si può dare l’attualizzazione di quella grande storia".

Ma lei si definisce ancora comunista?

"Sì, certo".

Quando è stata l’ultima volta che ha avuto un comportamento che l’ha fatta riconoscere come comunista?

"Anche questa mattina, sempre. Mi basta commentare un fatto per riconoscermi comunista, non saprei commentare senza gli occhiali della cultura del movimento operaio".

Nella sua carriera politica lei è stato un uomo del dialogo. Nel 2006 fu uno dei primi leader di sinistra a partecipare ad Atreju, in un dibattito con l’allora segretario di AN Gianfranco Fini. Come fu accolto dal popolo dei giovani della destra?

"Con molta cordialità, e pure venivamo da scontri molto aspri, molto duri. Ci fu una calorosa accoglienza alla quale sono rimasto sempre grato".

Come fu accolta questa la scelta del dialogo con la destra da ambienti di sinistra a lei più familiari?

"Come mi è successo in molte occasioni, dalla critica allo stalinismo, al giudizio sulle foibe, alla non violenza, con un dibattito aperto… non sono un uomo che tende al consenso generalizzato, quindi sono abituato al contrasto delle idee e penso sia fruttuoso. Anche in quell’occasione ci fu una discussione importante con diversità di posizione molto nette".

Anche il dialogo, anche con il mondo cattolico, è stato parte della sua storia politica. In questi ultimi anni è avvicinato a Comunione e Liberazione. Come mai?

"Non ho mai smesso di guardare al mondo cattolico, negli anni ’60 dopo il Concilio Vaticano II ho incontrato i giovani cattolici con cui ho fatto seminari e dibattiti. Poi tutta la storia sindacale è stata palestra di confronto con il sindacalismo cattolico, con i preti operai e il movimento operaio di origine cattolica. Basti pensare all’incontro con Solidarnosc. L’incontro con Comunione e Liberazione è parte di questo cammino ininterrotto, non saprei pensare la politica senza il dialogo con i cattolici".

Qual è la sua opinione su Papa Francesco?

"Credo che oggi sia il più grande contributo che si può leggere nel nostro tempo a favore dell’umano".

Anche a favore delle classi operaie?

"Se scegli di difendere l’umanità non si può che partire dalla dignità del lavoro".

Ma secondo lei, nella stagione degli smart-job, ha ancora senso parlare di la classe operaia?

"Sì ma è cambiata, come in passato del resto. Pensi che per mezzo secolo la classe operaia è stata caratterizzata dal conflitto tra operai specializzati e operai comuni. Oggi siamo nel mondo investito dalla precarietà, dalle nuove figure del lavoro dalla logistica ai rider, passando anche per le popolazioni lavorative industriali che sono sempre più esposte alla precarietà".

La precarietà è la cifra dei nostri tempi.

"Esatto. Basti pensare che ai giorni nostri si continua a discutere sulla possibilità di prolungare il blocco dei licenziamenti. Se non è precarietà questa…"

Secondo lei oggi esiste ancora una coscienza di classe?

"La frantumazione sociale, i processi di isolamento sono il prodotto storico di questo tipo di capitalismo, del suo processo di individualizzazione e di mercificazione. È la nuova cifra del capitalismo. La coscienza è un processo di costruzione non è immediato. Tutte le forme di aggregazione oggi sono in crisi. È il post moderno. Ora il problema è la ricostruzione delle identità collettive. Rispetto a questo vi è un deficit generale nella cultura e nella politica per cui queste realtà sono spesso nude e sole. Queste coscienze si risvegliano quando sono attraversate da un movimento. Guardi a quello che è successo negli USA, quando c’è una rivolta contro il razzismo, contro la violenza della polizia che esplode, rincontra i movimenti femministi e ne circuita le lotte operaie in difesa dei diritti sociali. È quella forma di lotta che dà un’impronta di costruzione a nuove coscienze collettive. E quando si produce dà luogo a moti che esplodono improvvisamente".

Come sono esplosi negli Stati Uniti.

"I movimenti hanno seminato e hanno determinato una lettura completamente diversa del Partito Democratico, precedentemente sconfitto perché considerato elitario. Questa volta così non è stato per Joe Biden. In primo luogo perché si è lasciato attraversare dai movimenti che avevano preso forma nella società civile. Le ultime vicende dell’assalto dei partigiani di Trump rendeva fisicamente evidente cosa rischiavano gli USA. Quindi la reazione ha portato alla vittoria di Joe Biden, si spiega in primo luogo con il rifiuto di Trump. La risposta è stata necessaria e utile".

Però resta il problema, per i democratici, di coprire la distanza che si è creata con la classe operaia.

"La distanza tra democratici e operai non c’è solo nella cintura della ruggine ma nel profondo degli Stati Uniti d’America. Infatti un uomo importante nella cultura dei democratici come Robert Reich, ex ministro del lavoro del governo Clinton, ha detto che o Biden prende di petto le grandi ricchezze accumulate negli USA con gravi conseguenze sociali oppure non ce la farà. Paul Auster ha detto che Biden ha difronte una sfida per affrontare la quale dovrebbe avvicinarsi alla classe operaia e allontanarsi da Wall Street".

Secondo lei è possibile?

"Certo che sì".

Domani è il 27 gennaio, il giorno in cui si ricordano le vittime della Shoah. Le popolazioni ebraiche sono state vittime di violenze anche nei regimi sovietici.

"La Shoah costituisce un punto inamovibile nella costruzione della coscienza moderna. Il mondo dopo Aushwitz non ha più potuto essere uguale a quello precedente.

Il precipizio, in un certo periodo dello stalinismo, c’è stato ma era una forma drammatica di avversione e aggressione di tutto ciò che non stava dentro l’impianto che lo stalinismo aveva eretto a sistema. Valeva lo stesso per la chiesa ortodossa, per le forme di dissenso, per le minoranze sociali, civili e anche per gli ebrei, colpiti come un corpo non integrabile totalmente nel regime stalinista. A questo aggiungo che i leader bolscevichi della rivoluzione, in grand parte per lo meno, erano ebrei e anche Karl Marx aveva qualche eredità ebraica. Io, nel secondo dopoguerra, ne ho conosciuto tanti di leader operai bolscevichi di origine ebrea".

La sinistra italiana e il mondo operaio hanno fatto i conti con questa storia?

"Direi da mezzo secolo. In Italia non solo la presenza di dirigenti ebraici nel partito comunista italiano ma l’attenzione alla cultura ebraica è stata sempre rilevante. A meno, certo, di non confondere la solidarietà della battaglia del popolo palestinese e la critica con le politiche dello stato di Israele con forme di antisemitismo, il cui collegamento secondo me è del tutto improprio e inaccettabile".

Ma l’anima riformista e democratica del Pci è un’illusione postuma. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. Caro direttore, Non ho mai chiesto di poter intervenire nel dibattito qui inesausto sulla vicenda della sinistra italiana perché è scritto in una lingua con cui non ho dimestichezza. Naturalmente le ragioni inibitorie risiedevano principalmente altrove, e cioè nel sincero senso di inadeguatezza che provo alla sola idea di maneggiare questioni tanto complicate nel contraddittorio con persone di tanta scienza e così profonda dottrina, le molte che si sono esercitate nella discussione che questo giornale ha offerto all’interesse dei propri lettori. Ma appunto: non era quella timidità a implicarmi nell’inerzia. Era il timore, direi la certezza, di non comprendere e di non essere compreso. Latineggiando: la certezza che nun se capimo. Ma sforo anche quest’altro filtro, vagheggiando che magari possa interessare quel che si dice il punto di vista diverso, come quello del personaggio venuto da chissà dove e che affetta competenza su come si prepara una faraona ripiena mentre la sua cultura gastronomica è ristretta ai globuli di naftalina. “E se anticomunista io sono, tale non per ragionamento io sono, ma perché democratico”. Questa contraffazione del famoso apoftegma saviniano (“E se ateo io sono, tale non per ragionamento io sono, ma perché cristiano”), serve a spiegare l’origine di quel diverso punto di vista: l’idea che la sinistra comunista e postcomunista si sia indotta nel percorso democratico compromettendone la dirittura, mentre l’immagine che essa promuove di se stessa è esattamente opposta, quella del partito e della tradizione la cui essenza ha conferito profilo democratico a un percorso altrimenti affidato a un destino esclusivo di malgoverno, di sfrenatezza egoistica contro l’utilità sociale, di cospirazione autoritaria. La famosa doppiezza del comunismo italiano – ora riguardata come contrassegno di contraddittoria irresoluzione, ora celebrata come sapiente veicolo di accreditamento dell’istanza socialista nel milieu capitalistico – dopo cent’anni continua, nella rappresentazione comune, a rinviare al bivio tra rivoluzione e riformismo: ma è, almeno per alcuni, una rappresentazione falsa, posta a dissimulare la realtà diversa di una tradizione che sa di non poter essere compiutamente democratica se non rinunciando completamente a riaffermarsi per quel che è, e ciò mentre fa le viste di dover essere completamente se stessa per essere compiutamente democratica. Sostenere, come qui ha sostenuto Fausto Bertinotti, che il Pci, nello scenario repubblicano, diventa il partito della Costituzione, significa alludere all’idea – a mio giudizio profondamente sbagliata – che quel partito abbia prescelto la soluzione costituzionale come possibile strumento attuatore delle cosiddette conquiste sociali: in pratica, con la regola costituzionale disposta a essere adoperata per il raggiungimento con criterio democratico della meta socialista. È un’impostazione discutibile non solo perché trascura il ruolo del Pci nella formulazione del fatto costituzionale (che non è una faccenda precostituita cui il comunismo italiano si subordina per pervertirla in una versione cannibalizzata meno sgradevole per le masse popolari): è discutibile perché postula l’idea che l’Italia si sia affaticata sulla via democratica nella misura in cui il Pci faticosamente tentava di praticarla in direzione socialista, mentre è semmai vero il contrario perché – almeno secondo questo punto di vista diverso – l’incompiutezza democratica del Paese trovava nel lavorìo del Pci una causa effettiva piuttosto che un’ipotesi di soluzione. Non c’era un Paese incertamente democratico perché non abbastanza socialista: c’era un Paese sempre involuto in quell’incertezza perché il partito che contribuiva a determinarla s’era fatto pienamente costituzionale. La rinnegazione dell’essenza paradisiaca del socialismo sovietico e asiatico ha fatto posto alla storia – intendo dire alla leggenda – di un nobile esperimento vernacolare che magari non avrà ancora raggiunto la meta, ma almeno ha detto democrazia dove c’era pericolo che imperasse il verbo opposto della disuguaglianza, dello sfruttamento, dell’individualismo classista. Questa – purtroppo, mi tocca aggiungere – continua a essere l’imperdonabile descrizione del ruolo comunista nello sviluppo italiano, con lo spaccio dell’assunto secondo cui la non piena affermazione di quella sinistra spiega il nostro difetto democratico: mentre, al contrario, da questo differente angolo di osservazione si ritiene che quella sinistra abbia tratto alimento da quel difetto e l’abbia alimentato. E che (siamo in centenario sciasciano) con meno democrazia quella sinistra sarebbe arrivata ancora più in alto.

Il comunismo è morto di libertarismo. Ma ci ha lasciato una "mentalità sinistra". "Io comunista? Non posso permettermelo, non ho i mezzi". Tutti conoscono questo fulminante aforisma di Ennio Flaiano. Marco Gervasoni, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. «Io comunista? Non posso permettermelo, non ho i mezzi». Tutti conoscono questo fulminante aforisma di Ennio Flaiano. Ma il grande scrittore scomparve nel 1972, quindi l'idea che i comunisti togliattiani fossero cosi legati al popolo come la leggenda vuole, ci sembra appunto una leggenda. Nata soprattutto negli ultimi anni, quando gli eredi del Pci tra barche a vela, Capalbio, scarpe fatte a mano, dimore rigorosamente entro la ztl e salotti, hanno sposato le cause di tutte le minoranze possibili ed immaginabili, tranne quella della maggioranza delle classi popolari. Certo, oggi l'élitismo e lo snobismo anti popolare della sinistra sono tanto evidenti da finire per essere macchiettistici, ma essi non ci appaiono in contraddizione, anzi piuttosto in logica continuità con l'eredità comunista. Quando Flaiano vergò quel pensiero, aveva infatti probabilmente in mente tutta la borghesia intellettuale, che fin dal 1948 aveva sposato la causa del Pci. Togliatti, molto sapientemente, non aveva nessuna intenzione di costruire un partito operaista e popolare come il cugino francese: doveva essere un Principe gramsciano che attraeva le fasce dirigenti, le élite della società, a cominciare dalla borghesia intellettuale. Certo, statistiche alla mano, il Pci fino agli anni '80, cioè fino alla sua fine, restò il partito maggiormente votato da operai e classi popolari. Ma attenzione. Prima di tutto, esse sostenevano anche altri partiti non di sinistra, la Dc ovviamente, ma pure il Msi, i monarchici e persino i repubblicani. Il solo partito borghese era quello liberale. Inoltre, un conto erano i militanti comunisti, ben altro i vertici e i parlamentari, in cui la componente popolare ed operaia cominciò a diminuire a partire dagli anni '50. Come aveva dimostrato Robert Michels all'inizio del Novecento, i partiti che si battevano per l'emancipazione del proletariato erano guidati da borghesi, e il Pci non fece eccezione. Infine terza ed ultima considerazione, dobbiamo ricordare che il comunismo, e il marxismo che ne è l'ideologia di base, sono fortemente ideocratici, e per loro non contano tanto le classi popolari, gli operai e i contadini reali, in carne ed ossa, quanto quelli ideali. Il proletariato serve ai comunisti solo come mezzo per attuare la rivoluzione, quindi esso è apprezzabile solo se si fa guidare dal partito: il popolo non comunista o addirittura anti comunista era infatti definito lumpen proletariato, teppa, massa reazionaria; oggi gli eredi del Pci dicono «populista». Quindi che il Pci di Berlinguer, egli stesso peraltro non formatosi nelle miniere sarde, fosse un partito solidamente proletario, operaio e contadino e che poi i suoi eredi l'abbiano tradito, fa parte della storia ecclesiastica interna al Pci, ma non è un giudizio storico accettabile. Anzi, negli anni '70, e proprio con Berlinguer, il partito comunista andò incontro a una sua prima importate mutazione, che lo rese molto simile per tanti versi all'attuale Partito democratico. La colse appieno Augusto del Noce, nel suo libro Il suicidio della rivoluzione, quando scrisse che il destino del Pci consisteva nel diventare un partito radicale di massa, cioè una forza politica borghese, pronta a battersi esclusivamente per i diritti individuali, anche e soprattuto delle minoranze, come in quegli anni stava facendo appunto Marco Pannella, e che ciò lo avrebbe allontanato dalle classi popolari. Oggi la profezia delnociana si è realizzata appieno. Ma attenzione, non fu un tradimento del marxismo: fu il suo inveramento, come scrive del Noce. Il destino del marxismo come filosofia della storia non poteva che essere quello di diventare una sorta di liberal-libertarismo. Con un caveat, visibile soprattutto oggi in tempi di pandemia. Il Pd erede del Pci sarà pure diventato radicale di massa (massa molto esigua tra l'altro) ma la sua idea di potere e di Stato resta fortemente autoritaria, pedagogica e moralistica, come da tradizione comunista. Come non sentire nella lussuria da lockdown che anima molti dirigenti del Pd (anche se non tutti provenienti dal Pci) gli echi dei passaggi berlingueriani sull'austerità? Così nel celebre discorso di Berlinguer agli intellettuali riuniti, o per meglio dire convocati, al Teatro Eliseo il 15 gennaio 1977: «per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l'esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». Sostituite lockdown con austerità, e vi sembrerà di sentire parlare Zingaretti o Speranza. Cento anni dopo Livorno, il partito comunista è morto, la sua ideologia forse, almeno in Italia, ma come oggi mai ci sembra trionfare qualcosa di persino più subdolo: la mentalità comunista.

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 30 gennaio 2021. È gentilissimo, va detto. Leale, tanto una brava persona. E però ogni volta che inciampa esita traccheggia, tira fuori dalla tasca un foglietto da leggere, non trova l'uscita e qualcuno deve prenderlo per il gomito - per di qui, segretario - Nicola Zingaretti lascia dietro di sé l'eco malinconica di un vuoto. Come un ologramma, sorride e svanisce. Una vita da mediano, a recuperar palloni, il segretario del Pd è quanto di meglio la tradizione comunista abbia oggi da offrire. La sinistra, diciamo: quel che resta del Pci. L'Italia ebbe Berlinguer, oggi ha Zingaretti. Sono i tempi che fanno i leader. L'ala democristiana, invece, porta la partita. La vecchia banda Dc - il ceppo moderato, popolare - governa. Renzi ha i gruppi parlamentari, Franceschini ha la sua agenda personale, i suoi piazzati dappertutto, e sogna il Colle. Gentiloni è un momento preso in Europa ma presente, se serve. Torna subito. Enrico Letta dal bell'esilio francese chiosa, attende rivincita e cresce i ragazzi nelle scuole di alta politica. Tabacci solerte costruisce gruppi, Mastella si pavoneggia strategico al centro, Prodi osserva e consiglia. Mattarella al Quirinale, insieme ai suoi consiglieri arrivati dalla Dc degli anni Ottanta, ha in mano le sorti del Paese. Tutti democristiani. Per risalire all'ultimo governo guidato da un ex comunista bisogna tornare a D'Alema: era il 1998, ventitre anni fa. Ventitre: il ministro degli Esteri Di Maio aveva 12 anni, era in seconda media. Poi ci furono: Prodi nel 2006, Letta, Renzi, Gentiloni dal 2013 al 2018. Tutti eredi della Balena Bianca. La costola popolare dell'amalgama mal riuscito ha vinto, non c'è dubbio. L'amalgama, obiettivamente, non ha funzionato. Oggi possiamo dirlo con certezza. Dall'acqua e l'aceto che avrebbero dovuto formare il partito nuovo, Democratico, gli elementi si sono separati fisicamente. I corpi parlano sempre. I corpi dei leader raccontano la storia com' è. Fra i quattro minuti del discorsetto di Zingaretti e i ventisette del soliloquio di Renzi, nel salone delle Feste al Quirinale, a fine consultazioni, ci sono gli abissi di un futuro incognito. Probabile, se si vota, che sia la destra estrema, urlante ma così empatica, di Giorgia Meloni. L'empatia. Parlare alla pancia. Torniamo al Colle, fermo immagine. Renzi, che ha fatto il governo Conte 2 e lo ha disfatto, ha in mano il pallino della crisi: parla a braccio, gigioneggia come sempre, governa la conferenza stampa come fosse il conduttore del talk show, chiama i giornalisti per nome, prego cara cosa volevi dire? Reduce dall'Arabia Saudita, bisogna pur mantenere la famiglia, pecunia non olet, forse poteva parlare meno ma si vede che era ancora nella scia emotiva della conferenza agli amici emiri, poi si sa che fanno a pezzi gli oppositori politici ma nessuno è perfetto, la politica è cinica, si scansino le mammole. Zingaretti subito dopo - agli antipodi, scarno - rifiuta le domande, legge un foglietto dove parla di sfide di rilancio, di giovani e riforma della legge elettorale. La gente, da casa, ha perso il lavoro. Gli adolescenti prendono antidepressivi e i loro nonni vorrebbero vaccinarsi. Retorica? Demagogia? Insomma. Zingaretti galleggia come un sughero, la natura non gli ha dato lo spunto della punta, il pallone deve darlo a chi finalizza il gioco. Nessuno fra chi guarda la tv capisce bene come sia stato possibile che il leader del Pd sia diventato Chance il giardiniere, Giuseppe Conte, che era stato in origine indicato da quelli in odio al "partito di Bibbiano". Entrano inoltre a suo sostegno la factotum di Berlusconi, Maria Rosaria Rossi, e la leader del sindacato della destra a braccio teso, l'Ugl, Renata Polverini. Comprensibile confusione dell'elettorato medio, già in gran parte astenuto dal voto e in futuro chissà. A sinistra, intanto. Il gran visir Bettini richiamato in servizio dalla Thailandia consiglia il suo ultimo pupillo dal grande letto del monolocale a Roma Nord, Veltroni si occupa giustamente di Sami Modiano e dell'Olocausto. D'Alema pare che ogni tanto dia un colpo di telefono. La nuova generazione? Prudente. Bellissimo il discorso di Peppe Provenzano ai funerali di Macaluso, ultimo migliorista del Pci - quelli più vicini ai socialisti. Sugli encomi funebri non ci sono rivali. Il sito sui 100 anni del Pci è tutto un necrologio. Omaggio a Nilde Iotti. Ottima la sezione intitolata "come eravamo". E le donne, a proposito di Nilde? Una parola andrebbe spesa, sì, per le due protagoniste di questi giorni. Una si chiama Tatjana Rojc, senatrice. Eletta in Friuli perchè c'era bisogno nelle liste di un'esponente della minoranza slovena. Docente, intellettuale. Grande esperta di Boris Pahor, tecnici autorizzati a googleare. «Mi sacrifico per il bene del paese», ha detto passando ai Responsabili. Ho chiesto il permesso al segretario, ha aggiunto. Zingaretti ha firmato la giustifica, come a scuola. L'altra è Valentina Cuppi, sindaco di Marzabotto, presidente del Pd. È salita al Colle con la delagazione. Era dietro a Orlando, Marcucci e Del Rio, panico fra i fotografi che devono mandare la foto con didascalia. Vabbè. Del posto concesso alle donne, a sinistra, parliamo un'altra volta. Ora poi vanno molto le figure tecniche, auspicate di sesso femminile. Bisognerebbe ricordare, e i vecchi democristiani lo sanno, che i tecnici non esistono: sono sempre portatori di interessi, nel migliore dei casi di peculiari idee di mondo. Ma torniamo a quel che resta della sinistra. Torniamo al sito sui cento anni dalla nascita del Pci, tutto un necrologio e un omaggio alla memoria. Nella sua più recente intervista si può ascoltare Marisa Rodano, cento anni compiuti la settimana scorsa: «Alla sinistra, oggi, manca del tutto una classe dirigente». Tantissimi auguri, Marisa.

Concita De Gregorio per "la Repubblica" l'11 febbraio 2021. Alla voce "coerenza" quello che segue è un dettaglio, mi rendo conto, e d' altra parte in politica la coerenza è una palla al piede che impedisce i virtuosismi a cui stiamo assistendo in cinemascope. Comunque. Siccome succede di incagliarsi nelle minuzie, mentre Grillo garantisce che Draghi è «uno di noi» e Salvini cita il Financial Time , mi sono concentrata sulle elezioni suppletive di Siena. Una piccola cosa, l'ho detto. Pare che "da Roma" qualcuno abbia pensato di candidare Giuseppe Conte per il seggio lasciato vacante da Pier Carlo Padoan, chiamato alla guida di Unicredit. Conte, nel frattempo indicato come prossimo leader del M5S - o almeno di una parte, vedremo in quante comete si articolerà la galassia - sarebbe il "suggello" dell'alleanza fra Pd e grillini. Apriti cielo.

Zingaretti: le alleanze «si decidono nei territori». Simona Bonafè, segretaria del Pd toscano: «Una candidatura calata dall' alto» offenderebbe i talenti del Pd senese. Luca Lotti propone per esempio Caterina Orlandi, figlia dell' ex compagna di David Rossi, capo della comunicazione Monte dei Paschi morto in circostanze misteriose assai. Non lo vogliono, un romano nato pugliese. Vogliono uno del posto. Ora andiamo a Pier Carlo Padoan, che lascia il seggio. Nato a Roma da famiglia piemontese, cresciuto a Milano e poi nel mondo, già consigliere economico di D' Alema e Amato, in seguito ministro dell' Economia con Renzi e Gentiloni. Quando Renzi lo chiamò al governo era a Sidney per lavoro. Non fu, mi pare, candidato a Siena come espressione della Val d' Orcia. Ma va bene, torniamo al voto sulla piattaforma Rousseau. Era tanto per dire.

Zingaretti, su "Repubblica" sinistra elitaria e radical chic. (ANSA il 30 gennaio 2021) "Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo". Così il segretario del Pd Nicola Zingaretti su Facebook critica duramente l'articolo dal titolo "La sinistra timida pilotata dagli eredi della Dc". "Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale - prosegue Zingaretti riferendosi ai giudizi su Matteo Renzi - è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta".

Fulvio Abbate per Dagospia il 4 febbraio 2021. Alla fine, è stato un “uomo senza qualità”, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, a spezzare le brame di un piccino mondo di sinistra convinto d’essere intoccabile. In possesso dell’occorrente completo di ciò che altrove, dove esserlo è invece possibile, consente una dimensione da veri “radical chic”. Il medesimo mondo che nel corso dell’ultimo ventennio, svanito il Pci, ha ritenuto necessario dare a se stesso un proprio seguito professionale invidiabile e benefit ulteriori, forte dell’applauso perfino di signore acefale, ma in ogni caso di buone letture, sicure che Veronica Lario fosse “una compagna” e, più recentemente, che Melania nutra in cuor suo politico disprezzo per Trump. Dunque, anche lei una femminista quasi come, un tempo, Carla Lonzi. Che imbarazzante candore, supportato, s’intende, dall’Invece di Concita De Gregorio. Invece, con un semplice tweet, Zingaretti, amorfo ex quadro cittadino della Fgci di via dei Frentani, così ai loro occhi, ha abbattuto un castello di carta profumata d’Eritrea che nel tempo, anche grazie all'amico Walter, era convinto della propria esistenza, meglio, della propria invidiabile persistenza. Un’enclave forte dei propri riti: serate a sgranocchiare cipster davanti al Festival di Sanremo in case di edificanti narratori, ad applaudire recital letterari alla Basilica di Massenzio, a mostrarsi ai vernissage del MaXXI, anche questo affidato a una signora del medesimo contesto, Giovanna Melandri, a pronunciare frasi da anime belle, davvero ispirate, dagli studi di Radiotre di Marino Sinibaldi, un altro cooptato ancora nel circoletto. Con la sua reazione a calco, nel cupio dissolvi della sinistra romana (dunque, italiana) il negletto (sempre ai loro occhi) segretario Pd ha preso di fatto a calci un mondo che, sempre nel tempo, era convinto della proprio inscalfibile invincibilità. E dei propri benefit. Che pena e imbarazzo per l'autore stesso, la difesa d’ufficio di Michele Serra corso a supporto morale della collega di “Repubblica”. Chissà quante persone dovrà consolare in questi giorni Veltroni, che di quel mondo è stato garante e principe dispensatore di opportunità. La verità? Magari, si potesse vivere nei lussi da radical chic nel desolante mondo della sinistra italiana, dove, nel migliore dei casi, è concessa una dimensione da condomini.  Resta però che grazie a Zingaretti da oggi siamo tutti finalmente liberi!

Da liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno.

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. Nemmeno la promessa di «rimediare» allo sgarbo con i posti da sottosegretario placa la rivolta delle donne del Pd, escluse dai tre ministeri che Draghi ha assegnato ai democratici. E la proposta di Nicola Zingaretti accontenta forse solo chi è in odore di nomina. «Nel partito esiste un problema di leadership, non di riconoscimento di ruoli, incarichi o di competenze specifiche non valorizzate, lettura questa che sconta un principio di subalternità», arringa l' onorevole dem Marianna Madia. «Il problema del partito è un correntismo esasperato che condiziona le scelte e riduce ogni passaggio alla ricerca di un equilibrio burocratico».

Concorda la collega Lia Quartapelle: «Ha ragione, il problema che emerge è la leadership. E anche la politica, aggiungo».

Realista Lucia Bongarzone, responsabile Pari opportunità del Pd: «Le aspettative stavolta erano alte, per questo il tonfo è ancora più pesante. La domanda è una: nel partito c' è una cultura di genere o no? Perché altrimenti le belle proposte restano carta straccia».

Indignata Simona Bonafè, eurodeputata e segretaria regionale Pd Toscana: «La scelta del gruppo dirigente del Pd di indicare solo figure maschili è una ferita aperta, uno sfregio alla storia della sinistra».

Sostiene Cecilia D' Elia, coordinatrice nazionale Donne democratiche, che «il tema non è un risarcimento per la scelta di aver nominato ministri uomini, ma è a monte: bisogna chiedersi perché le figure apicali del Partito democratico sono tutte maschili». E rilancia: «Se Andrea Orlando lascerà la vicesegreteria, spero possa esserci una donna al suo posto».

La senatrice Francesca Puglisi sposta la prospettiva: «Tra noi donne del Pd c' è poca capacità di promuovere una leadership femminile e molta timidezza a mettersi in gioco per cariche di primo piano, anche perché è difficile raccogliere il sostegno delle altre intorno ad una candidatura». Con inevitabili conseguenze: «Spesso il rinnovamento è stato fatto sulla pelle delle donne, tant' è che è difficile trovare in Parlamento politiche di lungo corso». Per lei, che nel Conte 2 era sottosegretario al Lavoro - ministero dove adesso è approdato Orlando, esaurendo la quota dem - sarebbe pronta la nomina a sottosegretario con delega allo Sport.

«Il problema bisognava porselo prima», ragiona l' onorevole Alessia Morani, sottosegretaria uscente allo Sviluppo economico. «Ci sono tre ministri per il Pd? E allora discutiamone, pretendiamo che uno sia donna, non che stiamo zitte e poi ci stupiamo se gli uomini si sistemano tra loro».

La ferita nei dem. Niente ministre e il Pd si spacca, la protesta: “Nessuna sottosegretaria”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Non era – a quanto pare – un capriccio, una nuvola passeggera, un malumore temporaneo: le donne del Partito Democratico stanno agitando il Partito Democratico. Una ferita partita venerdì sera, quando il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato la squadra di governo. Otto ministri su 23 donne, due di Forza Italia, una della Lega, una di Italia Viva, una del Movimento 5 Stelle, tre tecniche (le uniche con portafoglio). E nessuna del Pd. Una “ferita” l’hanno definita in tante. Ormai si parla di rivolta. E quindi è partito l’hashtag #graziemaNOgrazie, a indicare il probabile rifiuto, una specie di scintilla rivoluzionaria, a ricoprire incarichi da sottosegretarie o viceministre, un rimedio che a quanto trapelato il segretario dem Nicola Zingaretti aveva pensato di adoperare per placare la rivolta. “E se tutte le donne di centrosinistra cui verrà chiesto di fare da sottosegretarie, o viceministre, dicessero: ‘No, grazie, come se avessi accettato’, e cominciassero a costruire qualcosa per uscire dall’angolo davvero?”, aveva scritto sui social la giornalista Annalisa Cuzzocrea. Una proposta che non è passata inosservata. Dei problemi della leadership femminile nella politica ne aveva parlato in un’intervista a questo giornale la scrittrice Giulia Blasi. Il tema è scottante, e anima il Partito in queste ore. La portavoce della conferenza delle donne democratiche si riunisce oggi. La portavoce Cecilia D’Elia parla di “ferita”, l’ex Presidente della Camera Laura Boldrini sposa la campagna: “Non può bastare qualche posto da sottosegretaria”; l’ex ministro Livia Turco definisce la mancanza di donne dem “frutto di una logica maschilista e correntizia”; Debora Serracchiani fa notare come si tratti della prima volta “in cui nella delegazione di governo del Pd non c’è una rappresentanza femminile”; l’ex ministra Roberta Pinotti parla di una “sconfitta per tutti”; “un’assenza che stride molto” per Rosy Bindi; un “problema di coerenza per la presidente della commissione femminicidio Valeria Valente, Lia Quartapelle parla di occasione mancata per dare un “esempio sulla parità”, caustica Giuditta Pini: “Per il women new deal c’è tempo compagne, oggi no, domani neanche, dopodomani sicuramente, lo metteremo in un odg”. La sollevazione insomma è quasi unanime. Dal Nazareno si sforzano a far sapere che le scelte sui ministri dem – Dario Franceschini alla Cultura, Andra Orlando al Lavoro, Lorenzo Guerini alla Difesa – sono state di Palazzo Chigi e Quirinale. Zingaretti “si è speso moltissimo per le donne”, ha detto Valentina Cuppi, presidente del Partito dal febbraio 2020. Niente da fare: la crepa è partita. La protesta potrebbe esaudirsi nel rifiuto ai sottosegretariati – nel dibattito non manca chi fa notare che si tratti comunque di ruoli rilevanti. La questione centrale della polemica è il ruolo di leadership delle donne nel partito, non quote rosa ma argomento di subalternità complicato dal correntismo esasperato, come ha scritto l’ex ministra Marianna Madia su Huffington Post. Tutto un paradosso per chi promuove e si erge a paladino di diritti e parità mentre il centrodestra porta nell’esecutivo tre donne e sempre nella destra, in Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni siede sullo scranno più alto ed è la politica più influente in Italia. Matteo Renzi, l’ex segretario e fuoriuscito dal partito, che ha fondato Italia Viva, nel governo rappresentato alle Pari Opportunità da Elena Bonetti, gira il coltello nella piaga del Pd che “non riesce a proferire una parola credibile sul tema femminile”.

Concita De Gregorio umilia il Pd e Zingaretti: "La più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna, le donne le porta Silvio". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno. 

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Una ferita che brucia, e non solo alle donne del Pd. Ascoltando la lista dei ministri, è stato Zingaretti per primo a rendersi conto che a sinistra erano tutti maschi. Lasciato al buio da Draghi, il segretario dem sperava che - al netto delle manovre dei capicorrente - la sua richiesta di rispettare «il valore della differenza di genere» avanzata in Direzione, avrebbe trovato orecchie più attente. E invece lo spettacolo offerto al Paese di una destra che premia le donne (due su tre Fi, una su tre la Lega) e di un centrosinistra che le mortifica (quattro uomini su quattro, Leu inclusa) è stato devastante. Una valanga rosa s' è staccata dal Nazareno, obbligando Zingaretti alla contromossa: se sui sottosegretari il premier darà libertà ai partiti, lui indicherà solo donne. E pazienza per i delusi: citofonassero ai capibastone, nel frattempo diventati ministri. «Non credo accadrà, ci sono troppi aspiranti. Se però lo facesse, sarebbe un bel segnale: la prova che Nicola vuol finalmente far saltare gli equilibri di corrente», reagisce Lia Quartapelle, una delle deputate più infuriate. «Il nostro statuto prevede metà delle cariche per le donne », spiega. «Se ci fossimo comportati come Forza Italia oggi avremmo un governo con dieci ministre e tredici ministri, in linea con la rappresentanza di genere a livello europeo ». Perciò «Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti». Concorda Laura Boldrini: «Occorre scardinare l' assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento». Ma per Marianna Madia la questione è un' altra: «Le donne del Pd hanno un problema di leadership, che non si ottiene per concessione, ma si esercita con battaglie sulla linea politica. Se la risposta sarà la spartizione di qualche posto da sottosegretario resteremo al punto di partenza. Forse peggio », taglia corto l' ex ministra, criticando la gestione "machista" della crisi. È questo il nodo da sciogliere: le donne dem che vanno avanti solo per cooptazione, sperando di arrivare prima e meglio. «Si sono illuse che funzionasse essere "in quota" a capicorrente o inserite per prossimità, anziché per competenza o consenso », annuisce Debora Serracchiani. E guarda adesso: «Per la prima volta il Pd al governo non ha una rappresentanza femminile». E la colpa «non è semplicemente degli uomini, anzi», spiega Anna Ascani: «Spesso ci siamo relegate in correnti a guida maschile per comodità. Abbiamo lasciato che fossero gli uomini a "indicarci" in ruoli di responsabilità secondari. Abbiamo schernito chi di noi provava ad emanciparsi. Forse quanto è successo ci permetterà di cambiare passo». Brutalizza Monica Nardi, ex portavoce di Enrico Letta, segnalando «la corsa al tweet sdegnato delle donne pd, tutte inquadrate in correnti rette da uomini, cooptate senza un voto che è uno. Fatela la politica, scalateli i partiti, prendeteli i voti». Eccolo il punto: è arrivato il momento di esporsi, di lanciare la sfida alla segreteria, quando sarà. Prendendosi nel frattempo il posto di vice-leader che Andrea Orlando dovrà lasciare e poi uno dei due capigruppo in Parlamento. La controffensiva verrà lanciata già domani, alla Conferenza delle democratiche convocata «per decidere come agire». Perché «la misura è colma», sbotta la presidente Valentina Cuppi, scagionando però Zingaretti: «Il più scontento è lui, la scelta dei ministri l' ha fatta Draghi». Che ha pure suscitato «la profonda delusione » della rete "Donne per la salvezza". Mentre nel Pd resta l' amarezza per un' esclusione che, segnala Orfini, «non è un problema solo delle donne, ma di tutto il partito».

Zingaretti, su "Repubblica" sinistra elitaria e radical chic. (ANSA il 30 gennaio 2021) "Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo". Così il segretario del Pd Nicola Zingaretti su Facebook critica duramente l'articolo dal titolo "La sinistra timida pilotata dagli eredi della Dc". "Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale - prosegue Zingaretti riferendosi ai giudizi su Matteo Renzi - è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta".

Fulvio Abbate per Dagospia il 4 febbraio 2021. Alla fine, è stato un “uomo senza qualità”, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, a spezzare le brame di un piccino mondo di sinistra convinto d’essere intoccabile. In possesso dell’occorrente completo di ciò che altrove, dove esserlo è invece possibile, consente una dimensione da veri “radical chic”. Il medesimo mondo che nel corso dell’ultimo ventennio, svanito il Pci, ha ritenuto necessario dare a se stesso un proprio seguito professionale invidiabile e benefit ulteriori, forte dell’applauso perfino di signore acefale, ma in ogni caso di buone letture, sicure che Veronica Lario fosse “una compagna” e, più recentemente, che Melania nutra in cuor suo politico disprezzo per Trump. Dunque, anche lei una femminista quasi come, un tempo, Carla Lonzi. Che imbarazzante candore, supportato, s’intende, dall’Invece di Concita De Gregorio. Invece, con un semplice tweet, Zingaretti, amorfo ex quadro cittadino della Fgci di via dei Frentani, così ai loro occhi, ha abbattuto un castello di carta profumata d’Eritrea che nel tempo, anche grazie all'amico Walter, era convinto della propria esistenza, meglio, della propria invidiabile persistenza. Un’enclave forte dei propri riti: serate a sgranocchiare cipster davanti al Festival di Sanremo in case di edificanti narratori, ad applaudire recital letterari alla Basilica di Massenzio, a mostrarsi ai vernissage del MaXXI, anche questo affidato a una signora del medesimo contesto, Giovanna Melandri, a pronunciare frasi da anime belle, davvero ispirate, dagli studi di Radiotre di Marino Sinibaldi, un altro cooptato ancora nel circoletto. Con la sua reazione a calco, nel cupio dissolvi della sinistra romana (dunque, italiana) il negletto (sempre ai loro occhi) segretario Pd ha preso di fatto a calci un mondo che, sempre nel tempo, era convinto della proprio inscalfibile invincibilità. E dei propri benefit. Che pena e imbarazzo per l'autore stesso, la difesa d’ufficio di Michele Serra corso a supporto morale della collega di “Repubblica”. Chissà quante persone dovrà consolare in questi giorni Veltroni, che di quel mondo è stato garante e principe dispensatore di opportunità. La verità? Magari, si potesse vivere nei lussi da radical chic nel desolante mondo della sinistra italiana, dove, nel migliore dei casi, è concessa una dimensione da condomini.  Resta però che grazie a Zingaretti da oggi siamo tutti finalmente liberi!

Annalisa Cuzzocrea per "la Repubblica" il 16 febbraio 2021. Neanche lo shock di ritrovarsi tutti maschi al governo riesce a suscitare nelle donne Pd un moto d'orgoglio, la voglia di far pagare a caro prezzo l'onta subita. Dal partito tutto, non solo da loro: ostaggio di capicorrente che hanno azzerato la rappresentanza femminile, restituendo l'immagine di una forza retrograda e antistorica. «Un gravissimo problema a cui troveremo una soluzione», ha promesso ieri Zingaretti. Aggiornata a oggi per le conclusioni, il primo round della Conferenza delle democratiche finisce con un nulla di fatto. Consolidando la spaccatura tra chi, per fare un favore al segretario, preferisce annacquare il dibattito, buttandola sui posti di sottogoverno che vanno presi per attutire il colpo; e chi invece spinge per allargarlo, convocando subito la Direzione: il danno prodotto è troppo grave, non si può far finta di niente. Appartiene alla prima scuola la portavoce Cecilia D'Elia, zingarettiana di ferro. Dopo aver spiegato che «il pluralismo delle correnti ha prevalso, mettendo tra parentesi la questione di genere: una terribile sottovalutazione, una ferita, una battuta d'arresto», D'Elia ha incalzato sulle compensazioni. «Bisogna che qualcosa succeda subito. Non per risanare la ferita, o compensare l'assenza. Il tema della sottosegretarie o viceministre non è questione di risarcimento, non ci accontentiamo delle retrovie. È un dato di fatto, ci sono donne competenti, il Pd dia un segnale subito e netto su questo». Senza dimenticare gli incarichi di partito, dove però, attenzione, i maschi non devono fare un passo indietro, sono le donne che devono affiancarsi. «Non ho chiesto le dimissioni di Orlando, a cui rinnovo la mia stima», precisa infatti D'Elia, reduce da una ramanzina dei vertici. «Però penso che ci possa essere una vice donna, come aveva fatto Zingaretti all'inizio con la vicesegreteria duale di Orlando e De Micheli». E comunque se ne potrà parlare, propone, alla prossima assemblea. Parole che però fanno indignare Titti Di Salvo, numero 2 della Consulta che - come pure Marta Leonori e tante altre lì dentro - pensa che «quanto è accaduto è una sconfitta e un errore», altro che battuta d'arresto. «In un partito che ha tre luoghi per le donne - Conferenza, Dipartimento pari opportunità, Women new Deal - e zero ministre qualcosa non torna. Si dimostra l'inefficacia di questo assetto». Specchietti per le allodole, mentre i maschi si prendono tutto. «Noi abbiamo bisogno di ingaggiare una battaglia politica negli organismi di vertice per riaffermare l'idea di un Pd contemporaneo fatto di donne e uomini», che devono vedersi entrambi. Perciò va convocata la Direzione. Per parlarne tutti, guardandosi in faccia. Come ha fatto ieri, sfogandosi, l'ex ministra De Micheli. «Io al Mit ho sempre lavorato a testa bassa, senza preoccuparmi di intessere rapporti che potessero proteggermi», ha raccontato. «E forse è stato uno sbaglio. Quando mi hanno attaccato, anche nel mio partito, nessuna di voi mi ha difesa. Mi sono sentita sola». Perché nel Pd non è solo la leadership femminile che manca, come denuncia Anna Ascani. A mancare, fra le donne dem, è innanzitutto la sorellanza.

Annalisa Cuzzocrea per "la Repubblica" il 16 febbraio 2021. Marisa Rodano ha compiuto 100 anni e crede ancora nella lotta. Nei simboli, anche, lei che è nata nello stesso giorno del Partito comunista italiano, il 21 gennaio del 1921. Lei che - l'8 marzo 1946 - scelse la mimosa per festeggiare la festa internazionale della donna, un fiore povero, ma una pianta robusta, tenace. Risponde al telefono a ora di cena, l'ex dirigente del Pci, del Pds, dell'Unione donne italiane. Antifascista, partigiana, parlamentare, prima donna a ricoprire l'incarico di vicepresidente della Camera, Rodano ha 5 figli, 11 nipoti e un'idea precisa del perché il Pd non abbia nominato neanche una ministra: «Io penso che ci sia, anche a sinistra, per lo meno in una parte della sinistra, l'idea che in realtà più donne ci sono, meno posti ci sono per gli uomini».

Ancora? E soprattutto, perché?

«Perché malgrado tutto resiste quella vecchia convinzione per cui le donne debbano occuparsi della famiglia, dei bambini, di un'area solo parapolitica».

Siamo rimasti agli anni '50?

«Stupisce anche me, ma devo dire che l'impressione di chi vede le cose da fuori - attraverso i giornali, la televisione, stando chiusa in casa come devo fare io ora - è questa».

Ma non crede ci sia stata una regressione? Lei ha rivestito ruoli importanti, in Parlamento, nel partito ...

«Non tanto importanti, mi sono sempre occupata delle donne». ( Dalla cornetta arriva un sorriso, un cenno di ironia).

Ci sono state per anni troppe riserve indiane, a sinistra, luoghi specifici dove confinare il pensiero femminile?

«Per parecchio tempo gli uomini hanno pensato che le donne potessero occuparsi solo di materie particolari, relative ai bambini, alla famiglia, alla cura, non delle stesse cose di cui si occupavano loro».

Hanno paura?

«Non è che hanno paura, hanno la convinzione che spetti a loro».

Cosa bisogna fare, quindi?

«Continuare a battersi per una equilibrata presenza delle donne in tutti i luoghi in cui si decide. Una presenza paritaria».

Per anni si è affidata questa missione alle quote rosa.

«È una parola che non mi è mai piaciuta. Non vorrei si continuasse a parlare di quote, bisognerebbe concentrarsi sul fatto che le donne devono avere gli stessi diritti, le stesse opportunità. In tutti questi anni mi sono battuta per questo. E penso anch' io che le donne del Pd dovrebbero rinunciare a tutti i posti di sottogoverno che saranno loro offerti, fare un gesto simbolico forte che rimetta tutto in gioco».

Non pensa che questa situazione sia anche generata da una sorta di timidezza delle donne in politica. Dalla certezza di poter ottenere qualcosa solo mettendosi dietro al capo - uomo - di turno?

«Non credo questo. Penso che le donne siano state negli anni troppo occupate, impegnate a sostenere la loro attività sia dentro che fuori dalla famiglia. Una vita faticosa, difficile».

I tempi in cui si riteneva che il loro unico dovere fosse fare figli sono finiti, o no?

«C'è stato un avanzamento dal punto di vista intellettuale, ma da quello pratico, se guardiamo alle misure concrete per la vita quotidiana, che consentano di conciliare lavoro e famiglia, non è stato fatto quasi niente».

È una sconfitta della sinistra?

«Oggettivamente lo è. E non credo dipenda dalle debolezze delle donne, ma dal tipo di politica che i dirigenti del Pd hanno condotto negli ultimi anni e nelle ultime settimane».

Che consiglio darebbe alle donne che fanno politica nel Pd?

«Di continuare a battersi per avere il ruolo che spetta loro e per ottenere quelle misure che rendono possibile la conciliazione lavoro-famiglia. Perché se non vanno avanti le politiche che servono a tutte le donne, non vanno avanti neanche le donne in politica».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 15 febbraio 2021. Donne si, donne no. Poche, troppo poche in questo governo. E la pezza dei vertici del Pd che ora, giurano, le indicheranno in massa per il ruolo di numeri due non copre il buco, anzi. C' è sconcerto a sinistra, gode la destra di Giorgia Meloni. Un loop da cui non si esce, ammette la scrittrice Lidia Ravera, nume tutelare di una sinistra femminista rispetto a cui, pure, ha preso posizioni scomode, scandalizzando i perbenisti e anticipando i tempi. E chi ricorda solo il romanzo di formazione «Porci con le ali» si è perso una vita di battaglie in prima linea, compresa l' ultima, quella, fino al 2018, di assessore alla Cultura e alla Politiche giovanili nella Regione Lazio guidata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti.

Signora Ravera, cosa pensa della componente femminile nel nuovo governo Draghi?

«In questo sono radicale. Ho postato su Facebook il mio pensiero in proposito: le donne in politica dovrebbero imporre la loro diversità, le loro differenze. Invece vengono assunte per cooptazione e per somiglianza agli uomini. "Le uome" , le chiamo io».

Sarebbero, esattamente?

«Parlano la lingua maschile e non impongono mai la visione femminile del potere e della politica».

Vuol dire che anche stavolta dovevamo aspettarcelo un governo con poche donne?

«Personalmente vado oltre il contingente, mi pongo al di là delle scelte di questo Governo. Le donne del Pd sono state usate e poi emarginate. Non è neppure una interpretazione politica del famoso tetto di cristallo. E non si illudano di rappresentano le altre donne, non è così. Sono invece omogenee, fanno gli stessi giochi maschili che peraltro sono giochi che le vedono perdenti. Dovrebbero imporre un modello capace di aprire uno spazio diverso sul mondo. Non è che io voglia estirpare il maschile ma non credo in un nostro ruolo subalterno, non credo che ci dovremmo accontentare. Dovremmo essere equipollenti. Vado oltre le logiche della destra e della sinistra».

L' attualità è un luogo angusto?

«L'attualità è figlia di una mancata rivoluzione che ci poteva far raggranellare qualche briciola di dignità politica ma non è riuscita, perché queste geometrie seguono regole di una professione che non è delle donne. Non esiste una storia che possa raccontare le donne in politica».

Come siamo arrivate a questo punto?

«Le donne non hanno fatto irruzione nel Palazzo imponendo la loro diversità. Sono entrate e basta».

Un quadro senza speranze?

«No credo invece che la speranza ci sia, prima o poi l' irruzione ci sarà, rispettando altri tempi, altre lingue, altri riguardi. Imparare il gioco maschile è impossibile e masochistico».

Forse, se all' epoca del femminismo si fosse osato di più?

«Sull' onda del femminismo montante, forse sbagliando, non ci siamo mai misurate con la politica parlamentare del Palazzo, tranne sparuti casi. Negli anni Settanta la politica si combatteva fuori, mai affrontata come impegno professionale della rappresentanza. Esistevano altre parole d' ordine. Ora siamo in stallo».

E la speranza?

«La rivoluzione femminista è un fiume carsico, s' interrompe, s' inabissa, torna. Le donne che non hanno più coscienza di loro stesse devono passare il testimone ai movimenti che non tornano indietro, movimenti lontani da giochi lobbistici e narcisisti».

In che cosa sbagliano le donne in questo gioco?

«Gli uomini fanno rete e le donne no. Ogni posto dato a un uomo è una vittoria della specie perché si tratta di un posto tolto a una donna. Dunque non cedono nulla con cavalleria».

Questo in politica ma in altri ambiti la situazione è differente?

«La percentuale di peso è la stessa anche in mondi diversi. Prendiamo i premi letterari. Lo Strega, contiamo quante donne l' hanno preso rispetto agli uomini...»

Eppure era un premio inventato da una donna, condotto da una donna e per decenni tenuto in mano da un' altra donna.

«Appunto, le donne non fanno rete e non si proteggono a vicenda. A parte questo, esistono due soggetti non uno solo e non uno inferiore all' altro. Un principio che nella sua semplicità viene coniugato con emancipazione».

E si torna così alla rivoluzione di cui sopra?

«Se le donne si arrabbiassero e decidessero veramente forse la politica italiana potrebbe cambiare, addirittura si riuscirebbe a colmare la distanza che separa la politica dai cittadini comuni. La lingua delle donne, i loro tempi, la loro complessità potrebbe veramente travolgere le regole del gioco. Come vede è tutto molto più complesso di questo governo e della situazione interna al Pd».

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 febbraio 2021.

Luciana Castellina, perché la sinistra non ha portato nessuna donna al governo?

«La deluderò, ma non sono mai stata una grande appassionata delle quote femminili: non è che cambia la società se una donna s' infila nei ruoli maschili».

Cosa intende dire?

«Potremmo anche occupare più posti in un governo, e ovviamente sono favorevole, ma se non modificheremo leggi, codici e orari, abbattendo il modello maschile che ci viene spacciato come neutro, non ne verremo a capo».

La politica non è fatta anche di simboli?

«Il 70 per cento delle donne manager non fa figli. Il problema quindi è fare in modo che tutte le donne che assumono responsabilità possano anche fare i figli e gestire una famiglia».

Come definirebbe la sua posizione?

«Semplicemente non m' interessa essere uguale all' uomo, l' ho capito tardi».

Non la pensava così da giovane?

«All' epoca tendevo a nascondermi le tette pur di non fare capire che ero una donna».

Come lo spiegherebbe oggi a una giovane?

«Con il fatto che una bella era spesso considerata anche stupida».

Quando ha cambiato idea?

«Grazie alla generazione di mia figlia, che ha fatto una battaglia per il femminismo della differenza. Loro hanno capito che serviva portare la nostra diversità al potere».

Il fatto che ci siano solo 8 donne su 23 come lo valuta?

«Non è bello, perché non ci hanno pensato, nemmeno Draghi. Ma non lo ritengo decisivo. Vantiamo un credito storico. E quindi allora bisognerebbe stabilire il 75 per cento della presenza femminile per risarcire la discriminazione millenaria, come affermava il codice della Repubblica popolare cinese, anche se poi se lo sono dimenticati».

È un' Italia più maschilista di un tempo?

«Al contrario. Gli uomini sono molto in crisi, anche perché le donne hanno imparato a pretendere che la comunità porti il segno della loro presenza».

Non ci sono troppi femminicidi?

«Non c' è dubbio, ma sono la prova della crisi di cui le parlavo, e infatti muoiono le donne che hanno osato fare una scelta di autonomia».

L' uomo ha perso potere?

«Ha perso autorità, non potere. Pensi al Me too, un tempo nessuno avrebbe creduto alla donna. I manager di Hollywood invece sono stati tutti condannati per molestie».

Lei è la prova che una donna di valore può arrivare in alto.

«In tante ce l' hanno fatta, anche meglio di me. A tutte è costata fatica, dolore, lotta, e infatti ne portiamo le cicatrici. Guardi la von der Leyen, fa un lavoro pesantissimo e ha sette figli, perciò l' ammiro».

La destra le donne però le ha nominate ministre.

«È una cosa che mi lascia freddina».

Le piace il governo Draghi?

« Sono molto scontenta. Alla transizione ecologica c' è uno che approva la politica dell' Eni, siamo al greenwashing, alla vanteria ambientale. Un fisico che si occupa di nanotecnologie, poi, non un ecologo».

Non va giudicato con i fatti?

«Mi fa impressione che ci sia Giorgetti allo sviluppo economico, un uomo vicino alla Confindustria, che vuole lo sblocca-cantieri: costruzioni e produzioni anche se nocive».

Draghi voleva pure sua figlia Lucrezia Reichlin nel governo.

«È candidata ogni volta e poi non accade mai».

Perché?

«Forse perché vive a Londra».

Insomma, boccia Draghi?

«È un uomo intelligente, e in Europa conduce le mie stesse battaglie. Ma mi sarei aspettata di più».

Su Dagospia il 15 febbraio 2021. Luciano Capone 14 feb: Molte donne di centrodestra si fanno strada e si affermano perché sono abituate a dover lottare per vincere stereotipi e pregiudizi, spesso alimentati anche da donne di sinistra. Un esempio è questo confronto dialettico tra Mara Carfagna e la Costamagna.

Selvaggia Lucarelli per "Libero" il 15 febbraio 2021. I momenti tv Eva contro Eva sono sempre imperdibili. E memorabile è stato anche lo scontro tra la conduttrice disperata Eva Longoria Costamagna e la sexy maliarda ex ministra Eva Mendes Carfagna. Ne è uscita, a pezzi, la Costamagna. Che ha sbagliato tutto. E più precisamente, punto per punto:

a) Le argomentazioni tipo "perchè dopo che lei è diventato ministro ha cambiato immagine?" non sono materiale con cui incalzare l'avversario Carfagna. Ovvio che ‘sta donna non poteva fare il ministro conciata come quando regalava il vaso cinese ai telespettatori. Era argomento da battuta, che andava detto per prenderla amorevolmente per i fondelli, non per costruirci un'accusa.

b) Io fossi stata la Costamagna, avrei applicato il metodo Carfagna. Un po' di trucco in meno, il boccolo più floscio, la gonna più lunga. Se sei lì a mettere i puntini sulle i in stile maestrina e l'argomento principe è che Mara è una showgirl promossa a ministro, l'abito fa il monaco. E alla prima occhiata, non devi sembrare tu, la showgirl che parlava col comitato e cantava "O sole mio" con Magalli.

c) La mimica facciale non è un'opinione. E la comunicazione non verbale neppure. La Costamagna faceva più smorfie di Jim Carrey in Ace Ventura-l'acchiappanimali tradendo un certo nervosismo, mentre la sfinge Carfagna incassava impassibile, sorrideva, deglutiva e poi lanciava il missile.

d) Di fronte a una che dice con piglio sicuro: "Non ho mai rinnegato il mio passato", c'è poco da stare a inzigare ulteriormente. L'avesse detto la Melandri, quando Briatore giurava di averla avuta ospite a casa sua a Capodanno a Malindi, l'avesse ammesso che faceva i trenini con Fede e la Zardo a suon di Brigitte Bardot Bardot, sarebbe stata più simpatica a tutti, la sora Giovanna.

e) Perchè dire calendario sexy se non era calendario sexy? Perchè andare a cercare lo stereotipo da camionista per svilire l'avversario? Cioè, aveva scheletri nell'armadio ben peggiori ‘sta Carfagna. Poteva dirle "Lei ha condotto un programma con Davide Mengacci!" e l'annichiliva. Altro che calendario sexy.

f) Che razza di domanda è "È più simpatico Berlusconi o è più simpatico Santoro?". Che minchia di domanda è "Berlusconi è brutto e vecchio?"? E perché non "preferisci mamma o papà" allora? "Meglio Branko o Paolo Fox"? o "Come nascono i bambini? o "Meglio al latte o fondente"? Ma chi gliele ha scritte le domande? Moccia?

g) Diciamocelo. La battuta sui pettegolezzi riguardanti la Costamagna e Santoro è stata un piccolo capolavoro di strategia bellica. Qui l'abilità della Carfagna è stata memorabile. La sensazione è questa: il modo in cui Mara l'ha appoggiata, buttata lì, quasi sussurrata ad occhi bassi, lascia intendere che era il suo asso nella manica. Che tutto sommato se la sarebbe anche risparmiata, se l'altra non fosse ricorsa ai colpi bassi. Della serie: io non la uso, ma se mi costringe, so' cazzi della bionda.

h) Che razza di difesa è : "Quando sono andata a lavorare con Santoro io ero già giornalista"?. Allora l'altra quando è stata nominata ministro era già consigliere regionale, se la vogliamo mettere su questo piano. Anzi, se la vogliamo mettere su questo piano, la Toffanin è giornalista, Iva Zanicchi ha scritto un romanzo e Sara Tommasi è laureata alla Bocconi.

i) Sempre a proposito di espressioni facciali. La vera notizia è che la Carfagna non ha più l'occhio sgranato di chi ha appena visto Boateng senza mutande. S'è ammorbidita. La Costamagna, invece, ha la faccia di quella che ha visto Telese, senza mutande. Della serie: meglio zitella.

E comunque, io una spiegazione sull'accaduto ce l'ho. Il programma su Rai 3 è una copertura. Luisella Costamagna è in realtà il nuovo ufficio stampa di Mara Carfagna. Neanche Lucherini, dopo tutto quello che s'è detto di lei, sarebbe riuscito a trasformarla, dopo sei minuti di intervista su Rai 3, in una gradevole, pacata, ragazza normale. Manco se l'avesse intervistata Mollica, ne sarebbe uscito un ritratto migliore. E come ha scritto qualcuno sul mio twitter: la Costamagna è alla deriva, come tutte le Costa, di questi tempi.

 Francesco Borgonovo per "la Verità" il 16 febbraio 2021. Fuori, nel mondo reale, deflagra la rabbia dei gestori degli impianti sciistici, dei ristoratori, degli albergatori, di gente che, nell'arco di una notte, si è vista letteralmente togliere il pane di bocca dai sedicenti esperti del governo. Ma dentro, nella bolla ideologico-mediatica in cui abita la gran parte dei politici e degli intellettuali italiani, il problema è uno solo: l'esclusione delle donne del Pd dai ministeri. La senatrice Monica Cirrinnà, ieri, ha avuto un accesso d'ira: «Siamo un partito che predica bene sui temi femministi ma poi razzola male, un partito falsamente femminista», ha detto a Un giorno da pecora. «Perché? Per debolezza assoluta e per egemonia degli uomini. Questo è un partito di correnti al cui capo ci sono tutti maschi». Pure le Signorine Grandi Firme progressiste della carta stampata sono sul piedino di guerra. Invocano addirittura una sorta di sciopero delle donne, come nella Lisistrata di Aristofane. Invitano cioè le esponenti del Pd a rifiutare il ruolo di sottosegretario qualora venisse loro offerto come compensazione. L'idea del contentino l'ha avuta Nicola Zingaretti: per ovviare al tremendo problema della sottorappresentanza femminile nell'esecutivo, ha proposto di indicare «solo donne» per i posti da sottosegretari. Una trovata che non si sa se sia più ridicola o più triste (del resto l'ha escogitata il segretario dem), che le intellettuali sinistre hanno respinto al mittente. «C'è da augurarsi che le donne del Pd, ammesso e non concesso che si offra davvero loro l'occasione per farlo, non si prestino ancora una volta a interpretare il più sessista dei modi di dire, accontentandosi di essere grandi sottosegretarie dietro a grandi ministri», tuona Michela Murgia dalle colonne della Stampa, «perché preferire la mediazione alla lotta è un lusso che si può permettere solo chi ha già voce in capitolo». Su Repubblica, invece, Concita De Gregorio ringhia non solo all'indirizzo degli uomini oppressori, ma perfino contro le donne che sono rimaste in «silenzio alla vigilia delle decisioni prese dai maschi bianchi che governano la specie» (perché, fossero neri cambierebbe qualcosa?). Secondo Concita, lo stesso termine sottosegretarie, in quanto composto da «sotto» e «segretarie», dovrebbe «di per sé suscitare diniego». Vedremo poi quante esponenti piddine saranno pronte a rinunciare a incarichi e prebende pur di tenere il punto e dare battaglia, ma che accettino o meno ci interessa relativamente. A irritare è, piuttosto, l'arroganza con cui la questione delle «democratiche al potere» sta rubando tempo ed energie, nonché spazio nel dibattito. Sul tema si è sentito in dovere di intervenire il sindaco di Milano, Beppe Sala, che manco a dirlo si è schierato sul lato delle vestali. A suo dire, le donne «hanno ragione. Arrabbiarsi è giusto. E una delusione». Il primo cittadino ha colto l'occasione per dire che lavorerà affinché «Milano diventi la città della parità». Certo, come no. La prima cosa di cui la capitale morale ha bisogno è più parità. Bar e ristoranti fanno la fame, il traffico è una catastrofe grazie alle innovazioni «verdi» del sindaco. Ma una bella spolverata di «diritti» renderà senz' altro la vita migliore a tutti. L'idea delle quote rosa ha raccolto anche un'altra adesione importante. Quella di Elena Bonetti di Italia viva, appena riconfermata ministro delle Pari opportunità e della Famiglia. Per la sua prima uscita ufficiale ha scelto proprio la questione femminile: «Sulle donne va fatto un passo avanti e vinta l'arretratezza italiana», dichiara a Repubblica. E annuncia «un pacchetto di misure per la parità, una sorta di Women act». A suo dire, «affrontare la questione femminile è prioritario». Ah, davvero? Viene il sospetto che forse una bella fetta di donne italiane, invece del Women act, preferirebbero la riapertura totale delle scuole, in modo da non dover farsi carico ogni santo giorno dei figli snervati dalla didattica a distanza e dei loro compiti. Supponiamo pure che molte donne - come del resto molti uomini - ritengano prioritaria la fine delle restrizioni, o l'arrivo di ristori decenti. O, ancora, un investimento una volta tanto efficace sull'occupazione. Tutto questo, però, passa in secondo piano, perché a dominare la scena è la «rappresentanza femminile». Il ministro Bonetti, già nel governo precedente, sembra essersi dimenticata di avere la delega alla Famiglia. Al di là di qualche parolina dolce, ripetuta anche ieri, per le famiglie italiane non ha fatto praticamente nulla di concreto. Non si capisce, poi, in che modo abbia portato a frutto la sua appartenenza al mondo cattolico (cosa di cui si vanta ogni volta, ribadendo di essersi formata negli scout). Se n'è stata tranquilla e beata nel governo più arcobaleno di ogni tempo, non ha fiatato per le iniziative di Roberto Speranza a favore dell'aborto facile, non ha certo protestato per la mordacchia che si vuole imporre tramite il ddl Zan. Però eccola qui, fulminea, a intervenire sul dramma delle donne piddine rimaste senza ministero. Intendiamoci: anche a noi dispiace che ci siano tre uomini del Pd al governo. Ma ci dispiace perché sono del Pd, non perché sono maschi. Il punto, infatti, sono le posizioni politiche che i ministri rappresentano, non gli interessi di genere. Soprattutto, non è garantendo posti di potere a qualche donna già potente e privilegiata che si risolveranno i guai delle donne comuni, quelle che - proprio come i maschi - devono faticosamente sopravvivere fra le macerie lasciate dai giallorossi. Se le donne del Pd vogliono maggiore rappresentanza, se la prendano. Facciano come Giorgia Meloni, smettano di lagnarsi e creino un partito, tanto per dire. Ma, sinceramente, dubitiamo abbiano l'umiltà di mettere da parte la superiorità morale che da sempre le caratterizza e di prendere esempio dalla destra. No, loro preferiscono restare dove sono, e fare le vittime allo scopo di ottenere qualche strapuntino. E mentre ministri, sindaci e segretari cianciano di quote rosa, le piste da sci restano chiuse, gli alberghi e i ristoranti vanno in malora, le partite Iva arrancano. E la crisi galoppa, fregandosene allegramente del sesso di chicchessia.

Da liberoquotidiano.it il 18 febbraio 2021. Vittorio Feltri affronta con i telespettatori di LiberoTv un tema prettamente femminile: "Oggi le donne sono in subbuglio perché sono state trascurate da Draghi in quanto il governo è composto prevalentemente da uomini. Io credo che le donne siano mediamente migliori degli uomini, lo dico per esperienza diretta. Per esempio nel mio giornale ci sono 7-8 donne che se la cavano molto meglio dei maschi: hanno più volontà, probabilmente hanno studiato meglio, e sono più tenaci e hanno e persino un fisico più forte. Questo lo devo dire perché l’ho sperimentato". "Ma questo concetto non riguarda solo il mondo del giornalismo, per esempio, alle università si iscrivono in prevalenza donne. Gli uomini sono meno numerosi e ottengono risultati più scadenti. Questo è un dato di fatto è statistico". "Poi se andiamo a vedere nelle professioni, nella professione medica, per esempio, le donne stanno eccellendo. Io per esempio ho una cardiologa che è primario al Niguarda, che è il maggiore ospedale di Milano, ed è un autentico fenomeno, forse anche perché non ho niente al cuore, ma con lei mi sono trovato bene e ho trovato un equilibrio che prima non avevo". "Anche mia moglie è in cura da lei ed è una donna di altissimo livello. Non solo, il suo reparto è costituito in prevalenza da donne che hanno imparato da lei che sono bravissime. Qualche anno fa soffrivo di diverticoli e mi sono rivolto a una donna che si chiama Perrone che nel giro di 15-20 giorni mi ha guarito, sono passati due lustri e non ho più neanche un sintomo. Dico queste cose perché servono a titolo di esempio". "Ma come mai in politica le donne non riescono ad eccellere? Il motivo è molto semplice: il mondo della politica è un mondo stupido, motivo per il quale gli stupidi fanno più carriera. Devo anche dire che le politiche italiane non svettano. Giorgia Meloni a parte non mi pare che ci siano altre fuoriclasse. Non mi sembra che ce ne siano molte che sono in grado di assumere posti di responsabilità". "Nel caso del governo Draghi c’è la Cartabia che è il ministro della Giustizia che è sicuramente una donna capace, una donna bravissima. Ma siamo a livello di eccezioni mentre tutte le altre donne che fanno la politica, la fanno senza avere attitudini particolari. Peraltro in politica vincono spesso i cretini e si vede che le donne non sono abbastanza cretine". 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 febbraio 2021. Le donne del Parlamento sono molto seccate poiché nella formazione del governo sono state trascurate. Non è falso che esse sono state snobbate da Draghi e anche dai partiti, e questo dimostra che il genere è ancora una questione d' attualità: favorisce i maschi mentre penalizza le femmine. Le quali nel mondo scientifico e della produzione in realtà eccellono e occupano giustamente posti importanti. Da quando l'istruzione universitaria è accessibile alle signore si sono aperti per queste orizzonti fino al secolo scorso impensabili. Tanto è vero che oggi le laureate e le laureande sono più copiose dei maschi, il che non può non avere ripercussioni sulla vita nazionale. Esemplifico. A Libero, il nostro giornale, lavorano parecchie ragazze (un tempo nelle redazioni erano eccezioni sopportate) e devo testimoniare che mediamente sono più brave (tenaci e talentuose) dei colleghi. Forse perché hanno studiato meglio, sono più fantasiose e dispongono altresì di un fisico forte. Non mi invento nulla, descrivo la realtà che ho sotto gli occhi ogni dì. Volendo essere generoso, affermo che, a parte le ovvie diversità anatomiche, tra un lui e una lei non vi sono differenze sostanziali. Un altro esempio che vi propongo. Negli ospedali le donne primeggiano per numero e perfino per capacità. Io, grazie al cielo, godo di discreta salute nonostante la non verde età. Tuttavia qualche volta ho bisogno di un "tagliando", come le auto vecchie. Ebbene, anni orsono soffrivo di diverticolosi. Un mio amico, pediatra insigne, mi consigliò di farmi visitare dalla dottoressa Perrone. La quale mi curò (non vi racconto il mio imbarazzo) e nel giro di un mese mi guarì. A distanza di un paio di lustri non patisco neanche un sintomo. Ancora. La mia cardiologa si chiama Giannattasio, primaria al Niguarda. Un fenomeno. È talmente capace da farmi impressione. Non sbaglia un colpo, come il mio cuore. Da notare che fumo quanto un assassino. A questo punto nelle discussioni con gli amici sostengo senza temere smentite che le dame sono più preparate e attente dei loro pari grado. Un' estrema annotazione riguardante il ramo ospedaliero: allorché qualcosa non funziona alla perfezione nel mio organismo, telefono alla mia amica Melania Rizzoli e lei mi fa la diagnosi a distanza azzeccandoci sempre. Un mostro. Ho scritto tutto questo allo scopo di fornire le prove che stimo le femmine senza riserve. E ciò spero mi consenta di dire che in politica, invece, tranne alcune eccezioni lodevoli (Giorgia Meloni si segnala la migliore), non svettano affatto. Certune sono autentiche asinelle e non sono in grado di aspirare a ruoli di rilievo. Sono cretine come gli uomini. Per cui vincono costoro che sono più abituati a gestire la loro stupidità.

Caso Concita, processo stalinista a Zingaretti. "Parla come Salvini, dica cose di sinistra". "Repubblica" schiera anche Michele Serra per distruggere il segretario dem. Paolo Bracalini, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. Su Nicola Zingaretti si è scatenata la macchina del fango di Repubblica. Il segretario del Pd si è macchiato di una colpa troppo grave per essere perdonata in nome dalla comune militanza politica. Zingaretti è infatti colpevole di aver risposto male a Concita De Gregorio, utilizzando per giunta un termine («radical chic») che secondo le firme del quotidiano di riferimento del Pd non doveva permettersi di utilizzare, tanto più con una donna, che nella misteriosa logica di sinistra sarebbe più grave rispetto a polemizzare con un giornalista maschio. Dopo la character assassination fatta dalla De Gregorio, che ha descritto Zingaretti come un incapace, «un ologramma», uno «che inciampa, esita, traccheggia, tira fuori un foglietto da leggere» e che non è neppure capace da solo di «trovare l'uscita del Quirinale», un mediocre che «lascia dietro di sé l'eco malinconica di un vuoto», il segretario del Pd ha reagito con un tweet altrettanto polemico verso la giornalista di Repubblica che lo ha demolito attaccandolo sul personale, descrivendolo come un inetto (mentre invece ha magnificato il ministro Provenzano, con cui collabora il figlio della De Gregorio). Zingaretti per questo è stato preso a botte nuovamente dalla giornalista, mentre Fabio Fazio lo teneva fermo a Che Tempo che fa. Poi si è aggiunto Roberto Saviano, un altro opinionista della stessa famiglia, che ha attaccato la gestione dei vaccini Covid nel Lazio, amministrato da Zingaretti, ormai bersaglio dei giornalisti «radical chic». Un termine che appunto ha usato lo stesso segretario del Pd, vincendo così un altro round di mazzate, stavolta da un altro senatore di Repubblica, Michele Serra, scomodato solo quando la pratica si fa seria. Serra ieri ha preso il trattore ed è passato su quel che resta della reputazione di Zingaretti accusandolo più infame misfatto concepibile da quelle parti: parlare come Salvini (o come un giornalista non affiliato al Pd, ugualmente riprovevole). Se Repubblica arriva a spiegare al segretario del Pd come utilizzare la lingua italiana per non sembrare un leghista e gli consiglia di rileggere quello che scrive come si fa con gli scolari poco svegli, significa che lo considera un incapace. Secondo il Tempo la lite Zingaretti-De Gregorio ha coalizzato le donne del Pd contro il segretario autore di una «vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra», per la solita questione dell'intoccabilità di una giornalista donna per giunta di sinistra. In effetti quasi nessuno si è levato, dal partito, per prendere le parti del povero Zingaretti trattato malamente da Repubblica. Solo Gianni Cuperlo è intervenuto confessando di aver trovato «davvero incomprensibile l'accento scelto da Concita De Gregorio per descrivere il tratto umano e politico di chi oggi, alla guida del Pd, si sobbarca una rotta tra le più complicate cercando ancora in queste ore di pilotare la crisi verso uno sbocco utile al paese». La segreteria Zingaretti non ha mai conquistato il cuore dei «radical chic», per usare un suo termine, della galassia dem, specie le redazioni amiche (cioè la maggioranza). Diversamente da segretari che hanno plasmato una generazione di giornalisti di sinistra come ha fatto Walter Veltroni, e a differenza anche di Renzi che in un primo momento aveva ai suoi piedi i «giornaloni», Zingaretti è stato sempre visto come un normalizzatore dopo la stagione personalistica renziana, un ritorno alla vecchia Ditta, in cui è cresciuto seguendo la gavetta tipica del funzionario Pci. «Tanto una brava persona», ma ci vuole un'altra tempra politica per conquistare i salotti che contano.

Estratto dell’articolo di Gianfranco Ferroni per “il Tempo” il 2 febbraio 2021. Non si placa la polemica nel Partito democratico, dopo il testo che Concita De Gregorio ha dedicato a Nicola Zingaretti. Il segretario deve sapere che molte tra le parlamentari dem sono contro lui: discutono animatamente, e la prima critica riguarda “il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra”. Ed è solo il primo gol per Concita. Poi: “Nicola deve ricordarsi che Concita sta pagando di tasca sua tutte le condanne per le querele a carico dei giornalisti de l’Unità, per la fine che è stata fatta fare alla testata fondata da Antonio Gramsci. Sono tutti scappati, Concita no. Almeno un po’ di rispetto ci vuole, per come è stata trattata”. Secondo gol per la De Gregorio. Ma non finisce qui, perché si arriva alla tripletta: “Nel partito si era parlato, e a lungo, della direzione di Rai3 proprio per Concita, sia per il suo valore professionale che per quanto sta patendo da anni per colpa nostra, ma inspiegabilmente quella nomina è stata affondata da qualcuno che sta sempre in mezzo a noi”. Alla fine, qualcuno dica a Zingaretti che i social è meglio lasciarli a chi li sa maneggiare, e dai grillini su questo tema può iniziare ad imparare. Un tweet sbagliato può rovinare anche chi guida un partito apparentemente tranquillo come quello dei dem. E se cominciano ad arrabbiarsi le parlamentari...

Michele Serra per "la Repubblica" il 2 febbraio 2021. Il segretario del Pd, per il suo stesso ruolo, è un riferimento importante per la parte (non piccola) di italiani che si sente di sinistra. Dunque anche per molti dei lettori di questo giornale. Proprio per questo mi ha molto colpito, nell' irritato post su Facebook contro Concita De Gregorio e il suo articolo su Repubblica , che Nicola Zingaretti abbia usato il termine "radical chic". Quel termine non aveva alcuna attinenza con l' articolo di De Gregorio (tra l' altro molto più severo con Renzi che con l' attuale reggenza del Pd) e nemmeno con la sua autrice, che lavora da una vita nell' ambito, un tempo molto pop, oggi comunque legato al senso comune del Paese, del giornalismo quotidiano. È stata direttrice dell' Unità , non di Ville&Casali. Ma soprattutto quel termine, che nel breve testo di Zingaretti suona come il vero capo d' imputazione, è schiettamente di destra. Da molti anni è largamente e impropriamente usato dalla destra - politici e giornalisti - per bollare di snobismo, di irrealismo, di classismo malcelato, chiunque abbia da obiettare qualcosa alla demagogia populista, sia esso un professore di liceo che difende la consecutio temporum o una comandante di nave che soccorre i migranti o un elettore urbano che vota secondo urbanità. Qualunque buona causa, secondo questa lettura rozza (e falsificante), è solo il vezzo ipocrita di persone viziate e annoiate. Anche una cosa un tempo considerata iper-popolare come la democrazia, secondo gli assalitori di Capitol Hill, è un inganno dell' establishment. È radical chic. Inventato mezzo secolo fa in un contesto molto specifico (la Manhattan degli artisti che flirtava, per moda, con l' estremismo delle Pantere Nere) dallo scrittore dandy Tom Wolfe (che era molto più snob dei suoi bersagli: ma questo è un altro discorso), il termine è diventato poi uno dei più abusati luoghi comuni, la classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre. È un poco come quando la sinistra, nei tempi ormai molto remoti della sua egemonia culturale, amava dare del "qualunquista" o del "fascista" a chiunque non appartenesse al proprio giro. Nel momento in cui anche il capo della sinistra italiana bolla di radical chic una giornalista anch' essa di sinistra, viene dunque da chiedersi: ma dove sono finite le parole "di sinistra"? La celebre invocazione di Nanni Moretti (D' Alema, di' qualcosa di sinistra!) è del 1998. Sono passati più di vent' anni: è una generazione. Molte delle parole vecchie, si sa, sono state ingoiate dalla storia, che le ha ruminate fino a farle sparire. Padroni e proletariato, per esempio, hanno un suono otto-novecentesco che le rende quasi impronunciabili, e anche se il loro oggetto (il dominio del capitale sulle persone) è palesemente ancora in essere, non le si usa più per le stesse ragioni per le quali non si portano più le ghette, o non si arano più i campi con i buoi. Il tempo passa e ci rimette in riga, come è normale che sia. Sono le parole nuove che evidentemente difettano, a sinistra, tanto che il linguaggio della destra ha un visibile, anzi udibile sopravvento nel discorso pubblico. La sconfitta culturale della sinistra è perfettamente leggibile in questa lenta, inesorabile sottomissione, che sia ben chiaro non riguarda solo il Pd e il suo segretario, riguarda il grande corpo della sinistra nel suo complesso, compresi giornali e giornalisti. E dire che di lavoro da fare ce ne sarebbe molto, anche se risalendo la corrente come i salmoni. Cominciando con una generale restituzione di senso alle parole, a ciascuna parola: operazione che, mi rendo conto, renderebbe quasi impossibile il lavoro dei vari staff social, nonché dei digitatori in proprio, perché la velocità compulsiva è nemica delle parole. (Se qualcuno avesse avuto il tempo di rileggere quel post di Zingaretti, magari lo stesso Zingaretti, avrebbe avuto il tempo di pensare: radical chic lo dicono Salvini, Feltri e Belpietro, dunque è meglio cercare un' altra parola). Eppure si può fare. Coraggio, si può fare. Per finire con una nota di ottimismo, un solo esempio: quando il Pd oppone allo slogan "dalla parte degli italiani" lo slogan "dalla parte delle persone", fa e dice una cosa di sinistra. Basta una parola per cambiare significato a una intera politica. E non è che non lo si nota: lo si nota. Non è che non lo si capisce: lo si capisce. E ci si sente meglio rappresentati. Ci si sente un poco meno soli, che in questo momento è davvero una cosa di sinistra.

Ecco le quote rosa del Pd: tutte le poltrone inutili alle donne, la solita ipocrisia di sinistra. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Che smacco per le paladine delle quote rosa. Quando si sono trovate davanti la fotografia del neonato governo più d'una ha dovuto ammettere: «Berlusconi sì che è un leader. Valorizza le donne del suo partito». Che fatica dichiararlo, eppure l'odiato Cav è mejo del segretario Pd Nicola Zingaretti, hanno sentenziato in coro le erinni del Nazareno, alle quali mai in passato sarebbe venuto in mente di complimentarsi con il nemico azzurro. Scendevano in piazza al grido di Se non ora, quando?, mentre adesso nella piazza virtuale dei social, sfogatoio di ogni cocente frustrazione, attaccano i maschietti della sinistra che non valorizzano le loro donne e preferiscono tenere il potere tutto per sé. Compagne sì, ma che stiano un passo indietro. Ora, siamo certi che dopo una settimana di imprecazioni da parte delle signore Pd che hanno messo su un quarantotto tra sfuriate, riunioni al femminile organizzate dalla portavoce delle donne dem, Cecilia D'Elia, prese di posizione di ex ministre, editoriali sdegnati e, insomma, dopo che è scoppiato il casus belli delle femmine snobbate contro i maschi, non potrà che esserci la grande toppa al buco scavato nella scelta dell'esecutivo. Non nutriamo dubbi, cioè, sul fatto che nella lista dei sottosegretari e viceministri del governo Draghi che sta per essere diffusa, Zingaretti avrà piazzato le dem in posti chiave così da farsi perdonare lo sgarbo iniziale ed evitare che alla direzione del 25 febbraio, convocata proprio per rimettere al centro la parità di genere, la truppa in gonnella si presenti agguerrita e pronta a contestarlo ancora. Però la toppa, per quanto grande, non nasconde la realtà delle cose: nel Partito democratico le donne contano poco. Sono schiacciate dagli uomini, relegate a poltroncine senza pretese, perfino silenziate se è il caso. Avete sentito pronunciare una parola da Valentina Cuppi? È la presidente del Pd, non proprio la stagista appena arrivata al Nazareno, è una professoressa di Storia e Filosofia e poi è il sindaco (o la sindaca se vogliamo attaccarci alle vocali) di Marzabotto; dovrebbe stare al fianco del segretario dem nelle occasioni istituzionali, non dietro. Invece la giovane Cuppi era presente nella delegazione salita al Colle, unica donna tra Zinga, il suo vice Orlando e i due capigruppo, ma non uno dei signori con lei che abbia fatto il gesto di cederle il passo, sarà per questo che l'hanno chiamata "l'invisibile" o "la figurina". «Non cerco visibilità, ma spero in un premier donna in futuro», ha replicato lei. Per ora il suo partito non ha ministre donne e neppure una vicesegretaria: l'ultima che c'era, Paola De Micheli, ha lasciato il ruolo due anni fa, promossa al dicastero dei Trasporti, ma ovviamente non è stata rimpiazzata. numeri due Più mediatica della Cuppi è Debora Serracchiani, già governatrice del Friuli , ex europarlamentare e vicepresidente del partito. Sveglia e appassionata, nel 2018 era in lizza per occupare l'ufficio più prestigioso, ma poi chissà come mai, la candidatura è sfumata. Forse per via delle troppe correnti che soffiavano tutte in un senso: a favore degli uomini. Vicepresidente è anche Anna Ascani, rimasta con i democrat dopo la scissione dei renziani forse perché sperava di avere più peso politico nella creatura originaria. Dopo avere corso alle primarie nel 2019, è arrivato il contentino: l'incarico di facciata della vicepresidenza, quindi la nomina a viceministro dell'Istruzione nel Conte bis. Lecito che a questo giro puntasse più su. La senatrice Monica Cirinnà, "madre" dell'omonima legge sulle unioni civili, fa politica dal lontano '93, sempre dalla stessa parte. Eppure non c'è traccia di lei al governo e oltre al ruolo di segretaria del gruppo a Palazzo Madama non va. Quest' anno avrebbe voluto lanciarsi nelle primarie Pd per il Campidoglio, ma c'è da scommettere che il partito schiererà un uomo (l'ex ministro uscente dell'Economia Gualtieri) senza indire le primarie. Anche la toscana Caterina Bini è segretaria del gruppo al Senato. Tra le sue proposte ne spicca una di modifica della legge Merlin per sanzionare i clienti delle prostitute, i quali non hanno gradito e le hanno mandato lettere minatorie. Considerato che l'esecutivo Draghi è sprovvisto di ministri toscani, potrebbe ambire a un posto da vice di qualcuno. capigruppo I capigruppo sono rigorosamente uomini, le donne si accontentino di essere vice, come la deputata cuneese Chiara Gribaudo, papabile sottosegretaria. È stata tra le più accese a battersi affinché si rimediasse all'assenza di ministre dem. «Mettiamo sempre la parità di genere nei documenti e poi la neghiamo di fronte al Paese? Brutto», ha dichiarato. Alle piddine lasciano le funzioni più noioise: segretarie d'Aula. Lo sono Barbara Pollastrini e Stefania Pezzopane, indignate come le colleghe Titti Di Salvo, Valeria Fedeli e Laura Boldrini. Zingaretti si è giustificando dicendo che il premier ha scelto da solo la sua squadra e che il Pd è l'unico partito che ha la parità di genere nello statuto. Peccato che scriverlo su un testo e poi non rispettarlo nella pratica è puro tafazzismo. O solo l'ennesima conferma che a sinistra si predica bene, ma poi si razzola male. 

Paolo Bracalini per "il Giornale" il 2 febbraio 2021. Siamo ai confini della realtà: dopo il Pd contro i giornalisti «radical chic» di Repubblica, ecco il Pd contro Fabio Fazio. È bastata una critica per far rivoltare i vertici Pd contro i loro più fedeli supporter mediatici, con toni da «editto bulgaro» che sarebbero giudicati inaccettabili se a farli fosse il centrodestra. Ma siccome si tratta del Pd, il regolamento di conti contro giornali e programmi tv è perfettamente democratico, nessun bavaglio in questo caso. Siamo al secondo round della rissa messa in scena da Nicola Zingaretti, offeso da un articolo di una firma di Repubblica molto vicina al suo partito come Concita De Gregorio, tanto da essere stata in passato direttrice dell' Unità, organo del Pd. Ma si vede che i nervi sono tesi tra i Dem e che le critiche sono sempre legittime soltanto se i destinatari sono Salvini, Berlusconi o la Meloni. «È l' eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo. Che degrado» ha twittato l' altro giorno un risentito Zingaretti dopo l' articolo della De Gregorio che lo dipingeva come «un ologramma», ma «tanto una brava persona», insomma una schiappa di leader. Non è finita lì perché un altro volto tv graditissimo (almeno finora) al Pd, Fabio Fazio, l' ha invitata a RaiTre dove la giornalista ha tirato altre frecciatine a Zingaretti. Notare che la De Gregorio è stata invece generosa con il ministro Peppe Provenzano («bellissimo il suo discorso ai funerali di Macaluso»), di cui suo figlio, Lorenzo Cecioni, è uno dei consiglieri al ministero per il Sud. Si noti anche che la De Gregorio è in corsa per la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno e che, riferisce Dagospia, «è già stata a Bari e sta muovendo tutti i suoi contatti politici per non farsi sfuggire l' occasione di una nomina di prestigio». Tra i rumors gira voce che sia proprio il Pd ad essersi messo di traverso alla nomina della De Gregorio, che aspira ad una nuova direzione (dopo quella disastrosa dell' Unità, che ha chiuso). Dettagli che aiutano ad inquadrare meglio la diatriba tutta interna al più esclusivo salotto democratico. A cui si aggiunge Roberto Saviano, firma della scuderia Fazio, che casualmente attacca la Regione Lazio («Lo scempio della prenotazione vaccini Covid nel Lazio») guidata appunto da Nicola Zingaretti. Lo sgarbo di Fazio, che per una volta invece di leccare il Pd ha dato voce alle critiche al suo segretario, ha molto irritato i Dem, indignati per «l' assenza di contraddittorio». Nei social del programma i sostenitori del Pd si sfogano contro Fazio e la sua ospite: «Non ha la schiena dritta, Zingaretti ha fatto bene a risponderle a tono», «È stata perfida contro il Pd e subito viene cercata dai talkshow», «Assurdo il giornalismo di sinistra attacca a testa bassa i leader che invece dovrebbe difendere», «Trovo scorretto che si inviti Concita e non la controparte. Fazio non va bene così», «Che delusione incredibile Repubblica», «Concita la bella signora radical chic che in tv si tocca sempre i capelli non si deve permettere di offendere Zingaretti che è una persona seria». Questi solo alcuni degli elettori Pd offesi dalla coppia Fazio-Concita da cui si aspettano evidentemente una militanza cieca verso il Partito. I dirigenti Pd pensano le stesse cose, qualcuno come Orlando, vicesegretario del partito, lo fa apertamente: «È assolutamente legittimo promuovere una campagna politica contro un partito e che una trasmissione televisiva dia spazio a questa campagna. Mi pare invece stravagante la pretesa che questo partito non risponda». L' ira Pd si salda con la linea dei renziani, ostili a Fazio, con in prima linea il deputato Iv Michele Anzaldi, segretario della Vigilanza Rai, che dopo mesi di martellamento sul superpagato conduttore di RaiTre ha trovato adesso un alleato nel Partito Democratico: «È positivo che il Pd si accorga finalmente dello scandalo Fazio, una costosissima trasmissione fuori dalle regole che non rispetta la Risoluzione contro i conflitti di interessi di autori e agenti» ha scritto recentemente il renziano Anzaldi. Tanto da far circolare l' ipotesi che il contratto pluriennale di Fazio, in scadenza proprio nel 2021, possa non essere rinnovato. Sarebbe un editto bulgaro clamoroso. Ma assolutamente Democratico.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 3 febbraio 2021. Criticare Zingaretti è cosa buona e giusta, esattamente come criticare qualsiasi politico di cui non si approvino discorsi ed azioni. Non capisco per quale motivo Concita De Gregorio, editorialista di Repubblica ed ex direttore de L' Unità, sia stata aggredita dal segretario del Pd per avergli rimproverato alcuni atteggiamenti. Io non sposo le linee ideali di questa giornalista, della quale non sono amico, non avendola mai neppure incontrata. Però non comprendo per quale ragione ella non possa pubblicare un articolo aspro sul leader democratico, che non è Dio in terra bensì un uomo modesto, di cultura modesta, come quasi tutti gli esseri viventi. Non basta essere a capo di un partito ex comunista per sfuggire al giudizio, fosse anche sbagliato, espresso dalla stampa. Io mi sono dimesso entusiasticamente dall' Ordine dei giornalisti, che considero un ovile, eppure questo non mi impedisce di difendere una categoria sempre più vilipesa soltanto perché talvolta fa male il suo mestiere. Concita, nel caso in questione, si è limitata a esercitare un diritto: quello di spiegare ciò che pensa riguardo un personaggio pubblico. Dov' è il problema? Mistero. Mi risulta che pure Roberto Saviano, scrittore di successo a me poco gradito, abbia lanciato strali su Zingaretti, e anche egli è stato per questo bistrattato. Non entro nel merito dei suoi appunti (per me è libero di esternare ogni sua opinione, comprese quelle poco apprezzate). Tuttavia rimango basito nell' apprendere delle censure di cui è stato vittima. Da notare che tutti si sciacquano la bocca con la democrazia di cui evidentemente ignorano l' autentico significato, visto che se qualcuno elabora concetti originali, non conformistici, immediatamente viene condannato dai soliti soloni, di norma progressisti appassionati di politicamente corretto. Questo è un fenomeno abbastanza recente. La guerra al vocabolario infuria: è vietato ricorrere ai termini negro, zingaro, clandestino, per fare qualche esempio. Tutte parole, quelle citate, nient' affatto offensive ma, chissà perché, sono state messe al bando. Alla battaglia contro il linguaggio popolare partecipano intellettuali veri e sedicenti, col risultato di rendersi ridicoli. Ieri poi Michele Serra, un tempo l' unico comunista spiritoso e ora intruppatosi nel mucchio selvaggio della sinistra generica, sulla solita Repubblica verga un commento sul dirigente del Pd e non trova di meglio che aggrapparsi ai radical-chic, che Zingaretti ha evocato, per prenderlo per i fondelli. Serra afferma che radical-chic fa parte del linguaggio di Salvini e Feltri, quando io questa locuzione non la adopero, poiché mi dà sui nervi. In sostanza Michele su di me dice il falso, essendo abituato alle falsità tipiche della sinistra, comunista. Compagni, vi conosco, perciò non vi stimo. Ma sono in grado di tollerare persino gli stolti.

Vittorio Feltri replica a Michele Serra: "Dice che uso il termine radical-chic? Menzogna, tipico dei comunisti". Libero Quotidiano il 02 febbraio 2021. Nel mirino di Michele Serra, ci è finito Vittorio Feltri, il direttore di Libero. In un articolo su Repubblica di oggi, martedì 2 febbraio, la firma tendenza sinistra ha messo nero su bianco che il direttore sarebbe solito utilizzare il termine "radical chic". Falso. E a confermare il fatto che quanto detto sia Falso, ci pensa direttamente Feltri, su Twitter, laddove in breve cinguettio rispondere alla firma: "Michele Serra scrive su Repubblica che io uso dire radical chic. Non è vero. E non dire il vero è un esercizio tipicamente di sinistra, comunista", taglia corto il direttore replicando al "comunista Michele Serra".  Michele Serra scrive su Repubblica che io uso dire radical chic. Non è vero. E non dire il vero è un esercizio tipicamente di sinistra, comunista. — Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2021. Ma non è l'unico cinguettio. Vittorio Feltri, nella sua rassegna stampa, individua anche una frase di Antonio Padellaro che ci tiene a confutare. "Antonio Padellaro consiglia di non usare la parola poltrona per indicare il seggio parlamentare", premette il direttore di Libero. Il quale a strettissimo giro di posta aggiunge: "Vabbè usiamo divano o meglio letto visto che onorevoli e senatori non fanno che dormire e non comprano i vaccini", conclude in un mix dei due argomenti topici in questi ultimi giorni, consultazioni (ovvero poltrone) e vaccini. Antonio Padellaro consiglia di non usare la parola poltrona per indicare il seggio parlamentare. Vabbè usiamo divano o meglio letto visto che onorevoli e senatori non fanno che dormire e non comprano i vaccini. Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2021. Infine, Vittorio Feltri si spende in una ulteriore riflessione sulla parola "poltrone". "Continua la guerra alle parole - ricorda -. Poltrona è vietata. Noi a Milano usiamo cadrega e a Bergamo scagna. Cosa preferite?", chiede ai suoi follower. Domanda ovviamente retorica, quella del direttore: sempre e comunque di poltrona si tratta. Continua la guerra alle parole. Poltrona è vietata. Noi a Milano usiamo cadrega e a Bergamo scagna. Cosa preferite? — Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2021

Mail a Dagospia di Pierluigi Panza il 2 febbraio 2021. Caro Dago, oggi, nella polemica tra Concita De Gregorio e il segretario Pd Zingaretti (che le ha dato della “radical chic”) si è inserito Michele Serra. Il quale, dopo aver ricordato il contesto in cui nasce questo termine, scrive: “Il termine è diventato uno dei più abusati luoghi comuni, la classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre”. Questo comprova la perfetta appartenenza di Serra ai radical chic ovvero, (cito da Wikipedia) a coloro che ostentano “una certa convinzione di superiorità culturale, con l'ostinata esibizione di questa cultura elevata" senza, naturalmente, possederla. Che Odoacre, infatti, usasse un “linguaggio politico povero” lo sa e dice solo Serra sulla base di non si sa quale fonte, poiché non esistono trascrizioni dei discorsi di Odoacre. Il quale certamente sapeva il latino, fu investito del ruolo dal Senato Romano e del quale  abbiamo un solo documento col quale concede al proprio comes domesticorum romano Pierius alcune proprietà in Sicilia. Quando si parla di “abusati luoghi comuni”, come quello dell’ignoranza dei barbari (visione, per altro, un po’ razzista), si dovrebbe quindi scrivere che ciò è un “abusato luogo comune usato a raffica da radical chic come Michele Serra”. Wikipedia  - Flavio Odoacre è stato un generale sciro o unno che nel 476 divenne re degli Eruli e patrizio dei Romani, riconosciuto poi dall'imperatore romano d'Oriente Zenone quale Patrizio d'Occidente, spesso chiamato Re d'Italia e si autoproclamò augusto, cosa che gli costò il regno e la vita. Fu il primo re barbaro di Roma.

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 31 gennaio 2021. Prendiamo nota della data perché passerà alla storia: ieri, addì 30 gennaio il segretario generale del partito erede degli eredi del Pci ha usato per esprimere massimo disprezzo, il termine «radical chic». Zingaretti ha voluto infatti rendere pubblica la propria reazione di rigetto nei confronti di Concita De Gregorio (nel tondo) che ieri mattina in un articolo di Repubblica aveva descritto il segretario dem come un uomo talmente insignificante e ridicolo, da leggere davanti ai giornalisti uscendo dal Quirinale, un foglietto con parole di circostanza, del tutto banali e perdenti rispetto a quelle frizzanti e improvvisate a braccio come nei comizi o nei talk, da Matteo Renzi uscendo dallo stesso Palazzo, cosa che ha destato deplorazione piuttosto che ammirazione. Il fatto notevole e anzi inaudito perché non ha precedenti, è che Zingaretti, ha pensato che fosse arrivato il momento di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, anche se poi ne è venuto fuori un sanpietrino lanciato per frantumare un equivoco, che ha così espresso pubblicamente: «Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, in cui purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical-chic, che vuole sempre dare lezione a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo». Macerie della sinistra causate dai radical-chic? A che cos' altro poteva riferirsi Zingaretti se non alla definitiva e imbarazzante chiusura dell'antica testata dell'Unità, di cui De Gregorio è stata l'ultima direttrice, coronata dal più disastroso insuccesso? La dichiarazione di Zingaretti prosegue poi così: «Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazioni al Quirinale (allusione a Renzi ndr) è considerato un esempio; chi invece rispetta quel luogo, una nullità. Vorrà dire che la prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado! Ma ce la faremo anche questa volta». Come i lettori comprendono, non stiamo riferendo di uno scambio di battute salaci, ma di un annuncio di divorzio pubblico - l'accusa è di maltrattamenti e crudeltà mentale tra l'ultimo dirigente dell'ex Partito comunista e un genere di giornalismo ucciso dalla sua stessa tossina: il ridicolo. Non era mai accaduto che un segretario ex comunista usasse l'espressione «radical chic» creata dal geniale scrittore americano Tom Wolfe nel 1970 per definire la presunzione pestifera di sinistra abituata con un atteggiamento presuntuoso e spocchioso ad intimidire la sinistra politica con un linguaggio scaltro, allusivo, e di abbondanti secrezioni tossiche. L'expertise di Zingaretti è difficilmente confutabile: l'articolo della De Gregorio consiste in un ritratto di malintenzionato snobismo per descriverlo come un poveraccio, incerto persino nel camminare, spoglio di qualsiasi dignità. Che si tratti di una scrittura di genere e indubbio, dal momento che le meritate fortune di De Gregorio derivano da una coltivata abilità nel costruire sensazioni di facile e superficiale disprezzo. Ciò che oggi registriamo è che il segretario del maggior partito della sinistra mandi a quel paese l'aggressività inconsistente dell'ideologia «radical chic» portatrice di rovine per la sinistra stessa. Quando nel 1976 Eugenio Scalfari fondò la Repubblica con pochi valorosi o sconsiderati fra i quali io stesso, incontrammo la naturale diffidenza dei dirigenti del partito comunista che guardavano con sospetto un giornale «di sinistra» che sfuggiva alla loro influenza. Seguì un periodo di reciproco sospetto al termine del quale giornale e partiti si riconobbero le rispettive indipendenze, almeno in un primo tempo perché poi le cose cambiarono. Da allora i rapporti tra partiti e giornali sono cambiati non in meglio ma qualcosa di pessimo è sopravvissuto di quell'epoca: il delirio di onnipotenza dei radical chic, ormai privo di qualsiasi fascino. Questa è la ragione per cui ci è sembrata un segno dei tempi la scomunica e il divorzio fra residuati della spocchia e un leader della sinistra italiana politica che è andato molto vicino ma senza usarla - all'espressione più amata dai grillini. Una storia d'amore fittizio è terminata, cenere alla cenere, parce sepulto.

La disfida dei radical chic, padroni del Bene e del Male. De Gregorio contro Zingaretti, Michele Serra e Flavia Perina: esistono i radical chic? Ecco chi sono. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Non so se avesse ragione Concita De Gregorio o Nicola Zingaretti nella disfida dei radical chic andata in onda qualche giorno fa su giornali e social media. La prima che accusa il secondo di essere un sughero inconsistente, lui che sbertuccia lei sul “ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole sempre dare lezioni”. Probabilmente nessuno dei due aveva davvero torto. È tuttavia necessario, sarebbe sciocco non farlo, che questa rubrica si occupi del tema. Non solo perché è l’oggetto dei nostri ragionamenti, ma perché sentire il bue (Zinga) che dà del cornuto all’asino (Concita) richiede un approfondimento. Soprattutto se, come successo in questi giorni, sul tema decine di giornalisti e commentatori hanno sprecato fiumi e fiumi di inchiostro. Parto da un principio. Radical chic oggi non c’entra un tubo con quanto inventato da Tom Wolfe per gli artisti che filtravano con le Pantere Nere. Perché i termini, soprattutto alcuni, cambiano significato nel tempo. Radical chic oggi rappresenta chi vanta di avere una superiorità morale e politica tale da dividere il mondo in buoni e cattivi, il tutto spesso condito con un nonnulla di “due pesi e due misure”. Rappresenta insomma chi elogia la battaglia ambientalista e poi va in giro col jet privato. Radical nei contenuti ma chic nelle movenze. Chi combatte l’inquinamento e smanetta sugli iPhone. Chi predica accoglienza ma non a Capalbio. Chi si indigna per le mascherine mancanti nella manifestazioni di destra e nulla dice per gli assembramenti dei Black Lives Matter o dei seguaci di Navalny. Chi insomma ritiene che si debba difendere la libertà di espressione, ma non se ad esprimerla sono gli anti-abortisti. In sostanza è l’appellativo perfetto per chi bacchetta sempre a destra e sparge solo petali a sinistra. Sbaglia Flavia Perina a sostenere che in fondo siamo tutti radical chic, pure i cronisti di questo giornale. Non è così. Lo sono invece i tanti inviperiti per l’affondo rivolto da Zingaretti alla De Gregorio: possibile che un leader politico non possa criticare come gli pare un giornalista? Lei l’ha definito “sughero” e tanto altro, avrà pur diritto il povero Zinga a replicare piccato, no? Anche la categoria di cui non faccio ancora tecnicamente parte, infatti, sa dare esempio di altissimo schicchismo. Il più elitario. Ma sbaglia soprattutto Michele Serra a definirlo un termine “schiettamente di destra”: non è la parola ad essere di destra, è l’insieme di soggetti che essa rappresenta ad essere progressista. Non è vero neppure che l’establishment tout court sia considerato dalla “demagogia populista” come tale: Draghi, per esempio, nessuno si sognerebbe mai di definirlo tale. Radical chic non è una condizione sociale. È una forma mentis. Tipo quella di Serra, secondo cui i leghisti “adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre”. Sul tema, comunque, il migliore dei commenti l’ha scritto Giampiero Mughini, al quale va dato atto di aver fornito - inconsapevole - un’ottima descrizione dei soggetti di questa rubrica. Radical chic sono quelli che si lasciano “andare alle tiritere su dove sta il Bene e dove sta il Male” per poi puntare il ditino contro chi ritengono indegno. “E questo perché in fatto di Bene e di Male” loro sono categorici: tutto quello che a loro non piace è “il Male” e allora ne dicono “peste e corna”. Bettino Craxi era il male, Silvio Berlusconi era il male, oggi Matteo Salvini è il male.

Raffaele Marmo per “Quotidiano Nazionale - la Nazione - il Resto del Carlino - il Giorno” l'8 febbraio 2021. Il gruppo dirigente del Pd poteva fare peggio? Pausa.  «No». Altra pausa. Altra botta. «Sarebbe stato davvero difficile fare peggio. E, ora, fatto il governo, scoppierà un conflitto mai visto nel partito». A bocciare senz' appello e senza fronzoli mosse, strategie e uscite di Zingaretti, Bettini & Co. è uno che li conosce bene, da vicino e da lontano: Claudio Velardi, gioventù comunista, l'Unità, eterno spin doctor e uno dei Lothar di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi («ma è roba di venti anni fa»), però anche riformista duro, puro e flessibile, sdoganatore a sinistra del lobbysmo all'americana, soprattutto eretico napoletano.

Perché questa deriva «peggiorista»?

«Dietro ci sono ragioni di fondo che attengono alla cultura politica dominante attualmente nel Pd: che è quella post-comunista, quella della 'ditta', per capirci. Una cultura straordinariamente politicista, regolata dalla logica ottocentesca e novecentesca della lentezza, dei processi, dei tempi lunghi. Mentre oggi la politica è veloce, è comunicativa. È rapsodica, è fatta di momenti, di scarti. Tant' è vero che, quando hanno dovuto subire la guida di Matteo Renzi, con le sue sollecitazioni quotidiane, impazzivano. Ma, quando lo hanno potuto ridimensionare, è tornata la loro cultura. Dietro questi fallimenti, però, non c'è solo questo».

Quale altra ragione, più o meno oscura, c'è dietro?

«C'è che il Pd, dal '94 a oggi, in molteplici forme, è stato al governo per circa sedici-diciassette anni. Il Pd è nel bene e nel male l'architrave del sistema: il garante non solo della politica, ma anche dell'alta burocrazia pubblica e degli apparati dello Stato. Questa è tutta roba del Pd. E, dunque, il gruppo dirigente non concepisce proprio la possibilità di perdere il potere del quale è innervato».

Tiriamo le somme.

«Mettendo insieme queste due cose, deriva che quelli che guidano il partito si muovono come un pachiderma. Mentre il mondo va velocissimo. E da qui tutti gli errori di questi mesi. Diciamolo, le hanno sbagliate tutte: O Conte o morte, mai più con Renzi, mai con Salvini, fino a Draghi. Non ne hanno imbroccata una».

Facciamo nomi e cognomi: perché la regia è stata in mano a Goffredo Bettini, che Renzi definisce il «capo della corrente thailandese del Pd»?

 «Goffredo Bettini, che è mio caro amico da quarant' anni, senza alcun titolo, senza essere stato eletto a nessun ruolo, ha dettato e detta la linea in maniera sempre più esplicita e anche in maniera arrogante. Dietro la schiena di Bettini si intravede l'ombra di Massimo D'Alema, che ha decretato all'inizio della crisi che non era possibile che l'uomo più popolare venisse cacciato da quello più impopolare».

E però è finita che «l'uomo più impopolare» ha cacciato «quello più popolare». Che cosa non ha funzionato nello schema degli ex comunisti di scuola romana?

«Sono brave persone. Ma sono fuori dal mondo. La loro inadeguatezza nella comprensione della realtà deriva dalla loro cultura politica morta e sepolta. E però continuano a pensare di saperla più lunga degli altri. Questa è la lue della sinistra: la presunta superiorità morale, che ha fatto diventare la conservazione del potere un assoluto totem, senza che vi sia un fondamento reale».

Abbiamo lasciato alla fine Nicola Zingaretti: che parte gioca?

«È una brava persona. Ma è una figura debole. Come gli altri della 'ditta' che guidano il partito, si tratta di professionisti dell'amministrazione e della politica, ma non hanno assolutamente né il taglio della leadership né una visione. Hanno fatto del Pd un partito di gestione, senza un'idea dell'Italia di domani. Ora, però, fatto il governo, si aprirà il grande conflitto nel Pd: gli ex renziani e quelli di derivazione cattolica non staranno né zitti né fermi».

Filippo Facci sui comunisti: "Sono ancora al governo, li riconosci anche con la mascherina". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 06 gennaio 2021. Nessuno, il 24 febbraio scorso, ha festeggiato il centenario del partito nazista di Hitler, così come nessuno, il 21 gennaio prossimo, celebrerà propriamente il centenario del Partito Comunista, sezione italiana dell'Internazionale comunista legata alla Rivoluzione d'ottobre. Il paragone ci sta tutto: che sono stati, entrambi, due partiti totalitari e corresponsabili delle peggiori atrocità del Novecento. Sul centenario comunista uscirà qualche libro: uno l'hanno già scritto Ezio Mauro e Mario Pendinelli per Marsilio («Quando c'erano i comunisti», titolo che infatti parla al passato) e un altro sta per pubblicarlo Emanuele Macaluso, che ha 97 anni. Le ombre di morte e atrocità che accompagnano questi totalitarismi sono le stesse per cui in Italia un serio partito fascista non esiste più (sarebbe fuorilegge) ma è anche la ragione per cui in Italia anche i comunisti non esistono più (sono assenti dal Parlamento) e non si trova quasi più nessuno disposto ad ammettere di essere stato comunista. Restano le accuse incrociate di essere «fascista» o «comunista» intese come insulti: ma la prima è la proiezione di un'ombra di settant' anni fa, la seconda è un'eredità di ieri che pesa ancora sulla società italiana, anche perché, come insegna una nota legge fisica, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. In che cosa? La maggior parte degli ex comunisti ha optato per la versione di Walter Veltroni: «Eravamo solo i ragazzi di Berlinguer», cognome che ancor oggi suscita applausi per mera ignoranza o perché molti, in realtà, applaudono solo alla loro giovinezza. Peccato che anche qui - detto senza acrimonia - i più ignorino o rimuovano ciò che Berlinguer effettivamente disse e fece, tanto che certe «operazioni nostalgia» funzionano ancora benché recitino un copione surreale. Uno può rimpiangere chi vuole: ma la sinistra di Berlinguer, storicamente, è quella che perse il referendum sulla scala mobile, che scelse di non schierarsi con gli Stati Uniti, che flirtò ancora con i sovietici che intanto puntavano missili nucleari contro di noi, è la sinistra che non volle trattare durante il rapimento di Aldo Moro e che rifiutò ogni riformismo che era invece cavallo di battaglia di Craxi. Il quale fu odiato per molte ragioni, ma la principale fu che l'Occidente guardava a lui come una sinistra schierata dalla parte giusta, come diverse interviste fatte a Massimo D'Alema hanno ricordato.

DALLA PARTE GIUSTA? Purtroppo, nella recita generale, persino Matteo Renzi è riuscito a sostenere che Berlinguer «è stato il leader che per primo ha portato la sinistra italiana dalla parte giusta della storia»: il contrario perfetto della verità, perché le posizioni di Berlinguer su mercato e imprese e liberalismo erano da suicidio; ancora negli anni Settanta, a congresso, sosteneva che «è universalmente riconosciuto che nell'Urss esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche vengono sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da un processo di corruzione e degrado». Il partito della «questione morale» berlingueriana, ricordiamo, prendeva segretamente rubli dall'Unione Sovietica, e il famoso il famoso «strappo da Mosca» non impedì al Partito di incamerare rubli sino a 1989 inoltrato, quando crollò tutto l'Est e il Pci dovette umiliarsi a cambiare nome. Saranno stati solo i ragazzi di Berlinguer, ma Berlinguer si schierò contro gli euromissili in risposta alla minaccia dell'Urss, cercò di salvaguardare lo zoccolo duro comunista e perse di vista i ceti emergenti, rimase assolutamente comunista («l'eguaglianza è molto più importante della libertà») e per lustri la sua sinistra bloccò ogni opera e infrastruttura pubblica che fosse più grande di una capocchia di spillo. Il 21 gennaio prossimo, a ben pensarci, si finirebbe per festeggiare la nascita di un partito che bloccò il nucleare (non da solo) ma che era anche contro la televisione (quella a colori in particolare) e contro l'automobile, contro l'Autostrada del Sole, contro la metropolitana, contro i grattacieli, contro i ponti e i sottopassaggi, contro l'alta velocità in ogni sua forma, contro i computer, contro l'automazione del lavoro, contro il part-time, contro tutto ciò che si è rivelato causa e conseguenza della modernizzazione di un Paese che oggi ci si lamenta non sia sufficientemente modernizzato: chissà come mai. I figli di Berlinguer erano comunque parte di una sinistra che condannava la famosa società dei consumi, e ricordarlo non è preistoria. L'Unità del 3 ottobre 1964: «Abbiamo l'autostrada, ma non sappiamo a che serve». L'Unità dell'8 gennaio 1977: «Gli investimenti in autostrade hanno aperto una falla difficilmente colmabile, a detrimento di investimenti la cui mancanza determina continui danni economici ed ecologici». Avevano già requisito la questione ecologica. Il 1977 del resto è l'anno in cui Berlinguer - alla vigilia di una straordinaria fase di espansione mondiale dell'Italia - dettava un'altra parola d'ordine: «Austerità il mezzo per porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale». Non è un articolo storicheggiante, questo, non stiamo urlando «100 milioni di morti» e arrivederci: ricordiamo solo che negli anni Sessanta il tram era definito di sinistra e la metropolitana di destra, che la sinistra progressista si oppose a ogni sviluppo urbanistico verticale, a tutti i progetti di Alta velocità ferroviaria, alla variante di valico Firenze-Bologna, all'aeroporto della Malpensa, al progetto Mose per salvare Venezia, persino, come detto, alla televisione a colori che secondo l'Unità, nel 1977, era «caldeggiata dagli industriali» ma c'erano dubbi su «quando introdurla chiarire se il Paese può sopportare questa spesa». La tv a colori ce l'aveva da decenni tutto il mondo occidentale. E non stiamo neanche a citare l'opposizione alle prime tv commerciali e a «un pluralismo televisivo illegale, incostituzionale e tecnicamente impossibile» (l'Unità). Già. Chi applaudiva ai pretori che spegnevano le tv di Berlusconi? chi si battè contro gli spot televisivi perché «non si interrompe un'emozione», come disse proprio Walter Veltroni? Rimosso tutto questo, dimenticata o falsificata la Storia, si riciccia allora il famoso «eurocomunismo» berlingueriano, oggetto misterioso che si rivolse ai partiti comunisti di Francia e Spagna e a un certo punto anche Inghilterra: sappiamo che doveva essere un progetto marxista intermedio al leninismo e al socialismo, e che, insomma, voleva reinventare il comunismo. Ma in realtà non sappiamo altro, a parte che una vera rottura con l'Unione Sovietica alla fine non vi fu, e che non fu mai sviluppata una strategia politica chiara e riconoscibile. L'unica cosa certa, e realizzata a livello europeo solo oggi, è che al posto del comitato centrale c'è un comitato economico e finanziario, e al posto dei proletari ci sono milioni di correntisti.

SEMPRE IN TORTO.  Oggi dicono che «se ne occuperanno gli storici», ma forse è proprio questo a terrorizzare: che gli storici, com' è già accaduto, possano farsi soffocare da un conformismo il quale, per diradarsi, ha bisogno di decenni. Dicono «la Storia»: ma basta guardare a quanti poveracci, ancora, liquidino certi governi della Prima Repubblica come una fabbrica di debito pubblico e non (anche) come un motore della modernizzazione italiana dal Dopoguerra, quella che ci fece raggiungere il quinto posto tra i paesi industrializzati; basta guardare a quanti «ragazzi di Berlinguer» celebrino ancora Berlinguer che non ebbe ragione su niente. Basta guardare, chiediamo scusa, persino a questo governo: è composto in massima parte da ex comunisti o postcomunisti oltreché da grillini, una somma che, con la stessa e ipocrita aura di superiorità, favorì quell'antipolitica e quel qualunquismo che non si riversarono in una pulsione rivoluzionaria: si riversarono prima nel giustizialismo e poi nell'antipolitica. Insomma: i comunisti non esistono più, però sono al governo. E li riconosci anche con la mascherina.

Antonio Socci, autocelebrazioni e "il bene": ecco perché il Pd è peggio dei comunisti. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 29 dicembre 2020. A volte ritornano e - leggendo ieri, sulla Stampa, l'ennesima intervista al compagno Goffredo Bettini (stratega di Zingaretti e leader ombra del Pd) - in effetti appariva evidente: è tornato il Pci. Sotto mentite spoglie, ma è tornato. Nell'aria c'è molto più che la sola operazione nostalgia partita da qualche settimana (con libri, articoli e iniziative varie) in vista del 100° anniversario della fondazione (21 gennaio 1921). Non mi riferisco neanche all'ideologia, di cui semmai è custode fedele Marco Rizzo, segretario di un altro "Partito Comunista" ridotto ai minimi termini, ma coerente col marxismo-leninismo. No, il Pci è tornato nella sua essenza, che non è l'ideologia e neanche "il popolo" (quello lo hanno perduto negli ultimi 30 anni promuovendo - per accreditarsi con l'Ue - tutte le politiche più antisociali dell'epoca dell'euro). L'essenza vera del Pci e del comunismo, a qualunque latitudine, è sempre stata la Nomenklatura (per citare il celebre libro di Michael Voslensky). Il Pci, tramutandosi in Pd, ha perso il popolo e l'ideologia, ma è sopravvissuta la Nomenklatura e quella resta sempre al potere malgrado il popolo e malgrado l'ideologia.

LA NOMENKLATURA. La Nomenklatura - nella storia del comunismo mondiale - è una casta che professa la religione del potere e si autoassegna la missione di decidere cosa è bene per il popolo. Nel caso italiano bisognerebbe rileggere le "Note sul Machiavelli" di Gramsci... Dunque si diceva dell'intervista di ieri di Bettini. È impressionante come il partito che egli rappresenta sia al minimo storico (elezioni 2018), ma al massimo del potere. Dà quasi l'impressione di avere i "pieni poteri" (quantomeno ambisce ad averli). In questi giorni, per esempio, dal Pd invadono pure le prerogative del Presidente Mattarella sostenendo che se c'è la crisi di governo si va alle elezioni (il vicesegretario dem Andrea Orlando: "Se cade questo governo la strada è quella delle urne"). Lo ripetono per far paura a Renzi e infatti ieri anche Bettini lo ha detto. Egli spinge pure Conte a fare un suo partito per allearsi col Pd alle elezioni (titolo della Stampa alla sua intervista: «Se cade il governo non si ricuce più. Pd-5S al voto con un partito di Conte»). Anche questo "inventarsi" partitelli di "compagni di strada" è nello stile tipicamente comunista (poi se li annettono come hanno fatto con la sinistra dc). Un altro tratto comunista delle interviste di Bettini è l'autoapprovazione ("il governo ha lavorato bene", "abbiamo salvato l'Italia") che suona grottesca nel momento in cui siamo ai primi posti fra i paesi europei più devastati dalla pandemia (per numero di morti e danni economici). La propaganda cancella la realtà nella mentalità dei compagni: i capi dei regimi dell'Est europeo vantavano gli strepitosi successi dei loro regimi mentre nella realtà dominavano devastazione e miseria. Inoltre i comunisti dimenticano sempre che il voto ai governi devono darlo gli elettori. Loro - secondo il noto epigramma di Brecht - tendono invece a rovesciare questa normalità democratica, comportandosi come nomenklature che danno la pagella agli elettori. E pretendono di essere i soli abilitati a governare.

VELTRONI E IL CORSERA.  Bettini, per esempio, sentenzia che il centrodestra italiano è "illiberale" (lo dice lui che è stato dirigente nel Partito comunista al tempo di Breznev e non è mai diventato anticomunista). Alla sudditanza a Mosca, il nuovo Pci chiamato Pd, ha sostituito la sudditanza a Berlino (si vada a leggere l'episodio di Padoan con Schäuble raccontato nel libro di Yanis Varoufakis).Ma conservano un debole per il rosso antico, specialmente oggi che c'è un comunismo vincente e ruggente a cui guardare, quello cinese, il quale coltiva l'ambizione di una egemonia mondiale (del resto pure la Germania guarda alla Cina). Hanno la sensazione di una rivincita sulla storia. È specialmente Massimo D'Alema ad elogiare la Cina (anche nel suo ultimo libro). In una recente intervista al "Corriere della sera" - intitolata «Ora a sinistra serve un partito nuovo. E con un po' del Pci» - l'intervistatore Antonio Polito ricorda che D'Alema «è anche consulente dei think tank organizzati intorno alla 'Silk Road Initiative' del governo cinese, e molto assiduo a Pechino». Polito (che viene dall'Unità) c'informa che il prossimo numero della rivista di D'Alema Italianieuropei si occuperà anche del Pci a cent' anni dalla nascita, «non per caso - ci fa sapere Polito - D'Alema tiene ancora nel suo ufficio, seppur pudicamente poggiato per terra, un ritratto del "piccolo padre", Josif Stalin». Chissà che sarebbe successo se Salvini, Meloni o Berlusconi avessero avuto nel loro ufficio il ritratto di un sanguinario tiranno del NovecentoMa un tale "dettaglio", sul Corriere, per D'Alema, passa come una simpatica nota di colore. A proposito del quotidiano milanese: pare che Walter Veltroni stia per diventare direttore editoriale del Corriere. Lui, di certo, non tiene in ufficio il ritratto di Stalin. In ogni caso Veltroni e D'Alema erano i due giovani campioni partoriti dal Pci di Berlinguer. E siamo ancora lì: al Pci.

Proudhon, l’anticlericale che amava Cristo. Filippo La Porta su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Ogni tanto incontro qualche amico – ateo, irriducibilmente anticlericale – che denuncia le colpe della chiesa, le nefandezze storiche del cristianesimo, la vergogna dei papi che celebravano crociate, guerre e conquiste coloniali. Tutto vero. Eppure non posso fare a meno di pensare che queste critiche nascono dal cristianesimo stesso, dalla sua idea di giustizia non disgiunta da quella dell’amore. Prendete Proudhon, un pensatore politico immenso, libertario e radicale, socialista e nonviolento, che aveva capito subito tutto del marxismo, eppure oggi inspiegabilmente ancora misconosciuto (per la mia generazione Proudhon resta appena “inquinato”, del tutto ingiustamente, dal cosiddetto “saggio” di Craxi pubblicato sull’Espresso nell’estate del 1978, un saggio non privo di spunti interessanti che peraltro neanche aveva scritto lui!). Ha passato la vita a criticare la alienazione prodotta dalla religione, l’ipocrisia dei credenti, il lassismo dei gesuiti, l’infedeltà della chiesa all’ideale evangelico, etc. ma pensava sempre a Dio e ha dovuto ammettere il suo debito ideale verso la Bibbia. Diffidava della carità (che non può essere imposta per legge), cui sempre preferisce la mutualità, la reciprocità (sulla quale deve fondarsi qualsiasi ordine sociale), però riconosce che il cristianesimo ha creato la fratellanza delle genti, ha portato all’abolizione della schiavitù, ha rinnovato il mondo, ed è stata «la prima delle rivoluzioni, forse la più grande» (in La proprietà è un furto). Ho letto un interessante saggio di Henry De Lubac, gesuita, grande teologo spesso in odore di eresia e molto amato da papa Francesco, su Proudhon e il cristianesimo (Jaca Book, 1985). In verità De Lubac non approfondisce tanto i concetti (non è uno storico della filosofia) quanto ci offre una mappa utilissima della formazione culturale di Proudhon, figlio di un bottaio e di una cuoca, un “vulcanico plebeo” di provincia con il senso degli affari e l’attitudine a scrivere articoli, pamphlet, libri acuminati, etc. contro le innumerevoli forme di dispotismo (non aveva una rigorosa cultura filosofica, prendeva di qua e di là, secondo l’amico Marx non riuscì mai a capire la dialettica di Hegel pur citandola di continuo). L’idea centrale nell’opera di Proudhon è quella della giustizia: «È il mio Dio, la mia religione, il mio tutto». Così scrive: «Sentire e affermare la dignità umana, prima in quanto ci riguarda personalmente, poi nella persona del prossimo, ecco il diritto… essere pronti in ogni circostanza a prenderne la difesa, ecco la giustizia». Non solo un ideale ma un sentimento e una «forma del pensiero», nata dal principio dell’uguaglianza. Da dove proviene? Da molte fonti, da Eraclito («il vero nome di Dio è Armonia, Giustizia»), dalla tragedia di Eschilo (la “themìs”, che sorge al termine di un conflitto), dal diritto romano, da Platone (l’idea del Bene), ma soprattutto – come dicevo all’inizio – dalla Bibbia (Geremia – «Jahvé nostra giustizia» e il Vangelo). De Lubac fa i salti mortali per conciliare l’ateo militante e “spauracchio dei credenti” Proudhon con la propria visione, insiste sulla “parzialità” e faziosità dei suoi giudizi, peraltro durissimi, sulla religione (che giustificherebbe per lui l’oppressione), su un Dio “insufficiente”(che dunque richiede l’intervento attivo dell’uomo), ma fa bene a mostrarci il debito di Proudhon verso il cristianesimo. Proudhon riteneva che senza la “moderazione” femminile, fatta di clemenza, tolleranza, perdono, grazia, riconciliazione, misericordia, «il nostro stato giuridico non si distinguerebbe in nulla dallo stato di guerra» (in Pornocratie). De Lubac annota che qui Proudhon rivela un pregiudizio storicamente condizionato – a proposito della donna, più caritatevole ma anche con «meno energia morale» – però al tempo stesso ci offre una indicazione preziosa su come la giustizia stessa debba essere amministrata. In un’opera di occasione e di gioventù, Cèlèbration du dimanche, Proudhon, pur diffidando dell’amore cristiano per quanto ha di eccessivamente fusionale (una fusione panteistica in cui affonda la persona), e della fraternità necrofila di Robespierre («La fraternità o la morte!»), scriveva che lo scopo cui tendere è «far uscire, come un fiore dal suo stelo, la carità dalla giustizia».

Il gesuita comunista e il carmelitano della Repubblica sociale. L'avventurosa e sconosciuta vita di Padre Antonio Intreccialagli, in religione “di Gesù”. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 28 dicembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Un recente libro di Matteo Manfredini “Il Gesuita comunista” (Rubbettino)  ha riportato alla luce la storia tormentata del prof. Alighiero Tondi (1908-1984): prima gesuita, poi spretato, poi comunista, sposato, spia in Vaticano, vedovo e, alla fine, deluso dal PCI, tornato sacerdote.  Nonostante il velo di omertà calato su questa figura scomoda, sempre in bilico fra due mondi in conflitto, la sua vicenda fece parlare di sé mettendo in grande imbarazzo sia il Vaticano che i vertici dell’allora potentissimo PCI. Diversi articoli sono usciti, di recente, su padre Tondi grazie al libro di Manfredini e, come ideale pendant, vi proponiamo la storia opposta - e molto meno conosciuta - del frate Antonio Intreccialagli, in religione Padre Antonio "di Gesù", cappellano della Repubblica Sociale, morto 20 anni fa. Lo studioso Massimo Lucioli, già noto per aver scritto il primo libro sulle marocchinate “La ciociara e le altre” (1998), ha raccolto la testimonianza del religioso prima che morisse, pubblicando la sua avventurosa biografia nel volume “Il legionario di Dio”. Al contrario di Padre Tondi, Padre Antonio Intreccialagli non visse il minimo conflitto interiore tra impegno politico-militare e fede: anzi, secondo lui, il Fascismo era la schietta traduzione della dottrina cristiana nel sociale. Già cappellano della Regia Aeronautica, dopo l’8 settembre 1943, entrò nell’ufficio abbandonato di una caserma e si spedì da solo la “cartolina” per farsi richiamare nella Divisione “Tagliamento” della Repubblica Sociale Italiana. Come succedeva, a volte, durante la Grande Guerra, anche il tenente Intreccialagli, rimasto l’unico ufficiale vivo, dovette comandare gli uomini nelle operazioni belliche: a Rimella, nel biellese, una mitragliatrice in mano a dei partigiani teneva inchiodate le colonne repubblicane da un’altura.  Padre Antonio guidò i suoi per un sentiero di montagna e catturò i nemici mentre cenavano, guadagnandosi così la Croce di ferro tedesca di 2ª classe. Un’altra volta, contrastò i canadesi con i mortai sul fiume Foglia. Il 6 aprile 1944, a Quarona (VC) fu testimone di un agguato teso a un camion di soldati fascisti con un cavo dell’alta tensione. I militari che non rimasero fulminati o bruciati vivi furono finiti a baionettate dai partigiani;  poi gli stessi tagliarono a pezzi alcuni dei 20 cadaveri con delle asce. “Mi ci vollero cinque teli da campo per riunire le membra e gli arti strappati ai caduti” raccontava Intreccialagli. Temendo un contrattacco, i partigiani consegnarono ai repubblicani tre fuggiaschi alleati - due inglesi e un australiano – che avevano partecipato all’attentato. Padre Antonio li assistette spiritualmente e prese in consegna le loro ultime lettere (depositandole in Arcivescovado a Bologna) prima che, dopo il processo, venissero fucilati - secondo la Convenzione di Ginevra -  per aver compiuto atti di guerra in abiti borghesi. Quando gli abitanti di Quarona consegnarono ai fascisti una trentina di sospetti partigiani, il comandante della Tagliamento chiese un parere a Padre Antonio il quale fece liberare parecchi dei meno compromessi e riuscì a far graziare uno dei veri responsabili, un barbiere padre di nove figli. A guerra finita, padre Antonio, coi suoi camerati, salì su un treno merci diretto a sud. Durante uno scalo, fu arrestato dai partigiani comunisti, ma riuscì a far passare se stesso e i suoi per “compagni” combattenti: furono tutti festeggiati e rimpinzati di cibo prima che venisse loro concesso di ripartire liberamente. Nel dopoguerra, il partigiano Francesco Moranino, “Gemisto”, accusò Intreccialagli presso gli Alleati di aver fatto fucilare i tre prigionieri di Quarona. Ricercato, il frate si rifugiò, sotto falsa identità, nel convento della Madonna del Romitello (PA) dove celebrò messa sia per i Carabinieri che per la banda Giuliano. Ricordava quel personaggio più come un “idealista” che come un brigante. (Il suo documento di identità come padre Ubaldo Corsi, passionista, è stato pubblicato per la prima volta, insieme ad altre fotografie del religioso). Tornò poi a Bologna, recuperando in arcivescovado le lettere dei tre soldati alleati fucilati dove essi dichiaravano, non solo di aver infranto le leggi di guerra, ma di essere stati confortati dal cappellano, anche con sigarette e liquore. Così, mentre Padre Antonio fu completamente scagionato, Moranino fu condannato all’ergastolo - in contumacia - per aver ammazzato altri partigiani e un agente del Sud. Tempo dopo, i Carabinieri avvertirono il frate che dei comunisti volevano fargli la pelle, così lui si presentò davanti alla sede del PCI con le mani nel saio: “So che mi cercavate”,  disse al capocellula facendogli capire, alludendo al contenuto delle sue tasche, che avrebbe venduto cara la pelle. Poté così proseguire indisturbato l’attività religiosa tanto che, solo con le elemosine, riuscì a edificare un intero convento a Monteodorisio, in Abruzzo. Morì nel 2000, a 92 anni e - ultimo tributo al suo passato di combattente - volle farsi seppellire con la camicia nera sotto al saio.

La fine del Pci cominciò con la morte di Enrico Berlinguer. Sergio Caserta il 30/12/2020 su Il Fatto Quotidiano. L’8 giugno del 1984 tornavo con i miei colleghi Francesco Russo, Angelo Tufano e Franco Ebano, in auto da una riunione di lavoro in Emilia Romagna, quando il giornale radio annunciò la notizia che Enrico Berlinguer la sera precedente era stato colto da un grave malore, durante un comizio a Padova per le elezioni europee. Le sue condizioni erano già definite molto gravi, una sensazione di sgomento ci pervase. Cominciò così una settimana che doveva cambiare profondamente le vicende politiche della sinistra e del Paese. A sera si era ormai capito che non ce l’avrebbe fatta, per strada, nei bar, non si parlava d’altro, la tv trasmetteva in diretta continua, aggiornando ora per ora della situazione. Ancora mi vengono i brividi a ricordare quei momenti: nella mia sezione del Pci ci si abbracciava per la disperazione, un dolore profondo, un senso di smarrimento, Enrico Berlinguer non era solo il segretario autorevole, il mitico dirigente che aveva portato il Pci alla vetta del più alto consenso della sua storia, Berlinguer eravamo noi stessi, era dentro le nostre singole vite. Così, dopo quattro giorni, l’11 giugno moriva, lasciando un vuoto incolmabile. Il giorno dei funerali – il 13 giugno – fu un evento che oscurò il cielo: una folla mai vista, tutt’Italia era a San Giovanni, questa forza possente, fatta di gente di ogni genere proveniente da tutto il Paese, le folle delle feste de l’Unità, quei volti di operaie e operai, di contadini, di giovani, di nonni e nonne, un popolo che si stringeva in un abbraccio doloroso al compagno più amato, un trauma come la perdita di un figlio, di un fratello, di un padre. Quel giorno ogni simbologia della straordinaria vicenda di quel partito si mostrava poderosa e disperata, con i fazzoletti rossi al collo, le bandiere, gli striscioni, le lacrime unite alla consapevolezza di appartenere ad una storia grande. Così finiva con Berlinguer anche il Pci, diciamo che durò ancora fino all’89 ma già da subito si capì che niente sarebbe stato più come prima. L’eredità era troppo grande, le ragioni di crisi anche preesistenti, gli eredi non c’erano, o meglio c’era ancora un gran collettivo, dirigenti di prim’ordine, Ingrao, Tortorella, Natta, Iotti, Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Reichlin, Castellina, Magri e tanti altri, poi c’erano i giovani promettenti, Mussi, D’Alema, Veltroni e il pretendente Occhetto, ma apparve subito chiaro che non sarebbe stato per nulla facile portare avanti il partito che Berlinguer aveva diretto per oltre dodici anni, permeandolo con la sua forte personalità, attraverso fasi diverse, non prive anche di errori, ma con una saldezza politica e ideale che aveva rappresentato uno fortissimo elemento di stabilità. Arrivò, dopo un breve periodo di Alessandro Natta, Achille Occhetto alla segreteria e dopo una prima fase di ordinaria amministrazione, nell’89, in coincidenza con il crollo del muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione sovietica, lanciò attraverso una potente campagna mediatica, sostenuta dai giornali main stream, Repubblica e il Corriere della sera in testa, la cosiddetta “svolta della Bolognina” con la quale attraverso un blitz ben architettato annunciò, senza alcuna preparazione o discussione negli organismi dirigenti, la parola d’ordine “cambia tutto – cambia anche il nome”. Così si ufficializzava la fine del Pci, che sarebbe durato formalmente fino al 1991, quando dopo due congressi straordinari e altamente divisivi, si decise il suo superamento attraverso la nuova denominazione PDS, Partito Democratico di Sinistra, e la contemporanea fuoriuscita del nutrito gruppo di dissenzienti guidati da un altro storico dirigente Armando Cossutta che davano vita al partito della Rifondazione Comunista. Il partito nato nel gennaio 1921 a Livorno da un’altra scissione del partito socialista, nel contesto di una fase storica di straordinari cambiamenti di portata mondiale, conseguenti la rivoluzione sovietica conclusa nell’ottobre 1917 con la presa del potere dei comunisti guidati da Lenin, finiva settant’anni dopo, per ragioni politiche del tutto diverse, se pur emblematicamente sempre nel contesto di mutamenti di carattere internazionale. Nel 2021 che sta per cominciare, sotto il segno della perdurante pandemia, che ha colpito tutto il pianeta e che comporterà ancora tanti sacrifici e preoccupazioni, si discuterà nel nostro paese anche di questo importante anniversario per cui già fioccano annunci di libri, articoli e convegni di rievocazione degli avvenimenti.

Tra gli altri degno di menzione è in corso di pubblicazione il primo numero dell’anno della prestigiosa rivista Critica Marxista che in formato speciale, ripercorrerà attraverso numerosi e importanti contributi tutti gli aspetti sia della nascita ma soprattutto della irredimibile soppressione del Partito comunista italiano, delle conseguenze negative che ciò ha determinato sulla sinistra italiana e per l’intero Paese. La rivista sarà prenotabile attraverso il sito delle Edizioni Sindacali italiane, si potrà volendo anche sottoscrivere l’abbonamento in formato cartaceo oppure on line.

Achille Occhetto: «Utopie, passioni, scissioni: vi racconto cent'anni di storia del Pci». A un secolo dalla fondazione e a trenta dal suo scioglimento, l'ultimo segretario del partito ricostruisce una vicenda che viene da lontano. E che ha segnato una parte essenziale della storia d'Italia del Novecento. Carmine Fotia il 22 dicembre 2020 su L'Espresso. Non si è trattato del giorno del coraggio. Né del mero cambiamento del nome. La svolta è un capitolo integrante della storia del Pci, non una cosa a parte». Partiamo da Achille Occhetto, 84 anni, detto Akel, pizzetto risorgimentale sale e pepe e sciarpa sbarazzina al collo, per raccontare la favolosa e drammatica storia del Pci e dei comunisti italiani a cent’anni dalla fondazione del Pci a Livorno il 21 gennaio 1921, a trenta suo scioglimento il 3 febbraio 1991 a Rimini. Partiamo dall’ultimo segretario generale del Pci, il più giovane della generazione dei dirigenti togliattiani, il più vecchio dei post-togliattiani. Chi altri avrebbe potuto sciogliere il glorioso partito di Gramsci, Togli…

«Non si è trattato del giorno del coraggio. Né del mero cambiamento del nome. La svolta è un capitolo integrante della storia del Pci, non una cosa a parte». Partiamo da Achille Occhetto, 84 anni, detto Akel, pizzetto risorgimentale sale e pepe e sciarpa sbarazzina al collo, per raccontare la favolosa e drammatica storia del Pci e dei comunisti italiani a cent’anni dalla fondazione del Pci a Livorno il 21 gennaio 1921, a trenta suo scioglimento il 3 febbraio 1991 a Rimini. Partiamo dall’ultimo segretario generale del Pci, il più giovane della generazione dei dirigenti togliattiani, il più vecchio dei post-togliattiani. Chi altri avrebbe potuto sciogliere il glorioso partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer? L’architrave della resistenza e della Repubblica, spiaggiato come una vecchia balena morente, stretto tra l’immobilismo della segreteria di Alessandro Natta, un comunista colto e gentile ma conservatore; la crisi della Prima Repubblica; i massacri di piazza Tienanmen dove il potere comunista cinese, mostrandosi il volto di un nuovo dispotismo asiatico, schiacciava la rivolta degli studenti; il crollo del Muro di Berlino. Chi altri, se non un leader irregolare, coraggioso, temerario, visionario? Ovvero, secondo i suoi davvero numerosi critici e avversari, isterico, individualista, confuso. Uno che rintraccia le radici da scoprire «nelle pieghe delle elaborazioni critiche di comunisti e intellettuali eterodossi, perseguitati dalla cultura comunista ufficiale», affermazione che per i tardi epigoni del rinnovamento nella continuità equivale a un’ammissione di eresia scandalosa. E infatti mai davvero accettata. A Occhetto però non piace essere rappresentato solo così. Ricordate le lacrime al congresso di scioglimento dopo l’abbraccio con il suo vecchio maestro Pietro Ingrao che l’aveva duramente attaccato? «Non piangevo di tristezza: dopo un periodo durissimo di scontri con chi si opponeva allo scioglimento del partito in quell’abbraccio mi sembrò di vedere la via dell’unità. Mi ero illuso, non fu così. Tornò, diretta eredità del 1921, il male oscuro della sinistra: l’idea cioè che il compagno più vicino ma diverso sia più pericoloso della reazione stessa. Quella dannazione di cui parla Ezio Mauro nel suo libro sulla scissione (“La dannazione”, Feltrinelli, ndr )». L’ultimo segretario del Pci, che ha appena pubblicato per Marsilio un libro che è anche una specie di mappa per il tempo presente (“Una forma di Futuro”), parla in esclusiva con l’Espresso dei cent’anni del comunismo italiano, raccontandone con la sua prosa brillante e immaginifica i drammi e le gioie, le vittorie e le sconfitte, la gloria e l’infamia, filtrati dai suoi innumerevoli ricordi personali e rivendica di aver salvato l’onore dei comunisti italiani e di averne interpretato la storia migliore. Cominciamo dall’inizio. Torniamo a cento anni fa, a Livorno: «La debolezza più evidente di quel congresso è stata che, invece di discutere del dramma che si stava abbattendo sull’Italia, ha posto al centro del dibattito le modalità di una pretesa rivoluzione mondiale che, secondo l’emissario dell’Internazionale, il vero relatore del congresso, batteva alle porte», dice Occhetto: «La cosa che fa più riflettere è che una frattura così clamorosa si sia consumata mentre erano già in atto le violenze squadriste. Proprio alla vigilia della marcia su Roma. I socialisti si riuniscono a congresso e non c’è traccia di discussione sul fascismo nascente e sulle misure unitarie atte a fronteggiarle. Non solo. L’unico accenno al fascismo è la nefasta affermazione di Bordiga secondo cui riformismo e fascismo si equivalevano e dovevano essere combattuti alla stessa stregua. La discussione fu prevalentemente dominata dal diktat di Lenin che imponeva la cacciata dei riformisti e dal vergognoso anatema contro gli stessi socialisti unitari tacciati di tradimento. La nefasta definizione di socialfascismo era già in nuce. Nello stesso tempo occorre rendersi conto che oggi non celebriamo il centenario dello stesso partito nato a Livorno. Già poco dopo la fondazione del Partito, Gramsci si rese infatti conto dell’insuccesso della scissione tra il proletariato. “Fummo sconfitti - scriverà - perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto. Fummo, bisogna dirlo, travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana”. Questa è una pietra miliare del giudizio sulla scissione di Livorno». Occhetto però non si aggrappa a questo passo assai noto per assolvere la storia di cui è stato parte rilevante e autoassolversi: «La continuità è stata l’appartenenza allo stesso campo, sia pure sempre più criticamente: non comprendemmo che il sacrosanto richiamo alla rivoluzione di Ottobre come grande evento nella storia della liberazione umana non avrebbe dovuto avere la conseguenza di accettarne tutti gli atti successivi. A partire, prima dai leninisti 21 punti e poi dallo stalinismo. Siamo stati diversi, ma non innocenti». Non lo furono certo nel 1956, mentre i carri armati sovietici reprimevano nel sangue la rivolta operaia in Ungheria. In quell’occasione Pietro Ingrao, che pure da direttore dell’Unità esprimeva la linea ufficiale di appoggio alla repressione, andò da Togliatti per confidargli un tormento che non lo faceva dormire la notte, il leader gli rispose con una frase agghiacciante: «Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più». È quella, secondo Occhetto, la vera occasione persa per la rottura del legame di ferro con l’Urss e la riunificazione con il Psi: «Ero segretario del circolo comunista universitario milanese Antonio Banfi, e da quella posizione compilai il primo documento politico come giovane dirigente comunista. Si trattava di un attacco contro l’intervento sovietico, che venne pubblicato sul numero zero di Nuova Generazione con il titolo “Il furore alberga nel cuore dei giovani comunisti”. Allora la posizione del Pci fu purtroppo sbagliata, anche sotto il profilo della prospettiva storica. Alcuni, nel partito, mi avrebbero poi censurato per non avere assunto posizioni di apertura verso il Psi al tempo di Craxi, senza rendersi conto che il Pci nel 1956 aveva rotto addirittura con il partito di Nenni, che rappresentava l’ala sinistra del movimento socialista e con il quale, per le assonanze di fondo che caratterizzavano le due realtà politiche, era possibile la riunione in un unico partito della sinistra italiana. Fu in quel momento, e non dopo, che si aprì un solco profondo tra comunisti e socialisti». Per molti anni, dunque, il Pci continuò a restare in un movimento di cui non si sentiva più parte senza trovare mai il coraggio della rottura definitiva, nella convinzione che il popolo comunista non avrebbe sopportato lo strappo. Enrico Berlinguer lo tenne insieme con il suo straordinario carisma, ma non lo condusse oltre il guado. Restò sempre al di qua della rottura totale e definitiva con quel mondo dal quale pure aveva preso radicalmente le distanze, anche se ormai consapevole dell’abisso che li separava, come dice Occhetto raccontando un suo incontro con Berlinguer a metà degli anni Settanta in Sicilia dove “Akel” era stato mandato a “espiare” l’eresia sessantottina: «“Lenin cambiò il nome al Partito socialdemocratico russo per molto meno. Le differenze di allora tra il pensiero di Lenin e quello di Kautsky erano molto meno grandi di quanto oggi ci divide dal Partito comunista dell’Unione Sovietica”, mi disse. Fantasticammo per un po’ sulle prospettive future e alla fine mi chiese: “Che nome gli daresti?”. Ci pensai un po’, poi timidamente azzardai: “Partito comunista democratico”. Lui sorrise con aria di sufficienza e mi rispose: “Da un lato è troppo poco, e dall’altro si finirebbe per far credere che noi oggi non siamo democratici”». Tuttavia quella scelta Berlinguer non la fece mai: «Anche nei momenti più alti e nobili delle scelte politiche si faceva sentire, per quanto fossimo adusi a raffinatezze concettuali, una debolezza culturale di fondo derivante dalla scelta di campo», osserva Occhetto. Nel novembre del 1989 la storia però ricomincia a correre. Tocca a lui annunciare ai partigiani della Bolognina che occorre cambiare tutto. E tocca a lui, considerato un eretico dalla destra amendiolana e un traditore dagli ingraiani, fare quello che nessun leader ha mai avuto il coraggio di fare: «La svolta è stata decisa dal Pci in ben due congressi e con una maggioranza enorme di voti. Fa parte della storia del comunismo italiano perché non è stata un’abiura, né una negazione dei meriti storici. Nasce dalla consapevolezza del mutamento di un’epoca, dal fatto che stavano cambiando tutti i parametri del Novecento e che, per un comunismo nazionale, con il crollo del comunismo internazionale stavano venendo meno l’essenza stessa e la radice vitale. Tuttavia mai, prima della svolta, si è arrivati a considerare che i Paesi del socialismo reale non erano più Paesi socialisti e che l’idea stessa di comunismo era stata da tempo offuscata. Fu una cesura netta col tormentato cammino del rinnovamento nella continuità. Rappresenta un salto di qualità rispetto ad alcuni principi fondamentali che avevano contrassegnato la storia del Pci». Non è mai stato convinto, Occhetto, della versione moderna del rinnovamento nella continuità, il quale sostiene che il Pci era già finito con la morte di Enrico Berlinguer nel 1984, avendo già egli risolto nella prassi ogni legame con il comunismo dell’Est: «Ricordo che dopo aver visto il film di Walter Veltroni su Berlinguer, Claudio Petruccioli, uno dei miei più stretti collaboratori ai tempi della svolta disse: “Se ce lo dicevano prima che il Pci era già morto magari ci saremmo risparmiati tutta questa fatica”». Effettivamente la fatica fu tanta: due anni e due congressi, una discussione appassionata e drammatica che coinvolse milioni di persone, ben rappresentata dal film “La Cosa” di Nanni Moretti. Altro che Rousseau e i finti congressi di oggi, senza corpo né anima, dissanguati dall’assenza di un popolo in carne e ossa. Occhetto non vuole aprire in occasione del centenario una disputa sull’eredità del Pci: «Non mi piace parlare di eredità. Piuttosto di lezioni di cui tener conto come la capacità di quel partito di entrare in tutte le pieghe della società. Il secondo grande insegnamento è stato aver dato una svolta rispetto alle tendenze che si manifestano, e non da oggi, nella storia d’Italia. La politica come forma di educazione delle masse e non come modo per accarezzarle a seconda del verso del loro pelo, stuzzicando innate avversioni. Palmiro Togliatti ha avuto il grande merito di combattere il sovversivismo endemico, quello della famosa plebe che si rivolta, e di individuare invece quegli obiettivi che sono di opposizione ma al tempo stesso anche maggioritari, perché tendono a risolvere le grandi questioni nazionali del Paese. La sua lezione è stata quella che anche dall’opposizione si può governare. Questo lo dico a chi mi obietta che non c’è altra via se non quella di rimanere permanentemente nell’area della governabilità. Io affermo invece che il Paese lo si può governare anche dall’opposizione. Perché è meglio perdere con le proprie idee, che vincere con le idee degli altri». Saprà ascoltare le sue parole una sinistra che apre l’ennesimo cantiere per creare le condizioni di un’alleanza strategica con il “populismo gentile” del M5S, immaginandosi come una sorta di versione 4.0 del togliattismo; avrà orecchie per ascoltare un ceto politico definito così da Mario Tronti in una recente intervista al Riformista: «Dà l’impressione che fuori dai Palazzi si trovi come un bimbo sperduto tra la folla. Non sa più che fare, non sa più dove andare. Ora io, come contestato teorico schmittiano della decisione, sono l’ultimo a deprezzare il ponte di comando. Il problema non è il governo, ma il governo a ogni costo. Con qualunque minestra che passa il convento?». Ovviamente a quel cantiere, promosso da Massimo D’Alema, che Achille ha sempre considerato il suo più tenace avversario interno, Occhetto non era stato invitato.

Rintanato in manovre di Palazzo. Intervista ad Achille Occhetto: “Pd smetta di giocare in difesa, si vince con le proprie idee”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. Se c’è un “homo politicus” che di “Cantieri di sinistra” può parlare a ragion veduta, costui risponde al nome di Achille Occhetto. È stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano (dal 1988) e il primo segretario del Partito democratico della sinistra (fino al 1994), è stato cofondatore e vicepresidente del Partito del socialismo europeo nel 1990, e tanto altro ancora. E anche oggi, con i suoi scritti, frequenta il futuro, come conferma il suo ultimo libro Una forma di futuro. Tesi e malintesi sul mondo che verrà (Marsilio, 2020).

A proposito del Pd Mario Tronti ha detto: «Se non si scrolla di dosso questa immagine del più affidabile degli establishment, non andrà lontano. Deve trasformarsi in una forza di sinistra autenticamente popolare, perno di un fronte più vasto». Solo così, sostiene Tronti può battere sul campo una destra sempre più radicalizzata e sovranista.

«Concordo. Tanto più perché ciò che la pandemia ha svelato delle ingiustizie planetarie del modello di sviluppo neoliberista e capitalista sta a dimostrare che occorrerebbe aprire al più presto una fase nuova. Quella delle grandi alternative di visione, programmatiche e valoriali. Invece, vedo attorno a me, solo proposte di tecniche di ammodernamento del sistema. Per fare un esempio: tutti snocciolano il rosario del potenziamento della rete. Giustissimo. Ma nessuno ci dice su quale terreno devono cadere le modernizzazioni. Non una parola sul grande tema del millennio. Quello della democratizzazione del cyberspazio. Per cambiare registro sarebbe necessario il sostegno di una convinta maggioranza. E, quindi, non di una sinistra ministeriale. Ma di una sinistra che si ponga il problema di cambiare i rapporti di forza nella società. Di una sinistra che esca dalla mera logica della governabilità, dalle alchimie del politichese. Vedo una parte del Pd impantanarsi già in questo inveterato vizio. Dominata dal timore del conflitto si rintana nelle manovre di Palazzo. O, ancor peggio, nella mera ricerca di un uomo decisivo. Anche le qualità del personale politico sono rilevanti. Ma la sinistra, e soprattutto il Paese, hanno bisogno di ben altro. Per questo, come ho già sottolineato in una precedente intervista al Riformista, occorre tornare in mezzo a un popolo in parte ostile e irretito da parole d’ordine sempliciste quanto fuorvianti. Per questo non ha nessun senso definirsi minoritari o maggioritari. La vera sfida è nel definirsi come sinistra progettuale in funzione del governo del paese, che sta al governo o all’opposizione a seconda della volontà espressa dagli elettori. Non si tratta di stare all’opposizione ad ogni costo, ma nemmeno di stare ad ogni costo al governo, come ha giustamente sostenuto Tronti. Ritengo che bisogna sempre riandare alle radici, non già quelle di un socialismo etico e meramente umanitario, ma tentando la via più ardua, volta a individuare i mali strutturali delle attuali società capitaliste dentro un mondo che ci consegna una crisi planetaria della democrazia. Con l’onestà intellettuale di saper discernere tra radici da far germogliare nel nuovo terreno e radici da recidere. Questo è l’autentico significato al ritorno, auspicato da Tronti, alla bella espressione, Aufheben: superare conservando. Che è altra cosa dal “rinnovamento nella continuità”. Perché non tutto va conservato e molto, moltissimo va cambiato, a partire dal modo come oggi si presenta la marxiana contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Al cui centro si colloca la scienza e il rivoluzionamento indotto dalle nuove tecnologie. Basti pensare al lavoro a distanza, alla polverizzazione del mondo del lavoro e alla necessità di dare dignità sociale al lavoro non solo dentro ma anche fuori dalla fabbrica. Nel momento stesso, in forme inedite, si ritorna all’antico, attraverso il riemergere del caporalato e del nuovo proletariato degli invisibili, senza rappresentanza. La sinistra non ha ancora avvertito compiutamente che non si tratta del vecchio sottoproletariato, ma di lavoratori che contribuiscono alla crescita del famigerato Pil. Questi sono alcuni dei motivi che dovrebbero indurci a saldare le radici storiche del movimento operaio con le inedite sfide planetarie ed epocali del nuovo millennio. Capace non già di evitare, ma di stare nel gorgo delle nuove contraddizioni epocali. Quelle che riguardano la salvezza del pianeta, quelle della terribile voragine delle diseguaglianze planetarie e delle migrazioni bibliche».

Quale pensiero, visione, progettualità dovrebbe definire le fondamenta di questo “cantiere”?

«A mio avviso ci vuole qualcosa di diverso da semplici convegni di esperti e di ministri che lasciano sul terreno carte disparate prive di un’anima unificante. Il punto di partenza dovrebbe essere un “preambolo ideale e politico” che rimetta in campo i fondamentali su cui fondare la nuova identità della sinistra. Gli esperti, utilissimi, vengono dopo. Se non si creano le condizioni di un campo magnetico unificante le parole rimarranno scritte sulla sabbia. Ma per creare quella tensione unitaria occorrerebbe prendere le mosse da atti politici che rompano, nella successiva fase del cambiamento del modello di sviluppo, l’attuale quadro politico, mettendo in campo tutte le energie della sinistra, della democrazia militante e della cittadinanza attiva. Per definire le fondamenta di questa prospettiva ciascuno è chiamato a dare il suo contributo. Per ciò che mi riguarda, in parte, l’ho fatto nel mio ultimo libro. Anche se le scelte nella direzione di una diversa visione qualitativa della crescita dovrebbero incominciare a misurarsi con il tipo di ripartizione delle risorse messe a disposizione dall’Europa. Invece di occuparsi, prevalentemente, della occupazione del potere al tavolo della loro quantitativa distribuzione. Ancora rimpasti, furbesche manovre, nel chiuso mondo della politica, separato dalla società».

Nel suo bel libro appena uscito vola alto e prende di petto le sfide epocali che il mondo del postcoronavirus sarà chiamato ad affrontare. È un ricco prontuario per una sinistra che non ha smesso di “sognare” un cambiamento radicale dello stato di cose esistente, offre una visione e proposte programmatiche su tanti e cruciali capitoli aperti: il riemergere del populismo, il falso europeismo e l’ipocrisia sui valori, l’oscillazione convulsa tra liberalismo esasperato e derive autoritarie, il recupero delle libertà fondamentali e il sogno mai realizzato di una democrazia inclusiva, la fine dell’ossessione per il leader e la dittatura della maggioranza, la tecnopolitica, il ruolo della competenze e dell’istruzione, il pieno riconoscimento delle donne e la parità realizzata, una visione realista e onesta delle risorse del pianeta e della loro gestione, per gettare le basi di un modello diverso di sviluppo. Ma esistono soggettività organizzate in grado di sostenere questa visione progettuale?

«Al momento non esistono. Tuttavia non bisogna disperare. È nota la mia critica al peccato d’origine del Pd. Per avere svilito il grande obiettivo di unificare le forze laiche e cattoliche della democrazia antifascista, attorno alla ricerca di una nuova identità della sinistra, limitandosi a una litigiosa fusione di apparati. Ciò nonostante ritengo che il compito dello stesso Pd -anziché parlare di fumosi autoscioglimenti – sia quello di farsi promotore di quel vasto campo magnetico, di cui ho parlato. Il che comporta la necessità di superare l’errata idea di sostituire lo scontro e il confronto tra destra e sinistra con quello tra innovazione e conservazione. Idea fuorviante che è stata il cavallo di battaglia del blairismo, e in Italia, del “partito di Renzi”. Con la conseguente subalternità al neoliberismo. Si tratterebbe di avvertire, sul piano culturale e su quello programmatico, che lo scontro sarà, inevitabilmente, sulle diverse direzioni del “ nuovo” al fine di impedire un esito catastrofico della modernità. E che è giunto il momento di battersi non solo per un paese più moderno ma soprattutto per un paese più giusto, al cui centro collocare il valore sociale del lavoro. Non c’è dubbio che un simile confronto ideale e politico richiederebbe una sinistra che sappia muoversi, contemporaneamente, sul terreno degli “ interessi” – a partire da quelli dei lavoratori – e su quello dei “valori”. Superando la contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali. Che è la via maestra per combattere nella società, e in mezzo al popolo, il populismo. Una simile operazione richiederebbe una rifondazione identitaria di tutte le forze che operano nel campo della sinistra e del centro-sinistra. Quelle rappresentate politicamente e quelle che non lo sono. O che non si sentono rappresentate dai riti che tuttora imperversano nel cielo della politica. Ciò si rende ancora più impellente dinnanzi l’avvicinarsi dell’appuntamento con i nodi irrisolti delle società neocapitaliste, messi drammaticamente a nudo dalla stessa pandemia. Che rendono più stingente il confronto ideale e politico tra destra e sinistra. Che chiamano in causa un orizzonte, una “visione del mondo”. Non a caso, come lei ha ricordato, nel mio libro su “Una forma di futuro” prendo di petto le sfide epocali che il mondo del postcoronavirus sarà chiamato ad affrontare. Smettiamola di cercare di arginare il nazionalismo e il populismo rintanati, timorosi, sulla difensiva. È importante fare la mossa del cavallo, saltare il terreno dello scontro imposto dai populisti, per muovere decisamente nella direzione opposta: quella del rilancio internazionalista. Occorre, senza avere sempre un occhio ai sondaggi, combattere tra i cittadini le anguste e miopi suggestioni nazionaliste, anche attraverso una efficace predicazione di massa, come quella del socialismo delle origini, con la predicazione del solidarismo sovranazionale. Si vince con le proprie idee, non con i pasticci. Si tratta, con pazienza e tenacia, di promuovere valori alternativi, di avviarsi con decisione verso la riforma delle istituzioni internazionali, a partire dalla costruzione della nuova Europa politica, come tassello fondamentale per governare democraticamente la globalizzazione. Che è la via maestra per ritrovare la sovranità popolare e sovranazionale. Per ridare un senso a una democrazia in crisi in tutto il mondo».

Non è rimasto nulla di quei due partiti che si chiamavano PCI…Biagio De Giovanni su Il Riformista il 29 Dicembre 2020. Che cosa ha comportato il doppio sguardo del PCI sul mondo, un occhio all’Italia, un altro al 1917? Come si è realizzata, per oltre 50 anni, la straordinaria sintesi che ha fatto della storia del PCI un pezzo decisivo della storia d’Italia, e che alla fine ne ha determinato l’eclisse? E’ necessario qui un richiamo alla cultura da cui era nato, cui ho fatto riferimento in quella che ho chiamato la prima puntata. C’è da ricordare subito l’equilibrio che si creò tra due situazioni, ambedue attive pur nel loro progressivo, irrimediabile contrasto: la provenienza del gruppo dirigente da uno dei punti alti raggiunti dalla cultura euro-occidentale; e il suo legame, politicamente effettivo, con la storia che si realizzava nell’Unione sovietica di Stalin, e oltre di lui; e soprattutto con le logiche geo-politiche di quello Stato, con quella che veniva giudicata la sua intenzionalità profonda e il suo destino. Non solo, dunque, sostegno pieno al regime sovietico, che dominò di sicuro fino al 1964, quando morì Togliatti, e che in forme più problematiche fu presente anche dopo: ma anche partecipazione a una visione del mondo e della sua divisione, da cui nessuno, nemmeno Berlinguer, tanto meno lui, ebbe intenzione vera di allontanarsi. Sì, era venuta meno “la spinta propulsiva” di quella rivoluzione, come lui disse, ma non del suo senso profondo per il destino della storia del mondo; tanto che si poteva conservare, e anzi esaltare, la “diversità” dei comunisti, e tanto che, per tutto un periodo, fin quando insomma fu possibile, il processo europeo fu interpretato in chiave di euro-comunismo. Nel partito c’erano ambedue queste linee, con una distinzione tra aristocrazia politica e partito di massa da mantenere ferma: la prima, capace di conciliazioni colte e mediazioni impossibili, che agivano nel concreto della prassi politica, dove la cultura consentiva di tenere i piedi e il cervello in due realtà, in un continuo gioco di equilibri democratici cui dava un contributo anche il dibattito intellettuale che si svolgeva intorno e dentro il partito. Il secondo, il partito di massa, quello delle sezioni, delle federazioni, dei comitati federali e delle fabbriche, delle campagne e dei centri urbani piccolo e medio-borghesi, che pur difendendo il recinto della democrazia costituzionale – ma la battaglia era sulla costituzione inattuata – viveva una sua vita interna e sociale nella certezza di un limite che andava superato, come in una situazione provvisoria che conteneva in realtà un altro destino, un’altra idea di società e di politica. Insomma, di sicuro il Pci ha svolto un’opera di civilizzazione politica di un popolo, ha guidato grandi lotte per la sua emancipazione, ha dato un contributo essenziale alla rinascita dell’Italia, è stato una parte decisiva e creativa della sua storia culturale, in tutti i campi; ma con il tarlo interno che mostrava il limite politico in cui si era convinti di esser costretti a muoversi. Da qui, una mescolanza di partecipazione e di attesa, di accettazione problematica dei compromessi, sapendo che ben altro attendeva nel destino futuro: un sentimento radicatissimo e sostanzialmente intoccabile dalle classi dirigenti, proprio da esse creato. E peraltro, questo complicato stato di cose diventava credibile pure attraverso la complessità e varietà del dibattito che si svolgeva nei piani alti degli istituti di partito, diviso secondo varie linee, alcune dentro, altre ai margini del partito stesso; una ricchezza di idee e di spunti di quel marxismo italiano, poi progressivamente scomparso dalla scena sotto la spinta di eventi irreversibili, ma che è stato elemento vivo e dialettico in una fase lunga della storia d’Italia. Un puzzle storico-politico che educava alla democrazia, ma con una riserva; che a un certo momento aprì all’Europa, ma anche lì con una esplicita diffidenza sul fondo di tutta l’operazione; con un anticapitalismo come sentimento unificante, che finiva con ridurre l’impatto della necessaria critica reale, per assumere tinte più generali e qualche volta apocalittiche, lasciando sul terreno anche le raffinate analisi di Gramsci che ormai appartenevano alla cultura universale. Sentimento di massa, diffuso attraverso le stesse articolazioni presenti nella aristocrazia politica: esemplare il dibattito permanente tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Una educazione alla democrazia che ha spinto a difenderla in modo decisivo nei momenti più oscuri; tuttavia oggi non dobbiamo dimenticare, che Rossana Rossanda inserì coraggiosamente il terrorismo rosso nell’album di famiglia. E’ anche capitato, infatti, che ciascun lato della doppiezza se ne andasse, qualche volta, per conto suo, fino a toccare un punto basso e pericolosamente eversivo. Un partito che, morto con la fine dell’Unione sovietica, non ha potuto lasciare classi dirigenti come sue eredi, essendo venute meno le ragioni profonde della doppiezza che, sciolta, liberata dalla sua complessità storica, ha lasciato tracce negative indelebili. Con la morte del partito, ha finito con il prevalere quel pezzo di eredità che giaceva nascosto nella sua complicata visione: il giustizialismo, il moralismo, uno statalismo diffuso che non è senso dello Stato, un populismo dalle varie tinte che occhieggia oggi al Movimento cinque stelle come a un figlio naturale; e, sul fronte opposto, un moderatismo senza idee, succube dell’establishment: Pd + M5s, non a caso ora alleati, in un vero garbuglio. Eredi seri non ce ne sono, e questo disegna un limite straordinario nella storia del Pci e ne mette in luce un carattere: quella vicenda finisce, non c’era classe dirigente che potesse ereditarla. “L’eredità”, se così la si può chiamare, è forse in un sentimento che, persa l’idea di un destino, lascia le sue tracce più visibili nel mescolarsi degli atteggiamenti e delle posizioni ora abbozzate. E nelle alleanze praticate. Tanto si dovrebbe aggiungere, ma credo di aver detto l’essenziale. La cosa che finora ho taciuto vale quasi come un sentimento personale di chi la realtà del partito la ha vissuta. Al di là di ogni valutazione critica che oggi siamo portati a fare, rimangono alcune malinconie, non saprei come chiamarle diversamente, relative alla ricchezza di umanità che si incrociava nel Palazzo e fuori, nella società. Qui, la riflessione cede il passo a qualcosa che non so meglio definire se non come il rimpianto per una vita in cui la politica era il cuore della trasformazione del mondo. Poteva sbagliare in tondo la sua valutazione, ma fu vita reale e appassionato dibattito di idee per intere generazioni.

Rondolino: «Com'era bello il mio Pci, un mondo di solidarietà e valori. Un po' come gli scout».

Nostalgia, democrazia, Miriam Mafai, cattedrali, fisicità della politica: il portavoce di Dalema a Palazzo Chigi racconta cosa è rimasto del partito comunista. Susanna Turco il 21 dicembre 2020 su L'Espresso. orpresa di fine 2020: quello che rimane da raccontare del comunismo italiano è uno stato d’animo. Il “nostro Pci”, più che il Pci. Sorpresa numero due: a sostenerlo, dal fondo del suo cinico disincanto, è Fabrizio Rondolino, giunto ormai da oltre tre anni a una certa distanza dalla politica, che cominciò a frequentare nel 1976 per poi smettere quarant’anni dopo (è stato Matteo Renzi l’ultimo, letale, entusiasmo). Portavoce di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, giornalista dell’Unità che seguì l’Achille Occhetto della Svolta, ha appena dato alle stampe un libro fotografico, la sua collezione personale di cimeli e immagini, dal titolo emotivo: “Il nostro Pci”, che uscirà con Rizzoli proprio nei…

«La svolta della Bolognina fu la cosa giusta. E una scelta disperata». Susanna Turco l'11/11/2019s u L'Espresso. «Eh no, un’intervista sulla fine del Pci non può cominciare da Rocco Casalino, mi rifiuto». Dio è morto, Marx è morto (anche il Pd non si sente molto bene), giusto trent’anni fa Occhetto fece la svolta della Bolognina, e Fabrizio Rondolino utilizza l’ultimo briciolo del comunista che fu per fermare l’avanzata, anche dentro all’intervista, del grillismo, del suo portavoce, e di ciò che si porta dietro. I due, vi è da dire, hanno una biografia incrociata: «Ci siamo incontrati vent’anni fa al Grande fratello: io venivo da Palazzo Chigi, e Casalino ci sarebbe andato. Anche se nessuno dei due all’epoca lo immaginava», racconta. Eppure, a parte questo, i due rappresentano i lembi di un fenomeno che si snoda per trent’anni: il processo per il quale, proprio a partire dalla Svolta del 12 novembre 1989, la comunicazione si è affiancata alla politica, e via via si è presa il centro della scena, finendo per sostituirla. Un processo del quale Rondolino è stato in parte testimone e in parte artefice: giornalista dell’Unità al seguito di Occhetto segretario del Pci, portavoce di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi , capo della comunicazione del primo Grande Fratello, infine renziano convinto, rispecchia la storia del Pci-Pds-Ds-Pd, anche nella sua ultima svolta. Dopo la sbornia renziana, da un paio d’anni si è ritirato in campagna, con cani e gatti. Insomma metaforicamente si è messo a coltivare pomodori. «Sarebbe il riflusso, no? Come per il Pd: ogni volta che si vota, un certo numero di elettori se ne va. E non torna».

È cominciato tutto con la Bolognina?

«La Svolta fu un’invenzione geniale di Occhetto. La mise su in tre giorni. Decise senza avvertire nessuno: chiamò l’Unità il pomeriggio stesso. Io non sapevo niente, mi ero preso tre giorni di ferie, quel giorno non c’ero. Comunque fece la mossa giusta, anzitutto perché spostò l’attenzione: prima regola della comunicazione è spostare».

Lo fa anche Casalino.

«Casalino è un ragazzo molto intelligente, anche vista la media dei Cinque stelle, però io penso che politica e comunicazione siano la stessa cosa da sempre. La politica esiste nel modo in cui la racconti. Le due cose coincidono. Ma è così dai greci. Anche nell’Età di Pericle la democrazia era fatta di manipolatori, imbroglioni, fake news. Tutto uguale».

La pensava così anche quando da trentenne faceva il cronista all’Unità appresso a Occhetto?

«No. Ho avuto una partenza molto idealista, ho sempre molto creduto a quel che facevo, alla politica, alla possibilità che migliorasse le condizioni di vita delle persone».

Il 12 novembre del 1989 iniziava il processo politico che in pochi mesi avrebbe portato alla fine del Partito Comunista italiano. Un evento storico e, per molti versi, anche traumatico. Raccontateci la vostra esperienza di quel periodo.

E quando ha smesso di crederci?

«Beh, diciamo, con Renzi . Ma io di lui non voglio parlare. Non sopporto questi che l’hanno incensato e poi l’hanno abbandonato. Non voglio arruolarmi in quell’esercito. Però il suo fallimento è evidente: aveva l’Italia in mano, e adesso ha il 4 per cento. Pensavo che da lì potesse venire quella cosa che non è mai venuta: il rinnovamento della sinistra».

Il famoso rinnovamento. Quello che tentò anche Occhetto, di cui dovremo parlare.

«Il primo che ci prova è Craxi, che finisce come finisce; il secondo è Occhetto, con la Svolta, e finisce come finisce. Poi c’è il D’Alema blairista, il mio D’Alema diciamo, che finisce come finisce; poi c’è Walter Veltroni, che fa una cosa bella che dura un anno e poi lo fanno scappare. Conclusione: tutti i tentativi erano stati un fallimento, una serie ininterrotta di catastrofi, dalle monetine dell’hotel Raphael alla ditta di Bersani. A quel punto, nulla che venisse dal Pci poteva essere più spendibile. E arriva questo qua, Renzi, che ha il vantaggio di non entrarci niente col Pci e sembra fare il miracolo. L’uscita dall’incubo. Renzi è grillismo democratico, straordinario dal punto di vista della filosofia della storia: nel momento in cui vince la plebe - e i suoi istinti peggiori diventano dibattito pubblico - c’è uno che prende tutta questa roba, questo Mississippi di merda, e se ne fa carico, lo cavalca, lo argina».

Ma poi fallisce.

«Così mi sono ritirato in campagna. Se non c’è riuscito Renzi non ci riuscirà nessuno. Non penso che dalla sinistra possa venire fuori qualcosa di nuovo, utilizzabile, e maggioritario. Poi per carità c’è sempre Emma Bonino, Gianni Cuperlo. Amici cari, però...».

Di Cuperlo disse una volta che D’Alema lo doveva licenziare perché era un mediocre.

«Una cattiveria, di cui gli ho chiesto scusa personalmente. Momenti polemici. Erano i tempi dello staff dalemiano, abbiamo avuto scontri anche violenti, perché lui era un comunista berlingueriano, e noi facevamo i liberali».

Ora, Cuperlo prepara la Costituente delle idee di Zingaretti. Emergenti sono Provenzano, Martina, Gualtieri.

«E che devo dire? Bravi ragazzi. Però sono antichi. Nel 1803 un visconte è una persona squisita, però c’è stata la rivoluzione francese: i visconti sono destinati a scomparire. Ma non è che puoi dire niente di male. Questo è il Pci, di cui prima o poi parleremo. O meglio: è quello che rimane del Pci senza il Pci. Oggettivamente inservibile. Gli voglio bene, è la casa dove sono cresciuto, ma è totalmente inutilizzabile. Quel 20 per cento tale rimarrà finché muoiono tutti. Non arriverà più un voto nuovo - non con questa politica, non in questo recinto».

Due mesi fa Renzi ha consumato l’ennesima scissione. A proposito della Bolognina: è stata quella di Rifondazione la prima, dolorosa divisione della sinistra?

«A parte che la sinistra è stata divisa sempre, a partire dal 1921, comunque dolorosa per me no: fu una cosa assolutamente liberatoria. Lo è stata anche la scissione di Pier Luigi Bersani con Articolo 1, nel 2017. I partiti sono organizzazioni volontarie che si reggono sul principio di maggioranza. Se tu reputi che i tuoi principii siano conculcati, prendi e te ne vai. Ognuno è più libero. Non sono contro le scissioni. Anche quella di Matteo. Se ritiene che vada meglio cosi, bene».

Cosa resta, oggi, della Svolta di Occhetto?

«Resta il Pd. Che è il partito nato alla Bolognina, pur avendo cambiato alcuni nomi. Nel quale la minoranza della sinistra dc ha subito pesantemente l’egemonia culturale della maggioranza del Pci: tolto il renzismo, il Pd di Bersani e di Zingaretti sono il Pds, come testa».

Quel Pd di cui preconizza l’estinzione comincia nel 1989?

«L’89 è un anno fantastico. Occhetto è da poco segretario, Gorbaciov sta per sciogliere il comunismo, ma in Italia si celebra il congresso del “Nuovo Pci”, che in italiano vuol dire “rifondazione comunista”. Cioè Occhetto legge Gorbaciov come uomo che riforma il comunismo, e dice: anche noi ci rinnoviamo. Poi arriva Tien An Men. Mi ricordo quell’estate perché andai in vacanza in Romania, nella zona del Banato: una situazione allucinante, non c’era da mangiare. Andammo in macchina verso l’Ungheria, incontrammo una fila infinita di Trabant. Erano le centinaia di migliaia di tedeschi in fila per andare all’ovest: si era sparsa la voce che le frontiere forse si stavano aprendo. Tornai in Italia con l’idea che qualcosa stesse per succedere. Quel settembre andai alla festa dell’unità a Genova. E trovai lo stand della Ddr. Nel settembre 1989, lo stand della Ddr. Quindi di che parliamo? Il Pci era completamente in quel mondo, e pensava che fosse sul punto di rinnovarsi. Poi Gorby apre il muro, tre-quattro giorni dopo Occhetto si inventa questa cosa qua».

La svolta.

«Ecco il baco della Bolognina: non è una scelta del gruppo dirigente del Pci. È un tentativo, disperato, di reagire a un evento per loro inaspettato. E nello stesso tempo è un’invenzione geniale. Perché è la cosa giusta. In un Paese normale, si sarebbe detto: ragazzi, fino a ieri ci avete portato lo stand della Ddr, adesso vi processiamo tutti. Che è la linea di Claudio Velardi. Lui nei momenti difficili diceva sempre: dovremmo essere tutti in galera, quindi non ci possiamo lamentare di niente. Comunque, Occhetto sposta. Non più il comunismo che crolla addosso al “nuovo” Pci, ma i comunisti che con coraggio trovano una nuova strada, si rinnovano. Trovo geniale e difenderò sempre la memoria politica di Occhetto, ma le condizioni in cui la svolta si verifica sono queste. Non: ho capito che il mondo sta cambiando e quindi divento socialdemocratico. Ma: io rifondo il comunismo, nel frattempo quello che voleva rifondarlo decide di scioglierlo, e allora decido di oltrepassare il comunismo e fare una cosa nuova».

Quindi una necessità?

«Disperata. Il paragone è stucchevole, ma il Pci è veramente una chiesa. Il bello delle chiese è che non si può dimostrare l’inesistenza di Dio. Ma se si potesse farlo, sai che casino? Se domani uno dicesse in tv: mi dispiace, Dio non c’è. La svolta che inventi dopo è una scelta disperata. L’altro baco è che, tra l’89 e il 92, la sinistra riformista poteva far pace, Pci e Psi trovare un accordo, costruire una alternativa: invece non accade, prosegue la lotta fratricida tra Craxi e Occhetto. E quando esplode Tangentopoli c’è il terzo errore fatale: identificarsi con le ragioni delle inchieste. Occhetto pensa, come molti di noi, che erano ladri e una volta arrestati si sarebbe aperta la strada alla rinascita del Paese, in cui la sinistra avrebbe avuto un ruolo dirigente. Ma invece a quel punto non c’è più niente. C’è solo Berlusconi, Grillo, Salvini».

La sinistra paga ancora le conseguenze di quei bachi?

«Tre errori clamorosi che sono alla base della situazione in cui viviamo. Mani pulite – parlo dei risvolti politici - ha ucciso l’idea di futuro, e ha alimentato il rancore sociale che oggi è maggioritario. Quelli che tiravano le monetine sono diventati il 70 per cento del Paese, e lì dentro c’è anche la sinistra, perché poi metà degli elettori grillini vengono da là».

Cosa capisce un ragazzino di tutta questa storia?

«Non so, credo poco. Ho provato a spiegare alle mie figlie il Pci, a raccontare quella dimensione. Ma è difficile perché la politica è stata espunta subito, con la svolta di Salerno nel ’44, quando Togliatti decide di non fare il colpo di stato e di non rompere coi sovietici, e segna così il destino del Pci come una forza di opposizione permanente. Che si costruisce un mondo parallelo. La casa editrice, il quotidiano, anche la miss Italia del partito. A Botteghe oscure c’era il generatore di elettricità nel garage, nel caso il Viminale tagliasse la luce. Insomma era come la Casa del Grande Fratello. Un luogo immenso ma completamente autonomo. Un nodo di stare insieme che si basava su una menzogna colossale. I dirigenti ci hanno sempre imbrogliato: questa roba che al governo non si poteva andare neanche per sbaglio, mica te la dicevano in sezione. Ma fino a un certo punto nessuno sapeva che era Truman show, e tutti vivevano in un posto bello».

Quando si è rotto, tutto questo?

«Con la morte di Berlinguer. Almeno, io parlo della mia generazione. Avevo 24 anni, ho pianto per giorni. Con lui stavo seppellendo il partito».

Cinque anni e mezzo prima della svolta.

«Occhetto era simpaticissimo, io ero entusiasta. Il direttore, Renzo Foa - ma prima D’Alema - mi faceva fare quel che volevo. Avevo l’accesso a Botteghe Oscure, l’unico giornalista ammesso: ho scritto quasi tutto. Si incazzavano tutti. Anche Achille, certo. Avevo un approccio giornalistico, ma che me lo facessero fare era segno dell’epoca. Ai miei predecessori non sarebbe stato permesso. C’era un dibattito appassionante, è qualcosa che ha attraversato le famiglie, le coscienze, le amicizie, fidanzamenti, stava ovunque. Per dire, la Schelotto pubblicò un pezzo in cui raccontava di due pazienti scoppiati per via della Svolta: lei per il sì, lui per il no. Foa lo mise in prima pagina. Occhetto si inalberò: “Mi dite che sono pure uno sfascia famiglie!”».

Poi perdonava?

«Certo. Altrimenti mi avrebbe sostituito. Di base il protocollo era rigido. Ad esempio: il compagno segretario va a fare un comizio, due giorni prima io - resocontista - potevo leggere la bozza del discorso. Di solito non me la lasciavano, non si fidavano. Pensavano che il mio lavoro fosse un mero editing: sfrondare, tagliare. Io invece rimontavo il discorso, con le frasi che mi sembravano più significative. Occhetto si infuriava: “Se io dico prima questo poi quello, ci sarà un motivo”. Lui, poi, soffriva di invidia nei confronti dell’Avanti. Perché l’Unità non pubblicava sempre i suoi pezzi in apertura. E allora, per scherzare, Occhetto mi mostrava l’Avanti. Che aveva sempre in apertura Craxi. E mi diceva: ecco, impara».

Vent’anni fa ha detto che la sinistra è un ente inutile. Adesso il Pd cosa è?

«È utile al modo in cui lo sono le comunità di recupero, i centri anziani. Fai cose, vedi persone, va bene anche per combattere la solitudine. Non voglio essere sprezzante: però se il problema è andare al governo, è un ente inutile. Se invece si tratta della gestione dell’esistente, in un modo educato, allora il Pd di Zingaretti ha una funzione sociale indiscutibile».

Una volta ha detto: «L’Urss mi faceva schifo, ma avevo il ritratto di Lenin in stanza». È ancora così?

«Vivo una condizione postuma, sono diventato un libertarian. Mi considero tutt'ora un rivoluzionario, ma penso che esistano solo gli individui. E che ogni gruppo, a partire dalla famiglia, sia una struttura totalitaria, e quindi illiberale. È la mia evidente e definitiva fuoriuscita dal comunismo. Mi sembra di essere diventato più tollerante».

Ricostruire il soggetto della trasformazione. “Sinistra, ti spiego cosa vuol dire avere nostalgia”, intervista a Goffredo Bettini. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Quella di Goffredo Bettini a Il Riformista è molto più di una intervista a tutto campo. Le sue considerazioni, i suoi giudizi, vanno anche oltre il “Cantiere della sinistra” e investono l’intero campo della politica. E del Governo.

“Cantiere”, “Campo”… Variano le metafore ma il tema resta lo stesso: quale pensiero, visione, progettualità dovrebbe definire le fondamenta di questo “cantiere”?

«Giustamente lei parla della necessità di una visione; necessaria per dare un indirizzo e un senso ad una volontà di cambiamento. Ma per avere una visione occorre un soggetto politico che la elabori e poi la proponga. La difficoltà della sinistra è che manca proprio questo: il soggetto. O almeno esso si presenta debole, sfarinato, contraddittorio, balcanizzato. Zingaretti, anche se non gli è riconosciuto quanto meriterebbe, ha risollevato il Pd e ha contribuito grandemente a salvare l’Italia; eppure si trova anch’egli di fronte ad una certa melmosità dello strumento partito, che stenta a ricomporsi sulla linea del gruppo dirigente, peraltro unito come mai nel passato. Dal triennio ‘89-‘92 tutto è cambiato. Moltissimo è stato distrutto, ma poco ricostruito. Ai vecchi partiti di massa si sono sostituite le aggregazioni civiche, i movimenti che emergono e poi scompaiono, le carovane, i girotondi, i profeti televisivi, l’epopea dei giudici. Tante esperienze con dentro anche spinte in qualche caso positive, ma prevalentemente sintomo di uno “spappolamento” del campo progressista, che alla fine si è trovato unito solo nei momenti elettorali e nella dimensione del governo. Governo, governo e solo governo. Naturalmente è stato insufficiente: non si può tirare il corpaccione sociale per i capelli, sperando di risollevarlo dall’alto e di tenerlo unito. Infatti, esso si è ulteriormente spezzato e diviso. Anche sotto l’offensiva del pensiero avversario neoliberista; che ha teorizzato: la società non esiste, esistono solo gli individui. Ricostruire oggi il soggetto della trasformazione è, dunque, la priorità; ma occorre sapere che l’impresa è difficilissima. Anche perché un soggetto si definisce a partire dalla sua funzione. In sostanza: chi vuole rappresentare nella società? Chi vuole difendere? In che direzione intende cambiare i rapporti di forza tra chi sta sotto e chi sta sopra? Quando, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, nacquero e crebbero i partiti socialisti, questi trassero forza, idealità, pensiero dalla classe lavoratrice e operaia; la quale, nel processo produttivo, era un soggetto compatto, localizzato nella fabbrica, cosciente di creare con il proprio lavoro “valore”. Un soggetto sfruttato, ma indispensabile persino al suo antagonista, che si appropriava dei profitti. Insomma, c’era una relazione dialettica tra soggetti diversi: terreno di aspre lotte ma anche di compromessi e conquiste. Il grande “inciampo” della sinistra si è verificato quando questa soggettività operaia è eclissata; perché i “soggetti” dell’espansione produttiva, soprattutto nella fase della globalizzazione dei mercati, sono diventati sempre di più l’organizzazione e la tecnica. E i lavoratori vivi, invece, sono stati decentrati, sparsi, svalutati, annessi dalla potenza tecnologica. Allora, quando oggi parliamo di un partito nuovo, la domanda stringente è: a cosa si aggrappa? Chi organizza? Da che parte sta? Quale conflitto vuole gestire? E dove sono gli snodi del confitto? Come e dove agiscono le ingiustizie? Dalle risposte a queste domande può rinascere una visione».

Nei suoi anni d’oro, la sinistra, in particolare il Pci, esercitava una egemonia culturale in settori importanti della società, ben oltre la politica. La dico brutalmente: perché oggi la sinistra, in tutte le sue articolazioni, moderate e radicali, non affascina, non fa sognare, soprattutto le giovani generazioni?

«Le do una risposta che può apparire bizzarra. Vede, sono diventato del tutto casualmente un comunista italiano a 14 anni. E devo, nel bene nel male, quasi tutto al partito. Sono stato spinto a quella scelta non da un’adesione astratta a teorie che ancora non conoscevo, tantomeno a libri che ancora non avevo letto. Piuttosto, per ciò che mi sembrò il Pci potesse darmi sul piano emotivo e della crescita personale. Amavo molto la mia famiglia. Solida, numerosa e con radici antiche. Ma essa negli anni Sessanta cominciò ad avvertire l’arrivo del suo tramonto. Proprio nell’età in cui avevo più bisogno di costruire una solida forma dell’anima, sopravvenne così un sentimento di decadenza. Il Pci diventò la mia nuova casa interiore. Fu un’attrazione fortissima: un fattore d’ordine, di disciplina, di sentimenti alti e disinteressati, di continuo apprendimento dal presente e dalla storia. Mi chiede: perché oggi le nuove generazioni non sognano attraverso la politica? Le ribalto la domanda: il sogno è una dimensione distruttiva o prevalentemente costruttiva? Penso prevalentemente costruttiva. Se da trent’anni le “forme” sono state destrutturate, come si può sognare? Se è prevalso il narcisismo dei soli diritti individuali rispetto alla passione di una responsabilità da vivere con gli altri per un’impresa comune, come si fa a sognare? Un’ultima domanda: se la sinistra, invece di resistere e combattere questi fenomeni che progressivamente sono venuti avanti, vi si è accodata, cedendo all’egoismo individuale, come può pretendere di affascinare? Se si è persa la felice e feconda combinazione tra tradizione e innovazione, nella consapevolezza che non c’è vera innovazione se non è innovazione delle tradizioni, come si può dare alle nuove generazioni un punto di riferimento credibile e solido? Qualcuno mi ha definito nostalgico, pensando di offendermi. Non credo di esserlo, perché non mi rifugio nel ricordo del passato, come consolazione rispetto a un presente che non mi soddisfa. Né mi attira la riproposizione delle mode di un tempo, degli anni Sessanta o Settanta o, persino, Ottanta. È roba, questa, che si avvicina più al marketing commerciale che a un intimo sentimento. Piuttosto, considero la nostalgia una carica grandissima di cambiamento se si avverte come la speranza, l’anelito, la passione che un tempo ti ha attraversato e ti ha scosso e che è rimasta inappagata. Non realizzata. Sospesa come una possibilità che non ha preso corpo e che è rimasta lì ad attendere di essere richiamata in campo. La nostalgia, dunque, è la strada che avresti potuto intraprendere e che per mancanza di forza, di sagacia, di fortuna non sei riuscito a percorrere e che è rimasta dentro di te come un non detto che chiede finalmente la parola. Ecco che allora essa diventa una “inattualità feconda”, libera dalle pastoie di un pragmatismo accomodante e che radicalmente chiede di cambiare il mondo. Non sono progetti e programmi astratti che muovono nel profondo le cose. Piuttosto la speranza che la realtà vissuta ha rintuzzato dentro di te e che pure non è morta; è semplicemente sopita, compressa, silente ma pur sempre pronta, ancor più carica per l’attesa, a trasformarsi nel “sogno di una cosa”».

Questo terribile 2020 una cosa buona sta lasciando: la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane. Qui da noi si è detto e scritto che Biden ha battuto Trump perché ha mostrato un profilo “moderato”, “centrista”. Ma sulle grandi questioni del nostro tempo, dalla lotta al cambiamento climatico alla salute, dal governo dei flussi migratori all’istruzione, il programma dei democratici Usa tutto è meno che “moderato”. Perché in Italia si ha così paura di un “riformismo radicale”?

«La sconfitta di Trump è un fatto positivo per tutto il mondo. Resta la domanda inquietante sul perché più di 70 milioni di americani abbiano scelto di nuovo l’ex presidente, un uomo davvero pericoloso e simbolo di un’involuzione antropologica e di civiltà dell’attuale destra capitalistica. Lei dice: perché di fronte agli spazi che comunque Biden ha riaperto, la sinistra stenta a mettere in campo un riformismo radicale? Usa la parola “radicale”. Non sono convinto che sia quella giusta. Il riformismo progressista autentico non ha bisogno di aggettivazione. Piuttosto sarebbe fondamentale spazzare via l’uso improprio, gergale, vuoto del termine “riformismo”. Tutti si dicono riformisti. Anche la Meloni, che presiede il Partito dei conservatori e riformisti europei. Berlusconi si è detto persino rivoluzionario. Infine in una parte non trascurabile del campo democratico si è radicata l’idea che il riformismo coincida con una modernizzazione e una innovazione volta a migliorare il funzionamento della società così com’è. Il nostro riformismo, al contrario, dovrebbe rigenerare, a fronte delle sfide dell’oggi, l’obiettivo di cambiare i rapporti di forza tra i deboli e i forti. È un camminare progressivo, un passo dopo passo, in alcuni momenti faticoso e lento, con arresti e riprese, sempre sorretto dalla volontà di cambiare nel profondo gli equilibri e le strutture del mondo. Questo significa riformare il capitalismo: esercitare una forza di regolazione, di contrasto alle forme più disumane prodotte dalla pura logica del mercato e del profitto. Attraverso l’etica, la politica, una statualità che interviene per ridare coesione e armonia alla società, altrimenti attraversata in modo cieco ed autolesionista dai processi produttivi. Tornando a Trump: ha vinto al centro o più guardando a sinistra? La domanda non mi appassiona. Lo scontro è stato tra due Americhe. Com’è sempre stato nel passato. In quel grande Paese ci sono stati John Wayne e James Dean. Il Ku Klux Klan e Martin Luther King. I processi a Hollywood e i film di Orson Welles. La guerra del Vietnam e i grandi raduni pacifisti e antimilitaristi. L’omicidio di Sacco e Vanzetti e il canto di Joan Baez che li ha resi immortali. Con Trump queste due Americhe si sono contrapposte nel modo più netto e violento. Altro che la teoria, sostenuta da qualcuno, secondo la quale la liberaldemocrazia negli Usa garantisce le regole ed è inossidabile. Nelle ultime elezioni, il presidente sconfitto non ha neppure riconosciuto la vittoria del suo avversario. Joe Biden e Kamala Harris hanno rappresentato, al di là delle loro posizioni soggettive, il differenziato mondo dell’America democratica. Dentro il quale si sono espressi in modo forte i movimenti anche più radicali, impegnati, di critica sociale e politica. E per fortuna è accaduto ciò. Altrimenti si sarebbe perso, se il fronte progressista e dell’America libera, fosse stato identificato ancora una volta con le élite metropolitane, protette, intellettuali e illuminate. Gli sviluppi successivi sono ancora aperti. Biden dovrà trovare un suo equilibrio, anche se i segnali su alcuni campi decisivi sono positivi e inequivocabili; a partire da quelli che investono i temi dell’ambiente».

In un recente webinar organizzato da italianieuropei, di cui lei è stato tra i protagonisti, Massimo D’Alema ha sostenuto, cito testualmente: «Serve una nuova forza politica con un progetto di riforma del capitalismo che renda possibile il contenimento delle diseguaglianze e la tutela dell’ambiente». È d’accordo su questo? E il Pd?

«Per riformare il capitalismo, come sostiene D’Alema, occorre tuttavia capire bene, nel mezzo della caduta delle forme, dove agisce il conflitto. E saperlo, poi, rimettere in forma politica. Dov’è oggi il conflitto? Quali canali lo possono esprimere? Come ho detto è qui il problema. La caduta delle “forme” è intrecciata alla caduta del soggetto reale nei processi sociali ed economici che ha spinto per più di un secolo in avanti il cambiamento e dato risposta al dolore delle persone. Tanto che oggi, in sua assenza, le contraddizioni nella nostra società appaiono confuse, nascoste, inespresse; ma il malessere c’è. Perché rimane una divisione orizzontale tra due mondi che nella società si muovono in sfere diverse, con ritmi diversi, con logiche e linguaggi diversi. Una fascia vincente e una perdente. Una felicemente globalizzata e un’altra confusamente schiacciata in una quotidianità senza alcuna prospettiva di riscatto. Come organizzare e agire in questo popolo nel suo insieme compresso in una dimensione subalterna e senza voce, ma così diverso per reddito, per posizione sociale, per aspirazioni? Ogni tanto da questo magma sorgono proteste rabbiose e violente. Si afferma quello che noi genericamente definiamo populismo. Sono i soli modi con i quali i “molti” trovano uno sbocco, una voce per palesare il malessere della propria condizione. Ma alla fine tutto si conclude con una sostanziale impotenza. Non viene sfondato il soffitto di vetro che impedisce di mobilitarsi verso l’alto; nella fascia dove le persone coltivano le proprie speranze e il miglioramento delle proprie vite. Non vedo altra strada per ricostruire una soggettività politica che quella di attraversare questo nuovo popolo arrabbiato, confuso, talvolta rozzo e diffidente. Perché quel popolo va riconquistato, come hanno detto nei loro interventi sia Tronti che Bassolino. Ma non ci sono lezioni o pedagogia dall’esterno che possano sostituire il necessario corpo a corpo, questo attraversamento del popolo così come oggi, e non come noi astrattamente lo vorremmo. Con la volontà di cambiarlo, ma con la giusta accoglienza per essere cambiati noi stessi. È un lavoro da fare sul campo, con la testa alta a guardare lontano, ma con i piedi nel fango dei processi concreti di oggi. È un lavoro per approssimazione. Da svolgere dall’alto e dal basso. Dal governo e nell’asprezza dell’azione territoriale. È un lavoro di “rammendo” che va pazientemente eseguito raccordando nodi via via più solidi di una rete che deve espandersi progressivamente. È un lavoro “costituente” la democrazia, una nuova statualità e un nuovo soggetto politico, che sul piano tattico ha bisogno di una precisione chirurgica e su quello strategico di una grande fermezza e, appunto, visione. Per fare questo non occorre meno politica, semmai un surplus di politica. Proprio perché siamo privi di quella facile lettura degli interessi che ci portava il popolo già filtrato, ordinato, cosciente della sua funzione e fiducioso per le sue prospettive. Non so se riusciremo in questo lavoro. Ma non c’è altra via da perseguire».

Intervista a Marcello Flores: “Il PCI sodialdemocratico? No, bolscevico fino alla fine”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 31 Dicembre 2020. Il Pci, la sua fascinazione e la sua decadenza, a cento anni dalla sua fondazione. Il Riformista ne discute con uno dei più autorevoli storici italiani: Marcello Flores. Il professor Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies. Tra le sue pubblicazioni più recenti, La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo (2017, Giangiacomo Feltrinelli Editore), Il secolo dei tradimenti. Da Mata Hari a Snowden, 1914-2014 (2017, Il Mulino) Storia della Resistenza (con Mimmo Franzinelli, 2019, Laterza). Il 14 gennaio sarà nelle librerie Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano (Laterza), scritto assieme a Giovanni Gozzini. Nel raccontare il suo diventare un comunista italiano a 14 anni, nell’intervista a questo giornale, Goffredo Bettini ricorda: «Sono diventato del tutto casualmente un comunista italiano a 14 anni… Il Pci diventò la mia nuova casa interiore. Fu un’attrazione fortissima: un fattore d’ordine, di disciplina, di sentimenti alti e disinteressati, di continuo apprendimento dal presente e dalla storia».

Professor Flores, perché questa funzione “pedagogica” è andata via via scemando fino a scomparire del tutto, e non solo a sinistra?

«Bisognerebbe anzitutto tener conto che questo atteggiamento pedagogico nasce fin dall’inizio, mosso dalla volontà di convincere il movimento operaio, le masse popolari a una azione più coerentemente rivoluzionaria. Questo quando nasce il Partito comunista. Nel dopoguerra, il Pci si configura come forza insieme rivoluzionaria e democratica. E lì c’è la doppiezza dell’obiettivo finale, che rimane sempre il socialismo e la rivoluzione, ma che convive in quel tempo con la determinazione togliattiana a schierare il partito a difesa della democrazia parlamentare e della Repubblica. Ma la doppiezza si esplicita soprattutto nell’amore per l’Unione Sovietica. Un atteggiamento quasi fideistico. Tutto quello che fa l’Urss va bene. Al tempo stesso, però, il Partito comunista si erge a difesa della Costituzione. Se non è doppiezza questa. Per la mia generazione, l’iscrizione o lo stare vicino al Pci, nasceva già con la consapevolezza che il Partito comunista aveva abbandonato la speranza della rivoluzione, incamminandosi su una via, chiamiamola così, di tipo socialdemocratico. Rimaneva però l’unica organizzazione che aveva forti rapporti di massa e quindi solo lì si poteva comunque continuare a lavorare sulle istanze dell’anticapitalismo e della possibile rivoluzione socialista. Tutto questo ha poi un cortocircuito quando nel ’68 i giovani si muovono per conto loro, e anzi si contrappongono in modo netto al Partito comunista. Il Pci negli anni ’70 ha una grande dimensione pedagogica anche un po’ sul terreno delle riforme e dei diritti. È vero che il Pci rifiuta le riforme, per esempio si astiene sullo Statuto dei lavoratori, cosa che oggi sembra assurda agli studenti quando lo vengono a sapere, ovvero partecipò obtorto collo alla lotta per il divorzio e per l’aborto; però in quell’epoca era l’unica forza politica di massa che sembrava poter recepire le spinte di una società civile che forse mai era stata cosi vivace e partecipata come nei primi anni ’70. Poi c’è l’altro aspetto che segnò quella fase storico-politica incidendo fortemente sul futuro della Repubblica e in essa del Partito comunista italiano…»

A cosa si riferisce, professor Flores?

«Negli anni ’70, gli “anni di piombo”, il terrorismo pose il Pci in una logica di difesa aprioristica dello Stato, aprendo altre contraddizioni. Io credo che è in quel momento, alla fine degli anni ’70 che il Pci perde molto della sua funzione pedagogica. Una conferma viene quando a prevalere nel gruppo dirigente del partito, e a seguire nella base dei militanti, è quella idea di tipo morale o moralistico di Berlinguer dell’austerità e dei sacrifici. Una suggestione indubbiamente molto affascinante ma che definiva in qualche modo una ideologia della sconfitta: siamo stati sconfitti però noi siamo migliori degli altri».

Ritornando sul concetto di doppiezza, conversando con Il Riformista, Luciano Canfora ha sostenuto che in Italia un grande partito socialdemocratico è esistito, e si chiamava Pci, facendo riferimento al “partito nuovo” delineato da Togliatti nell’Ottavo Congresso del Pci del dicembre 1956. È una provocazione intellettuale o c’è una verità storica in questa lettura?

«No, francamente non credo che ci sia una grande verità in questa asserzione. Perché in realtà continuava a incidere e orientare il bolscevismo della prima ora: solo noi abbiamo la verità, solo noi siamo la sinistra, tutti gli altri non lo sono. Dal ’44 in poi, la polemica sarà spesso indirizzata contro i gruppi che sono, nella sinistra, sia a destra del Pci sia alla sua sinistra. La pretesa di essere gli unici che incarnano la verità del movimento operaio e quindi anche del futuro del socialismo, rimane. È la stessa del ’21, una ideologia settaria. Non c’è una prospettiva socialdemocratica, tanto è vero che l’obiettivo di Togliatti, prima, e poi di Berlinguer è sempre stato quello dell’accordo con la Democrazia cristiana, cioè con l’altra forza popolare, l’altra “chiesa”, e non con le forze interne alla sinistra. Perché della sinistra ci si riteneva gli unici e autorizzati rappresentanti. Quindi tutte le ipotesi di un grande partito socialdemocratico, come solo Amendola provò a suggerire nel ’64 e fu sbeffeggiato da tutti, in realtà non esistevano, non facevano parte del “partito nuovo” che nasce con Togliatti nel ’44 e negli anni successivi. Fuori dalle suggestioni sull’austerità, il punto più alto della strategia berlingueriana, piaccia o no, è stato quello del compromesso storico, così come fu argomentato nei suoi articoli su Rinascita, ragionando sul golpe in Cile».

Ormai si approssima il centenario della nascita del Pci (21 gennaio 1921). Si annuncia una pioggia di libri… Cos’è, una operazione di marketing politico-editoriale, o il segno di una riflessione che guarda al futuro anche con una rivisitazione autocritica del passato?

«Io credo che i centenari e i grandi anniversari siano diventati l’occasione e il termometro della cultura contemporanea. Sicuramente ci saranno in questo caso alcuni motivi di riflessione, alcuni tentativi di proporre una rilettura del passato guardando al futuro. Altri invece punteranno a un’analisi storica, di cosa accadde davvero in quel momento, e perché e come nacque il Partito comunista. Credo però che difficilmente da quella esperienza si possano trarre delle sollecitazioni utili per il futuro. Innanzitutto perché la maggior parte almeno dei saggi che sono già usciti o dalle riflessioni che sento, partono da un dato erroneo dal punto di vista storico…»

Vale a dire?

«Che il vero Partito comunista, come dice molto apertamente Giuseppe Vacca, nasce nel ’26 con il Congresso di Lione, e quindi non è quello del ’21. E questa è la tradizione comunista che ripropone se stessa, che rifiuta quel settarismo dei primi anni, però in modo ambiguo, in fondo reticente. Perché rifiutare apertamente quel settarismo, significherebbe ammettere che la scissione di Livorno è stata una catastrofe, e che non si doveva fare. Cosa che invece nessuno, neanche Amendola, quando propone, nel ’64 la riunificazione dei due partiti, ha il coraggio di fare. Nonostante tutto, si continua a sostenere, anche se con accenti diversi, che quella scissione andava fatta. Non si capisce perché, visto che essa è il suggello di una sconfitta che si era consumata sul piano sociale, perché l’occupazione delle fabbriche è già finita, ed è fallita, e sta invece nascendo e imponendosi la forza del fascismo. Nel momento in cui c’era più bisogno di una vera unità, almeno sulla difesa della democrazia liberale, si compie la scissione. I centenari possono dar vita a tante belle opere ma in genere non sono molto utili per una riflessione che riguardi il futuro».

Siamo passati da un’epoca segnata dal Pci come una sorta di “Re Sole politico”: la sinistra sono io, ad un presente in cui la parola sinistra, non dico comunista, sembra diventata imbarazzante, quasi impronunciabile, meglio dirsi democratici, progressisti… Perché questa reticenza, professor Flores?

«Un po’ perché nella storia italiana la sinistra è stata nella maggior del tempo della vita della Repubblica egemonizzata dal Partito comunista. E quindi dirsi di sinistra, sembra in qualche modo voler dire sì, io accetto quella tradizione lì. Detto questo, resto convinto che chiunque sia un discendente dell’ideologia azionista, non possa che ritenersi di sinistra, ma forse non lo dice in modo così continuo ed esplicito e tende più che altro a riferirsi ad un socialismo liberale. Ma siamo pur sempre nel campo delle definizioni. Il problema vero, semmai è un altro…»

Quale?

«Quelli che continuano a dirsi di sinistra, lo manifestano a parole, nei salotti mediatici, ma poi non c’è un atto dei loro programmi che sia davvero di sinistra. Francamente farei volentieri a meno di una sinistra “parolaia”. Quanto ci sarebbe bisogno, invece, di una “sinistra” che sia tale nei fatti, nel suo agire politico e di governo. Poi si chiami pure come meglio crede».

Sono passati cento anni e la peste comunista ancora infesta l'Italia. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 31 dicembre 2020. Un secolo fa la peste comunista contaminava il nostro Paese incarnandosi nel partito che per settant'anni avrebbe cospirato per precludere all'Italia ogni evoluzione liberale e genuinamente democratica. Con l'organizzazione comunista più potente e influente dell'occidente, durante il corso repubblicano l'Italia diventava dunque l'ambasciata plenipotenziaria nel mondo libero della più spaventosa macchina di oppressione mai realizzata nella storia dell'umanità. Intere generazioni erano educate al verbo illiberale, indottrinate alla pratica statalista che imbandierava di rosso l'identica impostazione appesa per i piedi in Piazzale Loreto, mentre intorno ai cimiteri degli inglesi e degli americani morti per restituirci la libertà a cui avevamo rinunciato si moltiplicavano le vie e le piazze intitolate ai nomi degli sterminatori comunisti. La contraffazione, la censura, le menzogne imposte al Paese nel diffondersi dell'infestazione comunista rendevano ammissibili le celebrazioni antifasciste che levavano il pugno chiuso senza sapere nulla delle devastazioni perpetrate negli inferni governati sotto i simboli di quei paradisi sociali. Ci sarebbe stato meno entusiasmo nei cortei rossi se quei militanti avessero saputo che settecentomila loro coetanei erano fucilati nel corso di un solo anno, e che altri trecentomila morivano durante gli interrogatori nella patria della giustizia comunista. La poetica per i meriti rivoluzionari avrebbe ceduto a qualche perplessità nell'apprendere che nell'Unione Sovietica del decennio appresso arrivava a sessant' anni il trenta per cento della popolazione, mentre altrove la percentuale andava dal settanta all'ottanta. Era - e continua a essere - una contabilità esclusa dal perimetro delle conoscenze concesse alla disponibilità del Paese che si prepara a festeggiare trasognato il centenario di storia del comunismo italiano. Così come ha poco diritto di stampa l'esistenza prigioniera in quei sistemi di un'umanità spiata, intimidita, torturata nella distribuzione equanime di ingiustizia e miseria. La menzogna ulteriore, cioè quella ricorrente posta a scriminare la diversità comunista italiana, sarebbe assolta se appunto non fosse sopravvissuta durante un secolo sotto il manto di quell'apparato mistificatorio e di censura. Ma l'arretratezza civile del Paese, la sua incapacità di rivolgersi alla soluzione liberale e la sua propensione indefessa a ricercare pace nel reggimento autoritario, sono l'effetto di quell'ormai antica contaminazione: che - stiamo bene attenti - non ha prevalso su nessuna tradizione alternativa, ma ha con più forza ed efficacia accompagnato l'Italia nel suo percorso illiberale e incertamente democratico. Manca solo l'ultimo scempio, e i festeggiamenti venturi potrebbero essere l'occasione: e cioè che il partito comunista italiano, dopotutto, è sempre stato anticomunista, una cosa abbastanza facile da sostenere nel Paese che non sa niente del comunismo proprio perché la cultura comunista l'ha pervaso.

L'annus horribilis della sinistra, così le sue icone si sono eclissate. La lotta al virus ha stravolto l’agenda politica e monopolizzato la narrazione mainstream, non tutti sono sopravvissuti alla grande mareggiata. Ecco le icone della sinistra che sono sparite dai radar nel 2020. Elena Barlozzari, Giovedì 31/12/2020 su Il Giornale. Il 2020 è un anno che passerà alla storia. È una linea di demarcazione netta tra il prima e il dopo. La lotta al virus ha stravolto l’agenda politica e monopolizzato la narrazione mainstream. Non tutti sono sopravvissuti alla grande mareggiata. C’è chi si è mantenuto a galla e chi invece è stato portato via dalla corrente. Guai a coltivare una sola ossessione, la teoria di Darwin non lascia scampo. Non è più tempo di passerelle sulle navi Ong né di girotondi. Non è più tempo neppure per magliette rosse e sardine. I pasdaran del “restiamo umani”, adesso, hanno di fronte qualcosa di ben più temibile di un ministro dell’Interno che minaccia di chiudere i porti. E proprio quando il gioco si fa duro, i duri sono fuori dai giochi. Che ne è stato, ad esempio, dell’enfant prodige Mattia Santori? “Il vulcano di idee ed emozioni” (così viene descritto in un post biografico comparso qualche tempo fa sul profilo Instagram delle sardine) si è improvvisamente spento. A poco più di un anno di distanza dal tutto esaurito in piazza San Giovanni il leader dei pesciolini ha perso il tocco magico. Niente più ospitate televisive, niente più paginate di giornale, il grande pubblico ormai lo ha dimenticato. È quel che succede a chi insegue la moda dell’anti. Dopo aver centrato l’obiettivo principale, quello di per far perdere le elezioni alla Lega in Toscana e in Emilia Romagna, le sardine non hanno saputo tirar fuori dal cilindro nulla di nuovo. Il mondo nel frattempo è cambiato. Come ha ricordato il sondaggista Nando Pagnoncelli: “Se prima del Covid il 46 per cento degli italiani poneva il tema dei migranti come una delle priorità del Paese, ora questo tema pesa per il 27 per cento, i flussi continuano ad esserci ma le persone sono più preoccupate per la loro salute e per la situazione economica”. Le sardine non sembrano essersene accorte e infatti una delle loro ultime iniziative è stata proprio una raccolta fondi per finanziare una nave Ong. Sono andati incontro alla stessa sorte anche personaggi come Mimmo Lucano e Chef Rubio. Proprio come Santori anche l’inventore del “modello Riace” e lo chef che invocava “l’eliminazione fisica dei sovranisti” hanno goduto di ampia popolarità nei mesi della stagione gialloverde. E adesso? Se il primo è ancora alle prese con gli strascichi giudiziari della sua filantropia, il secondo è alla disperata ricerca di qualcuno contro cui twittare veleno per un pugno di follower. Che dire invece di Laura Boldrini? Per l’ex presidente della Camera il 2020 è stato l’anno dell’eclissi. La genesi politica del fenomeno Boldrini risale a quando era portavoce in Italia dell’Unhcr. Si fece notare condannando i respingimenti dei migranti effettuati nel 2009 dal governo Berlusconi e venne consacrata paladina di quelli che lei chiama “popoli in fuga”. Da lì alla terza carica dello Stato il passo è stato breve. Cifre distintive del suo percorso politico sono state anche la battaglia linguistica contro gli stereotipi di genere e quella per rimuovere le tracce del fascismo. Tutte questioni che la pandemia ha fatto scivolare in secondo piano. Così anche per lei gli squarci di visibilità si sono ridotti all’osso. Una delle sue ultime apparizioni mediatiche, che sicuramente non lascerà il segno, è stata la querelle con il direttore di "Huffington Post" Mattia Feltri. E pensare che rimane pur sempre la rappresentante più in vista di Liberi e Uguali. Il partito nato come piano di fuga dal Pd renziano ora è una succursale della casa madre. Matteo Renzi se ne è andato e guida una zattera senza elettori, al suo posto c’è Zingaretti e gli ex ribelli faticano a trovare un ruolo politico. Il loro uomo immagine è Roberto Speranza, ministro della Salute e in prima linea sul fronte del Covid. Tutti gli altri invece sono spariti. Pierluigi Bersani fa il vecchio saggio nei salotti televisivi. È più personaggio che leader politico. Pietro Grasso, dopo aver lasciato la presidenza della Camera dei Deputati, si gode il tempo libero ritrovato e non sembra neppure in gioco come successore di Mattarella. Renzi, invece, per uscire dal confinamento sta usando la carta del ricatto, ma dei suoi notabili si è persa traccia. Il famoso giglio magico sembra aver perso i super poteri. Non è facile vivere da “cespugli”. Elena Boschi non è più la “zarina” di qualche anno fa. È andata in delegazione da Conte, ma di lei si parla ormai soprattutto sulle pagine di cronaca rosa. E Luca Lotti, il suo rivale storico alla corte di Renzi? Lotti, Lotti, chi era costui?

Quei cento Pd senza identità. I peccati originali alla fine si scontano sempre. Ad Adamo ed Eva andò malissimo, ai giorni nostri invece costituisce un miracolo politico il Pd, rimasto in Paradiso nonostante la sconfitta elettorale del 2018. Gabriele Barberis, Domenica 03/01/2021 su Il Giornale. I peccati originali alla fine si scontano sempre. Ad Adamo ed Eva andò malissimo, ai giorni nostri invece costituisce un miracolo politico il Pd, rimasto in Paradiso nonostante la sconfitta elettorale del 2018. I dem sono come un ristorante stellato di grande tradizione che riesce a stare sul mercato più per buona stampa che per qualità del menù proposto. Il Partito democratico resta un perno di governo, oltre ad esprimere il presidente della Repubblica (Mattarella), il commissario Ue agli Affari economici (Gentiloni) e il presidente del Parlamento europeo (Sassoli). Grandi vertici, poca base. È finita da anni la suggestione del bottegone rosso che accudiva milioni di militanti dalla culla alla tomba. Senza dimenticare che in pochi anni il primo partito italiano della sinistra ha subìto due laceranti scissioni addirittura per mano degli ex segretari D'Alema, Bersani e Renzi. Ed ecco il pagamento del peccato originale: la povertà di una classe dirigente nazionale che negli anni d'oro sapeva coprire con personaggi di rilievo varie istanze politiche, dall'ala dei sindacalisti duri e puri ai miglioristi che dialogavano con il Psi di Craxi, da molti compagni visto come un caudillo destrorso. Il dibattito interno si è affievolito, forse solo l'ex ministro Orlando si distingue per prese di posizione più ragionevoli che strumentali. Il Partito, con la p maiuscola, non c'è più. E sicuramente ha inciso il fatto di ritrovarsi a guidare il Paese senza legittimazione elettorale. Quel sigillo che invece non manca ai governatori democratici, riconfermati in blocco nelle rispettive regioni con consensi personali ben superiori a quelli del proprio partito. Si fa fatica a citare su due piedi cinque colonnelli nazionali Pd, volti indistinti nell'anonimato politico. Ma ormai qualsiasi cittadino italiano che segue la politica sa riconoscere De Luca, Emiliano e Bonaccini, leader locali che sono riusciti a incarnare rivendicazioni nazionali, anche con uscite ipermediatiche. Il Pd nazionale di Zingaretti (governatore con mille guai graziato dai giornali amici) non è il Pd del «lanciafiamme» di De Luca e neppure il Pd dello spregiudicato Emiliano che si presenta come un grillino populista di complemento. Il governatore dell'Emilia-Romagna Bonaccini sogna di fare tabula rasa nel partito e diventare premier. Il presidente toscano Giani resta invece il custode della tradizione di una Regione rossa che non cade mai. Cento volti, cento show, nessun Pd. Sul territorio governa chi ha preso milioni di voti, a Roma restano a sostenere Conte i superstiti di un partito che non esprime un premier vincente alle urne dai tempi di Prodi.

Pietro Senaldi contro il Pd: "Ci attaccano perché diciamo la verità sui vaccini". Libero Quotidiano il 06 gennaio 2021. C'era una volta un partito della sinistra, grande nei numeri, nelle ambizioni, e nelle scemenze con cui lavava il cervello ai suoi elettori. Era il Pd, ex Pds, ex Ds, ex Pci. Oggi quel partito non ha più numeri adeguati che gli consentano di menare il torrone. Vivacchia alla metà dei consensi ai quali lo portò Matteo Renzi, alle Europee del 2014. Ma oggi quel partito non è più grande neppure nelle ambizioni. È riuscito ad arrivare al governo con un gioco di palazzo, dopo che gli italiani lo avevano bocciato sonoramente, relegandolo dietro al centrodestra e ai grillini, ma di fatto non governa, e neppure desidera farlo. Si limita a occupare poltrone, delegando ogni responsabilità e scelta a Conte, ai suoi commissari, alla Ue, perfino a Di Maio. Gli italiani, anche i più informati, non sanno quale idea del Paese abbiano Franceschini, Boccia, Zingaretti, Marcucci, la De Micheli e Orlando, l'attuale crème dell'ex carrozzone rosso. Il migliore in circolazione sembrerebbe il ministro Amendola, costretto al ruolo di funambolo tra Bruxelles, Palazzo Chigi, le mattane di Casalino, i tremori di Speranza, la calcolatrice rotta e le lenti appannate di Gualtieri, ministro dell'Economia senza laurea in Economia.  Le sole cose che sono rimaste davvero grandi nel Partito Democratico sono le incredibili frottole che i suoi esponenti sfornano a getto continuo per infangare chi li critica, sperando di pulirsi il cappotto scaricando sugli altri il letame con il quale se lo sono lerciati. Così due giorni fa i deputati dem, i quali hanno ottenuto seggio e stipendio grazie a Renzi, che oggi schifano e combattono pur di tenersi la poltrona, hanno fatto un comunicato contro il nostro giornale accusandoci di sfornare «fake news che sono un insulto al Paese». I progressisti reputano che sia «intollerabile» che Libero non fermi la sua propaganda neppure davanti ai vaccini». I trinariciuti ce l'hanno con noi perché abbiamo scritto che tutti i Paesi stanno vaccinando a più non posso tranne l'Italia, a causa di Arcuri, che ha comprato meno dosi degli altri, non si è coordinato con le Regioni, ha sbagliato l'acquisto delle siringhe, non ha coinvolto nell'operazione la sanità privata e ha fatto un bando per l'assunzione a tempo degli infermieri necessari al programma di profilassi tardivo e impreciso. Sono tutte verità documentate. Quando abbiamo scritto l'articolo per cui ci accusano l'Italia aveva utilizzato meno del 10% delle dosi di siero di cui disponeva, che comunque sono di numero ben inferiore (470mila) rispetto a quelle in dotazione agli altri Stati. E ancora oggi abbiamo un decimo dei vaccinati rispetto alla Gran Bretagna e a Israele, la metà di quelli tedeschi e, parametrati alla popolazione, il 25% di quelli ungheresi e un ottavo dei portoghesi o dei danesi. Abbiamo calcolato che, andando avanti a questo ritmo, serviranno 23 anni per vaccinare tutti gli italiani. Si tratta di matematica, non opinioni. Peraltro le responsabilità principali non sarebbero neppure da imputare ai dem, visto che Conte, Casalino, Arcuri e Speranza, governano la pandemia da soli. Ma i deputati Pd, anziché difendere il popolo, difendono l'avvocato del popolo e delle cause perse. Brutta fine. Si chiamano democratici ma si accontentano di fare le belle statuine in Parlamento, inghiottendo senza fiatare decreti presidenziali e approvando manovre finanziarie in barba a ogni prassi e regolamento. Hanno abdicato al ruolo di partito guida della sinistra per fare i reggicoda del premier e del super commissario alla pandemia. Un tempo i comunisti mentivano in nome dell'ideologia, per convincere la gente che, se avessero governato loro, sarebbe stata meglio. Oggi mentono in nome della difesa della propria poltrona. Siccome urlare più forte di chi urla di mestiere non fa per noi, come sempre ci sediamo sulla riva del fiume e aspettiamo. Il governo ha detto che entro marzo saranno vaccinate tredici milioni di persone. Saremmo felici se, per una volta, avesse ragione lui e non noi. Ma i primi a non crederci sono i pochi piddini onesti. «Bisogna fare di più per i vaccini, o finiremo tra dieci anni» recita la nota divulgata ieri dal dem Stefano Pedica, che prevediamo sarà anch' egli criticato dai compagni di partito per aver detto la verità. 

·        Professione: Sfascio…

«Il Pd è fermo all’epoca pre-digitale: internet dà fastidio ai suoi micro-notabili». Marco Damilano su L'Espresso il 9 novembre 2021. «Chi controlla il digitale non si occupa di comunicazione, è il capo dell’organizzazione del partito, come accadeva un tempo. E questo provoca resistenze». Parla il professor Mauro Calise. «Sono un illuminista digitale», si definisce il professor Mauro Calise, inventore di creature politologiche (il Partito personale, i micro-notabili...) e precursore del digitale nell’education con Federica, il centro di innovazione, sperimentazione e diffusione digitale dell’università Federico II di Napoli (federica.eu). Calise dirige ora la nuova rivista del Mulino, Rivista di Digital Politics, con l’obiettivo di una riflessione intellettuale sulla platform society che ha cambiato le nostre vite. Con attenzione particolare alle forme della politica: l’organizzazione, la comunicazione, la leadership. Il secondo numero, in uscita nei prossimi giorni e già in rete, è dedicato ai tecnopartiti. Marco Valbruzzi studia il caso dei democratici americani, così lontano dal Pd italiano, che Calise conosce molto bene. 

Lei ha studiato, ricordo, il sistema di consenso della Dc nelle campagne del salernitano negli anni Settanta. Che collegamento c’è con la politica digitale?

«Nel 2013, dopo le dimissioni di papa Ratzinger, un alto prelato fece autocritica in tv. Disse, più o meno, che la Chiesa si era sbagliata a pensare che la comunicazione fosse un fattore del nostro tempo, la comunicazione è il nostro tempo. Un importante manager ha aggiunto, facendo irruzione nel campo teologico, che il digitale è Dio. La pandemia ha accentuato la centralità del digitale, impone di ripensare le categorie di pensiero e l’organizzazione della nostra vita collettiva e individuale, dalla scuola al lavoro con lo smartworking. E impatta sulla politica, sulla formazione e dissoluzione delle leadership e sul funzionamento della democrazia. Tra il 2004 e il 2010 è cominciata la nuova era in cui siamo immersi. Da un lato le corporations, i giganti del web, costruiscono un neo-capitalismo superando gli Stati nazionali, dall’altro vanno definitivamente in crisi le macchine dei partiti con cui si raccoglieva il consenso». 

Lei distingue tra un atteggiamento strumentale, i vecchi partiti che usano il digitale per aggiornare la loro organizzazione, e costruttivista, la nascita di nuovi movimenti che guardano al digitale come il loro essere, la loro ragione sociale.

«Il caso di scuola sono gli Usa. A differenza di quanto si ostinano a pensare in molti in Europa e in Italia, sono gli Stati Uniti la culla delle moderne macchine di partito, già dall’Ottocento. Ora le campagne elettorali si fanno in rete. I democratici con Howard Dean sono partiti prima che nascesse Facebook, Dean fu sconfitto ma fu cooptato con tutto il suo staff al vertice del partito di cui divenne chairman, l’equivalente del nostro segretario. Il ciclone Trump ha poi invertito i rapporti di forza. In Italia il Movimento 5 Stelle con Gianroberto Casaleggio ha usato il digitale come piattaforma con una gestione centralizzata e ha lanciato un comunicatore come Beppe Grillo che non aveva nessuno, prendendo tutti in contropiede. Mi sono chiesto per anni chi ci fosse dietro la Casaleggio. Mi sono risposto che non c’è nessuno. In una ecosfera così fragile è bastata un’aziendina a entrare nel burro». 

Nel Pd discutono da anni di app (senza farle davvero), di piattaforme digitali, ora ci sono anche le agorà di Enrico Letta. Mi pare che non riescano né nell’approccio strumentale né in quello costruttivista...

«Il Pd è fermo all’epoca pre-digitale. C’è l’idea astratta di un cittadino che svolge l’intero tempo della sua vita sul digitale e che poi dovrebbe partecipare alla vita del partito in un tempo parallelo, in sezione. Non è così, ovviamente. Se parli la lingua digitale riesci anche a entrare in connessione con le marginalità. Il nodo politico che impedisce al Pd di essere protagonista digitale è la centralizzazione. Chi controlla il digitale non si occupa di comunicazione, è il capo dell’organizzazione del partito, come accadeva un tempo. E questo provoca resistenze, dà fastidio alla rete dei micro-notabili di cui è composto il Pd. Il secondo punto è che devi accettare la dinamica partecipativa, ti può sfuggire di mano, devi saperla governare». 

Negli Usa con Trump, e in Italia con Salvini e i 5 Stelle, il digitale è apparso come un’autostrada per i partiti populisti. Ora, però, l’establishment tira un sospiro di sollievo. Governa Mario Draghi, uno che non ha un profilo facebook, twitter, instagram, ha solo un numero di telefono che conoscono in pochissimi.

«Il caso Draghi ci dice una cosa. José van Dijck distingue tra connessioni, la “connectedness”, i rapporti e le relazioni che abbiamo intessuto per nostra volontà, possibilità, percorsi biografici, e la connettività, la “connectivity”, la capacità di stare nella rete. Sono i due livelli: l’attore che si muove nella rete e la rete che costruisce l’attore. Draghi è al vertice della “connectedness”, nessuno più di lui è “well connected”, il suo livello di specializzazione lo colloca in un club di quattro-cinque figure al mondo. Ma se dovesse partecipare alle elezioni con un suo partito avrebbe la necessità di entrare sul terreno della “connectivity”, dove basta non dico un Casaleggio, ma anche un Morisi, per farti saltare. Trump era messo bene sul primo versante, un “well connected” per censo, eredità familiare, appartenenza alla comunità degli affari e dei media, ma quando si è candidato si è spostato nel mondo nuovo, sulla connettività, come hanno fatto Bolsonaro in Brasile, Modi in India e anche Macron in Francia. I 5 Stelle sono il caso opposto: “connectivity” senza “connectedness”, hanno vinto le elezioni sulla rete senza relazioni e competenze e l’hanno pagata cara, ora stanno cercando di costruire un partito con Conte. Il Pd è a metà strada. Se hai entrambi i fattori, metti su una macchina spaventosa. Se ne hai solo uno, sei instabile, fragilissimo». 

I casi che lei ha elencato dimostrano però che con il digitale si vincono le elezioni ma non si governa.

«Non è così. Si governa anche “con” il digitale. Pensi alla tweet-diplomacy di Trump, il tweet di inizio mattinata della Casa Bianca che componeva l’agenda diplomatica e ministeriale della giornata. E soprattutto a quanto fa la Cina, dove il digitale serve al potere per raccogliere i dati, sondare le preferenze delle zone anche più remote, controllare, far passare le proprie istanze di governo». 

Quali sono le prossime frontiere?

«Una è quella dell’education, l’istruzione scolastica e universitaria, in cui sono da anni con Federica Web Learning. Si formerà qui la nuova classe dirigente, Cina e India lo hanno capito perfettamente, si giocano l’egemonia socio-culturale e geo-politica. L’altra sono le piattaforme costruite direttamente dai leader, come Trump con Truth, in opposizione ai giganti del web che lo hanno escluso dalla Rete, o degli Stati. Ogni Stato con la sua piattaforma, a partire da quelli autoritari o semi-totalitari». 

E intanto in Italia il voto sul ddl Zan è stato accolto dai social con sconcerto: ci sono le firme digitali per i referendum e la campagne in rete, ma quando si arriva nell’aula del Senato ci sono la tagliola, il voto segreto, i regolamenti. Vince l’istituzione, con le sue regole antiche.

«È una reazione comprensibile perché non c’è un canale funzionale, intelligente in cui far esprimere la ricchezza di quanto è presente nella rete. Le istituzioni devono trovare un tempo più adeguato, se vogliono evitare di chiudersi come avviene nei sistemi autoritari. Siamo solo all’inizio. La democrazia diretta modello Rousseau è già tramontata, siamo già nell’era della democrazia digitale, che parte dalla libertà di espressione individuale. Nel Novecento c’era la nazionalizzazione delle masse, oggi siamo nell’epoca della personalizzazione delle masse. Come sempre, la questione è governare il processo. Ma io sono convinto che il punto di inizio è mettersi dalla parte del mondo nuovo. Sono un illuminista digitale». 

Lo sciopero ad oltranza, la crisi e l'intesa. La cocente sconfitta alla Fiat e la lezione inascoltata di Lama. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Per gentile concessione dell’editore Adapt e dell’autore, pubblichiamo qui di seguito uno stralcio di “Capitano, o mio capitano – Il secolo di Luciano Lama (1921-2021)” di Giuliano Cazzola.

La sconfitta alla Fiat. Il sindacato sopravvissuto ai ruggenti anni Settanta – come quel cavaliere che continuava a combattere senza accorgersi di essere già morto – andò incontro a una cocente sconfitta alla Fiat. L’azienda torinese si trovava a dover fronteggiare una situazione di mercato decisamente critica e priva di prospettive a breve. Aveva inizio la grande ristrutturazione produttiva del decennio Ottanta. Dapprima furono richiesti migliaia di licenziamenti. Poi, dopo la caduta del governo Cossiga, la Fiat colse l’occasione per aggiustare il tiro tramutando la richiesta di licenziamenti in 23 mila sospensioni. I sindacati, che erano scivolati, per sostanziale debolezza, in uno sciopero a oltranza, coi picchetti davanti ai cancelli, non furono in grado di convincere i lavoratori a cambiare forma di lotta, rientrando al lavoro e adottando iniziative di sciopero articolato e di più lungo respiro. Così l’azione andò avanti per 35 giorni. Fino a quando, il 14 ottobre, si svolse a Torino una grande e inaspettata manifestazione a cui presero parte (si disse) 40 mila lavoratori tra capi, tecnici e impiegati, in difesa del diritto al lavoro. L’evento suscitò un’enorme impressione e indusse i vertici sindacali, fino a quel momento fortemente impegnati nella battaglia, a pervenire a un accordo che venne vissuto dalle «avanguardie» come una sconfitta, tanto che, il giorno dopo, i segretari confederali vennero inseguiti da alcuni gruppi di lavoratori, quando si presentarono nelle assemblee. Cesare Romiti, allora amministratore delegato del gruppo torinese, alcuni anni dopo ricordò la conclusione della vertenza con queste parole: «La svolta del 1980 fu determinante non solo per la Fiat ma per tutto il paese. Non credo di peccare di presunzione se affermo che parole come profitto, produttività, merito hanno riacquistato il diritto di esistere in Italia grazie soprattutto a noi, alla nostra fermezza». Allora dirigeva la Cgil del Piemonte Fausto Bertinotti e Claudio Sabattini – l’unico che pagò (insieme con il suo fedele vice Tiziano Rinaldini) per la sconfitta con un’emarginazione durata anni e scontata duramente anche sul piano personale – era il segretario della Fiom che seguiva il settore dell’auto. A questo proposito, quando anni dopo, Sabattini fu “riabilitato” (arrivò persino ad essere eletto segretario generale della Fiom dove fondò la dinastia dei “sandinisti” tuttora al potere) raccontò di un incontro tra lui e Lama il cui tono era questo: «Ricordo che dopo il 1980 Lama mi disse che bisognava trovare un capro espiatorio, e che io dovevo assolvere a questa funzione e poi Lama aggiunse: «È capitato anche a me per molto meno, sono dovuto passare dalla segreteria confederale ai chimici improvvisamente, solo perché avevo mancato di rispetto ad un segretario confederale». Che fosse accaduto davvero così? Sabattini era molto spregiudicato, come confermò anche Trentin (che pure volle “recuperarlo” e ricostruirgli la carriera) nei suoi Diari: «Ma anche Sabattini e il suo tentativo di accreditarsi come il rappresentante DOC del centro del Pds con una spregiudicatezza e una durezza che dimostra[no] come le vittime di ieri sanno imparare dai loro carnefici». Come il bambino della favola, i “quarantamila” di quel 14 ottobre 1980 avevano svelato la nudità del sovrano-sindacato. I dirigenti più responsabili colsero quella traumatica occasione per compiere quanto non erano stati in grado di fare prima: concludere, alle condizioni possibili, una vertenza ormai insostenibile. Viene da chiedersi – col senno di poi – perché il sindacato abbia avviato una riflessione autocritica soltanto dopo la sconfitta, mentre prima – in nome di una falsa unità di classe – l’intero movimento confederale si era schierato a favore di una lotta persa in partenza, perché partiva da una negazione della crisi come dato oggettivo rispetto al quale la stessa azienda non aveva spazi di manovra, salvo condannarsi a un inesorabile declino. Le analisi compiute dal sindacato erano invece le solite, tutte incentrate sull’esigenza di sconfiggere un disegno diabolico, teso a recuperare potere in fabbrica. Le maestranze della Fiat furono le prime vittime di una direzione sindacale in parte inadeguata e in parte pregiudizialmente intenzionata a inasprire la vertenza e la lotta. Nel suo insieme, il sindacato sembrò negare, infatti, l’oggettività della crisi produttiva, il mutamento dei mercati e la necessità d’ampi processi di ristrutturazione. Tutta l’operazione – la richiesta di 15 mila licenziamenti prima, di 23mila lavoratori in cassa integrazione, poi, faceva parte di un progetto di recupero di un dominio assoluto, che il sindacato aveva il dovere di contrastare. I sindacalisti e il sindacato erano ancora in auge; ma somigliavano a quei viaggiatori su di una mongolfiera bucata: credono di andare più veloci mentre stanno precipitando. Come ricorda Carniti: «L’impressione prevalente, in ogni caso quella di Lama, Benvenuto e la mia, è che ci si sta cacciando in un vicolo cieco». Se le dinamiche di quella vertenza sono note, il saggio di Pierre Carniti consente di conoscere le considerazioni che i gruppi dirigenti fecero nelle ore convulse che seguirono la “marcia” e che li portò a firmare d’urgenza il testo dell’accordo proposto dalla Fiat, anche perché era evidente a chiunque che lo sciopero ad oltranza (una forma di lotta estranea all’esperienza italiana) non era un segno di forza ma di grande debolezza. Il successo dell’iniziativa era affidato ai picchetti dislocati sui tanti portoni degli stabilimenti e rafforzati da lavoratori provenienti da altre città. I “nostalgici” dell’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920 (che durò meno dei 35 giorni di 60 anni dopo) arrivarono a strumentalizzare alcune parole di circostanza dette da Enrico Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat. Eppure tutti sapevano che “occupare” quegli stabilimenti sarebbe stata un’avventura insostenibile. In quello stesso giorno – 14 ottobre – era in corso una trattativa a Roma. All’arrivo delle notizie da Torino, Romiti volle informarne anche la controparte, tra cui i segretari generali delle confederazioni. Carniti scrive che «nel giro di poche ore appare chiaro che l’azienda …è disponibile a definire una soluzione». Poi racconta che era Lama ad insistere per chiudere la trattativa senza ulteriori rinvii, ma che lui, spesso in polemica con Romiti, la trascinò avanti fino alle 5 del mattino successivo. Era il caso di perdere inutilmente una notte di sonno quando ormai tutti erano decisi a chiudere la partita. La sera stessa, al cinema Smeraldo di Torino ha luogo l’assemblea dei delegati. «Il clima psicologico è pessimo – spiega Carniti – e la riunione sempre sull’orlo di un imminente degenerazione. Tra brusii e lazzi – aggiunge – prendiamo la parola Benvenuto, Trentin ed io». Lama decise di non parlare in quel contesto. Alla fine dell’assemblea all’una si assegnarono gli stabilimenti dove i segretari generali avrebbero tenuto le assemblee dei lavoratori. Carniti alle 5 del mattino alle Meccaniche di Mirafiori, Lama alla Carrozzeria, Benvenuto alle Presse. Nel ricordare questi fatti non posso non sottolineare che gli eredi odierni di dirigenti di quella stoffa oggi non vogliono prendersi la responsabilità di indurre i lavoratori a vaccinarsi ovviamente anche nel loro interesse. Nel suo libro più volte citato Carniti racconta della dura aggressione (preordinata quasi manu militari) che dovette subire quando aveva terminato l’assemblea che gli era stata assegnata e durante la quale, sia pure in un clima polemico, la maggioranza dei lavoratori aveva approvato l’intesa raggiunta. Giuliano Cazzola 

Se avesse vinto il leader della Cgil? Perché per il dopo Berlinguer il Pci scelse Alessandro Natta e non Luciano Lama. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Cento anni fa nasceva Luciano Lama. Probabilmente, insieme a Di Vittorio e Trentin, è stato l’uomo che più di tutti ha contribuito a rendere grande la Cgil. L’ha guidata negli anni nei quali il sindacato era più forte, e il movimento operaio era tra i protagonisti assoluti della vita politica in Italia. Oggi il movimento operaio è stato sconfitto, è uscito di scena. Il paese si è spostato a destra. Si sono spostati i poteri reali, che allora erano in gran parte nelle mani della politica e del sindacato. Ora sono fuori. Nella finanza, nella magistratura, nella burocrazia. Il sindacato conta molto poco. Mi è tornata in mente questa storia proprio sabato scorso, quando un gruppetto di fascisti ha invaso la sede centrale della Cgil. Lo ha scritto anche Fabrizio Cicchitto su questo giornale: ai tempi di Lama una cosa del genere non era nemmeno immaginabile. Le mura della Cgil erano più robuste di quelle di Stalingrado. E non solo le mura. L’influenza politica che il sindacato aveva sulla vita del paese era gigantesca. Gli stessi partiti, spesso, dovevano tenerne conto. E il collegamento con la società, essenzialmente con il mondo dei lavoratori, era d’acciaio. Erano straordinarie anche le capacità di pensare, di inventare politica, conflitti, mediazioni, soluzioni, riforme. Lama è stato un personaggio molto controverso. Per le posizioni che ha preso, per quelle che non ha preso. Per l’originalità della sua posizione politica. Per la capacità di vincere e perdere molte battaglie. Lama era un ragazzo romagnolo, nato in un paese in provincia di Forlì e da giovanissimo partecipò alla Resistenza. Da socialista. Poi, subito dopo la Liberazione, divenne comunista ma soprattutto divenne sindacalista. Sicuramente Lama è stato comunista, ma non era la sua caratteristica principale. Come altri esponenti della Cgil, prima che comunista o socialista lui era sindacalista. Penso a Trentin, al mio amico Bertinotti, a Del Turco, a Fernando Santi e soprattutto a Giuseppe Di Vittorio. Loro ragionavano partendo da lì: dal sindacato, dal lavoro, dai rapporti col capitale, con la produzione, con la divisione del benessere. Ci sono diversi periodi della vita di Lama. Prima la Fiom, poi la prima metà degli anni ‘70, infine l’ultimo decennio della sua direzione del sindacato. I primi due periodi furono soprattutto di organizzazione del conflitto. Il terzo periodo è quello del Lama più governativo. Quando arrivò alla Fiom, nel ‘58, iniziava appena la risalita del movimento sindacale dopo le batoste ricevute negli anni ‘50, soprattutto dalla Fiat di Valletta. Comunque sono anni di lotte durissime, e di conquiste scarse. Quando nel ‘61 Lama lascia la Fiom al giovane Trentin (Trentin aveva 34 anni) la condizione nelle fabbriche metallurgiche è ancora durissima. La svolta sarà quasi otto anni dopo, con l’autunno caldo, e poi dopo ancora con il contratto del 72 che introduce i Consigli in fabbrica, sancisce la definitiva sconfitta dell’analfabetismo con le famose 150 ore all’anno di istruzione, alza i salari, diminuisce l’orario, elimina le gabbie salariali, frena il cottimo e l’uso degli straordinari, aumenta l’occupazione. Lama, dopo un periodo di relativa ombra, sale sulla grande ribalta nazionale proprio all’indomani di quell’autunno caldo. Viene eletto segretario generale della Cgil nel 1970. Lo stesso anno nel quale viene varato lo Statuto dei lavoratori, al quale aveva lavorato assieme al ministro del lavoro socialista, Brodolini, e insieme a Gino Giugni, socialista, e poi al nuovo ministro democristiano Carlo Donat Cattin, perché Brodolini morì pochi mesi prima di vedere l’approvazione dello statuto. Gli anni del grande successo di Lama sono i primi 70. Divisi in due tranche. Fino al ‘75 è ancora in campo il Lama lottatore. Poi diventa il mediatore e il ricercatore di equilibri compatibili con il governismo. Nel ‘75 ottiene il suo successo più clamoroso. È il punto unico di contingenza. Firma l’accordo con il presidente di Confindustria che è Giovanni Agnelli. Si tratta di questo. Il meccanismo della contingenza (scala mobile) prevedeva un adeguamento automatico della contingenza ogni tot mesi, deciso dal governo attraverso il calcolo dell’aumento del costo della vita. L’aumento era in percentuale. Se guadagnavi 100 mila lire al mese e la contingenza aumentava di un punto, andavi a guadagnare 101 mila lire al mese. 1000 lire in più. Se guadagnavi un milione lo scatto di contingenza era dieci volte più alto: non mille ma 10 mila lire. Il punto unico di scala mobile stabiliva invece che l’aumento era in cifra assoluta e identico per tutti. Se lo scatto era di 5000 lire, era di 5000 lire per l’operaio appena assunto e per il direttore generale. È stata la più clamorosa misura egualitaria mai presa nella storia della repubblica. Poi svanì negli anni 80 e nei 90. Ebbe due conseguenze. La prima fu una lenta equiparazione degli stipendi, a danno degli stipendi più alti. La seconda fu una spinta all’inflazione. L’Italia, come tutto l’occidente, visse tra i settanta e gli ottanta una crisi economica complicata. Dominata dall’inflazione. Lama portò il sindacato su posizioni filogovernative. Lo fece con la famosa svolta dell’Eur, nel ‘77, quando impose la linea dei sacrifici per salvare l’Italia. Perfettamente compatibile con la politica del Pci che si apprestava a entrare in maggioranza (lo fece l’anno successivo). Fu molto contestata questa svolta. Dai movimenti giovanili, soprattutto. e Lama ricevette la più sonora sconfitta della sua vita, nel febbraio del ‘77, quando andò a tenere un comizio all’università di Roma e il palco fu assaltato dagli studenti che misero in fuga lui e il sindacato. Persino Fabrizio de André gli dedicò una canzone non certo amichevole. Siamo all’ultimo Lama. Quello stretto tra la sua linea riformista e la svolta a sinistra che Berlinguer impose al Pci dal 1980 in poi, giungendo fino a minacciare l’occupazione della Fiat e poi a fare ostruzionismo contro il decreto con il quale il governo Craxi aveva tagliato la scala mobile. Scontri epici (allora si litigava su cose più serie del green pass) e Lama si trovò a dover appoggiare Berlinguer ma a malincuore. Riuscì comunque a salvare l’unità del sindacato. E così, quando pochi mesi dopo Berlinguer morì durante un comizio, Lama, di fatto, si candidò alla guida del Pci su una linea riformista e forse persino filosocialista. Se avesse vinto probabilmente la storia della sinistra italiana sarebbe stata tutta diversa. Vinse Alessandro Natta. Il Pci scelse l’usato sicuro e l’antisocialismo. Cioè scelse una linea di sinistra? No, Natta era un conservatore, non era l’uomo dei conflitti. Ma garantiva la tradizione. Il Pci scelse la tradizione. E poi scivolò, piano piano, fino a trasformarsi nel partito di Enrico Letta.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il Partito degli Offesi. Da Marino a Prodi, a sinistra ci sono sempre delle scuse per non parlare di politica. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 27 Settembre 2021. L’ex sindaco ce l’ha coi consiglieri capitolini che non gli hanno chiesto perdono per averlo sfiduciato sei anni fa, Letta con Renzi e i dirigenti che lo defenestrarono sette anni fa, il Professore coi 101 (che poi erano 120, precisa ogni volta) colpevoli di non averlo eletto capo dello Stato otto anni fa. Non se ne può più, basta, abbiate pietà di noi. Ci mancava solo Ignazio Marino. E adesso è tornato pure lui, a pochi giorni dal voto per le elezioni amministrative, per dire chiaro e tondo non per chi voterà (non lo ha detto, anzi, a domanda precisa ha risposto: «Io voto a Philadelphia»), ma qualcosa di molto più importante: chi si è scusato con lui, e quanto, e come, e chi ancora non lo ha fatto. E questo non stupisce, conoscendo il carattere di Marino. Semmai stupisce che nell’elenco di coloro da cui ancora attende un pubblico atto di contrizione non abbia inserito anche il Papa. In quell’incredibile autunno del 2015, infatti, poco prima di riunirsi con il suo partito, trovare un accordo e presentare le dimissioni, salvo poi ritirarle a diversi giorni di distanza, un minuto prima che divenissero irrevocabili (un dettaglio della storia di solito omesso quando si parla del suo successivo dimissionamento tramite notaio), forse non tutti ricordano che Marino riuscì a far perdere le staffe persino a Papa Francesco. Prima presentandosi all’incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia e poi dando a intendere ai giornali che l’occasione fosse stata scelta dal sommo Pontefice per prendere posizione nella crisi della giunta capitolina, ovviamente a difesa del sindaco (è ancora facilmente reperibile in rete il surreale video in cui Bergoglio scandisce al microfono: «Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori: neppure loro lo hanno invitato»). Il nuovo episodio nell’infinita vertenza tra Marino e il Pd forse non meriterebbe nemmeno di essere commentato, se non fosse parte di una tendenza generale, a sinistra, che ha trovato in questi anni continue conferme. Basta sfogliare i giornali: non c’è problema politico, per quanto importante, che non sia invariabilmente subordinato a simili questioni personali. Intendiamoci: non è sempre e solo colpa dei politici. Un po’ – e spesso anche più di un po’ – è pure colpa di noi giornalisti. Ma certo i politici nulla fanno per sottrarsi a un racconto così meschino e triste di tutte le principali vicende che li hanno visti protagonisti. Non c’è intervista sul Quirinale in cui Romano Prodi non si presti alla rievocazione dei terribili 101 (che poi in realtà erano almeno 120, precisa ogni volta, come ha fatto ancora nell’intervista uscita due settimane fa sul Corriere della Sera), colpevoli di non averlo eletto capo dello Stato nel 2013. Un crimine che risale alla bellezza di otto anni fa. Non c’è intervista in cui Enrico Letta non ricordi, alluda o finga di scherzare (ma si capisce dalla faccia che non scherza per niente) alla sua estromissione da Palazzo Chigi e all’onta di quell’hashtag, #enricostaisereno, lanciato all’inizio del 2014. Ben sette anni or sono. E mi fermo qui, perché non mi va nemmeno di rifare per l’ennesima volta tutta la storia, dal «complotto del ’98» al tradimento del 2007, in un florilegio di sgambetti, tiri mancini e pugnalate alla schiena (vere o presunte), pettegolezzi e piagnistei (per lo più fasulli), che negli anni ha finito per trasformare una vicenda politica con le sue luci e le sue ombre, ma comunque importante nella storia d’Italia, in una telenovela di quart’ordine. Avrebbero dovuto essere il partito degli oppressi, sono diventati il partito degli offesi. Non c’è minimo sgarbo che possa mai essere abbonato, o almeno superato in nome dei comuni obiettivi. Forse perché quello che manca è proprio questo: obiettivi comuni che vadano al di là delle singole personali collocazioni. Come conferma anche il fatto che nessuno accetti più di perdere un congresso e di restare in un partito in cui non è lui a comandare, che si tratti di Pier Luigi Bersani quando al vertice c’è Matteo Renzi o di Matteo Renzi quando a vincere è Nicola Zingaretti. Come dimostra da ultimo il gran ritorno del caso Marino, possono cadere governi, scomparire partiti, dissolversi coalizioni che sembravano invincibili, ma il catalogo delle offese e dei torti subiti da ogni singola personalità del centrosinistra nell’ultimo quarto di secolo non conosce oblio, e tantomeno prescrizione.

L'Occidente appeso agli ultimi comunisti. Augusto Minzolini il 21 Settembre 2021 su Il Giornale. L'arrivo di Pechino nel consesso del business mondiale l'11 dicembre del 2001 ha cambiato il corso della storia ancor più di quell'11 settembre del 2001, quando gli Stati Uniti, vedendo crollare le Twin Towers, scoprirono di non essere invincibili. E pensare che nei giorni di Seattle o del G8 di Genova, mentre i «no global» assediavano i potenti, si parlava dell'ingresso della Cina nel Wto, nell'Organizzazione mondiale del commercio, come della grande vittoria dell'Occidente. E, invece, l'arrivo di Pechino nel consesso del business mondiale l'11 dicembre del 2001 ha cambiato il corso della storia ancor più di quell'11 settembre del 2001, quando gli Stati Uniti, vedendo crollare le Twin Towers, scoprirono di non essere invincibili. Il fatalismo delle date: il piano era quello di acquisire mercati e delocalizzare la produzione per ridurre i costi; è successo l'esatto contrario, la Cina ha acquisito il know-how tecnologico e ora sta conquistando i mercati occidentali (la via della Seta è una verniciatura romantica all'operazione). Così negli Stati Uniti e in Europa siamo passati dall'euforia della vittoria, alla paura, al timore che il capitalismo di Stato possa dimostrarsi più forte del libero mercato. Anche perché, ubriache per il successo (erano gli anni dell'Ulivo mondiale dei Clinton, dei D'Alema, dei Prodi) le grandi potenze occidentali non hanno posto grandi condizioni al gigante cinese per entrare nel Wto: né sui diritti civili, né sulle libertà sindacali, né sui target igienico-sanitari. Così Pechino ha sommato i vizi del comunismo a quelli del capitalismo. E ora l'Occidente ne paga il fio. I guai, infatti, da qualche tempo vengono tutti da Pechino. È arrivato da lì il Covid che ha mandato in lockdown l'intero pianeta. L'aumento dei prezzi delle materie prime ha di nuovo come imputato Pechino. Per non parlare della politica espansionista cinese: ne senti l'odore a Kabul e te ne accorgi in Australia, che deve ricorrere ai sommergibili nucleari di Washington e di Londra per diventare un altro pilastro della grande muraglia occidentale contro la Cina. E ora, ultimo problema, c'è il rischio che dopo il virus sanitario dal Paese dei mandarini trasformati in capitalisti di Stato, arrivi un virus finanziario: la crisi del colosso immobiliare Evergrande rischia, infatti, di infettare l'intera finanza cinese e di propagarsi su tutte le borse del mondo. Un crac simile a quello di Lehman Brothers, qualcuno addirittura lo paragona alla crisi del '29. Magari non succederà, magari la nomenklatura comunista cinese sacrificherà i privati e salverà le banche in nome del partito. In un Paese in cui diritti civili e libertà individuali sono ancora arabe fenici e la proprietà privata è solo una suggestione, i metodi non mancano. Parafrasando una frase di successo che caratterizzò la crisi finanziaria del 2008: i cinesi sono troppo furbi per fallire. Ma anche se così fosse, anche se si riuscisse a circoscrivere il virus finanziario (ma è difficile), questa vicenda dimostra che il mondo è condizionato dal battito d'ali di una farfalla cinese. Altro che sogni di gloria dell'Occidente: a vent'anni da quell'11 dicembre del 2001, per evitare un'epidemia finanziaria siamo appesi alle decisioni di Xi Jinping. Non è certo una bella condizione. Augusto Minzolini

SINDACATO E SINISTRA. MORTI E SEPOLTI. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 20 Settembre 2021. Nessuno si è chiesto, in questi giorni, come mai il sindacato di casa nostra (Cgil, Cisl e Uil per intendersi), una volta forte presidio a tutela di tutti i lavoratori, sia ormai morto e sepolto. Immobile. Silente. Incapace ormai di pronunciare anche una sola sillaba per difendere quel poco che resta sul diritto a fare un lavoro e non essere calpestato come una pezza da piedi. E’ appena successo con il Super Green Pass firmato Draghi, passato come un rullo compressore su quei diritti, senza che si sia sentita volare una mosca, una di numero. Flebili richieste su qualche sconticino per i tamponi, come fa la Lega di Salvini, ormai ridotta alla frutta. C’era una volta il sindacato del mitico Luciano Lama, della mitica triplice sindacale che faceva davvero paura ai padroni, riusciva a mettere sull’attenti persino un pezzo da novanta come Gianni Agnelli. Quel tris d’assi Lama-Carniti-Benvenuto è ora un pallido, scolorito ricordo di antiche battaglie, di autentiche lotte sindacali, di piazze gremite, di mobilitazioni da brividi. Ora regna un silenzio che più tombale non si può, un pigolar sconnesso, poche sillabe, e pure incomprensibili. Ho parlato giorni fa con un dipendente della ex Alenia di Pomigliano d’Arco, un tempo fulcro di produzioni all’avanguardia e fucina per tante battaglie sindacali. Nelle sue parole si legge con chiarezza disarmante un senso di paura, di sconforto, di abbandono. Il senso di una totale deriva. “Il sindacato ci ha totalmente abbandonati – le sue parole – si è svenduto non solo al padronato, come si diceva una volta, ma al governo, a tutti. Noi siamo come foglie abbandonate al vento, con quelle poche tutele ormai messe pesantemente in discussione. Ci voleva la pandemia per dimostrare il vero volto del nuovo potere che ora decide di tagliare i posti senza alcun problema, senza dover rendere conto a nessuno, di fare quando vuole il lavoro a distanza. Insomma, quello che una volta era contrattazione sindacale, ora diventa un diktat bello e buono. E la sinistra che fa? Ormai è sparita da tempo. E’ ormai tutt’uno con Confindustria e il governo, un minestrone che peggio non si può. Siamo realmente senza più alcun punto di riferimento. E la situazione, ora, si fa sempre più senza sbocco. E sempre più drammatica”. Parole che dovrebbero far riflettere tutti. Soprattutto chi, ormai, non dà più segni di vita, come il sindacato e i partiti (sic) di sinistra. Ma può mai chiamarsi ‘sinistra’ quella del PD, un partito che sintetizza ormai il peggio del peggio della vecchia DC ? Può mai chiamarsi sinistra la melassa 5 Stelle che ha tradito, in questi anni di totale (s)governo, quel poco che aveva promesso e ora fa esattamente il contrario alleandosi perfino con i nemici giurati Lega e Forza Italia? Ormai il deserto è totale. Non esiste una alternativa possibile al niente. Vale a dire: il niente della destra – che viene plasticamente dimostrato dalla totale incapacità di presentarsi al voto amministrativo delle grandi città, con sceneggiate davvero farsesche e consegnando su un piatto d’argento la vittoria ai suoi rivali senza neanche giocare la partita – è contrastato dal niente del centrosinistra! Ma in mezzo ci sono i cittadini, sommersi dai problemi, ammazzati dai rincari già promessi come la bolletta elettrica che sta per aumentare del 40 per cento (avete sentito bene, il 40 per cento, non il 4!), storditi dalla propaganda governativa degna di un Minculpop in piena regola, con un totale lavaggio del cervello sul fronte dei vaccini e dei green pass. Dicevamo del sindacato ormai morto e sepolto. Capace persino di far passare una prossima politica di licenziamenti che più massiccia non si può. Avete capito la trappola? Si comincia dalle piccole imprese, dove il lavoratore privo di green pass può essere subito (dopo 5 giorni) sostituito da un altro, vaccinato a tutto punto. Cosa vuol dire, secondo voi, la paroletta magica ‘sostituito’? Licenziato, naturalmente. Visto che è alquanto improbabile che il neo assunto possa poi essere rispedito al mittente. Avete capito bene, basta ‘la parola’, come diceva una vecchia pubblicità: non quella impronunciabile, ossia ‘licenziamento’, è sufficiente cambiarla con ‘sostituzione’. Come del resto è stato fatto con tutta la sceneggiata maxima: quella del green pass che sostituisce in pieno l’obbligo vaccinale. Che il codardo Draghi, a dispetto del suo infuocato e bellicoso cognome, non ha il coraggio di pronunciare: perché sa bene la tempesta che solleverebbe, a botte di ricorsi costituzionali e, soprattutto, di maxi richieste di risarcimento danni per gli effetti collaterali causati dai vaccini in tutti i cittadini. La farsa, quindi, continua. Ma fino a quando resterà entro questi confini e non si trasformerà in guerra sociale?

Tante critiche per un'identità che non c'è. De Luca, Emiliano e Letta smontano il Pd: il paradosso democrat che affossa il partito. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Il Partito democratico è sotto assedio. Non per mano degli avversari, come sarebbe logico attendersi nell’ambito di una normale dialettica democratica. Ad attaccarlo, infatti, sono i suoi stessi alfieri: il presidente campano Vincenzo De Luca e il suo omologo pugliese Michele Emiliano “dai lati” e, come se non bastasse, il segretario nazionale Enrico Letta “dall’alto”. Basterebbe questo paradosso a delineare i tratti di una formazione incapace di ampliare la propria base di consenso e perciò costretta ad aggrapparsi all’alleanza con il Movimento Cinque Stelle nel disperato tentativo di conquistare o di rimanere al governo del Paese o delle comunità locali. Le parole usate da De Luca alla Festa dell’Unità di Bologna, però, impongono una riflessione ulteriore. Già, perché lo Sceriffo non si è limitato dettare ai dem una nuova agenda politica basata su sicurezza, lavoro e lotta alla burocrazia. Il presidente campano si è impegnato a “smontare” pezzo per pezzo l’impalcatura che i vertici del Pd avevano faticosamente montato nel corso degli ultimi mesi. Le Agorà democratiche? Non interessano ai lavoratori. Il ddl Zan? Così com’è, non va votato. La delocalizzazione delle aziende? Ad avere ragione su questo tema non è il ministro Andrea Orlando, ma il presidente degli industriali Carlo Bonomi che reclama una fiscalità di vantaggio per le imprese. La “ciliegina sulla torta”, infine, è arrivata quando De Luca ha parlato del Pd come di un «partito del nulla» che ha «ereditato il peggio della sinistra storica e della Democrazia cristiana». Le parole del presidente campano si sommano a quelle di Emiliano, capace di riconoscere al “nemico di sempre” Matteo Salvini il merito di aver «spostato la Lega su posizioni completamente diverse» rispetto a quelle xenofobe, omofobe ed antieuropeiste delle origini». Una presa di posizione che, oltre a creare comprensibili imbarazzi, ha evidenziato un’ulteriore contraddizione all’interno del Pd, diviso tra chi (come Emiliano) non si sottrae al dialogo con Salvini e chi (come l’ex ministro Peppe Provenzano) vede come possibili interlocutori leghisti solo figure come il ministro Giancarlo Giorgetti e il presidente veneto Luca Zaia. E poi c’è il caso di Enrico Letta, pronto a candidarsi alle suppletive per la Camera nel collegio uninominale di Siena senza il simbolo del partito di cui è segretario. Una scelta dettata dalla necessità di allargare il recinto dei consensi a sinistra e al centro o forse da quella di far dimenticare i turbolenti rapporti tra la banca Mps e il Pd? Chissà. Certo è che l’esito è paradossale: ciascun esponente dem sostiene un’identità politica spesso alternativa se non diametralmente opposta a quella del compagno di partito, con il solo risultato di alimentare divisioni e polemiche. In altri termini, le critiche all’identità del Pd si sprecano sebbene sia proprio la mancanza di un’identità definita all’origine della crisi strisciante che impedisce al partito di schiodarsi dal 19% dei consensi attingendo al bacino di voti in uscita dal M5S e Lega. Ma il caos all’interno di un partito allo sbando ha anche un’ulteriore conseguenza: quella di spingere il Pd a cercare sempre più spesso la propria identità nel “patto di sangue” con i populisti pentastellati. Il che significa dire addio all’idea di una forza a vocazione maggioritaria, garantista e riformista della quale tanto l’Italia quanto Napoli avrebbe bisogno.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Vincenzo De Luca, se manda al diavolo la giornata omosex nelle scuole (e i suoi stessi colleghi). Il solito istrione gela i compagni ("Sono anime morte"), strapazza il suo segretario e prende a sberle i militanti Lgtb. Pd in ambasce. Ogni suo intervento è la bomba sotto il tavolo di Hitchcock pronta a scoppiare... Francesco Specchia Libero Quotidiano l'1 settembre 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Vincenzo De Luca che s’intrufola alla Festa dell’Unità di Bologna, è la bomba sotto il tavolo di Hitchcock: sai che c’è ma non sai mai quando esploderà. De Luca col lessico al tungsteno di Craxi, l’irruenza di Bud Spencer, le battute di Totò, racchiuse in un corpo da vecchio professore di greco ha fatto esplodere la bomba in faccia al Pd. Ne dà notizia la mitica LiraTv organo informativo in streaming dello stesso De Luca, e tutti i tg italiani (Tg5 gli ha dedicato più tempo di parola). Intervistato pubblicamente da Lucia Annunziata sulle sue ambizioni politiche nazionali, Vincenzo il nostro governatore preferito ha massacrato con la solita spontaneità i Dem. Il suo stesso partito. “Bisogna chiarire molte cose rispetto all’attuale Pd, sono fortemente critico” ha detto il governatore della Campania “in tre anni si è mosso il 30-35% degli elettori italiani, il Pd non ne ha intercettato uno. Questo perché la capacità di attrazione del Pd oggi è pari a zero, questa è la verità amara”. Gelo tra il pubblico. De Luca è solo all’inizio. “Dal punto di vista del programma il Pd oggi è il partito di che cosa? Quali sono le proposte di fondo del partito? Io non so cosa rispondere. Ma pensiamo di poter parlare a un fronte sociale maggioritario con le cose che abbiamo o non abbiamo detto?”. Ancora livido spaesamento tra gli astanti, qualcuno pensa di essere capitato per sbaglio alla Festa della Lega. De Luca è un vulcano in eruzione semantica; i lapilli schizzano sugli amabili resti del Pd. Sui dirigenti del partito cita vezzosamente Gogol: “Noi siamo narcotizzati, quando sento parlare tanti dirigenti nazionali io dopo 30 secondi devo cambiare canale. Non ce la faccio più. Ti viene veramente l’angoscia, sono anime morte”. Anime morte sottoposte al suo elettrochoc. I suoi interlocutori gli rispolverano il ddl Zan, convinti di trovare un sostegno sul provvedimento-bandiera del movimento Lgtb. Altro giro, altro regalo di De Luca: “Io il Ddl Zan così com'è non lo avrei votato perché si deve correggere almeno la parte che riguarda le scuole: ma davvero pensate che alle elementari facciamo la giornata di riflessione sull'omotransfobia? Ma andate al diavolo”. E io, in effetti, penso ai miei figli i quali, stimolati dalle maestre, s’interrogano sul vero significato della sessualità del Querelle de Brest di Fassbinder, dei film froci di Ozpetek e delle avventure di Vladimir Luxuria al Mucca assassina. Mi immagino i piccoli che pensano alla senatrice Cirinnà sul carri del Gay Pride. E pure alla cameriera della senatrice Cirinnà. De Luca sta inchiodando alla croce della realtà il Nazareno e nessuno fa nulla. Sul volto dell’Annunziata s’increspa un sorriso; dalle prime file si incrociano gli sguardi; qualcuno, col terrore negli occhi, cerca il numero di Enrico Letta. Ma De Luca è ancora lì, bello in palla con la sua mazza da baseball: “Certo che dobbiamo difendere i diritti, ma non è immaginabile che su questioni che hanno contenuti morali che fanno al di là della politica noi ideologizziamo i problemi” premette. Per tirare una sberla a tutti i chiassosi atei di partito quando il Vaticano espresse preoccupazione per il ddl Zan: “Noi abbiamo sbagliato a rispondere in quel modo al cardinale Pietro Parolin. È una personalità rilevante del mondo cattolico, dove c'è uno scontro in atto tra forze conservatrici e progressiste. Noi gli abbiamo risposto in termini volgari e politicamente insopportabili. I Patti lateranensi, ma stiamo scherzando, potrà il segretario di Stato del Vaticano esprimere la sua opinione?". E, oggettivamente nessuno può dargli torto. Anche se molti dei vecchi comunistoni assisi in platea ricercano via d’uscita, ma  sono frenati dell’espressione incazzosa di De Luca, appunto, con la mazza da baseball. De Luca ne ha per tutti: per il generale Figliuolo parlando della carenza di vaccini in Campania (“Non mi piacciono quelli che vanno in tuta mimetica e anfibi a distribuire vaccini, quelli vanno bene in Afghanistan”); per il solito Luigi De Magistris che non cita mai (“Nel sud abbiamo tante realtà importanti ma abbiamo anche tanti cialtroni che hanno tolto dignità al Sud. Il comune di Napoli ha accumulato in 10 anni 4 miliardi di debiti, io non difendo la cialtroneria politica e non difendo quegli amministratori che fanno solo lamentela, chiedono soldi a Roma e non fanno un accidenti di niente”); per la scuola che deve vaccinare anche i ragazzi; per i suoi concittadini vaccinati in 7 milioni ma è ancora poco, se non fa la mazza da baseball di torna al “lanciafiamme” tanto esaltato via social da Naomi Campell. De Luca stritola il Pd e nessuno esala un lamento. L'unico membro dei dem che reagisce è un minore: Roberta Li Calzi consigliera comunale Pd e presidente Commissione Pari Opportunità: "De Luca pensi a governare la sua regione". Seee... Il governtore non se ne cura, impegnato com'è ad innescare la prossima bomba... 

Emilia Patta per il “Sole 24 Ore” il 13 agosto 2021. L'ultima anima del Pd si chiama Comunità democratica ed ha in Graziano Delrio, il capogruppo alla Camera "sfrattato" da Enrico Letta nel marzo scorso per far posto a volti femminili, il suo punto di riferimento. Ma guai a chiamarla corrente, per carità: da quando Nicola Zingaretti ha lasciato bruscamente la segreteria con l'ormai famoso j' accuse contro la malattia del correntismo che affligge il Pd nessuno osa più nominare quella parola. «Apriamo uno spazio. La chiamerei sorgente più che corrente - spiega al Sole 24 Ore Delrio -. Un'area culturale che vuole preservare lo spirito delle origini: ossia il Pd come casa delle culture riformiste cattoliche, laiche e socialiste. Un Pd "autonomista", insomma, che vuole parlare a tutti i mondi senza divisioni di compiti con il "centro" incarnando così la vocazione maggioritaria delle origini». Ci sono l'attuale presidente dei deputati Debora Serracchiani, Andrea De Maria, Stefano Lepri (tra i "padri", assieme allo stesso Delrio, dell'assegno unico per i figli) e molti amministratori locali a partire dai sindaci di Brescia (Emilio Del Bono) e Mantova (Mattia Palazzi). Si tratta dell'area che all'ultimo congresso del Pd ha appoggiato la candidatura di Maurizio Martina - ora impegnato alla Fao - e che non si riconosce nella corrente degli ex renziani di Base riformista che fa capo a Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Che siano sorgenti più che correnti, fatto sta che da quando Letta è stato eletto all'unanimità segretario del Pd al grido di "basta correnti" il 14 marzo scorso di queste nuove aree ne sono nate già tre. E con Comunità democratica di Delrio e Serracchiani siamo già a quattro. L'ultima in ordine di tempo si chiama Prossima, si definisce una «rete politica culturale di sinistra» ed è animata da dirigenti del Pd molto vicini a Zingaretti durante la sua segreteria: da Nicola Oddati a Marco Furfaro, da Marco Miccoli e Stefano Vaccari (che è rimasto responsabile dell'organizzazione del Pd anche con Letta) fino a Maria Pia Pizzolante e altri. Una sorta di corrente zingarettiana di sinistra senza Zingaretti, insomma, molto legata al biennio dell'alleanza strategica con il M5s nel Conte 2. Le altre due correnti nate dopo l'elezione di Letta alla giuda del Pd sono Le agorà di Goffredo Bettini - l'ideologo dell'abbraccio con il M5s che ha raccolto attorno a sé alcuni democratici romani come Claudio Mancini, Roberto Morassut e Monica Cirinnà - e Rigenerazione democratica di Paola De Micheli. Quest' ultima area per la verità ha radici più antiche, da quando De Micheli era coordinatrice della campagna per le primarie di Zingaretti, ma dopo la fine della sua esperienza di ministra delle Infrastrutture è stata rinvigorita: si tratta di circoli che si rivolgono più alla società civile che ai politici di professione (tra le figure di riferimento il sociologo Mauro Magatti e lo scrittore Gianrico Carofiglio). Per il resto, naturalmente, ci sono le correnti ormai storiche: oltre alla già citata Base riformista, a cui fanno riferimento la maggioranza dei parlamentari e che ha nel governatore dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini il suo possibile leader in caso di congresso anticipato, c'è Dems del ministro del Lavoro Andrea Orlando, un'area di sinistra a cui è vicino anche l'ex ministro Giuseppe Provenzano che però sembra in procinto di lanciare una corrente tutta sua, la vecchia Areadem di Dario Franceschini e i Giovani turchi di Matteo Orfini. Senza contare "ruscelli" minori come Energia democratica fondata da Anna Ascani. L'impressione è quella di uno schieramento di truppe in vista della possibile guerra. E l'appuntamento che determinerà il destino della segreteria Letta sono le amministrative del 3 ottobre: se il Pd dovesse andare male nelle grandi città al voto, a cominciare dalla Capitale, la prima parola che verrà pronunciata dai vari accampamenti dem sarà congresso anticipato.

Cara sinistra, come puoi vincere se ti innamori dei perdenti? Prometeo, Rosa Luxemburg, i comunisti spagnoli, la Comune: i miti fondativi dei progressisti purtroppo idealizzano solo la sconfitta. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 15 Marzo 2021. In una bella prefazione a una piccola raccolta di scritti di Victor Serge, “La rivoluzione russa” (appena uscita con Bollati Boringheri), lo storico David Bidussa ricorda un episodio di un romanzo di questo anarchico di origini russe, nato in Belgio, sedotto dal bolscevismo, poi oppositore e prigioniero di Stalin, infine espulso dall’Urss e morto in Messico nel 1947. In “Anni spietati” dunque il protagonista, un rivoluzionario di professione trasformato in agente dei servizi segreti del regime sovietico, decide di abbandonare l’organizzazione davanti al Muro dei Federati. Il Muro dei Federati, a sua volta, è il luogo nel cimitero di Père-Lachaise dove vennero fucilati centosettantasette miliziani della Comune di Parigi. Spiega Bidussa che l’immagine di quel muro non evoca la sconfitta ma al contrario la speranza, perché quegli uomini caddero «con tutto l’avvenire davanti a loro». La Comune, fino a poco tempo fa era uno dei miti fondanti e fondamentali delle sinistre del mondo intero. E non l’unico fra i miti. Ma procediamo con ordine. Cominciando da Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini, per poi essere punito da Zeus. Ecco, nell’iconografia delle sinistre, a partire della seconda metà dell’Ottocento, appare spesso il richiamo a questo mito. Ci sono, nelle riviste dei rivoluzionari, disegni di un titano muscoloso che spezza le catene: talvolta con la faccia rivolta verso il cielo e gli occhi che guardano l’accecante sol dell’avvenire. Quel titano è sia operaio - che nei canti dei movimento dei lavoratori ebraico viene chiamata addirittura “il nuovo Messia” - sia appunto Prometeo. Il lavoratore (maschio) e il titano si amalgamano in un simbolo, che dà coraggio e trascende la realtà. Si tratta infatti dell’immagine del progresso, inteso come una strada verso il benessere dell’umanità. Certo, nell’uso di quel mito c’era anche l’idea di soggiogare la natura al volere degli umani, ma si trattava prima di tutto di un richiamo a un atto di ribellione contro il privilegio dei dominatori. Quando si parla di Spartaco, a molti viene in mente il volto dolente ma da duro di Kirk Douglas che in un strepitoso film di Stanley Kubrick (del 1960) incarnava lo schiavo della Tracia, gladiatore ribelle che dichiarò la guerra a Roma. Anche lui, ovviamente, sconfitto. Il nome di quell’uomo in rivolta («un uomo che dice no», per parafrasare Albert Camus), è stato usato subito dopo la prima guerra mondiale da Rosa Luxemburg e dai suoi seguaci. Anche loro sconfitti, lei uccisa, dai soldati dell’estrema destra. Di quella rivolta ha scritto Furio Jesi, intellettuale, scomparso nel 1980 e fra i più interessanti del panorama europeo dell’epoca, in “Spartakus”, non solo per analizzare i fatti, quanto per ricordare, sull’esempio della rivolta degli spartachisti, quanto il bisogno del mito (e della rivolta, tema ripreso poi in un recente libro di Donatella Di Cesare) faccia parte della natura umana. In ogni caso, se Prometeo è il progresso, Spartaco è colui che si mette a capo di una congrega di fuorilegge, fuggiaschi, gente che viene da vari luoghi della Terra e che osa a sfidare le truppe di uno Stato potentissimo. Ma forse il mito più forte per la sinistra è stata la Comune di Parigi. Un po’ perché, paradossalmente, il mito politico di sinistra appunto (a differenza di quelli “primordiali” di cui fa uso la destra radicale) è tanto più sentito quanto meno arcaico. Marx così come gli autori anarchici erano stati i testimoni, sebbene indiretti, dei fatti. Louise Michel è presente nel pensiero femminista e un film su di lei del 2008 ha vinto premi in vari festival. E comunque si trattava di un primo tentativo, per quanto fallito, di realizzare l’utopia di fratellanza e uguaglianza in Europa. Così come fino a poco fa era valido il mito della Guerra di Spagna (1936-1939): internazionalismo da un lato e, di nuovo, la sconfitta, non senza che gli stalinisti abbiano intanto represso nel sangue ogni loro oppositore a sinistra. Nella prefazione al libro di Serge, citata all’inizio, Bidussa ricorda la giornata del 18 marzo 1921. Mentre nelle grandi città russe veniva festeggiato il cinquantesimo anniversario della Comune, i soldati l’Armata Rossa massacravano i ribelli, marinai anarchici, nella fortezza di Kronstadt. Ecco, il mito può essere ambiguo e non dà certezze sul suo uso. Ma tutti i miti citati si richiamano alla sconfitta. Sconfitta, non come la fine ma come memoria degli oppressi, come l’idea che il passato non è un libro chiuso, ma una materia che ci parla del futuro. Perché, a pensarci, l’alternativa al mito, considerato “irrazionale” proprio perché parla al cuore, è l’algoritmo, in apparenza uno strumento di analisi e di previsione che non sbaglia mai. Ma l’algoritmo difficilmente può diventare un simbolo e una bandiera.

Pd: Zingaretti,basta stillicidio,mi dimetto da segretario. (ANSA) - ROMA, 04 MAR - "Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie". Lo scrive su Facebook Nicola Zingaretti annunciando le dimissioni da segretario Pd. "Visto che il bersaglio sono io, per amore dell'Italia e del partito, non mi resta che fare l'ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L'Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili".

Maria Teresa Meli per corriere.it il 4 marzo 2021. Non lo aveva detto a nessuno. Non aveva avvertito quelli che ormai considera gli avversari interni, cioè il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e l’ex presidente del partito Matteo Orfini. Ma c’è di più: Nicola Zingaretti non aveva anticipato le sue intenzione di dimettersi nemmeno al vice segretario Andrea Orlando e all’alleato Dario Franceschini. Neanche loro, che pure hanno con il leader del Pd un rapporto molto stretto ne sapevano niente. Hanno appreso la notizia dai social e dalle agenzie di stampa. E si sono consultati tra di loro per capire il da farsi. La mossa del segretario ha spiazzato i massimi dirigenti del partito: avversari interni e alleati. E ora nel Pd ci si interroga su questa uscita: Zingaretti intende mollare davvero oppure il suo annuncio di dimissioni è un modo per stanare tutti, amici e nemici, e poi rilanciare?

Stefano Cappellini per repubblica.it il 4 marzo 2021. È stata una decisione sofferta, quella di Nicola Zingaretti, ma non improvvisa. Le dimissioni da segretario del Pd arrivano dopo settimane di una guerriglia interna che si è rianimata dopo la fine del Conte bis, ma che aveva già avuto altri picchi nel corso del suo mandato. Il punto di non ritorno è stata l’ultima direzione del partito, nella quale Zingaretti ha proposto l’avvio di un congresso rifondativo, tutto centrato sull’identità e le proposte per rilanciare la principale forza della sinistra italiana. La risposta che è arrivata dalle correnti ha gelato le speranze del segretario: una parte della minoranza ha chiesto primarie per mettere in gioco la leadership, un'altra ha ipotizzato una tregua da barattare con un cambio di linea. Per Zingaretti è stata la prova che non c’era la volontà di discutere di temi, ma solo l’intenzione di logorarlo altri mesi in vista di una conta interna che, a suo giudizio, non sarebbe servita a un chiarimento bensì solo al regolamento di conti tra le diverse fazioni. Lì è maturata la scelta di dimettersi, come “atto d’amore per il partito”, ha spiegato Zingaretti ai pochi a quali ha scelto di comunicare personalmente la decisione, e come “passaggio necessario per il chiarimento”. Il Pd ha ora davanti due strade: una è la continuità del progetto di questi ultimi due anni, la costruzione di un campo di centrosinistra nuovo che sfidi la destra ricompattata dalla nascita del governo Draghi, nonostante la scelta di Giorgia Meloni di restarne fuori. L’altra è sciogliere quel vincolo, nonostante la leadership del Movimento a Giuseppe Conte rappresenti una garanzia di prosecuzione del percorso, e riaprire un confronto con altre forze, quelle centriste, Italia viva, Azione di Calenda, più Europa. Complicato ipotizzare Forza Italia, che non ha molte ragioni di sganciarsi dal “nuovo” Salvini. Toccherà a chi prenderà ora la guida confrontarsi con questa scelta strategica e lì – è la convinzione dell’ex segretario – si capirà se le sue scelte erano così balzane e sbagliate. Ma le alleanze sono solo una parte del problema, nemmeno la più importante. La questione principale resta cosa è il Pd e cosa vuole fare da grande questo partito nato (male) tredici anni fa. Da questo punto di vista le dimissioni di Zingaretti possono avere un effetto virtuoso – mettere un gruppo dirigente consunto e piagato dal trasformismo davanti all’esigenza di una svolta reale – oppure vizioso – provocare un arroccamento ulteriore della nomenclatura, magari con l’illusione che basti un bagno di folla alle primarie (quando i bagni di folla torneranno possibili) per simulare una ripartenza. In questo secondo caso, è probabile che il futuro segretario torni ad avere presto i problemi che hanno avuto i predecessori. Ma è anche probabile che sarebbe l’ultimo a confrontarsi con il problema: questo Pd non è un partito per giovani e, prima o poi, dove non arriva la politica provvede l’anagrafe.

Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 5 marzo 2021. «C'ho provato fino all' ultimo. Ma sono stufo di questo processo permanente e quotidiano. Perché sulla graticola non sarei rimasto io, ci sarebbe rimasto il Pd». È questa la frase che Nicola Zingaretti ha consegnato alle poche persone che hanno saputo in anticipo la sua decisione di dimettersi da segretario del Partito democratico. Decisione sofferta ma non improvvisa e non improvvisata. Ci aveva pensato anche dopo la caduta di Conte. Ma non poteva lasciare con il Paese senza governo e il Pd allo sbando. Ora un governo c' è. È rimasto lo sbando del Pd. Zingaretti non ha avvisato neanche il presidente del Consiglio Mario Draghi, che lo ha appreso - restandone stupito, raccontano a Palazzo Chigi - dalle agenzie. La scelta finale è stata presa due giorni fa, all' indomani dell'ultima direzione dem. Zingaretti aveva proposto un congresso rifondativo su temi e identità del Pd, senza la conta delle primarie, cioè l'ennesima guerra per bande combattuta dietro la retorica facciata del bagno di folla ai gazebo, l' illusoria primavera di ogni segretario del Pd. Si aspettava che i suoi avversari interni accettassero la sfida di un congresso diverso, «anche perché io - ha spiegato agli amici - fin qui le elezioni le ho vinte tutte, regionali e comunali, e avrei vinto pure le primarie. Ma a cosa sarebbe servito? Due giorni dopo sarebbe ripreso tutto come prima». Le reazioni delle correnti alla sua offerta, molti hanno invocato le primarie entro il 2021, altri hanno addirittura contestato la legittimità di tenerle solo nel 2023, lo hanno convinto a mollare. Un'alternativa alla conta s'era aperta: l'accordone delle correnti, con una spartizione delle cariche tra le fazioni e una tregua almeno fino alle elezioni amministrative di autunno, forse fino alle politiche. C'era pure già il nome della vicesegretaria in quota ex renziana per blindare il patto: Alessia Morani. Ma per Zingaretti avrebbe significato mettere la firma sulla sua resa definitiva al potere delle correnti e al Pd come pura architettura di nomenclature. Avrebbe continuato a fare il segretario di minoranza, come già gli era capitato nel momento cruciale della legislatura, quando caduto il governo Conte uno si era trovato a essere praticamente l'unico dirigente deciso ad andare al voto mentre i gruppi parlamentari plasmati da Matteo Renzi spingevano per l' intesa con i grillini e intorno era tutta una corsa a salire sul carro del governo giallorosso: aspiranti ministri, aspiranti sottosegretari, aspiranti titolari di una carica. «C'è chi ha ancora la faccia tosta di dire che Conte l' ho voluto io. Sono gli stessi che consideravano Conte un disastro e poi, appena è diventato leader del M5S, lo hanno dipinto come l'uomo che avrebbe rubato tutti i voti al Pd». Il sondaggio "virtuale" di Swg che dava il Movimento guidato dall' ex premier oltre il 20 per cento e il Pd al 14 è stata l' occasione per un' altra bordata di critiche interne, a lui e a Goffredo Bettini, nel Pd il più mal sopportato dei suoi consiglieri, accusato di aver impiccato il partito alla linea «o Conte o voto». Ma il Pd, sostiene Zingaretti, al 14 per cento non ci finirebbe per causa sua («Perché nessuno ricorda che alle regionali il Pd è risultato di gran lunga il primo partito italiano?»), e nemmeno per colpa di Conte, ci finirebbe per le guerra civile, perché mentre tutti si riorganizzano, Salvini torna protagonista, Forza Italia si accuccia di nuovo nel vecchio centrodestra, Meloni lucra all'opposizione la sua fetta di consenso, la sinistra si rifugia nella sua vocazione: «Da noi si pratica troppo il fratricidio». Questo, più di tutti, è l'ovosodo che a Zingaretti è rimasto sul gozzo: le accuse sulla linea «suicida» di subalternità al M5S, l'asservimento a Conte, il fuoco di fila delle interviste per contestare la direzione di marcia sulle alleanze, le più sgradite quelle di Dario Nardella e Giorgio Gori. Ma è qui che Zingaretti conta di prendersi la rivincita più rapida. Lo ha spiegato anche a Conte, uno dei pochi informati della sua decisione: «Vedrai che la linea dell'accordo con il M5S non cambierà». Il perché l'ex segretario lo ha spiegato a un deputato dem agitandogli il cellulare davanti: «Qui ci sono i messaggi di tutti i sindaci che mi hanno implorato di aiutarli a chiudere l' accordo con il M5S nella loro città». Sottinteso: a livello nazionale, quando si tratterà di sfidare un centrodestra che avanza come una «falange armata », e per giunta con una legge elettorale maggioritaria, non ci sarà altra strada che un' intesa con Conte e il Movimento. Quando nel pomeriggio, con un certa lentezza, cominciano ad arrivare le prime dichiarazioni di dirigenti dem che gli chiedono di ripensarci, Zingaretti spiega che non tornerà indietro: «Se qualcuno pensa sia un bluff, ha capito male. Lo considero un atto d'amore per il partito. E un passaggio necessario per un chiarimento vero». Sbaglia, giura Zingaretti, chi pensa che stia aspettando solo una prova d' amore, un coro di preghiere per tornare indietro. Non sa ancora nemmeno se andrà all' Assemblea nazionale del 13 e 14 marzo che dovrà decidere che fare. L'ipotesi più probabile è tocchi a un reggente, come fu per Guglielmo Epifani dopo il dimissionario Pier Luigi Bersani e per Maurizio Martina dopo il dimissionario Matteo Renzi. Del resto, fin qui per chi fa il segretario Pd è finita sempre allo stesso modo: dimissioni e veleni e recriminazioni. C' è già un' ipotesi forte: Roberta Pinotti, ex ministra della Difesa in era renziana, ex Democratica di sinistra, oggi area Franceschini, donna: nello Shangai delle correnti dem, quel gioco in cui si può passare in un attimo dall' incastro perfetto al crollo totale, è un punto di equilibrio ideale. E se Zingaretti tornasse in campo al congresso? Se le dimissioni fossero solo il modo di preparare meglio la sfida congressuale con lo sfidante in pectore Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna? «Non esiste», taglia corto Zingaretti. Il che non significa che si ritirerà dalla politica, anzi: «Continuerò, da uomo libero».

 (ANSA il 4 marzo 2021) "Abbiamo sulle spalle non solo il destino del Pd ma una responsabilità più grande nei confronti di un paese in piena pandemia. Il gesto di Zingaretti impone a tutti di accantonare ogni conflittualità interna, ricomponendo una unità vera del partito attorno alla sua guida". Così Dario Franceschini su twitter. "La decisione di Nicola Zingaretti mi addolora. Ne comprendo le ragioni. Spero ci sia lo spazio per un ripensamento. Il Partito Democratico ha bisogno della sua onestà, passione e intelligenza politica". Così Goffredo Bettini, membro della direzione nazionale del Pd, commenta con un post su Facebook l'annuncio delle dimissioni da segretario del Pd da parte di Nicola Zingaretti.

(ANSA il 4 marzo 2021) "E' comprensibile l'amarezza di Nicola Zingaretti per gli attacchi. Credo che la sua scelta implichi e richieda uno scatto e una risposta unitaria, e unitariamente bisogna chiedergli di ripensare la sua decisione. Il Pd ha bisogno di un punto di riferimento per affrontare le sfide e le battaglie che ci sono. Credo che dovremo fare tutti il possibile perchè ci ripensi". Lo ha detto il ministro del Lavoro e vicesegretario del Pd Andrea Orlando.

Dagonews il 4 marzo 2021. Nicola Zingaretti ha presentato le dimissioni da segretario del Pd ma non ha precisato se queste sono "irrevocabili". L'uscita di scena - per quanto prevedibile, a causa della logorante guerriglia interna - potrebbe essere solo un passaggio intermedio: disinnescare il fuoco amico, andare alla conta sul reale sostegno di cui ancora dispone, provare a farsi rieleggere all'Assemblea del 13-14 marzo ed evitare così le trappole di un possibile Congresso. Non a caso, rassegnando le dimissioni, Zingaretti ha precisato: "Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L'Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili". Matteo Ricci, coordinatore dei sindaci Pd e presidente Ali (Autonomie Locali Italiane), gli fa eco: "Comprensibile e condivisibile lo sfogo di Zingaretti, ma Nicola deve rimanere e continuare il suo mandato con la rinnovata spinta dell'Assemblea. Non si può delegittimare ogni volta il leader di turno". Il governatore del Lazio sa di avere contro gli ex renziani di Base Riformista e la corrente "sinistra" di Orfini ma vuole capire che aria tiri dalle parti di Su-Dario Franceschini, finora vero punto di equilibrio all'interno del partito. Se lo molla anche il ministro dei Beni Culturali, uso a tradir tacendo, per Zingaretti non ci sarà scampo. Certo, nell'ultimi due anni di errori il segretario dimissionario ne ha commessi a bizzeffe, ispirato dal suo nume tutelare Goffredo Bettini. Negli ultimi giorni, però ha infilato una sequela di mosse sbagliate da mandare in tilt anche i suoi più ferventi sostenitori. Sulle scelte di Draghi, ad esempio. La linea di discontinuità scelta da SuperMario, rispetto agli uomini e ai metodi di Conte, ha portato a una serie di nomine (Gabrielli, Curcio, Figliuolo) su cui il Pd non è mai riuscita a mettere il cappello. "Ma come - hanno bisbigliato gli "addetti ai livori" dem - Gabrielli è stato 'inventato' da Enrico Letta e noi non tocchiamo palla? Ha cantato vittoria solo Salvini". E invece di prendere le distanze da Conte, ormai non più federatore di un'alleanza Pd-M5s ma leader di un partito "rivale" che porta via consensi, Zingaretti è rimasto fermo al solito mantra che immaginava "Giuseppi" punto di riferimento dei progressisti. E poi il sostegno fuori luogo a Barbara D'Urso scambiata per Rosa Luxemburg; la proposta al M5s (che sta drenando voti al Pd) di entrare in giunta in regione Lazio; l'accusa di aver abboccato alla proposta di Salvini di convergere su una legge elettorale maggioritaria (ma il Nazareno ha poi smentito); il sondaggio di Swg che ha certificato il decollo dei grillini con Conte leader (22%) e il tracollo del Pd guidato dalla trimurti Zingaretti-Orlando-Bettini al 14,2%.

La guerra intestina al Pd che ha portato alle dimissioni shock di Nicola Zingaretti. Il dibattito sul congresso e la leadership, il fuoco amico, gli sgambetti tra correnti e l’elenco di (non) candidati alla successione. I perché del clamoroso annuncio del segretario. Susanna Turco su L'Espresso il 4 marzo 2021. Le dimissioni arrivano senza preavviso, alle 15.30, via Facebook: «Lo stillicidio non finisce», «mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie», scrive Nicola Zingaretti, che si dice colpito dal «rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto» e annuncia: «Non mi resta che fare l'ennesimo atto per sbloccare la situazione». Dimissioni, appunto. Un post che piomba sul Pd e sul suo popolo in modo del tutto inaspettato per tempistica e metodo. Ma non per sostanza. Il caos regnava da settimane: nel Pd e anche nel suo segretario. La fragilità era evidente. Il nervosismo pure. Dieci giorni fa, il 24 febbraio, Zingaretti aveva fatto trapelare per la prima volta l'intenzione di fare questo passo: presentarsi dimissionario all'Assemblea nazionale del 13-14 marzo. Ispirazione di Goffredo Bettini, dicono nel Pd: lasciare per rilanciarsi, un grande classico della tattica politica. Lunedì 1 marzo, una settimana dopo, nelle relazioni conclusive della Direzione, Zingaretti fa però l'opposto. Dichiara: facciamo un congresso a tesi, ma niente dimissioni, le primarie si faranno nel 2023. Ispirazione di Dario Franceschini, dicono nel Pd. Oscillazioni che persino in Zingaretti non sono mai stati così rapide, frenetiche. Per non rievocare il «sor Tentenna», soprannome che comprensibilmente detesta, possiamo dire che il segretario Pd sia divenuto in ultimo ormai eracliteo: da Eraclito di Efeso, il filosofo presocratico che diceva impossibile «discendere due volte nello stesso fiume o toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato». Ecco, anche per il presidente della Regione Lazio risulta ormai difficile alludere due volte allo stesso congresso. Oscillando, appunto, tra Goffredo Bettini e Dario Franceschini (o tra Bettini e Nicola Oddati, se restiamo nella cerchia zingarettiana), tra il congresso e il non congresso, tra le non dimissioni e le dimissioni. Appare difficile, nonostante il gesto di Zingaretti, che nel partito si supererà il livello resa dei conti interna, che nei giorni scorsi è stata appena mascherata da discussione sull’alleanza coi Cinque Stelle.  Così, anche se pare improbabile l’apertura, in piena terza ondata, di una vera e propria fase congressuale che durerebbe ben 150 giorni, cinque mesi, (e che comunque nel Pd è durata al minimo 90 giorni, tre mesi) si capisce che nessuno, nel partito, se la senta di escludere alcuna ipotesi circa cià che accadrà. Non se la sentivano prima, figurarsi adesso. In una situazione già molto pericolante, spicca infatti un elemento comune: il fatto che Zingaretti – sia quello pro congresso che quello contro - fosse «stufo», scocciato di volta in volta per una sfumatura diversa dello stesso problema, «dell’assedio quotidiano», del «tafazzismo», «del fuoco amico», e via dicendo. Proprio per questo, spiegavano anche prima che si realizzasse, non era possibile escludere il passo indietro: perché in effetti il segretario dem non era mai stato, paradossalmente, fragile e in difficoltà come in questa fase. La polemica sulle donne, sull’aver resuscitato il M5S, sull’essersi fatti vampirizzare da Conte, e le critiche per non aver chiesto al vicesegretario Andrea Orlando di dimettersi, gli assalti del cosiddetto partito dei sindaci che, da quello di Bari Antonio Decaro a quello di Firenze Dario Nardella, passando per il primo cittadino di Bergamo Giorgio Gori, l’altra settimana sono tornati a farsi sentire in coro, articolando le medesime critiche con parole diverse e lapide finale: «Se continua così, il Pd si estingue». In ultimo,  il proclama della corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti (Base riformista) circa la necessità avviare un congresso, sotto la minaccia di porre fine altrimenti alla segreteria unitaria, ritirando i propri rappresentanti. È piovuta, sul segretario, persino la questione della collocazione europea dei Cinque Stelle dentro il Pse, nata per l’appunto a Bruxelles: è parsa come una mossa eterodiretta da Roma, mentre è David Sassoli che, in realtà, segue la pratica di avvicinamento da più di un anno, con un occhio di riguardo anche alla propria riconferma a presidente del Parlamento europeo. Talmente stufo di tutto ciò, Zingaretti, che, proprio nel momento in cui si chiudeva la partita dei sottosegretari a fine febbraio, ha toccato quello che, per alcuni osservatori di rango, si profilava come «il punto più basso della sua segreteria» o forse addirittura «l’inizio della fine». Tutto in un dettaglio: il tweet con le lodi a Barbara D’Urso («in un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone»), compimento ideale – e tutto sommato coerente - del percorso cominciato con l’attacco via Facebook a Concita de Gregorio, colpevole di radicalscicchismo per aver criticato su Repubblica l’attuale gestione del Pd. Sono parsi in effetti due segni opposti della stessa fatica, dello stesso nervosismo. In difficoltà, Zingaretti: pur avendo lasciato che si sistemassero in maniera scientifica tutti i complicati pezzi del puzzle del suo partito al governo, in una specie di apoteosi del correntismo che ha voluto ministri i tre capicorrente (Dario Franceschini per Areadem, Lorenzo Guerini per Br, Andrea Orlando per la sinistra), nessun sottosegretariato all’unico dei tre che è anche il suo vice del partito (Orlando) e, più sacrificati di tutti, gli stessi zingarettiani che erano infatti furibondi (l’unica nel sottogoverno è Alessandra Sartore, all’Economia). Secondo un percorso mirabilmente descritto proprio da Decaro: «Il partito è ostaggio delle correnti e le correnti tengono in ostaggio il segretario: gruppi di eletti che si muovono allo scopo di essere rieletti sulla base di un vincolo di fedeltà al loro leader». Una ragnatela. In difficoltà, il segretario dem, anche sul fronte interno, pur avendo davanti a sé possibili successori, più che acerrimi avversari. Primo fra tutti, Stefano Bonaccini. Il presidente dell’Emilia-Romagna, il più titolato (e citato) da circa un anno per il post-Zingaretti, non pare infatti incline a ingaggiare una qualche battaglia frontale con il segretario che conosce da trent’anni, una guerra di quelle che agitano gli ex renziani. Intendiamoci: il governatore che fermò l’avanzata leghista ambizioni ne ha. È sostenuto da una serie di amministratori locali, a partire proprio da Gori. Sta procedendo, questo sì, a una serie di incontri riservati con pezzi di Pd per costruirsi il famoso consenso «largo» di cui parla anche nelle interviste. Quel che ha in mente è una coalizione che lo appoggi in stile Mario Draghi, con tutti dentro, o, per dire ancora meglio: un unanimismo alla Walter Veltroni. Ma la strada è ancora lunga. Per dirne una: se la sua figura è adatta a incarnare il vento nordista e fare concorrenza alla Lega, c’è però che nei territori a sud della Capitale Bonaccini è visto come una specie di leghista mascherato, ha più di una difficoltà a farsi accettare. Tanto più visto che ormai non passa giorno senza che si trovi dalla stessa parte di Salvini: un giorno per l’apertura serale dei ristoranti, un altro per un sì al vaccino Sputnik, in una serie di presunti «assist» al Carroccio che lasciano indifferente il suo spirito pratico, ma fanno inorridire mezzo partito. Potrebbe Bonaccini diventare un candidato per Base riformista, ma non è semplicissimo. Soprattutto perché vedrebbe accentuarsi il problema che ha tutt’ora in comune con gli ex renziani del Pd: quello di essere visto come il Cavallo di Troia di un ritorno di Matteo Renzi al Nazareno. Spauracchio che gli zingarettiani agitano volentieri ma, più in generale, terrore radicato di tanti elettori del Pd sui social. Nei commenti ai post su Facebook, sono centinaia gli interventi che obiettano infatti una sola cosa: mai con Renzi. Un sospetto di intelligenza con l’ex leader che Guerini e Lotti non riescono a scrollarsi di dosso, a torto o a ragione: neanche con le dichiarazioni antirenziane che il portavoce d’area, Andrea Romano, ha fatto piovere sull’ex premier, così pesanti da far concorrenza a Marco Travaglio. Nessuno infatti, tranne Zingaretti stesso, era in grado di scuotere l'albero zingarettiano più di tanto. Gli stessi ex renziani, peraltro divisi tra chi ha proprio rotto ogni rapporto con Matteo (Luca Lotti) e chi non l’ha fatto (Andrea Marcucci) non sono compatti al loro interno - nella riunione di martedì scorso c’è chi si è detto contrario al muro contro muro, come Emanuele Fiano, Salvatore Margiotta, Caterina Bini, Enrico Borghi.  Nonostante esista un problema reale a spingerli per cambiare gli equilibri: sarà il segretario a stilare le prossime liste elettorali. Renzi lo fece per il voto del 2018, riempiendo Camera e Senato di fedelissimi, come sa bene Zingaretti che non ha mai controllato i gruppi che siedono a Montecitorio e a Palazzo Madama. Se dovesse essere lui, o invece un altro, a fare le prossime liste: sarà quello a determinare la sopravvivenza o meno degli ex renziani (ora sovrarappresentati. Di questo si discute nel Pd, solo di questo. Nulla,  come ha sottolineato anche Zingaretti nel suo post, che fuoriesca dalle logiche interne, dai vincoli di fedeltà, nuovi o vecchi che siano. «Noi oggi siamo fortissimi nel palazzo e deboli nel Paese», ha notato fra l’altro Gianni Cuperlo nella Direzione di lunedì, per poi aggiungere che in sintesi: «Abbiamo pareggiato le elezioni del 2013, perso quelle del 2018, prima ancora avevamo perso quelle del 2008. Per capirci: l’ultima volta che abbiamo vinto alle urne è stato nel 2006. Quindici anni fa. Nonostante ciò, abbiamo governato per quasi undici anni e mezzo dei quindici anni che abbiamo alle spalle. La si può definire una prova di notevole abilità. Ma al contempo può risultare un esercizio di enorme spericolatezza». È questa fatica che sembra piombata su Zingaretti, in bilico tra l'abilità e la spericolatezza, tra chi (sinistra dem) predica di «rifondare il Pd» e chi (franceschiniani) sollecita a concentrarsi sull’attività di governo, nell’idea che  la «vocazione maggioritaria» possa ormai tradursi soltanto in una «vocazione alla coalizione». Un indecisionismo che gli ha impedito di costruire nuovi equilibri, con un coraggio maggiore rispetto a quello necessario a puntellare l’esistente - pratica nella quale invece eccelle. Occasioni mai colte, come ad esempio quella di chiedere un capogruppo di sua fiducia, oppure di raccogliere almeno la proposta di sostituire il capo dei senatori, Andrea Marcucci: una testa che più volte è stata offerta, invano, proprio dallo stesso Lotti. O, appena più indietro, tentennamenti che hanno portato prima ad associarsi all’operazione renziana per far cadere il governo Conte II, per poi anzitempo sfilarsi e finire ad appoggiare l’avvocato del popolo oltre il tempo massimo possibile – fino a latitudini da sindrome di Stoccolma. Col risultato finale di ritrovarsi criticato da tutti i lati, in una coalizione di governo nella quale il Pd rischia di essere sorpassato dalla Lega quanto ad aderenza alla vincente bandiera di Draghi ma, contemporaneamente, di essere sorpassato dai Cinque Stelle contiani. E, mentre  cerca di riportare a casa i fuoriusciti di Leu, comincia ad avere, proprio alla sua sinistra, un fermento che è appena cominciato. Lo ha ben evidenziato l’ex ministro Peppe Provenzano che, lungi dall’essere tornato a rinchiudersi nei suoi studi, sembra volersi occupare di quel lato del campo. C’è «un grande affollamento al centro», ha notato in un tweet, mentre bisognerebbe «ridefinire con forza, intelligenza e relazioni nuove identità e ruolo della sinistra nel XXI secolo». Ah già, la sinistra.

Il declino del pacificatore rimasto senza amici. In due anni, dopo Renzi, gli si sono rivoltati tutti contro. E Bonaccini incalza. Pasquale Napolitano - Ven, 05/03/2021 - su Il Giornale. Due anni fa fu acclamato come il segretario della pacificazione dopo l'era renziana: Nicola Zingaretti getta la spugna. Il leader del Pd si dimette da segretario nello stesso giorno (politiche del 4 marzo 2019) che segnò il punto più basso per i democratici. La pacificazione negli ultimi 24 mesi è stata un'illusione. L'incantesimo è finito presto. Il giocattolo si è rotto ieri, dopo settimane di veleni. Nei primi sei mesi da segretario Zingaretti ha avuto come principale nemico interno Matteo Renzi: un leader ferito dalle sconfitte elettorali che covava il desiderio di vendetta politica. Con la nascita del Conte due, Renzi ha fatto le valigie e ha salutato il Pd, facendosi il suo partito, Italia Viva. Ma gli attacchi non sono finiti. Con Renzi è andato via anche Carlo Calenda per fondare Azione. Il bersaglio è stato sempre Zingaretti. Nel Pd sono rimasti i renziani. Che non hanno mai accettato la leadership del nuovo segretario, troppo amico di D'Alema e Bersani. Zingaretti ha dovuto convivere con i renziani, che si sono riuniti in una corrente: Base riformista. Tra i renziani, mai pentiti, c'è il capogruppo al Senato Andrea Marcucci. Pubblicamente fedele al nuovo leader. Ma sospettato di sabotare la linea del partito. I sospetti sono diventate accuse due settimane fa, quando a Palazzo Madama è stato costituito un intergruppo Pd-M5S-Leu all'oscuro di Zingaretti. Al secondo posto della classifica dei detrattori di Zingaretti c'è sicuramente Stefano Bonaccini, il governatore dell'Emilia Romagna che punta a prendere il posto del segretario dimissionario. Proprio quel Bonaccini che un anno fa salvò la poltrona a Zingaretti, con la vittoria alle Regionali in Emilia Romagna contro la leghista Lucia Borgonzoni. Il governatore dell'Emilia in queste settimane ha offerto la sponda a Salvini su vaccini e riaperture, indebolendo la linea ufficiale di Zingaretti. E poi Bonaccini è la testa di ariete degli ex renziani di Base riformista che vogliono un congresso per riprendersi la guida del partito. Zingaretti ha provato a resistere; nella direzione del partito convocata tre giorni fa ha allontanato il congresso al 2023. Passo falso: si è aperto immediatamente il fuoco di Base riformista. Con i sindaci non è mai stato amore. Nella cerchia degli avversari del presidente della Regione Lazio c'è la pattuglia dei sindaci che formano una corrente autonoma. I più duri sono stati sin da subito (renziani della prima ora) Dario Nardella (Firenze) e Giorgio Gori (Bergamo). Più defilato il primo cittadino di Milano Beppe Sala. Che però non ha mai avuto un gran feeling con il segretario dimissionario. Tra gli anti-zingarettiani della prima ora c'è Matteo Orfini, leader della corrente Giovani Turchi. Una corrente svuotata dopo il passaggio di Andrea Orlando tra i fedelissimi del segretario. Ai nemici negli ultimi tempi si è aggiunta la prodiana Sandra Zampa, silurata come sottosegretaria alla Salute nel governo Draghi. Tra gli amici c'è Dario Franceschini, capocorrente di Area dem. Mai sincero fino in fondo. Pronto a fiutare il vento per cambiare leader. Ma il colpo di grazia è arrivato dall'uomo più vicino: Goffredo Bettini. Che ipotizzando vita breve per Zingaretti ha fondato una sua corrente.

"Mi vergogno di chi parla di poltrone nel Pd": Zingaretti si dimette da segretario. Zinga annuncia il passo indietro: "Lo stillicidio non finisce. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni". Luca Sablone - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. Terremoto in casa Partito democratico: Nicola Zingaretti non ci sta e annuncia le dimissioni da segretario. Il presidente della Regione Lazio ha comunicato il passo indietro attraverso un post sul proprio profilo Facebook: "Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni". L'ormai ex segretario dem non ha risparmiato frecciatine nei confronti degli esponenti che in questi giorni hanno espresso più di qualche critica ai vertici del Nazareno. Zingaretti ha sottolineato di essere stato eletto due anni fa e di avercerla messa tutta "per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova" chiedendo franchezza e collaborazione. In un momento di emergenza come quello che l'Italia sta attraversando, sostiene, bisognerebbe discutere sui modi di sostegno al governo Draghi piuttosto che delle caselle di potere: si è detto colpito dal "rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto". "Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni", ha denunciato. Per queste motivazioni ha fatto sapere che nelle prossime ore scriverà al presidente del Partito democratico per le dimissioni formali, rimandando poi all'Assemblea nazionale le future decisioni. Una scelta maturata in seguito all'immobilismo che si è venuto a creare dopo la nascita dell'esecutivo guidato da Mario Draghi: "Il Pd non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd. Visto che il bersaglio sono io, per amore dell'Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità".

Partito sotto shokc. La notizia ha provocato choc tra dirigenti e parlamentari. Diversi esponenti spiegano che nessuno era stato informato della decisione. C'era infatti grande attesa per l'Assemblea nazionale del 13 marzo per affrontare le divergenze interne e la richiesta di un congresso anticipato, ma nessuno si immaginava un improvviso gesto così eclatante. I gruppi di Camera e Senato si interrogano sulla scelta compiuta da Zingaretti, che adesso viene dato anche come possibile candidato sindaco in occasione delle elezioni Amministrative a Roma: "Stamattina ci sono anche state delle riunioni al Nazareno ma non c'era niente di simile nell'aria". Si tratta di una presa d'atto ufficiale o semplicemente è da intendersi come una mossa per stoppare lo stillicidio? "Se fosse così è l'arma fine del mondo, un terremoto dell'ottavo grado...", dicono dagli ambienti parlamentari.

Le reazioni. Non sono mancate le reazioni politiche. Giuseppe Conte si dice "dispiaciuto" per la decisione: "Le dimissioni di Nicola Zingaretti non mi lasciano indifferente. Seguo con rispetto e non intendo commentare le dinamiche di vita interna del Partito democratico. Non avevo avuto occasione, prima della formazione del governo precedente, di conoscerlo. Successivamente, ho avuto la possibilità di confrontarmi con lui molto spesso, in particolare dopo lo scoppio della pandemia. Ho così conosciuto e apprezzato un leader solido e leale, che è riuscito a condividere, anche nei passaggi più critici, la visione del bene superiore della collettività". A prendere posizione è stato Matteo Ricci, coordinatore dei sindaci del Pd e presidente di Ali (Autonomie locali italiane): "Comprensibile e condivisibile lo sfogo di Zingaretti, ma Nicola deve rimanere e continuare il suo mandato con la rinnovata spinta dell'Assemblea. Non si può delegittimare ogni volta il leader di turno, men che meno in questa fase di crisi sanitaria ed economica". Sulla stessa scia Francesco Boccia, ex ministro per gli Affari regionali del governo Conte: "Penso che l'Assemblea nazionale abbia una sola strada: chiedergli di restare segretario del Pd che, grazie alla sua guida, è uscito da uno dei periodi più bui della sua storia". Gli ha fatto eco Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali: "Abbiamo sulle spalle non solo il destino del Pd ma una responsabilità più grande nei confronti di un Paese in piena pandemia. Il gesto di Nicola Zingaretti impone a tutti di accantonare ogni conflittualità interna, ricomponendo una unità vera del partito attorno alla sua guida". Sulla questione è intervenuto anche Matteo Salvini, che però non si è detto affatto interessato alle beghe interne del Partito democratico: "Spiace che il Pd abbia problemi interni che costringono Zingaretti a dimettersi, ma noi oggi stiamo lavorando coi ministri della Lega per produrre vaccini in Italia, per rottamare 65 milioni di cartelle esattoriali, per far arrivare rapidamente i rimborsi attesi a 3 milioni di Partite Iva, professionisti e imprenditori. Dalle parole ai fatti".

"È la fine del mondo, un terremoto dell'ottavo grado". Ora il Pd rischia il collasso. Gli esponenti del Pd spiazzati dalle dimissioni di Zingaretti: "Non ne sapevamo nulla". L'Assemblea nazionale del 13 marzo può trasformarsi in una polveriera da tutti contro tutti. Luca Sablone - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. Una decisione inaspettata, non fatta filtrare e dunque annunciata all'improvviso senza alcun segnale precedente. Le dimissioni di Nicola Zingaretti hanno lasciato più di qualche sospetto all'interno del Partito democratico: la mossa dell'ormai ex segretario è una presa d'atto ufficiale o si tratta di una strategia per stoppare "lo stillicidio" che lui stesso ha denunciato? La situazione era ormai diventata escandescente: dominava da giorni un clima di assedio, tra critiche ai vertici del Nazareno e accuse incrociate tra le varie correnti. Così il governatore della Regione Lazio ha deciso di fare il passo indietro nel Pd, dicendosi tra l'altro colpito dal "rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto".

Terremoto nel Pd. La scelta di Zingaretti ha lasciato sotto choc gli esponenti dem, che hanno riferito di non aver ricevuto alcuna anticipazione in merito. "Non ne sapevamo nulla. Stamattina ci sono anche state delle riunioni al Nazareno ma non c'era niente di simile nell'aria", riferiscono dai gruppi parlamentari di Camera e Senato. C'è chi è arrivato addirittura a ipotizzare il suo nome come candidato sindaco per le elezioni Amministrative a Roma, ma intanto la situazione interna al Partito democratico rischia di esplodere da un momento all'altro: "L'arma fine del mondo, un terremoto dell'ottavo grado...". I dirigenti dem che lavorano a stretto contatto con l'ormai ex segretario sono rimasti scioccati dalla notizia. Oggi pomeriggio alle ore 15 c'è stata una riunione con Zingaretti sul voto amministrativo e, a quanto viene riferito, non ci sarebbe stato "nessun minimo accenno" alle dimissioni. Un big del Pd racconta che qualche settimana fa Zinga era davvero provato e si è temuto un po' per l'addio: "Ma poi dopo l'ultima Direzione, il clima era cambiato, Nicola era di nuovo carico sulle cose da fare, la linea da seguire...". C'era grande attesa per l'Assemblea nazionale in programma sabato 13 marzo per affrontare le divisioni interne e la richiesta di un congresso anticipato. L'appuntamento adesso può trasformarsi in una polveriera da tutti contro tutti se i capi delle correnti non riusciranno a far rientrare l'allarme. In molti però spingono affinché Zingaretti ci ripensi e dunque all'Assemblea verrà proposto di riconfermarlo. "Penso che l'Assemblea nazionale abbia una sola strada: chiedergli di restare segretario del Pd che, grazie alla sua guida, è uscito da uno dei periodi più bui della sua storia", ha dichiarato Francesco Boccia.

"Una mossa da poker". Dal Pd ci si chiede dunque la spiegazione per una mossa così sorprendente e inaspettata. Come riporta l'Adnkronos, c'è chi giudica lo spariglio di Zingaretti "una buona mossa di poker". Il suo intento, sostiene qualcuno, potrebbe essere quello di "anticipare la discussione e chiuderla definitivamente in Assemblea". In tal modo riuscirebbe a incassare la riconferma in occasione dell'Assemblea. Anche Matteo Ricci, coordinatore dei sindaci del Partito democratico e presidente di Ali (Autonomie locali italiane), si è posizionato sulla linea della riconferma: "Comprensibile e condivisibile lo sfogo di Zingaretti, ma Nicola deve rimanere e continuare il suo mandato con la rinnovata spinta dell'Assemblea. Non si può delegittimare ogni volta il leader di turno, men che meno in questa fase di crisi sanitaria ed economica".

La mossa a sorpresa. Pd allo sfascio, Zingaretti si dimette: “Terza ondata alle porte ma nel partito si parla di poltrone”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Marzo 2021. Colpo di scena nel Partito Democratico. Con una mossa a sorpresa il segretario Nicola Zingaretti ha annunciato le dimissioni dal suo ruolo di leader dei Dem. “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”, scrive su Facebook il presidente della Regione Lazio. “Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili“. Nel post Zingaretti ricorda come, dopo esser stato eletto due anni fa, “abbiamo salvato il Pd e ora ce l’ho messa tutta per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova. Ho chiesto franchezza, collaborazione e solidarietà per fare subito un congresso politico sull’Italia, le nostre idee, la nostra visione. Dovremmo discutere di come sostenere il Governo Draghi, una sfida positiva che la buona politica deve cogliere”. Tutto questo, aggiunge Zingaretti, “non è bastato” e anzi “mi ha colpito – scrive l’ormai ex segretario – il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni. Ma il Pd non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd”. Con la sua mossa Zingaretti quindi auspisca che “il Pd torni a parlare dei problemi del Paese e a impegnarsi per risolverli. A tutte e tutti, militanti, iscritti ed elettori un immenso abbraccio e grazie”, si chiude il messaggio del segretario. LE REAZIONI – La mossa e l’annuncio via Facebook hanno colto di sorpresa tutti i dirigenti e parlamentari del Pd, nessuno era stato infatti informato dal segretario delle dimissioni, neanche gli uomini a lui più vicini. Ora l’attesa è ovviamente rivolta all’Assemblea nazionale del 13 e 14 marzo prossimo, con tre ipotesi in ballo: eleggere subito un nuovo segretario, eleggere un “reggente” fino al prossimo congresso o respingere le dimissioni di  Zingaretti. La notizia delle dimissioni di Zingaretti ha colto di sorpresa l’ex premier Enrico Letta, ospite in videocollegamento alla presentazione online di un libro dell’economista Laura Pennacchi. “Sono rimasto colpito, un attimo perplesso da quanto sta accadendo”, ha detto Letta, chiedendo scusa per essersi brevemente distratto leggendo la notizia, mentre interveniva un altro relatore. Una insolita ‘solidarietà è arrivata anche da Carlo Calenda, leader di Azione, che su Twitter scrive: “Prendersela oggi con Nicola Zingaretti per una scelta condivisa da tutta la classe dirigente del Partito democratico e gran parte dell’elettorato è un modo per buttare la polvere sotto il tappeto. Lo dico da fiero avversario politico di quella linea. Fine dell’intromissione”. Diversi gli appelli a fare marcia indietro all’interno dell’universo Dem. Il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, chiede infatti che Zingaretti “rimanga alla guida del partito. Il dibattito interno è fisiologico e non deve essere esasperato. Ritroviamo insieme la strada”. Per l’ex ministro degli Affari regionali Francesco Boccia “grazie alla sua guida il Pd è uscito da uno dei periodi più bui della sua storia. L’assemblea lo confermi“. In una intervista a questo giornale, la vicepresidente del Partito Democratico Deborah Serracchiani a proposito di un possibile congresso aveva spiegato che “è doveroso rifare il punto-nave, ridarsi obiettivi nuovi, attrezzarsi meglio” perché “da quando è naufragato il Conte ter ed è nato il governo Draghi, il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare anche noi“. Sulla stessa linea anche le parole riferite a Il Riformista da Luigi Zanda, storico senatore del Pd ed ex presidente del Gruppo a Palazzo Madama: “Noi dobbiamo lavorare perché il Congresso sia un Congresso sulle idee, sul pensiero, un Congresso che possa definire bene l’identità del partito, la sua linea politica. Il tema delle alleanze o la conta sui nomi deve venire dopo”, aveva sottolineato in una intervista nei giorni scorsi. In serata arriva la reazione di Giuseppe Conte che su Facebook ha scritto: “Le dimissioni di Nicola Zingaretti non mi lasciano indifferente. Seguo con rispetto e non intendo commentare le dinamiche di vita interna del Partito Democratico. Ma rimango dispiaciuto per questa decisione, evidentemente sofferta”. “Non avevo avuto occasione – continua il post –  prima della formazione del governo precedente, di conoscerlo. Successivamente, ho avuto la possibilità di confrontarmi con lui molto spesso, in particolare dopo lo scoppio della pandemia. Ho così conosciuto e apprezzato un leader solido e leale, che è riuscito a condividere, anche nei passaggi più critici, la visione del bene superiore della collettività”. 

Scene di fantapolitica. Zingaretti dimostri il coraggio di Natta e cacci i dissidenti. Fulvio Abbate su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. E se il Partito democratico decidesse di volersi bene, diventando unicamente se stesso? Un’idea per realizzare questa eventualità crediamo comunque di poterla suggerire ai diretti interessati. Ecco: abbiamo fantapoliticamente immaginato, posto che ormai non si può fare altro che sognare, essendo il terreno e la sostanza simbolica e concreta della politica prive ormai di consistenza, che, d’improvviso, mosso da amor proprio, il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, proceda a “radiare” i renziani dalla sua organizzazione. Si liberi di una “quinta colonna” attiva e operante proprio nel Pd. Un gesto simile, sia detto per coloro che non hanno memoria delle cose e dei grovigli politici interni alla sinistra (ammesso che il Pd possa essere ancora ritenuto un soggetto tale) ricondurrebbe a ciò che avvenne nel 1969 nel Partito comunista italiano, quando il gruppo de “il manifesto” – Pintor, Rossanda e gli altri – vennero appunto radiati; messi alla porta, in una sorta di “sospensione a divinis”. Ecco, Zingaretti si sveglia una mattina e dice a se stesso: bene, questi qui non ce li voglio più! Fa così in modo che gli “amici” e le “amiche” di Matteo, si ricongiungano presso la casa del padre, nel partito tutto loro, sebbene monolocale, Italia Viva. Insomma, si ripete Zingaretti, ancora in pigiama, seduto ai bordi del letto nella prima mattina della sopraggiunta chiarezza: perché Matteo ce li ha lasciati qui? Facendo così balenare proprio il concetto della cosiddetta “quinta colonna”. Con questa espressione si intende l’esistenza di una falange nemica, nascosta, travisata entro le proprie fila, pronta ad attaccare; sorta di cavallo di Troia. Il nome risale agli anni della guerra civile spagnola: fu chiesto a Franco come avrebbe battuto i lealisti repubblicani, il generalissimo disse: vinceremo anche con la nostra quinta colonna. All’obiezione: ma se ne avete solo quattro? Giunse la risposta decisiva: No, ce n’è una quinta nascosta tra i “rossi”. Ora, senza farla troppo lunga, tornando alla memoria storica, giunge naturale un’altra espressione propria delle dinamiche politiche interne alla sinistra: “entrismo”. Negli anni ‘50 e ’60, a praticarlo erano i trotskisti infiltrati all’interno dei partiti della sinistra tradizionale per spostarne l’asse a sinistra, chi siano esattamente i trotskisti provvede la battuta di Mariangela Melato in “Mimì metallurgico ferito nell’onore” rivolta a Gennarino Carunchio: “Sinistra della sinistra”. Va chiarito però che in questa nostra storia, di sinistra ne appare poca, anzi, procedendo nell’azzardo fantapolitico, alla fine di tutto, per raggiungere una definizione esatta del Pd, un ibrido nato con Veltroni, torna in mente, proprio una pagina de “il manifesto” del 1999, contestuale a quando proprio Veltroni disse di non essere “mai stato comunista”, che mostrava le facce di quest’ultimo e di D’Alema da giovani titolando: “Facevamo schifo”. Nella situazione attuale, l’ironia è d’obbligo, visto che Zingaretti non è Stalin, non è Togliatti e forse ancor meno Natta, che dell’espulsione del gruppo fu di fatto l’esecutore burocratico. Rimandarli alla casa del padre Matteo, sarebbe un gesto di chiarezza politica, non un remake dell’osceno centralismo democratico, tuttavia un’iniziativa chiarificatrice. Fra l’altro, mi segnala un amico che di queste cose ne sa più di me, Vincenzo Vasile, che tra poco vi saranno le elezioni amministrative e a quel punto si vedrà bene il prezzo del controllo del partito anche nei suoi gangli periferici. Resterebbe una questione inerente alla definizione esatta del simbolico del Pd, un qualcosa che a molti sembrerà del tutto sovrastrutturale, e invece i segni in politica sono importanti. Perché appiattirsi sull’immaginario di Italia Viva che sovente agli occhi di molti ipotetici elettori corrisponde alla vita sentimentale di Maria Elena Boschi, più che alle sue esternazioni pubbliche. Forse, un partito che si pretenda democratico dovrebbe suscitare e suggerire un immaginario più definito, se non proprio di sinistra, comunque meno ordinario. Ovviamente, chiedo per un amico.

Il congresso è già aperto. Faida nel Pd, Zingaretti sotto assedio: tra Orlando e gli ex renziani potrebbe spuntarla Bonaccini. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. “Bene, ora che il governo Draghi ha preso forma e si è insediato, possiamo cominciare a fare politica, quella seria”. Che nello specifico significa “decidere quale è l’identità e il progetto politico del Pd, tirare le conclusioni di quello che è stato e cosa sarà”. Enrico Borghi, deputato Pd della corrente Base Riformista, gli ex renziani rimasti nel Pd, esce dall’anonimato di quanti, nei mesi della seconda ondata e nelle settimane della crisi, hanno troppe volte mormorato rinunciando a parlare con chiarezza. Il suo messaggio è chiaro: ritornare al Pd, quello delle origini, a vocazione maggioritaria, riformatore. “In questo senso – aggiunge Borghi – l’agenda Draghi sarà dirimente per decidere chi sta dove e con chi”. Non conta qui se il segretario Zingaretti si sente “quotidianamente delegittimato” dal fuoco amico, circondato dagli ex renziani, se offeso e stanco medita di arrivare dimissionario all’assemblea nazionale del 13-14 marzo. Se, per dirla con le parole usate dal suo consigliere politico Goffredo Bettini ieri sulle pagine di questo giornale nel dialettico botta e risposta con Enrico Morando, “è arrivato il momento di fare chiarezza” su alleanze, leadership, “alleanze strutturali” con il Movimento 5 Stelle derubricate a “ipotesi di progetto politico”. Che poi il concetto non cambia. Due passi avanti e poi due passi di lato. Borghi la definisce “subalternità psicologica, culturale e politica” che in questa specifica fase molto liquida, in cui tutto si scompone per poi ricomparsi ma non è ancora chiaro come, è non solo deleterio ma letale. Quello che conta qui adesso è che il Pd ha già ufficialmente aperto il congresso al di là dei tecnicismi del regolamento. E delle tattiche di breve periodo, ad esempio far uscire voci di dirigenti anonimi che affermano con sicurezza che Zingaretti “è pronto a mollare già in assemblea e poi partire per un viaggio”, dei due capigruppo di Camera e Senato (Delrio e Marcucci) che avrebbero già “scelto il nuovo segretario” che non può che essere il presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Il quale però nega “perché prima c’è da isolare il virus e far ripartire il Paese”. Il congresso non solo è aperto. È nel pieno del dibattito. Il ministro Andrea Orlando, vicepresidente del Pd, colloca il partito in una precisa area politica. Che però non è più quella della “vocazione maggioritaria” della sua fondazione. E non è la stessa di tanti elettori Pd che spiazzati da quello che hanno visto e sentito in questi mesi (la battuta più in voga: “Nessuno ci aveva detto che Bettini è diventato il nostro segretario”), cominciano a farsi sentire e a reclamare “chiarezza nell’identità politica”. Orlando torna al convitato di pietra del tormento Pd: Matteo Renzi, il renzismo e quella stagione di riformismo che, al netto di errori, ha fatto nascere il Conte 2 e ora il governo Draghi muovendo le carte con una piccola pattuglia di parlamentari e tanti, troppo argomenti condivisi, senza dirlo, da molti altri gruppi parlamentari. “Solo i renziani possono parlare di congresso adesso – attacca Orlando – La verità è che sono all’opera, e non da oggi, per logorare Zingaretti”. Ecco che, annuncia il vicesegretario che molti già danno in pole per la guida del Pd, “è necessario tornare a quando si consumò il fallimento di un’esperienza politica arrivata al capolinea con le elezioni del 2018” perché “in questi giorni stanno riemergendo le scorie di un processo di riflessione non portato davvero a compimento”. Ancora più chiaro: “Stanno emergendo rigurgiti di posizioni che guardano a un Pd del passato, improntato verso un centrismo non più al passo coi tempi”. Eccolo qua, appunto, il congresso del Pd. C’è Orlando, vicesegretario che piazza il partito a sinistra rivendicando l’asse Pd-M5s, il secondo obiettivo di chi ha provocato la crisi e di quei dirigenti, cioè capicorrente, che “però non escono mai allo scoperto”. Orlando parla e definisce aree e appartenenze politiche. Fa chiarezza rispetto a Bettini. E anche rispetto a Zingaretti che ieri, nella direzione convocata per dirimere il tema donne e rappresentanza, si è lanciato nel tratteggiare “la rigenerazione del Pd”. Il tempo è adesso “per aprire una discussione sul futuro dell’Italia, il ruolo del Pd dopo la formazione del governo Draghi e quanto ci aspetta nei prossimi anni”. Non sono le parole di uno che ha deciso di arrivare in assemblea dimissionario. Sono parole che però restano in clamoroso ritardo rispetto al diffuso malessere dem. “È il vizio di una certa sinistra – attacca Borghi – che mette tutto tra parentesi e ricomincia sempre da capo. Il modello segare-i-ponti o sostituire, mantenere-tutto-uguale-a-prima non è più riproducibile perché non è all’altezza di questo momento”. Il Pd può anche legittimamente decidere di “diventare una specie di Linke un po’ più obesa. Ma non è questo ciò che vuole la sinistra riformista”. L’agenda Draghi è un discrimine per tutto il sistema politico. Basta vedere cosa sta succedendo a destra tra Lega e Fratelli d’Italia. E, in piccolo, cosa accade a sinistra, dentro Leu. Il Pd non può sfuggire a questa dinamica. Borghi fa qualche esempio. “Cosa succederà quando la ministra Cartabia porterà la riforma del processo penale e civile: con chi starà il Pd, con i magistrati di Md o con il ministro? E quando Brunetta porterà la riforma della pubblica amministrazione scritta anche da Cottarelli ma soprattutto a Berlino, con chi starà il Pd? Con Brunetta o con i Cobas”. Tutte domande non solo legittime ma urgenti. Che nessuno della dirigenza del Nazareno ha messo sul tavolo. Certo, poi c’è il tema Matteo Renzi. “Ma sbaglia chi lo mette all’inizio del percorso anziché dopo. Prima cerchiamo la nostra identità e proposta politica. Se poi coincide con quella di Renzi, bene. Basta con l’uomo nero che da vent’anni impedisce di definirci”. L’”uomo nero” è stato Berlusconi, poi Salvini, ora magari proprio Renzi. E intanto il Pd non sa più chi è. Il congresso è ampiamente iniziato.

PiazzaPulita, cupa profezia di Pier Luigi Bersani sul Pd: "Zingaretti lascia? Siamo solo in superficie" Libero Quotidiano il 04 marzo 2021. Nicola Zingaretti ha annunciato le dimissioni da segretario del Partito democratico. La notizia, arrivata con un post sui social, ha destato parecchio stupore. Anche in Pier Luigi Bersani. “Le dimissioni di Zingaretti - ha esordito a PiazzaPulita su La7 - Erano nell’aria da un po’ ma non mi aspettavo succedesse oggi". Non è tutto, perché per Bersani "siamo ancora molto sulla superficie dei problemi della sinistra: questi non si risolvono stando in casa ma in campo aperto, con una novità. Ci vuole la generosità di dire: mettiamoci una novità".  Una storia che lo stesso Bersani ha vissuto sulla propria pelle: "Mi sono dimesso la sera stessa dei 101. Avrei potuto ricandidarmi al congresso, ma avrei dovuto fare i nomi dei 101 e non l'ho fatto per senso di responsabilità. Quello era il mio partito", ha ricordato "l'operazione che voleva far fuori Prodi e me". Quella dei 101 del centrosinistra che "tradirono" Romano Prodi il 19 aprile del 2013. Da qui l'appello dell'ex governatore dell'Emilia-Romagna: "Ci vuole una novità, una fase nuova. È la via d'uscita per tuti, anche per i Cinque Stelle. Lavarsi i panni in casa non basta più". E ancora nel salotto di Corrado Formigli: "Non so quale strada sceglierà Zingaretti, ma se decidesse di fare come dice lui spero che quello che vuol lui sia una cosa aperta". 

Piazzapulita, Pierluigi Bersani balbetta e beve acqua: "Questo è di sinistra?", crisi di nervi in diretta. Libero Quotidiano il 05 marzo 2021. "Io tutta questa sinistra non l'ho vista". Alessandro De Angelis di HuffingtonPost mette in clamoroso imbarazzo Pierluigi Bersani a Piazzapulita, su La7. E l'ex segretario del Pd, oggi Articolo 1, si mangia le unghie e ascolta con gli occhi "pallati", fissi nel vuoto, bevendo continuamente acqua. "Parliamo dei dossier - incalza il giornalista -. Il ministro Lamorgese davanti ai pm di Catania ha affermato che c'è stata continuità sulla gestione immigrazione tra Diciotti e Ocean Viking. I porti sono rimasti chiusi sia con Salvini sia con Conte e questa non è una cosa di sinistra". "Lascia stare che lo ha dichiarato, quello che stai dicendo non è vero", replica un balbettante Bersani. "La norma è stata corretta". "Ma i decreti sicurezza con l'immigrazione non c'entrano nulla", rincara De Angelis. "Lei che ha fatto le liberalizzazioni, le sembra di sinistra dare 10 miliardi ad Autostrade e non metterceli per un pregiudizio ideologico del Movimento 5 Stelle? Le sembra di sinistra sostenere tutti i pregiudizi ideologici che avevano i 5 Stelle?". "Tutta questa canea di un anno e mezzo contro Conte è stato perché era troppo di sinistra? Ma di cosa stiamo parlando?", ribatte uno stizzito Bersani: "La critica che le faccio io è che la sinistra si è consegnato a una stabilità senz'anima, e infatti il governo è caduto. Dopodiché apriamo il dibattito sul ritorno al voto o trovare i responsabili. Secondo lei è di sinistra il trasformismo?". Gioco, partita, incontro.

"Io non ho capito nulla di quello che ha detto". Bersani parla e la Maglie lo umilia: ovazione totale. Maria Giovanna Maglie umilia Pier Luigi Bersani a Stasera Italia: "Io non ho capito nulla di quello che ha detto". Libero Quotidiano il 20 febbraio 2021. "Io non capisco nulla di quello che dice". Maria Giovanna Maglie inizia così il proprio intervento a Stasera Italia. La giornalista fa riferimento alle parole espresse da Pier Luigi Bersani. L'ex ministro l'aveva preceduta nello studio di Veronica Gentili su Rete Quattro, lasciandosi andare a quelle che la Maglie definisce "metafore troppo complesse". "Se vuole le faccio la parafrasi", interviene la conduttrice cercando di smorzare l'imbarazzo". "Sì, perché io non capisco", rincara la dose la Maglie che non usa mezzi termini per svelare la propria difficoltà. Oltre alle metafore, poco prima Bersani ha commentato la situazione in cui riversa il Movimento 5 Stelle. "In qualche misura i problemi ce li hanno tutte le forze politiche ma i 5 Stelle li hanno moltiplicati per 10 perché non hanno mai risolto il tema della loro identità". Poi il fu governatore dell'Emilia-Romagna ha spezzato una lancia a favore di Giuseppe Conte, ammettendo: "Noi possiamo pure accelerare ma con i vaccini che ci sono noi siamo davanti a Francia e Germania, non si può dire che non stiamo facendo bene". Parole che non trovano d'accordo la Maglie: "Il Ministro Speranza si comporta come se nulla fosse cambiato. Ha detto che siccome i contagi e le morti sono diminuiti bisogna chiuderci tutti, lo stesso discorso che faceva quando aumentavano". Una frecciata in riferimento alla richiesta da parte del titolare della Sanità di aumentare le restrizioni per evitare gravi conseguenze in termini di pandemia. Questo però a prescindere dai dati delle regioni. 

Bonaccini: Zingaretti ha sbagliato, il Paese è in crisi e il Pd non può parlare dei suoi problemi…Redazione venerdì 5 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Stefano Bonaccini commenta le dimissioni di Zingaretti. Un commento che era atteso, visto che proprio il governatore dell’Emilia Romagna è accreditato come possibile futuro successore del leader dimissionario. E il commento non è tenero nei confronti di Zingaretti. “Il Pd è il mio partito – scrive su Fb – e non faccio parte di alcuna corrente. Con Nicola Zingaretti ci frequentiamo fin da ragazzi, ho votato per lui all’ultimo congresso, mi ha sostenuto nella mia rielezione a presidente dell’Emilia-Romagna: la mia fiducia personale c’è sempre stata e c’è, immutata. Tale resta sia quando siamo d’accordo, sia quando non lo siamo, e gli ho sempre detto come la penso”. “Ogni scelta va rispettata, ma credo che dimettersi sia una scelta sbagliata. La stima rimarrà sia se deciderà di rimanere segretario, come spero, sia se confermerà le sue dimissioni. Il punto, per me è questo: in tempo di pandemia il Pd non può parlare di se stesso. Non può perché stanno arrivando meno vaccini del previsto, mentre i contagi crescono più del previsto; perché abbiamo bambini, ragazzi e ragazze a casa da scuola e le famiglie in difficoltà; perché ci sono persone che perdono il lavoro e imprese che rischiano di non riaprire più”. “Ogni giorno mi arrivano centinaia di mail e messaggi che parlano di questi drammi, non dei problemi del Pd. Un partito serve non se discute di se stesso, ma se affronta i problemi dei cittadini. E una classe dirigente è tale se non si divide in gruppi, ma si unisce per assumere decisioni. Tanto più in tempo di pandemia. Basta con le discussioni interne, acceleriamo su quelle per il Paese. Serve questo“. Marco Miccoli, responsabile lavoro della segreteria Pd, non si tiene e replica a Bonaccini: “Ha ragione Stefano Bonaccini. Basta polemiche interne: ma poteva dirlo a Nardella e a chi da settimane parla solo del Pd, di assetti e contro il gruppo dirigente e soprattutto contro Zingaretti”. Sempre Miccoli in un’intervista aveva puntato l’indice contro coloro che avevano cannoneggiato il segretario Zingaretti:  “I nomi sono via via usciti sui giornali: i diversi sindaci, Dario Nardella, Giorgio Gori e Stefano Bonaccini, Matteo Orfini, i capigruppo di Camera e Senato Graziano Delrio e Andrea Marcucci, i parlamentari di Base riformista. Uno stillicidio di accuse contro il Partito democratico, reo non si capisce di che cosa. La messa in discussione di una linea che era stata votata all’unanimità, alla presenza di tutti gli organismi dirigenti. Salvo poi, riaprire le danze la mattina dopo. Così non si poteva più andare avanti. Stiamo qui a fare politica non per accaparrarci posti e poltrone, ma per dare una mano al Paese”.

Carlo Bertini per “la Stampa” il 5 marzo 2021. Un solo grande silenzio, in mezzo ad una pletora di appelli, riconoscimenti, struggenti mozioni d'affetto: quello di Stefano Bonaccini, governatore emiliano e candidato più forte nella sfida alla leadership del segretario uscente. Il solo a non chiedere a Zingaretti di restare al suo posto, l'unico a distinguersi dai vari Franceschini, Boccia, Delrio, Orlando, Zanda e Ricci a nome dei sindaci. Secondo flash di giornata: Roberto Gualtieri fa sapere ai dem romani, che vanno a pregarlo di candidarsi sindaco, che ci sta pensando e tra qualche giorno scioglierà la riserva. Che cosa c'entra tutto ciò con le dimissioni di Zingaretti? Molto, tutto si tiene. L'accusa: vuole fare il sindaco Ma prima bisogna passare in rassegna i veleni che scorrono copiosi tra i dem un minuto dopo l'annuncio: «Lo ha fatto per candidarsi lui sindaco di Roma, e ciò darebbe un senso all'assurdo ingresso dei grillini nel Lazio», sospetta Matteo Orfini, il solo a fare opposizione nel Pd. Non si candida a niente, resta governatore, reagisce lo staff. E ancora: ora Andrea Orlando si farà eleggere reggente del partito e poi si candiderà lui, prevede un ex renziano. Non può, fa già il ministro, gli ribattono altri, preannunciando una possibile polemica. E ancora: Zingaretti ha avuto un crollo di nervi, nessuno sapeva di questa mossa, dicono alcuni. Sbagliato, i più vicini lo sapevano dall'altro ieri. Ed ecco che questo fatto si collega ai sospetti dei renziani di una mossa studiata: l'appello a ripensarci di tutti i big, da Franceschini a Orlando, a Bettini, la notizia di una chiamata alle armi dei militanti a favore del segretario (e infatti parte una petizione del pd Lazio con 500 firme raccolte in un'ora); il fatto che in Assemblea nazionale Zingaretti abbia una maggioranza schiacciante. Tutto fa pensare al peggio. "Così ci tappa la bocca" Infatti, il quadro che fanno i «nemici» del segretario è secco. «Mi pare una mossa per eludere una discussione sul fallimento della sua linea politica», sentenzia Orfini. Il mood di quelli che invece vorrebbero sul trono Stefano Bonaccini, è quello di chi sa che non otterrà neanche la vicesegreteria del partito. «Con una mossa alla Renzi, ci tappa la bocca», si sfogano gli ex renziani. Quelli che rientrano a vario titolo nella corrente di Lorenzo Guerini sono furiosi, perché sono sicuri che Zingaretti punti a farsi rieleggere a furor di popolo dall'assemblea nazionale (qualcuno dice addirittura per acclamazione e senza un voto), per poi strozzare il dissenso fino alle elezioni di Roma. La vera partita il voto a Roma Un voto che per Zingaretti sarà la linea Maginot tra la sopravvivenza e il baratro. E qui torna in ballo l'ex ministro del Tesoro. Il quale per vincere dovrebbe stringere un patto con i grillini, per farsi votare al secondo turno se la Raggi uscirà sconfitta. Ecco perché, il sospetto è che al governatore del Lazio serva silenziare le polemiche sulla sua linea di alleanza stretta con i 5 Stelle fino a ottobre, quando si voterà nei comuni. Anche gli amici "perplessi" Ma non sono solo i nemici di Zingaretti a storcere il naso, anche i suoi «amici» sono perplessi. Il termine «perplesso» usato da Enrico Letta è infatti condiviso da chi come Goffredo Bettini (insieme a Andrea Orlando) non condivide le dimissioni e ritiene che Zingaretti abbia tutte le carte per giocarsi la partita in un congresso. Dove si devono misurare due linee politiche, quella di un'alleanza con M5s e Conte e quella di un centro liberale con Renzi, Calenda e Forza Italia che resterà con Salvini... L'ideologo del partito si è collegato in call con altri della corrente di sinistra del partito, per organizzare il «ripensamento». Sperando che i giorni portino consiglio. E tacitando quelli che dietro le quinte biasimano la «fuga» del segretario. Lui, Zingaretti dice però di non volerne più sapere. «Ha lanciato l'idea del congresso in Direzione, lo hanno spernacchiato, volevano fare le primarie per scalzarlo e rischiavamo di restare fino a novembre con questo stillicidio, quindi per amore del partito ha mollato e non torna. Fine dei giochi», assicurano i suoi.

Laura Cesaretti per ilgiornale.it il 6 marzo 2021. «Ripensamento? Non c'è e non ci sarà». Nicola Zingaretti, formalizzando le proprie dimissioni con lettera alla presidenza del suo partito, ieri ha voluto fugare ogni dubbio: se ne vuole davvero andare dal Nazareno, non cerca la riconferma per acclamazione all'Assemblea nazionale del 13 marzo prossimo. Aprendo così la strada alla successione: segretario di transizione (come la franceschiniana Roberta Pinotti) o politico (come Andrea Orlando)? Man mano, tutti i dirigenti dem che erano stati presi completamente alla sprovvista dalla mossa del segretario, e che fino all'ultimo non ci avevano creduto, pensando chi a «una crisi di nervi passeggera» e chi a «un tentativo di evitare il processo alla sua linea spostando il dibattito su Zingaretti sì e Zingaretti no», si sono convinti: «Questo se ne va davvero». E se ne va lanciando un anatema contro i compagni di partito che «parlano solo di poltrone» e che imputano al segretario sconfitte condivise. «Ce l'ha con Bonaccini e i sindaci che lavoravano alla sua sostituzione contestandogli l'appiattimento su Conte e grillini, ma innanzitutto ce l'ha con i suoi», spiegano tra i dem. Ossia con chi non ha mosso un dito per sostenerlo, come Dario Franceschini, o con chi ha contribuito ad alzare la tensione interna mandando all'aria i suoi tentativi di mediazione con la minoranza, come Bettini e Orlando che si sono prodigati in interviste insultanti verso i «rigurgiti renziani» di orlandiana memoria. «A fargli saltare i nervi - spiega un esponente di Base riformista - sono state le parole di franceschiniani come Zanda, orlandiani come Misiani, mattarelliani come Castagnetti che spingevano per un congresso vero». «Mi sono dimesso per spingere il gruppo dirigente a un confronto più schietto, plurale ma senza ipocrisie, che ci permetta di affrontare le scelte che si dovranno fare», scrive Zingaretti. E prova anche a mettere una pezza a quella scelta che ha lasciato di stucco tutti, nel Pd, per la sua stravaganza: giovedì ha annunciato le sue dimissioni, via telefonata, a Giuseppe Conte. Non ai suoi compagni di partito, non al premier in carica Mario Draghi del cui governo è azionista, ma all'ex premier oggi in pista per sostituire Vito Crimi alla guida dei Cinque Stelle. «Una scelta allucinante, che ricorda quegli adepti americani della setta Qanon che ancora pensano che il vero presidente sia Trump», sbotta un parlamentare Pd. «Il governo Draghi è forte e andrà avanti», scrive ora il segretario uscente, come per tentare di fugare il dubbio che il suo sia stato un gesto polemico contro la nascita di un governo che ha subito da Matteo Renzi e da Sergio Mattarella. Molti però, nel Pd, sospettano che l'ormai ex segretario, da libero battitore, voglia incarnare in futuro un'anima frondista rispetto al nuovo esecutivo, pronta a denunciare gli «spostamenti a destra» dell'asse governativo. Ma questo è un problema di domani: oggi c'è da capire che fare, e come porre rimedio a una rottura che ha gettato nel caos il partito, che ora rischia grosso alle prossime amministrative. L'Assemblea nazionale, salvo slittamenti, resta fissata per il 13 marzo. E in quella sede bisognerà avere una soluzione pronta, per non lasciare acefalo il Pd. Nelle frenetiche consultazioni interne delle e tra le correnti si cerca un punto di caduta. Lo statuto parla chiaro, in caso di dimissioni irrevocabili bisogna eleggere un nuovo segretario. Che può essere di transizione, avviando contemporaneamente il congresso (che si terrebbe tra fine 2021 e inizio 2022) o a tempo pieno, e quindi destinato a restare in sella fino al 2023, quando si eleggerà il successore di Sergio Mattarella. La prima ipotesi è quella che metterebbe tutti d'accordo: il nome verrebbe scelto insieme ed eletto all'unanimità. La ex ministra della Difesa Pinotti potrebbe essere la carta migliore: donna, franceschiniana (ossia della corrente ago della bilancia), con uno standing «governativo» indiscusso. Nel frattempo si organizzerebbe per fine anno un congresso che potrebbe vedere contrapposti il riformista Bonaccini e il sinistrorso Orlando. Ma quest'ultimo scalpita per provarci subito, mantenendo la propria postazione di governo e contando sulla maggioranza zingarettiana.

Ma quale correntismo: Zingaretti lascia perché Renzi lo ha “asfaltato”…Le dimissioni di Zingaretti arrivano dopo la caduta del governo Conte che lui e il fidato Bettini hanno provato a salvare dalla mossa di Renzi. Francesco Damato su Il Dubbio sabato 6 marzo 2021. Il correntismo è una vecchia piaga dei partiti, anche di quelli a basso tasso democratico, diciamo così. Ce ne sono, di correnti, persino nel movimento grillino, dove si può essere espulsi dalla mattina alla sera, o dalla sera alla mattina, anche con o per uno starnuto. Ce ne furono a iosa, di correnti, anche nella Democrazia Cristiana, la famosa “balena bianca” che il compianto Giampaolo Pansa scrutava nei congressi col binocolo. C’erano correnti, sotto la superficie di una disciplina non comune, anche nel Pci. Non parliamo poi di quelle socialiste, che spuntavano come funghi ad ogni pioggia. C’erano correnti, ai tempi lontani della prima Repubblica, anche in partiti dell’1 o zero e rotti per cento dei voti. Eppure, diciamoci la verità, almeno fra noi meno giovani che ne abbiamo viste e scritte di tutti i colori, nessuno di quei partiti è davvero morto, o portato in camera di rianimazione, per le correnti che se ne contendevano il controllo. Tutti sono scomparsi, o si sono trasformati in altri, o hanno tentato di farlo dandosi nuovi nomi e nuovi simboli, per errori di linea e scelta politica. Che ancora si è soliti negare, o non ammettere, preferendo prendersela con concorrenti e avversari, spesso più interni che esterni. Temo, per lui, che ciò sia accaduto o stia accadendo anche al buon Nicola Zingaretti, improvvisamente dimessosi da segretario del Pd dicendo addirittura di “vergognarsi” delle correnti dalle quali si è sentito almeno ultimamente assediato, ma molto ultimamente: diciamo dalla formazione del governo di Mario Draghi in poi, quando si è sentito chiedere anche un congresso anticipato. Al quale sembrava, ad un certo punto, ch’egli fosse pure disponibile, consigliato anche in questo dal compagno ed amico Goffredo Bettini, salvo ripensarci e ricordare le scadenze statutarie di primarie e simili nel 2023. Dio mio, come poteva Zingaretti pensare, pur con tutta la eccezionalità, anzi l’emergenza sanitaria, sociale ed economica della pandemia, che la sua segreteria potesse uscire indenne da una crisi di governo così lunga e così difficilmente gestita, a dir poco? Una crisi che doveva pur essere messa nel conto nel momento in cui anche lui, e non solo il “reprobo” Matteo Renzi, pose a Giuseppe Conte che sembrava ancora ben saldo a Palazzo Chigi, protetto dai sondaggi o dalla popolarità, il problema di un “cambio di passo”. Eppure bastò che quella crisi si scorgesse all’orizzonte perché il segretario del Pd frenasse di botto e lasciasse proseguire da solo Renzi. Che, dal canto suo, si era ormai spinto tanto avanti da non potersi o non volersi fermare. Le rottamazioni, si sa, sono per Renzi una tentazione irresistibile, forse ereditata dalla sua esperienza di boy scout, anche se quei ragazzi in divisa allestiscono tende prima di smontarle o abbatterle. Quel motto o grido, a verifica ormai iniziata ma complicatasi sempre di più per strada, di “Conte o elezioni”, o “Conte o morte”, lanciato da Goffredo Bettini e raccolto da Zingaretti, aveva l’inconveniente, fra gli altri, di una mancata verifica degli umori veri al Quirinale: non quelli attribuiti dai giornali. Sinceramente, non credo – al contrario di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, che è tornato ieri a scriverne – che Sergio Mattarella abbia cambiato parere all’ultimo momento dicendo e motivando il suo no allo scioglimento anticipato delle Camere e conseguenti elezioni in piena pandemia. Più semplicemente, e giustamente, il presidente della Repubblica ha trovato nelle emergenze prodotte dalla pandemia una ragione in più per non assecondare il tentativo avviato tra Palazzo Chigi e il Nazareno di andare avanti, una volta fallita l’operazione di aggancio di “volenterosi”, “responsabili” e quant’altro, con un governo Conte minoritario. Travaglio pensa ancora che la paura delle elezioni avrebbe portato nell’anticamera dell’allora presidente del Consiglio una folla di donatori di sangue, ma resta il fatto che la conta voluta così ostinatamente dallo stesso Conte al Senato, e permessagli da Mattarella, portò al risultato di una fiducia minoritaria. Che è un ossimoro, lo so, ma anche la realtà derivata dal combinato disposto dei numeri e dei regolamenti parlamentari. Del resto già un altro segretario del Pd, Pier Luigi Bersani nel 2013, entrò in rotta di collisione col Quirinale, dove “regnava” Giorgio Napolitano, per il tentativo di fare un governo dichiaratamente “di minoranza e combattimento” scommettendo sull’aiuto che lungo la strada, una volta partito il convoglio ministeriale, avrebbero dovuto concedergli i grillini. Che pure lo avevano sbeffeggiato in streeming incontrandolo a Montecitorio come presidente neppure incaricato, ma solo “pre-incaricato”, come ad un certo punto Napolitano fu costretto a ricordare a Bersani. Al quale pertanto tolse praticamente il mandato, o glielo congelò per il tempo necessario, e perduto, alla ricerca di un nuovo presidente della Repubblica. Perduto, perché si sa che Bersani fallì anche in quel tentativo col naufragio delle candidature prima del povero Franco Marini e poi di Romano Prodi.

DAGOREPORT il 5 marzo 2021. La notte del 3 marzo di Goffredo Bettini è stato molto agitata: il sondaggio Swg che fa sprofondare il Pd al 14% mentre i 5stelle con la leadership di Conte guadagnano 6 punti e toccano il 22%, aveva travolto la linea Zinga-Bettini (“Conte punto di riferimento del fronte progressista”). Nelle ore a seguire giornali e opinionisti e talk avevano elencato sadicamente le cazzate di Zinga teleguidato da Bettini: nel 2018 punta al voto con Salvini e invece Mattarella non scioglie le Camere. Non vorrebbe il Conte bis ma prende atto che Renzi ha ragione e si può fare soltanto un governo giallo-rosso. Ancora più disastrosa la gestione della crisi del Conte 2. Zingaretti esordisce con “Conte o elezioni” e arriva Mario Draghi. Prova a chiudere la porta alla Lega, rilanciando l’alleanza con Cinque stelle e Leu ma Salvini entra al governo. Inquieta Goffredo anche il fatto che Base Riformista di Marcucci e Guerini con la sinistra di Matteo Orfini si era accordata con Andrea Orlando per mettere come vice segretaria, l’ex renziana Alessia Morani, mentre Zinga puntava alla sodale D’Elia. A questo punto, ieri mattina il guru Goffredo ha chiamato il povero Nicolino: se continui così, l’assemblea dem, prevista il 13 e il 14 marzo, si trasformerà in una carneficina, avrai tutti contro, un tiro al bersaglio, da Marcucci a Zanda, da Delrio a Orfini, sindaci e governatori compresi. Dimettiti subito, così previeni le loro mosse, e li spiazzi. Il 13 e il 14 marzo, ha continuato Bettini, puoi contare ancora sulla maggioranza del partito (Franceschini, Orlando e zingarettiani): l’Assemblea nazionale, dove tu non ti presenterai, ti deve confermare per acclamazione: Nicola resta! Ci presenteremo così al Congresso con maggior forza e nessuno ti potrà più contestare l’alleanza con i 5Stelle alle amministrative di ottobre. Una mossa intelligente, quella di Bettini, che ha spiazzato tutti, non solo i Guerini e i Marcucci. Tant’è che è seguita una telefonata di Goffredo con Beppe Grillo per rassicurarlo: nel post di Zingaretti manca una parola, fondamentale quando uno annuncia le dimissioni: “irrevocabili”. Mentre lo “statista” (per mancanza di prove) Giuseppe Conte ieri sera ha parlato a lungo con Zinga mentre consegnava alle agenzie il suo dolore: “Sono dispiaciuto per questa decisione, evidentemente sofferta. Ho conosciuto e apprezzato un leader solido e leale, che è riuscito a condividere, anche nei passaggi più critici, la visione del bene superiore della collettività”. Perché la permanenza di Zinga alla segretaria del Pd è fondamentale per la partita che Grillo e Conte stanno giocando: resettare il movimento per trasformarlo in un partito. L'ex comico se ne sbatte di Casaleggio e ribelli, quello che perde nei sondaggi lo guadagna con Conte, quindi vuole andare fino in fondo: “Conte ha preso un impegno che intende onorare. Gli è stato chiesto di scrivere insieme un progetto per il futuro del Movimento”.

Le dimissioni del segretario dem. Dietro l’addio di Zingaretti i diktat di Franceschini e Bettini: “Sosteniamo Raggi e Fico con i 5Stelle”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Marzo 2021. “Zingaretti apre una mano di poker, spariglia”. “Vuole la riconferma per essere più forte”. “Lascia davvero, non è più motivato”. Il ventaglio delle reazioni, delle letture, delle analisi a caldo tra i maggiorenti Dem indica che la confusione regna sovrana sotto il cielo del Nazareno. È da Facebook che i dirigenti apprendono la decisione, vergata con parole irrituali. «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni», scrive Zingaretti. «Abbiamo salvato il Pd e ora ce l’ho messa tutta per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova. Ho chiesto franchezza, collaborazione e solidarietà per fare subito un congresso politico sull’Italia, le nostre idee, la nostra visione. Dovremmo discutere di come sostenere il Governo Draghi, una sfida positiva che la buona politica deve cogliere. Non è bastato. Anzi, mi ha colpito invece il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni. Ma il Pd non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa di una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd. Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione». Parole come pietre, soprattutto se lette in controluce. E che terminano con un sintomatico commiato: «A tutte e tutti, militanti, iscritti ed elettori un immenso abbraccio e grazie». Una chiamata di sipario che non autorizza a indugiare troppo sui tatticismi, sulla chiamata alla conta o su rapidi ripensamenti. Il coordinatore dei sindaci Pd, Matteo Ricci, oggi il più vicino a Zingaretti in segreteria, la vede così: «È uno sfogo condivisibile, ma Nicola deve rimanere. Perché oltre Zingaretti c’è solo il caos. Se conferma le dimissioni non c’è la possibilità di fare un congresso nell’immediato, né le primarie. Non sarebbe neanche facile gestire una reggenza, e il Pd ne uscirebbe indebolito, creando problemi al governo Draghi», dice al Riformista. «Si apre uno scenario che non voglio neanche immaginare. L’assemblea deve respingere le dimissioni e dare un mandato forte al segretario». Come si sostanzierebbe? «Con un voto che dà sostegno incondizionato a Zingaretti, proponendo secondo me un congresso tematico, con lo scopo di discutere la missione che noi dobbiamo avere nel governo Draghi. Uscendo dai personalismi e dalle dinamiche di logoramento continuo cui stiamo assistendo». Concetto che torna: «L’assemblea del Pd respinga le dimissioni del segretario. Ci ripensino anche quelli che, in queste ore, hanno logorato il Pd. Siamo in gran tempesta, serve un nocchiero e un equipaggio», dice l’ex ministro per il Sud, Peppe Provenzano. Zingaretti «ha accusato il colpo di un logoramento in atto da mesi, parallelo a quello subìto dal governo Conte», ricalca Stefano Di Traglia, uno che a lungo ha guidato la comunicazione Pd e conosce meccanismi e ingranaggi del quinto piano. Un parlamentare di lungo corso ci confida quel che ipotizza: «Franceschini ha un’ambizione, punta molto in alto e Bettini lo spalleggia: insieme hanno detto a Zingaretti che su Roma va sostenuta la Raggi e a Napoli, Fico. I Cinque Stelle in cambio daranno per il dopo-Mattarella una indicazione di continuità in seno all’anima cattolica Dem». A questo disegno, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, Zingaretti si sarebbe opposto. E in effetti nel J’Accuse del segretario il dito è puntato contro chi ha in testa “solo poltrone e primarie”. Avrebbe rotto l’accerchiamento, insofferente alla “guerriglia quotidiana”. «Perché gli hanno fatto capire che Gualtieri non doveva correre, avrebbe rotto l’accordo con il Movimento, e Nicola non poteva rinunciare a una candidatura in cui crede». Non a caso due ore dopo l’annuncio è proprio Gualtieri a farsi vivo, dando in pasto alle agenzie un diario di campagna elettorale in corso: «Questa mattina, prima del passo indietro del numero uno, Gualtieri ha incontrato il segretario Pd del Lazio, Bruno Astorre, e quello capitolino, Andrea Casu, e ha espresso un indirizzo positivo rispetto a una sua possibile candidatura a sindaco di Roma». Pianta non una bandiera ma un ceppo miliare, Gualtieri: ormai il Rubicone è varcato, io ci sono. E può dirgli di no solo l’assemblea nazionale Pd del 13 e 14, a questo punto un autentico congresso anticipato. «L’Assemblea o elegge il segretario, o indice le primarie. Era una assemblea già convocata da giorni», dettaglia l’on. Claudio Mancini. «O l’assemblea accetta le dimissioni, o le respinge», precisa meglio. «Se le accoglie, l’assemblea può eleggere seduta stante il nuovo segretario, come fu per Epifani al posto di Bersani e per Martina dopo Renzi». Le primarie dovrebbero tenersi subito, e le condizioni – con il Covid che avanza più che mai – sono proibitive. Dunque ipotesi reggenza fino a fine pandemia, poi primarie. E per l’eventuale reggenza sarà Zingaretti, già kingmaker dell’assemblea attuale, a dare le carte. «Potrebbe pensare a una donna», ci dice un parlamentare di Base Riformista. Per loro parla il silenzio. Si precipitano invece i pompieri: «Occorre chiedere a Zingaretti unitariamente di ripensare la sua decisione. Il Pd in un momento così difficile ha bisogno di un riferimento affidabile per affrontare le sfide della fase che abbiamo di fronte», dice il vice segretario e ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Il senatore Luigi Zanda: «Conoscevo e comprendo le sue amarezze. Ma credo che l’Assemblea del partito debba respingere all’unanimità le sue dimissioni». E l’immancabile Goffredo Bettini: «La decisione di Nicola mi addolora. Ne comprendo le ragioni. Spero ci sia lo spazio per un ripensamento». Mentre si fa sera tutto il dibattito interno si attesta su quella parola magica: ripensamento. Perché se Zingaretti fa sul serio e conferma le sue dimissioni, non c’è unanimità che tenga. La dinamica stessa delle dimissioni parla di uno scoramento profondo, inattutibile e esiziale: i dirigenti dem che erano con lui alle 15, riuniti sul voto amministrativo, non avevano percepito “alcun minimo accenno alle dimissioni” giunte alle 16,30. Lo hanno appreso improvvisamente, “rimanendone scioccati”. Adesso ci sono otto giorni per far cambiare idea a Zingaretti e assicurarlo che non c’è alcuna congiura prima dell’assise romana che si terrà, ironia della sorte, alle Idi di marzo.

L'ex segretario accusa il partito di poltronismo. Il Pd era morto prima delle dimissioni di Zingaretti, ora la sinistra può rinascere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Nicola Zingaretti ha scritto in una lettera al suo partito i motivi per il quali ha deciso di dimettersi dalla segreteria. Ha spiegato di essere indignato per un Pd che mentre il Covid avanza si occupa solo di poltrone. Non è detto che questa sia la ragione vera dall’abbandono. Probabilmente nella sua decisione hanno pesato le conseguenze di alcuni sondaggi che danno il Pd in crollo verticale di consensi, travolto dalla propria strategia suicida, e cioè dalla decisione di sottomettersi ai 5 Stelle. Da più di un anno la segreteria Zingaretti segue questa strategia. Il Covid e le poltrone, a occhio, c’entrano poco. Il Covid picchia duro dall’inizio del 2020, non è un problema di questi giorni. E in tutto questo tempo il Pd è rimasto accodato al partito dei 5 Stelle e di Giuseppe Conte, sebbene l’uno e l’altro dimostrassero assoluta incapacità politica e di governo. Il Pd in questi mesi ha compiuto una scelta molto netta, chiara. Ha detto: restiamo al governo a qualsiasi costo. Non molliamo. Non ci impuntiamo su una idea o su una linea politica. La linea la traccia Beppe Grillo purché ci lasci i ministeri. Beh, chi l’ha guidato il partito su queste posizioni? Difficile negare le responsabilità di Nicola Zingaretti. Il Pd era morto da un pezzo. Molto prima delle dimissioni di ieri. Non aveva idee, non aveva gruppo dirigente, era scivolato a rimorchio di una forza qualunquista e sostanzialmente reazionaria. La decisione coraggiosa di Zingaretti di dimettersi adesso è la scossa che dà il via al terremoto. La sinistra si trova davanti allo specchio, con tutti gli orrori che gli ultimi hanno stampato sulla sua pelle. Non ha una leadership, non ha una idea, un progetto, ha sgretolato i suoi valori essenziali, non ha più neppure un partito. Deve ricostruire tutto. Dalle fondamenta. Può essere la fine della sinistra, oppure può essere l’inizio di una sinistra moderna. Che decide di essere riformista davvero, liberale e socialista, libertaria, garantista, cioè quello che non è mai stata. Provo a immaginare una sinistra che decide di mantenere al suo interno il meglio delle idee e dei valori e delle tradizioni dei partiti che l’hanno originata (il vecchio Pci, la vecchia Dc, il vecchio Psi) ma di andare oltre, di ritrovare una sua identità in questo secolo. Il Pd e i vari partiti che l’hanno preceduto dopo che la magistratura aveva raso al suolo la Prima Repubblica e la sua forza democratica, non sono mai riusciti a fare i conti con questo secolo. Si sono sempre acquattati su posizioni subalterne. Alla magistratura, o alle suggestioni della destra, o addirittura, in questi ultimi anni, al qualunquismo dei 5 Stelle. Forse adesso c’è l’occasione per rialzarsi, ricominciare. Rinunciare alla frasi fatte, agli slogan, all’ideologia scadente, e ricostruire un proprio patrimonio di idee, moderno e riformista. Zingaretti è stato l’ultimo segretario novecentesco. La sinistra troverà la forza per cambiare? L’Italia ne ha molto bisogno. Senza sinistra la modernità diventa appassita e triste.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 5 marzo 2021. Il primo gesto da segretario che ha fatto è stato dimettersi da segretario. Nicola Zingaretti le ha sbagliate tutte finora. Quando Salvini ha fatto cadere il governo gialloverde, lui voleva le elezioni anticipate. C' erano i margini politici per andare alle urne, ma l' uomo diventato leader dei dem in virtù della propria debolezza è stato beffato da Renzi e contraddetto dal suo stesso partito. Quando poi è stato Renzi a far cadere Conte, il voto non era un' ipotesi percorribile, poiché non la voleva il vero capo del Pd, Mattarella. Eppure Nicola non lo capì e lanciò l'ultimatum: o Giuseppe o elezioni. Anche stavolta è stato sconfitto dal leader fiorentino e dai maggiorenti del partito, che hanno preferito spartirsi le poltrone del nuovo governo. Il povero segretario non ha avuto neppure la forza di imporre un ministro donna. Incurante di aver speso il suo mandato a blaterare di parità di genere, si è dovuto inchinare alle bramosie dei tre capi-corrente, Franceschini, Orlando e Guerini, che reclamavano il posto anche a costo di far fare una figuraccia a tutti. Dopo essersi appoltronati, i tre amigos che reggono il giochino delle tessere erano subito partiti con il tiro al piccione. Obiettivo: Nicola. Strategia: due anni di guerriglia per arrivare al congresso, prima delle Politiche, con il segretario logorato. Metodo: utilizzare Zingaretti per il suo intero mandato come sgabello di governo, non certo architrave, e agnello sacrificale da immolare all' alleanza con M5S ma nel frattempo organizzarsi per liquidarlo senza consentirgli di scegliersi le truppe. Sintesi: il fratello di Montalbano avrebbe concluso la propria esperienza senza prendere una sola decisione, non già capo bensì caprone espiatorio. Ieri c' è stato il colpo di scena. Se fossero dimissioni vere, dovremmo riconoscere a Zingaretti di aver fatto un gesto di grande dignità. Vorrebbe dire che l' uomo ha preso atto che per oltre due anni è stato un segretario di nome ma non di fatto e ha scelto di far coincidere la forma con la sostanza, andandosene. Il sospetto però è che non sia così e che Nicola, ancora una volta, sia stato vittima di Goffredo Bettini, seguendone gli infausti consigli. È fondata l' ipotesi che il segretario stia provando a bruciare tutti sul tempo e abbia annunciato, con formula non chiarissima, dimissioni con l' elastico, alla Nanni Moretti: vado via perché spero di farvi paura, che non siate pronti alla mia dipartita e in qualche modo alla fine io possa rimanere dove sto. Lo pensava anche Occhetto, nel 1994, che sta all' attuale segretario come Hegel a Paperino. L' Achille si ritirò confidando in una levata di scudi per farlo restare che però non ci fu. Vatti a fidare degli ex comunisti... A favore di Zingaretti però c' è che il partito non è più quello di quasi trent' anni fa. I migliori se ne sono andati, ultimo Minniti, la cui rinuncia alla corsa per la segreteria a vantaggio del presidente della Regione Lazio è stata una coltellata mortale per il Pd. Le dimissioni di Nicola impongono ai dem di fare al più presto il congresso, al quale il segretario uscente potrebbe presentarsi da rientrante, costringendo chi lo ha messo nel mirino a scendere in campo e sfidarlo. Ed è proprio sulla pochezza, umana, politica e di consenso dei suo avversari interni, che gioca Zingaretti. Orlando, il più forte nel partito, prese il 28% quando si candidò alle primarie contro un Renzi massacrato dal referendum perso nel 2016. Franceschini è un gigante nel Palazzo ma un nano sul territorio. Guerini è il più bravo, ma resta pur sempre l' ex sindaco di Lodi portato agli altari dall'odiatissimo rottamatore. Insomma, se l'attuale segretario è poco, gli altri sono ancora meno. La sua uscita di scena ricorda la moglie che lascia il marito nella speranza che questo le si butti ai piedi chiedendo perdono. Comunque andrà, l' insuccesso è garantito. Le leadership non nascono sotto i cavoli e neppure dall' oggi al domani. Dopo il regno muscolare di Renzi, il gelatinoso Zingaretti era stato scelto per ricucire le ferite del partito e traghettarlo verso l' avvenire, ma la sua ansia ecumenica lo ha reso incapace di imprimere una qualsiasi direzione. I dem hanno tenuto nei sondaggi solo grazie al disfacimento di M5S, ma è bastato che Grillo tornasse a dedicarsi alla pratica un fine settimana, insediando Conte alla guida del Movimento, perché il Pd scivolasse sotto il 15%. D' altronde non si era mai visto un leader che non solo porta l' acqua con le orecchie ai suoi colonnelli ma si immola anche per sostenere gli uomini altrui, come ha fatto Zingaretti con l' avvocato pugliese. L' inconsolabile vedovo di Conte, sposo di Salvini contro la propria volontà, ha finito per ingaggiare battaglie con il nemico dopo aver perso la guerra. I veti posti alla Lega sulle poltrone di governo sono stati inascoltati da Draghi, premier che un vero segretario dem si sarebbe intestato anziché farselo imporre.

DAGONEWS il 6 marzo 2021. Ma-Zinga, il giorno dopo: più depresso che pria. A far saltare i nervi al fratello di Montalbano, le dichiarazioni di quel fedifrago di Dario Franceschini, a capo della corrente che l’ha sostenuto fino a ieri alla segreteria. “Non c'è tempo da perdere”, ha trillato Su-Dario e subito ha lanciato i nomi di chi potrebbe prendere in mano la segreteria del partito fino al Congresso (che si terrebbe tra fine 2021 e inizio 2022): Roberta Pinotti e Piero Fassino, ambedue fanno parte della componente di Area dem, che fa capo al ministro della Cultura. A seguire, Nicolino non ha gradito le fredde dichiarazioni degli ex enziani: il governatore Bonaccini e il sindaco Nardella di Base Riformista e i sindaci che facevano eco alle parole di Lorenzo Guerini: “Dobbiamo salvare il Pd ed evitare i contraccolpi che queste dimissioni potrebbero provocare”. Lasciamo perdere, poi, l’anonimo siluro partito dal corpaccione del Pd: "Zingaretti ha avvisato prima conte di noi. una scelta allucinante, che ricorda quegli adepti americani della setta Qanon". Per non parlare dell’intervista di Luigi Zanda oggi su “La Stampa. Non sapendo più dove sbattere il capoccione, lo schiavo di Bettini si è confidato oggi con gli amici: ritorno al Nazareno se all'Assemblea nazionale (è prevista per il 13 e 14 marzo) riceverò la richiesta di restare dal 90 per cento. Poi ha aggiunto: devono però accettare un mio documento politico sulla linea che deve avere il Partito Democratico. Quindi il poverino si è lanciato in difesa del suo guru Bettini: Goffredo mi ha dato una grossa mano. E ha rivelato che all'Assemblea nazionale Bettini presenterà un documento sulla linea politica di alleanza con i 5stelle.

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 5 marzo 2021. Ha tirato avanti finché ha potuto, ha cambiato politica, ha rigirato le alleanze come un calzino, e alla fine i nervi sono saltati. Ma chi me lo fa fare, io mi dimetto. Motivo superficiale? La questione non secondaria delle poltrone, strapuntini, ressa da apericena senza maschera pur di arraffare qualcosa. E fin qui siamo in politica politicante, di bassissimo livello ma quella è. Poi c' è la ragione vera, genetica. Nicola Zingaretti è un plebeo in un club, quello della sinistra post-comunista, con la puzza sotto il naso. Groucho Marx, che era un comico raffinato, diceva che non avrebbe mai voluto far parte di un club che accettasse gente come lui. Lui invece pensava di poter stare fra i velluti e i drappeggi di un preteso salotto buono, con un diploma da odontotecnico. Ma andiamo. Lo avevano anche pregato, per cortesia, fallo per il partito anche se dovresti capirlo da solo, di andare alla Facoltà di Lettere, dove fra l' altro sono tutti compagni, e prenderti un accidente di laurea magari in storia del teatro azteco. Lui andò, fece di malavoglia tre esami diradati e mollò. Pensate che quando fu la volta di Massimo D'Alema che risultava non laureato, si fece però un bel po' campagna sul fatto che almeno il giovane resistente era andato alla scuola Normale di Pisa per fare qualche esame e lasciare un buon ricordo. Ma odontotecnico! E poi: con quel fratello. Il fratello di Nicola Zingaretti è Luca, il notissimo attore che incarna il commissario Montalbano. E Luca è più popolare di Nicola. Succede. Effetto tv, ma è anche bravo. Luca. Nicola, invece. Insomma. Ieri ha gettato la spugna quando ha visto che non aveva più scampo, non ce la faceva più. E non solo per l' avidità umana dei politici del Pd che sono ormai dei veri piranha quando si tratta di arraffare un posto. Ma per il doppio salto della quaglia, guidato dall' anima nera, o rosso-giallo. Dell' operazione, ovvero Goffredo Bettini, l' uomo sopraffino che la sa lunga ma che ha mandato il camion a sbattere. Ricordiamo che il povero Zingaretti Nicola si era spinto a fare quella dichiarazione urlata che potete rintracciare su Internet, in cui scandiva in modo ossessivo che lui mai e poi mai e poi ancora mai, avrebbe fatto in vita sua un governo con i Cinque stelle. La fine è nota. Quando l' alleanza con la Lega cadde e Conte cambiò cappello presentandosi alle Camere come un primo ministro di estrema sinistra dopo essere stato quello di destra, il furbo Zinga aveva sostituito Salvini con sé stesso, ovvero il Pd. Il pubblico, cioè l'elettorato letto nei sondaggi, era rimasto pietrificato. Ma non avevi detto? Sì, l' ho detto e lo ripeto, anzi lo nego, la vita è bella perché è varia. Buuu... Fischi dalle prime file fino alle ultime. L' elettorato non ha gradito, ma la dirigenza sì perché era arrivata finalmente l' ora della torta, anche senza candeline purché ne tocchi una fetta a testa. Poi, ecco che Matteo Renzi pianta una grana che anzi era una bomba ad orologeria ben confezionata: fa marameo a Conte, ritira le ministre, ripiega il sottosegretario e fa prima traballare e poi cadere il governo, sicché Conte viene pregato, fra squilli di trombe e trombette di tornare da dov' era venuto. A quel punto il povero Zinga, vero pesce di terraferma si è trovato in braghe di tela con questo freddo e con questo virus. Aveva puntato come un matto sul Conte tre e si ritrova invece col castigamatti Draghi che chiama gli alpini e fa comandante supremo senza esporsi troppo alle telecamere. Il povero Zingaretti a questo punto non ha più un mazzo di carte per distribuire premi e prebende e neanche per promettere qualcosa. Il Pd sembrava l' ambasciata americana a Saigon quando tutti stavano sul terrazzo cercando di saltare sull' elicottero della salvezza. Ma l' elicottero era pieno e l' odontotecnico vedeva che la prospettiva della salvezza si allontanava come il velivolo della sconfitta. Era assediato. Il partito non lo rispettava, lo trattava come un fattorino: due poltrone da ministro al tavolo sette e un sottosegretariato al signore là in fondo. Urlava, cercava di farli ragionare, i tempi sono cambiati, è arrivata l' ora degli alpini dopo quella degli avvocati del popolo, che volete da me? Il suo atteggiamento e persino la sua forma umana così romana, rotonda, i suoi ragionamenti e dichiarazioni così banali, prevedibili, innocui, i suoi termini elastici, tutto diventava giorno dopo giorno materiale d' accusa, o almeno di pretesa. Era un po' che lo diceva, da due settimane, scocciatissimo: non c' è neanche un briciolo di rispetto per il segretario del partito, mi hanno preso per un' agenzia di collocamento. Le voci, i famosi boatos di cui il Pd vive da anni, dicevano che non poteva fare il segretario per tutte le stagioni, che non ne aveva azzeccata una e che adesso aveva il dovere quanto meno di mettere al sicuro i compagni più deboli, chi se ne frega delle donne e delle quote rosa, i posti li deve trovare perché questo è un governo di logoramento che se arriverà al 2023 ci lascerà senza una goccia di sangue nelle vene. È cominciata a circolare la lista delle colpe per la messa al rogo: troppe capriole nelle alleanze senza un corrispettivo vantaggio per i singoli capibastone. Troppa genericità nel dare una linea al partito e mancanza strutturale di cultura ideologica - di nuovo l' accusa di essere «soltanto» un odontotecnico - fino a polverizzare l' identità del partito clonato in fretta e furia sul modello Cinque stelle. È stato così che il fratello grigio del fratello smagliante ha capito che per lui non c' era più scampo: autorevolezza, zero. Autorità, sottozero. Capacità contrattuale annichilita dall' arrivo di berlusconiani e leghisti. Un labirinto di cui qualcuno ha murato la porta d' uscita. Quando l' ultimo dei suoi peones è venuto a dirgli che lui come compagno che si era tanto sacrificato si aspettava una ricompensa all' altezza del sacrificio, ha avuto come uno scatto isterico, ha sbattuto il pungo sul tavolo, ha urlato basta e ha giocato l' ultima carta che aveva in mano prima che anche quella si trasformasse in fango: mi dimetto e ve la sbrigate da soli, partito antropofago addio, non avrai le mie ossa.

Federico Geremicca per “la Stampa” il 5 marzo 2021. Se Nicola Zingaretti dovesse confermare le dimissioni clamorosamente annunciate ieri, ci troveremmo di fronte alla resa del settimo segretario democratico in appena quattordici anni. Non solo. Dei suoi sei predecessori, infatti, soltanto uno - Dario Franceschini - milita ancora nel Pd. Gli altri, o se ne sono andati fondando nuovi partiti (Bersani, Epifani e Renzi) oppure hanno preferito dedicarsi ad altro (Veltroni e Martina). Sommando i due dati, appare evidente come l' ora della verità - per il Pd - sia ormai vicina: e come le dimissioni di Zingaretti dovrebbero dare il via a riflessioni capaci di andare ben oltre la pur complicata contingenza. Diciamo la verità: non è stato un bel modo di lasciare, quello del segretario. E non tanto per la rivendicazione di meriti e successi sui quali si potrebbe ragionare a lungo. A colpire, infatti, sono state soprattutto le parole pesantissime utilizzate per descrivere il partito che tutt' ora dirige: un collettivo del quale vergognarsi, composto da persone sleali e irresponsabili, che litigano e parlano solo di poltrone. Giudizi inappellabili, con i quali Zingaretti sembra bruciarsi tutti i ponti alle spalle, in barba alle voci maliziose che descrivono la sua mossa come un tentativo di riacclamazione. Ma perché il segretario ha deciso così all' improvviso di gettare la spugna? C' entrano, naturalmente - come c' entrano però sempre - le polemiche interne, le battaglie tra correnti e le inevitabili guerre di potere. Ma sarebbe sbagliato non vedere come nell' ultimo paio di mesi la posizione di Zingaretti di fronte a quegli attacchi si fosse ulteriormente indebolita. Potremmo definirlo un effetto dell' onda lunga della caduta del Conte 2: e non è infatti casuale che la crisi stia travolgendo proprio i partiti della vecchia maggioranza, a tutto vantaggio del centrodestra, che per il momento appare assai più a suo agio di fronte alle prime mosse di Mario Draghi. È senz' altro vero, naturalmente, che le condizioni in cui versava il Pd quando scelse Zingaretti come segretario, erano drammatiche: minimo storico al 18%, un partito stravolto dal renzismo, l'« ala sinistra» uscita rumorosamente dal partito. Ma è sensato affermare che oggi siano migliori? La slavina che, elezione dopo elezione, ha travolto negli ultimi due anni le regioni a guida centrosinistra è certificata dai numeri. Mentre a certificare l'astratezza della svolta impressa da Zingaretti - intendiamo il "patto strategico" con i Cinquestelle e il ruolo di Giuseppe Conte - ci sono invece gli eventi politici delle ultime settimane: l'avvitamento del movimento grillino e la scoperta che una discesa in campo dell' ex premier ridurrebbe il Pd ad un partito di centro classifica, diciamo così. In più, appare sempre più arduo presentare la nascita del governo Draghi come un successo per il Pd. Nell' esecutivo, infatti, il suo peso è drasticamente ridotto, se solo si pensa che i tre ministeri strategici che occupava in fase di pandemia (Economia, Infrastrutture e rapporto con le Regioni) sono stati assegnati a tecnici o addirittura a esponenti di Forza Italia. Inoltre, il peso politico che esercita sull' esecutivo è praticamente nullo: e se a questo si aggiunge la caduta di uomini-simbolo della maggioranza giallorossa (da Arcuri a Borrelli) è chiaro come il quadro, per il Pd, non sia precisamente esaltante. Quello che Zingaretti lascia, insomma, è un partito in cattiva salute e, soprattutto, senza più una bussola. Aver abbandonato per strada alcune delle scelte originarie (dalla vocazione maggioritaria al bipolarismo) a vantaggio di opzioni o tristemente note (un sistema elettorale proporzionale) o del tutto inedite (il patto con i Cinquestelle e il ruolo di leadership da assegnare a Conte), ha alimentato la confusione. Anche per questo la resistenza a discutere in un Congresso la rotta da tracciare, appare incomprensibile. Vedremo le prossime mosse di Zingaretti e la strada che sarà imboccata. Occorre fare in fretta. E discutere davvero, per evitare che sia la storia a confermare quel che disse Massimo D' Alema appena un anno dopo la nascita del Pd: «È un amalgama mal riuscito» . Giudizio, fino ad ora, difficile da contestare.

Pd, la maledizione del segretario colpisce ancora: Zingaretti è l’ultimo. Ecco tutti i dimissionari dem. Bianca Conte venerdì 5 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Pd, la maledizione del segretario colpisce ancora: Zingaretti dimissionario è solo l’ultimo. Da Veltroni a Renzi, passando per Bersani, infatti, l’album di famiglia dem, è ricco di illustri precedenti. Ma tant’è. E per Zingaretti il dado è tratto. Niente dietrofront, dichiara e ribadisce ancora nelle ultime ore il presidente di Regione. Sono un «passo di lato» ma, sottolinea l’ex segretario Pd, «non scompaio». Il numero uno del Nazareno ha inviato formalmente oggi pomeriggio la lettera di dimissioni da segretario nazionale del Partito Democratico alla Presidente del partito Valentina Cuppi cui, da oggi, spetterà la gestione ordinaria del Partito fino all’Assemblea nazionale del 13 e 14 marzo. «Ho ricevuto da pochi minuti la lettera di dimissioni del segretario Nicola Zingaretti. Questa è stata una decisione assolutamente sofferta ma di grande generosità e responsabilità verso il Paese – ha commentato la Cuppi – perché Nicola, ancora una volta, ha scelto di lavorare per la propria comunità. E fare un gesto che richiamasse alla responsabilità tutto il Pd, ha detto quindi la presidente dell’assemblea nazionale del partito. Così, tra sostenitori e detrattori, il capitolo sembra chiuso. Tutto è rinviato al 13 e 14 marzo, dove secondo alcuni retroscenisti, se le sorti dell’ex segretario potrebbero essere rimesse in discussione. Anche se, da parte sua, Zingaretti nega questa eventualità, asserendo con fermezza: «Un mio ripensamento non c’è e non ci sarà». Congedandosi poi con un laconico: «Ora ci sarà assemblea e qualunque scelta si farà la rispetterò. È indubbio che si era maturata l’idea che il problema potessi essere io. Ora l’ho tolto a tutti»… Stando così le cose, dunque, anche Nicola Zingaretti si avvia sul viale del tramonto: quello ombreggiato non da palme hollywoodiane, ma da ulivi di veltroniana memoria. Un percorso, quello delle dimissioni dalla segreteria del partito, già battuto da illustri precedenti. A partire proprio da Walter Veltroni, il primo a inaugurare la lunga scia di addii precoci nel 2009. Le dimissioni dell’ex sindaco di Roma arrivarono dopo la sconfitta alle regionali in Sardegna. E con un atto di accusa durissimo nei confronti delle correnti. Da allora si è capito che quello di segretario del Pd è un mestiere difficile, che non sempre contempla l’esaurimento del mandato. Anzi… Tanto che, nel corso della storia del partito, la “sorte” del primo leader è toccata anche a tutti gli altri. Tutti dimissionari fino a Nicola Zingaretti.

Da Veltroni a Renzi, passando per Bersani. Tornando indietro nel tempo, allora, ha lasciato anzitempo l’ufficio del Nazareno anche Pier Luigi Bersani Esattamente nel 2013: dopo il drammatico epilogo della scelta del candidato per il Quirinale. L’assemblea del Quirinetta. I 101 e la bocciatura di Romano Prodi e Franco Marini. Un venerdì nero, per l’allora numero uno del partito, che nel suo discorso all’assemblea dei grandi elettori, annunciando le sue dimissioni da segretario del Partito Democratico, non lesinò accuse e recriminazioni. «Abbiamo prodotto una vicenda di una gravità assoluta – tuonò allora Bersani –. Sono saltati meccanismi di responsabilità e solidarietà. Una giornata drammaticamente peggiore di ieri. Fra di noi uno su quattro ha tradito».

Il record del doppio addio di Matteo Renzi. E non che sia andata meglio a Renzi. Anzi, nella drammaticità della resa, l’ex rottamatore vanta addirittura il record della doppia dimissione: due volte segretario e due volte dimissionario. Una sorte beffarda, quella in cui è incappato il leader di Italia Viva, che ha abdicato la prima volta nel 2017. Anche lui, in quella circostanza, sulla scia delle polemiche con l’allora minoranza impegnata in una fronda accanita. Poi nel 2018, in seguito alla tsunami provocato dal referendum istituzionale, che travolse anche il suo governo.

Ecco chi si è salvato dalla “maledizione” delle dimissioni. Oggi, tocca a Zingaretti: anche lui nel solco dei dimissionari dem. Ultimo di un elenco a cui si sono sottratti, portando a termine il mandato ricevuto, solo i segretari dem eletti in Assemblea dopo gli addii dei vincitori delle primarie. Ossia: Dario Franceschini, che raccolse il testimone da Veltroni. Guglielmo Epifani, che fece staffetta con Bersani. Maurizio Martina, che gestì il post Renzi.

Da corriere.it il 7 marzo 2021. «Non mi interessa commentare ciò che sta avvenendo nel Pd. Era normale che dopo il fallimento della strategia “O Conte o morte” qualcosa potesse accadere. L’asse con il M5S sembra oggi inossidabile al punto da permettere a Beppe Grillo la provocazione della candidatura alla guida del Pd. I problemi del Pd lasciamoli al Pd». Matteo Renzi interviene con queste parole, per la prima volta dopo le dimissioni improvvise del segretario Nicola Zingaretti, per commentare la bufera innescata dall’addio che lo stesso governatore del Lazio definisce «senza possibilità di ripensamento». Renzi, nella sua enews settimanale, dopo i due bossoli di minaccia ricevuti in una busta a Palazzo Madama ribatte a muso duro all’ala sinistra della magistratura: «Nello Rossi, direttore della rivista della corrente Magistratura Democratica, scrive che intorno a me “va creato un cordone sanitario”. A me sembra una frase di enorme gravità detta da un giudice su una testata che è la rivista ufficiale dei giudici di Magistratura Democratica e della quale è il direttore». E poi, si chiede retoricamente il leader di Italia viva: «Una corrente della magistratura dice che io devo avere un cordone sanitario intorno? Ragazzi, ma ci rendiamo conto? Il silenzio su questa frase mi fa più male dei bossoli — aggiunge Renzi —. Ma si sappia che se il prezzo da pagare per aver fatto le scelte che ho fatto è ricevere questi avvertimenti, non mi spavento: rifarei tutto. Penso che per l’Italia e per i nostri figli sia meglio avere alla guida Draghi e non Conte. E non mi vergogno di combattere per le mie idee, per le mie scelte, per i miei pensieri». Con l’arrivo a Palazzo Chigi dell’ex capo della Bce «piano piano tutto sta cambiando: su vaccini e intelligence in primis». E sul fronte economico Renzi spera che «la prossima tappa sia ripensare il cashback (qui: come funziona): pensate che per il cashback l’Italia ha speso il doppio di quanto ha spesola Nasa in America per mandare Perservance su Marte. Abbiamo aperto la crisi di governo perché le cose non funzionavano. E adesso vedete che piano piano tutto sta cambiando e cambierà».

Zingaretti difende la d'Urso dal Pd: "Io sono qui, altri nei salotti". Nicola Zingaretti per la prima volta a Live - Non è la d'Urso parla delle sue dimissioni e torna sulle polemiche che l'hanno travolto di recente insieme a Barbara d'Urso. Francesca Galici - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Nicola Zingaretti in settimana ha rassegnato le dimissioni come segretario del Partito democratico. Da quel momento ha ridotto al minimo le sue apparizioni pubbliche, se non in vesti istituzionali in qualità di governatore della Regione Lazio. Oggi, però, ha scelto di parlare e l'ha fatto a Live - Non è la d'Urso, il programma che poche settimane fa ha difeso con un tweet empatico che gli è costato molte polemiche. "Hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n'è bisogno!", scriveva Nicola Zingaretti pubblicamente a Barbara d'Urso nel suo post social, facendo innervosire la base radical chic che mai si sarebbe aspettata un endorsement alla conduttrice di successo più pop della tv italiana. "Il Pd riparta da Barbara d'Urso", scrivevano sui social in piena contestazione a Nicola Zingaretti, che ha avuto l'ardire di dire la sua personalissima opinione, dal suo profilo personale, su un programma televisivo. In tanti si sono domandati se ci sarebbero state uguali reazioni nel caso in cui l'endorsement fosse arrivato a un altro programma che, facendo un'ipotesi, va in onda su Rai3. Coerente e sicuro della sua linea, in barba a qualunque accusa, Nicola Zingaretti ha scelto proprio Barbara d'Urso per il ritorno televisivo a pochi giorni dal terremoto che ha destabilizzato il Partito democratico. "Penso che tutta la politica deve rinnovarsi. Io faccio politica per passione. Tutta la politica italiana dovrebbe aprirsi ed essere più vicina alle persone. Il Pd dev'essere la forza politica che di più è vicina alla condizione umana in questo momento della vita degli italiani. Ho voluto dare una scossa, quando ho percepito il rischio che il Pd potesse implodere dentro le dinamiche interne. Il mio è stato un atto d'amore", ha detto Nicola Zingaretti. Al netto di questo, però, per Nicola Zingaretti c'è un elemento che più di altri gli ha dato fastidio e che in parte l'ha portato a rassegnare le dimissioni: "Mi ha dato fastidio che tutti insieme abbiamo voluto il governo Conte, tutti insieme voluto questo governo che ha riportato l'Italia in Europa, che ha salvato il Paese. Tutti insieme abbiamo deciso che tutti quanti bisognava sostenere il tentativo di quel governo Il gruppo dirigente ha difeso questa scelta ma quando quel progetto non è andato in porto mi hanno accusato di “o Conte o morte” . A parte che io non l'ho mai detto, ho chiesto lealtà. Mi ha dato fastidio perché io credo molto nel pluralismo. Siccome dobbiamo fare tante cose, se sono io il problema, sono il primo a fare un passo indietro e a dire a questa grande forza politica che ci vuole un grande chiarimento e troviamo insieme le forme per andare avanti". Nicola Zingaretti, poi, ha rassicurato: "State certi che io non scompaio. Ci sarà con il mio lavoro, e con le mie idee". Si passa poi alla grande polemica che ha travolto i due nei giorni scorsi. La conduttrice ne approfitta per ringraziare pubblicamente Nicola Zingaretti per il tweet evidenziando che "quando un grande leader politico sottolinea che uno spazio politico e informativo come il nostro è importante per avvicinare la politica alla gente, io di questo sono molto orgogliosa". La d'Urso ha esternato un piccolo senso di colpa per quanto accaduto, ma Zingaretti l'ha rassicurata: "Tu sei stata purtroppo messa in mezzo da un modo sbagliato di fare politica. Ho detto una cosa che confermo: questa è una bella trasmissione e molto popolare. Il fatto che tu abbia fatto la scelta, in una trasmissione popolare, di chiamare i leader della politica italiana di parlare dei problemi delle persone, ho detto grazie. Una bella scelta, perché io sono contro il populismo, che si combatte con la politica popolare, non con la puzza sotto il naso. Si combatte stando vicino ai problemi delle persone". Nicola Zingaretti ha inquadrato la situazione dal suo punto di vista: "In questo momento va molto di moda l'antipolitica, una trasmissione che chiama i maggiori leader della politica italiana a confrontarsi, a me è sembrato naturale dire: complimenti. Si è scatenato il putiferio ma questa è una cosa da snob. Io non amo la politica snob ma quella nella quale le persone le guardo in faccia e e ne sento la spalla vicino. Quell'aggressione che abbiamo avuto era un po' un segnale che qualcosa non andava". Per Barbara d'Urso è inconcepibile l'attacco subito dal popolo di sinistra al tweet di Zingaretti, anche per lei "inaspettato, perché ho un'immagine nel mio cuore molto chiara e lo sanno". Alla richiesta di motivazione, Zingaretti è stato chiaro: "C'è un elemento di dtstanza. Queste trasmissini sono utili perché ci permettono di parlare alle persone alle persone concrete. Io l'ho trovato naturale quel tweet. Troppo onore che un tweet faccia così discutere perché parliamo all'Italia da una trasmissione popolare. Se c'è qualcuno che sta bene a parlare solo nei salotti si accomodi".

Ora nessuno è pronto a guidare il partito. Terremoto nel Pd, nessuno vuole il posto di Zingaretti…Claudia Fusani su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Tutto vero. Nessun ripensamento. Il Pd è tecnicamente da ieri pomeriggio un partito senza segretario. E in pieno congresso. Intorno alle 17 Nicola Zingaretti ha depositato alla presidente Valentina Cuppi, la lettera di dimissioni, con i motivi ormai noti: «Basta logoramento, basta sparare sulla Segreteria, tutto quello che è stato deciso in questo anno è frutto di Direzioni concluse con voto quasi unanime. Quindi, visto che sono io il problema, faccio un passo di lato e ciascuno si assuma le proprie responsabilità». Nessun “ripensamento”, dunque. Zingaretti non torna indietro e va fino in fondo. Lasciando il Pd in una vertigine da vuoto che adesso costringe tutti ad uscire allo scoperto, rimboccarsi le maniche e capire cosa vuol essere o diventare. “Il re è nudo” avevano detto i fedelissimi giovedì sera, a poche ore dal post pubblicato su Facebook. Sono tanti i “re messi a nudo”. E tra loro anche molti di quelli che gli sono stati al fianco in questi due anni di segreteria e di vita politica tormentata. Statuto alla mano. Ecco cosa può succedere adesso. Con le dimissioni – vane e forse anche ipocrite le richieste di ritirarle o non depositarle; velleitario e depistante, perché tecnicamente impossibile, che siano respinte – decidono tutti gli organismi dirigenti. Restano in carica la Presidente Cuppi, la quarantenne sindaca di Marzabotto che Zingaretti ha voluto alla presidenza del Pd ma di cui, purtroppo, si ricorda soprattutto il fatto che nella lunga crisi di questi mesi, non le è mai stata data la parola. Resta in carica il tesoriere, Walter Verini, che a questo punto detiene oltre che la cassa, il simbolo. È la parte più visibile di quel che resta del veltronismo del Pd, del Pd delle origini, quello a vocazione maggioritaria, plurale, di governo. Resta in carica, soprattutto, l’Assemblea, l’organismo che dovrà eleggere il nuovo segretario e che da ieri pomeriggio è nei fatti un grande seggio elettorale. L’assemblea era già stata convocata da Zingaretti per sedare le polemiche, le accuse incrociate, i fallimenti di una linea politica, soprattutto l’appiattimento sul Movimento 5 Stelle e a Conte che si rivela essere, come era facile prevedere, il commissario liquidatore del Partito democratico. L’appuntamento, a distanza e da remoto, è per il prossimo fine settimana (13-14 marzo). Decadono tutte le altre cariche, a partire dal vicesegretario Andrea Orlando. Nella prossima settimana può succedere di tutto. Tutto quello che segue sono ipotesi suggerite da una parte o dall’altra del Pd. Perché una cosa è certa: l’uscita di scena di Zingaretti metti tutti, e proprio tutti, davanti alle proprie responsabilità. Il tempo dei giochetti, che purtroppo hanno segnato i 14 anni di vita e i ben sette segretari che hanno guidato il partito (il più longevo è stato Matteo Renzi), è a questo punto definitivamente finito. L’assemblea è sovrana e può accadere qualunque cosa. Anche che qualcuno presenti un ordine del giorno per riproporre Zingaretti: ipotesi del terzo tipo, non praticabile considerate le affermazioni dello stesso segretario dimissionario. Sulla carta Zingaretti controlla il 66% dell’assemblea. In questa maggioranza relativa si sono ritrovate, finora, varie correnti: Orlando (circa il 30%); Franceschini (il 20%); e poi Veltroni, Emiliano, la nuova corrente di Bettini che è stata la riserva di Zingaretti ma forse adesso vuole camminare senza, Cuperlo, Delrio su cui sono confluiti anche gli ex di Martina (ora impegnato nella Fao). Al di fuori di questo 66%, si trovano gli ex renziani di Base Riformista (20%) e i Giovani turchi di Matteo Orfini. Chiunque nell’assemblea può in teoria avanzare la propria candidatura a segretario con una propria piattaforma. Non esiste la figura del segretario reggente come già lo sono stati Guglielmo Epifani e Maurizio Martina. Esiste un segretario eletto dall’assemblea che ha come primo ed esclusivo compito quello di condurre il partito al congresso e alle primarie. Un congresso costituente e chiarisca una volta per tutte chi è il Pd e poi decida con chi nel caso allearsi. Che poi è quello che con toni diversi hanno chiesto, un attimo dopo che si è insediato il governo Draghi, Lorenzo Guerini e Luca Lotti, leader di Base Riformista, Orfini e i Giovani turchi ma anche il senatore Luigi Zanda che giovedì, ignaro delle dimissioni e qualche minuto prima che Zingaretti le formalizzasse, ha rilasciato un’intervista in cui ha chiesto “un congresso vero”, che ridia senso e sostanza e identità al Pd che «deve diventare il partito di riferimento del governo Draghi evitando che finisca in mano alle destre». E anche perché «Giuseppe Conte non può più essere il federatore e meno che mai il punto di riferimento dei progressisti». In pratica un ciao grosso come una casa alla linea del Pd, del segretario e all’alleanza strutturale con i 5 Stelle che nell’ultimo anno ha avuto come sponsor principale Goffredo Bettini. Ora, è importante capire che dietro Zanda, insieme a Zanda, si muove il ministro Dario Franceschini che al pari di Zingaretti è stato a lungo sponsor della linea federativa con 5 Stelle e Conte. Salvo poi rendersi conto, in questi giorni, che Conte toglie voti al Pd e li regala al Movimento. Non ci voleva molto per capirlo. È stato utile pensarlo come contesto utile ad altre partite. Comunque, una cosa è certa: l’avvio del congresso del Pd certifica la fine di ogni alleanza strutturale con i 5 Stelle in quanto tale. Nel caso, saranno loro a ritrovarsi nel Pd. E nel nuovo futuro segretario. «I problemi posti da Zingaretti sono seri e dovremo affrontarli in assemblea» ha detto la presidente Cuppi. C’è da chiedersi perché allora non abbia accettato la richiesta di indire il congresso che è il luogo naturale e deputato dove discutere e capire quale identità avere – banalizzando, più a sinistra o più al centro – in un mondo che dopo la pandemia sta cambiando rapidamente. Rispetto all’agenda Draghi, come si posizionerà il Pd? A favore del riformismo, come chiedono Base Riformista e i sindaci, da Gori a De Caro passando per Nardella? Il congresso era il luogo deputato per discutere. Lo aveva già chiesto, a settembre, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, da tempo indicato da più parti come il profilo più idoneo per fare il segretario. Zingaretti, ancora all’inizio di questa settimana, aveva concesso il confronto tematico ma non il congresso. Poi la situazione è precipitata, all’improvviso. Bonaccini ha parlato solo ieri nel pomeriggio tardi. «Zingaretti sbaglia a lasciare, si discuta invece di Paese e non di Pd. Ci ripensi, quindi, e resti al suo posto per ritrovare la forma e la sostanza al Pd». Affermazione che ha irritato i fedelissimi di Zingaretti: «Curioso, poteva dirla a Nardella», il sindaco di Firenze che ha chiesto il congresso per definire l’identità del Pd. Continua il coro di “Nicola ripensaci”. Difficile che succeda. «La sensazione – suggerisce un parlamentare di Base Riformista – è che tutti coloro che puntano il dito contro di noi debbano in realtà coprire un loro cambio di posizione». E che Zingaretti, che non voleva il Conte 2 e neppure il governo Draghi, alla fine si sia stufato di fare l’utile punchingball per tutti tranne che per se stesso. E così li ha salutati, su due piedi. Il segretario dimissionario potrebbe aver capito, ad esempio, che anche l’exit strategy che un po’ tutti gli avevano prospettato – fare il sindaco di Roma – è uno dei tanti tranelli. Non è un caso che giovedì, un paio d’ore dopo la notizia delle dimissioni, sia uscita una dichiarazione dell’ex ministro economico Gualtieri molto aperta verso l’ipotesi Campidoglio. Per sé, però. Non per Zingaretti. La politica è piena di Giuda. Gira già il nome di Roberta Pinotti, franceschiniana doc, una donna per guidare il partito verso il congresso. E poi si vedrà. Tace colui che tutti si aspettano dica qualcosa: Matteo Renzi. Troppo presto per parlare. I giochi per la segreteria sono appena iniziati.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2021. «Sì, c'è una cosa che mi ha dato fastidio in questi giorni ed è questa: noi tutti insieme abbiamo voluto il governo Conte, che ha riportato l'Italia in Europa. Noi lo abbiamo voluto tutti, io ci ho messo la faccia. Poi quando non è andato in porto, ci siamo girati e non c'era più nessuno. E ci hanno accusato di avere detto "o Conte o morte", cosa che io non ho mai detto». Nicola Zingaretti sceglie Barbara D'Urso e il suo programma Live su Canale 5 per spiegare le ragioni delle dimissioni e togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Sorride, prima di tutto, delle polemiche nate intorno al tweet in solidarietà alla D'Urso: «Il populismo si combatte con la politica popolare, non con la puzza sotto il naso. Mi è sembrato naturale fare i complimenti a una trasmissione che chiama i maggiori leader a confrontarsi. Ma si è scatenato il putiferio e questa è una cosa da snob. Se c'è qualcuno che ama la politica dei salotti, si accomodi». Ma in quelle polemiche Zingaretti ha visto anche un segnale politico: «Quell'aggressione che abbiamo avuto era un segnale che qualcosa non andava, che qualcuno voleva criticare a prescindere. Sicuramente qualcosa di strano c'era». Le dimissioni sono arrivate per altri motivi, ma il segnale era anche quello: «Ho voluto dare una scossa quando ho percepito che il Pd rischiava di implodere nelle dinamiche interne. Il mio è stato un atto di amore». Zingaretti attacca ancora: «Non credo che il pluralismo sia stare zitti nelle riunioni e poi attaccare in pubblico». Per questo il governatore dem ha pensato che fosse «opportuno che tutti si prendessero le loro responsabilità: altrimenti si confonde il confronto di idee con la furbizia». Alla D'Urso che chiede se le dimissioni siano irrevocabili, risponde: «Sì, anche se non scompaio. Combatterò con le mie idee. Il Pd non è il partito di un leader, abbiamo tante energie. Spero che ora il gruppo dirigente sia più vicino alla vita degli italiani. Io penso che tutta la politica deve rinnovarsi ed essere più vicina alle persone. In particolare il Pd». Quanto all'ipotesi che faccia il sindaco di Roma: «Sono il presidente del Lazio, in questi mesi ho difeso la mia terra. Ho tantissime cosa da fare. Fare il sindaco di Roma sarà la cosa più bella che possa capitare nei prossimi mesi a chi ha passione politica, ma ci sono tante energie, non è questo il mio pensiero né il mio obiettivo». Infine una battuta rivolta a Matteo Salvini, che era l'ospite successivo della trasmissione: «È e rimane il mio avversario politico. Ma l'Italia dopo un anno di pandemia ha bisogno di unirsi per le riforme. Ci sarà tempo per andare a combattersi. La cosa che chiedo a Salvini è di evitare di fare troppe furbizie, di dire tutto e il contrario di tutto. Sono contento che abbia cambiato idea sull'Europa, ma io vorrei ora tasse più giuste». Con il no ribadito da Zingaretti sembrano chiudersi gli spazi per una riconferma e si aprono ufficialmente i giochi per capire come muoversi in vista dell'assemblea di sabato e domenica. In molti insistono ancora e sperano in un ripensamento, ma se non ci sarà, servirà un accordo tra le varie anime del partito.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2021. Non dovete sentire quello che dice, dovete guardare dove sta. Santo Cielo, ci è andato davvero. Nicola Zingaretti è collegato con Barbara D'Urso. La prima intervista da segretario dimissionario del Pd concessa proprio a lei. A Carmelita. Alla regina del pop di Canale 5. Che maneggia insieme crisi di governo e crisi mistiche, che tratta i politici come gli eliminati del Grande Fratello, frullati insieme Matteo Salvini, Fabrizio Corona e il mago Otelma, nozze segrete, eredità contese, il Covid raccontato come una tragica soap opera, lei spesso vestita tipo Barbie parrucchiera. Che numero, che provocazione, che sfregio. A capi e capetti e sottopanza del suo partito (tutti, come noto, maschi, e tutti sopra i 50 anni), uno Zinga definitivo: guardatemi bene, guardate cosa ci faccio con il vostro stupore pretestuoso, con le vostre smorfiette radical chic, con le tonnellate di indignazione con cui avete cercato di sotterrarmi solo perché avevo scritto un banale tweet di saluto e solidarietà a questa brava conduttrice. Ecco, appunto. L'antefatto (arrivato mentre Zinga - dopo l'insediamento di Mario Draghi a Palazzo Chigi - era da giorni sotto attacco tra ruvide e quotidiane critiche politiche interne e silenzi assordanti): Mediaset comunica alla conduttrice la conclusione anticipata della sua trasmissione; e dal Nazareno subito parte l'autorevole, inatteso cinguettìo: «In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro, hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n'è bisogno». Si scatena una sarabanda terrificante. «Non ne azzecca più una». Fanno l'elenco degli errori e dei sospetti, mischiano tutto, le anime pie del Pd sono specializzate (cambiati 8 segretari in 13 anni di vita): invece di andare a votare, nell'estate del 2019, ha ceduto alle pressioni di Renzi e si è alleato con il M5S; dice «o Conte, o morte», ma finisce in un governo con la Lega; cerca sempre di mediare con chiunque; sotto sotto è rimasto un vecchio comunista; e poi, insomma, quant' è ingombrante il suo amico Goffredo Bettini; infine la ciliegina amara: i complimenti a Carmelita. Inaccettabili. Perché le parole - gli ricordano Nanni Moretti in Palombella rossa - sono importanti. Ma Zinga se ne frega. Letteralmente. E infatti eccolo qui: sullo schermo di Canale 5 (e su Rai1, in contemporanea, la cognata Luisa Ranieri, moglie del fratello Luca, il Commissario Montalbano). Sensazione netta: Zinga appare rinfrancato. E libero. Anche di mollare un paio di rasoiate a quelli che «stanno zitti durante le riunioni, e poi ti attaccano» (Orlando? Franceschini? Guerini?). E comunque, aggiunge, «non mi piace la politica snob. Per cui, Barbara: di nuovo complimenti per la trasmissione» (pure se lei lo aveva presentato come «ex presidente», eh). Dimissioni irrevocabili? (gli autori sanno che questa è la vera domanda). Lui qui cincischia, gli torna la zeppola, dice e non dice, ammicca. Piuttosto: Zinga a occhi illuminati quando Carmelita gli prospetta l'idea d'essere il nuovo sindaco di Roma (qualcuno, con delicatezza, avverta Roberto Gualtieri, che aveva cominciato a farci la bocca).

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 marzo 2021. Caro Dago, per una volta non sono d’accordo con il grande Fabrizio Roncone – giornalista/scrittore da me prediletto – quando si mostra stupefatto che Nicola Zingaretti ci sia andato davvero a una puntata della trasmissione domenicale condotta da Barbara D’Urso. Confesso di guardare poco la tv e dunque quella puntata non l’ho vista. Mi immagino, né più né meno, che Zingaretti vi sia stato insapore come sempre e dunque che quella sua comparsata non fosse migliore né peggiore di tutte le altre da quando è il segretario del Pd. E del resto la tv è tutta eguale, contrariamente a quel che pensano i tanti giornalisti che non ci hanno mai messo piede. Quel che conta di uno schermo televisivo è il suo meccanismo, il particolare rapporto che instaura tra chi c’è dentro e quelli che stanno guardando, semmai muta di volta in volta il pubblico che sta guardando quella trasmissione. Ovvio che il pubblico che guarda le puntate della trasmissione della D’Urso è (leggermente) diverso da quello che la domenica guarda Fabio Fazio. Altrettanto ovvio che la D’Urso è bravissima, e lo dice uno che sa di che cosa sta parlando dato che ho avuto a che fare con Maurizio Costanzo, Pippo Baudo. Mike Bongiorno, Gianni Boncompagni, Aldo Biscardi e ne sto dimenticando. E’ diverso il pubblico, quello sì. Sono stato ospite della D’Urso più volte, e alla fine dello spezzone che mi riguardava Barbara faceva una sorta di sondaggio su chi dei suoi ospiti fosse risultato il peggiore o il migliore. Agli occhi dei suoi spettatori io risultavo sempre il peggiore, ciò che in un certo senso prendevo come un titolo d’onore. Ma Zingaretti è diverso. Zingaretti è un politico e dunque deve rivolgersi a tutti i pubblici possibili e immaginabili. Eccome se non deve rivolgersi al pubblico della D’Urso, un pubblico che ai fini del consenso politico è il più numeroso, perché è il pubblico che più somiglia all’Italia reale, quella fatta da un 70 per cento di italiani che non ce la fanno a intendere quel che c’è scritto in un editoriale di prima pagina di un giornale. Ha fatto benissimo Zingaretti ad andare da Barbara. Tutto sta a vedere se nei confronti di quel pubblico è apparso il migliore o, come me, il peggiore. Caro Fabrizio (Roncone), dimmi che ho ragione. Sai che ti voglio bene. 

Tommaso Labate per il Corriere della Sera il 7 marzo 2021. «Il Pd? Ma lo volete capire o no che questa roba nasce morta (...) coi sindaci pezzi di ma che se la prendono coi lavavetri? Sono solo funzionari di partito, ecco perché i partiti devono togliersi dai cog...i.». Chissà se ieri, quando ha lanciato attraverso il suo blog la candidatura alla leadership del Pd, garantendogli quell'«elevazione» con cui ha incensato anche la discesa in campo di Giuseppe Conte, Beppe Grillo ha ripensato alla bollente serata del 15 settembre 2007. Al Palasharp di Milano, come da sintesi dell' allora segretario regionale dei Ds Franco Mirabelli, andava in scena uno degli eventi sold-out «della prima Festa dell' Unità del Partito democratico». Il Pd nasceva, festeggiava e in cartellone metteva Grillo, tra un' intervista ad Anna Finocchiaro e un dibattito con Rosy Bindi, un monologo di Roberto Benigni e un concerto di Tonino Carotone. Duemilasette, duemilaventuno. I quattordici anni terribili - che hanno visto il comico genovese e il Pd guardarsi con sospetto, litigare, insultarsi, farsi la guerra, fare la pace, mettersi d' accordo e infine addirittura stringere i bulloni di un' alleanza organica - iniziano quella sera là. Col Pd ancora in fasce. Dentro il Palasharp gremito all' inverosimile, Grillo affonda colpi su D' Alema «Baffino», Fassino «che ha un solo globulo rosso», Prodi «Valium», messi alla berlina al contrario di un pokerissimo di personalità del presente e del passato (citò, in ordine sparso, De Gasperi, Tony Blair, Tonino Di Pietro, Pertini e Almirante) che invece venivano elevati a esempi di politica buona. È il primo round di una sfida infinita. Il prequel era andato in scena un anno prima, quando il Pd era ancora di là da venire, con Grillo che si era presentato a Palazzo Chigi da Romano Prodi con una serie di proposte «su energia, sanità, informazione ed economia». «Mi sono detto», scandì, «"portiamo al nostro dipendente Prodi tutte queste informazioni". Gliele ho fatte foderare e rilegare». E Prodi, guardando la rilegatura con un sorriso tra l' ironico e il bonario: «Scritta in oro, nero, piccolino. Ha lo stesso formato dei dettagli dei funerali». Il tempo di vedere tramontare il governo del centrosinistra e anche la prima leadership del Pd di Veltroni, siamo nell' estate del 2009, e Grillo si ripresenta all' incasso. Bussa alla porta della sezione dei Democratici di Arzachena, in Sardegna; versa 16 euro, si tessera e annuncia la sua candidatura alle primarie. Tolto il futuro sindaco di Roma Ignazio Marino e l' attuale leader del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi, due dei candidati alla segreteria, gli altri gli dicono di no in blocco. Fassino lancia l' anatema che lo insegue ancora oggi come un fantasma, ma in carne e ossa. «Se Grillo vuol far politica, si fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende». La sezione di Arzachena rifonde il comico dei 16 euro e il Pd, statuto alla mano, respinge tanto l' iscrizione quando la candidatura alle primarie. «Guardate l' articolo 9 comma 3», spiegò il responsabile dell' Organizzazione Maurizio Migliavacca. «Grillo aveva tempo di prendere la tessera entro il 26 giugno. Oggi è il 13 luglio...». Il resto è quasi storia contemporanea. I cinque minuti di incontro in streaming con Matteo Renzi presidente del Consiglio incaricato, a cui Grillo consegnò quel «tu sei una persona buona ma rappresenti un potere marcio» finito nel dimenticatoio a causa dell' enfasi sulla fulminea chiusura dell' incontro, febbraio 2014. E quell' analisi sulla base sociale del Partito democratico, a cui il garante del M5S si sarebbe dedicato l' anno dopo, con una ripartizione antropologica di un elettorato a suo dire diviso in tre tronconi: «Broker, finanziere o un ex della Banda della Magliana». Avrebbe cambiato idea. Lui e il Pd sono al secondo governo consecutivo nella stessa maggioranza. Ma come diceva Corrado Mantoni lanciando la pubblicità dei suoi programmi in tv, come lo stesso Grillo ha dimostrato ieri accarezzando e irridendo il Pd, «e non finisce qui».

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 7 marzo 2021. Zingaretti se ne è andato, non è più segretario del Pd. Si è liberato da una rogna. Al suo posto minaccia di subentrare Grillo, cosicché, nell' eventualità, gli ex comunisti cesseranno di far piangere e finalmente faranno ridere. Bisogna poi dire che il loro problema non è la mancanza di una guida illuminata, ma la mancanza del partito che da tempo si è sfasciato, ormai è un rudere, rotola di qua e di là senza sapere dove andare e con chi. Dall' epoca di Occhetto a oggi sembra trascorso un secolo durante il quale i compagni di merende hanno solo cercato di sgranocchiare il potere, ricorrendo a giochetti non molto puliti, finalizzati a conquistare poltrone di vario tipo e genere. Per dire quanto sono balordi continuano a cavalcare il peggio del peggio, dall' antifascismo maniacale, al femminismo più trito e al conformismo, senza contare il politicamente corretto che è un brodino caldo ma indigesto. Tra i dem non c' è una personalità forte, essi costituiscono una ammucchiata di mediocri incapaci di stilare un programma utile per il Paese. Hanno l' ambizione di rimanere in Parlamento e possibilmente al governo in compagnia di amici e nemici, per esempio i pentastellati e perfino i leghisti. La loro linea a zig zag rimbambisce anche l' elettorato, sempre più esiguo e sfiduciato. Lo stesso Zingaretti, parlandone da vivo, non ha mai brillato. Le sue parole al vento non hanno mai convinto nessuno, nemmeno lui stesso, tanto è vero che si è contraddetto con irrisoria facilità, passando da una sponda all' altra della politica senza fare una piega. Dal punto di vista dialettico e culturale ha rimediato spesso brutte figure. Poveraccio, non è antipatico, non esiste. E adesso che non c' è più è più presente nei resoconti del cronisti, per via della successione. Ci si interroga su chi sarà a sostituirlo alla segreteria e le ipotesi sfiorano la comicità. Pare che le preferenze siano per una donna, ma l' unica che abbia un minimo di struttura è la Finocchiaro, una siciliana intelligente però da parecchi anni finita dietro le quinte. Ma la candidatura più divertente è quella del buffone ligure di talento ossia Grillo, il quale si è montato la testa come accade a chi ne ha poca. Dopo aver fondato e affondato il M5S, ambisce a salire sul trono dei nipotini di Berlinguer allo sbando. Speriamo che ce la faccia, così ucciderà anche loro e oltre al partito finirà anche la partita. Che Dio gliela mandi cattiva.

Zingaretti da Barbara D’Urso sulle dimissioni dal Pd: “Non scompaio, combatto con le mie idee”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Marzo 2021. Nicola Zingaretti ospite alla trasmissione su Canale 5 Live non è la D’Urso di Barbara D’Urso spiega le sue dimissioni da segretario del Partito Democratico. Un fulmine a ciel sereno, per il partito di sinistra, lo scorso giovedì 4 marzo. “Ho voluto dare una scossa quando ho percepito che il partito si poteva bloccare in dinamiche interne. Il mio è un atto d’amore”. Diversi i punti di rottura all’interno del partito. Soprattutto l’avvitamento dell’ormai ex segretario sul Movimento 5 Stelle e sull’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Un atteggiamento che ha contrariato soprattutto le fazioni di Base Riformista, i cosiddetti renziani, e i Giovani Turchi di Matteo Orfini. E poi i dissidi con gli amministratori locali, la scalata al Partito del governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini – che nega ogni ambizione -, la questione della leadership femminile. La caduta del Conte 2 e la nascita del governo Draghi ha quindi esacerbatogli animi e portato Zingaretti a una scelta inaspettata ed esplosiva.“Ho fatto un atto che rivendico ma io non scompaio, ci sarò e combatterò con le mie idee – ha aggiunto – Dimissioni da segretario irrevocabili? Sì, ma il Pd ha tante risorse. Noi non siamo il partito del leader. Un passaggio sulle amministrative a Roma: “Io candidato sindaco a Roma? Non è assolutamente il mio obiettivo o pensiero. Sono il presidente della Regione Lazio, in questi mesi ho difeso la mia gente dal covid e ora ci sarà la sfida del lavoro e di correre sui vaccini. Ho tantissime cose da fare”. E quindi un ultimo passaggio sulla polemica della sua difesa proprio al programma di Barbara D’Urso: “Tu sei stata messa in mezzo da un modo sbagliato di fare politica. Ho detto una cosa che confermo: questa è una bella trasmissione e molto popolare, qualcuno preferisce i salotti…”. Il caos Pd affronterà i nodi da sciogliere nell’Assemblea del prossimo 13 e 14 marzo. Per la reggenza si fanno i nomi di Roberta Pinotti e di Piero Fassino.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” l'8 marzo 2021. Sed diabolicum perseverare, per dirla con spropositata solennità. Ma intanto dopo il tweet di sostegno Zingaretti è ricascato in tentazione D' Urso e Renzi è volato di nuovo nella penisola arabica. Non si dirà qui che è un ritorno sul luogo del delitto perché la mega ospitata in una trasmissione trash o il soggiornone extralusso a Dubai non costituiscono reato, e magari ci scappa una querela (Renzi ha dato mandato contro la Stampa , poi forse spiegherà meglio). Ma intanto colpisce che le due repliche si siano accavallate in un simultaneo accanimento che sa di sfida, tigna, ostentazione e un po' anche di faccia tosta. Smarriti gli ideali, oppure riconvertiti al regime delle opportunità, il riformismo ondeggia tra Barbara Carmelita fluorescente e qualche altro Rinascimento mediorientale sulle tracce di Abramo. Questione preliminare: chi glielo fa fare? Boh. Al di là dei dubbi di giornata - e scontando che ben altro angustia i destini collettivi - sembra quasi che l' Aridaje si stia impossessando della scena pubblica; oppure, vai a sapere, ecco che i due leader "intignano" per farsi belli, liberi, coraggiosi, caparbi e incrollabili nelle loro convinzioni. Nel caso specifico l' ostinazione di Zingaretti segnala un che di liberatorio e forse, a parte la scelta di piegare Live-Non è la D' Urso ai canoni del gramscismo, l' inizio di una qualche metamorfosi. Detta con brutalità: Nicola si è scocciato del suo personaggio, vuole romperne schemi e confini, evadere dalle aspettative e presentarsi al grande pubblico - non a quei serpenti del Pd - come gli pare e piace. Rimuginate da troppo tempo, bofonchiate durante gli interminabili tavoli dell' ipocrisia («me ne vado alle Maldive»), scritte e riscritte, le dimissioni lasciano intravedere una crisi certo politica, ma anche una sofferenza molto personale. Forse ora nemmeno lui sa cosa vuole, l' unica certezza è stoppare il disagio; e quindi, se serve, togliersi sia il sassolino delle critiche che il gusto di andarci, dalla D' Urso. Mite e salutare stizza in prime time , sublimazione e marketing, la post-politica vive di questa roba - e intanto Draghi governa senza guardare Carmelita. Renzi è tutt' altra storia, pizzicato laggiù per caso. Esiste un' ampia letteratura sul complesso rapporto che egli intrattiene con gli aspetti più concreti e appariscenti del potere, mezzi di trasporto, comfort, viaggi, etc. Non si sa bene che è successo. Dire che sono affari suoi è molto umano, ma altrettanto ingenuo perché Dubai è strasocial, piena di italiani e prima o poi ti beccano. Per cui first reaction shock. Ma la successiva insistenza e l' ostentata insensibilità alle critiche appare in questo frangente una scelta obbligata. Per cui, sorpreso ancora da quelle parti, il Renzi d' Arabia bis è costretto a rilanciare. Una faccenda di temperamento, ma anche di tecnica e di storia politica essendo il suo nome inciso nell' albo d' oro dei "rilancisti" insieme a Crispi, Mussolini, Fanfani, Craxi, Berlusconi, D' Alema, più Salvini tornato al Papeete e Grillo candidato a leader del Pd. Quanto tutto questo rafforzi la credibilità della classe politica è già più difficile dire. Sia nell' uno sia nell' altro caso Renzi e Zingaretti sembrano ben lontani dalle atmosfere e dai luoghi che segnano il momento. Succede a molti, ma in caso di prolungata persistenza è così che da personaggi si diventa maschere, poi macchiette e caricature.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 9 marzo 2021. Il Partito democratico è ancora sotto choc per le traumatiche dimissioni di Nicola Zingaretti. Il segretario ha fatto capire ai vertici del partito di essere pronto a «favorire una soluzione per rilanciare i dem». Il che significa che non farà niente per ostacolare l'individuazione di un nome per la sua successione. Anzi. «Basta polemiche», esorta infatti Zingaretti. Ma l'onere di trovare il nuovo leader spetterà agli altri, ossia ai capicorrente della maggioranza che ha fin qui guidato il Pd. Ma il rischio è quello che alla fine si vada a una sorta di «re travicello» che duri solo qualche mese. Un pericolo su cui Dario Franceschini ha dato l'allarme ai suoi: «Dobbiamo eleggere un segretario che duri almeno un anno, che ci porti alle elezioni amministrative, che gestisca una maggioranza di governo complicata come l'attuale. Non esiste che si vada a un reggente provvisorio. Abbiamo bisogno di eleggere in Assemblea nazionale un segretario il più autorevole possibile che ci guidi fino al congresso». Un identikit che sembra corrispondere perfettamente a Enrico Letta, su cui infatti il pressing dei dem è fortissimo. «Ci vuole uno come lui», dicono molti esponenti del partito. Base riformista, il correntone di minoranza guidato da Lorenzo Guerini e Luca Lotti, è disponibile all'idea di far convergere i suoi voti su un candidato che possa rappresentare tutto il partito, ma aspetta che sia la maggioranza a offrire una soluzione possibile. Però la verità è che un nome non c'è ancora. Infatti i due principali azionisti di riferimento della maggioranza che ha eletto Zingaretti, cioè Andrea Orlando e lo stesso Franceschini, non sono riusciti ancora a mettersi d'accordo. Il primo ha caldeggiato due nomi: quello di una donna come Anna Finocchiaro o di un giovane come l'ex ministro per il Sud Giuseppe Provenzano. Mentre per Area dem, la componente che fa capo a Franceschini, inizialmente erano state avanzate due possibili candidature: Roberta Pinotti e Piero Fassino. Mancano pochi giorni all'Assemblea nazionale del Partito democratico prevista per il week end e una soluzione si dovrà pur trovare. Certo, si potrebbe far sempre slittare la riunione del parlamentino, ma la preoccupazione è quella di dare, con il rinvio, un ulteriore segnale di debolezza del partito. Un altro nome che è circolato in questi ultimissimi giorni è quello dell'ex ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. Insomma, tante ipotesi, qualche autocandidatura, ma, fondamentalmente, è ancora il caos dentro il Pd. Per questa ragione nel partito c'è chi spera ancora che Zingaretti, che proprio ieri ha ripreso la tessera del Pd, possa ripensarci. Il segretario dimissionario, però, non sembra affatto intenzionato a tornare sui suoi passi. E lo ripete a ogni interlocutore. «Io ho chiuso, non con la politica, certamente, ma con questa esperienza si», ha spiegato a tutti gli esponenti dem il presidente della Regione Lazio.

Carlo Bertini per "la Stampa" il 9 marzo 2021. Enrico Letta si sfila, «ma non del tutto dai», dice un dirigente all'altro. Lui sì, metterebbe d'accordo tutti. Anzi no: gli ex renziani lo vedono come il fumo negli occhi. «Veltroni di nuovo leader? Non ci starà mai». La ligure Roberta Pinotti ok, «ma non è gradita allo spezzino Andrea Orlando». Il quale «sarebbe la soluzione più naturale...è il numero due!» argomentano i suoi. No, Dario Franceschini non può accettarlo come candidato unitario, perché capo della corrente avversa. «Lo stallo messicano» rende bene l'idea: i big di un partito privo del capo si controllano a distanza con la pistola puntata. L'Assemblea di sabato dovrà eleggere un nuovo segretario e il gioco dei veti incrociati delle correnti impedisce qualsiasi candidatura unitaria per guidare il Pd. L'uscita dalla D'Urso irrita i big Anche perché c'è il rischio che chi salirà al trono sabato, ci prenda gusto e resti fino alla scadenza congressuale di fine 2023, tenendo in mano lo scettro più ambito: la penna per segnare e cancellare nomi sulle liste elettorali. E distribuire posti di potere. Mica poco. Per questo si darà un incarico a tempo determinato. Una sorta di segretario precario come un rider. Nicola Zingaretti si gode lo spettacolo da fuori: si è preso la tessera ieri, come un militante qualunque; ha fatto imbestialire i big per essersene andato «a ridere di noi» dalla D'Urso, «dopo averci lasciato nei guai» e per «aver dato le dimissioni su Facebook». Ha ringraziato molti (da Oddati alla De Micheli) che gli sono stati vicino, ma guarda caso non i capigruppo Marcucci e Delrio. Ed ha avvisato i fedelissimi di piantarla con la storia del colpo di teatro in assemblea per reinsediarlo al trono: «Ora tocca agli altri, ci sarà la forza di fare chiarezza dove io non sono riuscito». Frase che taglia le speranze di chi, ormai privo di incarichi, pensa di rilanciare la sua candidatura in un congresso on line tra iscritti ed elettori. Peccato che tale rivoluzione gli avversari di Base riformista non la accettino e scatti un'altra guerra sotterranea. Congresso a inizio 2021 Qualunque futuro segretario ha un compito da far tremare i polsi. Un partito che di qui a quando si celebrerà il congresso (forse inizio 2022), dovrà stringere accordi e tessere alleanze, per non perdere le grandi città italiane (in primis Roma) in autunno. Il tutto mentre la concorrenza «in casa», quella dei 5stelle, si muove eccome: Giuseppe Conte lavora al piano di rilancio dei 5stelle, Beppe Grillo addirittura si candida lui a conquistare il Pd. Ecco perché l'Assemblea del 13 marzo non sarà rinviata: non si può correre il rischio che il comico «venga a occupare il Nazareno». Tutti hanno fretta di uscirne. L'area che si riconosce in Zingaretti ha una rosa di nomi: la coordinatrice delle donne, Cecilia D'Elia, Giuseppe Provenzano, (gradito a Orlando e quindi di parte). Roberto Gualtieri, finora dato in predicato per la candidatura a sindaco di Roma e Anna Finocchiaro. L'Area dem di Franceschini ha Pinotti e Piero Fassino. Poi ci sono gli outsider. Una di queste è Debora Serracchiani, che benedice «la rivoluzione della vittoria dei Maneskin a Sanremo, come se diventasse segretario del Pd una donna». E invoca «uno scatto di responsabilità. Non mi tiro fuori, non ci sto a lasciar sfarinare il Pd o a farlo colonizzare...».

Massimo Cacciari per “la Stampa” l'8 marzo 2021. La realtà dolorosa, ma vera - solo questo ha significato Zingaretti con la sua "esternazione". Possono fingere di meravigliarsene soltanto coloro che l'hanno costretto al passo, inguaribili ipocriti o micro-ceto politico interessato a sopravvivere e basta. Il Pd è da tempo non un insieme, ma un mucchio di forze eterogenee il cui denominatore comune consiste in una strenua "volontà di governo", camuffata sotto il velame delle parole-mantra di "stabilità" e "responsabilità". Il suo gruppo dirigente, con rarissime eccezioni, si è formato nella competizione interna per l'acquisizione di posti di poteri, invece che nella effettiva rappresentatività in Comuni, Regioni, settori dell'opinione pubblica. Zingaretti ora lo dichiara apertis verbis - ma lo ignorava al momento delle primarie e della nomina a segretario? Non si era candidato appunto per sconfiggere questa deriva del partito? O per che altro? Allora, sarebbe interessante non scoprire l'ovvio - che il Pd è quella cosa che Zingaretti dice - ma perché l'obbiettivo della sua rifondazione è fallito, che cosa ha portato alla sconfitta. Colpa di Renzi e dei renziani? O magari di Calenda? O di qualche loro amico annidato nei gruppi parlamentari? La demonizzazione del rappresentante del Rinascimento fiorentino(e arabo) va molto di moda in questo periodo - spiegazione miope, di comodo, spiegazione che nulla spiega. Zingaretti ha fallito perché non ha affatto seguito la linea che l'aveva portato alla vittoria nelle primarie, non ha affatto dichiarata aperta una fase di rifondazione del partito, non ha neppure avviato un cantiere di costruzione di un suo nuovo gruppo dirigente. Vi si opponeva la ferrea volontà di non andare a casa dei gruppi parlamentari, certo. Ma forse che Zingaretti l'ha scoperta a posteriori, dopo la sua candidatura a segretario? C'è stato e c'è di mezzo il maledetto Covid, certo. Ma forse che è impossibile ragionare di politica e decidere modalità e linee di un congresso durante una epidemia? Anzi, proprio l'accelerazione violenta di tutti i processi di cambiamento che questa ha prodotto avrebbe dovuto rafforzare la volontà di discussione, di confronto, di rinnovamento. Se Zingaretti è andato avanti per 18 mesi a furia di compromessi con i suoi naturali avversari, di rimandi, di indecisioni, perfettamente in stile coi diversi governi che si sono succeduti, fino a giungere al triste e irrevocabile annuncio che "il re è nudo", ciò non si deve a debolezze tattiche o destini cinici e bari, ma all'incomprensione delle contraddizioni di fondo che attanagliano il Pd fin dalla fondazione e a mancanza di visione e strategia sul ruolo che una grande forza politica riformatrice può giocare in Italia e in Europa. Il Pd nasce da un formidabile equivoco, che non si vuol chiarire, che si rimuove da 15 anni sistematicamente. E non è detto che finalmente si affronti neppure ora, malgrado il quasi epitaffio dettato da Zingaretti - potrebbe perfino darsi che si esca dalla imminente Assemblea con un nuovo pastrocchio, se il segretario uscente non terrà duro e non motiverà davvero le sue dimissioni. L'equivoco consisteva nell'idea - praticata nei fatti, se non teorizzata - di una "spontanea" conciliabilità tra un welfare di ispirazione paleo-socialdemocratica e modelli di politica finanziaria ed economica derivanti dalla prepotente affermazione nel corso degli anni '80 e '90 delle teorie e politiche liberiste. Il Pd nasce contraddicendo il principio di non contraddizione, vuole essere questo e l'altro a un tempo e sotto il medesimo rispetto: predica nei fatti politiche in deficit e, insieme, subisce il diktat europeo della stabilità ueber alles. Non comprende che le prime sono ormai insostenibili e che il secondo va combattuto e l'Unione europea riformata radicalmente. Sviluppo è possibile e, anzi, necessario, ma può passare soltanto attraverso un riassetto istituzionale e amministrativo che riduca drasticamente la spesa pubblica, elimini ogni fonte di spreco, e decida conseguentemente in quali settori concentrare le risorse disponibili. Nipotini del socialismo europeo novecentesco, incapaci di rinnovarne l'eredità, liberal-liberisti convinti tout court del suo fallimento, ex-popolari stressati dalla concorrenza di nuove destre, non sanno trovare alcuna destinazione comune e si dedicano a competere gli uni contro gli altri per la spartizione(e lo sperpero) delle rendite acquisite. C'è chi sogna - all'inizio - un Pds allargato grazie al contributo gratis degli ex Dc. C'è poi chi prefigura un Macron che svuota i socialisti - come appunto riuscirà al Macron di Francia. C'è infine l'eterno "centro" del primum vivere, il perenne grembo democristiano, che dai contrasti altrui riemerge sempre come àncora di sopravvivenza. Come tenere aperte prospettive simili dopo le dichiarazioni di Zingaretti? Per tutti dovrebbe risultare chiaro che non vi è "salvezza"nel protrarre compromessi tra correnti, che tali neppure sono, poiché vi è corrente, in un partito, solo nella misura in cui ciascuna sappia declinare in forme particolari una prospettiva strategica comune, in cui ciascuna interpreti a modo suo un "dramma" condiviso. Se sulla stessa scena si recitano "drammi"diversi regna la confusione indigeribile e si andrà all'inevitabile naufragio anche elettorale. Zingaretti dovrà ribadire, motivandola culturalmente e storicamente, la propria posizione, che può significare questo soltanto: il Pd va rifondato come il partito delle riforme di sistema sul piano istituzionale e amministrativo, come la forza che lotta per politiche fiscali e di redistribuzione del reddito contro le dilaganti diseguaglianze; per politiche industriali non assistenzialistiche, capaci di promuovere i settori davvero in grado di produrre nuova occupazione; per un europeismo non retorico, in grado di smantellare le elefantiache sovrastrutture burocratiche e normativistiche che zavorrano l'Unione. Se Zingaretti vuol salvare non il Pd, ma la possibilità stessa di un'area autenticamente riformatrice nel Paese, dovrà fare non un passo indietro, ma centomila in avanti nella direzione che la sua "uscita" ha nei fatti aperto, quella di un congresso in tutti i sensi decisivo. Qualsiasi altra strada può portare soltanto a un anno di battaglie nel bicchier d'acqua semi vuoto del partito, in vista della spartizione di candidature per le prossime politiche, magari assistendo alla contemporanea ripresa dei 5Stelle guidati da Conte in stile Macron. 

Dagospia il 9 marzo 2021. Da Radio Cusano Campus. Il filosofo Massimo Cacciari è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. Sulla situazione del PD dopo le dimissioni di Zingaretti. “E’ un punto di non ritorno, dopo una dichiarazione talmente eccezionale –ha affermato Cacciari-. Non è mai accaduto che un segretario di un partito in carica si esprimesse con tale durezza nei confronti del proprio partito e della propria classe dirigente. O si passa da un congresso di rifondazione oppure le dichiarazioni di Zingaretti sono un epitaffio. Chi può andare a votare un partito che il segretario descrive come un branco di poltronari? Se Zingaretti adesso facesse marcia indietro sarebbe per il Pd la sciagura delle sciagure. Può darsi che si candidi a fare il sindaco di Roma, anche se mi sembra difficile, ma comunque sarebbe un’altra storia. Lui può tornare leader del Pd solo se vince il congresso. Secondo me adesso per il PD non c’è altra strada che impostare un congresso aperto, dove ci si confronti seriamente e chi vince organizza a sua immagine e somiglianza il PD. Questa non è l’ultima spiaggia, è l’estrema spiaggia. Gli altri partiti stanno riassestandosi, l’unico in una situazione drammatica è il PD. Per il M5S la situazione non è così drammatica come nel Pd, hanno trovato una loro linea, quella segnata da Conte. Conte come candidato premier del M5S, trasformando il Movimento in una forza vagamente liberale, sta dando una linea al partito. La Meloni una linea già ce l’ha, anche la Lega la sta ritrovando, Salvini chiacchiera ma Giorgetti dirige con Draghi. Il Pd è un partito mai nato, l’occasione per fare chiarezza si è perduta al momento del confronto interno tra Renzi e le componenti di sinistra, suddividendosi in aree e compiti e l’ambito del centrosinistra sarebbe stato rappresentato adeguatamente. Quell’occasione però è passata. Se oggi il PD si dividesse, diventerebbero due partitini e nessuno dei due potrebbe competere. Quello che è avvenuto nel Pd negli ultimi anni è totalmente irrazionale, si sono fatti male da soli ed hanno continuato a farselo. Guardate Renzi, aveva il 40% e a desso ha il 2%. Si sono auto danneggiati e questo è solo l’ultimo atto”. Sull’apparizione di Zingaretti dalla D’Urso. “Non posso criticarlo per questo. Uno che fa politica attiva a quel livello è costretto a fare quello che fanno gli altri. Se Salvini, Berlusconi e gli altri vanno dalla D’Urso, come fa Zingaretti a non andarci? Gli atteggiamenti snob nei confronti di alcuni programmi se li può permettere uno come me che non fa politica”.

"Il Pd non è mai nato: è solo il succedersi di tentativi falliti". Massimo Cacciari su L'Espresso il 16 marzo 2021. Il Partito democratico non è mai nato. Tra nostalgici del passato e liberal-liberisti subalterni al presente. Incapaci di affrontare la riforma delle riforme: lo stato. Che un segretario in carica dichiari pubblicamente di ritenere i dirigenti del proprio partito interessati nella sostanza a null’altro che a conservare le proprie più o meno importanti poltrone, è cosa talmente eccezionale e grave da non poter essere derubricata a fatto di cronaca. Se lo si facesse, non si renderebbe neppure giustizia a chi ha espresso un tale giudizio. Né questo può seriamente venire in alcun modo ritrattato. Ci sono davvero parole come pietre, che segnano uno spartiacque, lo voglia o no chi le ha pronunciate. Dopo di esse, si aprono due vie soltanto: o questo partito si rifonda, oppure ci si accomoda a gestirne la fine anche elettorale. Chi potrebbe domani dare la propria fiducia a una forza politica che il suo segretario ha così giudicato? Dunque, il momento è decisivo davvero per ciò che residua della cosiddetta “sinistra” italiana. Siamo all’ultimo atto, agli addii, o caduti al fondo sussiste la possibilità del contraccolpo, la palla non è del tutto sgonfia e ce la fa a rimbalzare? Per essere all’altezza della domanda, segretario uscente e gruppo dirigente del Pd dovrebbero anzitutto ragionare con tutta l’onestà intellettuale richiesta dalla catastrofica situazione sulle ragioni che a questa hanno condotto. La riflessione critica e autocritica sulla propria storia è fattore essenziale della strategia, e finora è del tutto mancata. Genealogia di una sconfitta, potrebbe essere intitolata. Sconfitta in cui tutte le componenti della sinistra italiana sono coinvolte, anche sul piano personale, chi qui scrive compreso. Innocente nessuno. La domanda potrebbe essere così formulata: perché il Pd non è mai nato? Che questo sia un fatto nessuno potrebbe dubitarlo dopo le dichiarazioni di Zingaretti. Dal momento della sua fondazione il Pd non è stato che un succedersi di tentativi falliti. Perché? Per l’inettitudine dei suoi attori? Si trattava di un buon testo che è stato recitato pessimamente? Cambiati gli attori, scovati quelli adatti al ruolo e ben motivati a portare l’opera al successo, il problema sarebbe risolto? Il Pd non è mai nato perché nulla può nascere da energie esaurite. Un mare mai prima percorso si era aperto con la caduta del Muro e le navicule antiche non potevano bastare. Aggiustate, rammendate, rammodernate sono giunte, invece, al Pd, così da non essere né atte alla nuova tempestas, né riconoscibili da chi un tempo vi si era affidato. Alla sempre più stanca ripetizione dei motivi, nobilissimi un tempo, del welfare socialdemocratico, corrispondevano i sogni di un moroteismo postumo - a entrambi, nipotini del “compromesso storico”, si opponevano, pretendendo di abitare nella stessa dimora, gli alfieri di una prospettiva liberal-liberista, del tutto subalterna alle ideologie allora vincenti intorno alle meravigliose e progressive sorti della globalizzazione economico-finanziaria. Per tutti si trattava, nella sostanza, null’altro che di aggiustare la propria linea, adattandosi alle mutate condizioni. Una rincorsa del proprio tempo, o presunto tale. Una affannosa ricerca di apparire al suo passo, “moderni” - nell’organizzazione, nell’immagine del leader, nel “disincanto” con cui affrontare le nuove potenze del mondo globale - e perciò in costante inseguimento dell’ora. In tutte le componenti che decidono di dar vita al Pd, pur in forme specifiche a ognuna, la stessa assenza di pensiero critico, di un pensiero, cioè, all’altezza della crisi che aveva spazzato via il mondo di ieri. Né socialisti né popolari comprendono la corrispondenza storica tra le politiche di welfare classicamente keynesiane e un determinato assetto dell’industria e della composizione sociale. Emergono figure di lavoro autonomo e dipendente, confuse tra loro, di lavoro precario, di sotto-occupazione che esigono tutela e rappresentanza sindacale e politica impossibili nelle forme tradizionali. Per farvi fronte non sembra praticabile che la via del crescente indebitamento. E questo produce l’autentica bancarotta generazionale che stiamo vivendo. La montagna del debito, chiaramente inestinguibile, produce un vero e proprio asservimento delle generazioni future, una loro universale dipendenza dall’impersonale Mercato. Per combattere questa catastrofe le culture politiche tradizionali si trovano del tutto impreparate: quella socialdemocratica persegue nei fatti una linea di assistenzialismo in deficit, quelle popolari e liberali si barcamenano intorno ad una, complementare in fondo, fatta di austerità moderata o di “solidarietà austera”. Non si punta sull’autonomo spirito di impresa, sui settori che guideranno la riconversione globale delle nostre economie, sulla scuola, sulla formazione. Si dilapidano, invano, immense risorse per fingere di salvare strutture industriali, nascondendone o ritardandone il fallimento, e non il reddito e la qualità di vita delle persone che loro malgrado vi lavoravano. Ma è uno, fondamentale, il problema che i fondatori del mai nato Pd non sanno affrontare. Il problema cui tutti gli altri si collegano logicamente prima ancora che politicamente. La riforma delle riforme è quella dello Stato. L’avevano pur capito alcuni illustri Mentori di Pci e Dc: le risorse per lo sviluppo, per la difesa dei redditi più bassi, per creare l’humus in cui nascano nuove imprese e nuove professioni, non possono più venire da sensibili incrementi del gettito fiscale (lotta strenua all’evasione, benissimo - ma, contemporaneamente, si dovranno ridurre i livelli intollerabili dell’imposizione a chi paga), e non devono venire da ulteriori aumenti del debito. Soltanto un radicale, complessivo riassetto della struttura istituzionale, burocratica, amministrativa le garantirà. Dall’elefantiaco apparato ministeriale, che di anno in anno vede aumentare i fondi disponibili, ai catafalchi centralistici delle Regioni; dall’inflazione legislativa con relativa confusione di competenze tra i diversi livelli dello Stato, alla miriade di organismi inutili, che sopravvivono a se stessi - non si tratta di sprechi semplicemente, ma di una situazione che impedisce o blocca e frena ogni nuova impresa, ogni investimento. Su questa materia, sulla riforma dello Stato, tutte le componenti che hanno dato vita al Pd si sono mostrate essenzialmente conservatrici. Quando hanno proposto qualcosa, lo hanno fatto senza quella radicalità che la situazione storica impone, e alla fine hanno pasticciato invece che riformato. Ultimo capitolo di questa triste istoria, il referendum renziano. Le nuove generazioni da tutto potranno essere attratte fuorchè da una politica di conservazione. Senza una visione di riforma che abbia questa ampiezza, non può riprendersi la sinistra italiana né il Pd. O la loro azione si muove in questa prospettiva, verso questo “fuoco”, o continuerà a disperdersi per centomila mediazioni e compromessi, con il solo risultato di ritardare il definitivo tramonto. È perfettamente inutile, se non ipocrita, denunciare la dilagante presenza di “poltronari” nel gruppo dirigente del partito, se quella genealogia che ho sommariamente indicato non viene messa in discussione. Un partito di mediazione e compromesso non può che generare la classe dirigente che tutta insieme, in solido, le parole di Zingaretti hanno “suicidato”.

Antonio Socci e la crisi del Pd: da anni ha abbandonato i ceti popolari per inseguire il potere e piegarsi all'Ue. Antonio Socci su Libero Quotidiano l'8 marzo 2021. Nicola Zingaretti si è dimesso dalla segreteria del Pd scrivendo: «Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c'è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza». Da 20 giorni? A Zingaretti - che peraltro di poltrone ne aveva due - qualcuno ha sarcasticamente risposto: «Di cos' altro hanno mai parlato?». Ma al segretario dimissionario, secondo cui parlare di poltrone uccideva il partito, aveva già dato una terribile risposta preventiva anche il filosofo della sinistra, Massimo Cacciari: «Il Pd non è un partito, è un insieme di avanzi di partito il cui unico collante è il potere. Deve resistere al governo per esistere. Infatti dove non sono al governo, come in alcune regioni del Nord, vivono uno smottamento completo, hanno zero base sociale. Se salta l'alleanza con i 5stelle loro che fanno? Non hanno strategia, non hanno anima». In effetti appena è crollato il governo Conte è crollata anche la segreteria di Zingaretti e il Pd è precipitato nel caos. Il problema del Pd non è che si parli pure di poltrone, perché la politica è anche potere. Semmai il problema insorge quando c'è "solo" il potere che diventa «l'unico collante» di un partito, come diceva Cacciari. Non a caso il Pd sta al governo da anni, anche se nel 2018 ha toccato il minimo storico e l'ultima vittoria elettorale della sinistra risale al 2006. Com' è stato possibile? Bisogna ricordare la storia recente dell'Italia e dell'Europa. Il peccato originale, per il nostro Paese, è stato l'aver scelto, da 30 a questa parte, la progressiva de-sovranizzazione del Paese (non cercate questo termine nella nostra Costituzione perché non c'è: però c'è nella realtà). Da allora avere il consenso della maggioranza degli italiani non è più stato sufficiente per governare. Infatti è diventato sempre più decisivo il "consenso" dei vari establishment internazionali, dalla Ue, alla Casa Bianca e ai Mercati. Al punto che in Italia si è arrivati - con il patrocinio straniero - a fare governi con il fine esplicito di non far votare gli italiani e personalità eminenti della scena pubblica hanno dichiarato apertamente che l'Europa non avrebbe permesso, per esempio alla Lega, di andare al governo in Italia perché non è sottomessa ai voleri di Bruxelles/Berlino. Basta ricordare Carlo De Benedetti a Otto e mezzo, nel dicembre scorso. La Gruber chiese cosa sarebbe accaduto se, con elezioni anticipate, il Centrodestra avesse vinto le elezioni trovandosi così a gestire la pandemia, il Recovery Fund e l'elezione del prossimo presidente della Repubblica. De Benedetti tranquillamente rispose: «Non credo a questo scenario. Non si tiene conto di quale è la funzione dell'Europa. L'Europa non lo permetterà mai, in un modo o nell'altro, e so che questo verrà anche criticato. Ma comunque Salvini sa di non essere accettato in Europa». L'Ingegnere aggiunse che non era accettato nemmeno da Biden e concluse: «Per cui io questo pericolo che tutti vedete (e che riconosco, in base ai polls, sta nei numeri) io non lo vedo». In parte è stato smentito, perché anche l'establishment ha dovuto prendere atto che il governo Pd/M5S/Leu (minoritario nel Paese) era un disastro, e che - pur senza "concedere" le elezioni (si disse perché c'era l'emergenza) - era necessario che un nuovo governo guidato da Draghi avesse dietro di sé la maggioranza del Paese, quindi i partiti del Centrodestra. Del resto l'Ue non è più quella di prima: c'è stato il QE e poi a causa del ciclone Covid ha dovuto ribaltare tutte le politiche che erano state contestate dalla Lega, prendendo la strada che proprio la Lega da anni indicava. Almeno per ora. In questa sospensione delle ostilità è nato il governo Draghi che riporta un po' la difesa dell'interesse nazionale e - oltre ad aver tolto al Pd il monopolio del potere - lo ha proiettato in uno scenario del tutto imprevisto con la Lega al governo. La sinistra da anni aveva inseguito la legittimazione internazionale piuttosto che quella del voto degli italiani e voleva «delegittimare» come «antieuropeisti» gli avversari perché rappresentavano gli italiani. Così quella sinistra ha abbandonato la difesa dell'interesse nazionale oltreché la rappresentanza dei ceti popolari, sposando le élite (con le loro politiche antipopolari) e sventolando le bandiere ideologiche mainstream. Da qui la crisi del Pd. Chi non ha una propria identità, ma è subalterno al pensiero delle oligarchie, si trova spiazzato e senza più ragion d'essere quando queste cambiano idee e strategie.

Mirella Serri per "la Stampa" il 9 marzo 2021.

Professor Alberto Asor Rosa qual è attualmente lo stato di salute della sinistra italiana dopo lo shock che Nicola Zingaretti ha inferto al Pd con le sue dimissioni da segretario del partito?

«E' assai arduo definire cosa sia in questo momento storico la sinistra in Italia. Dubito che esista una frazione del mondo politico odierno per la quale si possa usare la parola "sinistra"», afferma con convinzione il docente romano. Storico della letteratura, critico letterario e da un po' di anni anche narratore, Asor Rosa è uno degli intellettuali che più hanno orientato il corso della cultura ma anche della politica italiana di sinistra dagli anni Sessanta in poi. L'addio di Zingaretti alla segreteria del Pd è l' ultimo atto di una vicenda che, dalla nascita del partito nel 2007, ha visto alternarsi al vertice otto segretari in 14 anni. Una storia fatta di dimissioni anticipate e incarichi ad interim.

Come la giudica?

«Da tempo, nelle forze politiche di un certo rilievo la connotazione di "sinistra" è più o meno assente. Forse la componente estrema che va da Liberi e Uguali a Sinistra italiana può aspirare a definirsi di sinistra. Ma perfino a loro manca un significativo rapporto con le classi popolari.

Ho seguito con attenzione Zingaretti quando domenica ha esposto le sue ragioni nel programma tv di Barbara D' Urso. Nicola mi ha deluso parecchio. Con mia sorpresa, ha tracciato un quadro del Pd molto positivo. Lo ha descritto come un partito nel quale sono presenti forze sane che possono reagire alla situazione data. Ma allora, perché se n' è andato? Doveva restare a combattere assieme con quella parte del partito nella quale ripone fiducia».

Dunque considera incoerenti, incomprensibili le sue dimissioni?

«Trovo coerenza solo se penso alle parole usate dal segretario dimissionario quando aveva annunciato di lasciare, e non invece a quelle pronunciate dalla D' Urso. Se è vero che nel Pd, in una fase così grave della vita del paese, si parla solo di poltrone e di primarie, come aveva detto Zingaretti, il suo gesto ha un senso. Ma è anche la testimonianza di un problema di enorme portata: neppure dentro al suo partito vi sono energie in grado di cavalcare la crisi e di portarla a un esito positivo?».

Come si è giunti a questo punto drammatico?

«Nel Pd vi erano serie difficoltà preesistenti che sono precipitate con l' avvento del governo di Mario Draghi. Si tratta di una compagine che prescinde dalle dinamiche di un sistema democratico rappresentativo, che nasce fuori dal Parlamento e che ha accentuato la fragilità delle forze politiche».

Il governo Draghi ha rappresentato uno tsunami che si è abbattuto su tutti i partiti causando disastri nella medesima misura?

«Non direi. Lo schieramento che definirei vagamente di centro-sinistra è stato sottoposto a una lacerazione strutturale, più drammatica di quella che ha interessato le forze di centro-destra. Il M5S era un alleato abbastanza naturale del Pd: questi due partiti avrebbero potuto portare il precedente governo alla fine della legislatura».

Zingaretti afferma il suo diritto di andare nel salottino pop della D' Urso sostenendo che «il populismo si combatte senza la puzza sotto al naso». E' così che la sinistra può conquistare nuovi consensi?

«Io non sarei mai andato a "Domenica live". Ma non condivido le animate critiche all' apprezzamento di Zingaretti per quello spazio televisivo. Si tratta di una scelta personale che non mi sento di condannare. Lo dico con una battuta: non ci sono più i partiti di una volta...».

Cos' è cambiato?

«Sono mutati i modelli di elaborazione del discorso politico. Il Pci era profondamente radicato nel corpo della società italiana. Prevaleva il comando politico ma la rappresentatività popolare era imprescindibile. Questo valeva anche per la Dc. Tutto ciò è venuto via via a mancare. Ora non vi è più né rappresentatività né comando».

Lei nel 1977 pubblicò il saggio "Le due società" in cui descriveva una spaccatura profonda tra garantiti e non garantiti che metteva in crisi le tradizionali basi sociali dei partiti. Oggi che succede?

«Nella realtà attuale la Lega rappresenta le forze produttive e le aree industriali del centro-nord. Le forze di sinistra, invece, non hanno più i riferimenti "classisti" di un tempo, la loro rappresentatività è quasi zero, sono sempre più paralizzate dall' impossibile scelta fra garantiti e non. E per di più la pandemia sta accentuando la frammentazione del tessuto sociale».

In questo contesto assolutamente nuovo, quale può essere la funzione degli intellettuali e della letteratura, argomenti a cui ha dedicato molte sue riflessioni e passioni?

«Gli intellettuali e la letteratura sono completamente usciti di scena. Ciò è l' espressione di quella rottura fra orientamenti politici e società italiana che si è ingigantita negli ultimi tempi. Mentre la politica ignora il mondo della cultura, quest' ultimo a sua volta sembra disinteressarsi dell' universo politico, forse perché non è più in grado di parlare una lingua che gli sia comprensibile».

DiMartedì, Rosy Bindi: "Il Pd non è mai nato. Zingaretti? Altro che dimissioni, come sarebbe stato utile". Libero Quotidiano il 10 marzo 2021. A DiMartedì - il talk politico condotto da Giovanni Floris e in onda su La7 - si è ampiamente dibattuto della crisi del Partito Democratico, che non ha più un segretario dopo le dimissioni (irrevocabili?) di Nicola Zingaretti ed è pure in caduta libera nei sondaggi, tanto da essere stato messo nel mirino da Giorgia Meloni, che ambisce apertamente al ruolo di secondo partito italiano, alle spalle della Lega di Matteo Salvini. Da Floris è intervenuta Rosy Bindi, che senza mezzi termini ha dichiarato che il Pd non è mai nato davvero. “Ritengo che quella sintesi tra le culture fondative del’Ulivo e poi del Pd non è mai avvenuta”, ha spiegato l’ex ministra che poi ha aggiunto: “La vera crisi del Pd è questa anche oggi e forse impone di ripercorrere la strada di questi anni con preoccupazione e di interrogarci su cosa fare”. A riguardo la posizione della Bindi è chiara: “Non credo sia arrivato il momento di andare oltre il Pd, ma piuttosto di preoccuparsi di costruire l’intero campo del centrosinistra”. Infine l’ex ministra si è espressa su Nicola Zingaretti, le cui dimissioni hanno spiazzato tutti o quasi anche all’interno del partito: “Se Zingaretti ha fatto una scelta così grave evidentemente ha avuto i suoi motivi. Questo è un momento drammatico per il Pd, personalmente credo che forse se si fosse presentato in assemblea e avesse chiesto di pronunciarsi su una linea politica sarebbe stato più utile”. 

Da liberoquotidiano.it il 9 marzo 2021. Si parla ancora di Nicola Zingaretti a Otto e Mezzo. Il fu segretario del Partito democratico è da giorni sulla bocca di tutti, più che per le sue dimissioni per l'elogio a Barbara d'Urso. Il governatore del Lazio non solo ha espresso tutta la sua solidarietà alla notizia che la conduttrice avrebbe dovuto anticipare la fine di Live-Non è la d'Urso. Ma ha anche deciso di concedere la prima intervista da segretario di partito uscente. "Una buona notizia" per Alessandro Sallusti che, ospite di La7, ha apprezzato il gesto fatto alla vigilia dell'8 marzo. E ancora: "Sarà anche vero che la d'Urso non ha messo all'angolo il suo interlocutore, ma quanti lo fanno?". Una chiara frecciatina che aizza Lilli Gruber: "Ti volevo aggiornare che nel 2021 non funziona così, questo discorso non so neanche se valesse trenta anni fa". Ma a Sallusti importa ben poco tanto da ricorda alla conduttrice come numerosi telespettatori di Canale 5, in particolare della d'Urso, siano di sinistra. "Se pensiamo il contrario siamo fermi a una logica di vent'anni fa", ha tuonato scatenando ancora una volta la Gruber. "No - si è subito difesa -, non era assolutamente questo il punto del dibattito". Strano ma vero a intervenire in difesa del direttore del Giornale, Laura Boldrini: "Non penso si possa banalizzare, semplificare tutto. Non penso che con un'intervista a Barbara d'Urso si pretende di portare il Pd a sinistra". Per la deputata dem Zingaretti ha semplicemente fatto un'intervista in quella trasmissione, "questo non significa che lui in questi anni non abbia fatto nulla". Da qui l'auspicio: "Spero che il Pd avvii il processo di trasformazione che ancora non è stato avviato. Chiunque sarà il successore di Zingaretti, non abbandonerà quella strada di apertura, l'unica possibile per rimettere il Pd in carreggiata".

Da tgcom24.mediaset.it il 9 marzo 2021. Nicola Zingaretti non sembra avere voglia di scherzare dopo le sue dimissioni da segretario del Pd, almeno non con "Striscia la Notizia". Il leader dem ha infatti rifiutato il Tapiro d'Oro che Valerio Staffelli ha cercato di consegnargli dopo la sua partecipazione al programma di Canale 5 "Live Non è la D'Urso". "Simpatici voi di Mediaset, prima invitate alle trasmissioni poi fate le trappole", ironizza il governatore laziale cercando di seminare l'inviato del tg satirico. "La politica è una cosa seria e va rispettata", aggiunge Zingaretti prima di salire in auto lasciando l'ambito premio nelle mani del "povero" Staffelli.

Le dimissioni di Zingaretti sono una fuga: il Pd non riesce a stare al passo con Draghi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Se Zingaretti ha dato le dimissioni per fare un colpo di teatro che ha per obiettivo quello di essere rieletto per acclamazione all’assemblea nazionale costringendo al silenzio almeno per qualche mese gli odiati renziani, alcuni sindaci e Bonaccini, allora nulla quaestio: rientra nelle regole del gioco. Ovviamente i riflessi di questa iniziativa sull’elettorato, sull’Unione Europea e sul terreno della credibilità del partito sono tutti da verificare, ma con la velocità con cui oramai i media e i social metabolizzano tutto è possibile che entro marzo (se l’assemblea viene celebrata il 13 e il 14 di questo mese) venga tutto riassorbito e si passi a qualche altro casino rilevante, tanto manca solo l’imbarazzo della scelta. Più complesso sarebbe il giudizio, ma saremmo sempre sul piano della logica politica, qualora le dimissioni costituiscano un modo abbastanza tortuoso per marcare il distacco dalla presidenza Draghi di tutta quella parte del Pd, riconducibile all’antica “ditta”, che aveva fino all’ultimo gridato: “Conte o le elezioni”. In questo caso Zingaretti sarebbe una sorta di testimonial di questa area che si rivolge in primo luogo a Mattarella e gli dice: «Caro presidente, noi avremmo gradito che tu avessi dato il terzo incarico a Conte perché siamo sicuri che a quel punto nel suk del Senato avremmo trovato i numeri necessari. Invece tu hai seccamente rifiutato questa ipotesi e hai aperto tutto un altro corso di carattere riformista ed europeista e hai messo in gioco perfino la Lega.  A quel punto non potevamo certamente dire di no, me è bene che si accolli qualcun altro la responsabilità di guidare il Pd in questo contesto del tutto nuovo. Intanto oltre alle mie dimissioni diamo qualche altro segnale: i più faziosi di noi come Fabrizio Barca, Giuseppe Provenzano, Antonio Misiani contestano il governo per le consulenze alla McKinsey, adesso leggo Polillo che li mette alla berlina, ma si tratta di un primo calcio negli stinchi anche se tirato in modo scomposto». È evidente che questa seconda ipotesi comporterebbe giudizi assai più complessi e per parte nostra del tutto negativi, ma saremmo comunque sul piano della logica politica. Allo stato non siamo in grado di valutare la veridicità di una di queste ipotesi per spiegare le dimissioni di Zingaretti. Qualora però non siano queste le motivazioni, allora francamente ci cadrebbero le braccia. In primo luogo, il suo attacco “mi vergogno del PD etc.” non è tale da giustificare le dimissioni da segretario, ma da motivare l’uscita dal partito. Andiamo oltre, al merito delle dichiarazioni di dimissioni. Ma alla sua età, essendo stato presidente della Provincia di Roma, poi presidente della Regione Lazio, quindi anche segretario nazionale del partito, Zingaretti scopre all’improvviso che il PD è diviso in correnti e che queste si distribuiscono i posti di governo e di sottogoverno? Ma, di grazia, come presidente della Regione Lazio quanti incarichi per assessorati e presidenze di azienda egli ha assegnato dopo un serrata trattativa con le altre correnti del suo partito? Anche adesso, in occasione della formazione del governo, egli stesso è arrivato al punto di togliere dall’economia un sottosegretario molto stimato per le sue competenze come Misiani, per sostituirlo con l’assessore al Bilancio della Regione Lazio Alessandra Sartore allo scopo di aprire uno spazio in giunta all’ingresso di Roberta Lombardi autorevole esponente dei grillini. Insomma, quando Zingaretti dichiara che una delle ragioni delle sue dimissioni è costituito dall’esistenza delle correnti nel Pd che si dividono i posti fa un atto così singolare che potrebbe essere assimilato solo a un’altra ipotesi, che il dott. Salvi, procuratore generale della Cassazione, si dimettesse con la motivazione di aver appreso dal libro di Palamara e di Sallusti che l’Anm e perfino il Csm sono divisi in correnti e che le cariche, compresa la sua, sono state assegnate anche sulla base di una contrattazione e di una spartizione fra esse. L’altra motivazione di Zingaretti è stata quella di essere stato sottoposto da un continuo “martellamento” di polemiche da parte di esponenti del suo partito. Qualche osservatore esterno, un po’ malevolo, potrebbe rispondergli che, con tutti gli errori da lui commessi in questi due anni, è il minimo sindacale che poteva capitargli. Ma questa è già una risposta di merito. Forse chi fa politica e che addirittura diventa presidente di una Regione e segretario nazionale di un partito non mette in conto di ricevere almeno dieci attacchi al giorno e non si attrezza per rispondere o anche per ignorarlo? Possibile che Zingaretti all’improvviso sia diventato così ipersensibile e così delicato? Adesso si parla delle aborrite correnti nel Pd è chiaro che chi le condanna sotto sotto rimpiange il centralismo democratico esistente nel meraviglioso Pci. Ma perché anche sotto quel regime forse i dirigenti del Pci si accarezzavano e lodavano l’un l’altro, magari prendendo il tè durante i Comitati Centrali e le direzioni? Ma Togliatti, che era Togliatti, e che a sua volta non scherzava (basta pensare al trattamento che riservò al povero Di Vittorio, a Secchia e a Valdo Magnani), nel 1961, dopo il XXII Congresso del Pcus non fu attaccato molto duramente da Amendola, Pajetta e Alicata? E a quel punto che fece Togliatti, si mise a piagnucolare o si dimise? No, minacciò di presentare una sua mozione e poi disse ad Amendola che era ancora un provinciale e che avrebbe dovuto viaggiare più spesso nei paesi dell’Est. Questo e altro comparve sui giornali borghesi. E Ingrao avrebbe dovuto suicidarsi dopoché all’XI Congresso, per aver fatto un distinguo (non direi la verità se dicessi che mi avete convinto), fu sottoposto ad attacchi durissimi di Alicata e di Pajetta? Quindi se davvero Zingaretti si è dimesso perché all’improvviso ha scoperto l’esistenza delle correnti o perché Nardella, Bonaccini e Gori lo hanno criticato, francamente si rimane sorpresi. Non si può fare a meno di rilevare il momento in cui egli ha fatto tutto ciò. È un momento drammatico per l’Italia e una fase in cui è nato un nuovo governo con Mattarella che ha chiamato a presiederlo l’unica personalità di rilievo di cui oggi dispone l’Italia, cioè Mario Draghi. Per di più si tratta di un governo dal chiaro indirizzo riformista, europeista, garantista che casomai dovrebbe creare seri problemi per starci dentro a Salvini e alla Lega, non certo al Pd. Invece, grazie a Zingaretti, ma non solo a lui, le parti si sono rovesciate. I ministri della Lega Giorgetti e Garavaglia (così come la Gelmini, Brunetta e la Carfagna per Forza Italia) stanno sul pezzo con grande efficienza e lealtà, Salvini per un verso con i sottosegretari ha coperto tutti i dicasteri delicati e poi, siccome rimane sempre Salvini, fa anche uscite del tutto a sproposito specie in materia di sanità e di vaccini. Invece Zingaretti ha lasciato scoperto nel governo proprio i dicasteri più delicati, cioè la Salute, l’Interno e, di fatto, l’Economia. Ma poi al di là della contingenza c’è una questione molto più profonda con cui il Pd dovrebbe misurarsi. Draghi sta spingendo al massimo livello il riformismo e l’europeismo del governo, ma il Pd è capace di competere davvero su quel terreno, quello del riformismo, dell’europeismo e del garantismo, proprio in sede di elaborazione del Recovery Plan? Vedendo le prime sortite dei Fabrizio Barca e dei Giuseppe Provenzano non sembra. E allora, può anche darsi che quella di Zingaretti sia una fuga davanti a responsabilità assai più impegnative di quelle evocate (le correnti e i maltrattamenti).

Quanto era più facile delegare tutto a Conte e a Casalino (e per altri aspetti sulle cose più drammatiche a Speranza e a Boccia)? Solo che Conte e Casalino avevano portato il paese in un vicolo cieco e l’errore più grave di Zingaretti è stato quello di non averli fermati in tempo, lasciando così un enorme spazio politico a Renzi (poi perché si è trattato di Renzi, che è il principale nemico di se stesso, prima egli ha fatto una mossa di straordinaria positività e importanza per il paese a cui ha fatto seguire un’incredibile cazzata andando a fare i salamelecchi al principe assassino). Come si vede, le dimissioni di Zingaretti aprono mille problemi, piccoli, medi e grandissimi.

Pd: Casalino, mia frase infelice, mi scuso ancora. (ANSA il 9 marzo 2021) "Mi sono già scusato in diretta per la mia frase che è stata oggettivamente infelice, soprattutto per l'espressione usata. Ciò che volevo dire è che il PD è una comunità fatta di tante persone straordinarie come Zingaretti e tanti altri che ho avuto modo di conoscere di persona. Ma che al suo interno, purtroppo, ci sono alcune persone che lavorano per distruggere ciò che tutti gli altri costruiscono con fatica e sacrificio, che per una mera lotta di potere minano il concetto più nobile del fare politica. Ad ogni modo mi scuso ancora per l'espressione usata". Così l'ex portavoce di Giuseppe Conte, Rocco Casalino, torna a scusarsi per le espressioni usate nei confronti del Pd.

Pd: Sensi, Casalino gioca su malattia, abbia rispetto.  (ANSA il 9 marzo 2021.) "Leggo che il portavoce - ex? - di un ex presidente del consiglio andrebbe in tv a dire che nel Pd ci sarebbero dei cancri da estirpare. Non so se alluda a persone o a cosa. Non ho mai commentato, per indole e garbo, il suo comportamento professionale quando era al governo. Ma che vada in giro, e alla Rai - vorrei verificare meglio - a giocare sulla malattia, sulla pelle degli altri e sulla dignità di una comunità politica, la mia, anche no. Non sarò io a fare interrogazioni, a chiedere dimissioni o prese di distanza, ma un minimo di rispetto sì". Lo scrive su Twitter il deputato Pd Filippo Sensi, commentando le frasi pronunciate sul Pd da Rocco Casalino in un'intervista tv.

Pd:Orfini, dopo parole Casalino chiusa una stagione. (ANSA il 9 marzo 2021) "Secondo il portavoce del presunto punto di riferimento di tutti i progressisti, nel Pd ci sono "cancri da estirpare". Direi che possiamo considerare questa garbata esternazione la chiusura di una stagione piuttosto infelice. E magari cominciare a ricostruire senza subalternità". Lo scrive su Twitter Matteo Orfini, parlamentare del Partito Democratico.

Rocco Casalino a Oggi è un altro giorno: "Nel Pd ci sono dei cancri da estirpare", esplode il caso.

Da liberoquotidiano.it il 9 marzo 2021. Il tour televisivo di Rocco Casalino prosegue a Oggi è un altro giorno, il programma di Serena Bortone in onda su Rai 1. L'ex portavoce di Giuseppe Conte continua a impazzare nella sua nuova veste di prezzemolino, impegnatissimo a promuovere il suo libro, Il Portavoce appunto. E tra i racconti personali, tra un elogio a Conte e l'altro, tra il passato e l'infanzia difficile, c'è ovviamente tempo e modo per parlare di politica. Quella politica in cui Casalino vorrebbe continuare a muoversi, che insomma non vorrebbe abbandonare, tanto da non aver escluso, recentemente, neppure l'ipotesi, un giorno, di candidarsi da qualche parte. Ma il punto è che dalla Bortone, dalla bocca di Casalino, è uscita una frase terrificante, inaccettabile, che sta facendo moltissimo rumore. Si parlava delle dimissioni di Nicola Zingaretti, del caos che sta travolgendo il Pd, della consueta guerra tra bande, dal congresso e dalle lotte interne per la successione a Zingaretti. E tra un ragionamento e l'altro, Casalino ha detto quanto segue: "Nel Pd ci sono persone straordinarie come Nicola Zingaretti e Dario Franceschini, ma ci sono dei cancri che vanno estirpati". Testuali parole: "Dei cancri che vanno estirpati". Parole che stanno sollevando un polverone sui social e che, per certo, catalizzeranno dure reazioni politiche.

"Tra i dem cancri da estirpare": Casalino a gamba tesa sul Pd. Nell'ennesima intervista televisiva, Rocco Casalino ha attaccato il Partito democratico per difendere Nicola Zingaretti, fresco di dimissioni. Francesca Galici - Mar, 09/03/2021 - su Il Giornale. Ha detto che sarebbe stata l'ultima. Forse per questo Rocco Casalino, che questo pomeriggio è stato ospite di Serena Bortone su Rai1 nel programma Domani è un altro giorno, ha scatenato il panico nel Pd. Nelle ultime settimane, il portavoce dell'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha presenziato in tantissime trasmissioni televisive di qualunque rete. Terminata l'esperienza a Palazzo Chigi, Rocco Casalino ha conservato l'amicizia con l'ex premier, al fianco del quale pare continuerà a lavorare anche nell'ottica di una possibile candidatura dell'avvocato a presidente del Consiglio. Ma da Serena Bortone, Rocco Casalino ha commentato anche gli ultimi fatti politici, soprattutto quelli che riguardano il Partito cemocratico e le dimissioni di Nicola Zingaretti. "Ci sono alcune persone del Pd che sono straordinarie come Zingaretti e anche Franceschini che ho conosciuto. E poi ci sono alcuni cancri che riescono a distruggere il bello del Pd. Bisognerebbe estirpare questi cancri. Forse ho usato un'espressione sbagliata, diciamo questi elementi negativi", ha detto l'ex portavoce. Parole molto forti, che Rocco Casalino ha immediatamente corretto con un'espressione più edulcorata, che non è comunque servita a preservarlo dalle inevitabili critiche piovute dal Pd. "Leggo che il portavoce - ex? - di un ex presidente del consiglio andrebbe in tv a dire che nel Pd ci sarebbero dei cancri da estirpare. Non so se alluda a persone o a cosa", ha scritto Filippo Sensi, che poi ha continuato: "Non ho mai commentato, per indole e garbo, il suo comportamento professionale quando era al governo. Ma che vada in giro, e alla Rai - vorrei verificare meglio - a giocare sulla malattia, sulla pelle degli altri e sulla dignità di una comunità politica, la mia, anche no. Non sarò io a fare interrogazioni, a chiedere dimissioni o prese di distanza, ma un minimo di rispetto sì". Anche Enrico Borghi su Twitter ha commentato l'accaduto: "Mi hanno insegnato da piccolo che quando cominciano ad insultarti hai iniziato a vincere la partita. Oggi, dopo giorni di una sequela di altissime perle, abbiamo raggiunto l'acme e siamo stati annoverati 'cancri da estirpare'. Ben arrivato sul terreno della sconfitta, ing. Casalino". E poi ancora l'onorevole Andrea Romano: "Non è in alcun modo tollerabile che qualcuno (#Casalino o chiunque altro) definisca il Pd un corpo con 'cancri da estirpare', per di più su una rete del servizio pubblico. L'Amm Delegato Rai e il Direttore di Rai1 ne dovranno rispondere in #Vigilanza #orabasta". Non è la prima volta che un'intervista Rai di Casalino desta polemiche. Intanto, nel corso dell'intervista, Rocco Casalino si è detto dispiaciuto per la decisione di dimettersi di Nicola Zingaretti, che per lui "ha fatto una cosa intelligente altrimenti lo consumavano, lo logoravano, sottraendosi prima e così resta con un consenso e una credibilità altissima e se la merita tutta". Sono poi arrivate le scuse di Rocco Casalino: "Mi sono già scusato in diretta per la mia frase che è stata oggettivamente infelice, soprattutto per l'espressione usata. Ciò che volevo dire è che il PD è una comunità fatta di tante persone straordinarie come Zingaretti e tanti altri che ho avuto modo di conoscere di persona. Ma che al suo interno, purtroppo, ci sono alcune persone che lavorano per distruggere ciò che tutti gli altri costruiscono con fatica e sacrificio, che per una mera lotta di potere minano il concetto più nobile del fare politica. Ad ogni modo mi scuso ancora per l'espressione usata".

La bufera sull'ex portavoce di Conte. “Cancri da estirpare nel PD”, Casalino lancia bordate ai Dem per "difendere" Zingaretti e Conte. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Nel Partito Democratico che il 13 e 14 marzo prossimi dovrà chiarire quali mosse mettere in campo dopo le dimissioni del segretario Nicola Zingaretti scoppia un nuovo bubbone. Il partito è in subbuglio per le dichiarazioni dell’ex portavoce di Giuseppe Conte, Rocco Casalino, che intervenendo alla trasmissione Oggi è un altro giorno su Rai1, ha duramente criticato il partito: “Nel Pd – ha accusato – ci sono persone straordinarie come Nicola Zingaretti e Dario Franceschini, ma ci sono dei cancri che vanno estirpati“. Parole che non potevano non generare una reazione immediata nei confronti di Casalino e di tutto ciò che si porta dietro l’ex portavoce di Conte: il suo ruolo di ‘spin’ dell’ex premier e di artefice della possibile alleanza dei ‘progressisti’ attorno proprio al nome dell’avvocato pugliese, ipotesi caldeggiata da Zingaretti in un ‘o Conte o morte’ e naufragata col varo del governo Draghi. Le parole imbarazzanti di Casalino risuonanon infatti in un partito dove ancora oggi sono molti i ‘settori’ che lavorano all’alleanza con i Cinque Stelle guardando alla figura di Giuseppe Conte quale interlocutore. Non a caso punta su questo Matteo Orfini, della minoranza Dem, che ricordando le parole del “presunto punto di riferimento di tutti i progressisti, possiamo considerare questa garbata esternazione la chiusura di una stagione piuttosto infelice. E magari cominciare a ricostruire senza subalternità”. Contro Casalino su Twitter si sono scagliati anche Giuditta Pini e Andrea Romano. La prima spiega: “Ciao Rocco Casalino, sono uno dei cancri da estirpare? Vorrei capire. Se vuoi ci vediamo e me lo dici di persona. Attendo con ansia il tuo coraggioso riscontro”, mentre per Romano “non è alcun modo tollerabile che qualcuno (#Casalino o chiunque altro) definisca il Pd corpo con “cancri da estirpare”, per di più su una rete del servizio pubblico. L’Amm Delegato Rai e il Direttore di Rai1 ne dovranno rispondere in Vigilanza #orabasta”. Una giornataccia quella del Partito democratico. Prima della sparata di Casalino era arrivata anche quella di Mattia Santori, il volto delle Sardine reduce dal weekend in cui ha “occupato” il Nazareno. Intervistato da Repubblica, Santori aveva definito il partito “tossico”, suscitando l’ira della presidente Dem Valentina Cuppi, che sabato scorso lo aveva ricevuto con una delegazione per ben quattro ore. È un momento molto complesso per la storia del Partito democratico – ha scritto Cuppi in una nota – Non ci siamo sottratti al confronto, io ho ascoltato anche le dure critiche che sono state fatte, promosso l’autocritica. Ma una comunità va rispettata, è fatta di persone, del lavoro e dell’impegno di tanti che anche nei territori hanno sempre portato avanti l’idea di un partito fondato su valori e principi ben saldi. Ciò che è stato detto, la definizione data di ‘partito tossico’, è un’offesa a tutta la comunità del Pd e non è per nulla costruttivo, è solo distruttivo”. La frittata di Casalino ha costretto l’ex portavoce di Conte a fare marcia indietro e a scusarsi: “La mia frase è stata oggettivamente infelice,  soprattutto per l’espressione usata. Ciò che volevo dire – ha detto Casalino – è che all’interno del Pd, purtroppo, ci sono alcune persone che lavorano per distruggere ciò che tutti gli altri costruiscono con fatica e sacrificio, che per una mera lotta di potere minano il concetto più nobile del fare politica. Ad ogni modo mi scuso ancora per l’espressione usata”.

La nuova strategia di Nicola Zingaretti: "Vuole fare il sindaco di Roma". Carmine Fotia su L'Espresso l'8 marzo 2021. Il segretario dimissionario del Pd avrebbe intenzione di candidarsi per il Campidoglio. E per ricostruirsi l’immagine di politico "dalla parte delle persone" ha deciso di farsi intervistare, di nuovo, da Barbara D’Urso. “Ormai ha deciso, farà il sindaco di Roma”. Questa è la previsione fornita all’Espresso da fonti consultate dopo l’intervista di Nicola Zingaretti a Barbara D’Urso. Si tratta di fonti che lo conoscono molto bene e che conoscono le dinamiche interne del Pd. Del resto, dal salotto pop di Canale 5, scelto in contrapposizione ai salotti radical-chic, il messaggio che arriva non è certo quello di un ritiro dalla scena politica. Al contrario, irrompe sulla scena politica un Zingaretti diverso: disteso, sorridente, ironico e a tratti anche sferzante contro i capicorrente: «Tutti volevano il Conte-2, poi quando mi sono girato non c’era più nessuno», dice e così spiega con il tradimento dei dirigenti il fallimento della linea “O Conte o Elezioni” che ha portato il Pd in un vicolo cieco e all’insignificanza politica. È un Zingaretti 2.0, a suo agio fuori dai palazzi e “dalla parte delle persone” (un tempo si diceva “in mezzo alla ’ggente”), che mostra l’attitudine a un populismo dal volto umano del tutto simile a quello professato da Giuseppe Conte, non a caso l’unico (oltre a Goffredo Bettini) avvertito preventivamente della scelta delle dimissioni. Non si spiegherebbe altrimenti l’inusitata asprezza del linguaggio usato dal solitamente cauto Nicola: «Mi vergogno del mio partito». La “vergogna”, non per sé o per i propri errori, ma per la malvagità degli avversari. Sappiamo da tempo che le emozioni e i sentimenti hanno un’enorme influenza sui comportamenti delle persone e che dunque la politica ne è fortemente influenzata. Così, al tempo dei social, ogni politico sceglie una narrazione che possa affascinare gli elettori. Le parole, i gesti, i luoghi sono gli strumenti attraverso cui essa si costruisce. Ecco Zingaretti che svergogna gli oligarchi del partito, che rivendica con orgoglio di essere stato l’unico leader politico ad aver twittato in difesa della trasmissione dell’Amica del Popolo e che, quindi, tornando in quel contesto semantico, sceglie per sé l’immagine del Re buono che si ribella alla corte e ai suoi intrighi e torna a immergersi nel suo popolo per ritrovare la forza delle origini. E pronto a fare quello che sa fare meglio: una campagna elettorale casa per casa, in un territorio che governa, per lo più bene, in ruoli diversi da quasi vent’anni, con un sistema di sottogoverno molto esteso e dove vince da sempre. Tante cose stanno andando in quella direzione: l’avvio della discussione con consenso bipartisan di una nuova legge su Roma Capitale che renderebbe ancor di più la carica di Sindaco di Roma una delle più importanti d’Italia, oltre che una grande vetrina internazionale. Da “Barbara”, “Nicola” dice che “per ora” fa il presidente della Regione, ma quando parla del sindaco di Roma prevede che «nei prossimi anni sarà un lavoro bellissimo» e gli brillano gli occhi. Quanto alle condizioni politiche, l’ingresso in giunta dell’esponente grillina Roberta Lombardi, una delle fondatrici del movimento e sua sfidante alle ultime elezioni, renderebbe le sue dimissioni anticipate dalla carica del tutto indolori (a Roma si dovrebbe votare nel 2021, in regione due anni dopo): un ticket Zingaretti a Roma e Roberta Lombardi in regione sarebbe probabilmente imbattibile. Dal punto di vista del Pd e della politica nazionale, non è affatto una resa: Zingaretti e Bettini scelgono il terreno più favorevole e la ribalta più prestigiosa per sperimentare qualcosa che travalichi un Pd ormai considerato una bad company. È molto significativa la scelta di rilanciare Piazza Grande, l’area movimentista che ha accompagnato l’ascesa alla guida del Pd di Nicola Zingaretti, ma poi mai utilizzata davvero per scardinare gli assetti del potere dem e finita in un “Vicolo Stretto”, come ha scritto amaramente ieri sul Manifesto Massimiliano Smeriglio, che ne è stato il coordinatore. Ora potrebbe essere una specie di infrastruttura esterna che sorregga un nuovo soggetto politico che aggreghi coloro pronti a consegnare a Giuseppe Conte capo di M5S convertito al populismo buono la leadership di un’alleanza che tenga fuori centristi e riformisti liberal. È più o meno il partito disegnato da Roberto Speranza, in un’intervista al Corriere della Sera. Che si tratti della fusione in un solo partito o dell’alleanza tra due soggetti diversi dipende da come si scioglierà il nodo della segreteria nel Pd. Se il Pd finisse di nuovo nelle mani degli odiati ex-renziani o di coloro che non se ne voglio liberare, le strade si separerebbero. È del tutto evidente che nelle prossime settimane così decisive non può restare acefalo un partito che comunque è uno dei principali partiti del governo. Non sarà tuttavia facile fare il segretario di un partito del quale il tuo predecessore si vergogna. Soprattutto inutile, se il Pd non si domanda chi davvero vuole essere prima ancora che con chi si vuole alleare. Nicola Zingaretti l’ha detto e va nella sua “direzione ostinata e contraria”. Gli altri, i riformisti, i cattolici democratici, i sindaci che lo criticano, no. Sul ponte del Titanic si balla ancora.

Il Pd ormai sembra una puntata di Quark. Luca Bottura su L'Espresso l'8 marzo 2021. Gli atomi presenti al Nazareno, benché apparentemente vitali, procedono compatti verso l’autodistruzione. Recensioni senza inutili millanterie. Partito Democratico. Nebulosa intergalattica. Com’è noto, la Nasa sta cercando vita su Marte con discrete speranze di trovarne almeno un anelito. Meno diffusa è la notizia secondo cui pochi giorni fa, con lo stesso proposito, Cape Canaveral aveva pensato di spedire Perseverance nella sede del Pd. Il progetto è stato abbandonato in virtù di un calcolo probabilistico secondo cui gli atomi presenti al Nazareno, benché apparentemente vitali, procedono compatti verso l’autodistruzione. Dunque eventuali batteri risulterebbero come certe supernove che osserviamo col telescopio astronomico: ancora ci paiono brillare, per via della distanza, ma in realtà si sono spente millenni fa. I parallelismi non finiscono qui. Anche Marte è molto meno rosso di quel che sembra, visto da vicino. È arido, disabitato. E ospita lo stesso numero di iscritti a Italia Viva presenti sulla Terra: nessuno. Inoltre esiste da tempo immemorabile, qualcuno spera possa rivestire una funzione, ma nessuno è in grado di stabilire a priori quale. Questo per la scienza. La leggenda narra inoltre che un tempo il Partito Democratico fosse abitato e addirittura rigoglioso. Poteva contare su un numero rilevante di sostenitori e perseguiva politiche intellegibili. A un certo punto però un meteorite si schiantò sul suolo del pianeta producendo un curioso rumore di tregenda: #bastaunsì. Proprio come per i dinosauri sulla Terra, sopravvissero solo le specie più piccole che seppero adattarsi al clima ostile e irrespirabile. Oggi, i superstiti del meteorite #bastaunsì albergano ancora sul pianeta Pd e lo indeboliscono, rendendolo instabile e vuoto. Secondo altri studiosi, il corpo celeste sarebbe abitato anche da una civiltà che nessuno è mai riuscito a intercettare: gli Zingaretti. Un recente studio pubblicato su Lancet propende per la loro invisibilità, mentre il professor Joseph St. Catsee dell’Università di Yalem sostiene che gli Zingaretti vivrebbero nel sottosuolo per terrore dei #bastaunsì e per questo rifuggirebbero ogni contatto con l’esterno. Questo atteggiamento li avrebbe resi col tempo fragili e impauriti, incapaci di ascoltare le offerte di aiuto che vengono da altri pianeti, autoriferiti e soprattutto in balia delle correnti sotterranee che prima o poi, più facilmente prima, dovrebbero condurli alla definitiva estinzione. Intanto, le Cinque Stelle si sono trasformate in un buco nero che sta per attrarre il Pianeta Pd e la costellazione della Lega brilla nel cielo buio sfruttando la luce riflessa della Costellazione del Drago. Per questa puntata di Quark Cosa di Sinistra è tutto. Arrivederci a chissà quando. Giudizio: assente

Basta politicismi. “Pd ucciso da correnti e senza idee: è il momento di ripartire da zero”, intervista ad Achille Occhetto. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 6 Marzo 2021. La “tragedia Pd” rivisitata da Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci e il primo segretario del Partito democratico della sinistra, oggi “battitore libero” della sinistra. Un “battitore” che non le manda a dire.

Nel commentare a caldo l’annuncio di Nicola Zingaretti di rassegnare le dimissioni da segretario del Partito democratico, lei ha utilizzato una parola forte: tragedia.

La scelta non è una tragedia in sé ma è la testimonianza di una tragedia. Ed è esattamente la tragedia messa in luce da Zingaretti con la sua dichiarazione. Zingaretti ha rivelato qualcosa che in fondo sapevamo ma che detta da un segretario dello stesso partito rende un peso diverso, e cioè che il Pd si era ormai ridotto a un partito di correnti, dominato da signori della guerra attenti alle posizioni di potere, agli organigrammi che non alle idee. Questa rivelazione fatta addirittura dal segretario dello steso partito, è la testimonianza di una tragedia in atto, che per me è una sorpresa fino a un certo punto perché, a mio avviso, è l’epilogo del punto di partenza sbagliato con cui si è costruito il Partito democratico. Ho detto per primo, anche se poi questa frase è stata ampiamente ripresa successivamente, che il difetto di fabbrica del Pd era di essere una fusione a freddo di apparati. Questa fusione ha portato, purtroppo, a questo epilogo. Un epilogo triste, tragico, ma scritto nel dna di un partito nato male e che ora rischia di finire peggio.

Epilogo. Oggi (ieri per chi legge) questo giornale titola a tutta pagina: “Il Pd era morto e adesso lo sa. La sinistra ora può rinascere”. Una tragedia può anche essere una opportunità per un nuovo inizio?

Certo che sì, ma questo è possibile se nasce la consapevolezza, appunto, che finalmente si sa che il Pd è morto, come dice bene il titolo citato. Questa consapevolezza sarebbe già un primo passo in avanti. Il problema è come adesso risponde il Pd. Se la prima risposta, come abbiamo visto, è la furbizia di chiedere a Zingaretti di ritirare le dimissioni, di diventare segretario di minoranza, in balia di una danza delle correnti, evidentemente questa consapevolezza non c’è, ed è quello che io temo. Penso che Zingaretti non debba permettere questo gioco. Un gioco al massacro, personale e politico. Non deve permetterlo per portare fino in fondo quella consapevolezza che se accolta come momento di verità, può trasformare una tragedia in una grande occasione per un nuovo inizio. C’è una parola che viene utilizzata spesso in modo strumentale per mascherare giochi di potere e bassezze varie. Questa parola è “contenuti”. Lo stesso Zingaretti ha evocato la necessità di un Congresso su contenuti e non su una conta. Lei ha provato, anche nel suo ultimo libro, “Una forma di futuro. Tesi e malintesi sul mondo che verrà” (Marsilio nodi), a entrare nel merito di quei contenuti che dovrebbero essere fondativi di una sinistra all’altezza delle sfide del Millennio. Entrare dentro e non solo evocare questi “contenuti”. È quello che è mancato e che continua a mancare. Secondo me Zingaretti ha ragione quando dice che il problema non era quello delle primarie bensì quello di affrontare i contenuti per un rilancio del Pd. Ma io direi qualcosa di più. Anche qui evoco un mio pallino: quando io parlo di “Costituente delle idee”, ritengo che la sinistra abbia bisogno vitale di un momento in cui non si parli assolutamente di organigrammi, ma si affrontino esclusivamente i temi che sono sul tappeto. Il problema della crisi della sinistra, non è solo italiano ma europeo e persino mondiale, e quindi c’è materia abbondante per una discussione spassionata di tutta la sinistra.

È un problema di identità, di visione strategica, di cultura politica, questo si è detto e sviscerato anche in nostre precedenti conversazioni. Ma non c’è anche un enorme problema di leadership, di qualità di classe dirigente? Non c’è anche questo deficit nella “tragedia” in atto nel Pd e più in generale nella politica italiana?
Qui il gatto si morde la coda. Fintanto che non si avvia una discussione come quella che prima ho evocato, non emergeranno nuovi leader, perché poi tutto viene fatto sulla base di considerazioni che sono quelli dei rapporti di forza, della furbizia nella battaglia interna di partito. Quindi per questo bisogna decantare il tema ossessivo del leader e rimettere al centro la battaglia delle idee. Non so se le dimissioni di Zingaretti rientreranno, a lui va la mia solidarietà personale, perché so cosa significhi essere pugnalato alle spalle. Quello di cui sono assolutamente convinto è che il nuovo inizio per la sinistra nascerebbe morto se si limitasse all’ennesimo cambio di nome della “ditta” o a una ingegneria organizzativa. Oggi più che mai è indispensabile il coinvolgimento, nella “Costituente delle idee”, di tutte quelle energie sociali e intellettuali, e ne esistono nel Paese, che non intendono subire la deriva a destra. Di questo c’è bisogno e non certo, come avevo rimarcato già in una nostra precedente conversazione, di una sinistra che nasce mettendo assieme i cocci del passato, ritornando al balletto, a cui assistiamo negli ultimi tempi, di fusioni e scissioni a freddo di apparati, che sono avvenute sia nella sinistra moderata e sia nella sinistra alternativa. Basta con le fusioni di apparati. Abbiamo già dato. È ora di voltare pagina.

Vorrei riportarla indietro nel tempo. Nel Pci, del quale lei è stato l’ultimo segretario, non si può dire che non ci fosse un dibattito anche duro, aspro, tra personalità forti. Eppure, la ricerca dell’unità finiva per prevalere. Perché invece la storia post-Pci è storia di coltellate alle spalle, di fuoco amico. Perché è venuto meno il principio di un confronto aspro ma anche solidale?

Il centralismo democratico aveva molti difetti e però era un’armatura dentro la quale si poteva fare il dibattito. Un dibattito che diventava prevalentemente un confronto di idee perché per principio non c’era possibilità del ricambio fatto attraverso il gioco delle correnti.

Dentro questa “tragedia” non emerge anche con forza il tema di un mancato ricambio generazionale? L’impressione che si ha è che le energie giovani migliori siano fuori dal partito, un discorso che non riguarda solo il Pd. Anche in questo siamo un “Paese per vecchi”?

La risposta è sì. Ma va declinata bene. Voglio essere volutamente provocatorio. Il problema di un ricambio generazionale adeguato, riguarda certamente i partiti ma anche, e non di meno, il sistema informativo, il giornalismo, più in generale il variegato mondo della comunicazione. Le nuove generazioni non possono essere attratte da un dibattito prevalentemente politicistico della politica italiana, la cui colpa è dei partiti ma è anche della narrazione. Per questo nel mio libro lancio un’invocazione: “ragazzi di tutto il mondo, unitevi”.

E' ora di rilanciare la linea riformista. Intervista a Enrico Morando: “Ecco come salvare il Pd dall’implosione”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Le dimissioni di Nicola Zingaretti e il terremoto politico che si è aperto nel Partito democratico. Il Riformista ne parla con Enrico Morando, già vice ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni. Un “riformista” dem doc. «A Zingaretti dico: per me non è mai stata questione di poltrone ma di linea politica. Il Pd si rilancia se si fa promotore di una grande costituente dei riformisti. Ne ero convinto con lui segretario e resto dello stesso avviso se darà attuazione all’annuncio delle sue dimissioni». «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». È l’incipit, durissimo, della nota Facebook con cui Nicola Zingaretti preannuncia le sue dimissioni da segretario del Pd. Per quel che mi riguarda, la raccolta de Il Riformista e de Il Foglio di questi ultimi sei mesi, per limitare la cosa temporalmente, è la migliore testimonianza che il sottoscritto ha sempre parlato di strategia politica, di linea politica, di funzione del partito e mai né di poltrone né di primarie, né ho partecipato alla discussione, che pure c’è stata in questi giorni, sul fatto se il segretario si deve dimettere o no. Ho sostenuto e continuo a sostenere che la strategia politica che abbiamo seguito, e anche attraverso le pagine del Riformista ho cercato di argomentare perché io considero quella linea radicalmente sbagliata e da cambiare, sostenendo l’esigenza, anche al fine di approntare meglio la fase che si è aperta con la formazione del governo Draghi, che il Pd si faccia promotore di una grande costituente del riformismo italiano, lasciandosi alle spalle questa fase di divisioni e di rotture, che è cominciata con la scissione di Bersani e continuata con la scissione di Renzi, creando una situazione nella quale il Pd ha finito per non mantenere la promessa che aveva fatto, cioè essere la casa comune dei riformisti. Per questo ho sostenuto e argomentato nell’articolo che ho inviato nei giorni scorsi, e dunque in tempi non sospetti, al suo giornale, la necessità di dar vita, definizione non mia ma di Giorgio Tonini, a una nuova costituente del riformismo italiano, nella quale affrontare il complesso dei problemi che abbiamo di fronte e soprattutto grazie alla quale ricostruire l’unità dei riformisti, cioè di quella realtà che almeno all’origine del Pd si era determinata e che poi si è progressivamente logorata, in particolare per responsabilità di due scelte di rottura che sono venute da due dei segretari del Partito democratico stesso. Non so di chi parli Zingaretti, ma certamente non parla della posizione nella quale io mi riconosco. La costituente del riformismo volevo e la costituente del riformismo intendo continuare a sostenere a prescindere da quello che decide di fare Zingaretti.

Non c’è il rischio di una implosione del Pd o di un Congresso che si riduce a una devastante resa dei conti interna?

Io penso che se si seguisse la strada che ho cercato di proporre, e cioè avviare immediatamente una fase nella quale il Partito democratico, con generosità e con determinazione, apre il confronto con tutti coloro che si riconoscono in una vasta e articolata area liberal democratica, potremo davvero compiere un salto di qualità di cui gioverebbe non solo il partito ma il Paese. Penso a un partito che abbia al proprio interno le due posizioni che ci sono in tutti i grandi partiti a vocazione maggioritaria…

Vale a dire?

Una posizione di sinistra socialdemocratica più tradizionale e una posizione più esplicitamente liberale di sinistra, quindi liberaldemocratica, liberalsocialista. Io penso che questo processo costituente era necessario per fare uscire il Pd dalla situazione di difficoltà in cui stava, con Zingaretti segretario e se Zingaretti si dimette diventa ancora più necessario e urgente. Questo è il modo per evitare l’implosione del Partito democratico, l’esaurirsi della sua stessa esperienza. Anzi, è un modo per rilanciarla nel nuovo contesto creato dalla formazione del governo Draghi che io continuo a ritenere essere un passo in avanti molto grande rispetto alla situazione precedente.

Parla l'ex presidente della Camera. Intervista a Fausto Bertinotti: “Dimissioni di Zingaretti sono una chance per il Pd: si sciolga per liberare energie”. Angela Azzaro su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Fausto Bertinotti lo aveva scritto: il Pd ha solo una chance. Sciogliersi e liberare le energie. E, oggi, le dimissioni del segretario, Nicola Zingaretti, vanno in quella direzione. Bertinotti ci aveva visto giusto.

Che cosa è accaduto secondo lei per determinare questo terremoto politico?

C’è una differenza profonda nei due governi di cui il Pd è stato parte fondamentale. Mentre nel Conte 2 si assisteva a un abbraccio mortale dei partiti, il governo Draghi li ingloba e li mangia. Cambia la loro natura a tal punto che non capiscono più che cosa fanno. Per il Pd, ormai diventato una forza centrata sulla governabilità, l’impatto è stato fortissimo. È come se venisse meno la sua unica ragion d’essere.

Si aspettava questa mossa di Zingaretti?

Zingaretti con il suo immobilismo ha difatto permesso al Pd, con cui c’è una identificazione totale, di essere il perno della stabilità e della governabilità. Oggi non ce ne è più bisogno. Il Conte 2 portava con sé i partiti, Draghi li tiene sulla porta. Prima la stabilità era garantita in particolare dal Pd, oggi la stabilità è stata sussunta dal presidente del Consiglio. Tutti i partiti sono sottoposti a un processo di destrutturazione, che ne siano consapevoli o meno.

Che cosa succederà ora al Partito democratico?

Il Pd è stato investito nella sua parte più intima, più vera, sottoposto alla sua totale delegittimazione. Quando non sei più necessario alla stabilità perdi il tuo “ubi consistam”. Il Pd ha perso il suo ruolo centrale. Da questo punto di vista le dimissioni di Zingaretti possono essere valutate come un atto di intelligenza politica, che sia consapevole o meno. Se ci fosse ancora il primato della politica, il Pd dovrebbe cogliere l’occasione per sciogliersi, per liberare energie.

Quindi, lei la vede come un’occasione, non come la fine?

La decisione del segretario ha un alto valore simbolico. Nel Pd ci sono molte energie che erano bloccate dalla “governabilità”. Venuta meno questa ragione d’essere, queste energie possono essere liberate. Secondo me nella direzione del socialismo, ma io lo dico da una prospettiva assoluta esterna. Ma per fare questo, per trasformare le dimissioni di Zingaretti e lo scioglimento in una opportunità, si deve aprire una fase costituente, una fase critica su quello che è accaduto in questi anni. Per risorgere come l’araba fenice, le ceneri non ti vengono regalate: sono il frutto di una riflessione autocritica che finora non c’è stata. Neanche per i cento anni del Pci. Come è possibile che non ci sia stato uno straccio di dibattito, come se il Pd non c’entrasse nulla con quella storia?!

Ma sarà davvero possibile liberare queste energie, dare vita a un nuovo inizio?

Io penso di no. Non credo che avranno la forza proprio per l’incapacità di fare un ragionamento su come sia cambiata la società e sulle proprie responsabilità. Ma questo è un mio parere. Penso lo stesso che sia un’opportunità. L’autoscioglimento coglierebbe la sfida e se fosse esplicito e non inconsapevole sarebbe già di per sé una rinascita. Una sorta di atto fondativo.

E a sinistra di quello che resta del Pd, che cosa potrebbe succedere?

Coloro che come me pensano non sia possibile che si verifichi questa rinascita, potrebbero sperimentare come costruire nuove soggettività critiche, partendo dalla società civile. Il confronto dialettico con quello che succede nel Pd dovrebbe essere uno stimolo. Sto leggendo diversi interventi di esponenti della sinistra francese non più disposti a votare Macron contro Le Pen. Si fanno altri ragionamenti, si guarda a ciò che si muove nella società. Chi ha questa visione, potrebbe trarre giovamento dalla nuova condizione del Pd.

In questo quadro come si collocano i Cinque stelle?

La fine dell’esperienza movimentista e populista e la nascita del partito di Conte definisce i Cinque stelle come una sorta di Verdi italiani che si collocano nel centrosinistra. A questo punto la palla ritorna al Pd che deve chiarirsi chi è. Se l’unica chance resta quella della governabilità, allora la mossa di Zingaretti non è più una chance, ma una manovra tutta interna allo scontro tra gruppi dirigenti.

Il centrodestra sta subendo lo stesso terremoto?

La lettura del centrodestra è possibile attraverso le categorie della politica tradizionale come centro e destra. Nel centrosinistra, invece, la sinistra non si vede e tutto viene sussunto nella categoria della governabilità.

La mossa del cavallo dei riformisti. Il Partito Democratico si autosciolga, serve una costituente per un nuovo soggetto. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. La politica italiana, dopo le recenti tornate elettorali, conferma la sua instabile stabilità. La risposta alla domanda su quale dei due termini dell’ossimoro è destinata ad affermarsi nel prossimo futuro è affidata alla piega che prenderà l’incertezza che, del resto è la cifra che connota questa ormai lunga e opaca fase politica tipica dell’Italia, ma non solo di essa. L’assoluta centralità del governo, ora allargata ai governatori regionali, ha fagocitato ogni dinamica partitica sul terreno istituzionale e l’ha desertificata nel Paese reale. Gli schieramenti e le alleanze tra i partiti si contendono il governo, esaurendo nella contesa ogni altro elemento della politica, fino alla scomparsa sulla scena degli elementi fondamentali, come gli aspetti ideologici, programmatici e addirittura gli elementi che connotano la natura di una formazione politica. Chi sta al governo lo fa per continuare a rimanerci e chi sta all’opposizione lo fa per giungervi. Tutto qui. Il quadro europeo, nella sua nuova conformazione assunta nel contrasto al Covid, rafforza il processo in atto. Il declino della tendenza politico-culturale vincente sino a ieri – una nuova destra fondamentalista, populista e reazionaria – sposta ulteriormente il baricentro della contesa sul governo, sempre più, a sua volta, sequestrato nella sfera amministrativa. Se il populismo voleva la fine della contesa classica tra destra e sinistra, il primato dell’amministrazione, che ad esso sembra subentrare quale tendenza prevalente, concorre allo stesso fine. È più precisamente la fine della politica per come si era venuta affermando in tutta la modernità. Nel campo del governo, nel nostro Paese, si sono venuti affermando due propensioni diverse, ma convergenti. Alla crisi del populismo di destra, in parallelo ad essa, si è aperta in termini ancora più esplosivi la crisi del populismo trasversale, quello personificato da Grillo e poi vissuto nei Cinque Stelle. Mentre il centrodestra è investito dal tema della sua ristrutturazione, il Pd è così risultato, per via di un processo prevalentemente alimentato da fattori esterni, il centro dell’attuale fase della governabilità, un centro immobile. L’immobilità e persino una certa sua afasia sono proprio quello che consente la tenuta elettorale del Pd, nella morte però della politica. Le previsioni di un suo dissolvimento, con la condivisione della sorte toccata al Partito socialista francese, sono state smentite dai fatti. Il rischio si era reso evidente con il crollo di molti dei capisaldi storici che gli avevano garantito il consenso elettorale, a cui era seguita quel che è stata chiamata “la nuova contendibilità” delle sue grandi casematte regionali. La storia politicamente e culturalmente devastante ha condotto, anche in quelle realtà, da una condizione caratterizzata da un popolo innervato sul Pci e sulle istituzioni del Movimento operaio ad aggregati informi di individui-cittadini. Essa ha reso possibile quel gigantesco smottamento e ha fatto avanzare anche l’ultimo rischio. Anche senza far ricorso alla massa di saggi storici e sociologici sul tema, basta la lettura dell’ottimo lavoro di Mario Caciagli sul Valdarno, Addio alla provincia rossa, per farsene una ragione, seppure drammatica. Ma il Pd esce dalle ultime elezioni potendo vantare una tenuta, se non un’inversione di tendenza. Dunque, proprio l’immobilità ha favorito la conservazione del consenso popolare. Il declino dell’estrema destra salviniana non ne ha cancellato la minacciosità e il Pd ha finito in ogni caso per rappresentare, rispetto ad essa, un argine rassicurante. La centralità assunta nelle contese regionali, dai presidenti divenuti sul campo governatori, ha opacizzato la contesa tra i partiti, già radicalmente ridimensionati nel ruolo pubblico e nella percezione popolare. Il Pd si è fatto il sostenitore meno problematico delle candidature presidenziali, a partire da quelle rivelatisi vincenti. I residui degli insediamenti storici, le tracce rimaste, incontrano il terzaforzismo nascente di ciò che Thomas Piketty ha chiamato «la sinistra intellettuale benestante». Da noi, le zone ztl sono ormai diventate una categoria della politica. Ma è il teatro dei morti che camminano. La loro incidenza sulla vita delle persone, sulle dinamiche del conflitto sociale di classe, sulle scelte di politica economica, che contribuiscono a costruire il futuro del Paese e dell’uomo, sui rapporti tra i popoli e i Paesi del mondo è pressoché nulla. Così la politica esce dal vissuto del popolo e muore mutandosi in semplice amministrazione. Sappiamo bene che la sua rinascita batterà strade ora sconosciute e che l’imprevisto da cui essa scaturirà alloggia in ogni caso nel corpo del conflitto sociale, piuttosto che nel cielo della politica. Ma quel che accade nella politica-politica, anche nel tempo della sua grande crisi, non è del tutto trascurabile né rispetto alla questione democratica, così acutamente aperta, né sui problemi di società, a partire da quello decisivo delle diseguaglianze. Il Pd è risultato vivo elettoralmente, ma resta muto e privo di incidenza politicamente. La causa prima risiede proprio in sé stesso, nella sua forma concreta e nella sua sostanza politica. La lunga parabola discendente della sinistra l’ha ridotto alla sua materiale e fisica esistenza, e il governo l’ha ingoiato. Nel dopoguerra, prima della rottura storica, la sinistra è stata partito di lotta, poi nella transizione, partito di lotta e di governo, infine, partito di governo e del governo. Questo esito ha connotato il Pd nel profondo, in esso vivono anche esperienze interessanti, militanti impegnati, dirigenti rispettabili. Non cambia niente. Il partito resta muto politicamente e immobile. La ragione di fondo è che la sua traiettoria e il suo attuale esito ne abbiano dettato l’intera costituzione materiale, sicché il Pd è diventato irriformabile. Tutto il campo, che in termini mal definiti possiamo chiamare “riformista”, vi fa riferimento anche criticamente, e in ogni caso, soggetti quandanche separati organizzativamente non possono prescindere dalla sua esistenza elettorale. Lo stallo investe così l’intero campo riformista. Non vedo altro modo di sbloccarlo che quello di produrre in esso una rottura, una rottura che non potrebbe che investire in primo luogo la sua forza principale, il Pd, la forza immobile. La parola che la esprime è forte, ma credo che sia indispensabile alle forze riformiste per tornare ad essere un soggetto politico protagonista della storia politica del Paese. La parola è “autoscioglimento”. Può sembrare una beffa perché scioglimento è il recupero, su tutt’altro terreno, di un termine che mise fine alla storia di un grande partito e non è stato l’inizio di quell’altra storia che i suoi sostenitori avevano annunciato. La discontinuità tra le due storie è radicale e definitiva. Si tratta ora di altro. Si tratta di rompere un vincolo che impedisce di prospettare il futuro di una soggettività politica che, sempre con qualche forzatura, chiamiamo riformista. Da tempo c’è una metafora, quella della mossa del cavallo, cui si ricorre troppo spesso. In questo caso il ricorso ad essa sarebbe però pertinente. La mossa aprirebbe una diversa prospettiva, brucerebbe ogni rendita di posizione, compresa quella degli attuali gruppi dirigenti; impedirebbe di sostituire alla ricerca di una linea politica la ricerca delle alleanze per governare; manderebbe in soffitta le immagini dei padri scelti per avvallare una politica, quella di centrosinistra, immagini tra le tante, anche più pericolosamente promettenti, di una storia conclusa ma a cui si sarebbe potuto attingere. Restituirebbe infine a tutti coloro che volessero partecipare a quel processo la titolarità delle scelte politiche costituenti. Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico. Due potrebbero essere, in prima approssimazione, gli orizzonti tra cui la costituente dovrebbe avviarsi. Una più interna alla storia politica europea, l’altra debitrice da esperienze d’oltreoceano. La prima potrebbe essere di scuola neo-mitterandiana, la formazione cioè di una nuova forza socialista, ma di questa ipotesi non se ne scorgono neppure i segni lontani nell’intero campo riformista; la seconda potrebbe guardare più all’America di oggi, con la configurazione di un grande campo liberal-democratico, aperto a destra ai fruitori del primato del mercato e a sinistra fino alle forze in grado di riusare il termine socialista. Due orizzonti tra i tanti che solo una costituente di popolo e di ricerca potrebbe restituire vivi nel campo dei riformismi. Una costituente sarebbe il banco di prova della possibilità di vita, peraltro nient’affatto scontata nell’attuale realtà del mondo ed europea, di una forza riformista nell’attuale fase storica. Essa dovrebbe lavorare alla definizione di una sua ideologia – se la parola non spaventa – a una propria strategia, a un proprio programma, a una propria e originale forma di organizzazione. Se il campo politico fosse quello di tutti i riformismi, quello sociale sarebbe da costruire sia nella definizione dei soggetti sociali privilegiati, fuori della falsa retorica secondo cui lo sarebbero i cittadini tutti, sia nella individuazione delle prassi politiche e sociali da adottare con essi e in rapporto ad essi. “Vaste programme”, avrebbe detto il generale Charles De Gaulle. E ancora, resta fuori da questo schema il campo di chi si professa dichiaratamente anticapitalista, un campo che tuttavia non è, in particolare nelle realtà sociali, tutt’altro che fuori dalla contesa, e che anzi potrebbe rilanciarsi proprio nella ricostruzione di una contesa storica con l’ultimo capitalismo. Ma questo è un altro discorso…

Soli no, ma con chi? “Forti nel palazzo, fragili nel Paese: per salvarci cambiamo tutto”, l’autoaccusa di Gianni Cuperlo. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 10 Marzo 2021. Il tormento dem rivisitato da uno dei suoi dirigenti più attrezzati culturalmente: Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd.

Dobbiamo partire dalle dimissioni di Zingaretti e da quell’espressione “provo vergogna”, più che uno sfogo una sentenza sul partito che ha guidato per due anni. La domanda non può che essere una: il Pd è un partito finito?

No, ma per salvarlo deve essere cambiato radicalmente: dal basso, da dentro e da fuori. Come molti ho espresso vicinanza a Nicola, ma quella frase ha colpito anche me. Mi è capitato di ricordare come i due segretari più longevi nella storia del Pd abbiano dato vita a due scissioni. Le parole di Nicola confermano un limite di identità di questa forza e allora abbiamo il dovere di affrontare una discussione rinviata troppo a lungo che è come ricollocare questo progetto nella storia del paese. Parlo del suo modo di discutere, organizzarsi, selezionare una classe dirigente, e del rapporto che vogliamo avere con energie, reti, movimenti, che non incrociamo più.

Pare l’ennesimo appello a una rifondazione del Pd, ma è ancora un traguardo possibile?

Non mi nascondo nessuna delle difficoltà di ora. All’ultima direzione ho detto che siamo forti nel Palazzo e fragili nel paese, e intendevo esattamente questo. Siamo un partito stretto nella sua vocazione governista più che maggioritaria. E guardi che non banalizzo il tema del governo, so quanto vale se hai l’ambizione di restituire diritti e dignità a chi ne è privo, e del resto in questi anni abbiamo strappato vittorie importanti con sindaci e governatori capaci. Però da quindici anni non vinciamo un’elezione politica e nonostante ciò per oltre undici di questi quindici anni siamo stati al governo del paese. Il pericolo allora è quello di fare del governo un fine e non un mezzo, però questo rende esile la trama che aggancia una cultura politica alla parte di società che scegli di rappresentare.

Detta così viene da pensare che vi fosse un vizio di origine. In fondo fu Veltroni al Lingotto a porre il tema della vocazione maggioritaria?

Sì, ma in un contesto completamente diverso. Con un bipolarismo che pareva irreversibile, proteso a un bipartitismo e con una dinamica dove il maggioritario sembrava un metodo dal quale non saremmo più tornati indietro. Di lì a poco quel bipolarismo sarebbe stato disarcionato dai 5 Stelle mentre da mesi discutiamo di un ritorno al proporzionale. Non si tratta di dettagli. A fronte di uno scenario mutato hai la necessità di ripensare anche a forme e regole del soggetto politico.

Capisco, ma prima tre mesi a cercare di difendere Conte, poi le polemiche sul congresso, ora le dimissioni di Zingaretti. A questo punto da dove pensa si debba ripartire?

Forse la risposta sta in alcuni numeri. Nell’ultimo anno 335mila famiglie sono precipitate nella povertà assoluta. In totale sono oltre due milioni. Significa un milione di persone in più che si aggiunge ai quattro milioni e mezzo che c’erano già. Tra i minorenni tocchiamo l’incidenza più alta dal 2005. La pandemia è anche questo. Una forbice della disuguaglianza che si allarga con la spesa per consumi delle famiglie tornata ai livelli del 2000. La sinistra e il Pd devono mettere questo dramma in cima a tutto. Va fatto con le azioni mirate di governo, Regioni e sindaci, ma assieme deve essere il primo messaggio che arriva all’esterno. Perché la sinistra è credibile quando fa il suo mestiere, parla a tutti e si batte per affrancare la parte più colpita nei propri bisogni. Perde quando non sa che dire a una comunità orfana di rappresentanza per la quota di società nata o rimasta indietro. A quel punto a offrire soluzioni possono essere una tecnica senza umanità o una destra senza progetto. Compito di ora è respingerle entrambe. Il problema riguarda il come.

Appunto il come. Potrei dirti che i partiti sono nati per questo: garantire rappresentanza a interessi privi di potere. Ma l’impressione è che voi facciate fatica a interpretare proprio quella funzione. È così?
In parte è così. Da tempo viviamo il distacco tra la capacità amministrativa, quella che si misura con la quotidianità dei problemi, e l’identità di chi fatica a definire l’idea di società per i prossimi dieci o vent’anni. Non è che manchino i titoli. Parlare di transizione ecologica implica politiche pubbliche in controtendenza col mainstream degli ultimi trent’anni. Lo stesso se ragioniamo di uno Stato che riscopre una azione programmatrice innovando la missione delle grandi società che controlla, parliamo di energia, mobilità, comunicazioni, intelligenza artificiale. Potrei dirle del ruolo di una formazione permanente o la necessità di investire sulla ricerca, ma nella chiave tedesca di un trasferimento di conoscenze e tecnologie sulle filiere produttive del nostro modello d’impresa, fino a un welfare da fissare attorno allo snodo demografico e a una redistribuzione di risorse per giovani e donne.

E questo è un elenco di obiettivi, ma la domanda riguardava il soggetto. Cioè pensa che il Pd sia ancora in grado di garantire il consenso necessario attorno ai traguardi che haa appena elencato?
Ma vede, da mesi con altri stiamo dibattendo un documento, “Radicalità per Ricostruire”, dove i capitoli che ho accennato sono tenuti assieme da un filo tutt’altro che esile, ed è il bisogno di accompagnare alle proposte programmatiche un quadro di alleanze politiche, sociali, territoriali, se solo pensi all’urgenza di riconnettere un paese che già gli arabi battezzavano “troppo lungo” e che questa crisi rischia di allungare ancora di più col pericolo di avere non una, ma due Italie.

E torniamo al “come”.

Appunto, torniamo al “come”, sapendo che la tragedia di questi mesi ha riproposto aspirazioni da decenni scivolate fuori dagli sguardi. Per prima una domanda di giustizia. La verità è che la pandemia ha travolto certezze maturate nell’arco di generazioni, sulla garanzia del lavoro, di una scuola per i figli, di una parità di diritti tra i generi. Milioni di famiglie non si angosciano sulle prossime vacanze. Si chiedono i tempi della vaccinazione, se avranno forza per resistere all’onda, se potranno rialzarsi. Basterebbe questo a dire dello spazio per la politica, per il ruolo di partiti fondati su culture capaci di suscitare passioni, l’impulso a reagire.

Però anche nel guardare avanti emergono le differenze. Ieri su questo giornale Petruccioli ha invitato il Pd a scegliere tra Tronti che vi invita a liberarvi dall’ossessione dei 5Stelle e Bettini che denuncia il complotto della borghesia italiana contro Conte. Secondo Petruccioli il governo Draghi è una grande opportunità per il Pd e un enorme passo avanti per il Paese.

Ho visto che Petruccioli ha accusato Bettini di avere scambiato Conte per Allende. Mi permetto di replicare che aver fatto il governo coi 5Stelle ha consentito a quella forza di evolvere verso un approdo europeista forse un tantino più credibile della sterzata di Salvini, ma al di là di questo, con quel governo abbiamo riportato l’Italia dove deve stare, a Bruxelles e non in viaggio verso Budapest. Non mi pare un dettaglio. Quanto a Draghi, va sostenuto senza ambiguità fosse solo perché dal piano dei vaccini ai fondi europei dalla sua riuscita dipenderà la tenuta del paese. Detto ciò, se Conte non è Allende, tra i tecnici di grido chiamati a salvare la patria non vedo la reincarnazione di Ciampi e Olivetti. Draghi è una sicurezza per standing e capacità. Guida un governo con dentro Lega e Forza Italia, lo considero un passaggio necessario, fatico a viverlo come approdo per una alternativa che dobbiamo costruire a partire dal Pd, ma sapendo che il Pd da solo non basta, che poi è il tema posto in questi mesi nella chiave di un’alleanza coi 5Stelle, LeU, e che non deve limitarsi a quello. Insomma, mi piacerebbe capire con chi dovremmo costruire il campo largo per tornare a vincere nelle urne. Con la vocazione maggioritaria?

Sta dicendo che il congresso del Pd dovrà somigliare più a una Svolta che all’aggiustamento dello Statuto?
Sì, sto dicendo che penso a un percorso democratico, partecipato, per una discussione sull’identità di un Pd che va ripensato e ricostruito. Il punto è che i nomi in politica servono, e però sono sempre conseguenza di conflitti. A conferma, neppure ora siamo immersi in una palude. Altrove la sinistra affronta le novità con qualche coraggio. Dovremmo averlo anche noi.

In che modo?

Nel vecchio mondo, quello del progresso lineare, a pesare era il disegno collettivo. Ora è l’idea stessa di progresso a recuperare quello che decidiamo di essere. La sintesi è un ciclo storico dove il testimone passerà da un progresso necessario a uno sviluppo possibile. Difficile magari, e dunque avverabile solo se poggiato sulla volontà degli individui. Niente di nuovo, la forza dei movimenti è sempre stata nel condizionare la qualità delle riforme. E allora è giusto affrontare il tema: possiamo concedere a un capitalismo che si è mostrato impreparato dinanzi alla pandemia di proseguire la corsa indisturbato? Di seguitare a innalzare i profitti senza cedere un metro al diritto alla vita degli ultimi? Vorrei che il mio partito questa discussione avesse la volontà di affrontarla perché se lo facesse alcuni dei limiti di ora sarebbero superati.

“Zingaretti chiarisca se ritiene Draghi un’opportunità o un complotto”, intervista a Claudio Petruccioli. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 9 Marzo 2021. «Tra Tronti e Bettini non ho dubbi: sto con il primo. E dico a Zingaretti: il vero problema del Pd non è il “poltronismo” ma il giudizio sul governo Draghi. Sta qui il vero spartiacque. Per Tronti, rappresenta una straordinaria occasione anche per avviare una riforma di sistema, mentre per Bettini sembra essere il frutto indigesto di una operazione perpetrata dai “salotti buoni”. Zingaretti cosa ne pensa? I discorsi di Draghi, come quelli della Cartabia per fare un esempio, sono dentro a pieno titolo nella ricerca di identità del Partito democratico o ne sono fuori, se non addirittura un ostacolo? Il Governo Draghi è un’occasione da cogliere o da subire? Quando leggo poi ciò che afferma Bettini, che seguo con attenzione, su Il Foglio, mi viene alla mente una considerazione di Keynes: “Le difficoltà non risiedono nelle nuove idee ma nel sottrarsi alle vecchie che ramificano in ogni angolo della mente”». Più che una intervista a tutto campo, l’intervista di Claudio Petruccioli – una vita nel Pci, più volte parlamentare, direttore de L’Unità e presidente della Rai – a Il Riformista, ha i caratteri di un manuale della buona politica, in sintonia con il suo ultimo libro. Rendiconto. La sinistra italiana dal Pci ad oggi (La Nave di Teseo editore).

«Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie». Così Nicola Zingaretti ha motivato le sue dimissioni da segretario dei dem. Siamo al cupio dissolvi del Partito democratico?

Di solito queste cose si cerca di spiegarle andando alla ricerca di quello che c’è dietro. Fatica sprecata. A mio avviso, i fatti importanti, e questo indubbiamente lo è, bisogna cercare di capirli riflettendo su quello che è evidente, non su quello che è nascosto, o si presume lo sia.

Cioè?
Per me la cosa molto evidente è che con la decisione del presidente della Repubblica di affidare a Draghi l’incarico di formare il nuovo Governo, è avvenuto un cambiamento sostanziale dell’orizzonte e delle coordinate in cui si muovevano tutte le forze politiche e in particolare il Pd. Ed è del tutto chiaro che le cose non possono continuare come erano andate avanti fino a quel momento. Se questo vorrà dire che il segretario non sarà più Zingaretti, o se lo indurranno a ritirare le dimissioni, vedremo, ma non è decisivo. La domanda da porsi è la seguente: che cosa pensa il Partito democratico nella sua interezza, e lo stesso segretario Zingaretti, che cosa pensano realmente del governo Draghi? Lo considerano per l’Italia, l’Italia di oggi, nella situazione in cui si trova da tutti i punti di vista, un passo avanti, un miglioramento, qualcosa che apre una prospettiva migliore per il Paese, oppure un regresso rispetto a quello che c’era prima? Noi sappiamo che il Pd e Zingaretti quando ancora non si sapeva cosa avrebbe fatto Mattarella, erano attestati sulla linea “o si fa un Conte ter oppure si va al voto”. Non hanno mai alluso ad una possibilità diversa. Probabilmente perché non la pensavano, non la ritenevano possibile. È stato Mattarella che ha deciso quanto è avvenuto, secondo me facendo uno degli atti più importanti, significativi e coraggiosi fra quelli compiuti dai capi di Stato della Repubblica italiana, assumendosi la responsabilità di affermare che in queste condizioni non è possibile anticipare il voto. Questa cosa ha cambiato completamente il quadro in cui agiscono le forze politiche. Sta cambiando tutto. La Lega, ad esempio, non solo con Giorgetti ma con lo stesso Salvini, sembra voler cogliere l’occasione del governo Draghi per togliersi di dosso la polvere sovranista e anti Europa; hanno capito che con quella polvere addosso non possono governare l’Italia; tanto più quando ci deve arrivare dall’Europa una valanga di euro. Quanto ai 5 Stelle, stanno vivendo una complicata, problematica ma effettiva fase di trasformazione. Sembra vogliano diventare un partito governativo multiuso anche se pencolante sul centrosinistra (c’entra comunque anche in questo caso il rapporto con l’Europa). Per riuscirci si affidano alla leadership di Conte.

E il Pd?

I suoi precedenti parametri di riferimento sono entrati in crisi, o quanto meno sono diventati aleatori. La rispolveratura in chiave europea della Lega non dico vanifichi la funzione di “argine” al sovranismo ma la rende meno decisiva. Quanto a Conte, allo stato non è più il federatore di un’alleanza che corrispondeva grosso modo alla vecchia maggioranza giallorossa, ma diventa il leader di un partito concorrente, anche se potenzialmente alleato. Per non dire della volontà, fino a poco fa fermissima, di restaurare il sistema elettorale proporzionale; sembra sia diventata prevalente la voglia di avere una legge maggioritaria per assemblare un’alleanza in grado di competere. Per capire un po’ meglio il bivio in cui si trova il Pd, mi sono state utili due letture: l’articolo di Goffredo Bettini su Il Foglio del 19 febbraio, e l’intervista a Mario Tronti, su Il Riformista il 18 febbraio. Lo dico subito: io sono d’accordo con l’analisi che fa Tronti. A cominciare dal giudizio sul governo Draghi. Ma partiamo da Bettini. Lui dice che – al di là dei numeri improvvisamente mancati per decisione di Renzi – il governo Conte è caduto e la coalizione non è riuscita a reggere perché quel governo non piaceva «al salotto buono della borghesia italiana – sono parole sue – che si è comperata giornali e che ha preso d’assalto Confindustria. Un “salotto” che – cito ancora l’autore – vuole una Europa che prima di essere Europa deve essere atlantica. Siamo alle solite – sentenzia Goffredo – Si accampano parole confuse, ormai gergali, innovazione, riformismo, modernizzazione, per abbellire il ventre molle di una parte d’Italia che non intende cambiare». Bettini parla di Conte come fosse la reincarnazione di Allende. Con la fine del suo secondo governo la parte più progressiva dell’Italia sarebbe stata bloccata, impedita. Da questa analisi scaturisce necessariamente il giudizio che il passaggio dal governo Conte al governo Draghi segna uno spostamento a destra nella situazione italiana.

Mentre Tronti?

Mario Tronti non ha fantasie complottiste, ma lucidamente afferma che è fallita non la politica bensì una classe politica. E aggiunge: «si è detto e ripetuto che non c’era un’alternativa al Conte II. C’era invece; e se fossimo arrivati sei mesi fa, questa soluzione avrebbe avuto più tempo per sistemare le cose. Si è detto che Conte era l’unico equilibrio nella maggioranza. Non lo era, altrimenti anche l’iniziativa più spericolata non avrebbe incontrato il clamoroso successo che ha avuto. La soluzione Draghi offre più opportunità che rischi, mentre quella di Conte offriva più rischi che opportunità». Io aderisco senza riserve a questi giudizi di Tronti. Una valutazione più lontana da quella di Bettini non si potrebbe trovare. C’è, poi, una parte del ragionamento di Tronti che considero particolarmente importante: laddove invita a non annegare il giudizio sul governo Draghi in una valutazione generica sui governi “tecnici” che si sono presentati sulla scena politica italiana negli ultimi decenni. «Solo oggi, rimarca Tronti, si è forse nelle condizioni di aprire una fase di transizione, da guidare a livello di governo, da accompagnare sul terreno dei partiti per un tempo di decantazione da utilizzare al meglio… C’è niente meno che da ridisegnare i confini della divisione dei poteri – esecutivo, legislativo, giudiziario… Adesso la prospettiva diventa, o meglio può diventare, sistemica perché rimette in gioco tutte le forze in campo». Se ci si muove in questa direzione – secondo Tronti e anche a me questo sembra il punto decisivo – «l’evoluzione di sistema renderebbe possibile un bipolarismo tra coalizioni alternative, progettualmente e politicamente motivate»; quindi c’è da tornare a riflettere bene sulla scelta della legge elettorale, e non sarei sicuro – dice Tronti – che un proporzionale puro sia la soluzione migliore. Le forze politiche, è il suo auspicio perentorio, usino questo tempo per misurarsi con queste cose. E qui c’è il nodo politico essenziale che il Pd è chiamato a sciogliere.

Quale è il nodo?

Con o senza Zingaretti segretario. Siamo nella possibilità di affrontare davvero una riforma di sistema (parentesi nostalgica mia: anche con Ciampi ci sarebbe stata questa possibilità, ma l’allora Pds la vanificò con la scelta, che ho sempre ritenuto sciagurata, di ritirare dopo neanche dieci ore i propri ministri da quel governo). «Aspetto con pazienza – dice Tronti e io con lui – che la mia sinistra si liberi di questa vera e propria ossessione per i 5Stelle. Una ossessione che, per paradosso, più ci si sposta sulla sinistra nel centrosinistra e più diventa totalizzante». Bettini fa un’analisi che sta all’estremo opposto. Perché l’alleanza con i 5Stelle viene giudicata come essenziale addirittura per unire non solo la sinistra ma il “campo democratico” – parole di Bettini – contro la destra sovranista. Ancora una volta, l’alternativa non è vista, come dice Tronti, tra coalizioni progettualmente e politicamente motivate. In altri termini il “campo democratico” non deve limitarsi a una coalizione “nazionale” (vedi il “partito della nazione”) che fronteggia un campo non democratico e non nazionale. Perché le cose vadano bene di “coalizioni della nazione” devono essercene due che competono in modo libero e motivato, con la prevalenza – di volta in volta – dell’una o dell’altra. Lo schema di Bettini è invece ancora quello vecchio, modello Comitato di liberazione nazionale: il campo democratico deve contrastare la destra pericolosa per la democrazia e per la nazione. Bettini continua ad affidare la funzione e l’azione politica del Pd a quello schema; in qualche caso con buoni motivi (per esempio di fronte ad un Salvini che straparla di “pieni poteri”) ma molto spesso in modo artificioso. Soprattutto, però, come argomenta benissimo Tronti, restare avvinghiati oggi allo schema Cln impedisce di cogliere le straordinarie opportunità rese possibili nella situazione creata dalla decisione di Mattarella e dall’impegno di Draghi, dalla garanzia che esso rappresenta. Altro che dire che questo Governo a guida Draghi è frutto di un complotto del ”salotto buono” della borghesia italiana! È un’occasione per l’Italia, non solo finanziaria ma politica. Insomma, cosa è il governo Draghi per il Pd? È un’occasione per cui i dem possono dire ecco, con questo Governo l’idea che noi abbiamo di riassetto, di riforma di sistema, possiamo realizzarla più agevolmente di prima, perché c’è Draghi, perché c’è quel pacchetto di mischia che Draghi ha messo nei punti chiave del Governo per la gestione del Recovery fund o no? Nel governo ci sono persone di valore assoluto, come Colao, la Cartabia, Franco, Cingolani e altri ancora.

Tecnici di alto profilo…

Ma quali “tecnici”! Se si prendono gli ultimi cinque discorsi di Draghi, troviamo un pensiero, una linea di carattere politico, di politica economica, una visione della società, una concezione della democrazia, dell’Europa, del mondo. Il Partito democratico che va alla ricerca della sua identità, le idee, i discorsi, di Draghi e degli altri stupidamente etichettati come “tecnici”, le cose che hanno fatto, li considera omogenei, intrecciati con quella che è la sua visione, oppure li vede come una cosa estranea, lontana da sé? Inizino a chiarire questo, invece di dare la sensazione che questo Governo è qualcosa che non sentono proprio, che non gli appartiene, a cui sono stati costretti, a cui si sono dovuti piegare. Ma cosa deve pensare l’Europa, non solo le cancellerie ma anche i partiti più affini al Pd, dei tempi, dei modi, e delle considerazioni scelte da Zingaretti per motivare le sue dimissioni? Non gli è venuto in mente che fuori dai nostri confini le persone migliori, anche quelle di sinistra, le più vicine alle idee e alle posizioni che dovrebbero essere del Pd possano domandarsi con fondata preoccupazione cosa sta succedendo in Italia? Che possano chiedersi dove andiamo se anche il Pd è in queste condizioni? Eccolo il punto. E allora, caro Nicola, lascia perdere le poltrone e cimentati su questo. Con chi sei d’accordo, con Tronti o con Bettini? E se volete fare un congresso prendete i due scritti che ho usato anche io e trasformateli in due mozioni. Vedrete che la discussione e le conclusioni saranno utili e chiare.

“Basta liti sul M5S, il Pd diventi un partito di sinistra”, intervista a Mario Tronti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l' 11 Marzo 2021. “Salvate il soldato Zinga”. E anche, e soprattutto, un partito al bivio: il Pd. A lanciare l’appello, argomentandolo con la consueta profondità e lucidità intellettuale, è Mario Tronti. Considerato uno dei fondatori dell’operaismo teorico degli anni Sessanta, le cui idee si trovano riassunte nel libro del 1966 Operai e capitale, Tronti ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico. È stato presidente della Fondazione CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano: Noi operaisti (2009), Per la critica del presente (2013), Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015), Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (con A. Bianchi, 2019).

Il Pd? «Zingaretti o no, deve chiarire se considera questo governo un’opportunità, come è per Tronti, o il frutto di un complotto dei salotti buoni, come sembra pensare Bettini. Io non ho dubbi: ha ragione Tronti». Così Claudio Petruccioli nell’intervista concessa a questo giornale. Chiamato in causa, come risponde?

Partiamo dal contesto, e cioè il cambiamento di fase intervenuto nel quadro politico. Il governo Draghi è un passaggio, una transizione, non è la sistemazione di un progetto per il futuro. Che la contingenza sia guidata da mani esperte è una rassicurazione per tutti. E cogliere le opportunità dentro una necessità è esercizio politico di prima grandezza. Se c’è crisi di sistema occorre una soluzione di sistema. Ma questa non verrà dall’attuale maggioranza di emergenza, che è solo chiamata a preparare le condizioni di un salto proprio di sistema. Questo governo ha due compiti che da soli bastano a riempire l’agenda di programma per un anno e forse, meglio, due: uscire dalla pandemia, rientrare nella crescita. Condurre i cittadini a tornare ad una vita normale e spendere bene le risorse del Next Generation EU, con l’occhio acuto e appassionato ai bisogni dell’oggi e alle prospettive per il domani. Le riforme, grandi e piccole, possono partire meglio dopo, a emergenze superate. Potranno essere adesso impiantate da qualche commissione di esperti. Ma la realizzazione sarà compito delle forze politiche che nel frattempo, si spera, siano maturate.

Ma le forze politiche attuali sono all’altezza di questa sfida?

Questa maturazione può avvenire solo attraverso una loro ristrutturazione. Tutti, partiti e movimenti, sono stati colti alla sprovvista dall’improvvisa accelerazione. Ma questi scarti sono benvenuti, e sono produttivi: alla condizione, che siano ben gestiti. Il governo dei processi non sta solo a Palazzo Chigi, sta anche nelle sedi dei partiti. Il peggio è la morta gora, il tran tran quotidiano, l’abitudine del giorno per giorno. Nella scossa traumatica si risvegliano energie, si rimettono in moto le cose, si cambia, e si cresce. Bene ha fatto Zingaretti a dare una scossa al Pd. Credo sia stato mosso da una buona etica della convinzione. Forse con un difetto di altrettanto buona etica della responsabilità. E mai separare le due etiche! Questo partito, per vocazione garante della stabilità del sistema democratico, non può permettersi di essere elemento di destabilizzazione del quadro politico, mentre questo sta cercando di risistemarsi. Non è uno scandalo che in una grande forza politica si manifestino differenze di sensibilità, per usare un noto eufemismo. Il problema non è di ricomporle, ma di farle convivere. E di farne motivo non di rivalità, ma di vitalità, nello scambio di esperienze, nel confronto di idee. La politica cammina sempre su queste due gambe, conflitto e mediazione. Se la gamba è solo una delle due, la politica per un po’ zoppica, e alla fine cade. Allora, prima di tutto ci si butti dietro le spalle la disputa: 5S sì, 5S no. Si guardi avanti. Il problema è già superato dalla fase in atto. Se quel movimento, con Conte o senza Conte, vuole riposizionarsi come polo soprattutto ambientalista, è una buona cosa. Si supererebbe quell’anomalia italiana che, a differenza di altre grandi democrazie europee, non ha mai visto i verdi salire a una consistente forza politica. Il centrodestra è apparentemente unito al vertice ma profondamente diviso nel suo blocco sociale. C’è una sofferenza di diffusi strati moderati, facenti capo a Forza Italia e dintorni, di trovarsi in compagnia della Meloni. E la Lega di Giorgetti è destinata a entrare in contraddizione con la Lega di Salvini: quanto più si stringerà il rapporto con i ceti produttivi tanto più si allenterà il rapporto con i ceti popolari. Inoltre, una forza politica di centro che guarda a sinistra ha davanti uno spazio inedito. Trovo interessante l’idea di un comitato scientifico, presieduto da Cottarelli, persona più che affidabile, per il rilancio di un’area liberal-democratica. E poi c’è da riscoprire e tornare a mobilitare energie fresche, soprattutto giovanili, nascoste nelle pieghe della società, pronte ma diffidenti, perché manca la chiamata di un soggetto capace di attrarre.

Questo soggetto può essere il Partito democratico o c’è bisogno di una “nuova casa” a sinistra?
Il Pd è di fronte a un bivio: può diventare proprio adesso il perno di quel campo largo, di cui tanto si è parlato, il fulcro di una grande coalizione prima politica e poi elettorale. Ma la condizione imprescindibile è che, di fronte al Paese, e non solo nel Palazzo, ridisegni la sua identità, e specifichi la sua funzione. Il Pd non può diventare quello che è. Ha bisogno di diventare altro, cioè quella grande forza politica popolare di alternativa che manca in Italia da ormai tre decenni. È possibile questo? Non lo so. E i segni non sono confortanti. Certo è che il passaggio di fase chiede di verificare questa possibilità. Ed è questo l’ordine del giorno del prossimo congresso. Qui c’è una destra da battere e non c’è una sinistra capace di combattere. Questa è la condizione, tragica. Perché senza una sinistra forte non si batte una destra forte. Il campo largo di alleanze è assolutamente necessario quanto è assolutamente necessario che al centro di questo campo ci sia una forza organizzata, con una pratica di lotte sui problemi presenti e una visione alternativa di possibile futuro. Si è detto di identità. Ma l’identità non è un’etichetta sul vestito, è il corpo di una funzione che si esercita e che così viene riconosciuta. La funzione di un partito di sinistra è la lotta contro le disuguaglianze, tutte, quelle economiche e sociali, quelle territoriali, quelle di genere, quelle oggi inedite nell’uso degli strumenti tecnologici. La funzione di un partito di sinistra è la rappresentanza degli interessi di chi lavora e l’estensione a tutti della possibilità di lavorare. Non si dimentichi che solo in regime di piena occupazione il lavoro ha potuto far valere pienamente i propri diritti e conquistare forza di contrattazione. Ha ragione Landini: c’è necessità e urgenza di «ricostruire i legami con il mondo del lavoro in tutte le sue vecchie e nuove articolazioni». La funzione di un partito di sinistra è di essere in prima linea nel progetto di rinobilitare la politica, dopo la volgarizzazione che ne hanno fatto, insieme, liberismo e populismo. La funzione di un partito di sinistra è di contribuire a produrre, cultura, pensiero, consapevolezza collettiva dei problemi, serietà di intenti nella ricerca delle soluzioni, comunicazione in cui il mezzo non sia il messaggio. O il Pd mostrerà di qui al suo congresso di saper andare oltre sé stesso, o bisognerà pensare ad altro. Uscirà nei prossimi giorni, a cura di un’Area politico culturale, Le Agorà, promossa da Goffredo Bettini, un Manifesto con un titolo ambizioso e impegnativo: Socialismo e cristianesimo. È il minimo per ripartire. Discutiamone.

Susanna Turco per “l’Espresso” il 14 marzo 2021. Il custode del mausoleo, nel senso più vasto e vitale del termine. Possiede, anche materialmente, le chiavi di tutto quello che riguarda il Pci ora centenario: della fondazione che ne raccoglie i beni, del tempio funerario al Verano dove sono sepolti i membri del comitato centrale del Pci. Ultimo tesoriere dei Ds, è colui cui si ci rivolge e che fornisce tutto ciò che serve, dalla culla alla tomba: scherzando. gli hanno persino chiesto se sia stato lui, a dotare le Sardine di sacchi a pelo. Della complessa famiglia comunista amministra le 2399 proprietà immobiliari, un numero indefinito di libri, documenti, quadri, locandine, nastri, film, foglietti, i segreti più indicibili così come le ricevute dei contributi previdenziali di tutti coloro che sono stati dipendenti del Partitone. Un universo che letteralmente lo ammanta: per questo le cose che dice Ugo Sposetti hanno una dimensione tutta loro, anomala. Come provenissero da sotto un mantello di storia e concretezza. Lo incontriamo dopo un trittico di giorni particolari: il 4 marzo ha saputo da una telefonata (non usa i social) delle dimissioni di Zingaretti via Facebook; il 5 ha partecipato (verrebbe da dire: officiato) alla cerimonia di tumulazione delle ceneri di Emanuele Macaluso, al Famedio del Pci, nel loculo sotto a quello di Palmiro Togliatti come voleva lui; il 6 ha volentieri subito l' occupazione del Pd da parte delle Sardine, per poi dedicarsi come gli altri al caos che regna nel suo partito. Circondato da cimeli, troneggia su una scrivania senza computer, dietro un mare di carte. «Noi autodidatti viviamo di carte. Siete voi quelli laureati. Io non ho neanche smartphone, così non sto appresso alle cose tipo Barbara D'Urso», dice alludendo all' ultima delle polemiche che ha investito l'ormai ex segretario dem, dopo aver difeso il ruolo della conduttrice tv argomentando che «avvicina la politica alla gente». Cesare Pavese ha scritto che "verso il popolo ci vanno i fascisti, o i signori. E andarci vuol dire travestirlo, farne un oggetto dei nostri gusti". Insomma: "Non si va verso il popolo. Si è popolo".

«Ma Barbara D' Urso mica è popolo. Il popolo, qui a Roma, è per esempio Torpignattara, Cinecittà, è tutto il lungo nastro della Tuscolana. Se tu percorri quella strada e ti fermi a ognuno dei semafori, guardi a destra e a sinistra, tutti quei palazzi. Chi ci parla, con quelli che stanno lì dentro, con tutte quelle persone?».

Il Pd ci parla?

«Il Pd ha smesso, altrimenti mai avrebbe potuto accettare cose come il cashback».

Zingaretti quando è stato eletto voleva spostare la sede in periferia. È finito con le Sardine al Nazareno.

«Zingaretti ha fatto una scelta, che ormai seguirà. Si è dimesso, si vorrà candidare a sindaco di Roma: mi sembra normale, dopo due mandati. Le terze legislature sono sempre complicate. E insomma possiamo dire che i due fratelli sono in crisi. Quello televisivo ha lasciato Livia, l' altro il Pd».

Per fare cosa? C' è spazio per una cosa più di sinistra?

«Ma no. Mentre parliamo, l'ipotesi probabile è Enrico Letta, che è una sorta di commissariamento del Pd: non certo da parte dei comunisti. Così come il governo Draghi non è un commissariamento della Cina, no?».

Deduco che la soluzione non è gradita.

«Letta, da premier, ha abolito i rimborsi elettorali: io sono incompatibile con uno che ammazza i partiti, quindi auspicherei un' altra soluzione».

E può esserci?

«Non capisco perché una donna giovane non si candida. Magari accadesse, l'hanno chiesto per un mese, protestando, quando si faceva il governo. Poi però silenzio. La verità è che, di governo per il governo, si muore».

Il Pd è stato al governo oltre 11 anni su 15, ha ricordato Gianni Cuperlo nell' ultima Direzione. Governare è un vizio?

«No: è avere la testa rivolta al potere e non alla società, a quel che vuole la famiglia, il pensionato, il disoccupato, il giovane. Prendiamo l' esempio del cashback: soldi che sono dati a chi ha la carta di credito, a chi ha disponibilità sul conto. Ma oggi noi possiamo dare i soldi a quelli che già ce l'hanno? Ora che c' è Draghi, gli stessi di prima dicono: usiamo quei soldi contro la povertà. Finalmente. Però a suo tempo nessuno l' ha detto: e stavano sempre loro al governo».

Come definisce la situazione del Pd?

«È molto semplice: siamo sotto le macerie. Siamo già morti».

E quando è accaduto?

«Quando è nato il Pd: male. Non lo dico da nostalgico: ho detto allora che noi saremmo finiti così, perché vedevo che stavamo andando avanti senza robuste radici. Qualunque attività ha bisogno di solide fondamenta. Il Pd non le aveva: era una fuga verso un qualcosa che si pensava avrebbe potuto garantire un futuro. Ma allo stesso gruppo dirigente? Sì, alle stesse donne e uomini: non a una idea nuova. Ecco l' errore».

È finita con le Sardine che occupano il Pd. Che effetto fa? Il leader radicale Marco Pannella nel 1976 si presentò sotto la sede Pci di Botteghe oscure e gli uomini della vigilanza lo presero a ceffoni.

«Eh, ma era Pannella, e andava a provocare. Le Sardine non andavano a provocare. Anche un vecchio socialista come Rino Formica ti dice che bisogna creare entusiasmo nel popolo: bisogna che qualcuno gli parli, gli crei voglia di discutere, di esserci. È quello che hanno fatto anche l' anno scorso, in Emilia Romagna. Sono stati di grande stimolo per la mia generazione, li hanno riportati in piazza, al voto. Sono stati i veri vincitori di quelle elezioni».

Sposetti diventa Sardina?

«Ma no, non ho l'età, non li frequento, sto chiuso qua. Sono pieno di libri, carte, cimeli, venissero a leggere Gramsci sarebbe bello. Noi abbiamo bisogno di giovani, di aria fresca. Sennò siamo morti. Stiamo sempre a parlare di accordi, accordini, posti. Stiamo tutti a guardarci l' ombelico. Nessuno apre un dibattito sulla politica internazionale: ora per esempio Biden propone di fare il G10 delle democrazie, contro la Cina. E noi che diciamo?».

Noi abbiamo Luigi Di Maio ministro degli Esteri.

«Quando lo dicevi a Macaluso ti cacciava di casa. Lo trovava inaccettabile. Ma, come partito, dovremmo fare queste discussioni, perché il governo non le farà».

Santori dice che il Pd è tossico.

«Io ho la tessera del Pd, a questo non arrivo. Qualche settimana fa ho letto, proprio sull'Espresso, un loro documento che ho molto apprezzato: parlava di corpi intermedi, finanziamento della politica, presenza sul territorio. Un'idea. Dobbiamo andare a cercare gli elettori che sono fuggiti».

Dimezzati. Erano 13 milioni nel 2008, 6,5 milioni nel 2018. Secondo Swg adesso il Pd è quarto partito. Colpa di Zingaretti?

«Può avere delle responsabilità, però c' è stata una congiuntura che lo ha costretto a fare scelte che lui non aveva in testa. Nel 2019 voleva andare alle elezioni, ed è andata un altro modo. E adesso, pro Conte-ter, la Direzione aveva votato all' unanimità».

Solo pochi giorni fa diceva che "il Pd non è mai stato unito come ora".

«È un falso. Quando leggevo, o sentivo alla radio, che la Direzione aveva votato all'unanimità, dicevo: "Sono dei falsi". Quando si sta in una comunità, si alza il ditino e si dice "scusa, non sono d' accordo. Voto contro", e poi si rispettano le decisioni della maggioranza. Questa è la storia da cui vengo. Io ci stavo bene, ero in dissenso quanto volevo. Ma quando, oggi, votano all' unanimità e due ore dopo rilasciano dichiarazioni contro quello che hanno deciso, non funziona».

Di chi parla?

«Non voglio fare nomi. Sono rimasto esterrefatto di fronte a un' intervista e un tweet di due persone più grandi di me che non difendono il segretario ma sono contro il segretario e contro le decisioni che loro hanno contribuito ad adottare».

Insomma, Pierluigi Castagnetti e Luigi Zanda, ad esempio, dovevano difendere Zingaretti, non attaccarlo.

«Bisogna ricollegare. Adesso, dopo i nomi di Roberta Pinotti, Anna Finocchiaro, Piero Fassino, il giovane Provenzano, c' è Letta. Quindi ci sono alcuni soggetti che ci danno Draghi. E altri che ci danno Letta».

Quali soggetti?

«La finanza internazionale. E la finanza europea. Una ha commissariato Palazzo Chigi, l' altra si appresta a commissariare il Pd. Mentre avremmo, per lo meno, bisogno di un segretario che non sia subalterno, no?»

Di subalternità è stato accusato anche Zingaretti, nei confronti di Conte, che è arrivato a definire "punto di riferimento dei progressisti".

«Un' esagerazione. Ma il punto è che in questa legislatura siamo al terzo presidente del Consiglio che non è stato eletto e non ha fatto neanche il consigliere circoscrizionale. Trovatemi una democrazia occidentale nella quale il capo del governo non è passato per un voto. In Europa, nel mondo, non c' è nessuno. È un problema per la democrazia italiana».

È colpa del Pd?

«Non solo del Pd, in questo caso».

A proposito di eccezioni, quale effetto le ha fatto che la linea del Pd sia stata indicata, per mesi, via intervista, da personalità come quella di Goffredo Bettini, che non erano neanche in Direzione?

«Mi ha sempre disturbato. Esiste la segreteria, che parli la segreteria».

Cosa si aspetta da questa Assemblea?

«Non accadrà, ma vorrei si dicesse: le primarie per il segretario non le facciamo più».

Perché?

«È un meccanismo che non funziona. Le primarie non danno una linea politica; si elegge un organismo pletorico, ingovernabile; si formano al suo interno delle correnti che hanno un peso enorme. Risultato: 12 anni, 7 segretari!»

Durata media: 22 mesi. Il segretario come lavoratore stagionale: i bagnini, i raccoglitori di pomodori, i capi del Pd. Ma c' era questo cannibalismo prima?

«Non era così, figuriamoci. Le primarie vanno bene come inizio di campagna elettorale: quelle di Prodi nel 2005, ad esempio. Invece il segretario lo devono eleggere gli iscritti, la comunità. Su una proposta politica, un progetto. Non il primo che passa sul marciapiede di fronte, pagando due euro».

Cosa cambia?

«La comunità che elegge il segretario ha fatto una battaglia per riuscirci, e dopo lo segue, lo difende. Una bella differenza: io sono stato eletto dai filippini, dai coreani, dai thailandesi... Parliamoci chiaro: ci ricordiamo quante volte è dovuta intervenire la magistratura sulle primarie?»

Cosa altro spera accada in assemblea?

«Ho detto ai quarantenni: se non vi intestate una battaglia politica, non avete futuro».

E che battaglia si possono intestare?

«Ribellarsi agli accordi tra tre persone».

Nel Pd i giovani non si sono mai ribellati. Per paradosso, l'unico è stato Renzi.

«Ma lui non si è ribellato: ha occupato il potere, quando quel partito era già contendibile. Non era una battaglia. Ma non fatemi dire cose su Renzi, il mio giudizio è noto».

Comunque i quarantenni, sopravvissuti anche al renzismo, sono pochi.

«Se non si sbrigano, muoiono pure loro. Mi auguro che ci sia un dibattito vero e un gruppo dirigente che giri l'Italia: serve che ascolti, non che parli. Dopo il Covid-19 nulla sarà come prima: vale per la società, ma vale pure per la politica. Le vede quelle? Sono le vecchie bandiere del Pci».

Stiamo per ammainare anche quella del Pd, siamo alla fine di un' altra storia?

«È quello che ho cercato di dire fin qui».

Maurizio Caverzan per La Verità il 15 marzo 2021. Claudio Velardi ha un passato diverso dal presente. È stato uno dei Lothar di Massimo D’Alema (gli altri erano Fabrizio Rondolino, Marco Minniti e Nicola Latorre) che sussurrava all’allora potente premier, mentre negli ultimi tempi si è avvicinato a Matteo Renzi. Napoletano, 66 anni, fondatore ed editore del quotidiano Il Riformista, tiene il blog Buchineri.org, presiede la Fondazione Ottimisti & razionali e insegna comunicazione politica alla Luiss (Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli). Citando Fiorella Mannoia, ha appena pubblicato Come si cambia. Cronache dall’anno zero (Colonnese).

In un suo tweet di qualche giorno fa scriveva che il Pd, «che sarebbe naturaliter più vicino all’agenda Draghi», è invece attraversato da lacerazioni. Perché?

«Penso che Draghi ponga al Pd una scelta drastica: se si riconosce nel piano di lavoro del governo vuol dire che ha un carattere liberal democratico, se gli fa venire il mal di pancia significa che è preso da pulsioni di una sinistra che ha fatto il suo tempo».

La causa delle lacerazioni è la segreteria di Nicola Zingaretti?

«Sì, perché seguiva quelle pulsioni passatiste. Un processo teorizzato da Goffredo Bettini che sosteneva la necessità di far diventare il Pd e i 5 stelle la gamba di sinistra della coalizione. Mentre Renzi e Calenda avrebbero dovuto rappresentare la gamba liberal con cui allearsi».

Il decisionismo e l’operatività di Draghi hanno evidenziato l’inconsistenza del dibattito interno al Pd?

«Draghi ha rovesciato l’agenda Conte, fatta di continue esternazioni che nascondevano l’assenza di decisioni. Il governo Conte è stato il più indecisionista della storia d’Italia, non solo non ha deciso nulla di significativo durante la pandemia, ma neanche prima. Infatti, andava bene ai partiti».

Invece ora?

«L’agenda la fa Draghi e i partiti perdono equilibrio. A cominciare dal Pd, il più innervato nel sistema. Negli ultimi 26 anni ha governato per 17. Si parla del berlusconismo, ma Berlusconi ha governato una legislatura e poco più. Per il resto, il Pd c’è sempre. Per questo è un partito conservatore».

Le ultime esternazioni d’interesse pubblico di esponenti dem riguardano Barbara D’Urso, il direttore d’orchestra Beatrice Venezi e le sardine.

«L’involucro che avvolge la struttura del Pd è fatta di politicamente corretto. Serve a coprire con il belletto il fatto di essere un partito saldamente innestato nel sistema del potere che, intendiamoci, non è di per sé qualcosa di cattivo. Solo che bisogna saperlo gestire, il Pd lo sa fare».

Però la D’Urso, il vocabolario gender…

«Quando va bene si parla di disuguaglianza e di poveri, sebbene il consenso lo si trovi nelle Ztl. Altrimenti si gioca con la D’Urso e le sardine».

Sono fatti casuali o sintomo del distacco dalle emergenze reali?

«Il Pd è insediato nel sistema non nella società. Quello che sta a cuore alla società gli arriva dopo perché non ha le antenne. Si può pensare tutto il male possibile di Matteo Salvini, e personalmente non lo apprezzo, ma gli va riconosciuto che ha battuto il Paese palmo a palmo. Come pure Giorgia Meloni e persino i grillini. Hanno raccolto le domande della società e le hanno trasferite in politica. A mio avviso, commettendo l’errore di non correggerle e di non governarle, come dovrebbe fare la politica».

Il Pd è il partito dell’establishment?

«Dell’establishment diffuso, che comprende le burocrazie statali, locali, gli apparati pubblici, sindacali e delle categorie. La cosa è seria, non sia mai che il Pd sparisse. Berlusconi e il M5s hanno provato a eliminare gli apparati e le burocrazie, ma non ci sono riusciti».

Perché non parla più di lavoro?

«Essendo legato agli apparati non sa che il lavoro è cambiato. Chi si occupa dei rider oggi in Italia? Il Pd è legato a un’idea di lavoro superata che non guarda ai giovani, ma ai protetti, ai garantiti, ai più anziani».

Non parla nemmeno di scuola.

«Se proteggi le corporazioni degli insegnanti, compresi quelli che non vogliono lavorare, non puoi far passare il principio meritocratico. I sindacati vorrebbero estendere a tutti i premi di produttività, questa è la logica... Se sei legato a queste forze non riesci a dare la scossa».

Nominando commissario per l’emergenza il generale Francesco Paolo Figliuolo al posto di Domenico Arcuri Draghi ha messo in mora anche Massimo D’Alema?

«D’Alema è più intelligente della media della classe dirigente del Pd. Il suo limite è che si è fermato alle analisi di trent’anni fa. A volte riesce a rientrare in gioco attraverso qualche persona vicina. Ma le operazioni di potere devono rispondere a un disegno e il suo disegno è sbagliato. Ha detto che l’uomo più impopolare, un uomo del 2%, non poteva eliminare l’uomo più popolare d’Italia. Abbiamo visto com’è andata».

D’Alema, Bettini, Conte: un’intera filiera di potere è finita ai margini?

«Attenzione, Conte appartiene a un’altra filiera. Gli ex comunisti guardano una fotografia seppiata dell’Italia, per questo le loro strategie falliscono. Se un uomo del 2% rovescia l’Italia come un guanto vuol dire che ha il polso della società. Poi non è amato e non sarà votato… ma anche D’Alema non è che abbia i voti».

Conte apparterrà a un’altra filiera, ma si è giovato dei consigli di D’Alema e dell’appoggio di Bettini.

«Conte appartiene a un’altra filiera: non ha l’ideologia ex comunista. Tanto che ha potuto fare il populista duro nel Conte 1 e poi il populista gentile nel Conte 2. Ha le antenne nella società più degli ex comunisti. Anche se ora, fuori da Palazzo Chigi è molto indebolito».

Si rafforzerà candidandosi a Siena?

«Campa cavallo. Draghi ha un’autostrada fino a ottobre, quando ci saranno le amministrative. Certo, deve portare a casa dei risultati, ma i partiti oltre a entrare nei pastoni dei tg non faranno. Se scendi in strada, la gente ti dice: chissenefrega di Salvini e Zingaretti, fate lavorare Draghi».

In un altro suo tweet scrive che «la scelta di domenica riguarda unicamente la piena, totale e incondizionata adesione del Pd all’agenda Draghi». Lei ce l’ha?

«Sì perché sono una persona normale. A un certo punto arriva l’italiano più stimato nel mondo, uno che dà del tu ai capi di Stato e che ha salvato l’euro, certo che gli do fiducia: che problema c’è? Magari tra due mesi mi avrà deluso e cambierò idea».

Draghi ha cambiato i ruoli apicali di gestione della pandemia: ha sbagliato a confermare il ministro Roberto Speranza e la politica delle chiusure?

«La sfida di Draghi si concentra sui vaccini, è una sfida organizzativa, non sanitaria. Ha cambiato i vertici della Polizia, della Protezione civile e il Commissario straordinario: significa che l’impegno è innanzitutto logistico. Sulla parte sanitaria e le chiusure mantiene una continuità che alla fine è secondaria. Gli italiani sanno che per abbassare i contagi bisogna stare un po’ chiusi. Certo, ci vogliono i ristori per le categorie in sofferenza. Ma Draghi guarda oltre, ai provvedimenti per la ripartenza, allo sviluppo quando le vaccinazioni avranno completato il loro corso. Non serve riaprire per qualche settimana e poi essere costretti a richiudere».

Su Letta è molto fiducioso?

«È un liberal democratico, niente a che vedere con gli ex comunisti. Credo che il suo ritorno sia un bene per il Pd e per tutto il sistema».

Quanto resisteranno gli ex renziani?

«Temo che dentro il Pd si stia stringendo un patto che tende a strangolarli in una logica vendicativa. Se accetteranno questa logica, sbaglieranno. Dovrebbero riuscire a resistere provando a incidere con le loro idee. Se usciranno accelereranno la loro fine».

Anche confluendo in Italia viva?

«Se vanno lì non trovano voti. Renzi dovrà aspettare a lungo prima di risalire. Il caravanserraglio del Pd è importante perché, nonostante tutte le crisi, parliamo sempre di consensi su cifre notevoli. Per questo, forse, è stata sbagliata anche la scelta di Renzi di andarsene».

Con Letta segretario la saldatura con il M5s non sarà più ineluttabile?

«Credo di sì. Conte e Letta saranno competitor e si dovranno distinguere. Conte capo dei 5 stelle è la conferma che Zingaretti e Bettini hanno sbagliato i calcoli ed è uno dei motivi principali delle dimissioni di Zingaretti».

Di cosa è sintomo il fatto che 5 degli ultimi 6 segretari (Walter Veltroni, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi e Maurizio Martina) sono usciti dal Pd o hanno lasciato la politica?

«È accaduto perché il disegno veltroniano del partito a vocazione maggioritaria è fallito. Il bipolarismo è naufragato e alcuni ex segretari hanno creato nuove formazioni, dando vita a una disseminazione pulviscolare della sinistra che è il derivato del clima di rissa permanente che c’è nel Pd».

Degli ex segretari resiste solo Franceschini perché punta al Quirinale?

«Non credo. Franceschini è un dirigente post dc molto laico che gestisce il potere con intelligenza e duttilità».

Franceschini, Letta, Mattarella: si consolida l’asse della vecchia sinistra Dc?

«Che nel Pd le culture Dc siano sopravvissute meglio delle culture ex comuniste è un dato di fatto».

Ha ragione Alberto Asor Rosa quando dice che la connotazione «di sinistra» nelle forze politiche attuali è assente perché hanno smarrito il «rapporto con le classi popolari»?

«Apprezzo Asor Rosa come studioso, ma politicamente non ha mai ragione. Le classi popolari non esistono. Esistono i poveri, i disagiati, gli sfruttati, ma ognuno è un singolo soggetto che ha a che fare con il proprio bisogno. Se si pensa di classificarlo in uno schema si ha una visione ottocentesca. Se fosse così semplice, basterebbe trovarle le classi popolari, per organizzarle. Ma nessuno le trova».

Ha da poco pubblicato Come si cambia. Cronache dall’anno zero, una riflessione sull’anno della pandemia che ha modificato il nostro vivere. Com’è cambiato Claudio Velardi?

«Rifletto molto di più su me stesso e do meno importanza agli aspetti pubblici dell’esistenza. Anche questa è una forma di emancipazione dalla sinistra, la quale tende a pensare che le cose della politica siano più importanti di quelle che riguardano la quotidianità delle persone. Mi curo di più di ciò che conta, la mia salute, la mia famiglia. Di politica mi occupo per diletto, ma sempre di meno».

Da Oggi il 17 marzo 2021. Nicola Zingaretti ha concesso un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani. «Le dimissioni? Sempre più convinto di aver compiuto la scelta giusta». Sostenuta dalla famiglia: «Mia moglie e le mie due figlie sapevano della decisione di dimettermi e l’hanno sostenuta. Mio fratello Luca mi ha scritto un messaggio bellissimo, che conserverò per tutta la vita. Ha detto che la mia scelta è stata generosa e coraggiosa. Mi ha rincuorato molto». L’ex segretario torna poi sulla polemica scoppiata, dopo la sua presa di posizione sui social a favore di Barbara d’Urso: «Il dibattito pubblico in Italia è scivolato sempre più sul piano dell’insulto personale. Non si valuta, si giudica. Peggio, si offende. Io ho soltanto sostenuto che nel programma della d’Urso fosse possibile parlare seriamente di politica». Infine, dopo aver definito Giuseppe Conte «un uomo leale» e Matteo Renzi «incomprensibile», una battuta scherzosa a seguito dell’affermazione: «Io non correrò per diventare sindaco di Roma». Allora dopo la d’Urso andrà all’Isola dei famosi? «È più facile che diventi sindaco di Roma!».

Beppe Grillo e le sardine, una risata seppellisce ciò che resta del Pd. Alessandro Giuli Libero Quotidiano l'8 marzo 2021. Il comico li seppellirà. A dodici anni dal primo e spericolato tentativo di contendere la leadership del Partito democratico, Beppe Grillo torna sul luogo (...) (...) del delitto e ripete il suo gesto beffardo: «Mi propongo come segretario elevato del Pd Mi iscrivo al partito e portiamo avanti insieme un grande progetto comune». Le comiche finali, per l'appunto, con la segreteria vacante e il cadavere politico di Nicola Zingaretti ancora caldo. Non poteva che concludersi così, con un ritorno al punto di partenza, il viaggio di un partito rimasto acefalo e dilaniato dalle lotte intestine fra bande rivali: gli eredi del catto-comunismo novecentesco volevano fagocitare il Movimento Cinque stelle e invece hanno finito per grillinizzarsi, al punto tale che ora è l'elevato in persona, Jocker e Mangiafuoco nel circo delle sinistre apolidi, a promuoversi come esecutore testamentario di un amalgama malriuscito (Massimo D'Alema) o più precisamente di un morto ammazzato (Massimo Cacciari) da chi l'ha sin qui gestito come una «macchina di autopromozione» (Luca Ricolfi). La rivendicazione - È lo stesso Grillo a controfirmare la compiaciuta rivendicazione del sinistricidio: «Mi ero iscritto al Pd qualche anno fa poi mi dettero indietro i soldi e la tessera e Fassino fece la sua premonizione dicendo: si faccia un partito da sé Siamo nel caos ma il caos è creativo, quindi ho visto questo partito, il Partito democratico in cui va via una buona persona il Pd deve avere una narrazione deve avere un progetto». E adesso arriva lui a darglielo, il progetto, proponendo una fusione a caldo con i suoi discepoli in nome dei feticci comuni - «transizione, ecologia, energie rinnovabili» - e con un ghigno di malcelata soddisfazione per il risultato raggiunto. È davvero l'apoteosi della profezia fassiniana - «vediamo dove arrivano» - e al tempo stesso la pietra tombale sul partito di sistema a vocazione maggioritaria che nel 2009 respinse con sdegno il tentativo dell'infiltrato genovese: «Grillo non è iscritto al Pd - disse Fassino - e lo ha attaccato di continuo. La sua candidatura è una boutade un po' provocatoria e non c'è alcuna ragione per considerarla una cosa seria Per me la cosa finisce qua». E adesso? Il lungo e imbarazzato silenzio opposto ieri dai vertici democratici tradiva lo stato confusionale di una classe dirigente allo sbando, indecisa se arrivare all'Assemblea nazionale di metà marzo con il solito accordo correntizio per spartirsi meglio i resti della salma al riparo di una reggenza, magari di sesso femminile (Roberta Pinotti o Anna Finocchiaro) e riparare così alle ultime gaffe. Soltanto un mite senatore, l'ex renziano Tommaso Nannicini, ha azzardato una reazione autodifensiva: «Caro Beppe Grillo, per candidarsi alla guida del Pd servono due requisiti di base. 1) Iscriversi al Pd. 2) Rimangiarsi i Vaffa contro una comunità che ha una voglia matta di buona politica, non di avanspettacolo di serie C». Muti, almeno fino a sera, tutti gli altri: dai ministri capicorrente (Andrea Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini) fino alla Conferenza nazionale Donne democratiche rimaste in modalità sediziosa per l'esclusione dalla nomenclatura che conta, passando per i più noti battitori liberi come Matteo Orfini e Gianni Cuperlo. La cosa in sé avrebbe perfino una sua coerenza: se decidi di perseguire un'alleanza strategica con il M5s guidato da Giuseppe Conte, la persona migliore cui affidarti per realizzarla non è proprio Grillo? Ma probabilmente la spiegazione è un'altra: sempre ieri, i democratici assistevano ipnotizzati all'ennesima umiliazione inflitta loro dal manipolo delle redivive Sardine di Mattia Santori, che hanno improvvisato un presidio a oltranza al Nazareno armati di tende e sacchi a pelo, con la consueta retorica da squadristi passivo-aggressivi: «Noi facciamo parte di un campo progressista e chiediamo che si apra una fase Costituente». Ai tempi del Pci... - Fosse accaduto al Bottegone, ai bei tempi, sarebbero stati dispersi in un attimo dal servizio d'ordine del Pci o scudisciati dalla polizia a cavallo. Oggi, invece, gli storditi del Pd preferiscono farsi prendere a pesci in faccia. Si può scusare Zingaretti, forse vittima di un deficit cognitivo da eccesso di emotività - «è la conferma che il Pd è una grande forza della democrazia italiana» -, ma non la presidente Valentina Cuppi che ha ricevuto la delegazione ittica magnificando «l'iniziativa da accogliere con entusiasmo» per via del suo «approccio combattivo costruttivo». Di fronte a questo collasso strutturale, dopo averli irrisi e ribattezzati «pidioti» per tanti anni, è perfino logico che Grillo pretenda di banchettare sulle loro spoglie. In attesa che l'oracolare Fassino aggiorni la profezia: «Si candidi pure alle primarie, poi vediamo quanti voti prende».

La sinistra dibatte persino sul sacco a pelo delle Sardine. Dem in tilt per la foto di Santori che ride con l'icona di Berlinguer alle spalle. La farsa: non era al Nazareno. Francesco Maria Del Vigo - Lun, 08/03/2021 - su Il Giornale. Il Pd è il partito dello psicodramma quotidiano. Possibilmente su questioni di lana caprina, sulle quali amano imbastire dibattiti accigliati e indignati, nei quali l'uno accusa l'altro di aver tradito l'identità del partito. Identità che, per altro, nessuno, neppure la Sciarelli, è riuscito a intercettare. La settimana è iniziata con le dimissioni di Nicola Zingaretti comunicate con un durissimo post su Facebook in cui il leader demoliva i suoi: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, si parli solo di poltrone e primarie». La stessa settimana finisce con il Pd che - nel suo momento più delicato -, si scervella su una foto del capo delle Sardine che fa capolino, col suo solito sorriso gigione, da una tenda canadese all'interno di una stanza. E, scandalo degli scandali, sullo sfondo, affissa a una parete, c'è la fotografia di Enrico Berlinguer. È tutto vero. Non è uno scherzo, a dimostrazione del fatto che Zingaretti aveva peccato di ottimismo nella psicanalisi del Pd. Sabato le sardine si erano presentate davanti alla sede del Partito Democratico, con tende e sacchi a pelo con lo slogan «Occupy Nazareno». Ovviamente era un'occupazione finta, tipo quelle che si fanno nei licei con il plauso compiaciuto e nostalgico dei professori. Segue un'amichevole discussione con il presidente del Pd Valentina Cuppi (sì, il Pd ha un presidente donna ma, evidentemente fanno di tutto per tenerla nascosta) e tutto finisce a tarallucci e vino. Anzi, i democratici, sempre più soli, sono quasi felici di essere «occupati» da qualcuno. Di fronte all'ennesima rivoluzione fallita, immaginiamo lo scoramento di Santori e soci: si sono comprati la tenda canadese, il sacco a pelo e pure una di quelle borse frigo che andavano molto di moda sulle spiagge negli anni Ottanta e ora cosa se ne fanno? Si erano già immaginati i video su tutti i tg, con loro accampati a Largo del Nazareno, ultimo presidio di una sinistra ormai al lumicino e invece niente. E quindi ripropongono il camping radical chic al chiuso. E la foto fa il giro del web. A sinistra sale la tensione: hanno trasformato il Nazareno in un campeggio? Hanno profanato il tempio della sinistra? Ma, soprattutto: perché Santori sghignazza così alle spalle di Berlinguer, sta sbeffeggiando lo storico e defunto leader? La situazione è tragicomica e trasferisce tutta l'autoreferenzialità di un Pd ormai dedito esclusivamente alla contemplazione del proprio ombelico. Ma non c'è nulla di più serio del ridicolo, quindi le sardine decidono di rispondere ufficialmente. Tutto il Paese è in attesa e finalmente si dirada la nebbia: la foto è vera, la tenda anche e la foto di Berlinguer pure. Ma quello non è il Nazareno spiega Santori bensì una abitazione privata. E quella foto, in un istante, diventa l'autobiografia della sinistra italiana, che riproduce in un salotto privato quello che non riesce a fare in pubblico. Povero Berlinguer e povero padrone di casa, chiunque esso sia. Nel frattempo le sardine sono state ancora una volta seppellite da una risata. Non la loro, quella degli italiani.

Stefano Folli per "la Repubblica" il 10 marzo 2021. Quasi alla vigilia dell' assemblea online di domenica - ridotta a un solo giorno - , c' è un nuovo dato che dovrebbe preoccupare il Pd oltre a quelli già noti. Anzi, dovrebbe sconvolgerlo. Si parla del sondaggio Swg per La7 che colloca il partito per la prima volta dietro i Cinque Stelle. Questi ultimi beneficiano di un limitato ma concreto "effetto Conte" che li strappa al loro destino in apparenza già segnato e li colloca al 17,2 per cento, ossia secondi alle spalle della Lega; nello stesso tempo il Pd sconta il disastro degli ultimi giorni e perde quasi due punti, scivolando al 16,6. Ma non basta, perché la forza che ambiva a essere il punto di equilibrio del sistema è superata anche da Fratelli d' Italia che raccoglie il 16,8. Si dirà: sono sondaggi e come tali capaci di fotografare l' istante ma non credibili già tra una settimana o anche meno. A maggior ragione adesso che le elezioni, anche quelle amministrative, sono lontane e avvolte nella nebbia. Tuttavia l' immagine di un Pd ridotto a quarto partito, prigioniero del proprio istinto auto-flagellatorio, rischia di convincere anche l' elettore più fedele che il declino è irreversibile. E questo cambia il quadro. Si può discutere a lungo su quale linea politica debba prevalere, e per la verità al momento non se ne discute affatto. Ma non si può negare che l' indebolimento elettorale, pur virtuale, rende qualsiasi scelta drammatica. Il Partito Democratico era abituato a fare o disfare alleanze essendone comunque il perno. Il primo partito del centrosinistra, quando non il partito di maggioranza relativa. L' intesa via via più stretta con i Cinque Stelle aveva come sottinteso che il partner più forte fosse quello del Nazareno. E la progressiva erosione del movimento "grillino" era un argomento a favore del patto. Come dire, vedete che i 5S si stanno trasformando in una specie di corrente esterna del Pd? In realtà le questioni erano più complicate, a cominciare dal senso dell' alleanza: uno strumento per mantenersi al governo, ma senza un' idea comune di quale futuro offrire all' Italia o almeno di come rendere più moderno il Paese. Adesso invece il nuovo segretario - è molto intensa in queste ore la pressione su Enrico Letta - dovrà fare il pane con la poca farina che ha. Il Pd sta diventando il "partner minore" di quell' intesa con i "grillini" che buona parte del gruppo dirigente vuole conservare. Ma essere piccoli dopo essere stati più grandi significa perdere anche l' illusione di decidere dove andare e come. Non solo: vuol dire essere oggetto di lazzi, persino di insulti inconcepibili fino a poco tempo fa. L' ex portavoce di Conte - cioè il "punto di riferimento dei progressisti", secondo una nota definizione - si è preso la libertà parlare di alcuni esponenti del Pd come di "cancri" da estirpare, salvando Zingaretti e Franceschini. E la "sardina" Santori, nell' intervista a questo giornale, ha indicato il Pd come "marchio tossico". Ora, a parte Santori che è rientrato nel suo personaggio, la verità è che Casalino pur scusandosi in un secondo tempo parla e agisce come se il Pd fosse terra di conquista per imporre, o meglio consolidare la linea della fusione di fatto con 5S e LeU. Se sarà Letta il prescelto per la segreteria avrà da lavorare nell' intento di imporre una rotta riformatrice. Che a questo punto coincide con un' adesione piena, dunque priva di ambiguità, a Draghi e al suo governo. Lasciando per ora sullo sfondo la questione dei compagni di strada.

·        Riformismo e Riformisti.

Indecisi a tutto. La grande fifa dei riformisti di Lega, Forza Italia e Pd e la crisi della democrazia dei partiti. Mario Lavia su L'Inkiesta  il 6 novembre 2021. È tutto un sussurrare, mandare veline, dichiarare senza essere citati, incontrarsi nelle case private. È il terrore che corre sul filo di gente che teme di perdere ruolo, in qualche caso persino il lavoro. Al massimo si getta il sasso per vedere l’effetto che fa, come ha fatto Giorgetti con Salvini e Brunetta prima di lui. Ma poi ci si ferma lì. Non si può dire che Matteo Salvini sia stato ambiguo: tra Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti ha scelto Giorgia. La destra estrema. Tutto alla luce del sole, va detto: il giorno dopo che il suo numero due gli aveva chiesto di guardare ad Angela Merkel e Ursula Von Der Leyen, il leader della Lega si è rivolto a due para-dittatori di destra come Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán per fare il gruppo della destra europea, altro che Partito popolare europeo. Più chiaro di così si muore.  Dopodiché, in perfetto stile cominternista, il consiglio federale della Lega ha votato all’unanimità il pieno sostegno al Capitano e alla sua linea. Anche Giorgetti si è accodato. Un esito avvilente, da Partito comunista dell’Unione sovietica, quando chi dissentiva era tenuto a pronunciare un elogio della linea ufficiale. In Forza Italia da mesi c’è un pezzo del gruppo dirigente che sbandiera il suo europeismo e filo-draghismo in contrapposizione a una linea giudicata troppo subalterna al sovranismo, un dissenso culminato nella impegnativa intervista di Renato Brunetta nella quale il ministro disegnava una linea alternativa a quella ufficiale del suo partito, tranne poi andare tutti a far festa nel villone romano di Silvio Berlusconi che è diventato anche il candidato di tutto il centrodestra al Quirinale. Quindi l’andazzo è continuato come prima, peggio di prima. Sul Partito democratico il discorso sarebbe lungo, ma basti qui osservare che la corrente sbrigativamente definita degli ex renziani che si chiama Base riformista da una parte sostiene il segretario e dall’altro (specie nei conversari privati) ne sottolinea l’inabilità e a voto segreto gli manda un segnale inequivocabile. Dopodiché la riunione del gruppo dei senatori, convocata sul disastro compiuto sulla legge Zan, si conclude all’unanimità: si sta da separati in casa, ma tutto procede come se niente fosse, domani è un altro giorno, si vedrà. Da tutto questo emergono alcune cose. Innanzitutto, il nervosismo che attraversa le principali forze politiche, tranne il monolite meloniano, almeno finché le cose andranno relativamente bene. Del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte si fa presto a dire che non esiste una vera dialettica ma solo una ricerca di sopravvivenza individuale, dunque non è una questione politica. Questo nervosismo dentro la Lega, Forza Italia e Pd è chiaramente legato alle incognite che connotano i rispettivi orizzonti politici ma anche – questo è il punto – a una prassi malata della vita interna, ove prevale sempre il terrore di rompere, di essere emarginati, di non venire ricandidati, di finire nella cosca perdente. L’opportunismo è un vizio che c’è sempre stato ma mai a questi livelli. Nella Democrazia cristiana, nel Partito socialista italiano e a suo modo nello stesso Partito comunista (specie nell’ultimo Pci) le battaglie si facevano, le minoranze parlavano, facevano iniziative, avevano proprie riviste e si giocavano la leadership nei congressi, quelli veri. Senza esaltare un passato che ha conosciuto gravi magagne, tuttavia la dialettica era più limpida. Mentre adesso è tutto un sussurrare, mandare veline, dichiarare senza essere citati, incontrarsi nelle case private. È il terrore che corre sul filo di gente che teme di perdere ruolo, in qualche caso persino il lavoro. Quest’ultimo aspetto, in un tempo di crisi, è diventato davvero un freno alla libertà di movimento dentro i partiti. Oppure prevale l’idea di aspettare tempi migliori (ma quando arrivano?), per cui al massimo si getta il sasso per vedere l’effetto che fa, come ci pare abbia inteso fare Giorgetti e forse Brunetta prima di lui, ma poi ci si ferma lì. Poi per forza irrompe, e per fortuna, Mario Draghi: che stia lì, ormai, la Politica? E invece sta per giungere il momento in cui ciascuno dovrà scoprire le carte perché vuoi o non vuoi si sta entrando in un lunghissimo periodo pre-elettorale. Le posizioni andranno chiarite. Cosa vuol fare, ad esempio, Base riformista, dalla quale era lecito attendersi uno sforzo per evitare che il Pd scivolasse su posizioni identitarie con proposte meramente di bandiera, e invece è scivolata verso la linea frontista e tutto sommato attendista di Enrico Letta. Possibile che Irene Tinagli e Lorenzo Guerini non sappiano trovare una ragion d’essere che non sia un mesto aiutare Letta? Peccato che la prima occasione non sarà la più idonea per fare chiarezza: le votazioni al Quirinale potrebbero essere i pizzini contro questo o quel leader, un parossistico incrocio di messaggi cifrati all’ombra dello scrutinio segreto. Ci vorrebbe invece, come ai bei tempi, una stagione congressuale con Giorgetti contro Salvini, Mara Carfagna contro Antonio Tajani, mister X contro Letta. Uno scontro di idee, non (solo) una lotta per la leadership. Mentre aspettiamo che i piccoli – Azione, Italia viva, +Europa, Cambiamo, Coraggio Italia – decidano che cosa vogliono fare da grandi, sarebbe bello se i tre indecisi a tutto (cit. Ennio Flaiano) ci facessero capire qualcosa e aprissero le porte alla libera e trasparente battaglia interna.

Il manifesto di 17 intellettuali della sinistra. Sedici tesi sul riformismo. Redazione su Il Riformista il 28 Luglio 2021. 

ATTUALITÀ’ DEL RIFORMISMO

1) Nel ‘900 il termine riformista ha avuto un connotato prevalente: serviva a distinguere dai massimalisti e ovviamente dai conservatori, quali assertori del cambiamento attraverso riforme graduali, senza sconvolgimenti e violenza rispettando, come intangibili, le forme della democrazia politica. Non era solo una questione di metodo a distinguere riformisti e rivoluzionari. Al fondo dell’opzione riformista vi era l’assunzione della democrazia liberale e dell’economia di mercato come riferimenti orientativi dell’azione politica dei socialisti democratici.

2) Nella sinistra attuale questa distinzione che ha attraversato il secolo non ha più senso politico-culturale: il riformismo, cioè il metodo dell’azione politica in una democrazia liberale e in una economia aperta e di mercato, è la unica versione possibile del cambiamento. I riformisti hanno un atteggiamento contrario sia al pessimismo dei conservatori e alla pretesa che il mercato “miracoloso” risolva tutto, sia all’ottimismo facilone dei massimalisti. Il riformismo è di grande attualità, si propone di perseguire obiettivi di equità, pari diritti e opportunità per donne e uomini, cittadine e cittadini. Restringere la forbice delle diseguaglianze, accrescere la coesione sociale, stimolare lo sviluppo e l’innovazione, assicurare a tutti eguali condizioni di partenza e garanzie di sicurezza è la missione del riformismo.

3) Il pensiero riformista si è trovato per lungo tempo in condizioni di minorità rispetto ad altri indirizzi ideali. Caduto il fascismo, le grandi forze politiche egemoni in Italia furono il partito cattolico e il partito comunista. Tuttavia, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, hanno avuto un ruolo nella vicenda politica e culturale del Paese, seppure da posizioni di minoranza, gruppi e personalità riformisti. Il riformismo sociale keynesiano, che faceva capo originariamente alla rivista “Cronache sociali” di Dossetti, Fanfani e Moro, che si estrinsecò con Pasquale Saraceno, favorevole all’intervento pubblico in economia; quello di ispirazione liberal-progressista di Adriano Olivetti, il cui sogno era una fabbrica a misura d’uomo; per altro verso quello degli “amici del Mondo”. L’incontro di queste ispirazioni con la cultura del socialismo riformista che ebbe grandi protagonisti in Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti fu all’origine della stagione del centro sinistra storico. Una esperienza non priva di risultati per il Paese, produsse un insieme di riforme e consentì l’emergere di una domanda di modernità e progresso civile. Dopo un lungo oblio il riferimento al riformismo fu riproposto da Bettino Craxi all’inizio degli anni Ottanta. Il notevole contributo del Pci alla storia d’Italia, dalla Repubblica, alla Costituzione, al sorgere dello stato sociale, si collocò tuttavia a lungo nell’orizzonte della fuoriuscita dal capitalismo per edificare un altro sistema, quello socialistico. Questo rese difficile la unità dei riformisti. Unità che sarebbe stata essenziale per spingere in avanti il processo riformatore e contrastare i condizionamenti e le spinte a tornare indietro nella vita economica e civile del Paese. Spinte che si manifestarono durante la esperienza della collaborazione tra socialisti e cattolici e successivamente. Alla assunzione piena del valore del pensiero riformista e al suo arricchimento contribuiranno poi le componenti che nel Pci furono definite “miglioriste” e parte delle forze che, conclusa nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino la storia del comunismo, si impegnarono alla costruzione di una nuova formazione politica della sinistra.

4) Riformista oggi rischia di diventare un’auto attribuzione se prescinde da riferimenti concreti agli specifici programmi e proposte per affrontare i problemi in cui si dibatte il Paese. Proposte e programmi dovrebbero essere il solo terreno per misurare incontri, convergenze, alleanze. In mancanza di ciò prevale l’uso astratto del termine riformista: un uso ideologico (che pretende di definire appartenenze) senza più l’ideologia. Questo svilimento del termine riformista, la perdita dei suoi contenuti concreti e di riferimento a riforme individuabili, si tenta di arginarlo con il ricorso alla retorica e alle aggettivazioni. Che non aggiungono chiarezza, ma solo alimentano il nominalismo e la confusione. Che cosa è, per esempio, un riformismo radicale? Una formula spesso utilizzata solo per alludere a presunti contenuti di maggiore profondità o antagonismo delle riforme proposte. Priva di senso, perché le riforme sono sempre quelle possibili e compatibili con la sostenibilità dell’economia e delle libertà, si giudicano sulla base degli effetti che producono, sono realizzabili sulla base di una reale cultura di governo.

CEDIMENTI POLITICI E CULTURALI DEL PARTITO DEMOCRATICO AL GRILLISMO; CADUTA DEL GOVERNO CONTE: ERRORI, LIMITI E PERICOLOSI SBANDAMENTI IN POLITICA ESTERA, NON COMPLOTTI

5) Nella fase precedente all’attuale segreteria di Enrico Letta, è cresciuto nel Partito democratico il peso delle componenti più vicine al grillismo. È appena il caso di ricordare il cedimento su punti qualificanti, dalla giustizia a quota 100, dal gigantesco fallimento del reddito di cittadinanza con i suoi “navigator” al temporeggiare su tutto ciò che riguardava l’immigrazione a cominciare dai decreti sicurezza, al rinvio nella utilizzazione del Mes. In quanto al taglio dei parlamentari la condotta del Pd è risultata improvvida. Il “Si“ poteva avere senso solo in un contesto di riforme che lo avesse alleggerito del segno demagogico e antipolitico che aveva connotato dall’inizio la iniziativa dei grillini. Un impianto programmatico e culturale che ha rischiato di rendere sempre più flebili contatti e relazioni del Pd con mondi produttivi, settori moderni della società italiana, territori propulsivi della economia, generazioni più aperte.

6) La trasformazione del rapporto con il grillismo da incontro reso necessario per contrastare il disegno reazionario di Matteo Salvini, ad una alleanza strategica, rischia di assumere i caratteri di un blocco politico che non può presentarsi con una caratterizzazione riformista. Sul piano politico questa opzione strategica si è tradotta nei mesi scorsi in una sorta di mandato in bianco al presidente Conte. Nella seconda metà del 2020 sono tuttavia apparsi evidenti i limiti e gli errori gravi del governo sia nella gestione della pandemia che nella politica economica e soprattutto nell’elaborazione del Recovery Plan. Di qui la sua crisi.

SCONFITTA DEL POPULISMO E DEL SOVRANISMO, NASCE IL GOVERNO DRAGHI

7) Il populismo e il sovranismo hanno tentato, negli ultimi anni, di introdurre cambiamenti illiberali del nostro ordinamento e una revisione della storica collocazione europeista ed atlantica del Paese. Alla prova del governo, sono stati essi a franare, a collassare, a perdere i propri connotati antagonisti e a dover intraprendere un faticoso e, allo stato, impervio processo di revisione e re-identificazione.

8) Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo la manifesta incapacità delle forze che sostenevano Conte di giungere ad una nuova intesa, dando l’incarico a Draghi per un governo di salute pubblica ha evitato che il paese venisse a trovarsi in una drammatica impasse nel pieno della crisi epidemica. Costituisce una manifestazione di avvilente regressione politica e culturale ritenere che la crisi del governo Conte sia il risultato di un disegno messo in atto da non precisate “élite” nazionali ed internazionali. Il governo Conte, lo ripetiamo, è caduto per errori e limiti nella sua condotta e per oscillazioni pericolose sul tema della collocazione internazionale dell’Italia.

9) Il governo Draghi offre la occasione -se sarà colta- per fuoriuscire da uno stato di eccezione, quello degli anni del populismo e del sovranismo. La nostra democrazia, al termine dell’esperienza del governo unitario guidato da Mario Draghi, è auspicabile si riassesti sui binari della competizione bipolare tra centrodestra e centrosinistra. I termini della dialettica politica tra i grandi schieramenti e le coalizioni in campo dovrebbero tornare ad essere, messa sotto controllo la pandemia, le risposte ai due grandi problemi della democrazia italiana: la debolezza dei governi e l’esiguità della crescita economica. Sul primo punto occorre consapevolezza che il sistema politico-istituzionale non consente più di attivare in modo efficace, all’altezza del compito, la “funzione governo”. I tre anni ultimi della legislatura in corso ne sono stati la dimostrazione estrema e parossistica. Senza un convinto e tenace impegno riformista sul terreno istituzionale da parte della sinistra, la crisi in cui l’Italia si trova da tempo non si risolve e si aggrava continuamente. Per correggere la fragilità italiana sul terreno economico occorrono le riforme (fisco, spesa pubblica, mercato del lavoro, pubblica amministrazione, giustizia, investimenti nella tecnologia, nella ricerca, nelle grandi opere pubbliche, nelle infrastrutture digitali, nella sanità, nei trasporti, nella formazione). Sono quelle che chiede l’Europa. Sono quelle di cui ha bisogno il nostro Paese. Alcune di esse come la riforma della pubblica amministrazione sono indispensabili per realizzare gli impegni italiani per la transizione ecologica o energetica: una grandissima sfida riformista che misurerà la capacità dei Paesi a competere nella innovazione e nelle individuazioni delle soluzioni possibili nel campo della mobilità sostenibile, del cambio di infrastrutture e sistemi produttivi. È il caso di tenere ben presente il modo in cui gli Stati Uniti di Biden si dispongono ad affrontare l’impresa. Nelle scelte della nuova Amministrazione statunitense la forte ambizione ambientalista si accompagna alla razionale attenzione alle ragioni della crescita e della occupazione e alla necessità di tenere conto di entrambe le esigenze e del loro combinarsi.

MESSA IN SICUREZZA DALLA PANDEMIA; ATTUAZIONE DI ALCUNE CRUCIALI RIFORME

10) Nei mesi che separano dalla elezione del presidente della Repubblica tre sono gli obiettivi di fondo della azione del governo: la vaccinazione degli italiani e la loro messa in sicurezza dalla pandemia e dalle sue varianti, l’avvio a realizzazione del Pnrr, la concreta attuazione di alcune cruciali riforme. L’Italia che a causa dei dissensi sulla predisposizione del Piano ha vissuto una crisi di governo alla fine è riuscita a rispettare la tempistica europea. Occorre ricordare a tutti e in particolare al leader della Lega Matteo Salvini, che la parola chiave del Recovery Plan è Riforme. Quelle previste dal Pnrr presentato dal governo italiano riguardano la Pubblica amministrazione, la giustizia, la semplificazione, la concorrenza e il fisco.

11) Su cinque questioni in particolare vorremmo soffermarci considerandole centrali nell’impegno riformista nei prossimi mesi:

a) Giustizia. La revisione della giustizia penale approvata dal Consiglio dei ministri su proposta della ministra Cartabia rappresenta un importante risultato delle forze che si battono da anni contro il populismo penale e il verbo giustizialista (che hanno trovato nell’ex premier Giuseppe Conte l’autentico continuatore), per una riforma del sistema giudiziario italiano nell’ottica liberale di un equilibrio dei poteri. Occorrerà procedere nella riforma del CSM prevedendo sistemi di elezioni che superino il ferreo dominio delle correnti il cui ruolo è positivo solo se esprimono un pluralismo di culture giuridiche e affrontare coraggiosamente il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. In questo quadro, i referendum radicali che in diverse occasioni hanno svolto un ruolo positivo di sollecitazione e di stimolo per le riforme, ancora una volta possono farlo. Essi consentono, su temi delicati, che posizioni distanti dal punto di vista politico possano convergere nella battaglia riformatrice.

b) Istituzioni. La sinistra riformista oltre a definire con chiarezza l’insieme delle riforme e delle innovazioni che si propone di mettere in atto, deve esprimere nel modo più netto la necessità di riforme istituzionali che ricostituiscano in Italia le basi – oggi compromesse – per la possibilità stessa del governare. Per far fronte ad un compito tanto impegnativo devono essere chiamate alla responsabilità tutte le forze della democrazia italiana, anche quelle che contendono il governo alla sinistra. Si tratta di definire un nuovo circuito plausibile ed efficace che colleghi l’espressione della volontà dei cittadini attraverso il voto con l’indirizzo e la costituzione del governo. Farlo senza cedimenti plebiscitari, tutelando la funzione della rappresentanza come quella dei soggetti politici che alimentano e interpretano il pluralismo senza il quale la democrazia si impoverisce e deperisce. Ma farlo affidando alla decisione dei cittadini un peso dirimente ai fini dell’indirizzo e della responsabilità del governo nel periodo che va da una elezione all’altra. In questo quadro vanno realizzate la riforma dei regolamenti parlamentari, la riforma del titolo V della Costituzione la cui necessità è stata messa in evidenza da ciò che è accaduto nel corso della pandemia, va introdotta la “fiducia costruttiva”.

c) Sanità. Costituisce una grande esigenza nazionale da soddisfare la riorganizzazione della sanità nel nostro Paese alla luce di quanto emerso nei mesi drammatici del Covid. Nei primi dieci anni del secolo il finanziamento della sanità pubblica si è ridotto; è stata sottovalutata la necessità, in particolare nelle regioni meridionali, di un miglioramento di strutture e servizi. Oggi è indispensabile incrementare le risorse stanziate nel PNRR per la sanità. ll punto non è smantellare la sanità regionale ma è avere un sistema centrale in grado di fissare target e obiettivi e capace di commissariare le regioni inadempienti.

d) Mezzogiorno. La sfida al dualismo era il tratto distintivo della migliore politica italiana. Quella che fondava la propria iniziativa sulla convinzione che l’unità più salda dell’Italia sarebbe nata dal superamento del dualismo, dal mettere fine ad una storica arretratezza delle regioni meridionali. La sfida al dualismo deve tornare ad essere un elemento centrale nel confronto politico e culturale nel nostro Paese.

In uno scenario internazionale profondamente mutato e investito da processi globali occorre pensare al Mezzogiorno come la piattaforma logistica dell’Europa in un Mediterraneo che, con il raddoppio di Suez torna una rotta centrale nei traffici internazionali. A questa strategia è interessato il sud che non induce a un rivendicazionismo deteriore ma chiede investimenti per accrescere l’offerta di beni pubblici di base, la giustizia, la formazione, la sicurezza, e insieme investimenti pubblici per accrescere il patrimonio di infrastrutture materiali e immateriali. Ciò che si richiede in altri termini è un impegno costante – una strategia – capace di aiutare efficacemente nuove classi dirigenti delle regioni meridionali a valorizzare quelle risorse locali che ci sono e che sono gravemente sottoutilizzate: i beni culturali e ambientali, le conoscenze scientifiche racchiuse nelle università, il saper fare diffuso in agricoltura, elementi essenziali di un patrimonio che va messo a valore nelle città del Mezzogiorno.

e) Immigrazione. I flussi sono in aumento dall’inizio del 2020 anche a causa della diffusione della pandemia. La questione nasce e si sviluppa a partire dall’Africa sub-sahariana. Negli ultimi mesi centinaia di migranti sono scomparsi nelle acque del Mediterraneo al largo della Libia. L’Italia non può permettersi di ignorare le richieste di soccorso che arrivano dal mare né può affidare i salvataggi esclusivamente alla Guardia costiera libica perché significherebbe, come dimostrano i rifiuti a salvare barche in difficoltà, essere ostaggi dei loro ricatti e della loro incompetenza. A fronte di questa complessa e drammatica realtà, come ha affermato il presidente del Consiglio, la politica sull’immigrazione del governo deve essere equilibrata, efficace ed umana. Questo comporta una incisiva iniziativa diplomatica verso i paesi di partenza per ottenere una collaborazione più efficace nel controllo delle loro frontiere marittime e terrestri e nel contrasto delle organizzazioni dei trafficanti. Vanno rafforzati gli sforzi sul fronte dei rimpatri volontari e assistiti con la collaborazione delle agenzie delle Nazioni Unite. È necessario quindi lavorare alla stipula di intese bilaterali con i paesi di origine e di transito dei flussi. Adoperarsi perché le autorità libiche consentano alle agenzie delle Nazioni Unite e ai rappresentanti della Unione europea di controllare la gestione dei campi di accoglienza dei migranti per scongiurare forme di violenza e di prevaricazioni nei loro confronti. Decisivo è rilanciare l’accordo di Malta del 23 settembre del 2019. Esso prevede un “meccanismo temporaneo di solidarietà” per la redistribuzione dei migranti che giungono via mare in tutta l’Unione europea. Notevoli sono state le resistenze verso quest’accordo: per molti Stati l’accoglimento di migranti deve restare volontario. Questo rende del tutto potenziale la solidarietà prevista nella intesa di Malta. Intesa che, tra l’altro, la pandemia ha praticamente bloccato. Si tratta di riprenderne i contenuti e di applicare con regolarità questa forma di cooperazione. Necessario resta la riforma del regolamento Dublino con il superamento della regola del Paese di primo ingresso che rovescia sui paesi dell’Europa meridionale la responsabilità dell’accoglienza.

Queste scelte andranno collocate in un quadro assai chiaro di politica estera. Da un lato una rinnovata solidarietà occidentale favorita dagli indirizzi della Presidenza Biden; dall’altro, un impegno per costruire una Europa dotata di una politica estera e di sicurezza comuni e da una politica economica orientata verso la crescita. Un quadro in cui la politica europea sia caratterizzata da una netta differenziazione dagli Stati che conducono politiche illiberali e da una capacità di contrasto a “rivali sistemici” come le autocrazie russa e cinese.

I RIFORMISTI PER IL GOVERNO DELLA GLOBALIZZAZIONE E UNA POLITICA ECONOMICA CHE STIMOLI LO SVILUPPO, L’ INNOVAZIONE E LA CRESCITA

12) Il grande cambiamento indotto dall’estendersi tumultuoso del processo di globalizzazione ha dilatato le disuguaglianze che nei paesi sviluppati avevano conosciuto una riduzione nei decenni del dopoguerra, ha eroso le sicurezze collettive, ha messo in questione i diritti accumulati nel corso dei “trenta gloriosi”. La sinistra non è riuscita ad affrontare questo passaggio cruciale nella storia del capitalismo, a costruire un “blocco sociale” nuovo, più largo, capace di saldare i ceti medi con la tradizionale rappresentanza di ceti popolari, di tenere insieme le ragioni dei diritti e quelli dello sviluppo economico nell’epoca in cui a prevalere è il gioco duro della globalizzazione. Nel corso degli ultimi due decenni sono emersi e si sono imposti nuovi diritti individuali: conseguenza di eventi che hanno mutato il panorama esistenziale, emotivo e immaginario degli uomini, si pensi all’impatto delle biotecnologie e al sorgere della bioetica. Una forza di sinistra non può sottrarsi alla ricerca su come governare responsabilmente e razionalmente un tale fenomeno cogliendo le potenzialità di nuove libertà che maturano.

13) La critica da rivolgere alla sinistra è che essa ha stentato a capire che nel mondo in movimento in cui viviamo se non si producono le risorse necessarie è del tutto impossibile tutelare il complesso dei diritti: alla salute, alla istruzione, ad una vita dignitosa, alle prestazioni previdenziali ecc. Ecco perché la questione della crescita è decisiva. Ed è su questo punto che la sinistra non ha saputo battersi. Una questione che riguarda la sinistra europea nel suo complesso: la stessa transizione ecologica o energetica (decarbonizzazione) sarà impossibile se l’economia europea entro il 2025 non fuoriesce dalla crescita debole. In Italia, più che inseguire 5Stelle il Pd avrebbe dovuto concentrare la propria iniziativa nella promozione di investimenti pubblici e privati, di infrastrutture e occupazione nel Sud, nella qualificazione della spesa pubblica, riduzione del debito, aumento dei salari.

TRAGICO ERRORE POLITICO LEGARE LE SORTI DELLA SINISTRA AL CARRO DI BEPPE GRILLO E GIUSEPPE CONTE: SI CONDANNA IL CENTRO SINISTRA ALLA SCONFITTA

14) Per un centro sinistra impegnato a portare avanti la strategia delle riforme, per una coalizione che si ispiri all’europeismo e faccia del garantismo una propria battaglia è indispensabile l’apertura a nuovi apporti ed energie politiche.

Presentarsi ad un Paese che cerca di risalire la china sulla base di un piccolo e confuso agglomerato politico Pd-M5s non condurrebbe molto lontano. Assistiamo in queste settimane alla caduta nel nulla di un movimento, quello grillino, che ha travisato le istituzioni, ha introdotto odio giustizialista e violenza parolaia in un tessuto politico e civile già indebolito. Difficile che qualcosa o qualcuno risorga dalle macerie in cui si consuma il populismo grillino.

È stato un tragico errore politico aver pensato di legare la sorte della sinistra e del Pd al carro di Grillo e Conte. Quest’ultimo mosso da una parzialità fanatica verso il governo Draghi fino al punto di schierarsi contro le proposte di riforma della giustizia penale avanzate dalla ministra Cartabia.

UNA BATTAGLIA POLITICA E CULTURALE NEL PD PER RILANCIARE IL SUO PROFILO DI FORZA RIFORMISTA E CENTRALE NELLA VICENDA POLITICA ITALIANA

15) Una delle conseguenze più gravi di questa condotta è l’ambiguità con cui il Pd guarda al governo Draghi. Culturalmente penoso è il grossolano tentativo compiuto da settori non irrilevanti del Pd di trasformare il governo Draghi, reduce da una intesa con le parti sociali sulla delicata questione della durata del blocco dei licenziamenti, in un esecutivo di destra, preda del demone neoliberista. Una condotta infelice, una manifestazione di pigrizia mentale che consente alla Lega di Salvini di “intestarsi in modo strumentale” l’operato e i risultati della azione del governo.

In questa situazione, sarebbe importante se si aprisse una battaglia politica nel Pd tesa al mutamento della attuale linea politica, per rilanciarne il ruolo sulla base di un chiaro indirizzo riformista: un partito democratico che sostenga senza ambiguità la concreta azione del governo Draghi, ne assuma la agenda politica e programmatica e su queste basi si prepari ad affrontare le difficili prove politiche ed elettorali che si annunciano.

POSITIVO IL SORGERE DI UN SOGGETTO POLITICO LIBERALE ED EUROPEISTA

16) Consideriamo inoltre un fatto positivo che, anche alla luce del collasso del M5S, maturi una soggettività politica liberale, europeista, organicamente riformista attenta alle questioni dello sviluppo economico. Potrebbero riconoscersi in essa energie politiche e culturali provenienti dalla società civile, dal campo delle professioni, degli studi, del lavoro.

Un soggetto politico con tali caratteristiche potrà emergere sulla base di una mobilitazione di interessi e di energie sociali e anche con la iniziativa di forze di cultura liberaldemocratica, radicale e socialista presenti oggi nella vicenda politica italiana. A questo processo, chi ha a cuore le sorti del centro sinistra, non potrà che guardare con interesse. Altresì importante appare la crescita di un civismo che parli agli interessi più direttamente percepiti dalla gente. Un civismo autonomo dai conflitti di interesse, dagli schematismi ideologici, dalla ripetitività burocratica: una dimensione civica che cresca in piena autonomia.

Fabrizio Cicchitto,

Bobo Craxi,

Biagio De Giovanni,

Mauro Del Bue,

Ercole Incalza,

Alberto Irace,

Andrea Manciulli,

Maria Rosaria Manieri,

Biagio Marzo,

Gianvito Mastroleo,

Riccardo Nencini,

Bruno Pellegrino,

Claudio Petruccioli,

Sergio Pizzolante,

Gianfranco Polillo,

Umberto Ranieri,

Claudio Signorile

·        Che fine ha fatto il sindacato?

Finanza e investimenti. Ccnl: sono 935 e 4 su 10 sono firmati da sindacati “fantasma”. Redazione di Investire il 29/06/2021 su Notizie.it. 351 contratti sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale. Su 935 Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) vigenti e depositati al CNEL entro il 31 dicembre scorso, 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale: praticamente 4 su 10, precisamente il 37,5 per cento del totale. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA, la Cassa degli Artigiani di Mestre che da sempre si occupa di realizzare studi sull’economia reale. E oggi è il turno della proliferazione dei contratti di lavoro che si sono letteralmente moltiplicati in Italia e sigle sindacali “fantasma”. Intendiamoci, nessuno mette in discussione la libertà sindacale che, in un Paese democratico va sempre garantita. Tuttavia, non è un mistero che spesso sigle sindacali “fantasma” che non rappresentano nessuno, o quasi, sottoscrivono dei contratti di lavoro a livello nazionale che molti definiscono, correttamente, “pirata”. Sia chiaro: non siamo nel “far west”, ma in alcune filiere produttive poco ci manca. Sono accordi che spesso abbattono i diritti più elementari, indeboliscono la legalità, favoriscono la precarietà, minacciano la sicurezza nei luoghi di lavoro, comprimendo paurosamente i livelli salariali. Accordi fortemente al ribasso che creano concorrenza sleale delegittimando quelle organizzazioni che, invece, hanno una rappresentanza sindacale presente su tutto il territorio nazionale, fatta di storia, di cultura del lavoro e del fare impresa, di iscritti, di sedi in cui operano migliaia e migliaia di dipendenti che erogano servizi a milioni di imprese e milioni di lavoratori dipendenti.

Al CNEL il compito di “controllare” la regolarità dei contratti. In un momento in cui il mondo del lavoro sta vivendo delle tensioni sociali profondissime, secondo la CGIA è giunto il momento di rivedere il sistema della rappresentanza, consentendo alle organizzazioni datoriali e sindacali che sono riconosciute dal CNEL la titolarità di sottoscrivere accordi-contratti di lavoro a livello nazionale e locale, mentre a tutte le altre sigle che firmano un nuovo Ccnl, lo stesso dovrebbe essere “asseverato” da un’istituzione pubblica terza che, ad esempio, potrebbe essere proprio il CNEL. Senza questa “bollinatura”, il contratto non potrebbe essere applicato, fino al momento in cui le parti non apportano i correttivi richiesti. In alternativa, con una legge parlamentare si potrebbero stabilire i requisiti dimensionali minimi che le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese devono possedere per potersi definire tali, potendo così sottoscrivere su base nazionale un contratto collettivo di lavoro. Una soluzione, quest’ultima, più facile a dirsi che a farsi, visto che le parti sociali ne parlano da almeno 40 anni, ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La crisi della rappresentanza. Che fine ha fatto il sindacato? È in una crisi profondissima…Astolfo Di Amato su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Un soggetto è totalmente scomparso durante la pandemia: il sindacato. Dove è finito? In questo momento si parla molto di crisi della politica, tanto che il Governo Draghi è visto come una fase di tregua utile ai partiti per ridefinirsi. In realtà, prima ancora che i partiti appaiono in crisi tutti i grandi gruppi intermedi e, tra questi, innanzitutto i sindacati. Forse perché, da un lato, vivono una crisi non nata con la pandemia, ma molto più antica, e, dall’altro, la loro crisi interessa una parte sempre più ridotta della collettività. La crisi è iniziata negli anni 80. In quegli anni il sindacato, nella componente non solo maggioritaria, ma anche più agguerrita ed intransigente, e cioè la parte della Cgil che faceva riferimento al Pci, subì due sconfitte cocenti: prima, nel 1980, la riapertura dei cancelli della Fiat, a seguito della marcia “dei quarantamila” quadri a Torino, e successivamente, nel 1985, l’esito del referendum sulla abolizione della scala mobile. In tutti e due i casi, la sconfitta sottolineò la distanza che si andava allargando con la società, nel suo complesso. Proprio in quegli anni, difatti, si verificava, anche in Italia, il fenomeno, che aveva già segnato le economie più avanzate, della crescita dei servizi in misura tale da sopravanzare la produzione dei beni. Anche la società italiana diventava, dunque, postindustriale. Si è trattato di una rivoluzione silenziosa, che ha completamente stravolto le relazioni di lavoro. Il sindacato, restato ancorato allo schema dei rapporti di fabbrica, ha iniziato, in quel momento, a distaccarsi da una parte sempre più larga del mondo produttivo, quello dei servizi, creando le premesse per divenire progressivamente il sindacato degli operai andati in pensione. E, difatti, l’ultima imponente manifestazione sindacale fu quella, organizzata da Cofferati nel 1994, contro la riforma Berlusconi delle pensioni. Che, dopo alcuni anni, sono state colpite ben più duramente, senza alcuna significativa protesta. Nel frattempo, si sono verificati altri due fenomeni imponenti, che hanno ulteriormente rivoluzionato il mondo del lavoro: la globalizzazione e l’avvento di Internet. Il primo fenomeno ha, tra l’altro, avuto l’effetto di accentuare il fenomeno dello spostamento in paesi lontani dall’Italia della produzione di beni. Per le poche fabbriche restate in Italia, poi, la proprietà è in molti casi passata a gruppi esteri, come tali insensibili agli effetti in Italia di una lotta sindacale anche dura. Il secondo ha, a sua volta, avuto una duplice conseguenza. In primo luogo, ha consentito la delocalizzazione anche dei servizi, e non solo di quelli di contenuto elementare. Si pensi, da un lato, ai call center, e, dall’altro, alla contabilità che molte multinazionali affidano a centri di elaborazione collocati in paesi asiatici come le Filippine. Inoltre, ha consentito la creazione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro: si pensi allo smart working o al platform working, di cui tanto si parla in questi giorni, a proposito dei rider. Modelli tutti caratterizzati dal fatto di disarticolare la comunità dei lavoratori che si riuniva nel luogo fisico della fabbrica o dell’ufficio. Ebbene, di fronte a questi fenomeni, che hanno mutato definitivamente il volto della società, il sindacato è restato a piantonare, almeno in Italia, un orticello divenuto sempre più ridotto, quello della fabbrica, tentando, al più, di far applicare a queste nuove forme di lavoro lo schema di rapporto di lavoro, che nel secolo scorso era stato elaborato con riguardo all’operaio in fabbrica, e perciò palesemente inadeguato. Il risultato di tale evoluzione (anzi, di tale mancata evoluzione) del sindacato si è potuto misurare in questi mesi di pandemia: il sindacato è stato del tutto assente. Se ne è avvertita la presenza per il rinnovo del contratto degli statali, che ha registrato aumenti per una delle poche categorie protette e mentre una parte molto rilevante del mondo produttivo sprofondava nell’indigenza, e per le proteste dei sindacati degli insegnanti, quando il nuovo Presidente del Consiglio ha ipotizzato di estendere di 15 giorni l’anno scolastico, in considerazione dei molti mesi di chiusura forzata delle scuole. Nel frattempo, la cassa integrazione ha funzionato male e con ritardo, i posti di lavoro persi sono già centinaia di migliaia, la condizione dei giovani e delle donne è precipitata. E il sindacato? Proteste per il cattivo funzionamento degli ammortizzatori sociali? Nessuna. Quali le sue proposte, oltre ad una richiesta del blocco dei licenziamenti che non può durare all’infinito? In questo quadro, l’iniziativa del Ministro Orlando di voler subito incontrare i sindacati, addirittura prima ancora che le Camere dessero la fiducia al Governo, appare più come il patetico tentativo di piantare delle bandierine che come una seria manifestazione della volontà di risolvere i problemi del presente, avendo la capacità di guardare al futuro. In questo momento il lavoro è in una condizione di fragilità, ed avrebbe bisogno di una rappresentanza forte e capace di interpretare il nuovo che si è ormai radicato stabilmente nella società. Spesso, oggi, è proprio il lavoro estraneo al mondo sindacale, e cioè quello fuori dalle fabbriche e fuori dalle amministrazioni pubbliche, in una condizione di maggiore debolezza. Si deve aggiungere che le nuove tecnologie, consentendo il lavoro a distanza con orari più elastici, hanno reso meno netta la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Quest’ultimo, per di più, è spesso divenuto sinonimo di precariato. È di fronte a questa realtà complessiva che il sindacato deve ridefinire il proprio ruolo ed i propri obiettivi. Se non ci riesce, restando ancorato agli schemi del Novecento, è destinato ad una definitiva marginalizzazione. Ed il mondo del lavoro è destinato a restare senza presidi.

Dagospia l'8 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, L’Inpgi pretendeva da me e dalla collega Manuela D’Alessandro con cui curo il blog giustiziami.it un risarcimento danni di 75 mila euro perché in un articolo avevamo criticato la mancata costituzione parte civile dell’istituto nel processo a carico dell’ex presidente Camporese. Il Tribunale civile di Roma ha sentenziato che il blog aveva esercitato il diritto di cronaca e di critica in modo pertinente. L’Inpgi è stata condannata a pagare 8.000 euro. Lo farà con i soldi degli iscritti già utilizzati per pagare gli avvocati che avevano intentato la causa. I signori al vertice dell’Inpgi sono giornalisti che procedono in modo intimidatorio contro colleghi che fanno il loro lavoro e basta. Il sindacato dei giornalisti brilla per il suo silenzio. Frank Cimini

Dagospia il 29 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Carissimo Dago, nessun giornale oggi pubblica la notizia se non minuscola e ben nascosta che Inpgi finirà nell’INPS a partire dal 22 luglio prossimo. E te credo! Perché bisognerebbe pure scrivere che Inpgi stava fallendo e stava fallendo perché depauperato da un quarto di secolo di stati di crisi con i quali gli editori dei giornali hanno risanato i loro conti. L’Inpgi non si è mai lamentato perché è sempre stato nelle mani e diretto da colleghi collusi con il potere e con i giochetti della politica. Uguale discorso vale per FNSI, il sindacato dei giornalisti responsabile anche di altre tragiche scelte quando ha consentito di fare questo mestiere con contratti diversi. Del resto e per non farla troppo lunga in un paese in cui fa cacare il sindacato dei metalmeccanici producendo un soggetto come Landini che cosa ci si può aspettare dal sindacato dei giornalisti? Frank Cimini

Così l’Inpgi è finita sull’orlo del crac. Frank Cimini su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Sarà anche un bel mestiere fare il gazzettiere, ma da adesso in poi bisognerà farlo senza l’Inpgi, l’istituto di previdenza privato dei giornalisti. L’Inpgi era sull’orlo del fallimento e finirà nell’Inps, la previdenza pubblica a partire dal primo luglio dell’anno prossimo. Ma in realtà ci è già finito perché si trova da subito sotto il controllo dell’Inps. Il consiglio di amministrazione dell’Inpgi non può prendere nessuna decisione autonomamente. A pagarne le conseguenze saranno i colleghi che hanno ancora un bel po’ di anni di lavoro da fare prima della pensione perché i meccanismi della quiescenza con l’Inps sono molto meno remunerativi rispetto all’Inpgi. Da questa storia non esce bene nessuno. E in prima fila c’è l’Inpgi che da un quarto di secolo si è fatto depauperare, subendo in silenzio, da una quantità infinita di stati di crisi richiesti dagli editori e concessi dai vari governi dopo che la stessa politica aveva stabilito la possibilità di accedere all’aiuto pubblico anche solo in previsione di un mero calo della pubblicità. Gli stati di crisi consentivano e consentono tuttora di prepensionare giornalisti con ottimi stipendi le cui posizioni vanno a pesare sulle casse dell’Inpgi, sgravando quelle delle aziende che in pratica si ristrutturano a spese dell’istituto previdenziale dei dipendenti. L’Inpgi ci rimette moltissimo perché i pochi nuovi assunti incassano stipendi molto più bassi dei loro predecessori versando di conseguenza contributi di valore largamente inferiore. Correva l’anno 1994 ed erano ancora tempi di vacche grasse, ma si avvertivano i primi scricchiolii di tempi brutti quando Il Mattino di Napoli e il Secolo XIX di Genova chiesero lo stato di crisi. Da allora è stata una valanga che continua tuttora. E va ricordato che in editoria come in altri settori si fa anche un largo uso della cassa integrazione che pesa sulle casse pubbliche. L’ultimo caso, strettissima attualità, è quello dell’Eco di Bergamo quotidiano di proprietà della curia arcivescovile (unico caso in Italia) dove azienda e comitato di redazione hanno raggiunto un accordo per la CIG al 14 per cento. Va detto che il giornale ha il bilancio in attivo, forte anche dell’enorme massa di soldi incassati con i necrologi in relazione al ruolo di capitale nazionale della pandemia. La cassa integrazione durerà un anno, 7 mesi subito e altri 5 mesi nel 2023. L’interruzione serve per allungare i tempi fino a chiedere e ottenere l’ennesimo stato di crisi con cui si prevede di pensionare un’altra decina di giornalisti, un quinto dell’intero organico. L’editore da un lato guadagna risparmiando a spese di tutti, ma dall’altro spende soldi dando in appalto all’Ansa la confezione delle pagine di interni e esteri finora fatti dalla redazione. Tutto va bene madama la marchesa. Il sindacato tace come del resto sugli stati di crisi in tutta Italia. Nonostante il presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti sia un dipendente dell’Eco, Paolo Perucchini. Frank Cimini

Il paradosso di Landini: combatte per i giovani ma si tiene il posto per evitare la pensione. Pasquale Napolitano il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il leader Cgil avrebbe potuto lasciare già due anni fa. Veleni nei sindacati. «Disse il prete: fa quello che ti dico ma non fare quello che faccio io». Il proverbio calza alla perfezione, come un abito sartoriale, al numero uno della Cgil Maurizio Landini. C'è un paradosso che sta venendo fuori e che investe il capo dell'organizzazione sindacale rossa. Lo scivolone è sulle pensioni, il terreno su cui Landini muove la guerra al premier Mario Draghi. Una storia che alimenta veleni e malumori nel sindacato. Landini si eleva a paladino dei giovani. Ma conserva da «pensionato» la poltrona di segretario generale della Cgil. Alla faccia dello slogan «spazio ai giovani». Proprio lui che, tre giorni fa, uscendo da Palazzo Chigi, dopo il tavolo con Draghi sulle pensioni, ha dichiarato: «La mia battaglia è per le nuove generazioni. Serve una pensione di garanzia per i giovani. Con un sistema così tra 40 anni i giovani non avranno una pensione pubblica». Battaglia che, però, sembra aver accantonato quando, due anni fa, è stato chiamato a guidare il sindacato rosso. Landini è un segretario in età pensionabile. Ma non molla la poltrona. E non lascia spazio a quei giovani che dichiara di voler difendere. Una bella contraddizione. Landini è stato eletto segretario generale della Cgil, nel gennaio del 2019 all'assemblea di Bari. Quando, calcoli alla mano, avrebbe potuto già fare domanda di pensionamento e far spazio a forze fresche. Nulla da fare. Il segretario della Cgil, oggi, ha 60 anni; nel 2019 di anni ne aveva 58. In un'intervista al Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2014 Landini dichiarava: «Sono andato a scuola fino a 16 anni. Dopo le medie, ho fatto due anni di geometra, poi dovevo iscrivermi al terzo anno ma sono andato a lavorare: in casa non c'erano più soldi. Studiare mi piaceva, sono sempre stato promosso. Ho iniziato come operaio nel 77 da un artigiano che faceva cancelli e finestre. Nel 78 sono andato a lavorare in una cooperativa metalmeccanica, a Cavriago». I conti sono semplici. A meno che non abbia lavorato come abusivo, dal 1977 fino al 2019 (anno di elezione al vertice della Cgil) Landini avrebbe maturato 42 anni di contributi. Nel 2019 i requisiti previsti dalla legge, 58 anni e 42 anni di contribuiti, avrebbero consentito al segretario Cgil di fare richiesta di pensionamento. Non l'ha fatta. È rimasto in aspettativa e al vertice del sindacato. Il mandato scadrà nel 2023. Rinnovabile per altri 4 anni. E così oggi il sindacato della Cgil si ritrova con un segretario in età pensionabile. Un leader che difende i lavoratori da pensionato. Chissà se Landini deciderà di cedere il passo a un giovane o rimanere in sella per altri 4 anni? Certamente non si vive male con lo stipendio da leader del sindacato. Cifra svelata dallo stesso Landini al programma Otto e Mezzo nell'aprile del 2019. «Non ho nessun problema - disse - a rendere noto quanto prendo. Essendo segretario generale dovrebbe essere circa 3.700 euro al mese netti. È lo stipendio più alto in assoluto. Io non ho mai preso uno stipendio di quel genere lì in tanti anni che lavoro». Si vive bene. La pensione può attendere.

Quando il sindacato era rivoluzionario. Francesco Perfetti il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Nato con Sorel come movimento di idee, attuò una profonda revisione del marxismo. Il sindacalismo rivoluzionario italiano del primo Novecento annoverò tra le sue file personalità di grande rilievo intellettuale e politico, da Arturo Labriola a Enrico Leone, da Walter Mocchi ad Angelo Oliviero Olivetti, da Sergio Panunzio ad Agostino Lanzillo e Paolo Orano, e via dicendo. L'essenza di questo movimento è stata tratteggiata con efficacia da Renato Melis in un bel volume antologico pubblicato originariamente alla metà degli anni Sessanta e riproposto ora con il titolo Lavoro e nazione: sindacalisti italiani (Oaks Editrice, pagg. XII-378, euro 25) a cura di Gennaro Malgieri: un volume che ancora oggi, a distanza di molti decenni, appare fondamentale per un primo e corretto approccio alle idee di quel movimento. Scrive dunque Melis: «nato in seno al socialismo e decisamente antistatalista; marxista e revisionista del marxismo; politico ed antipolitico insieme, nelle sue finalità e nei suoi atteggiamenti, nella sua teoria come nella sua pratica, il sindacalismo si annuncia subito come una dottrina insieme affascinante e difficile». E precisa ancora: «è politico perché tende a una profonda trasformazione sociale e la vuole ottenere con la lotta più strenua ed aperta; è antipolitico ed antiparlamentare, in quanto vede nel sindacato, libero da ogni soggezione di partito, lo strumento che le forze del lavoro debbono impiegare per la loro autoeducazione, per il loro trionfo sulle forze avverse e per il finale autogoverno, in cui dovrebbe attuarsi fino a sparire ogni sostanziale differenza tra governati e governanti, col massimo di libertà nel massimo di giustizia». È il ritratto, rapido ed efficace, di un movimento di pensiero, prima ancora che di un movimento politico, che Melis definisce «sindacalismo allo stato puro» e che, sulle orme di Georges Sorel, vedeva nello sciopero generale un «mito» in grado di catalizzare le energie del proletariato indirizzandole a fini ricchi di alta moralità. Il sindacalismo rivoluzionario nacque proprio con Sorel, il grande pensatore francese autore di opere come L'avvenire socialista dei sindacati o le Considerazioni sulla violenza o anche Le illusioni del progresso. Questi - cui Pierre Andreu dedicò una splendida, suggestiva e simpatetica biografia dal titolo Sorel il nostro maestro (Oaks, pagg. X-300, euro 25) - ebbe maggiore fortuna in Italia che in Francia. A tale fortuna contribuì anche l'amicizia con Mario Missiroli che lo volle come collaboratore nel quotidiano che allora dirigeva. L'influenza di Sorel, poi, e del sindacalismo rivoluzionario sul giovane Mussolini e sulla sua scelta politica di rottura con il partito socialista è, ormai, ben documentata. Il sindacalismo rivoluzionario, germinato dal dibattito internazionale sul «revisionismo» del marxismo, fu agli inizi un elemento dialettico interno al movimento socialista ma si trasformò ben presto in opposizione radicale al socialismo. In verità la derivazione marxista del sindacalismo rivoluzionario è quanto mai discutibile. I sindacalisti proponevano, sì, il metodo rivoluzionario, auspicavano, sì, una rottura violenta, ma la loro formazione culturale e intellettuale era tutt'altro che marxista. Si riallacciavano anzi - proprio sotto l'influenza di Sorel e dell'intuizionismo di Henri Bergson, del contingentismo di Émile Boutroux e del volontarismo di Maurice Blondel - alla reazione contro il positivismo e il materialismo. Non si interessavano solo di rivendicazioni economico-salariali, ma puntavano soprattutto sull'educazione del proletariato, sulla necessità di fornirgli una coscienza politica che favorisse il crollo di una società della quale il socialismo riformista e la debolezza borghese mostravano la decadenza. Nel caso italiano, poi, l'estrazione meridionalista della maggior parte dei sindacalisti puri o teorici, sottolineata da Antonio Gramsci nelle sue Note sul problema meridionale, poneva, a ben vedere, limiti sulla figliolanza marxista del sindacalismo rivoluzionario. L'estrazione meridionalista derivava non tanto dal fatto che il Mezzogiorno non fosse in grado di usufruire della politica riformista, quanto dal fatto che, a causa dell'analfabetismo e della scarsa industrializzazione, il marxismo non aveva possibilità di attecchirvi. L'arretratezza economica e la difettosa evoluzione industriale avevano, inoltre, lasciato permanere forme associative e corporative medievali cui i sindacalisti rivoluzionari, sia pur inconsciamente, si riallacciavano. Sempre Gramsci sottolineò che «l'essenza ideologica del sindacalismo» era «un nuovo liberalismo più energico, più aggressivo, più pugnace di quello tradizionale» e precisò: «se osservate bene, due sono i motivi attorno ai quali avvengono le crisi successive del sindacalismo e il passaggio graduale dei sindacalisti nel campo borghese: l'emigrazione ed il libero scambio; due motivi strettamente legati al meridionalismo». La citazione gramsciana - opportunamente ricordata da Melis nel suo saggio che ricostruisce con finezza la genesi e lo sviluppo del sindacalismo rivoluzionario nel contesto del dibattito internazionale - pone una questione apparentemente stupefacente, ma in realtà meno peregrina di quanto si possa pensare, tant'è che uno dei più importanti esponenti del sindacalismo rivoluzionario e grande giurista, Sergio Panunzio, già nel 1906 aveva scritto che il sindacalismo era «un liberalismo e un individualismo di gruppi e di sindacati, la nuova incarnazione dell'eterna idea liberale». A mostrare l'incompatibilità tra socialismo e sindacalismo intervenne nel 1911 la guerra di Tripoli, che segnò una svolta nella storia d'Italia e determinò l'avvicinamento tra nazionalisti e sindacalisti. Essa vide la maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari schierarsi per l'intervento, mentre i socialisti si battevano per la neutralità, ridotti al ruolo, per usare una colorita espressione di Angelo Oliviero Olivetti, di «cagnetta di madama democrazia». Seguì la campagna per l'intervento nella Grande Guerra, dove i sindacalisti ebbero un ruolo chiave nella «conversione» di Mussolini, nel fargli abbandonare cioè la posizione neutralista. Poi ci furono l'adesione al fascismo e il contributo alla elaborazione teorica del corporativismo. Tuttavia l'adesione al fascismo non fu priva di riserve e spunti polemici: Panunzio, per esempio, ironizzò sulla Camera dei fasci e delle corporazioni chiamandola «Camera dei fasci e delle commissioni» e, d'altro canto, Olivetti, malgrado l'antica e profonda amicizia personale con Mussolini, rifiutò sempre la tessera del partito. In fondo, il sindacalismo rivoluzionario italiano, il sindacalismo «allo stato puro» di cui discorre Melis, era una dottrina politica autonoma fondata sul sindacato unico di categoria giuridicamente riconosciuto alternativa alla democrazia parlamentare. Una dottrina che non si identificava appieno con il fascismo.  Francesco Perfetti

·        L’Utopismo.

Il fascino degli utopisti. Esperimenti per una società perfetta. Anna Neima su L'Inkiesta il 9 Ottobre 2021. Il libro di Anna Neima (pubblicato da Bollati Boringhieri) raccoglie storie di gruppi di persone che hanno cercato di costruire comunità nuove regolate da principi diversi. Sono tutti tentativi falliti, ma costituiscono una fonte di idee e di esperienze valide per tutti. Le utopie sono una sorta di sogno sociale. Inventare un mondo «perfetto» – in un romanzo, un manifesto o una comunità vivente – significa mettere a nudo quanto vi è di sbagliato in quello reale. Gli utopisti rifiutano di accontentarsi dei miglioramenti sociali ottenibili con i soliti metodi: la disobbedienza civile, le politiche elettorali, la rivoluzione violenta. Nel corso della storia hanno scelto un approccio ogni volta diverso per articolare la propria visione di società trasformata. I contadini affamati nell’Europa medievale sognavano il paese di Cuccagna, dove le strade erano fatte di pasta dolce, nei fiumi scorrevano miele e vino e le oche arrosto volavano direttamente in bocca ai passanti. Sir Thomas More, di fronte al feroce fanatismo religioso dell’Inghilterra del XVI secolo, si figurò un’isola-nazione dove uomini e donne potessero scegliere la propria fede senza timori, e coniò per essa il termine «utopia». Queste due visioni palesemente diverse erano entrambe modi di immaginare un mondo in cui gli errori dell’epoca venivano corretti: dove non vi erano più carestie o dove l’intolleranza religiosa era impossibile. Entrambe offrono, a uno sguardo odierno, uno spaccato delle ansie e delle speranze dei loro ideatori. More costruì la parola «utopia» su un gioco di parole tra due espressioni greche quasi identiche: ou-topos, «non luogo», ed eu-topos, ossia «buon luogo». Secondo questo uomo di legge nonché politico di epoca rinascimentale, le utopie erano, per definizione, irrealizzabili; fu proprio tale convinzione a indurlo a scrivere il suo libro, una tagliente satira delle manchevolezze della società del tempo. Ma il termine che inventò gli sopravvisse. Più tardi, gli idealisti interpretarono il concetto di utopia non come un’indicazione di impossibilità, ma come una sfida. Si chiesero se le utopie dovessero davvero essere dei «non luoghi». Non poteva esservi un’altra possibilità? Perché non fondare davvero un «buon luogo»? I riformatori sociali cominciarono così a definire i loro insediamenti – nei quali gruppi di idealisti tentavano di concretizzare le proprie aspirazioni sociali in comunità reali – «utopie». Gli esperimenti di utopismo pratico tendono a presentarsi a ondate, solitamente in corrispondenza di periodi segnati da sconvolgimenti culturali e sociali. Il desiderio di staccarsi dalla società e di ricominciare è un modo per porre nuove fondamenta, per mettere alla prova idee poco ortodosse trasformandole in azioni. Una di queste ondate – anche se non certo la prima – si manifestò nel XVI secolo all’interno della Riforma protestante. Pur avendo rifiutato il dogma cattolico, i pensatori protestanti di tutta Europa avevano comunque bisogno di trovare nuove modalità sociali che si adattassero alle loro credenze. Abbandonati la pompa delle cattedrali, i paramenti in seta e l’incenso e le statue dorate dei santi, volevano vivere seguendo la Bibbia alla lettera, praticando un culto non performativo. Oltre a dare origine alle principali sette protestanti, come il luteranesimo, il calvinismo e l’anglicanesimo, la loro ricerca generò anche una serie di movimenti religiosi minori e più radicali, comprese le comunità utopiche cristiane degli hutteriti e dei mennoniti, che vivevano in «colonie» isolate e autosufficienti, rifiutando le comuni norme sociali e dedicandosi alla preghiera. Il XIX secolo vide emergere un’altra ondata di esperimenti, con la fondazione di centinaia di utopie secolari e religiose negli Stati Uniti. A ispirarle furono l’ottimismo e la libertà sociale seguiti alla conquista dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Fra le altre vi erano la comunità trascendentalista di Brook Farm, che ambiva a raggiungere il perfetto equilibrio tra svago, lavoro manuale e attività intellettuale, e le «falangi» costituite dai seguaci del visionario francese Charles Fourier, il quale sperava di inaugurare un nuovo millennio di amore e fratellanza in America. Più di recente, negli anni sessanta e settanta del Novecento, si assistette a una nuova ondata di utopie durante il boom economico che fece seguito alla seconda guerra mondiale. Dalla Kommune 1 di Berlino alla cooperativa Kaliflower di San Francisco, moltissimi giovani diedero vita a comunità che si emancipavano dal conservatorismo sociale dei genitori dandosi all’amore libero, alle politiche di sinistra, alla mescalina e al misticismo. Tuttavia, in pochi momenti della Storia il mondo è stato disseminato di utopie praticate come nei vent’anni intercorsi tra le due guerre mondiali. Buona parte della narrazione dell’epoca è dominata dagli esperimenti sociali su scala nazionale del fascismo e del comunismo, che modificarono drasticamente il paesaggio del mondo moderno. Tali esperimenti si fondavano sulla coercizione: la sorveglianza militare, le purghe, la collettivizzazione e l’oppressione. Eppure, perfino mentre le immagini di Mussolini, Hitler, Lenin e Stalin, circondati da oceani di braccia alzate o pugni serrati, venivano trasmesse dai notiziari di tutto il mondo, e le fabbriche, dal Giappone alla Germania, cominciavano a produrre in serie proiettili ed elmetti d’acciaio, iniziarono a spuntare decine di piccole comunità cooperative votate a un’esistenza utopica. Gli strumenti impiegati da queste comunità per raggiungere i propri obiettivi erano la proprietà condivisa dei beni, modalità decisionali democratiche e un sistema d’istruzione progressista. I loro tentativi di riforma sociale erano sperimentali, idiosincratici e spesso bizzarri: tre ore al giorno di meditazione al buio in una sala di preghiera; serate di danza «psicologicamente rigenerativa»; gruppi di intellettuali dalle mani morbide piegati sulle vanghe ed ex braccianti che imparavano a suonare il violino. Ciononostante, tali luoghi non erano soltanto rifugi per eccentrici in cerca di evasione da un ordine sociale insoddisfacente che non potevano cambiare. Gli idealisti che vi gravitavano intorno si impegnavano a immaginare nuove strutture sociali e a capire che aspetto avrebbe avuto un «buon luogo» nella realtà, cercando di vivere in modo da ispirare una trasformazione anche negli altri. La loro era una visione globale: desideravano migliorare la condizione dell’umanità intera, non soltanto dei propri compagni all’interno della comunità. Pubblicavano libri e riviste, tenevano conferenze pubbliche e attraversavano oceani per piantare i semi del cambiamento. «Il fuoco di un solo fiammifero / è in grado di accendere ogni cosa infiammabile al mondo», scriveva Mushanokōji Saneatsu dal suo villaggio in Giappone. La generazione di idealisti che fondò le comunità utopiche del primo dopoguerra condivideva diverse caratteristiche, malgrado le provenienze geografiche differenti. Un impressionante numero di riformatori aveva subìto gravi perdite personali durante il conflitto e la pandemia. L’inglese Leonard Elmhirst aveva perso due fratelli durante la prima guerra mondiale, a Gallipoli e nella Somme. A Eberhard Arnold, un tedesco, era morto un fratello sul fronte orientale. E l’americana Dorothy Straight era rimasta sola con tre bambini dopo che il marito era deceduto nella pandemia di influenza. Il dolore alimentò la loro determinazione a costruire un mondo migliore in memoria di chi non c’era più. Pur avendo idee diverse su come dovesse essere il «buon luogo», gli utopisti erano in gran parte d’accordo su ciò che rifiutavano, ossia il fatto che le persone all’interno del mercato economico venissero generalmente considerate come a sé stanti e in competizione reciproca. Molti idealisti leggevano e ammiravano gli stessi pensatori radicali del XIX secolo, in particolare William Morris e Lev Tolstoj. Sognavano l’uguaglianza sociale, l’autodeterminazione dell’individuo e una vita autosufficiente basata sul lavoro della terra; così si ritirarono in remote aree rurali per fondare comunità corrispondenti alle proprie aspirazioni. Tuttavia, le utopie praticate in quel primo dopoguerra riflettevano le strutture di potere dell’epoca: erano guidate soprattutto da individui appartenenti alla classe media o alta e tendevano a replicare modalità patriarcali. Per realizzare un’utopia serviva un capitale, che di solito era ereditato o donato ai fondatori da ricchi benefattori che ne sostenevano gli ideali. Era molto più semplice costruire una comunità che rifiutava il sistema capitalistico se qualcun altro vi aveva già a che fare e poteva provvedere ai fondi necessari. I leader di questi gruppi erano per la maggior parte uomini e di rado si rivelavano particolarmente visionari riguardo ai ruoli delle donne. Spesso le idealiste degli inizi del XX secolo si battevano per estendere il suffragio femminile e i propri diritti sociali a livello nazionale, dunque era probabile che, in genere, fossero troppo impegnate a organizzare proteste e a manifestare, passando poi le notti in cella, per potersi staccare dalla società e dare vita a un’utopia. Agli uomini, già sicuri della propria posizione sociale, la decisione di discostarsi dalle convenzioni per creare una comunità offriva invece una gradita possibilità di sperimentare modi diversi di vivere. E benché vi fossero donne in posizioni influenti all’interno delle utopie gestite dagli uomini, poche godevano dei privilegi necessari per fondarne una propria. Vi furono naturalmente eccezioni: per esempio la Panacea Society, una comunità alloggiata in una piccola serie di villette vittoriane nella cittadina di mercato di Bedford e guidata da Mabel Barltrop, la quale era convinta di essere stata mandata da Dio per correggere lo squilibrio di genere nel cosmo e guidare i popoli verso una vita immortale sulla Terra. Altre donne riversarono nei romanzi le proprie idee riguardo a mondi alternativi buoni o anche cattivi: per esempio la società pacifista di sole donne descritta in Herland da Charlotte Perkins Gilman, o la distopia eugenetica evocata da Rose Macaulay in What Not. Le utopie praticate negli anni Venti e Trenta rientravano per lo più in due ampie categorie. La prima tentava di incoraggiare l’autorealizzazione totale della persona mediante l’unione di testa, cuore e mani. Tre delle comunità che racconteremo qui rappresentano esempi di questo filone: Santiniketan-Sriniketan, un centro vivace e cosmopolita che utilizzava l’istruzione per promuovere un’esistenza piena e appagante fra le capanne dai tetti di paglia del Bengala orientale; Dartington Hall, una tenuta nella campagna inglese generosamente rifornita e finanziata dall’ereditiera americana Dorothy Straight, i cui membri univano l’allevamento dei polli alle recite all’aperto e la ricerca spirituale a un’autogestione condivisa; e Atarashiki-Mura, un piccolo collettivo di intellettuali giapponesi squattrinati che coltivavano riso e perseguivano l’autorealizzazione impegnandosi in attività artistiche. Pur essendo luoghi molto diversi, intendevano tutti offrire ai loro membri un’esistenza più completa, che potesse soddisfarli sul piano creativo, intellettuale, sociale e spirituale, oltre che economico. Quegli utopisti non erano interessati a modificare soltanto una particolare area del comportamento umano. Volevano farsi carico dell’individuo per intero e migliorarlo. Credevano che il modo di vivere dei loro contemporanei dovesse essere completamente rivisto. Il secondo tipo di comunità era guidato dalla spiritualità. Molti idealisti temevano che questa dimensione fondamentale della vita umana corresse il rischio di perdersi fra le ambizioni materiali del capitalismo industriale, le scienze empiriche e l’attacco sferrato dagli orrori della guerra e della pandemia a qualsiasi forma di religione e di fede. La loro versione di vita buona prevedeva una rigida adesione a sistemi spirituali che andavano dall’ortodossia cristiana ai nuovi sincretismi tipici dell’epoca. Altre tre comunità di quelle che vedremo riflettono questa forma di utopismo: l’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo, una comune bohémienne imperniata su un sistema di «shock» psicologici nelle foreste fuori Parigi; il Bruderhof, una colonia cristiana austera e quasi monastica nella Germania centrale; e il Trabuco College, un gruppo di uomini e di donne che seguivano la «terza morale», un regime di castità, dieta vegetariana e meditazione silenziosa fra i cactus e gli arbusti della California. Le storie di queste utopie non raccontano della copiosa abbondanza, del libero dibattito intellettuale e dei vasi da notte dorati che si trovano in More o nel paese di Cuccagna. Vi compaiono anzi conti in banca vuoti e raccolte di fondi infruttuose; malaria, fame e notti insonni in capanne infestate di zanzare; raccolti di riso mancati, zoccoli umidi e rancorosi battibecchi sui turni per nutrire i maiali. Non sono storie di «successo» o «fallimento». Alla fine, le utopie «falliscono» sempre, almeno nel senso che il «luogo perfetto» non è ancora stato creato sulla Terra, è improbabile che vi compaia a breve e, in ogni caso, è un concetto intrinsecamente soggettivo. Il fascino di ripercorrere le utopie praticate non sta nel fatto che rappresentano soluzioni perfette alla domanda su come vivere, ma nei metodi creativi con i quali rispondevano ai problemi del loro specifico momento storico. Con l’evolversi delle società, si evolvono anche i problemi e, di conseguenza, cambia la visione del «buon luogo», mentre la visione precedente viene messa da parte. Benché le comunità presentate qui fossero spesso di piccole dimensioni, irriducibilmente eccentriche e ignorate anche dai contemporanei, ciò non significa che siano da dimenticare. Incoraggiavano infatti le persone a mettere in discussione lo status quo e a credere che i singoli potessero operare un cambiamento facendo della propria vita un esempio a cui guardare. Le utopie praticate introdussero inoltre una serie di concetti che sarebbero poi stati adottati dalla società intera o che, per lo meno, l’avrebbero influenzata: dall’istruzione incentrata sui bisogni del bambino e l’accesso universale alle arti, fino all’agricoltura a bassa tecnologia, passando per le toilette compostanti e le sessioni quotidiane di meditazione o mindfulness a cui dedicare qualche ora. Sarebbero arrivate a influenzare anche le politiche governative, a ispirare e istruire una nuova generazione di uomini di Stato, studiosi e artisti, fino a rappresentare un modello per la controcultura degli anni sessanta e settanta. Offrirono insomma un’abbondante riserva di insegnamenti a chi aspirava a migliorare la società, e continuano tuttora a farlo. Le comunità instaurate dopo la prima guerra mondiale sono esempi di quella che Aldous Huxley definì «la più difficile e la più importante di tutte le arti: l’arte di vivere insieme in armonia, a beneficio di tutti gli interessati». La loro storia è la storia di un potenziale umano mai realizzato, dei cammini che avremmo potuto intraprendere e che potremmo ancora intraprendere. È la storia di come il mondo possa essere plasmato, anche se soltanto in maniera limitata, da un gruppetto di tipi bizzarri e non proprio ben lavati che tentano di costruirsi insieme una vita nelle campagne; una storia di assurdità, possibilità e speranza. da “Gli utopisti. Sei esperimenti per una società perfetta”, di Anna Neeima, traduzione di Bianca Bertola, Bollati Boringhieri editore, pagine 352, euro 26

·        Il Populismo.

Le ali del populismo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2021. Non trovate deprecabile che molti notabili siano arrivati a Glasgow per il summit sull’ambiente a bordo di aerei privati inquinanti? Certo, se Biden fosse salito su un volo di linea, sedendosi vicino al finestrino accanto al ragionier Bianchi, i passeggeri si sarebbero lamentati dei ritardi nel decollo dovuti alle misure di sicurezza. E se avesse preso il treno (senza neanche la carrozza-letto, tanto si addormenta ovunque, come si è visto), gli osservatori avrebbero malignato sull’allungamento dei tempi già biblici di un summit convocato per evitare il nuovo diluvio universale. E non oso immaginare che cosa sarebbe successo se un membro del suo staff fosse stato oggetto di un’aggressione durante il viaggio: accuse di dilettantismo e proliferare di complottismo. Non sfugge il valore emblematico di certi gesti, come andare al lavoro in autobus invece che in Ferrari e mangiare all’autogrill anziché in un «tre stelle» Michelin, ma il potente che li compie dà sempre la sensazione di agire per narcisismo, essendo veramente minimo l’impatto positivo del privilegio a cui rinuncia, a fronte dei problemi provocati dalla scelta di ergersi a finto monaco in favore di telecamera. Promemoria per Greta: chi ha danneggiato di più l’ambiente nelle ultime 48 ore? Biden che prende l’Air Force One per andare a tentar di ridurre le emissioni malefiche o Xi Jinping che rimane a casa sua, ma non firma il taglio del metano e aumenta di colpo la produzione del carbone

La sinistra scorda i veri antifascisti. Marco Gervasoni il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. «Intimo-vos a renders-vos incondicionalmente». Così il comandante della Força Expedicioniera Brasileira all'esercito della Repubblica sociale e a quello tedesco, il 26 aprile 1945 a Fornovo, a sud di Parma. Fu l'ultima battaglia della Seconda Guerra mondiale da noi, e i brasiliani, alleati di americani e inglesi, con 25mila uomini e 400 caduti, diedero un piccolo ma importante contributo alla Liberazione. Poco più a Sud, in provincia di Pistoia, combatterono anche a fianco delle truppe della Resistenza. L'Italia, e in particolare la sinistra, ne furono riconoscenti: tra Pistoia, Pisa, Bologna e Parma, tutte zone rosse, spesseggiano i cimiteri militari e i monumenti ai brasiliani sacrificatisi per noi. Ci saremmo quindi aspettati, da parte dell'Anpi, del Pd, di Sinistra Italiana, di Rifondazione comunista (pare esista ancora), dei centri sociali, un'accoglienza particolare al presidente del Brasile, Bolsonaro, venuto a commemorare i caduti della libertà (quelli veri, non quelli, peraltro mai caduti, contro un fascismo immaginario). Invece è stata inscenata un'indecorosa gazzarra, un fuggi fuggi delle autorità locali, con uno sgarbo diplomatico non da poco, con il vescovo di Pistoia arringante contro il presidente di una delle nazioni più cattoliche del mondo, e poi la manovalanza dell'antifascismo cosiddetto militante a contestare Bolsonaro, e già che c'erano pure Salvini, venuto ad accoglierlo. Questa pietosa vicenda ci conferma quello che sapevamo: primo, che la sinistra ormai è solo volontà di distruzione del nemico, i cosiddetti valori essendo sono solo un pretesto. Secondo, che se un atto viene compiuto da un nemico della sinistra, esso perde qualsiasi valore. In tal caso il nemico è Bolsonaro, presidente regolarmente eletto di una grande democrazia, che in visita ufficiale andava accolto come tale, non come è stato fatto dalla Regione toscana e dal sottosegretario piddino Bini. Perché odiano Bolsonaro? Non si sa. Perché ha estradato Cesare Battisti? Forse, ma sicuramente perché è «fascista», e perciò è venuto a commemorare gli antifascisti brasiliani. Si capisce che ormai non basta più neppure Flaiano per descriverli, ma ci vuole Ionesco e il teatro dell'assurdo ma forse anche il Paolo Villaggio di Fantozzi. E poi: si chiede alla destra di commemorare la Resistenza. Quando lo fa, è presa a insulti e sassate, perché la Resistenza è «cosa loro». E allora, quest'idea distorta e proprietaria di «Resistenza», la destra la lasci pure alla cosiddetta sinistra. Marco Gervasoni

Il vizio dell'ipocrisia. Augusto Minzolini il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Uno dei vizi più comuni della politica italiana è l'ipocrisia. Addirittura qualcuno l'annovera tra le qualità, o meglio, come lo strumento più efficace per camuffare la realtà. Uno dei vizi più comuni della politica italiana è l'ipocrisia. Addirittura qualcuno l'annovera tra le qualità, o meglio, come lo strumento più efficace per camuffare la realtà. L'Enrico Letta che se la prende con mezzo mondo per l'affossamento del ddl Zan è un esempio di ipocrisia: lo sapevano tutti, proprio tutti, pure i commessi del Senato, che quel provvedimento senza una mediazione sarebbe andato sotto, per cui le accuse del giorno dopo del segretario del Pd o sono la prova di una goffaggine politica o, appunto, uno sfogo ammantato di ipocrisia. Altra ipocrisia bella e buona è teorizzare che se Mario Draghi andasse al Quirinale si troverebbe sicuramente il giorno dopo il modo di fare un altro governo per concludere a scadenza naturale la legislatura. Non è così. Lo sanno pure i sampietrini della Capitale. Mettere in piedi l'attuale esecutivo, infatti, è già stato un mezzo miracolo, il risultato di una congiunzione astrale difficilmente ripetibile. Immaginare che la stessa maggioranza si possa formare su un governo Cartabia o Franco o è un'illusione, o, appunto, è un esercizio di ipocrisia. Il motivo è semplice: l'autorevolezza del personaggio Draghi, a livello internazionale e ora anche nel Paese, ha creato un aplomb istituzionale sotto il quale partiti diversi, addirittura antagonisti, sono riusciti a collaborare senza troppi danni sul piano del consenso. Immaginare che la stessa copertura possa essere garantita da altri nomi non è un'ipotesi reale. Tanto più ad un anno dalle elezioni. Nel migliore dei casi i partiti che accettassero di farne parte ne subirebbero un danno elettorale non indifferente, tipo quello riportato dal Pd e da Forza Italia quando furono costretti ad appoggiare il governo Monti. Anche perché le riforme spesso costano sul piano dei voti e se Draghi se l'è cavata nella Legge di Bilancio con un insieme di compromessi (pensioni, reddito di cittadinanza, tasse) qualora entrasse in campo un altro esecutivo come conseguenza del suo trasloco al Quirinale, quello avrà l'onere di decidere davvero. Non ammettere questa evidenza è un atteggiamento ipocrita, un modo per tranquillizzare i tacchini, in questo caso i parlamentari che hanno il terrore delle elezioni anticipate, in vista del Natale. Ecco perché se i grandi elettori sceglieranno Draghi debbono essere consapevoli che il passo successivo saranno le elezioni. Un epilogo che, a seconda dei punti di vista, potrebbe essere un bene o un male. Il problema è esserne coscienti al di là di ogni ipocrisia. Augusto Minzolini

Il metodo dell'insulto dal Pci al Pd. Andrea Cangini l'1 Novembre 2021 su Il Giornale. Cambiano i tempi, gli uomini e le sigle dei partiti. Non cambia il metodo. Cambiano i tempi, gli uomini e le sigle dei partiti. Non cambia il metodo: declinare le scelte e i rapporti politici sul piano etico, delegittimare gli avversari ponendoli fuori dal campo democratico, ammantare di questione morale ogni faccenda pubblica, istituzionale o amministrativa. In questo c'è continuità tra Pci e Pd. Il passato è noto. Da Antonio Gramsci che metteva fuori gioco Giacomo Matteotti definendolo «pellegrino del nulla», a Palmiro Togliatti che espelleva per «tradimento» i dirigenti comunisti emiliani «democratici» Valdo Magnani e Aldo Cucchi disumanizzandoli in «pidocchi», al marchio di «socialfascisti» impresso sulla carne viva di Turati, di Rosselli, di Buozzi e poi di Saragat, di Nenni e di Craxi. Per non dire della tenaglia morale e giudiziaria stretta per anni alla gola di Silvio Berlusconi. In tempi recenti è capitato a Carlo Calenda, fino al primo turno delle comunali descritto come il «candidato della destra e della Lega» (Andrea Orlando) che «vuole portare Roma a Salvini» (Valeria Fedeli) pur essendo ormai al suo «ultimo rantolo» (Goffredo Bettini), per poi essere graziosamente rilegittimato dal segretario Letta in vista del secondo turno. Quinta colonna della Destra è anche l'accusa che, dopo il voto sulla legge Zan, ha portato alla sentenza di espulsione dal perimetro democratico di Matteo Renzi. Una sentenza inappellabile perché imbastita, secondo prassi, non sul piano della politica ma su quello della morale (i «diritti» offesi). Il metodo, dunque, non è cambiato. È però cambiato il pulpito. I comunisti sentenziavano le loro scomuniche da solide cattedre politiche ben piazzate nella Storia, i post comunisti sentenziano le loro da tende scout piantate nel vuoto del presente. È cambiato il pulpito, ed è cambiato il sistema politico. Il Pci stava fisiologicamente all'opposizione e perciò non aveva bisogno di alleati, il Pd ambisce a stare strutturalmente al governo e perciò ha bisogno di alleati. E ne ha ancor più bisogno in vista del Gran Ballo del Quirinale. Si consiglia, pertanto, agli amici democratici di dismettere i panni del barone von Masoch, avviando una rigorosa analisi dei costi e dei benefici (per il partito, per il sistema politico e per la società) che questo antico ma violento metodo in effetti comporta. Probabilmente scoprirebbero che deporre le armi dell'etica per impugnare quelle della politica li avvantaggerebbe e, spostando l'attenzione dalle persone alle cose, contribuirebbe a svelenire e rendere più concreto il dibattito pubblico in questa nostra conflittuale e un po' ipocrita Italia. Andrea Cangini

Che te lo Dico a fare? Letta, Zan e l’eterno ritorno della sinistra degli stereotipi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'1 Novembre 2021. Sulla legge contro l’omotransfobia, il Pd è tornato a fare quello che ha fatto per un decennio con Dico, Pacs e Cus senza ottenere nulla. E ora vuole trasformare Renzi nella nuova Binetti per aver proposto di trattare (come lo stesso Letta e ieri sera anche Prodi). Sul ddl Zan e su come siamo arrivati a questo punto, ovviamente, tutte le opinioni sono legittime. Personalmente, disapprovo sia la scelta compiuta da Matteo Renzi di andarsene in Arabia Saudita invece che a votare in Senato, sia la scelta compiuta da Enrico Letta di lanciare una fatwa contro Italia viva invece di una seria analisi della sconfitta. Comunque la pensiate, però, c’è qualcosa che dovrebbe preoccuparvi, specialmente se siete elettori del centrosinistra (parlandone da vivo), nella piega che ha preso tutto il delirante dopopartita. A partire da una certa sensazione di déjà vu. Il Partito democratico sembra infatti fermamente intenzionato a fare con la legge contro l’omotransfobia quello che ha fatto per oltre un decennio con Pacs, Dico e Cus. E cioè assolutamente nulla, dal punto di vista legislativo, ma un nulla gravido di scontri tanto esasperati quanto inconcludenti, su cui gruppuscoli, partitini e leaderini hanno costruito fortune, a spese della coalizione, dei governi di centrosinistra e dello stesso Partito democratico, la cui gestazione fu enormemente complicata proprio da questa dinamica autodistruttiva. A leggere i giornali – per non parlare dei social, che vent’anni fa per fortuna non c’erano – sembra infatti di essere tornati al tempo dei girotondi e alle stucchevoli discussioni sull’identità della sinistra, generalmente riassumibili nel concetto: essere davvero di sinistra significa gridare molto forte quanto ti fa schifo la destra, non scendere a compromessi con la destra, non parlarci nemmeno, con la destra (lasciando inevasa la domanda su cosa la sinistra ci stia a fare, a quel punto, dentro un’istituzione chiamata non per caso «Parlamento»). Sembra di essere tornati ai tempi in cui fior di intellettuali sostenevano che essere di sinistra significava definire il governo di Silvio Berlusconi un “regime”, paragonandolo esplicitamente al fascismo. E senza più neanche un Antonio Pennacchi a replicare, come fece in un’indimenticabile assemblea del 2002, che «quello [Berlusconi, ndr] aveva un’idea del Paese e noi non ce l’abbiamo», perché noi «sappiamo fa’ solo battaglie de stereotipi». Evidentemente è proprio così. Sappiamo combattere – noi di sinistra – solo a colpi di stereotipi. E quando ci viene a mancare il problema su cui allestire la parodia di una guerra civile a colpi di contrapposti luoghi comuni, magari perché a qualcun altro viene in mente di risolverlo, il problema, occorre trovarne un altro. Il giorno dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, chi ha più sentito parlare di Paola Binetti? In un battibaleno erano scomparsi tanto i bersaglieri pronti a una nuova breccia di Porta Pia, quanto le armate clerico-fasciste decise a riportarci nel medioevo. Ed ecco che, dopo essere andati a sbattere in Senato sulla legge Zan, per uscire dall’imbarazzo, i dirigenti del Pd sembrano avere deciso di trasformare Renzi nella nuova Binetti, facendo delle inconfessabili manovre renziane il luogo comune espiatorio su cui scaricare tutte le responsabilità, allo scopo di alimentare una mobilitazione che altrimenti non saprebbero come motivare. Si può non condividere la posizione di Italia viva sulla legge Zan (io l’ho criticata qui già a luglio) e trovare al tempo stesso surreale la campagna scatenata dal Partito democratico contro gli esponenti di Italia viva. Campagna particolarmente surreale, in primo luogo, perché fondata sull’accusa – ovviamente indimostrabile – di avere votato in segreto diversamente da come pubblicamente dichiarato. E in secondo luogo perché l’indizio decisivo sarebbe il fatto di avere invitato a trattare con il centrodestra, che è quanto Letta aveva proposto di fare, con una svolta radicale e inattesa, proprio alla vigilia del voto. Nulla però è stato surreale come sentire Romano Prodi spiegare ieri sera in tv che sarebbe stato semplicissimo fare due o tre piccole modifiche («quelle di cui si discuteva») per approvare la legge Zan, e che dunque se si è andati allo scontro è perché «si è voluto l’incidente». Salvo precisare subito che l’apertura di Letta, alla vigilia del voto, non era stata affatto tardiva, perché se si vuole l’accordo si trova anche all’ultimo minuto. Dunque, di chi è la colpa: di chi voleva trattare o di chi non voleva farlo? Di chi voleva snaturare la legge o di chi l’ha strumentalizzata per andare allo scontro? E chi era che voleva trattare: Letta o Renzi? Non ha nessuna importanza. Nelle «battaglie di stereotipi» contano solo gli stereotipi.

(ANSA il 30 ottobre 2021) - "Rinunciare al compromesso possibile per sognare la legge impossibile è stata una scelta sbagliata, figlia dell'incapacità politica del Pd e dei 5S". Intervenendo sul fallimento al Senato del ddl Zan, il leader di Iv Matteo Renzi scrive alla Repubblica, accusando i dem di aver "preferito scrivere post indignati sui social anziché scrivere leggi". L'ex premier osserva che è vero che ci sono stati franchi tiratori, e Iv ha contestato la decisione di concedere il voto segreto sul non passaggio agli articoli. "Ma al di là di tutto - aggiunge -, resta il fatto che la legge è fallita per colpa di chi ha fatto male i conti e ha giocato una battaglia di consenso sulla pelle di ragazze e ragazzi". E "additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". "Il triste epilogo del disegno di legge Zan divide per l'ennesima volta il campo dei progressisti in due. Da un lato i riformisti, che vogliono le leggi anche accettando i compromessi - spiega il leader di Iv -. Dall'altro i populisti, che piantano bandierine e inseguono gli influencer, senza preoccuparsi del risultato finale. I primi fanno politica, gli altri fanno propaganda. I fatti sono semplici. Il Ddl Zan era a un passo dal traguardo. Sui media, ma anche in Aula nel dibattito del 13 luglio 2021, avevamo chiesto di evitare lo scontro ideologico trovando un accordo sugli articoli legati alla libertà d'opinione e all'identità generale, come richiesto da molte forze sociali e dalle femministe di sinistra". "Non è un caso che l'unica legge a favore della comunità omosessuale mai approvata in Italia sia stata quella delle unioni civili, figlia del compromesso e della scelta di mettere la fiducia fatta dall'allora governo. Fino ad allora e dopo di allora la sinistra preferiva e anche oggi preferisce riempire le piazze, fare i cortei, cullarsi nella convinzione etica di rappresentare i buoni, il popolo, contro i cattivi, il Parlamento. Additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". Secondo Renzi, in Italia il centrosinistra "dovrà scegliere se inseguire le parole d'ordine populiste, come la vicenda Zan sembra suggerire o tornare al riformismo".

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 23 ottobre 2021. La politica non vuole amplessi clandestini. Il sesso sciolto è un handicap. Vale sempre il vecchio motto: meglio comandare che fottere. L'orgasmo è sostituito dal potere. In Italia il primato della virtù (o dell’ipocrisia) fu una delle ragioni dei 4O anni di potere della classe politica democristiana, che, a parte autorevoli eccezioni, è stata prevalentemente casta. I pettegolezzi erano competenza dei servizi segreti che poi li trasformavano in ricatti (vedi la carriera stroncata di Fiorentino Sullo, gigante della DC irpina e nazionale, ma omosessuale). Con Craxi, la svolta del socialismo notte, la trombata decisionista, l'harem del garofano alla De Michelis: si passò da "L'orgia del potere" al "Potere con l'orgia". Eppure mai fu scritto un rigo. Per anni, solo peccati di omissione a mezzo stampa. Anche se Moana Pozzi dà i voti alle perfomance di Craxi, silenzio. Poi, quando Bettino era più morto che vivo, ecco apparire Anja Pieroni sulle copertine dei settimanali mezza nuda. E giù piccanti allusioni alla relazione con il Cinghialone. Infine, Sandra Milo introduce in Italia il genere letterario delle confessioni d'alcova a sfondo politico, la politica delle mutande, sia pure alla memoria. I tempi cambiano: dal sesso proporzionale (il politico gode e tace) al sesso maggioritario (il politico gode e racconta). Alla faccia del bacchettonismo democristiano, alle spalle della "glande-stinità" socialista, irrompe la volontà di esternare - politicamente - una scelta di campo erotica. Così, nel 1991 lo spirito infedele di Bossi pensò bene di proporre come slogan politico lo stato di erezione. "La Lega ce l'ha duro", durissimo, chilometrico; armato di "manico" è lui, Bossi, Membro Kid. Da una parte. Dall’altra, la signorina Rosy Bindi ammetteva la sua verginità, fatto privatissimo che diventa un pubblico messaggio di virtù. Lo spirito del tempo cambia, di nuovo. Oggi, quello che è certo è che le marachelle sessuali sono sempre di più diventate il lato debole dell'uomo di potere, l’arma politica preferita per far fuori il nemico. Bill Clinton, appena accennò alla riforma della sanità americana (che penalizzava le potentissime società assicurative), tirarono fuori dal cassetto i suoi rapporti “orali” con Monica Lewinski, e la riforma morì. Le “cene eleganti” con Bunga Bunga di olgettine hanno bruciato il berlusconismo senza limitismo. Oggi è tutto un parlare della doppia morale di Luca Morisi, la ‘’Bestia’’ social che ha decretato il successo della Lega di Salvini. Con la sua frangetta da chierichetto, s’avanza uno di quei leghisti che, secondo il libro del senatore Zan, sono “machi” omofobi a Roma ma baciano uomini a Mykonos. Fa scalpore le due facce della “Bestia”: quella pubblica (insulti e calunnie sessisti sui social, gogne e demonizzazioni in Rete per immigrati e spacciatori, campagne di ineguagliabile violenza: "Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno") e quella privata (festini nel cascinale veneto con immigrati rumeni da scopare con cocaina e Ghb, la “droga dello stupro”). Da notare infine la differenza: quando a delinquere è un poveraccio è solo un “tossico”, quando sbuca Luca Morisi, insaziabile killer da tastiera, gli orchi si fanno pecore: si scrive di “fragilità esistenziali” e lo spaccio diventa ‘’cessione’’. Amorale della doppia morale: a volte basta un'erezione (sbagliata) per distruggere un partito.

Mattia Feltri per "La Stampa" il 12 ottobre 2021. «Dovreste baciarci per le strade, è grazie a questi ragazzi disadattati se non è arrivato il fascismo». Roba del genere Beppe Grillo l'ha ripetuta spesso - questa è del 2016 - e per una volta ci aveva visto giusto. Il pessimo dei cinque stelle è di aver eccitato il malcontento e di averlo innalzato con campagne surreali a quote virulente; il buono è di averlo sottratto alla furia delle piazze per inscatolarlo dentro un unico coso, il Movimento, capace di contenere e disarmare ogni rabbia, ogni frustrazione, ogni psicosi. Poi però i ragazzi disadattati, cioè gli eletti, sono andati a sbattere contro la realtà. Carlo Sibilia, per esempio, il sottosegretario all'Interno, quello convinto che l'uomo non è mai sbarcato sulla Luna: quattro anni fa diede della matta a Beatrice Lorenzin poiché imponeva le vaccinazioni ai bambini, oggi dà del matto a chi ammicca ai no vax. Bravo Sibilia: un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l'umanità. Ma ora che i ragazzi disadattati hanno messo un po' di sale in zucca, e qui e là cominciano a parlare come altri esseri senzienti. Adesso si avvera la profezia di Grillo, gli arrabbiati lo mollano e in mancanza di meglio un tantino di fascismo a cui mettersi alla coda lo hanno trovato. Dunque a sinistra si può esultare per le vittorie nelle città, e trascurare che sono arrivate per l'astensione delle periferie, e si può pure sciogliere Forza Nuova, a questo punto cosa buona e giusta. Ma sarà soltanto illusione: il rapporto fra le classi dirigenti e un pezzo di popolo sì è guastato da molto tempo, e non lo si aggiusterà riducendo tutto a fascismo. 

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

 Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

I nostalgici con falce e martello. Francesco Maria Del Vigo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto: è tutto un fiorire di falci e martelli sulle schede elettorali. Nonostante negli ultimi giorni sotto i riflettori della stampa sia finita la presunta galassia nera, c'è un'intera costellazione rossa che, sotto molteplici insegne, corre per avere un posto in consiglio comunale. Tutto assolutamente legittimo e legale, ma nel 2021 a cento anni dalla fondazione del Pci (quello originale, non uno degli attuali tarocchi) e a più di centocinquant'anni dal primo volume del Capitale tutto questo proliferare di compagni è quantomeno naïve. A Milano i partiti che esibiscono la falce e il martello nel loro simbolo sono addirittura tre. E mica corrono insieme, bensì uno contro l'altro armati. D'altronde si sa, ogni qualvolta s'incalza un nipotino di Marx sui crimini commessi da quell'ideologia in Unione Sovietica o in Cina, lui risponde serafico: «No, ma quello è un altro comunismo». È la moltiplicazione delle falci e dei martelli, il marxismo à la carte, la diaspora dei compagni. Perché il comunismo cattivo è sempre quello altrui e, quando si chiede loro di indicarci quello buono, incredibilmente, non riescono mai a trovare un valido esempio in tutto l'orbe terracqueo. Stalin, Mao e Fidel sono sempre compagni che sbagliano. Quelli che non sbagliano, al momento, sono irreperibili. Torniamo a Milano e alle sue liste: il Partito Comunista, il Pci e il Partito Comunista dei lavoratori. Solo Torino riesce a offrire una scelta più ampia ai suoi cittadini: ai tre simboli presenti nel capoluogo lombardo si aggiunge anche Sinistra Comune. A dire il vero c'è anche Potere al popolo, che non ha la falce e il martello nel simbolo, ma abbiamo buone ragioni di pensare che non sia un covo di moderati e liberali. Gli elettori di Roma e Bologna sono decisamente più sfortunati: compaiono solo due partiti comunisti su ogni scheda elettorale. Insomma, nonostante l'allerta sempre altissima per il ritorno delle formazioni di estrema destra, quelle di estrema sinistra sembrano godere di ottima salute ed essere iperattive nella vita democratica dello Stivale. Il proliferare di tutti questi simboli oramai viene derubricato come folklore politico. E va bene così, non ci sono, per fortuna, armate rosse alle porte delle nostre città e il marxismo è stato già ampiamente sconfitto dalla storia, prima ancora che nelle urne. Però vale la pena ricordare la storica risoluzione europea del 19 settembre del 2019, quella che equipara il nazismo al comunismo perché, dietro quel simbolo che oggi è poco più che una carnevalata, c'è una ideologia criminale e, dietro quell'ideologia, qualche milione di morti.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

«Populismo classista». La maleducazione della sardina con infondata autostima e la dittatura del caruccismo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Ottobre 2021. È un ottimo momento per approfittarsene, se sei una donna. Come ha fatto una giovane biondina a Piazzapulita che borbottava costantemente impedendo a un maschio di rispondere a una domanda che lei stessa gli aveva fatto. Pronostico per lei un ruolo da ministro entro cinque anni. È un ottimo momento per approfittartene, se sei una donna. Ci pensavo giovedì sera, mentre una biondina con infondata autostima (e quindi sardina, movimento politico d’elezione dei biondini con inspiegabile autostima) borbottava costantemente impedendo a un maschio di rispondere a una domanda che lei stessa gli aveva fatto. Il conduttore provava a dirle di lasciar replicare l’altro ospite, ma non poteva sbottare «ahò, e basta un po’» come avrebbe plausibilmente fatto con un uomo altrettanto maleducato: a una donna «stai zitta» non lo puoi dire, sennò diventi protagonista d’un bestseller sul (tuo) maschilismo. In C’eravamo tanto amati, un film del 1974, Giovanna Ralli interpretava l’ereditiera cessa di cui s’innamorava Vittorio Gassman. Era un’ignorante che tentava di sembrare colta, che diceva di non poter mangiare «idrocarburi» intendendo «carboidrati», che trovava «molto tosto» il romanzo suggeritole da Gassman (I tre moschettieri), che si compiaceva del suo ruolo di spettatrice di Antonioni e lettrice forte («Si vede che non hai letto il Siddharta»). Oggi quel personaggio lì non potrebbe che essere interpretato da una belloccia, perché non esistono più figlie di ricchi coi dentoni e gli occhiali dalle lenti spesse, perché al cinema e nei talk show vige la dittatura del caruccismo. E infatti la biondina è assai caruccia, e neanche ti viene da infierire quando dice all’interlocutore che il suo è un «populismo classista», e perché non un’acqua asciutta, ragazza mia. («Populismo» ha superato «radical chic» nella classifica delle parole che vorrebbero dire tutt’altro e vengono ormai usate come un generico segno di disprezzo dell’interlocutore). La biondina è belloccia, dice cose a caso, e probabilmente non mangia idrocarburi. Pronostico per lei un ruolo da ministro entro cinque anni. È un ottimo momento per approfittarsene, con la scusa delle donne. La scuola cattolica, film sul delitto del Circeo tratto dal romanzo di Edoardo Albinati, esce al cinema vietato ai minori di 18 anni. Ha senso vietare ai minori un luogo – il cinema – dove è probabile entrino quanto in una balera e in una cabina telefonica? A quei minori che hanno YouPorn sul cellulare e possono vedere ben di peggio senza pagare il biglietto? Probabilmente no, ma sottolineare l’insensatezza del «vietato ai minori» nel 2021 sarebbe una scelta meno furba di quella fatta dai distributori. Che hanno comprato pagine pubblicitarie sui quotidiani e, sulla locandina del film, hanno stampato a caratteri cubitali «CENSURATO IL FILM CHE DENUNCIA LA VIOLENZA SULLE DONNE». È un ottimo momento per il ricatto dialettico: se metti il divieto ai diciotto, sei a favore della violenza sulle donne. (Ho il sospetto che, a parte gli stupratori, siamo un po’ tutti contrari alla violenza sulle donne; ho altresì il sospetto che gli stupratori non verranno rieducati da un film, non più di quanto i guidatori spericolati siano stati rieducati dal Sorpasso e i rapinatori da Die Hard). Ma hanno ragione loro, «Non vogliamo abolire il criterio per cui uno stupro dev’essere vietato ai minori: vogliamo una deroga per lo stupro inserito in uno storytelling educativo» è una richiesta senz’altro sensata. È un ottimo momento per approfittarsene, se sei una buona che prospera grazie ai cattivi. Sulla copertina dell’edizione italiana di Vogue c’è Chiara Ferragni, intervistata (per così dire) da Michela Murgia. La direttrice di Vogue l’altro giorno ha giustamente approfittato del non funzionamento per mezza giornata di Instagram per dire che nell’intervista la bionda e la mora avrebbero affrontato anche quel tema: dove sarebbe Chiara Ferragni senza Instagram. In realtà nell’intervista – nella quale come sempre Chiara Ferragni non dice assolutamente niente: non è mai il momento giusto perché i giornali italiani la smettano d’avere ipertrofica fiducia nel formato-intervista e chiedano agli scrittori di farsi venire loro un’idea e di ritrarre un personaggio il cui mestiere non sono le parole, invece di chiedergli di inefficacemente raccontarsi – la domanda è cosa farebbe la Ferragni se Zuckerberg le togliesse l’account come l’ha tolto a Trump; e la risposta è che non succederà mai, perché lei è una dei buoni, mica usa la piattaforma come la usava quel cattivone di Trump. In contemporanea Time ha una copertina in cui al faccione di Zuckerberg si sovrappone la finestra che ci chiede conferma quando stiamo per cancellare un’app: siamo sicuri di voler eliminare Facebook? Se Zuckerberg fosse una donna, chissà se potremmo indicarlo con tanta disinvoltura come simbolo di tutti i mali, o se finirebbe come giovedì sera in tv, con la sardina che dice che le critiche alla Raggi sono sessiste perché la criticano come persona (e la personalizzazione della politica e quindi del discorso attorno a essa è una cosa che mai mai mai avviene coi maschi, da Berlusconi a Trump, da Renzi a Sarkozy). E se Zuckerberg l’avesse fatto apposta? Se il blackout dell’altro giorno fosse stato non un imprevisto ma un monito? Guardate come sarebbero le vostre giornate senza poter mandare vocali ai vostri flirt, senza poter guardare in diretta le giornate della Ferragni, senza poter condividere i più imbarazzanti momenti dei talk politici. Se non fosse stato un malfunzionamento ma il modo in cui Mark ci annaoxeggia che, senza di lui, la vita sa di fumo e di malinconia, e per distrarci finisce che ci tocca persino andare al cinema? Non m’ero mai accorta, prima del blackout, che Mark fosse l’innominato protagonista di quella canzone, quello che sa che «sarebbe inutile parlare ancora dei problemi miei», e infatti i social di Mark sanno che vogliamo solo fotografare pizze, «così mi chiedi se ho mangiato o no». Non m’ero mai accorta che il Festivalbar dell’83 avesse previsto i social, e i problemi nostri di donne e di fotografatrici di tramonti sul Tevere («senza di te cosa si fa nei pomeriggi troppo blu»). Scusaci, Mark. Pensavamo che i problemi fossero il maschilismo, il populismo, il sovranismo. E invece il problema è che, senza di te, libertà è il nome d’una bugia.

L’erba voglio e la società dell’obbligo. Marcello Veneziani, La Verità (17 settembre 2021). Indovina indovinello, cosa mancava all’appello e alla filiera dopo i diritti omo-trans, l’utero in affitto, le applicazioni gender, l’aborto, l’eutanasia, lo ius soli? Ma la droga, perbacco. Mancava un grano al rosario progressista della sinistra, e in particolare al Pd che è un partito radicale a scoppio ritardato; e puntualmente è arrivato a colpi di firme sulla cannabis. Riciccia per l’ennesima volta la battaglia per la sua legalizzazione, ora in forma di referendum. Una proposta proteiforme e reiterata che si modifica di volta in volta secondo le circostanze e le opportunità del momento, ponendo l’accento ora su uno ora su un altro aspetto. Stavolta l’ariete per sfondare la linea è la coltivazione di canapa o marijuana a scopo terapeutico. Chi è così disumano da opporsi al caso limite di un malato che usa la droga e se la fa crescere in giardino per lenire le sue sofferenze e curare i suoi mali? Poi sotto la pancia delle greggi, come fece Ulisse con Polifemo, passa di tutto: non solo leggi per malati e sofferenti e ben oltre le rigorose prescrizioni e certificazioni mediche sull’uso terapeutico di alcune sostanze o erbe. Curioso questo paese che non consente i minimi margini di libertà e di dissenso nelle cure e nei vaccini per il covid, anzi perseguita e vitupera chi non si allinea e poi permette che ciascuno sia imprenditore farmaceutico di se stesso e si fabbrichi e si coltivi la sua terapia lenitiva direttamente a casa sua… L’autoritarismo vaccinale si trasforma in autarchia terapeutica se di mezzo c’è la cannabis. È il green pass al contrario: il pass per consumare green, cioè erbe “proibite”. Ma non è di questa ennesima battaglia, a cui ci siamo già più volte dedicati in passato, che vorrei parlarvi; bensì di quella filiera, di quel presepe di leggi, referendum e diritti civili di cui fa parte e che compone un mosaico dai tratti ben precisi. Ogni volta ci fanno vedere solo un singolo caso di un singolo problema portato all’estremo e noi dobbiamo pronunciarci come se fosse un fatto a sé, o un caso umano, indipendente dal contesto. E invece bisogna osservarli tutti insieme, perché solo così si compone la strategia e l’ideologia e prende corpo il disegno che ne costituisce il motivo ispiratore, l’ordito e il filo conduttore. È solo cogliendo l’insieme che si vede più chiaramente dove vanno a parare questi singoli tasselli o scalini, verso quale tipo di società, di vita, di visione del mondo ci stanno portando. Qual è il filo che le accomuna, la linea e la strategia che le unisce? Per dirla in modo allegorico e favoloso, è l’Erba Voglio. Avete presente la favola dell’erba voglio del principino viziato che vuole continuamente cose nuove e si gonfia di desideri sempre più grandi? Ecco, l’erba voglio è la nuova ideologia permissiva, soggettiva e trasgressiva su cui è fondato tutto l’edificio di leggi, di proposte, di riforme. Il filo comune di queste leggi è che l’unico vero punto fermo della vita, l’architrave del diritto e della legge è la volontà soggettiva: tu puoi cambiar sesso, cambiare connotati, mutare stato, territorio e cittadinanza, liberarti della creatura che ti porti in corpo o viceversa affittare un utero per fartene recapitare una nuova, puoi decidere quando staccare la spina e morire, decidere se usare sostanze stupefacenti e simili. Tu solo sei arbitro, padrone e titolare della tua vita e del tuo mondo; questa è la libertà, che supera i limiti imposti dalla realtà, dalla società, dalla natura, dalla tradizione. E non importa se ogni tua scelta avrà poi una ricaduta sugli altri e sulla società, su chi ti è intorno, su chi dovrà nascere o morire, sulla tua famiglia, sul tuo partner, sulla tua comunità, sulla tua nazione. Il tuo diritto di autodeterminazione è assoluto e non negoziabile, e viene prima di ogni cosa. Ora, il lato paradossale di questa società è che lascia coltivare, in casa, l’Erba Voglio ma poi dà corpo a un regime della sorveglianza e del controllo ideologico, fatto di censure, restrizioni e divieti. Liberi di farsi e di disfarsi come volete, non liberi però di disubbidire al Moloch del Potere e ai suoi Comandamenti pubblici, ideologici, sanitari, storici e sociali. Anarchia privata e dispotismo pubblico, soggettivismo e totalitarismo, Erba Voglio e Pensieri scorretti proibiti, Erba voglio e divieto di libera circolazione. Ma le due cose non sono separate, estranee l’una all’altra e solo casualmente e contraddittoriamente intrecciate. La libertà nella sfera dell’io fa da contrappeso, lenitivo e sedativo della coazione a ripetere e ad allinearsi al regime della sorveglianza. Ci possiamo sfogare nel privato di quel che non possiamo mettere in discussione nella sfera pubblica. Porci comodi nella tua vita singola in cambio di riduzione a pecore da gregge nella vita global. Puoi sfasciare casa, famiglia, nascituri, te stesso e i tuoi legami ma guai se attenti all’ordine prestabilito e alle sue prescrizioni tassative. Liberi ma coatti. La droga libera è oppio dei popoli e cocaina degli individui, narcotizza i primi ed eccita i secondi; aliena entrambi nell’illusione di renderli più liberi, li rende schiavi mentre illude di renderli autonomi. Benvenuti nella società dell’erba voglio e dell’obbligo di massa. MV, La Verità (17 settembre 2021)

Cari sì pass, ricordatevi “Philadelphia”.  Redazione di Nicolaporro.it il 19 Settembre 2021. Sono diventati ciò che odiavano. La pandemia ha completamente ribaltato la loro prospettiva sul mondo frutto di anni di lotte e conquiste sociali e politiche. Ci riferiamo ovviamente a tutti coloro che fino al 2019 si riempivano la bocca di parole quali uguaglianza, diritti, inclusione sociale, lotta a qualsiasi tipo di discriminazione. Ecco, di fronte al virus tutto questo si è disciolto come neve al sole. Oggi il fine giustifica qualsiasi mezzo, financo l’annullamento del diritto al lavoro sancito all’articolo 1 della loro amatissima carta costituzionale. Sono passati dall’altra parte della barricata, insomma, da vittime a carnefici. Già, ora sono loro i cattivi della storia. E a questo proposito, ci torna in mente uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema degli anni ’90. “Philadelphia”, il capolavoro di Jonathan Demme con Tom Hanks (premio Oscar miglior attore protagonista) e Denzel Washington nei panni dei protagonisti.

La trama. Ricorderete tutti la trama, Andrew Beckett (Tom Hanks) è un brillante avvocato di un prestigioso studio legale di Philadelphia. E’ omosessuale e si ammala di AIDS nascondendo la malattia ai suoi datori di lavoro. Se non che i boss lo scoprono e lo licenziano per “giusta causa”. Toccherà poi a Joseph Miller (Denzel Washington) difendere il collega dimostrando che la reale motivazione alla base del suo allontanamento era in realtà l’orientamento sessuale di Andy e la paura della diffusione del contagio di HIV da parte dei colleghi. Già, la paura. Il pregiudizio. Il film si basa tutto su questo e su come Miller riesca pian piano a superare gli stereotipi della società in cui è cresciuto, diventando amico di Andy e vincendo la super causa milionaria. Una storia che ha commosso tutti, senza distinzione di credo politico, tanto da fare entrare Philadelphia nel gotha del cinema, anche e soprattutto in virtù degli insegnamenti e dei principi che veicolava.

Parallelismi con il presente. Come non trovare dei punti di contatto con quello che sta accedendo nel tempo del Covid. Oggi come allora si lotta contro un virus. Solo che nei primi anni ’90, periodo in cui è ambientato il film, l’HIV mieteva molte più vittime e le conoscenze mediche del fenomeno erano scarse, soprattutto per quanto riguardava la trasmissibilità. Quindi il timore di ammalarsi, poteva essere, per certi versi, anche giustificato. Eppure Andy ha vinto la causa. Fu pregiudizio, discriminazione. E qual è l’essenza della discriminazione? Ce lo spiegano Beckett e Miller: “il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali ma piuttosto sulla loro appartenenza ad un gruppo con presunte caratteristiche”. Ebbene, questo è esattamente ciò che sta avvenendo oggi nei confronti delle persone non vaccinate che da metà ottobre non potranno più recarsi al lavoro senza avere il lasciapassare. Discriminazione. Si obietterà che, al contrario del protagonista del film, questi individui abbiano la possibilità di scelta. Vero, ma attenzione: chi l’ha detto che una persona non vaccinata sia automaticamente malata? Un individuo non è sano fino a prova contraria? E anche se non lo fosse, siamo così certi che sarebbe colpa sua? Era forse colpa di Andy se era omosessuale e se ha contratto la malattia? Sospensioni, multe, blocchi di stipendio. Ma fino a dove saranno disposti a spingersi? Checché se ne dica, nessuna carta costituzionale al mondo, nessuna legislazione giuslavoristica, nessuna norma etico-morale può concepire una tale prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Eppure sta succedendo. Devono essersi proprio dimenticati tutto. Hanno versato lacrime per Andy che se ne è andato in pace, sereno, dopo aver ristabilito il suo onore. Hanno fatto il tifo per l’avvocato buono che era saputo andare oltre i suoi limiti e ha lottato in difesa dei più deboli. Oggi, invece, sono diventati esattamente come i colleghi e i datori di lavoro del legale sieropositivo. Vigliacchi, impauriti, cattivi. Pronti a tutto pur di difendere la loro salute e la loro confort zone morale. Chissà che riguardare Philadelphia oggi non possa avere un effetto catartico su queste persone. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di redenzione.

Cosa minaccia la nostra civiltà. Andrea Muratore il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. "La crisi della civiltà" di Johan Huizinga segnala quali fossero le minacce alla civiltà europea nell'era dei totalitarismi secondo gli occhi del filosofo. "Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo": si apre così il saggio "La crisi della civiltà" di Johan Huizinga, il grande filosofo e pensatore olandese che diede alle stampe per la prima volta il libro nel 1935, nel pieno del decennio che avrebbe condotto l'Europa a completare il suo "suicidio" iniziato nel 1914 con lo scoppio della seconda guerra mondiale. "La crisi della civiltà" ha nell'originale olandese (In de schaduwen van morgen) e nel suo corrispettivo inglese (In the Shadows of Tomorrow) un titolo forse ancora più evocativo, letteralmente "Nelle ombre del domani". Huizinga, teorico profondo del pensiero libero, avversario di ogni dittatura e critico dell'ideologia dell'uomo-massa che già altri autori, come José Ortega y Gasset, avevano aspramente contestato presagiva che l'Europa si stesse avviando a lunghi passi verso l'abisso. Come Ortega y Gasset e come Oswald Spengler, Huizinga si concentra sulla nascita dei totalitarismi e sull'oggettivizzazione dell'uomo di fronte alla tecnica, alle ideologie massificatrici, all'appiattimento del libero pensiero per teorizzare una forma di resistenza che, al contrario dei suoi coevi, percepisce però innanzitutto come personale ed individuale. Huizinga non può fare a meno di confrontare la crisi presente con quelle dei secoli passati e sottolineare come a venire meno, a suo avviso, sia stato l'estro creativo e culturale degli europei che ha funto da antidoto, a lungo, contro ogni vocazione autoritaria e ogni massificazione. La sua è una figura di intellettuale impegnato che è nel mondo, ma non del mondo, impastata di concretezza e realismo pur nella consapevolezza critica della deriva dell'epoca a lui contemporanea. Più di Ortega y Gasset, Huizinga vede possibilità di ripresa da uno scenario sfavorevole fonte di proliferazioni sistemiche per ideologie totalitarie e antiumane. Ne "La crisi della civiltà" l'autore parla di una "purificazione" degli spiriti da realizzarsi però lungo una linea di riproposizione del liberalismo così come si era affermato nell'Ottocento, diradando le ombre che a suo avviso impedivano al sole della civiltà di risplendere ancora sul Vecchio Continente. La percepita fragilità delle democrazie, i tradimenti del modello economico iper-capitalista franato durante la Grande Depressione, l'ascesa dei populismi autoritari, la svalutazione della critica culturale, lo svuotamento dell’idea di progresso di fronte all'utilizzo dei ritrovati della tecnica per strumentalizzare le masse erano tutte, a suo avviso, sintomatologie di un declino che solo prendendo consapevolezza della necessità di un ritorno degli individui all'etica e a un atteggiamento responsabile verso la società e i propri simili. "La crisi della civiltà" ha rappresentato all'epoca della sua uscita un grido d'allarme lanciato da uno studioso di fama internazionale per ricordare il valore irrinunciabile della libertà e della dignità umane, minacciate mano a mano che nella culla della civiltà venivano meno i suoi capisaldi: "verità e umanità, ragione e diritto". A suo modo, però, è un manifesto ottimista nel quadro della letteratura dell'età coeva all'opera, spesso intrisa di pessimistiche riflessioni sul decadimento della cultura e della civiltà occidentali. Huizinga ha fiducia nella capacità dell'uomo di equilibrare pensiero e azione in maniera armonica, scommette sulla crisi di rigetto dell'irreggimentamento delle società a lui coeve, presuppone la coscienza critica come fattore di equilibrio sociale. In quest'ottica, da preoccupato umanista che segnala fenomeni sociali e culturali che erano sotto gli occhi di tutti e senza i quali non si sarebbe spiegato il totalitarismo politico, Huizinga compie un'operazione paragonabile a quella compiuta spiegando ne L'Autunno del Medioevo la nascita della modernità: analizzare una civiltà come corpo organico e sistema, cogliendone i fattori di crisi e di rottura ma anche i semi di progresso che da essi possono nascere. E il messaggio è chiaro: per Huizinga le società progrediscono laddove si ha rispetto per la dignità irripetibile di ogni essere umano e fiducia nella capacità culturale e valoriale di ciascun individuo. Mentre è proprio la negazione di questi presupposti a generare le ombre che schiacciano il loro presente e ne pregiudicano il futuro. Una lezione tanto chiara quanto profonda che vale per qualsiasi epoca della storia umana e parla, in particolare, al nostro presente.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Int

Roberto D’Agostino per VanityFair il 27 settembre 2021. Molte sono le rivoluzioni che cambiano il mondo ma sono poche quelle che cambiano gli uomini e lo fanno radicalmente. Si chiamano allora rivoluzioni mentali perché capaci di generare una nuova idea di umanità. Con la rivoluzione digitale, i nostri gesti già sono cambiati a una velocità sconcertante, non sono più uguali lo spazio e il tempo, il passato e il futuro, la verità e la menzogna, l’individuo e la politica. Oggi basta un tweet per fare a pezzi secoli di cultura. Viaggiamo a fari spenti e nessuno può dire come finirà la tirannia senza freni del “politicamente corretto” (sanificare il linguaggio non porta a soluzioni reali) o l’esasperazione del “Me-too” con le sue forme di “psicopolizia” o il fanatismo della “cancel culture”, che abbatte statue, inseguendo un'impossibile “bonifica” del passato; atteggiamenti che solo dieci anni fa ci sarebbero sembrati sbagliati. Tutto quello che sta accadendo ha sicuramente origine dalla mutazione genetica della sinistra liberal, avverte una bombastica inchiesta del settimanale "The Economist", con il risultato che ‘’la sinistra rischia di diventare illiberale’’. La bibbia del liberalismo per chiarire dove sta il problema cita le parole di Milton Friedman, economista reaganiano incoronato dal premio Nobel: “La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra”. Donald Trump e i suoi emuli populisti, che hanno fatto di aggressività, intolleranza e scorrettezza una bandiera, sono stati solo la risposta all’”illiberalismo democratico”. E non è un caso che dopo otto anni di Casa Bianca di Barack Obama, sia arrivato alla presidenza un pagliaccio come Donald Trump. Uno dei motivi per cui il ceto medio e la working class votò un miliardario truffaldino con un gatto morto in testa anziché la democratica politicamente corretta Hillary Clinton, fu il gran fastidio verso una sinistra che invece di occuparsi del lavoro e delle condizioni di vita di un ceto medio impiegatizio fatto a pezzi dalla dura crisi economica del 2008, si trastullava con il politicamente corretto, l'abitudine alla gogna pubblica per le opinioni diverse e l'attenzione sempre più ossessiva su come trattare questioni razziali, di gender, di religione. Per fare un esempio, nel movimento trans è considerato offensivo sentir parlare di "sesso biologico", perché per loro il genere è una scelta, distinta dalla biologia. E all'interno di Black Lives Matter c'è chi va oltre la denuncia delle violenze, chiedendo spazi di autonomia politica dove la partecipazione è determinata dal colore della pelle. Insomma: non ogni presa di posizione di gruppi progressisti o presunti tali è compatibile con i principi della democrazia. Non tutti gli attivisti hanno ragione e comunque bisogna sempre sapersi confrontare. Il risultato è che la politica e la cultura del mondo occidentale, oggi, sono divise fra due opposte versioni di illiberalismo, una di destra e uno di sinistra. 

Il giacobinismo liberal malattia infantile della nuova sinistra. Carlo Galli su La Repubblica il 17 settembre 2021. La copertina dell'Economist che ha lanciato il dibattito sulla sinistra illiberale. Ecco perché non bisogna sottovalutare la cancel culture, campanello di allarme di un disagio: prosegue il dibattito nato dalla copertina dell’Economist. Nell'ottobre del 1793 la Francia repubblicana abbatte e decapita le statue dei re che ornavano la cattedrale di Notre-Dame. Oggi la definiremmo cancel culture; allora fu la prosecuzione simbolica delle decapitazioni, avvenute nel gennaio dello stesso anno, del re e della regina, di Luigi XVI e di Maria Antonietta. In effetti, non c'è nulla di più illiberale che una rivoluzione, di più intollerante che la pretesa di ricominciare da capo la vita politica e civile, di meno dialogante che ergersi a giudici del passato, per punirne e vendicarne le colpe, le violenze e le ingiustizie.

Enrico Franceschini per "la Repubblica" il 15 settembre 2021. Un fantasma si aggira per l'Occidente: lo spettro della «sinistra illiberale». A lanciare l'allarme è l'Economist, bibbia del liberalismo anglosassone e anche di quello mondiale, in quanto da almeno vent' anni settimanale non più soltanto britannico bensì globale. In un servizio apparso in copertina, il giornale che per i suoi conflitti d'interesse definì Silvio Berlusconi «indegno di governare» avverte che il liberalismo occidentale si trova ad affrontare una doppia minaccia: all'estero le superpotenze autocratiche quali Cina e Russia, che lo deridono come fonte di egoismo, decadenza e instabilità; in patria il populismo di destra e di sinistra, che lo contesta come presunto simbolo di elitismo. Le critiche di Xi e Putin sono un ipocrita riflesso del rifiuto a creare una società veramente libera e democratica in casa propria. L'offensiva della destra populista in America e in Europa rimane la più pericolosa per la democrazia liberale, ma dopo avere raggiunto l'apice durante la presidenza di Donald Trump si sta screditando di fronte alla crisi del Covid con il suo ostinato rifiuto dell'evidenza scientifica. «L'attacco da sinistra è più difficile da comprendere», ammonisce tuttavia l'autorevole pubblicazione londinese, in parte perché, particolarmente negli Stati Uniti, il termine "liberal" ha finito per includere una "sinistra illiberale". La terminologia inglese può suscitare confusione nel lettore italiano, perché "liberal" negli Usa è l'equivalente di "progressista", spesso utilizzato addirittura come un insulto dalla destra trumpiana, dunque differente dal nostro "liberale", che ha un significato decisamente più conservatore. A confondere ulteriormente le idee ha provveduto il termine "neo-liberal", traducibile come neo-liberale o neo-liberista, l'etichetta delle politiche di destra introdotte da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta del secolo scorso. Infine c'è da considerare il liberalsocialismo, che in Italia ha ispirato i fratelli Rosselli e Gobetti, il Partito d'Azione e alcune delle menti migliori del dopoguerra, dal Mondo di Pannunzio al partito radicale. Per chiarire ogni equivoco, quello che intende l'Economist (posseduto al 43% da Exor, che controlla anche Repubblica) con «sinistra illiberale» è l'atteggiamento dogmatico, intollerante, scettico nei confronti del mercato, votato alla purezza ideologica, incapace di riconoscere che anche la controparte può avere in determinate circostanze qualche ragione. È un cocktail di opinioni da cui sbocciano fenomeni come la cancel culture, dove la legittima esigenza di condannare gli errori e gli orrori del passato rischia di riscrivere la storia dal punto di vista del presente, e gli eccessi del politicamente corretto. Nel suo editoriale il settimanale non fa nomi specifici, ma traspare il riferimento alla svolta impressa da Jeremy Corbyn al partito laburista nel Regno Unito o alla rigidità talvolta manifestata dall'ala del partito democratico americano che fa riferimento alla deputata Alexandria Ocasio- Cortez (andata al Met Ball, il gran ballo annuale di beneficenza a New York, con un vestito con la scritta "tax the rich", tassare i ricchi, sebbene in questo non ci sia nulla di illiberale). «La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra» è il motto citato dall'Economist per chiarire dove sta il problema: parole di Milton Friedman, economista premio Nobel e padre del laissez- faire ovvero dell'antistatalismo, non proprio un riferimento della sinistra. Ma il dibattito sulla sinistra "illiberale" esiste da tempo: sull'altra sponda dell'oceano la denunciava già cinque anni fa il mensile Atlantic, ammonendo che il partito democratico, non opponendosi a chi vuole togliere diritto di parola agli avversari, cederà il controllo ai suoi elementi più estremi. Richard Dawkins, biologo evoluzionista di Oxford e autore di bestseller in difesa dell'ateismo, la chiama «sinistra regressiva», accusandola per esempio di astenersi dal criticare anche le peggiori aberrazioni dell'Islam in nome del rispetto per la cultura di quella religione («e allora io rispondo, al diavolo la cultura», dice il professore). La definizione è entrata perfino nel linguaggio di una star di Hollywood come l'attore premio Oscar Matthew McConaughey, secondo il quale «la sinistra illiberale ha completamente abbandonato il tradizionale pensiero liberale, diventando condiscendente o arrogante verso il 50 per cento della popolazione che non ne condivide il progetto». Qualcuno annovera nella sinistra illiberale anche la malaugurata dichiarazione che contribuì a fare perdere le elezioni del 2016 a Hillary Clinton, quando durante la campagna presidenziale la candidata democratica alla Casa Bianca definì dispregiativamente i sostenitori di Trump come appartenenti a un «basket of deplorables», un cestino dei deplorevoli, insomma tutti gentaglia, che a quel punto non avrebbero certo cambiato casacca votando per lei. Nella discussione, beninteso, c'è chi dice che a denunciare la presunta sinistra "illiberale" sono i difensori dello status quo e dei propri interessi: insomma la destra, cui farebbe gioco dipingere la sinistra come estremista e poco democratica. L'Economist riconosce che pure i "liberal" (nell'accezione conservatrice o progressista) sbagliano: dopo il collasso del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale hanno creduto che la storia fosse finita, come sentenziò il celebre saggio del sociologo Francis Fukuyama; dopo la crisi finanziaria del 2008 non hanno trattato la classe operaia con la dignità che meritava; e troppo spesso usano la meritocrazia come un alibi per mantenere i propri privilegi. La conclusione della cover-story è che oggi troppi liberal di destra sono inclini a scegliere uno spudorato matrimonio di convenienza con i populisti e troppi liberal di sinistra minimizzano la presenza di un'ala intollerante nelle proprie file. Se invece di unire le forze si dividono, è il monito finale, le due correnti del pensiero liberale lasceranno prosperare gli estremisti.

Dura lex, sed Rolex. Stefano Bartezzaghi su La Repubblica il 4 settembre 2021. È l'epoca della rappresentazione e come ci si fotografa o ci si fa fotografare è un fatto bello e buono. E allora quell'orologio un tema lo diventa. Un eventuale candidato latinista (ve ne sono?) potrebbe commentare: Dura lex, sed Rolex. Che poi sembra non sia neppure un Rolex ma un orologio comunque costosissimo e di marca, quello che Roman Pastore, giovane candidato a un consiglio municipale romano, sfoggia in diverse fotografie. È nella lista per Carlo Calenda e proprio il leader è stato raggiunto al proposito da polemici tweet di Barbara Collevecchio, psicanalista molto presente sui social nonché junghiana, quindi avvezza agli archetipi.

 L’orologio più buio. L’impossibilità di uscire dalla cultura del linciaggio (o anche solo di discuterne). Francesco Cundari il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Anche su che cosa porta al polso, la sinistra si divide in due tribù costantemente impegnate nel tentativo di menarsi a vicenda, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti. Avrei voluto cominciare qui un lungo e noioso discorso sugli effetti di lungo periodo dell’ondata populista culminata nella Brexit e nell’ascesa di Donald Trump nel 2016, sulla loro persistenza e pervasività, a dispetto dell’impressione contraria suscitata nel mondo dalla netta vittoria di Joe Biden, e in Italia dall’insperato arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Avrei voluto partire dal ritiro americano dall’Afghanistan e dal modo in cui Biden lo ha attuato e difeso, due cose su cui l’influenza del predecessore mi è parsa assai significativa e allarmante. Avrei voluto infine collegare tutto questo alla questione della «sinistra illiberale» sollevata nell’ultimo numero dell’Economist. Mi riferisco all’editoriale in cui il settimanale invita i liberali di destra e di sinistra a resistere all’egemonia populista, senza illudersi di poter carezzare impunemente la tigre nel verso del pelo: gli uni accodandosi al nazionalismo xenofobo e autoritario, gli altri al fanatismo della politica identitaria, della cancel culture e del radicalismo di sinistra in generale. L’articolo che stavo immaginando sarebbe stato lungo e noioso anzitutto per il gran numero di sottili distinzioni che avrei dovuto fare. Per esempio, sull’ultimo punto, avrei invitato a non confondere la contestazione anche radicale di quelle che l’Economist definisce come le posizioni del «liberalismo classico» in materia di economia con analoghi attacchi ai fondamenti dello stato di diritto e della libertà individuale: cose che non hanno lo stesso peso e non andrebbero messe sullo stesso piatto della bilancia. Direi anzi che l’ambiente più favorevole alla crescita di un dibattito pubblico democratico e pluralista è esattamente quello in cui la stragrande maggioranza condivide i principi fondamentali che garantiscono la libertà di ognuno e si divide su tutto il resto. Di questo intendevo scrivere, e già cominciavo a organizzare mentalmente la lunga serie di premesse di metodo e di merito necessarie ad arrivare sano e salvo in fondo al ragionamento, quando ho acceso il computer e aperto Twitter, dove era in corso uno di quei tipici spettacoli che da qualche anno prendono regolarmente il posto del dibattito politico, cioè una specie di guerra etnica combattuta in un asilo. Stesso miscuglio di ostilità preconcetta e odio primitivo, uniti però all’assoluta idiozia del pretesto, del contesto e del sottotesto, nel caso specifico il costoso orologio esibito in foto da un giovane candidato a un consiglio municipale nella lista di Azione (dunque, con tutto il rispetto per i consigli municipali e per il partito di Carlo Calenda, non proprio un uomo destinato a esercitare una straordinaria influenza sull’indirizzo politico del Paese, perlomeno nel prossimo futuro). Dall’orologio costoso si passava quindi all’incredibile uscita di Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza e i giovani che «devono soffrire», e in qualche caso, non ricordo più per quali vie, persino alle foibe (a conferma del fatto che la politica italiana si ripete sempre due volte, la prima in forma di sketch di Avanzi). Per una volta, non vorrei prendere le parti degli aggrediti né quelle degli aggressori, ma nemmeno ostentare un’impossibile equidistanza. La diffusa cultura del linciaggio che ci circonda ha sempre qualcosa di orrendo in sé, anche quando il suo esito sia il più infantile e ridicolo, e forse relativamente innocuo. Ora però mi interessa di più sottolineare come sui social network la cosiddetta sinistra, quella che dovrebbe combattere il populismo, sia divisa grosso modo in due tribù, costantemente impegnate nel tentativo di linciarsi a vicenda, con argomenti, toni e modi squisitamente populisti, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti, nel momento stesso in cui ciascuna delle due bande accusa l’altra di rappresentare la quinta colonna dei populisti (salviniani gli uni, grillini gli altri) e di adottarne anche i deplorevoli metodi, a cominciare da gogna e linciaggi social. Forse è per questo che in Italia, tutto sommato, la cancel culture non ha (ancora?) particolarmente attecchito, e nemmeno il politicamente corretto: perché in America, come sembra suggerire anche l’Economist, trumpismo e cancel culture sono due diverse forme di intolleranza che si rafforzano a vicenda, opposte e complementari come le due metà di una stessa mela. Mentre qui in Italia, dove gli epigoni e anche i precursori di Trump affollano l’intero spettro politico, giornalistico e intellettuale, abbiamo solo infinite repliche della stessa metà della mela, e nessuna traccia dell’altra mezza. Basta accendere la tv o sfogliare un giornale per verificare come tutto sia infatti perfettamente dicibile, pressoché ovunque, anche quello che nei paesi civili è giustamente considerato istigazione all’odio e al razzismo. Non così in Italia, dove sulla derisione di handicap, difetti fisici e qualsiasi altro dettaglio legato a sesso, età, etnia, zeppola o altezza dell’avversario sono fiorite carriere e sono nati interi gruppi editoriali, perché non c’è nulla che ci piaccia tanto come darci di gomito mentre sghignazziamo del comune bersaglio. Capite dunque perché, dopo aver passato soltanto pochi minuti esposto a questo genere di spettacolo, ho avvertito tutta l’inanità dello sforzo che mi accingevo a compiere per argomentare la mia tesi, e mi sono rassegnato a non scrivere l’articolo.

Fulvio Abbate per Dagospia il 5 settembre 2021. Lo dico subito, prendendo in prestito una leggendaria battuta riferita, un tempo, a una leggendaria caramella di un bianco polare dissetante: qui c’è soltanto l’orologio con Roman Pastore intorno. In tutto ciò, la cosa più desolante nella vicenda del giovane Pastore (e del suo ormai leggendario orologio), ventunenne candidato con la lista di Carlo Calenda al Consiglio comunale di Roma, finita per lui in modo un po’ penoso, per aver esibito appunto al polso un Audemars Piquet, riguarda l’incapacità interpretativa di molti.  La stampa di destra, per bocca dell'amico Alessandro Sallusti, per l’occasione ha fatto l’elogio del lusso, che peraltro, personalmente, condivido in pieno, in modo assoluto, e ci mancherebbe altro. Essendo tutti noi, come spiega alla perfezione il filosofo esistenzialista Albert Camus, impossibilitati alla felicità, coscienti d’essere condannati a morte fin dalla nascita, niente è più rassicurante, se non doveroso, del concedersi ogni piacere, cominciando dalle gioie del collezionismo, poco importa se di capolavori di Picasso o fosse anche di un prestigioso anello tempestato di gemme preziose, così da poterlo indossare perfino nel proprio pisello. E non sembri questa una caduta di stile, semmai un magnificat del principio del piacere. Purtroppo, nel nostro paese segnato da un ampio analfabetismo talvolta addirittura funzionale e dalle tare catto-comuniste, la semiologia non ha mai sfondato, nessuno che davvero abbia acceso una luce votiva sotto il volto di Roland Barthes, gigante della spiegazione delle cose accompagnate fin dentro i loro significati, significanti e referenti.  La questione che investe Roman Pastore va affrontata, appunto, sul piano semiologico: e qui spero che Carlo Calenda, da noi già definito amichevolmente “spermatozoo d’oro di una certa Roma”, essendo egli persona ironica di mondo, comprenda bene il senso delle cose, al punto da trasferire queste nostre serene considerazioni al ragazzo, al suo campioncino di lista. In breve, il problema di Roman Pastore è spiegabile in modo semplice: come ho scritto ieri su tweet, il ragazzino nel suo scatto elettorale assai orgoglioso del proprio orologio (che, beninteso, non è un Rolex, come alcuni imprecisi hanno sostenuto per accreditare il luogo comune ordinario, appunto, dei “comunisti col Rolex”) semmai un Audemars Piquet, feticcio del lusso smart non da meno, cose da remake in politica di “Riccanza”. Purtroppo per Pastore, a una attenta osservazione si comprende che non è il diretto interessato a indossare il prestigioso orologio, semmai è l’orologio a indossare, tragicamente, il candidato, surclassando ogni altra possibile immagine politica. In quanto ostentato come must, come benefit, di più, dal Pastore ritenuto valore aggiunto, kriptonite dell'identificazione che porterebbe voti e plauso. In realtà, brilla invece qualcosa di mostruosamente caricaturale nella sua ostentazione, e lo stesso credo possa valere per altri “segni” che il giovane altrettanto porta addosso, tracce sovrastrutturali che il semiologo, se davvero fosse ancora tra noi, potrebbe spiegare assai meglio di me. Nell’ordine: la montatura degli occhiali “performanti”, la polo blu bordata di bianco, tutte cose che sembrano dire: guardatemi, lavoro per essere classe dirigente, per, come direbbe uno studente della LUISS o della Bocconi, “per creare la mia leadership” (sic). Osservando il tutto ancora meglio c’è però da rilevare qualcosa di visibilmente “cartonato” nel ventunenne Roman, la sconfitta di ogni possibile casual a favore invece di un abbigliamento che nella narrazione dell’ammezzato subculturale politico nazionale rimanda alle vetrine di “Davide Cenci”, negozio in Campo Marzio, Roma, dove si rifornisce il generone politico e non solo. Ora, Carlo Calenda, pervenuto alla coscienza dell’informalità da torneo di tennis a Orbetello, come nella canzone-manifesto di Flavio Giurato, invece di difenderlo d’ufficio, ascoltando le nostre parole dovrebbe semmai dissuaderlo da questo genere di outfit (orrenda parola) per l’appunto da cartonato dirigenziale di piazzale delle Muse. Come non accorgersi che dietro l’apparente eleganza del ventunenne arde qualcosa di spettralmente banale, degna del più grigio conformismo dello status, con cui invece Roman Pastore suppone di presentarsi al meglio ai suoi potenziali elettori. Wittgenstein sosteneva, in opposizione a coloro che ritenevano il grigio un non-colore che si trattasse piuttosto di un colore “solido”. Bene, quanto alla solidità politico culturale del ragazzo Pastore, cercando qualcosa, una traccia umana che vada oltre l’orologio, per usare nuovamente una battuta riferita, un tempo, alla leggendaria caramella dissetante: qui c’è soltanto l’orologio con Roman intorno. Chissà se questa la capiranno coloro che l’hanno difeso contro la gente “di sinistra” che sul tema ha fatto, altrettanto tragicamente, un discorso al limite del pauperismo, chiamando in causa perfino il reddito di cittadinanza grillino contrapposto alla voglia di lusso. Viva la ricchezza, ma anche un’idea di stile che trascenda la lunga linea antracite del generone in questo caso fedele a se stesso già dal primo semestre della post-adolescenza. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 settembre 2021. Caro Dago, non figurando in nessuno dei social possibili e immaginabili di volti e personaggi raffigurati in un messaggio elettronico ne ricevo soltanto da whatsapp. Salvo rarissime eccezioni non li guardo mai, un colpo del pollice e li cancello. Figurati se mai e poi mai mi sarei accorto che un qual certo ragazzo ventunenne che vorrebbe fare vita pubblica avesse al polso un orologio di un qualche valore. Leggo che lo aveva, e se ne è scatenata una furia sul web, furia di cui io so soltanto perché leggo le tue pagine. Sì lo aveva, e allora? Giudico (in silenzio) una persona che ho davanti da cento cose, non certo dall’orologio che ha al polso. E senza dire la cosa più importante di tutte, e che è la ragion d’essere della letterina che ti sto inviando. E cioè che ciascuno porta l’orologio, la giacca, la cravatta, il mantello, la montatura degli occhiali che vuole, e che nessuno ha il diritto di rompergli i coglioni. Io adoro il mio swatch in plastica che costa sì e no 90 euro, e non lo darei in cambio per nessuno di quegli orologi sontuosi di cui leggo che costano parecchie migliaia di euro a cadauno. In compenso, e alla faccia di chi non mi vuole bene ho speso una caterva di soldi nella mia vita a comperare le prime edizioni dei libri di Eugenio Montale, che sono tanti e che ho tutti. E allora? Ognuno i suoi soldi li spende come vuole e in quel che vuole. Finito lì. Non deve rendere conto a nessuno o meglio sì, all’Agenzia del Fisco. Quello sì. Io nella terza di copertina dei miei libri metto solo che abito e lavoro a Roma, e nessunissima grande impresa di cui sia stato eventualmente autore. Un’altra cosa però la metterei, e tanto per chiarire chi sono e quel che faccio. L’importo netto del mio reddito annuo e il relativo carico fiscale che ci ho pagato sopra. Tanto per chiarire. Tanto perché lo sappiano eventualmente i miei nemici ma anche i miei amici, tipo Fulvio Abbate. La differenza tra i soldi guadagnati e i soldi dati al fisco è mio diritto essermela sparata come e quando volevo, eventuali mignotte niente affatto escluse. Non che io voglia fare attività pubblica. Ci mancherebbe anche questo. Solo me ne sto nel mio cantuccio, con accanto le prime edizioni dei libri di Montale. E che nessuno ci provi a rompermi i coglioni ove domani mi venisse in mente di mettermi chissà quale orologio al polso. O magari in punta al naso. Così, per farlo un po’ “strano”.

Compagni che cancellano. La sinistra illiberale non è meno pericolosa della destra autoritaria. Christian Rocca il 3 settembre 2021 su L'Inkiesta. Uno straordinario numero dell’Economist mette in guardia il mondo occidentale dalla minaccia costituita dalla politica identitaria, altrettanto grave quanto quella dei Salvini, dei Trump e dei Putin. Siamo cresciuti con l’idea che l’arco della storia tende necessariamente verso il progresso e con la consapevolezza che il progresso è una conquista quotidiana ma inesorabile che si ottiene attraverso un dibattito pubblico informato e una coerente azione riformista. Nonostante i mirabolanti successi sociali, economici e culturali in oltre mezzo secolo e in ogni continente della Terra, negli ultimi tempi questa idea e questa consapevolezza sono state messe in crisi dal populismo di destra e dai regimi autoritari, da Donald Trump e dalla Cina di Xi Jinping e dalla Russia di Vladimir Putin, per mille ragioni che la nuova copertina dell’Economist affronta con la tradizionale capacità di analizzare i fenomeni globali in corso. Il settimanale inglese, però, aggiunge un elemento non banale all’attacco al sistema liberale, ovvero che il pericolo per il mondo come lo conosciamo non arriva soltanto da lì, dalla destra populista e autoritaria. Fin dal titolo della cover di questa settimana, l’Economist rifonosce «la minaccia della sinistra illiberale», un tema ricorrente sulle colonne de Linkiesta, in particolare negli articoli di Francesco Cundari e di Guia Soncini. C’è, intanto, la questione del bipopulismo. L’Economist spiega che i due populismi, quello di destra e quello di sinistra, «si nutrono patologicamente a vicenda» in una campagna di odio nei confronti degli avversari che favorisce soltanto le ali estreme. Ne sono complici, scrive il settimanale inglese, i liberali classici che per interessi indecenti si consegnano ai nazional sovranisti (in Italia siamo pieni di retequattristi e di tiggidueisti, di liberali per Salvini, per Putin, per Trump). Ma ne sono altrettanto responsabili i liberal progressisti che si illudono che gli intolleranti di sinistra siano soltanto una minoranza, e pure facile da addomesticare: «Non preoccupatevi, dicono, l’intolleranza fa parte del meccanismo del cambiamento: concentrandoci sulle ingiustizie sociali, si sposteranno al centro» (qui pare che l’Economist si rivolga direttamente al Pd e alla surreale idea di alleanza strategica con i Cinquestelle). Poi c’è la delicata questione della identity politics, la politica della suscettibilità identitaria, nata nelle università americane e diffusasi nella società occidentale a mano a mano che gli studenti addestrati a questa nuova religione contemporanea si sono laureati e hanno cominciato a lavorare nei media, in politica, nell’istruzione e nel business «portando con sé il terrore di non sentirsi a proprio agio, una propensione ossessiva e limitata ad ottenere giustizia per i gruppi identitari oppressi e i metodi per costringere tutti quanti alla purezza ideologica, censurando i nemici e cancellando gli alleati che hanno trasgredito, con echi di quello stato confessionale che ha dominato l’Europa prima che prendesse piede il liberalismo alla fine del diciottesimo secolo». Nonostante i liberali e la sinistra illiberale abbiano in comune molte cose, a cominciare dalla ricerca costante del cambiamento fino all’opportunità universale di farcela a prescindere dal genere o dalla razza, scrive l’Economist, «in occidente sta succedendo qualcosa di straordinario: una nuova generazione di progressisti sta ripristinando metodi che sinistramente ricordano quelli di uno stato confessionale, con versioni moderne dei giuramenti di fedeltà e delle leggi sulla blasfemia». Mentre c’è ancora chi rifiuta di riconoscere che cosa sta succedendo, grazie alla copertina dell’Economist forse qualcun altro capirà che è arrivato davvero il momento per i liberali di destra di smetterla di giocare col fuoco nazional populista e per i progressisti di sinistra di cominciare a domare l’incendio appiccato dai compagni illiberali.

Ben alzato, Economist. Confessioni di anticancellettista della prima ora, ora che l’élite le dà ragione.  Guia Soncini il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Da oltre un anno, nonostante i dubbi della redazione, Soncini avverte quasi quotidianamente dei rischi di un mondo progressista che si comporta come la peggior destra. E adesso chi la tiene più, la mitomane. Ben alzato, Economist. C’è una nuova ortodossia nelle università, scrivi nella storia di copertina del tuo nuovo numero. Andrew Sullivan l’ha scritto sul New York Magazine nel febbraio del 2018, We all live on campus now. Persino un’italiana c’era arrivata prima di te: nella classifica dei libri del Corriere, nella primavera di quest’anno, trovi un libro sul disastro dell’istruzione suscettibile, d’una certa Guaia Soncini. Trovi anche alcune decine di suoi articoli sul tema già nel 2020, su Linkiesta, firmati non si sa perché con una vocale in meno. Ci fa piacere che anche tu abbia capito che la sinistra prescrittiva è un problema più della destra cafona. Ci ho messo un po’ a convincere di questo concetto anche i ragazzi qui a Linkiesta, ma il direttore si è arreso, persino Cundari pur mugugnando ammette che no, non è normale dover dire che due più due può fare cinque durante le lezioni di matematica altrimenti gli allievi della tal etnia che fin lì hanno preso brutti voti in addizioni si frustrano, e insomma, caro Economist, mancavi solo tu. Vieni, ti verso da bere. Ricopio qualche tua riga, quelle in cui dici che il liberalismo non è un pranzo di gala, e che spesso va contro ogni istinto di noialtri umani di tendenza suscettibile. «Richiede che tu difenda il diritto di parola del tuo avversario, anche quando sai che dirà cose sbagliate. Devi mettere in discussione le tue più profonde convinzioni. Non devi tutelare le imprese dai venti della distruzione creatrice. Le persone care devono far carriera solo per i loro meriti, anche quando il tuo istinto sarebbe di favorirle. E devi accettare la vittoria elettorale dei tuoi nemici, anche quando sai che porteranno alla rovina il paese». Quest’ultima a quegli altri sembrerà parli di Trump, ma noialtri sappiamo che parla degli ultimi trent’anni di politica italiana. Primo flashback, 2020. Linkiesta pubblica alcuni articoli – a memoria direi di Cundari e Rodotà – che mettono in dubbio l’esistenza della cancel culture. L’idea è quella che ho sentito esprimere tante volte: ma c’è Trump, c’è Salvini, ti pare che il problema possa essere la censura di sinistra. Sto scrivendo “L’era della suscettibilità”, ed è in quel momento, in una conversazione a proposito di uno di quegli articoli, che metto a fuoco quella che diventerà una delle chiavi della mia interpretazione di questi tempi: non è una contrapposizione tra destra e sinistra. Il punto è trovare uno spazio non beghino a sinistra. La questione è tra chi si dice di sinistra bruciando i libri di Harry Potter perché JK Rowling ha osato dire che il sesso biologico esiste, e chi sa che non sei di sinistra se non pensi che la Rowling possa dire il cazzo che le pare. E questo non perché abbia ragione (ce l’ha), ma perché la libertà di parola non serve a tutelare chi ci è affine o chi dice cose impeccabili: quelli si difendono da soli. Il direttore della testata che state leggendo mi dice che secondo lui è una distinzione troppo sottile, è impossibile farla passare. Ma io sono cocciuta, e la scriverò tale e quale in quel libro che ci è arrivato prima dell’Economist: chi ha l’indubbia fortuna di parlare con me sa che utilizzo il metodo del maiale, e non butto via nessuna conversazione. Secondo flashback, giugno 2021. Sono a Fano, a un festival letterario di quelli ai quali gli autori vanno per parlare dei loro libri e mangiare a scrocco. M’intervista Flavia Fratello, giornalista di La7 molto interessata a questi temi. A un certo punto, sul palco, dice: Maria Laura Rodotà sostiene che in Italia la cancel culture non esiste perché Calderoli può dare dell’orango alla Kyenge. Niente, questo su destra e sinistra è il dibattito della marmotta. Ma a destra possono fare quello che vogliono, sospiro. Trump può dire che prende le donne per la passera e vincere comunque le elezioni. Le regole valgono a sinistra. È a sinistra che passi da scrittrice da Pulitzer a reproba se, in un dialogo dell’Ottocento che parla d’una cameriera, usi la parola «negra» (sì, ho visto lo sdegno su Facebook perché Jennifer Egan aveva osato non usare in una conversazione ambientata duecento anni fa termini quali «bipoc», black and indigenous people of color, che si orecchiavano spesso nelle piantagioni). Non lo si ripete mai abbastanza, se a settembre 2021 anche all’Economist sembra una novità. D’altra parte Sullivan lo ripete da anni, che i suoi amici gli dicono che l’illiberalismo insegnato nelle università è roba da universitari. Poi passa. Oppure no, come nota ora l’Economist; e come sei mesi fa, intervistandomi per il suo podcast, mi suggerì Daniele Rielli: gli studenti cui è stato insegnato che, se Shakespeare li turba, Shakespeare non dev’essere insegnato, poi diventano giornalisti, scrittori, editori. Diventano quei giovani fanatici dei quali i vecchi del New York Times sono terrorizzati, come ha raccontato Bari Weiss andandosene da quel giornale. Diventano quei giovani fanatici per i quali il quieto vivere è sacro e chi è sospetto d’avere comportamenti perturbanti va rimosso dal nostro orizzonte: quelli che minacciano di licenziarsi se la casa editrice pubblica l’autobiografia di Woody Allen. Insieme al fatto che è una questione interna alla sinistra, la cosa più difficile da far capire è che la presunta sinistra non è sinistra illiberale: è destra. È gente che sogna Il racconto dell’ancella. Certo, se glielo chiedi ti diranno che l’incarnazione del Racconto dell’ancella è il Texas che vieta l’aborto, ma non è esatto: è molto più atwoodiano il mondo prescrittivo che sognano loro, in cui posso stabilire cosa tu possa dire e cosa pensare, e punirti se non ottemperi. Sospetto sia colpa nostra. Di noi quarantacinquantenni che, oltre a essere i meno autorevoli della storia e quindi un disastro come genitori, siamo anche determinati a scusarci di non si sa bene quali fortune. Tempo fa una quarantenne che lavora coi ventenni mi ha detto che per loro le questioni identitarie sono molto importanti perché hanno solo quelle: noi avevamo un futuro professionale ed economico, loro sanno che è tutto finito e che, invece di puntare sull’avere una carriera, gli conviene intrattenersi con l’identità di genere. A 23 anni facevo l’autrice d’un programma televisivo con tre trentenni. Era per tutti e quattro la prima volta: avevamo fin lì fatto altro, e la maggior parte di noi sarebbe tornata a far altro. Venticinque anni dopo, uno di loro è tornato a fare il supplente, uno è tornato a tentare senza successo la fortuna nell’editoria, io sono io; il quarto, che fino a quel programma faceva il rappresentante d’elettrodomestici, è diventato il più pagato sceneggiatore di commedie d’Italia.

Uno su quattro ce la fa. Mi sembra una media alla portata dei ventenni di questo secolo. Quelli che questa storia la racconterebbero per dire che ecco, lo vedi, ci avete rubato il futuro, i sogni, la possibilità di far carriera in tv. È colpa nostra, che quando frignano non li prendiamo a coppini, che quando ci parlano delle loro istanze non gli diciamo che sono tutte stronzate (com’è stato detto a tutti i ventenni nella storia del mondo), che ci apriamo un Tik Tok per sentirli più vicini. I giovani hanno solo il dovere d’invecchiare, diceva quello. Aggiungerei che la sinistra ha il dovere di non comportarsi da destra. Guia Soncini

Hanno tutti ragione. Rolex e sinistra, piccola storia ignobile da Marx a Verdone. Stefano Cappellini su La Repubblica il 3 settembre 2021. Questo è il numero del 3 settembre della newsletter "Hanno tutti ragione", firmata da Stefano Cappellini. Qualche anno fa mi colpì la dichiarazione di un dirigente della sinistra, Cesare Salvi, il quale disse in una intervista che aveva i soldi sufficienti a comprarsi una Ferrari ma che non la acquistava per ragioni di opportunità. Avrei voluto chiamarlo, appena finito di leggere, per dirgli: "Vai, Cesare, comprala!". L'idea che un militante di sinistra si sentisse rassicurato dal fatto che i soldi di Salvi fossero parcheggiati in banca anziché in garage mi suonava, allora come oggi, una grossa sciocchezza.

Lorenzo D'Albergo per repubblica.it il 3 settembre 2021. Se la campagna elettorale è social, lo sono anche le polemiche. L’ultima, innescata su Twitter da un cinguettio della psicologa Barbara Collevecchio, ha per protagonista un giovanissimo candidato al consiglio comunale per Carlo Calenda. Roman Pastore, 21enne e social media manager degli under 30 che sostengono l’ex premier Matteo Renzi, è finito sotto i riflettori per le foto in cui al polso porta un orologio da decine di migliaia di euro. Comunisti col Rolex, verrebbe da canticchiare con Fedez e J-Ax navigando tra i tweet. I detrattori attaccano il ragazzo. Chi lo difende cita la collezione di cronografi di Fidel Castro, che ne portava spesso due per volta, e Che Guevara. Tornando al caso di Pastore - che per l’esattezza indossa un Audemars Piguet - vale la pena rintracciare la genesi del botta e risposta. Come detto, la prima a digitare è Barbara Collevecchio. Analista di scuola junghiana, sta per ultimare un saggio sul narcisismo in politica. Così si spiega il tweet d’esordio. La psicologa posta una foto di Pastore con amico e orologio: “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”. L’ultimo riferimento è alla camicia bianca indossata da Pastore. C’è anche un secondo intervento firmato Collevecchio: “Sempre sul ragazzetto e il “caso” Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa alla scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza Reddito di cittadinanza e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. Apriti cielo. Ecco la risposta di Carlo Calenda: “Barbara, questo tweet è aberrante. Te la stai prendendo con un ragazzo di 21 anni per un orologio. Anche Salvini con Gad Lerner, che almeno aveva età e visibilità per rispondere, è arrivato a tanto. Fossi in te prenderei 12 ore di tempo per vergognarmi e poi mi scuserei”. Anche il leader di Azione, in corsa per il Campidoglio, si riserva un secondo post: “Si giudicano le persone per la qualità di quello che dicono o fanno, non sulla base di che orologio portano”. Nel frattempo il tema inizia a interessare sempre più utenti. I cinguettii sfiorano quota 10 mila. Non poteva mancare quello di Pastore. Reduce dalla scuola politica di Matteo Renzi a Ponte di Legno, prova a chiudere la polemica bloccando Collevecchio e rispondendo così: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno sfamato l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali?”. La risposta al popolo dei social.

Roman Pastore, il candidato 21 enne di Calenda insultato dalla psicologa rossa per l'orologio di lusso: cortocircuito a sinistra. Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Lui è un giovanissimo candidato a consigliere municipale per Carlo Calenda. Si chiama Roman Pastore, ha 21 anni ed è social media manager degli under 30 che sostengono l’ex premier Matteo Renzi. Insomma, lui è un attivista di Italia Viva. Lei è una psicologa, collaboratrice dell'Huffingtonpost. Si chiama Barbara Collevecchio e si definisce "libertaria, anti autoritaria e antidogmatica", oltre che "#antifa". La "libertaria" e antifascista psicologa ha innescato una vera e propria shit-storm contro Pastore "colpevole" di indossare un orologio di valore, appartenuto, a quanto pare, al nonno defunto. Non un Rolex, ma un Audemars Piguet, da qualche decina di migliaia di euro. La Collevecchio, che emette più tweet che respiri, in uno dei tanti cinguetti ha postato una foto di Pastore con amico e orologio: “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non a indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”, scrive. E poi ancora: "Sempre sul ragazzetto e il caso Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa alla scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza Reddito di cittadinanza e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. Se ne leggono di ogni sul profilo della Collevecchio. "Povertà diseducativa e colpa, patacconi al polso e Jaguar educative. A 20 anni! Gli altri devono soffrire e sgobbare per mantenere i privilegi di pochi. Questi sono i liberal liberisti italiani, Il mondo dei Renzi e Calenda". Il concetto è sempre lo stesso, la psicologa lo ribadisce: "Si critica i genitori che insegnano ai figli che conta quanto ostenti la tua ricchezza, che vali in base ai soldi che hai. Si critica la vacuità di chi si mette in posa con orologi che una famiglia normale non si potrebbe permettere mai e Jaguar. Un mondo sballato senza valori". E ritwitta critiche e insulti. Carlo Calenda sbotta: “Barbara questo tweet è aberrante. Te la stai prendendo con un ragazzo di 21 anni per un orologio. Neanche Salvini con Gad Lerner, che almeno aveva età e visibilità per rispondere, è arrivato a tanto. Fossi in te prenderei 12 ore di tempo per vergognarmi e poi mi scuserei". Il ragazzino sotto accusa invece risponde e si difende da solo: "Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno sfamato l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali?”. E il suo sembra l'unico tweet intelligente. 

Ecco "l'orologio di cittadinanza". A sinistra il lusso diventa peccato. Francesco Maria Del Vigo il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Nell'era del politicamente corretto imperante, qualcuno potrebbe anche chiamarlo watch shaming. L'insulto e la discriminazione in base all'orologio. Nell'era del politicamente corretto imperante, qualcuno potrebbe anche chiamarlo watch shaming. L'insulto e la discriminazione in base all'orologio. Ma noi ce ne guardiamo bene. I fatti: Roman Pastore è un ventunenne candidato alle comunali capitoline con Carlo Calenda. Il giovane è finito al centro delle polemiche per una serie di foto in cui sfoggia un costoso orologio. «Ha un Rolex al polso», ha tuonato indignata la stessa sinistra che per anni ha difeso a spada tratta le barche a vela di Massimo D'Alema, gli arsenali di cashmere quadruplo filo e i tre Warhol di Bertinotti (che però rappresentano il faccione di Mao e quindi vanno bene e sono proletari comunque). Tra l'altro l'orologio di Pastore, per amor di precisione, era un Audemars Piguet e quindi pure più caro di un medio Rolex (vi tranquillizziamo: ne ha uno anche di quelli). Ma l'importante è attaccare Calenda e il suo giovane candidato. Che poi Calenda non ha esattamente il physique du rôle di un borgataro, non è mica Che Guevara. Il quale per altro sfoggiava un bellissimo Rolex gmt e il suo compagno Fidel, si narra, ne portasse addirittura due contemporaneamente. Ma c'era un motivo squisitamente politico e sociale, era una necessità: su uno aveva l'ora di Cuba e sull'altro quella di Mosca. Dictature online. Dal Che a Fedez l'immarcescibile mito del comunista col Rolex. Che poi lo avranno anche i fascisti, i liberali, i socialisti e persino i sovranisti. Ma almeno loro non rompono le scatole a chi lo ha. I vezzi radical chic, evidentemente, possono permetterseli solo i compagni duri e puri. Se hai il Capitale sopra il comodino puoi girare in Porsche con i polsi foderati da costosi segnatempo. Se sei anche solo di centrosinistra e magari sei affetto da una lieve forma di liberalismo vieni subito lapidato. Così il povero Roman Pastore, non essendo affatto povero, è finito nel mirino di quella sinistra che si nutre di invidia e odio sociale. E via con insulti di ogni genere a partire dal classico «figlio di papà», qualità che tecnicamente possediamo tutti, ma che in questo caso è pure una gaffe, dato che il padre di Pastore è morto, lasciandogli appunto quegli orologi in eredità. Una tempesta di improperi di ogni genere su un ragazzino che ha commesso l'errore di mostrare un orologio di valore. Perché per un certo Pd e una buona fetta dei Cinque Stelle il lusso è una colpa, il successo un reato e i soldi - quelli degli altri, non i loro - sono una vergogna. Il paradosso è che quelli che hanno messo alla gogna Pastore, sono gli stessi che ogni giorno fingono di battersi contro ogni tipo di discriminazione e per la difesa dei diritti di chiunque. E poi sono sempre in prima fila a insultare e discriminare: troppo impegnati a vedere cosa si porta al polso per interessarsi a cosa uno ha nella testa. Ma comunque: hasta el Rolex siempre! E pure l'Audemars Piguet.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

La polemica del giorno. Chi è Roman Pastore, il candidato a Roma con Calenda attaccato per il “Rolex”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Settembre 2021. La polemica politica del giorno si è scatenata sui social network, niente di strano. A scatenarla le foto di Roman Pastore, candidato con Calenda a un Municipio di Roma, con un vistoso orologio al polso. L’hashtag #Rolex è arrivato in cima ai trendig topic di twitter, anche se quell’orologio di lusso era un Audemars Piguet. Pastore si trovava alla scuola politica di Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex premier, a Ponte di Legno. Roman Pastore ha 21 anni, è candidato a un Municipio di Roma con Azione di Carlo Calenda ed è social media manager degli under 30 che sostengono Renzi. È stato definito “figlio di papà” per quelle foto. Una critica a una sinistra che non è sinistra a un evento che si schiera apertamente contro il reddito di cittadinanza E lui ha replicato a tutta la polemica sui social: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno ‘sgamato’ l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo …”. A scatenare il tutto erano stati alcuni commenti indignati definiti subito di sinistra radical chic. “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non a indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”, quello che ha innescato tutto, a firma Barbara Collevecchio, psicologa. “Il problema è che il ragazzo con il #Rolex avrà una vita piena di occasioni meritate o meno mentre quello con il #RedditoDiCittadinanza dovrà faticare parecchio anche per le cose essenziali. Ma questo il ragazzo con il rolex non può comprenderlo”. Oppure: “Sempre sul ragazzetto e il ‘caso’ #Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa a scuola di #Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza #RedditoDiCittadinanza, e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. E ancora: “Se un candidato fa di tutto per evidenziarlo vuol dire che più che la sostanza, si vuole mettere in mostra l’involucro. Roma merita contenuto non l’incarto. Può tranquillamente saltare un giro e tornare a studiare per capire i bisogni di Roma”. Pastore ha anche spiegato il significato di quell’orologio in un altro tweet: “Figlio di papà? Orgogliosamente figlio di mio padre, che purtroppo non c’è più da diversi anni. Mi ha lasciato un orologio ma mi ha insegnato a non giudicare nessuno dalle apparenze, senza sapere nulla di lui e della sua vita. Il suo odio è spaventoso, spero se ne renda conto”. A difenderlo anche il leader di Azione, candidato a Roma ed ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda cha definito il “linciaggio” del tutto “inaccettabile. Esattamente come lo era quando Salvini definiva Lerner il comunista con il Rolex e noi, giustamente, lo difendevamo, si giudicano le persone per la qualità di quello che dicono o fanno, non sulla base di che orologio portano”. Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno “sgamato” l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo… 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021. Un politico di vent' anni che si veste da fighetto e indossa un pataccone con le lancette che costerà come trenta redditi di cittadinanza non è il prototipo del mio «congressman» ideale. Ma è un problema mio e di chi, come me, è cresciuto a Torino, dove il lusso ostentato è stato sempre considerato un po' cafone. Però da qui a insultare e minacciare sui social Roman Pastore, candidato da Calenda a uno dei consigli municipali di Roma, ce ne passa. E non solo perché a Roma un pastore fa decisamente comodo, con tutti gli animali allo stato brado che pascolano in giro. Intanto il rolex, che non è neanche un Rolex, sarebbe il lascito ereditario del papà defunto: un mezzo colpo basso per noi sentimentali. Inoltre, risulta abbastanza ipocrita chiedere ai politici di guadagnare poco e poi indignarsi se alla vita pubblica si accostano ormai soltanto i ricchi di famiglia. E comunque, meglio uno che entra in politica con il rolex di uno che vi entra senza e se lo mette dopo, inducendo gli elettori a credere che gli sia stato regalato in cambio di un favore. L'unico appunto che proprio non si può fare al ragazzo crono-munito è di essere il classico «comunista col rolex» che predica l'uguaglianza delle opportunità e incarna il suo contrario. Presentandosi con Carlo Calenda, e provenendo dal vivaio del futuro capo del centrodestra Matteo Renzi, Roman Pastore è semmai un perfetto esempio di rolex senza comunista.

VITTORIO FELTRI per “Libero Quotidiano” il 4 settembre 2021. A volte non si sa se ridere o bestemmiare. Il caso in esame è talmente assurdo da meritare un sberleffo e nulla più. Apprendiamo che a Roma è esplosa una polemica insensata poiché Calenda, già ministro, di tiepida sinistra, presentando la sua lista in regola per l'elezione del prossimo sindaco, ha sottolineato di avervi inserito un giovanotto poco più che ventenne. Fin qui tutto tranquillo. Sennonché gli avversari dell'ex uomo di governo, vedendo la fotografia del giovin candidato sono inorriditi. Perché? Udite udite. Il ragazzo in questione nella immagine sfoggia un elegante orologio di marca, un Audemars Piguet, che è subito stato interpretato dai progressisti da strapazzo come un simbolo di ricchezza inaccettabile per la gente di sinistra. L'episodio è grottesco. Il problema è che quelli del Pd non si rendono conto di non dichiararsi più stalinisti come erano un tempo non lontanissimo, ma di essere approdati in terra democratica, pertanto dovrebbero giudicare l'idoneità di una persona a partecipare a elezioni non in base a un cronometro, di legittima provenienza, bensì in relazione alle sue idee. Niente. Nei cervellini degli ex inquilini di Botteghe Oscure questo concetto elementare non entra neanche con le martellate. Sono ancora qui a guardare all'oggettistica di cui un uomo dispone, ne sa qualcosa Massimo D'Alema che alcuni anni orsono fu vituperato in quanto calzava scarpe inglesi, più care di quelle di Vigevano. Gli ex padrini del proletariato non demordono, con la testa sono sempre in sciopero, non capiscono di rendersi patetici allorquando si attaccano a un orologio per delegittimare qualcuno che non sia un loro compare. Ai quali vorrei far notare che la Capitale è piena di gravi problemi, che vanno dai gabbiani da guerra ai cinghiali a spasso sui marciapiedi, ai trasporti che non trasportano, al pattume che sovrasta la città. Mi pare evidente che una campagna elettorale decente dovrebbe affrontare le emergenze urbane, non il dramma di un orologio regolarmente acquistato da un giovanotto di buona famiglia in un negozio, mica da un ricettatore magari rom. Poi la sinistra si stupisce perché perde voti, cominci a non perdere la dignità e il buonsenso.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021. È diventato l’oggetto della contesa. La destra lo ha difeso: «Evviva la ricchezza!». Una parte del mondo di sinistra lo ha attaccato: «Figlio di papà!». Tutta colpa di un Rolex. Anzi, no. Di un Audemars Piguet, preciserà il diretto interessato, vale a dire Roman Pastore, 21enne capitolino, studente universitario della Sapienza, candidato al consiglio municipale con la lista civica di Carlo Calenda. Pastore è finito sotto i riflettori per avere pubblicato un selfie due giorni fa, direttamente dalla festa di Italia viva a Ponte di Legno, nel quale indossava il lussuoso orologio svizzero. In un amen l’autoscatto fa il giro dei social. Piovono gli insulti. Il popolo del web si divide. Finisce così: guelfi contro ghibellini. Destra contro sinistra. Sinistra contro sinistra. Barbara Collevecchio, psicologa ad orientamento junghiano, pubblica un post in cui c’è la foto di Pastore con l’orologio di marca. A corredo il commento: «Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renzini». E ancora, sempre Collevecchio insiste: «Poverino, partecipa a una scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza reddito di cittadinanza, e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?». Prova a spegnare il fuoco Calenda: «Prendono di mira Roman e il padre mancato da due anni e mezzo. È piuttosto colpito. Chiudetela qui. Avete già usato olio di ricino e manganello. Può bastare». Dopo aver ricevuto la solidarietà di Virginia Raggi, il giovane renzian-calendiano risponde al Corriere. Dice di essere «ancora ferito per questo linciaggio. Sono stato oggetto di bodyshaming».

Rifarebbe quella foto?

«E perché no? Non penso sia importante che orologio metta. E non è nemmeno un reato che sia di marca. Oltretutto quello di cui tanto si parla non è un Rolex ma un Audemars Piguet donatomi da mio padre, che non c’è più da due anni. Non vorrei accostarmi a Mario Draghi, anche il premier è stato definito “figlio di papà”, nonostante lo abbia perso da piccolo». 

Eppure, in un’altra foto porta un Rolex modello Submariner. Quanti ne possiede?

«Non penso sia una cosa fondamentale. Penso sia importante soffermarsi sulla qualità e sul linguaggio della persona che si ha di fronte. Sono uno studente universitario di Scienze politiche e relazioni internazionali che sta partecipando a una scuola di formazione con altri 400 ragazzi». 

A proposito, è renziano o calendiano?

«Basta con le etichette. Io sono iscritto a Iv e concorro come candidato al consiglio municipale nella civica di Calenda. Preoccupiamoci se una persona approfondisce. Dice sempre Renzi: open mind. Che significa allargare la foto e non soffermarsi sul click. Adesso devo staccare».

La novità della tornata elettorale: il riformismo. Chi è Carlo Calenda, gustosa novità della tornata elettorale di cui tutti hanno una paura fottuta. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Ottobre 2021. Di Carlo Calenda hanno tutti o quasi tutti una paura fottuta. L’esercizio di questi giorni è stato quello di nanizzarlo essendosi mostrato gigantesco ed esorcizzarlo. Ho spigolato fra i talk alcuni frammenti di linciaggio fra il comico e il terrorista. Che cos’ha questo giovane uomo e imprenditore e politico e ministro e inventore di una associazione politica detta Azione, di nuovo e diverso? La butto lì: Calenda risponde ai nuovi criteri di un’Italia quasi futura ma che è già arrivata. È quella del super commissario e agente europeo Mario Draghi (sia detto anche come complimento sia a lui che all’Europa) che, come tutti sappiamo, per principio riga dritto. Ha accettato di fare personalmente una seduta psicoterapica a Salvini che vola come un tordo nella cattedrale sbatacchiando sui vetri, fa quella faccia da buono che non gli riesce mai, e ha dimostrato che la politica di questi partiti, quelli in campo, vale pochissimo. Di qui il turbamento, di qui l’astensionismo sanissimo che dimostra quanto gli elettori stiano vivendo un momento di crescita nella libertà e nell’indipendenza nel votare, di qui le furie eccitate di tutti i mercanti del tempio che non hanno più spazio per le loro bancarelle e botteghini per cambiavalute. L’Italia che si profila ha un dannato bisogno di lavoratori che non ci sono, di ricerca scientifica che è umiliata ma che sa addirittura produrre un Premio Nobel per la Fisica nella stessa casa della Sapienza che ha ancora l’odore dei ragazzi di via Panisperna, di Fermi, di Cabibbo, Amaldi, Ageno e tutta la nostra magnifica scuola romana. Il Nobel Giorgio Parisi, scicchissimo perché volutamente disadorno, parla come Draghi, simulando battute d’arresto per cercare la parola e per trovarla secca e semplice. È uno che ha studiato la complessità del divenire, animale e sociale e fisico e terrestre e celeste. Geniale. Anche l’ecologia e il global warming sono state equazionate da Giorgio Parisi, e l’Italia seguita a vincere. È una stagione fatta così e arriva Calenda. Carlo non è un uomo nuovo, nel senso che è già stato ministro e un bravo ministro, ma è uno che ha capito la complessità, ha capito la novità, ha capito che devi saper dimostrare di andare dritto al punto, cut to the chase direbbe Draghi, and whatever it takes. Questo fa incazzare tutti o quasi tutti. Il risultato elettorale su Roma ha dimostrato che c’è un popolo evoluto e riformista che cerca risposte solide e vere. Immondizia? Ci vuole il termovalorizzatore. Niente impianto, vuol dire cinghiali (che sono anche bestie educate e pulite che attraversano la Roma della ex Raggi sulle strisce) e sorci, e pantegane e avvoltoi bianchi quali sono gli infernali uccelli marini appollaiati sui cassonetti. Calenda ha trovato voti da tutti, centro destra e sinistra e cani sciolti. Lo hanno subito accusato di essere un pariolino, di praticare una politica senza cuore ma solo tecnologica. Nel centrodestra hanno detto che ci vorrebbe un Calenda. Lo stesso a sinistra. I pentastellati non capiscono bene di che si tratta e si danno a riti voodoo contro Carlo Calenda di cui bruciano o accecano bambole con la sua faccia. Ma il medioevo italiano si sta sbriciolando man mano che le truppe corazzate europee capitanate da Marius Von Draghi, erede della Merkel, attaccano sulle riforme dalla giustizia alla pubblica amministrazione, è perché l’Europa si è un po’ rotta le palle degli italiani che si autodefiniscono sempre geni assoluti, ma che hanno un Paese a macchie di leopardo in cui si intervallano i geniali e i trogloditi, di solito curatori dei loro privilegi. Morale? È nata e già guida il motorino, l’idea di una azione riformista moderna all’altezza di una strategia che affronta la complessità alla maniera di Giorgio Parisi, il nostro amatissimo e pregiato Nobel. Calenda dà proprio questa impressione e comunicazione: uno che affronta la complessità, aborre la retorica, vomita davanti ai luoghi comuni, dà molti e giustificati segni d’insofferenza. È su questi che trova i voti. Molti voti, visto che come partito il suo è risultato primo. Un inizio folgorante che ha generato panico. Voi direte che non c’entra niente, ma a me viene in mente il presidente Cossiga, uno simpatico – e matto come un cavallo – messo in croce e demonizzato, il quale aveva capito all’inizio degli anni Novanta che bisognava affrontare la nuova complessità derivata dalla fine della guerra fredda e dei privilegi dell’Italia come Paese di cerniera. Nemo propheta in patria, e infatti si rifugiò in un convento in Irlanda. Oggi siamo in una transizione di una complessità internazionale di cui pochi si sono resi conto, in un contesto di pre-guerra che coinvolge America, Regno Unito e Australia con la Francia furiosa e una Merkel che passa il testimone e lo scettro di comando a Draghi, il quale ha chiuso la via della Cina e quella della Russia chiedendo un esercito europeo ma prima di tutto una politica estera. Un mondo nuovo. Formidabile e pericoloso, estremamente pericoloso. Roma è una città di complessità unica per la sua triplice natura archeologica, periferica e burocratica, e Calenda ha convinto i romani più alfabetizzati, cosa che ha irritato moltissimo i suoi detrattori spaventati: “Sei un pariolino”. Sì, embè? Ha risposto lui. Dunque, Calenda è l’oggetto del desiderio. Di un doppio desiderio: utilizzarlo e ucciderlo. Secondo i casi. Dicendo che avrebbe votato Gualtieri al secondo turno ha forse ammazzato Michetti, ma questo è un dettaglio. Non appartiene di fatto ad alcun partito ma ha capito che i cittadini votano con la loro testa, magari a capriccio e non per partito. Tutto è rimesso in gioco e con lui all’orizzonte il tempo richiede velocità, altrimenti si finisce alle calende greche. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L'altro 11 settembre. Dagli occhiali di Allende a quelli di Concita De Gregorio. Fulvio Abbate su Il Riformista il 14 Settembre 2021. C’è più calore politico nell’immagine spettrale degli occhiali, infranti, di Salvador Allende, rivisti nei giorni scorsi nei resoconti della memoria giornalistica civile di un remoto colpo di Stato avvenuto in Cile l’11 settembre 1973. C’è appunto più sostanza lì che non nei desiderata della attuale “conversazione” di sinistra. Rinvenuti nel Palazzo della Moneda dopo il bombardamento, appartengono adesso al Museo Histórico Nacional. Custoditi a lungo in una modesta scatola di latta di cioccolatini da chi volle salvarli, resistono infine «a temperatura y humedad controladas, para que sigan siendo parte del patrimonio de Chile». E, ripeto, giungono allo sguardo più esemplari dei feticci e dei must della sinistra odierna, nostra dirimpettaia mediatica, televisiva; non sto certo parlando del “pataccone” al polso del campioncino ventunenne candidato da Calenda a Roma, estraneo, quest’ultimo, perfino a ogni nozione “migliorista”, infine cazziato, dopo la sua ripetuta ostentazione da baretto di Ponte Milvio, dallo stesso padrino politico. Il raffronto andrebbe fatto semmai con le montature post-elisabettiane, post-fiorucciane che Concita De Gregorio, cara alla bella gente del Palazzo mediatico d’osservanza post-veltroniana, indossa come accessorio della propria progressiva, invidiabile, rendita, trincea di posizione professionale. Sia detto anche rischiando di suggerire sofismi da puntiglio metafisico, ma l’esistenza dell’emozione e di un sentire politico, non certo ideologico mortuario, si misura anche nelle suggestioni. Quanto a sentimento, gli oggetti, le cose, perfino in apparenza men che sovrastrutturali, le stesse che indossiamo, sono talvolta segni di identificazione subculturale. Hanno il merito di restituire l’essenza d’ogni mondo, l’altrove, e poco importa se ciò avviene in modo fantasmatico. Anche l’Utopia, in assenza della quale non esiste possibilità di cammino, è immateriale. Come la bandiera che inizialmente aveva, semanticamente parlando, significato segnaletico di allarme, presenza di pirati, salvo poi divenire, sulle barricate della Comune di Parigi, di cui si festeggiano quest’anno i 150 anni, il punto di raccolta del Quarto Stato. Ritrovando la miseria simbolica del presente, assodato che in certi casi non ci sono problemi poiché non esistono soluzioni, resta l’irrinunciabilità del sogno, dell’ideale spinterogeno della passione che consente la scintilla del mutamento. Tra le immagini “politiche” di queste ultime settimane, la più evidente per calore, ripeto, giungeva al nostro diorama delle cronache, esattamente dal magazzino dei reperti tragici delle sconfitte: gli occhiali di Salvador Allende, spezzati, insanguinati, infranti, così come dimorano adesso nella sua Santiago del Cile. Obietterete: parli di un remoto settembre del 1973, accenni a un’avventura politica con illusioni perfino rivoluzionarie storicamente fallimentare, conclusa con un golpe, complice il governo degli Stati Uniti d’America, condotto da un militare ottuso, traditore, criminale, e ancora, come dimostrato dai tribunali, corrotto, tal Pinochet. Tuttavia l’immagine di quegli occhiali, appartenuti al presidente socialista di Unidad Popular, sia pure dall’oltretomba, restituiscono emozione. Obietterete ancora: serve davvero il simbolico quando la sinistra odierna sembra in verità del tutto svanita, fantasma residuale, talvolta detestabile per insignificanza o protervia dei suoi stessi protagonisti comunque garantiti? Altrettanto doveroso però in certi casi fare ritorno al valore della poesia, a Pier Paolo Pasolini, viso altrettanto sfigurato dalla storia, quando accenna «alla lunga serie di notti in cui marcia senza bandiere la vita», versi perfetti per restituire il gelo e il vuoto del presente, e nessuno pensi ora si tratti di nostalgia da “comunisti”, più semplicemente di bagaglio di minima coscienza. La dinamo, l’autoclave dell’emozione, appunto. Dal lato più buio della strada, le lenti spezzate di Allende, nel belvedere dirimpetto l’ostentata montatura di Concita De Gregorio, creatura apprezzata dal contesto attuale “di sinistra”, dove le virgolette appaiono d’obbligo, la stessa che, nelle settimane scorse, ha visto le proprie anime belle identificarsi con la foto edificante del giovane console, benedetto, per prossimità familiare, da Michele Serra tra i “non sdraiati”, mentre sollevava un bambino per metterlo in salvo dal carnaio aeroportuale di Kabul. Una sinistra cui è cara la propria presentabilità, bon ton, zuppe di farro, fragranze di lavanda d’autore, “Eau de Moi”, anche questa un’opportunità offerta da “Serra & Fonseca”; un galateo che tuttavia svanisce davanti al minimo ghigno delle destre che, quanto a simbolico, per quanto osceno e qualunquista, giunge imbattibile al consenso plebiscitario populista. Un esempio? Giorgia Meloni intenta a puntualizzare, nel momento stesso della tragedia afghana, il rifiuto d’ogni corridoio umanitario. Incredibilmente, nella sua immediatezza mortuaria e irrealtà della storia e delle sconfitte trascorse, la “reliquia” di Allende, appariva più convincente e reale degli occhiali performanti d’autore dell’invidiabile, apprezzata opinionista dal pubblico de La7, perfino quando ammutolisce – “specchio, specchio delle mie brame…” – il collega di conduzione, dimezzato David Parenzo. Paradossalmente, gli occhiali del morto emanano più calore, sebbene sia luce che giunge da una stella spenta da oltre quarant’anni. Il resto è chiacchiericcio insignificante sulle ambizioni di un Giuseppe Conte, sulle vacanze di Maria Elena Boschi, non meno orgogliosa della propria cintura segnata dalla lettera H, iniziale del glamour più ordinario, o su quell’altro dell’orologio, l’ennesimo oggetto. A conferma che segnalare il valore simbolico delle cose è tutt’altro che fumo da invidiosi, meglio, da “rosiconi”, come sempre ripetono gli analfabeti d’ogni sponda politica.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

·        Le Sardine.

Da open.online il 23 settembre 2021. Candidato al consiglio comunale di Bologna, Mattia Santori ha girato un video con lo smartphone, a bordo del suo scooter, per denunciare il traffico in tilt. Peccato che il portavoce delle Sardine, candidato a Bologna da indipendente nella lista del Pd alle elezioni comunali del 3 e 4 ottobre, per girare quelle immagini ha percorso la carreggiata contromano, occupando la corsia dei bus. «Questa è via Saragozza alle 18 di un martedì sera. Coda continua da Porta Saragozza, macchine incolonnate da mezz’ora e residenti (ancora una volta) attoniti. Questo è quello che succede quando il calendario delle partite lo decide un’emittente televisiva privata come DAZN, che guarda ai suoi interessi e non considera che spesso gli stadi in Italia sono situati in quartieri centrali e residenziali. Questo è quello che succede quando, nel 2021, nessuno ha mai affrontato seriamente la gestione dello spazio pubblico e della vivibilità urbana», ha scritto su Facebook Santori. Accortosi dello scivolone sociale, ha provveduto a rimuovere il video in questione.

Il populismo radical chic delle sardine. Andrea Indini il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Dallo stadio del frisbee all'eremitaggio, l'assurda campagna elettorale di Santori nasconde l'essenza delle sardine: si battono contro il populismo ma in realtà sono la quintessenza stessa del populismo. Se dopo aver subito il populismo rabbioso dei Cinque Stelle, infarcito di vaffanculo, crociate anticasta e fantasiose idee antiscientifiche, pensavamo di aver toccato il fondo, era ovvio che sarebbe bastato attendere per vedere spuntare a sinistra nuovi "mostri". E così, proprio mentre i grillini venivano ingollati e digeriti da quel Sistema stesso che per anni avevano demonizzato, ecco negli ultimi anni emergere sempre dal basso un altro tipo di populismo, radical chic a questo giro, ma altrettanto pericoloso. È quello propugnato da Mattia Santori e dalle "sue" sardine. Da alcune elezioni a questa parte, ce li ritroviamo tra i piedi quando dobbiamo votare e poi, come tutte le bolle mediatiche, torniamo a dimenticarcene abbandonandoli nel nulla da cui provengono. Se lo chiedi a loro, ai pesciolini, ti dicono che non sono un movimento. Nelle pagine Le Sardine non esistono, "fatica" letteraria pubblicata da Einaudi che porta la firma dei quattro fondatori (Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori e Giulia Trappoloni), si autodefiniscono un "moto di riappropriazione di pensieri, idee e società". "L'Italia - spiegano - è nel mezzo di una rivolta popolare pacifica che non ha precedenti negli ultimi decenni". Ormai abbiamo imparato a conoscerli e non hanno certo le sembianze di rivoluzionari (pacifici, per carità) che lottano per cambiare il Paese. Sono quelli che si ritirano in conclave nei palazzi okkupati per lisciare il pelo alla frangia no global e poi in gita alla corte dei Benetton, a braccetto col re degli insulti Oliviero Toscani. Certo, di tanto in tanto, combattono qualche battaglia, come quella per la liberalizzazione delle droghe leggere. "I giovani non vogliono più andare nelle piazze di spaccio", sentenziavano a inizio giugno in occasione del Cannabis Tour durante il quale vendevano tre piantine a 20 euro. Un buon affare per chi si vuole fare una piccola scorta in casa. Un'altra crociata storica è quella che li ha portati l'anno scorso a consumarsi le suole delle scarpe da Castiglione dei Pepoli a Rasora, "il più piccolo borgo d'Italia dotato di una biblioteca". Il messaggio che avevano voluto dare al territorio e al Paese intero era l'esaltazione dei "presidi culturali" in chiave anti populista. Manco a dirlo alle comunali successive, proprio a Castiglione dei Pepoli, il centrodestra era passato col 51% delle preferenze. Sin dall'inizio le sardine sono nate per riportare gli elettori delusi tra le braccia del Partito democratico ed evitare così che "le destre" (quelle di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per intenderci) riuscissero a mettere le mani sulle roccaforti rosse. Ad oggi sono sempre riuscite a ribaltare in extremis amministrative che sembravano poter riscrivere la storia di Regioni storicamente rosse. È successo, per esempio, in Emilia Romagna nel 2019 e poi in Toscana l'anno successivo. Alla fine, dopo un iniziale testa a testa, in entrambi i casi riconosciuto dai sondaggisti come un vero e proprio cambio di tendenza, i pesciolini erano riusciti a fare da collante tra le diverse anime della sinistra portando a votare Pd non solo gli indecisi ma anche soffiando parecchi elettori al Movimento 5 Stelle. Riuscito il colpaccio, però, erano pressoché sparite nel nulla. Salvo, poi, fare un blitz - sacchi a pelo alla mano - davanti alla sede del partito dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti. Quest'anno, in vista delle amministrative di inizio di ottobre, sono tornate a farsi sentire. Soprattutto a Bologna dove a metterci la faccia, candidandosi a consigliere comunale, è il "sognatore" Santori. Sognatore sì, ma coi piedi ben piantati per terra. Sa bene, infatti, di aver la strada spianata: nel 2019 un'altra sardina, Elly Schlein, aveva fatto man bassa di preferenze alle regionali. Ottenne oltre 22mila preferenze e Bonaccini la premiò con la vice presidenza. "Poteva uscire dai talk e andare in Parlamento, ha scelto l’umiltà dei gesti, candidandosi a Bologna", ha raccontato all'Huffington Post padre Benito Fusco del convento di Ronzano dove nelle ultime settimane Santori è andato a rinfrancare anima e corpo. Dai primi di settembre ha deciso che, almeno fino al voto, quella sarà infatti la sua nuova casa. "Lo chiamano monastero ma è una famiglia di frati atipica, in cui il Vangelo non si recita: si pratica", ha spiegato lui stesso in una recente intervista. "Si fanno domande, ci si scontra con le differenze, con i problemi della convivenza, con la gestione comune degli spazi".

Nonostante l'eremitaggio Santori non ha mancato di entrare nel dibattito politico con uscite che fanno sicuramente presa sull'elettorato più progressista ma che, se analizzate, non fanno altro che dimostrare il profondo populismo, a tratti anche ingenuo, di cui sono intrise le sardine. Come potremmo spiegare altrimenti il suo sogno di far costruire "il primo stadio del frisbee a Bologna"? O che dire "il più grande nascondino di sempre" organizzato tra le strade del centro di Bologna, "senza macchine di cui avere paura, senza dover dare la mano ai genitori"? Il problema è che questa forma di populismo radical chic non solo rischia di impoverire la politica, trasformandola in un gioco e sminuendo i problemi concreti, di cui dovrebbero farsi carico i politici locali, ma finisce anche per partorire idee balzane (e deleterie) come la proposta di far pagare la tassa sul suolo pubblico alle seconde auto.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sba

Fed. Cap. per “la Stampa” il 21 agosto 2021. Che non si volesse candidare con il Pd, Mattia Santori, leader delle Sardine, lo aveva ripetuto tante volte negli ultimi due anni. Radio, tv, giornali, comunicati stampa. Troppe volte, forse: alla fine si è candidato nella lista del Pd per le amministrative a Bologna. Il movimento delle Sardine entra così per la prima volta nelle acque della politica. «Ma mi candido da indipendente», puntualizza Santori a chiunque gli chieda se questo sia il primo passo verso un ingresso delle Sardine nel Pd. Una fusione è esclusa, almeno per il momento. «Non ho preso nessuna tessera di partito - chiarisce a chi gli è vicino - e le Sardine proseguiranno per la loro strada». Una strada che, per il momento, porta alla costruzione di una rete di forze progressiste, non a un partito unico. L'alleanza bolognese verrà replicata in altre città chiamate al voto. Da Roma a Milano, da Latina a Torino, «schiereremo sia candidati interni al movimento, sia personalità esterne che però si sono avvicinate al nostro mondo - fanno sapere -. Sosterremo la candidatura di chi rispecchia i nostri ideali». L'appoggio alla candidatura di Matteo Lepore a Bologna è stato un passaggio semplice, quasi naturale: il feeling c'è da sempre e sono mesi che Santori lo sostiene. Con la sua candidatura, poi, il leader delle Sardine vorrebbe spostare un po' più a sinistra la barra della coalizione. Sono stati notati troppi ammiccamenti dei Dem ai moderati di Forza Italia nell'avvio di questa campagna elettorale. E troppo urticante è la presenza dei renziani che «sono ancora nascosti nel Pd e osteggiano Lepore», come sibilano dal movimento. Alle questioni di bandiera, poi, sono stati affiancati dei calcoli più puramente politici. C'era la possibilità di candidarsi nella lista di Elly Schlein, la vicepresidente dell'Emilia Romagna, punto di riferimento delle Sardine nella Regione, ma si è preferito, con la candidatura di Santori, mettere un altro presidio «di sinistra» nelle liste Dem. Il rapporto con il Pd è quindi tutt' altro che semplice. Come dimostrano le difficoltà incontrate in tanti altri comuni chiamati al voto e in Calabria, dove non correranno insieme. «Ma se si vuole parlare del Pd come entità unica si fa un errore di grammatica - sottolineano dalle Sardine -. Ci sono tante anime diverse». Con alcune di queste anime si può discutere, con altre invece si complicano le cose. E lo stesso discorso vale per i Cinque Stelle, che a Bologna sono spaccati da sempre. Il rapporto è «ottimo con Max Bugani», dice da tempo lo stesso Santori, che vede nell'esponente della prima ora grillino l'uomo del dialogo che spinge verso una coalizione di sinistra; meno buono quello con altri esponenti M5S, come la consigliera Elena Foresti, che appoggiava la candidata renziana alle primarie bolognesi, Isabella Conti. La storia si ripete in Calabria, dove non c'è alcuna intenzione di sostenere il candidato del Pd e dei Cinque Stelle. I Dem hanno offerto qualunque cosa a Jasmine Cristallo, leader calabrese delle Sardine, che sui social fa l'elenco delle proposte rifiutate: dalla segreteria regionale del partito al ruolo di capolista alle regionali. Neanche la telefonata di Giuseppe Conte, con cui l'ex premier ha provato ad aprire uno spiraglio per una collaborazione, ha avuto alcun effetto. E il problema, per loro, è sempre lo stesso: la mancanza di una visione di rottura e la presenza pervicace di candidati di stampo renziano. I paletti sono molti e ben fissati nel terreno. Ma anche Santori, un tempo, diceva che non si sarebbe candidato con il Pd.

Silvia Bignami per "la Repubblica" il 9 marzo 2021. «Le dimissioni di Zingaretti sono state un grido di aiuto. Noi abbiamo risposto». Da quando il leader dem si è dimesso, Mattia Santori non si è fermato un attimo. Anzi ha portato le Sardine al capezzale del Pd, al Nazareno, «per proteggerlo dalla sua stessa crisi» e rilanciare la Costituente di sinistra voluta da tanti, da Pier Luigi Bersani a Giuseppe Provenzano. Tentativo ultimo per salvare un partito che oggi, ammette, «è un marchio tossico, al quale nessuno si iscriverebbe».

Santori, l' ha colpita l' addio di Zingaretti?

«Sì, io credo abbia fatto un potentissimo atto di denuncia. È stato un modo per chiedere aiuto a chi è fuori dal Pd e per mettere con le spalle al muro i problemi interni».

Zingaretti ha parlato di un partito di cui vergognarsi. Lei condivide?

«Io ho visto tre tipologie di Pd in questi anni. La più bella è quella delle sezioni: un Pd commovente e appassionato. Poi salendo c' è il Pd in campagna elettorale, che non mi è piaciuto. Tanti selfie con le Sardine più per convenienza che per aprirsi davvero. E poi c' è il Pd del Nazareno, che ho visto sabato. Con una dirigenza incartata e totalmente incapace di produrre creatività e innovazione, perché solo impegnata nelle lotte di potere».

Anche la vostra manifestazione al Nazareno è stata criticata. Si è detto: nessuno può uscire per la pandemia e loro vanno a Roma.

«Il nostro intervento è stato tempestivo ma non irresponsabile. Abbiamo organizzato in 24 ore una manifestazione del tutto legale, perché ci si può spostare per manifestazioni nazionali. Avevamo fatto i tamponi. Questo ha dato fastidio a una parte della casta politica che ha cavalcato una incomprensione anche legittima delle persone facendo loro credere cose non vere. Ad esempio che abbiamo dormito al Nazareno...».

La foto in tenda col ritratto di Berlinguer non l' avete scattata lì?

«No. Noi saremmo anche restati ma non volevamo creare problemi ai dipendenti. Abbiamo fatto quella foto da un' amica, che ha una casa piena di cimeli comunisti».

Lei non crede in questo modo di aver un po' ceduto a quella politica "spettacolo" che tanto criticavate?

«No, perché per noi il dialogo è un atto concreto. Un fatto fisico, non un post su Facebook o un comunicato. Siamo andati là per offrire la nostra presenza. Per dire: avete bisogno? Noi ci siamo. E credo che da molti il nostro gesto sia stato compreso. Il problema vero è che il messaggio iniziale delle Sardine si è un po' annacquato».

In che senso?

«Nel senso che all' inizio avevamo solo la destra contro. Poi abbiamo cominciato a essere scomodi per i 5 Stelle quando abbiamo denunciato un certo modo di approcciare il referendum: come il taglio delle poltrone davanti a Palazzo Chigi, quella sì era politica spettacolo. Poi abbiamo attaccato il Pd quando ha cominciato a professare di stare in mezzo alla gente o di praticare l' ascolto, mentre non era vero. È logico che quando sei scomodo ti attaccano».

Anche voi attaccate. La vostra Jasmine Cristallo ha detto che Bonaccini non va bene come leader Pd, perché è di destra. Condivide?

«Sapete come sono i giornali... quello di Jasmine era un discorso molto ampio sulle autonomie, ridotto poi a quel titolo forzato che infatti Jasmine ha preteso fosse rettificato. Piuttosto io critico a Bonaccini di non aver avuto un approccio d' ascolto all' idea di Piazza Grande. Non dare continuità a un movimento civico come quello delle Sardine che è nato nella sua regione per la sua elezione, per me è stata una occasione persa. Ma sono pronto a ricredermi. Se devo mettere dei limiti li metto a Renzi, non certo a Bonaccini».

Con Renzi non si deve parlare?

«Io penso bisognerebbe applicare il principio della recidività. La recidività di chi ha prima fatto grossi errori e poi ha infierito su un corpo già martoriato. Questo dovrebbe causare l' esclusione di diritto. Stessa cosa Calenda. C' è un principio di lealtà da salvaguardare. Come quando i militanti Pd criticano le Sardine perché intervengono da non iscritte: li capisco, perché la militanza impone il rispetto della maglia».

Sta dicendo che si iscriverà al Pd?

«No, perché in questo momento il Pd ha un marchio tossico. Nessuno ora farebbe la tessera. Si vede dal fatto che gli iscritti sono in calo. Inoltre le Sardine hanno il vantaggio di restituirmi la fotografia di quei cittadini che seguono la politica ma non sono iscritti a un partito. Ieri abbiamo fatto una assemblea con 170 persone e quel che emerge è questo: lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti».

"Sinistra, hai perso il senso della realtà" L’accusa delle Sardine all’area dem. "Le sconfitte elettorali sono il rovescio di una politica che ha curato il proprio orto anziché seminare il campo riformista". Giovani, lavoratori, pensionati: ecco chi non si sente più rappresentato. di Jasmine Cristallo La Repubblica il 10 febbraio 2021. L’aver assunto il compito di governare, o comunque essersi fatto carico responsabilmente delle ristrutturazioni di sistema - che in maniera chiara non avevano al centro la ridistribuzione della ricchezza, l’estensione dei diritti e il rafforzamento dello stato sociale - nel mentre si perseguiva l’attacco ai salari e ai diritti, e per questa via si minava la condizione materiale di vita delle famiglie, ha fatto sì che venisse meno, e in alcuni  casi crollasse, la fiducia dell’elettorato nei confronti di quelle formazioni che si presentavano come eredi di una tradizione di sinistra. Una sinistra il cui isolamento, in primis dalle sue componenti elettorali, e le sue sconfitte sono l’evidente limite dettato da un’incapacità politica di sintesi su tematiche sociali e approcci sistemici. Senza una visione, senza un concreto rapporto con la storica base culturale, è stato inevitabile per la sinistra italiana polverizzarsi e arroccarsi in angoli “confort” dove era più semplice curare il piccolo orto piuttosto che seminare un ampio campo riformista. Il progetto comune della sinistra non ha saputo reggere all’applicazione reale, non è andato oltre e perso il termometro del paese, non è stato più in grado di analizzare  e dare risposte reali ad un paese che cambia. Le nuove generazioni, in questo procedere a tentoni della sinistra italiana, sono cresciute, le famiglie e i loro bisogni sono cambiati e il modello di società ha subito mutamenti di forte impatto sociale. Oggi il modello capitalistico-privatistico ha creato ambiti malsani nella gestione della cosa pubblica e nella formazione stessa delle coscienze sociali. Una società dell’ora e subito, del materialismo come punto cardinale, del produrre piuttosto che dell’essere, ha ribaltato un concetto chiave per lo sviluppo intellettuale dei popoli: la forma è divenuta sostanza. Questa tendenza si è concretizzata spesso con la semplificazione e la banalizzazione delle complessità politiche, nell’assalto al processo formativo delle giovani generazioni (ma non solo) che ha diminuito di molto l’approccio critico. Pensare di meno, affidarsi agli stregoni politici di turno, creare un pantano informativo di bassa lega ha sedimentato una massa “poco” attenta e spesso “per nulla critica” che si è auto-estromessa dai processi politici e decisionali di un paese. Massa che ha demandato le proprie scelte a qualcuno o qualcosa senza capire bene il processo di depotenziamento di cui è stata vittima. Il precipitare delle condizioni materiali di vita delle famiglie, l’ampliarsi della forbice delle diseguaglianza sociale (in Italia tra le più alte d’Europa) , l’incapacità e spesso l’inadeguatezza degli strumenti politici che avrebbero dovuto analizzare e affrontare i bisogni venutisi a creare e spesso negati, ha fatto sì che si giungesse ad un tasso di sfiducia sempre maggiore  e che quell’elettorato, storicamente saldo, cominciasse ad avere un aspetto fluido e a volte schizofrenico. I sovranismi acquistano spazio proprio dove si è generato un “vuoto di sinistra”. Un vuoto dove ha perso identità la fabbrica, il lavoratore, luoghi e categorie ormai divenute lontane dai salotti della sinistra 3.0. Il pensionato si è sentito un peso per una politica dove il sociale è stato marginalizzato, i giovani hanno visto crollare le sicurezza (qualora vi fossero mai state) di un futuro da determinarsi. In questo vuoto non possono mancare le famiglie, destrutturate da una società che le aggredisce economicamente ma anche in termini di valore assoluto. Quelle che decenni fa erano le classi dirigenti, formate e proiettate a governare i processi di un Paese, oggi sono “gli eterni giovani” incapaci e che devono aspettare il loro turno, senza sapere se arriverà il proprio turno, poiché la politica e la società, pur avendo perso la capacità di analisi, si chiude a riccio per mantenere in piedi un sistema chiaramente antiquato e di controllo fine a se stesso. L’antipolitica e l’assalto morale agli strumenti e ai fondamenti democratici passano anche attraverso questo: la fiducia diventa sfiducia, e la sfiducia odio fine a se stesso, un odio che destruttura e non costruisce. Proprio quello di cui una società che vuole migliorare e cambiare non ha bisogno. Quando una società fagocita il tempo dei propri cittadini, quando il potere d’acquisto dei salari  crolla, quando la formazione culturale viene falciata, quando gli spettri della disoccupazione e della povertà aggrediscono le masse, diventa più problematico parlare alla testa e molto più produttivo (in termini elettorali) rivolgersi alla “pancia”. Così parlare di istituzioni, principi democratici, unità del paese diventano concetti vaghi e fuori dalla percezione primaria dei cittadini. Il fallimento della sinistra non sta nel non aver capito (sul quale dovrebbe fare un mea culpa) ma nel non essere stata in grado (è una conseguenza) di dare delle risposte ad una deriva socio-economica in cui il paese stava e sta andando. Nel non esercitare più il suo ruolo di indagine, di formazione e collante sociale non solo ha diminuito il suo spessore intellettuale, ma non è stata in grado di pensare e costruire un modello “altro”, diverso e più di “sinistra”. La sinistra non si è posta il problema di come rielaborare il suo operato politico, non è stata in grado di fare autocritica e di aggiustare il tiro su una società che cambiava e continua a farlo. Una serie di piccoli feudi e interessi insiti nelle compagini politiche della sinistra hanno creato un solco profondo con la base e non sono state in grado (o non hanno voluto) di creare una classe politica all’altezza delle sfide attuali. Questo ha comportato che ciò che poteva essere alternativo e virtuoso apparisse come l’ennesimo strumento mediocre per il mantenimento dello status quo. La fiducia oggi, negata alla sinistra, è una fiducia che è sfuggita dalla sua compagine elettiva e di conseguenza non è riuscita ad avere capacità attrattiva, la sua identità si è volatilizzata nei palazzi, la sua incapacità di approccio si è riversata sui territori e nel tessuto sociale, generando macerie dove prima si era costruito. Ripartire oggi da questa condizione, non significa garantire numeri, prendere scorciatoie di potere o fare aggiustamenti di prossimità, significa ripensare interamente l’approccio politico, significa formare e strutturare le classi politiche affinché siano in grado di leggere una realtà e una società che inevitabilmente cambia e esprime nuovi interessi e veicola alle amministrazioni nuovi problemi. Rappresentare oggi la sinistra significa “programmarsi” per una battaglia non solo politica, ma culturale. Cambiare il punto di vista dei politici in primis e delle cose verso una società ampia, accogliente, pensante e partecipe. I giovani, le persone non credo che chiedano la rivoluzione o la presa del palazzo d’inverno, ma vogliono rimettersi in marcia, vogliono sentirsi partecipi nella costruzione di una società nuova e vogliono sentirsi apportatori di visioni che modellino il cammino verso le proprie esigenze e propri diritti spesso inascoltati. Impegnarsi in progetto di questa ampia portata significa svolgere il proprio ruolo di cittadini, svolgere una funzione importante, quella di elevare le masse da semplice bacino numerico di voti a soggetto determinante di un paese democratico. Partendo da questi assunti, solo così alle nuove generazioni potremo chiedere un impegno costante  per ricostruire un’identità di sinistra e allontanare le forze disgregatrici.

Mattia Santori e le sardine al Nazareno: "Occupare il Pd", l'Opa (ostile) degli anti-Salvini dopo l'addio di Zingaretti. Libero Quotidiano il 06 marzo 2021. Il punto più basso nella storia del Pd? Ci si va vicino: Mattia Santori e le sardine occuperanno la sede del Nazareno, a poche ore dalla decisione del segretario Nicola Zingaretti di dimettersi. Una presa del potere "morbida"? Un golpetto ittico? "Lanceremo un'occupazione simbolica del Nazareno - spiega il leader dei pesciolini, che un anno e mezzo fa si presero la ribalta della politica nazionale come forza anti-Salvini decisiva per la vittoria di Stefano Bonaccini alle regionali in Emilia Romagna -. Un atto in cui non sfonderemo nessuna porta, ma chiederemo di aprire le porte a tutta la società civile che in questo momento avrebbe voglia di essere coinvolta o invitata". Gli slogan sono quelli cari alla sinistra extra-parlamentare, di decennio in decennio: occupazione (magari senza la "K", per non turbare troppo le nuove generazioni), partecipazione popolare, società civile. Il tempismo più che sospetto è una conferma: nel vuoto di potere non creato ma certificato dal passo indietro di Zingaretti, forse c'è spazio anche per Santori, personaggio in cerca d'autore silenziato di fatto da questi lunghissimi mesi di anestesia politica causata dall'epidemia di Covid. "L'iniziativa - spiega lo stesso capetto bolognese - parte da un malessere, continuare ad assistere a un processo di ricostruzione del centrosinistra senza poter dire la nostra. In questo momento il Pd è un luogo dove si sta decidendo il futuro del centrosinistra, un luogo che ci interessa". Siamo di fronte quasi a una Opa ostile, visto che Santori spiega di non volersi "appiattire sul Pd", ma di voler "favorire l'idea di 'Piazza Grande', un partito federativo e una grande rete di associazioni che abbiamo messo in pratica, senza volere, con le piazze delle Sardine". Per Santori "non si può semplicemente stare a guardare" perché la crisi del Pd "ci riguarda, è parte del processo di ricostruzione di un campo progressista". Auguri.

Mattia Santori si dà agli spot della mortadella: dalle sardine ai salumi il passo è breve. Libero Quotidiano il 02 marzo 2021. Dalle sardine ai salumi il passo è breve. Se vi stavate chiedendo che fine avesse fatto il leader del movimento delle Sardine, sorto in opposizione alla Lega in Emilia Romagna prima della pandemia e poi sparito dalla scena politica, ecco svelato il mistero. Mattia Santori è tornato in una docu-serie della Cnn “Searching for Italy” in cui l’attore e regista statunitense Stanley Tucci, di origini italiane, esplora il nostro Paese alla ricerca dei piatti tipici. Tarantella, sole, salumi e non poteva mancare il panino a base di mortadella tipico della tradizione emiliana che Tucci gusta insieme all’amico Santori. “So simple so good” dice Santori prima di affondare i denti in una gustosa fetta di pane e mortadella. Insomma se la politica delude, se le chance di ritornare in auge scarseggiano meglio darsi alla tv e  se ne facciano una ragione i sui seguaci. D’altronde l’avevano previsto in tanti che la grande rivoluzione delle sardine prima o poi sarebbe finita a tarallucci e vino.

Sardine, il delirio più estremo di Mattia Santori: "Estratti a sorte, una bella lotteria". Gente a caso in Parlamento. Libero Quotidiano il 05 marzo 2021. Pensavamo di essercene liberati, invece ogni tanto ne sentiamo parlare a sprazzi. Sì, stiamo parlando delle Sardine. In particolare, di uno dei leader del "movimento" Mattia Santori. La sardina numero 1 starebbe pensando ad un ritorno in politica, sempre che ritorno si possa definire, e sempre che di "politica" si possa parlare. Il movimento si è infatti sciolto subito dopo aver completato la sua missione, ovvero consentire la vittoria alle elezioni regionali del democratico Stefano Bonaccini a scapito della leghista Lucia Borgonzoni.  Nessuna idea politica, nessuna proposta per qualsiasi tematica di rilievo. Insomma, un movimento i cui componenti erano accomunati esclusivamente dall'odio nei confronti di Matteo Salvini. Quotidianamente e per l'intera durata delle elezioni regionali, al riccioluto Santori veniva dato spazio in molteplici talk show. In seguito alla vittoria di Bonaccini, di lui e delle Sardine non si è saputo più nulla (o quasi). A inizio marzo, Santori è tornato a mostrare il suo volto, intento a mangiare una fetta di mortadella nella puntata bolognese del programma di Stanley Tucci Searching for Italy. Durante la trasmissione racconta di meditare a proposito di un suo ritorno in politica. Per farlo avrebbe deciso di fare coppia con l'ex radicale Marco Cappato, lanciando una nuova proposta di idea politica dal nome Politicipercaso. L'idea di Santori e Cappato sarebbe quella di estrarre a sorte cittadini comuni, per poi rinchiuderli in una stanza insieme a degli esperti per discutere su tematiche di rilevanza politica. Da questa improbabile collaborazione dovrebbero poi emergere progetti da presentare in Parlamento o da sottoporre come materia di referendum. L'obiettivo dei due è quello di organizzare una raccolta firme, in modo da sottoporre l'idea alle istituzioni. Forse è meglio se Santori si limitasse a mangiare la mortadella, evitando di tornare di tanto in tanto a parlare di politica. Il primo preso dalla strada per parlare di tematiche che non gli competono sembra essere proprio lui. 

Da huffingtonpost.it il 6 marzo 2021. Mattia Santori e altri esponenti del movimento delle Sardine si sono presentati con sacchi a pelo davanti al Nazareno, sede del Pd. “Siamo pronti a rimanere dentro al Nazareno finché non ci assicurano che le cose si fanno con le persone”, ha spiegato Santori. “Ci sono mattine in cui vorresti startene a letto. Giorni in cui ti dici ‘chi me lo fa fare?’. Mesi in cui rimpiangi di non essertene stato zitto e buono. Poi ti guardi intorno - scrive Santori su Fb - e vedi ancora schiere di opinionisti, flotte di disillusi, plotoni di culi pesi e tastiere pesanti. Apprezzo i benpensanti ma non è con le penne fini che le cose cambieranno. Stimo gli intellettuali ma credo che quando si tratta di ricostruire serva soprattutto chi si sporca le mani. Pensate quello che vi pare, ma la crisi del Pd - è il messaggio del leader delle Sardine - è la crisi del centrosinistra, una crisi che ci riguarda e che vi riguarda anche se la politica vi fa schifo o vi ha stancato. Datemi del pazzo ma ho visto troppa bellezza quest’anno per riuscire a rassegnarmi”.

Da ilgiornale.it il 7 marzo 2021. Sì, il peggio della settimana sono loro, le sardine. Quell’inutile movimento di piazza che, dalla sua nascita ad oggi, non ha prodotto nulla di buono, se non quintali di bile e veleno su Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Le sardine come gli avvoltoi. Saprofagi, amano banchettare sul corpo del povero Zingaretti, fresco di dimissioni. Non hanno perso tempo, sacco a pelo sottobraccio si sono presentati a Largo del Nazareno Roma, minacciando di occupare la sede del Partito Democratico. “Vogliamo risposte, le pretendiamo” hanno detto alle decine di giornalisti presenti. Ma a che titolo? Viene da chiedersi… Una inutile messinscena figlia del più becero teatro da operetta. Dilettanti allo sbaraglio che sperano di entrare a gamba tesa nel partito. Magari con un ruolo. Scrivere ancora di loro sarebbe “inchiostro” perso, gettato nel nulla. Come il tempo: sprecato. Tastiere consumate inutilmente. Pertanto, non ci sforziamo ad andare oltre. Ci fermiamo qui. Con la speranza che si fermino anche loro e la loro inutile propaganda.

Sardine assembrate da fuori regione: "Siamo al ridicolo", la denuncia di Gaia Tortora sotto alla sede del Pd. Libero Quotidiano il 06 marzo 2021. “Le Sardine si assembrano. Arrivano da altra regione. Va tutto bene. Spiegatelo a chi sta facendo sacrifici enormi. Siamo al ridicolo”. Così Gaia Tortora ha commentato in un tweet la manifestazione organizzata da Mattia Santori e Jasmine Cristallo sotto la sede nazionale del Partito Democratico. Una ventina di esponenti del movimento dei pesciolini bolognesi ha portato con sé dei sacchi a pelo per dimostrare simbolicamente la volontà di non abbandonare la loro richiesta finché non avranno risposta dai vertici del Pd. Il tutto mentre è esplosa la terza ondata del Covid, con gran parte dell’Italia avviata verso misure molto più restrittive di quelle dell’ultimo mese. La giornalista di La7 se l’è presa con le Sardine per questo, ma soprattutto con il sistema che ha permesso loro di mettere in atto tale iniziativa indisturbate. “Purtroppo il Pd è alla farsa - aveva dichiarato la Tortora in precedenza - occupazioni, provocazioni. Discutere in un congresso avrebbe fatto meglio che questa piega che sta prendendo. Temo allo sbando”. “Ci siamo stancati di una politica fatta sugli schermi e con decine di comunicati. Noi ci mettiamo il corpo e la faccia”, ha sottolineato Santori, tornato alla ribalta in occasione delle dimissioni di Nicola Zingaretti. “Noi facciamo parte di un campo progressista - ha spiegato - e chiediamo che si apra una fase Costituente, non per il Pd o per le Sardine, ma per migliaia di persone che da anni aspettano”. 

Le Sardine a Roma nonostante i divieti anti Covid. Perché il movimento delle Sardine ha potuto organizzare un sit-in davanti alla sede del Pd, a Roma, e attraversare mezza Italia nonostante i divieti? Il movimento di Santori sottolinea: "Tutto regolare". Roberto Vivaldelli - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Fa discutere la trasferta romana delle sardine. La domanda che molti si sono posti osservando le immagini delle sardine davanti al Nazareno è stata: ma perché Mattia Santori&Co. hanno potuto spostarsi dalle zone rosse (come Bologna) e arrivare fino a Roma con buona pace dei divieti vigenti che gli italiani devono rispettare? Sono un movimento politico, non sono istituzioni e i loro spostamenti non si capisce perché debbano essere tollerati e giustificati. Il problema, sottolinea Il Messaggero, è che la Questura di Roma sarebbe dovuta intervenire per sgombrare questo insulto alle regole ma non lo ha fatto. Con questa motivazione: dovevano, secondo il regolamento, essere fermati in partenza dalle loro province in zona rossa questi giovani e se le polizia di quelle contrade non lo ha fatto non lo può fare la polizia di quaggiù. E perché mai? Perché un intervento nella città di arrivo avrebbe infranto, sempre secondo le motivazioni addotte, il diritto a manifestare considerato prioritario rispetto alle restrizioni degli spostamenti tra regioni. Probabilmente è tutto regolare, come sostengono le stesse sardine. Ma la domanda è un'altra: cosa sarebbe successo se la stessa cosa l’avesse fatta un movimento di destra e non le sardine di Santori? La stampa di sinistra avrebbe descritto tale movimento come irresponsabile dinanzi alla situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Della serie: ci sono assembramenti e assembramenti, e quelli di sinistra sembrano essere sempre buoni e tollerabili. Le sardine si difendono dalle accuse e in una nota precisano che la loro manifestazione era regolarmente autorizzata: "Una circolare del ministero dell'Interno specifica che si possono svolgere le manifestazioni pubbliche regolarmente autorizzate. La stessa circolare consente inoltre spostamento da e verso regioni e zone con più elevato livello di rischio qualora queste manifestazioni fossero di carattere nazionale. Da ultimo, coloro che hanno partecipato a nome di 6000 Sardine hanno effettuato tampone entro le 24 ore dalla manifestazione e durante il presidio sono state osservate tutte le precauzioni necessarie ai fini del contenimento della pandemia, verificato appunto dalle forze dell'ordine presenti al Nazareno". Il movimento precisa che per l'occasione "si sono spostate pochissime persone, in virtù della manifestazione autorizzata dalla Questura di Roma in base all'art.18 Tulps 77" sottolineano. A questo punto, se davvero è come sostengono le sardine, il problema è un altro, come sottolinea peraltro Galeazzo Bignami, deputato di Fratelli d'Italia: "Mentre gli italiani sono chiusi in casa, le aziende chiudono, i ristoratori costretti ad abbassare le saracinesche, le attività di palestre e piscine sospese, dobbiamo assistere alla pagliacciata delle sardine accampate nella sede del Pd con tende, sacchi a pelo e borse frigo. Il tutto ampiamente documentato con foto, video e dichiarazioni alla stampa". Ci piacerebbe sapere, sottolinea Bignami, "dal ministro dell'Interno Lamorgese se il Pd e le Sardine godono di leggi speciali e se a loro sia consentito violare il divieto di spostamento tra le Regioni mentre a tutti gli altri italiani è negata la possibilità di farlo. Perché non ci risulta che le Sardine siano venute a Roma per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute".

·        La Questione Morale.

"Non è così": Bianca Berlinguer difende il Pci. Francesca Galici il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. Vivace discussione tra Bianca Berlinguer e Maurizio Belpietro sui finanziamenti al Pci da Mosca durante gli anni Ottanta e i primi Novanta. Animi caldi a Cartabianca durante una discussione in cui la conduttrice ha analizzato le ipotesi sul tavolo per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica ma anche la posizione di Matteo Renzi, stipendiato dallo Stato in quanto senatore ma consulente in Arabia Saudita, dove si trovava anche il giorno in cui si votava la tagliola al ddl Zan. Con lei in studio a riflettere su quei temi anche Luca Telese, Carlo Calenda e Maurizio Belpietro. Il più duro sul leader di Italia viva è stato l'ex candidato sindaco di Roma, che in tanti danno vicino a Renzi, circostanza fortemente smentita dallo stesso Calenda. Ma lo scontro si è acceso tra il direttore de La verità e Bianca Berlinguer, quando Belpietro ha ricordato un'inchiesta degli anni Novanta sui finanziamenti al Partito comunista da parte della Russia. Tutto nasce dalle parole di Carlo Calenda: "Io penso che come leader politico non puoi far convivere l'attività d'affari, certamente non lo puoi fare quando questa attività è fatta con Stati stranieri. Non c'è un presidente nella storia politica mondiale che, in carica, non può prendere i soldi da uno Stato". Il leader di Azione ha precisato che una legge in tal senso non c'è perché mai nessuno ha agito in quel modo. Ma a Carlo Calenda ha voluto replicare Maurizio Belpietro: "Qualcuno si dimentica la storia di questo Paese. Abbiamo avuto un partito che ha ricevuto i finanziamenti per 40 anni da uno Stato straniero, per altro nemico perché noi appartenevamo al blocco Atlantico e c'era un Paese che stava dall'altra parte. Fra l'altro in questi giorni mi è capitato tra le mani un numero di 30 anni fa di Panorama con un editoriale di Enzo Biagi, che raccontava esattamente i finanziamenti che arrivavano da Mosca. È problema che aveva il Partito comunista". A quel punto Bianca Berlinguer ha ricordato la legge sul finanziamento ai partiti, che ha di fatto ufficialmente interrotto i flussi da Mosca. Ma Maurizio Belpietro ha fatto una precisazione: "Quando cadde il muro (di Berlino, ndr) si scoprì che, fino all'ultimo giorno, il Partito comunista aveva ricevuto i finanziamenti da Mosca". Un'affermazione che ha fatto andare su tutte le furie la conduttrice, figlia di Enrico Berlinguer, che quando cadde il muro di Berlino era già morto. "Non è così Maurizio, questo te lo devo contestare. Si scoprì che era una parte precisa del Partito comunista che faceva capo ad Armando Cossutta. Non era il Partito comunista, anche se mio padre era già morto da molti anni", ha detto Bianca Berlinguer evidentemente innervosita davanti alle parole di Belpietro, che ha ribadito il concetto espresso poco prima, nonostante la conduttrice non abbia gradito. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Guai grossi per De Luca e Leoluca Orlando. Ma le inchieste arrivano subito dopo il voto. Pasquale Napolitano il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Un'indagine campana coinvolge un consigliere regionale e il sindaco di Salerno, a Palermo l'accusa di falso in bilancio. E Letta tace. Enrico Letta ignora i guai giudiziari che travolgono gli uomini forti del Pd nel Sud. All'indomani del voto, le procure di Salerno e Palermo mettono alle corde il governatore della Campania Vincenzo De Luca e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Le due inchieste, stranamente venute alla ribalta solo dopo le elezioni comunali, colpiscono, da un lato, il sistema di potere dello sceriffo salernitano, dall'altro il cerchio magico del sette volte sindaco di Palermo. Letta fa il marziano e ignora le indagini che mettono sotto i riflettori due portatori di voti nel Mezzogiorno. Il segretario del Pd (con la complicità dei giornaloni filo dem) si limita a festeggiare le vittorie di Roma, Torino e Bologna. Ma chiude gli occhi sulle insidie giudiziarie che inchiodano la classe politica del Pd al Sud. Letta passa le giornate a combattere il fascismo e sognare il ritorno dell'Ulivo. I guai maggiori arrivano dalla Campania. Anche perché Piero De Luca, figlio del presidente della giunta campana e parlamentare, è annoverato tra i giovani in rampa di lancio nel Pd. La Procura di Salerno, guidata da Giuseppe Borrelli, ha scoperchiato il pentolone su un sistema marcio di appalti, favori e voti. Il presidente della Regione De Luca non è indagato. Ma dentro l'inchiesta sono finti il consigliere regionale Nino Savastano, ex assessore al Comune di Salerno alle Politiche Sociali, e il rieletto sindaco di Salerno Enzo Napoli che risulta indagato. Il consigliere regionale deluchiano è finito ai domiciliari con l'accusa di corruzione, di uno scambio di favori con il dominus delle cooperative sociali Fiorenzo Zoccola, per tutti «Vittorio», finito in carcere perché su di lui pesa un carico indiziario più grave e un'accusa di associazione a delinquere che vedrebbe le coop associate in un cartello per papparsi gli appalti violando le regole della concorrenza e del mercato. Savastano sarebbe stato premiato da Zoccola con la campagna elettorale e i voti delle coop, in cambio ne avrebbe tutelato gli interessi e gli affidamenti degli appalti. Accuse pesanti. Ma Letta non parla. Non commenta. Non vede la trave nel proprio occhio. Il silenzio del segretario dei democratici non passa inosservato. «Letta continua a tacere sul terremoto giudiziario che investe il Comune. Un suo consigliere regionale arrestato, un suo sindaco indagato, intercettazioni che investono pesantemente dal governatore De Luca in giù e il segretario Letta fa scena muta? Sul sistema Salerno e le agghiaccianti pratiche di controllo sociale del voto non si può far finta di nulla», attacca Antonio Iannone, senatore salernitano eletto in Fdi. E Letta resta in silenzio anche sul caso Orlando: il sindaco di Palermo, recente acquisto del Pd, da ieri risulta indagato con 23 persone, ex assessori e dirigenti comunali, per falso materiale commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico. L'accusa accende i riflettori sulle irregolarità nei bilanci dal 2016 al 2109. Anche qui l'inchiesta è scattata a orologeria. Dopo la chiusura dei seggi. Il leader della Lega Matteo Salvini si sfoga: «Prima del voto va a manifestare con la Cgil, appena dopo il voto viene indagato. Che stranezze a sinistra. Oggi sarò a Palermo per incontrare cittadini e dirigenti della Lega. Orlando? A casa». Parole che cadono nel vuoto. Al Nazareno si sceglie la strada del silenzio. Nessun commento. Tutto tace. Pasquale Napolitano

Marco Respinti per "Libero quotidiano" il 30 settembre 2021. Per 10 giorni il «World Summit on Combating and Preventing Forced Organ Harvesting» ha documentato la predazione di organi umani di cui il regime neo-post-nazional-comunista cinese è responsabile. In concomitanza dell'assemblea generale dell'Onu, 38 esperti di 19 Paesi sono stati convocati da Dafoh (Doctors Against Forced Organ Harvesting), l'organizzazione statunitense di professionisti leader a livello mondiale di questa battaglia, e da altre quattro ong: Cap Freedom of Conscience, Francia; Taiwan Association for International Care of Organ Transplants, Taiwan; Korea Association for Ethical Organ Transplants, Seoul; e Transplant Tourism Research Association, Giappone. Hanno tutti documentato la mattanza che colpisce i prigionieri politici condannati a morte. Uno dei grandi misteri cinesi è infatti il numero delle esecuzioni capitali. È segreto di Stato, ma sono migliaia (negli Stati canaglia peggiori sono al massimo poche centinaia): e la parte più intrigante è che in Cina l'offerta di organi per trapianti è ogni anno numericamente in linea con la domanda. Per questo, a conclusione del World Summit, è stata lanciata una Dichiarazione universale che chiede la cessazione immediata dell'orrore al mondo intero nella speranza che il mondo smetta di volgere lo sguardo altrove. La Dichiarazione è sul web, in più lingue, all'indirizzo https://ud-cp-foh.info/. La possono sottoscrivere da subito singoli, organizzazioni e associazioni. Assieme al «China Tribunal», svoltosi a Londra dal dicembre 2018 all'aprile 2019, e conclusosi con un atto di accusa di oltre 560 pagine (pure quello sul web), il World Summit e la Dichiarazione universale di Dafoh sono l'iniziativa più importante sul tema. Francamente, di più nessuno potrà mai fare. Qualcuno se ne accorgerà oppure il comunismo continuerà indisturbato in questo crimine contro l'umanità che perpetra da decenni? Sì, da decenni, in Cina e altrove, per esempio a Cuba. In una delle sessioni del World Summit lo ha denunciato Zoé Valdés, giornalista, autrice di libri, cineasta e visual artist cubana che vive in esilio perché a Cuba il comunismo la perseguita. «L'estrazione del sangue dai prigionieri politici è stata cosa molto comune a partire dagli anni 1960, quando il comunismo trionfò con Fidel Castro», ha detto la Valdés. «Prima di consegnarli ai plotoni di esecuzione, prima del colpo finale, ne estraevano il sangue, sette pinte di sangue, lasciandoli esanimi e mentalmente esauriti». Comunismo sempre rosso come il sangue.

GIUSEPPE LEGATO per il 28 settembre 2021. Per il giudice Ersilia Palmieri Fassino non aveva (con dolo) partecipato all’escamotage di affidare direttamente e senza gara (“con la scusa dell’urgenza”) l’organizzazione dell’edizione 2015 del Salone del Libro a Gl Events. Ma la corte d’appello di Torino oggi ha reintrodotto il capo d’accusa a carico dell’ex sindaco di Torino e dell’ex assessore regionale Antonella Parigi. La presunta turbativa d’asta sull’assegnazione de Salone 2015 si aggiunge a quella contestata dalla procura in occasione del bando 2016-2018 concorrendo a turbare la gara in favore della multinazionale francese, reato per il quale Fassino e Parigi erano già stati rinviati a giudizio. Per il primo caso (2015) l’ex sindaco di Torino, difeso dai legali Nicola Gianaria e Francesca Violante, era stato prosciolto in udienza preliminare “perché il fatto non costituisce reato”, per il secondo è stato rinviato a giudizio insieme all’ex assessore regionale alla Cultura Antonella Parigi. Adesso risponderà di entrambe.

Le motivazioni. Il pm titolare dell’inchiesta sulla kermesse culturale, Gianfranco Colace, lette le motivazioni del provvedimento che dimezzava (di fatto) le accuse mosse dal magistrato nei confronti di Fassino e Parigi, aveva deciso di chiedere ai giudici di reinserire la contestazione. Appello condiviso dal giudice di secondo grado. 

Il caso di Milella. La procura aveva appellato anche l’archiviazione delle accuse verso Giovanna Milella a cui era contestata la turbativa del bando di gara per il Salone nel triennio 2016-2018. Anche questo appello è stato accolto e Milella risponderà di questa contestazione a processo. L’appello del magistrato è stato accolto anche sulla posizione dell’ex patronimica della kermesse Rolando Picchioni su una rivelazione di segreto d’ufficio. 

La replica dei legali dell’ex sindaco. Dopo il rinvio a giudizio, ecco la replica dei legali di Piero Fassino, Francesca Violante e Nicola Gianaria: «Prendiamo atto della decisione della Corte di Appello e ribadiamo che l’onorevole Fassino ha sempre operato nella piena correttezza e nel rispetto della legge affidandosi ai pareri tecnici dei consulenti nominati dalla Fondazione. Siamo convinti che il dibattimento lo dimostrerà».

Dal “Fatto quotidiano” il 7 settembre 2021. Marianna Madia perde la causa civile contro il Fatto Quotidiano relativa alla sua tesi "copiata". La dottoressa Damiana Colla del Tribunale di Roma ha infatti respinto la sua citazione contro il nostro giornale e i giornalisti Laura Margottini e Stefano Feltri sulla base di una sentenza che fa onore al lavoro giornalistico. Oltre a rigettare la domanda, il giudice condanna Madia al risarcimento delle spese nella misura di 6.183 euro "per compensi, oltre spese generali ed accessori come per legge".

IL CASO passa quindi il vaglio del Tribunale. I nostri articoli riferivano di una sostanziale copiatura da parte di Marianna Madia di parte della sua tesi di dottorato in Economia del Lavoro con la quale aveva conseguito nel 2008 il titolo presso la Scuola Imt di Lucca. Altra accusa è stata anche la sua mancata presenza presso l'Università olandese di Tilburg per svolgere un esperimento riportato nella medesima tesi di laurea, tale da determinare la contestazione circa la paternità dell'esperimento stesso. A fronte di articoli documentati Madia ha deciso di citare il Fatto per diffamazione in una causa civile con richiesta di risarcimento "nella somma ritenuta per giustizia" e quindi non quantificata. L'accusa ai nostri giornalisti è stata, con molta sicurezza, quella di aver dato una notizia "falsa". E invece il Tribunale non solo conferma che la notizia non era falsa, ma dà atto a Margottini e Feltri di aver svolto un lavoro che rientra "pienamente nel giornalismo investigativo" portato avanti in modo "accurato con notizie rese con approfondimento e precisione". Tra le prove di accuratezza c'è anche il fatto che Laura Margottini si è "premurata di acquisire il parere di un esperto in materia di plagio nel settore accademico (Gerhard Dannemann, componente del VroniPlag,'ilgruppo di accademici che ha analizzato le tesi di dottorato di decine di politici e professori tedeschi'), il cui scambio di email è allegato in atti e il cui parere è riportato nel brano in esame".

LA DOCUMENTAZIONE prodotta ha dunque "confermato il fondamento dell'indagine e la sua finalità di ingenerare il sospetto di illeciti". "Quanto alla verità, prosegue la sentenza, nei limiti in cui tale requisito è applicabile al diritto di critica, deve appena rilevarsi che le frasi pronunciate dall'attrice sono da ritenersi riferite a notizia vera nel suo nucleo essenziale, considerato che proprio nella specie la testata convenuta e i suoi giornalisti hanno svolto attività di inchiesta nei confronti dell'attrice, finalizzata peraltro a ingenerare sospetti di plagio e a denunciare irregolarità nel percorso post universitario della Madia". "Non appaiono dunque condivisibili, in conclusione, le doglianze dell'attrice relative al preteso difetto di verità della notizia contenuta nei quattro articoli in contestazione". La copiatura è un fatto, tutto il resto chiacchiera.

I rapporti tra sinistra e Mps, sponsorizzazioni e finanziamenti. L’inchiesta sulla banca “vicina al Pd”. Milena Desanctis sabato 14 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Si torna parlare dei rapporti tra sinistra e Mps.  Nei giorni scorsi era stato duro l’attacco di Giorgia Meloni contro il piano di vendita di Mps a Unicredit.  «Non abbiamo pregiudizi ma solo come sempre il faro dell’interesse nazionale. Con una premessa: occorre che i cittadini sappiano quanto costa allo Stato il salvataggio della banca che per decenni è stata gestita dalla sinistra». Gestita «prima dal Pci e poi dai suoi eredi del Pd. Potremmo chiamarla la “cassaforte” degli scandali».  Ora in un’inchiesta il Giornale svela: «I nomi ci sono, ma a essere note sono solo le cifre del foraggiamento ai partiti della banca vicina al Pd, senza specificare il “chi”». Lo scrive il giornalista Massimo Malpica in un articolo dal titolo Finanziamenti, sponsorizzazioni e prestiti. Lo stretto legame tra Pd e Monte dei Paschi.

Mps, l’inchiesta del Giornale. Sono poche le eccezioni, «come le annuali, prevedibili sponsorizzazioni delle feste dell’Unità e poi delle feste del Pd nell’area del Senese da parte di Mps, che “timbrava” col suo logo gli eventi dem. O la fondazione dalemiana, Italianieuropei, a cui nel 2009 andarono quasi 600mila euro di pubblicità». E poi si legge ancora: «E lo stesso ex grande capo di Fondazione Mps e poi della stessa banca, Giuseppe Mussari, a titolo personale, tra 2002 e 2012, ha erogato lecitamente al Partito democratico quasi 700mila euro di finanziamenti, eloquenti quanto al rapporto in essere tra il management e il partito “di riferimento” della banca». Ecco cosa scriveva il blog delle Stelle nel novembre del 2016: «Il Monte dei Paschi di Siena è stato usato come un bancomat dai partiti, ex Ds poi Pd in testa».

I finanziamenti “alle sigle politiche”. Si ricorda ancora: «Così nel 2018 i manager di Mps ammettono che la banca aveva erogato finanziamenti a favore di 13 differenti partiti politici, ritrovandosi crediti per circa 10 milioni di euro, il 97 per cento dei quali deteriorati ovvero “non performing”. E oltre ai soldi distribuiti alle sigle politiche, chissà quali, c’erano altri 67 milioni di euro di finanziamenti erogati a persone politicamente esposte, ossia, raccontava il Fatto Quotidiano, “persone fisiche che occupano o hanno occupato importanti cariche pubbliche come pure i loro familiari diretti o coloro con i quali tali persone intrattengono notoriamente stretti legami”. E di questo tesoretto di crediti vantati, aggiungevano nelle risposte agli azionisti i dirigenti del gruppo Monte Paschi, ben 61 milioni erano “non performing”».

«I crediti nei confronti di due partiti (rimasti anonimi)». Il tema è poi tornato di attualità la scorsa primavera, scrive ancora il quotidiano, «quando i piccoli azionisti hanno ribadito gli stessi quesiti ai manager prima dell’assemblea dei soci tenuta ad aprile, ed è saltato fuori che a tutto il 2020 Mps vantava ancora crediti ma solo nei confronti di due partiti (sempre rimasti anonimi) per la più esigua cifra di 102mila euro (un anno prima i partiti erano 8 e il credito pari a 1.547 milioni di euro, 1,536 dei quali “in sofferenza”) e a fare due conti viene da pensare che si tratti del solito dato «depurato» dai crediti deteriorati, anche se gran parte di questa cifra (97.930 euro, riferibile a un solo partito dei due finanziati) era “non performing”».

 Finanziamenti, sponsorizzazioni e prestiti. Lo stretto legame tra Pd e Monte dei Paschi. Massimo Malpica il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Matteo Salvini sul Giornale chiede i nomi di partiti e politici che hanno avuto prestiti da Mps o dalla Fondazione della banca senese. E i nomi ci sono, eccome, ma a essere note sono solo le cifre del foraggiamento ai partiti della banca vicina al Pd, senza specificare il «chi». Poche le eccezioni, come le annuali, prevedibili sponsorizzazioni delle feste dell'Unità e poi delle feste del Pd nell'area del Senese da parte di Mps, che «timbrava» col suo logo gli eventi dem. O la fondazione dalemiana, Italianieuropei, a cui nel 2009 andarono quasi 600mila euro di pubblicità. E lo stesso ex grande capo di Fondazione Mps e poi della stessa banca, Giuseppe Mussari, a titolo personale, tra 2002 e 2012, ha erogato lecitamente al Partito democratico quasi 700mila euro di finanziamenti, eloquenti quanto al rapporto in essere tra il management e il partito «di riferimento» della banca. «Il Monte dei Paschi di Siena è stato usato come un bancomat dai partiti, ex Ds poi Pd in testa», scriveva il blog delle Stelle nel novembre del 2016, chiedendo chiarezza su «quei soldi dati soprattutto (80%) a grandi gruppi amici di partito o società partecipate e malgestite da Comuni e Regioni o chissà chi altro». Dopo l'esplosione dello scandalo e l'inizio dell'odissea giudiziaria, qualche punta dell'iceberg è spuntata sopra le limacciose acque oscurate dalla privacy. Merito del lavoro ai fianchi dei piccoli azionisti e delle loro domande all'istituto di credito in occasione delle assemblee. Così nel 2018 i manager di Mps ammettono che la banca aveva erogato finanziamenti a favore di 13 differenti partiti politici, ritrovandosi crediti per circa 10 milioni di euro, il 97 per cento dei quali deteriorati ovvero «non performing». E oltre ai soldi distribuiti alle sigle politiche, chissà quali, c'erano altri 67 milioni di euro di finanziamenti erogati a persone politicamente esposte, ossia, raccontava il Fatto Quotidiano, «persone fisiche che occupano o hanno occupato importanti cariche pubbliche come pure i loro familiari diretti o coloro con i quali tali persone intrattengono notoriamente stretti legami». E di questo tesoretto di crediti vantati, aggiungevano nelle risposte agli azionisti i dirigenti del gruppo Monte Paschi, ben 61 milioni erano «non performing». Dunque i politici si erano fatti foraggiare e in grande maggioranza (più del 90 per cento) si erano ben guardati dal rimborsare i finanziamenti. Il tema è poi tornato di attualità la scorsa primavera, quando i piccoli azionisti hanno ribadito gli stessi quesiti ai manager prima dell'assemblea dei soci tenuta ad aprile, ed è saltato fuori che a tutto il 2020 Mps vantava ancora crediti ma solo nei confronti di due partiti (sempre rimasti anonimi) per la più esigua cifra di 102mila euro (un anno prima i partiti erano 8 e il credito pari a 1.547 milioni di euro, 1,536 dei quali «in sofferenza») e a fare due conti viene da pensare che si tratti del solito dato «depurato» dai crediti deteriorati, anche se gran parte di questa cifra (97.930 euro, riferibile a un solo partito dei due finanziati) era «non performing». Più sorprendente, invece, l'esistenza di crediti verso 1.048 persone politicamente esposte per complessivi 59.546.238,07 euro. E dei politici finanziati (alcuni ancora nel 2020, visto che nel 2019 i crediti verso i pep erano 785), stavolta solo 39, per un valore di poco meno di 1,4 milioni, erano stati declassati a «non performing». 

Simone Di Meo per "la Verità" il 23 luglio 2021. Come si può restare insensibili di fronte alle difficoltà di un amico che non è in grado di far quadrare i conti col suo stipendio da parlamentare? Come si può, alla sera, poggiare la testa sul cuscino sapendo che là, a Roma, il senatore Tommaso Cerno non riesce a farsi una vacanza come Cristo comanda? Infatti, non si può. Per questo, due sodali di lunga data dell'ex direttore dell'Espresso, oggi esponente del Pd a Palazzo Madama, non hanno esitato un solo istante a far arrivare generose testimonianze del loro affetto sul conto corrente del bisognoso. E solo l'occhiuto sistema di controllo di uno stato di polizia fiscale come il nostro, che ha voluto capire perché un parlamentare della Repubblica ricevesse bonifici frequenti da soggetti privati, ha portato alla luce questi gesti di solidarietà che ricordano il libro Cuore o quelle adozioni a distanza nei paesi dell'Africa nera. Gli insensibili risk manager della banca del Senato, dove Cerno ha il conto da aprile 2018, hanno infatti inviato una segnalazione di operazione sospetta all'antiriciclaggio di Bankitalia bollando come «opaca» l'operatività sul deposito, e ora la compagnia del bonifico è stata scoperta. Ma chi sono i due benefattori? Si chiamano Stefano Balloch e Bruno Tommasini. In un anno circa hanno versato, nelle magre tasche del senatore dem, qualcosa come 35.500 euro con causali come «regalia», «anticipo spese casa» e «rimborsi». Non sappiamo se fossero uno consapevole dell'altro, o se ciascuno vivesse nella convinzione di essere il solo a voler bene a Tommaso. Crediamo di sì, però. D'altronde, come dice il Vangelo? La mano destra ignori che cosa fa la sinistra. Anche le buone azioni però possono portare conseguenze indesiderate. Non è certamente questo il caso, ma il continuo flusso di soldi (tracciati) a una «persona politicamente esposta» qualche maligno potrebbe addirittura interpretarlo come finanziamento illecito. Invece, secondo lo stesso Cerno, è solo un atto di generosità nei suoi confronti. Ai funzionari dell'istituto di credito, l'ex direttore dell'Espresso e già vicedirettore di Repubblica, ha spiegato infatti che si tratta di omaggi ricevuti da amici per «poter sostenere il medesimo tenore di vita avuto al tempo della professione editoriale». Insomma, passando dalla Repubblica (il giornale) alla Repubblica (Stato) ci è andato a perdere, ed è pur giusto che recuperi in qualche modo. E alzi la mano chi non ha mai fatto un bonifico a un parlamentare indigente perché non tirasse la cinghia. Alzi la mano chi non si sente un po' responsabile dei sacrifici che i deputati e i senatori devono affrontare per poterci rappresentare al meglio.Averceli, amici così. Stefano Balloch è lo storico sindaco di Cividale del Friuli (luogo di residenza del giornalista). Formalmente iscritto a Forza Italia, ma fin troppo libero nella scelta delle alleanze e delle simpatie politiche, soprattutto quando sfociavano nel campo avverso. Tanto che, convinto di prenotare il biglietto per Roma, destinazione Senato, alle politiche del 2018 fu silurato all'ultimo secondo disponibile dai maggiorenti azzurri che gli preferirono un altro candidato. Fu una vendetta, si disse, per il suo feeling mai troppo nascosto con Debora Serracchiani e per la buona stampa che gli ha sempre garantito l'ex direttore del Messaggero Veneto. Un certo Tommaso Cerno. Bruno Tommasini dovrebbe essere invece lo stilista di cui il parlamentare Pd è stato testimone di nozze nel 2016 in occasione del primo matrimonio omosessuale celebrato a Marciano della Chiana, in provincia di Arezzo. Nel periodo preso in esame dai risk manager dell'istituto di credito emerge una certa propensione di Cerno per l'uso del contante. Dall'ottobre 2019 al dicembre 2020, sono state registrate 195 operazioni di prelievo bancomat per un totale di oltre 67.000 euro. Di questi circa la metà proveniva da anticipi della carta di credito. Nella segnalazione di operazione sospetta è sottolineato che il 90 per cento dei prelievi bancomat è stato rilevato tra novembre 2019 e febbraio 2020. Dal conto corrente dell'ex direttore dell'Espresso sono stati inoltre monitorati 8 bonifici in uscita per 15.500 euro a favore dello stesso Balloch (prestiti restituiti?) e altre 63 disposizioni di pagamento per complessivi 42.000 euro a persone fisiche residenti all'estero. Gli 007 della banca non sono riusciti però a capire a che cosa servisse questo denaro. Infatti, si sono arresi scrivendo che i «legami con persone fisiche beneficiarie delle somme» e «le finalità» dei pagamenti non sono stati «chiariti» dal titolare del conto.Sarebbe curioso sapere se, con queste entrate extra, Cerno abbia deciso di onorare il debito di 18.000 euro maturato con il Pd milanese a cui avrebbe dovuto versare parte del suo stipendio da parlamentare. Salvo poi rimangiarsi l'accordo e rompere con il Partito democratico iscrivendosi al gruppo Misto. «Come i mafiosi, chiedono il pizzo», denunciò nel momento più aspro della contesa. Guadagnandosi pure una querela per diffamazione. Oggi, però, con la caduta del governo giallorosso è tornato all'ovile dem dopo aver flirtato per un paio di mesi con Italia viva. Non se n'è fatto nulla, e qualcuno dei renziani ha fatto girare la voce che sia stato meglio così. Imbarcare il senatore più assenteista di Palazzo Madama (è presente a 22 votazioni su 100) non avrebbe avuto alcun impatto sui rapporti di forza in Aula. Lui non se ne fa cruccio. D'altronde, che cosa pensa dei suoi colleghi lo ha esplicitato qualche tempo fa: «Non escludo che alcuni si prostituiscano per essere ricandidati».

 Zingaretti e i misteriosi finanziamenti Usa per il Pd. Luca Fazzo il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. Tra gli uomini di contatto con "Social Changes" c'è il capo della comunicazione dell'ex leader. È ammissibile che un'entità straniera dai finanziatori sconosciuti intervenga nella politica italiana al fianco di candidati scelti con criteri che non vengono resi noti? Ed è lecito che non si sappia quali metodi vengono impiegati da questa entità per «pompare» la visibilità pubblica dei suoi candidati? Sono queste le domande principali che gravano sulla vicenda di Social Changes, la fondazione americana che ha sostenuto con quasi mezzo milione di euro una ventina di candidati di sinistra (quasi tutti del Pd) nel corso delle ultime elezioni europee e regionali. L'interpellanza del deputato di Fratelli d'Italia, Giovanni Donzelli chiede al ministero degli Interni di chiarire il ruolo svolto da Social Changes. Il problema, stando a quanto sta emergendo nel frattempo, è che la fondazione americana svolge un doppio ruolo, apparentemente contraddittorio. Da una parte finanzia candidati «progressisti e coraggiosi» di sua scelta, dall'altro si fa pagare per mettere al servizio dei politici locali tecnologie di profiling destinate ad aumentare l'impatto della loro comunicazione sui social media «includendo crescita, coinvolgimento ed efficacia nell'attività di marketing». Degli spin doctor a pagamento, anche se «offriamo sconti per campagne elettorali impossibili». Ma si occupano anche di aiuta nella raccolta fondi: una campagna di crowdfunding era stata pianificata per il Pd all'epoca della segreteria di Nicola Zingaretti, anche se poi non andò in porto. Tra gli uomini di contatto tra la sinistra italiana e gli americani viene indicato Marco Furfaro, capo della comunicazione di Zingaretti. «In realtà - dice Furfaro - le relazioni erano già avviate quando Zingaretti divenne segretario. Peraltro mi risulta che Social Changes intrattenga rapporti con i partiti progressisti di numerosi paesi». Ma chi sceglie i candidati destinati a godere dei finanziamenti della fondazione? É vero, come si è detto in occasione delle regionali toscane, che a decidere era il Pd nazionale? «Escludo che dalla segreteria possano essere venute indicazioni in questo senso. Sceglievano loro i candidati più giovani e briosi». Ma che ne sanno in California del collegio elettorale di Monsummano? Avranno in Italia qualcuno che li indirizza? «Per quanto se so io - dice Furfaro - hanno una rete molto attenta a individuare i candidati sul territorio». Caterina Cerroni, che fu sostenuta da Social Changes con oltre centomila euro alle europee nella circoscrizione sud, spiega invece che i rapporti con la fondazione iniziarono durante una iniziativa della Unione mondiale della gioventù socialista. Ma anche lei ammette di non sapere da dove venissero i fondi. Sul fronte di Italia Viva intanto emerge l'elenco dei finanziatori privati del partito di Matteo Renzi: circa 900mila euro, in testa all'elenco con 120mila euro Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Fiumi di denaro Usa per i candidati del Pd. E il donatore è Mister X. Luca Fazzo il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Mistero sulla fondazione Social Changes. Il figlio della Bignardi l'unico nome italiano. Lui si chiama Ludovico Manzoni, è un brillante neolaureato della Bocconi, ha un gatto che si chiama Obama ed è soprattutto uno dei giovani emergenti del Pd milanese, consigliere in zona 1 (il Centro storico, la roccaforte rossa del capoluogo lombardo). Ludovico è in ottimi rapporti con molti maggiorenti del Pd, anche perché sua mamma è la famosa giornalista Daria Bignardi. Ed è anche l'unico volto italiano sul sito di una fondazione americana che si chiama Social Changes, dove viene indicato come «political expert». «Sono solo un consulente», si schermisce lui ieri al telefono. Ma davanti ai tentativi di approfondire, invita a rivolgersi all'ufficio stampa della fondazione: «Peraltro oggi sarei anche in viaggio». È un peccato, perché ovviamente l'ufficio stampa resta muto. Così rimangono senza risposta diverse domande sulla strana storia sollevata l'altroieri con una interpellanza parlamentare da Giovanni Donzelli di Fratelli d'Italia sul fiume di soldi, quasi mezzo milione di euro, che da Social Changes è arrivato in Italia per finanziare le campagne elettorali di una serie di candidati: tutti di sinistra, e più esattamente quasi tutti del Pd, e ancor più esattamente della sinistra del partito. Recordman Brando Benifei, capogruppo Pd al Parlamento europeo, che intasca 48mila euro; a ruota Stefano Bonaccini, governatore dell'Emilia, che per le regionali riceve 30mila euro. Ma ci sono anche una sfilza di nomi semisconosciuti, alcuni beneficiati con poche migliaia di euro, altri più generosamente: come Barbara Cagnacci, candidata alle regionali in Toscana, che incassa 24mila euro: e ieri intervistata dalla Nazione dichiara candidamente «mi hanno contattato loro, io non li conoscevo». Qualcuno avrà suggerito il suo nome a sua insaputa. Già, ma chi? Il giovane Manzoni, di fronte alla domanda se sia stato lui a indicare i nomi (tra cui quello di Bonifei, di cui è stato un acceso sostenitore) spiega «non sono autorizzato a parlare a nome dell'azienda». Ma questa, in fondo, è una curiosità marginale. La vera domanda è: da dove arrivano i soldi che Social Changes ha girato ai candidati piddini in Italia? La fondazione (o «l'azienda», come la chiama Manzoni) in America si muove nell'ala più liberal del Partito democratico, e il suo uomo di punta, Arun Chaudhary, è stato il filmaker ufficiale della Casa Bianca ai tempi della presidenza di Barack Obama. «Lavoriamo per progressisti senza paura e per campagne audaci» è lo slogan accompagnato da una immagine della battagliera Alexandria Ocasio-Cortez. Il problema è che dove Social Chanages prenda i soldi non lo sa nessuno, perché la fondazione non rivela i nomi dei sottoscrittori. La conseguenza è che una sfilza di esponenti del Pd devono oggi le loro cariche anche a soldi di padre ignoto. In Italia, d'altronde, partiti e liste hanno il divieto di incassare finanziamenti da governi stranieri o da società con sedi all'estero. È vero che formalmente i finanziamenti di Social Changes vanno a singoli candidati, ma l'anno scorso quando Il Foglio rivelò che una candidata toscana, Federica Benifei, era appoggiata dalla fondazione Usa, la federazione locale del Pd spiegò che «è una campagna decisa dal nazionale». Eppure non risulta che la Procura di Firenze, che pure ha indagato alacremente sui finanziamenti alla Open di Renzi, stia ficcando il naso su Social Changes, né che lo abbiano fatto le diverse Procure sparse per l'Italia che hanno concorso all'inchiesta-fiasco sui fondi della Lega. «Con il finanziamento dell'organizzazione Social Changes - spiega ieri al Giornale Giovanni Donzelli - gli esponenti del Pd hanno accettato soldi in cambio dell'ingerenza di un interesse straniero sull'Italia». In attesa che la ministra Lamorgese risponda all'interpellanza di Donzelli e del suo collega di partito Stefano Mugnai, ci sarà qualche pm disposto a muoversi?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it. l'1 luglio 2021. Corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con queste accuse la polizia e la Guardia di Finanza di Latina hanno arrestato il dirigente della Asl locale Claudio Rainone e il segretario provinciale del Pd, Claudio Moscardelli, coinvolti in un'inchiesta su presunti concorsi truccati. L'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è stata disposta dal gip del Tribunale. Rainone, tra l'altro, era stato raggiunto da analoga misura cautelare lo scorso 21 maggio.

(ANSA l'1 luglio 2021) Corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con queste accuse la polizia e la Guardia di Finanza di Latina hanno arrestato il dirigente della Asl locale Claudio Ramone e il segretario provinciale del Pd, Claudio Moscardelli, coinvolti in un'inchiesta su presunti concorsi truccati. L'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è stata disposta dal gip del Tribunale. Ramone, tra l'altro, era stato raggiunto da analoga misura cautelare lo scorso 21 maggio. Le indagini delegate dalla Procura di Latina alla Sezione anticorruzione della Squadra Mobile e al Nucleo di Polizia Economico finanziaria della Guardia di Finanza si riferiscono in particolare alle irregolarità riscontrate nel concorso per 23 posti di collaboratore amministrativo professionale indetto da Asl di Frosinone, Latina e Viterbo. Già il 21 maggio scorso, in seguito alle prime indagini, venivano posti ai domiciliari Claudio Rainone e Mario Graziano Esposito, rispettivamente presidente e segretario della commissione per il concorso, con l'accusa di falso e rivelazione di segreto d'ufficio. In particolare emergeva che Rainone, nei giorni precedenti alla prova orale, rivelava gli argomenti che sarebbero stati oggetto di esame. Le indagini, inoltre, hanno consentito di identificare 6 concorrenti che hanno beneficiato delle 'soffiate' e per questo indagati a vario titolo per abuso d'ufficio e rivelazione di segreti d'ufficio. I nuovi approfondimenti investigativi hanno permesso di riscontare come due di questi candidati venivano segnalati da un politico locale, il quale con lo stesso dirigente dell'Asl di Latina s'impegnava, in cambio, a promuovere la sua promozione a direttore amministrativo dell'azienda sanitaria, incarico che in effetti ha rivestito quale facente funzioni dal dicembre 2020 ad Aprile 2021. Rainone, in veste di presidente della commissione, rivelava ai candidati gli argomenti che avrebbe proposto alla prova orale, nonché ritardava l'approvazione della graduatoria dello stesso concorso al fine di posticiparla rispetto alla sua nomina di direttore amministrativo, in modo tale da potere individuare lui stesso i luoghi di destinazione lavorativa dei neo assunti.

Il vizietto del Pd sui concorsi truccati: arrestato Moscardelli, segretario provinciale di Latina. Paolo Lami giovedì 1 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Claudio Moscardelli, segretario provinciale del Pd a Latina, e Claudio Rainone classe 1962, dirigente Asl di Latina, sono finiti agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte irregolarità riscontrate nella procedura concorsuale riguardante il concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura a tempo indeterminato di 23 posti di collaboratore amministrativo professionale cat. D, indetto in forma aggregata tra la Asl di Frosinone, Latina e Viterbo. A Moscardelli sono contestate le accuse di corruzione in concorso e istigazione alla rivelazione di segreti di ufficio. Ed è stato arrestato perché, per il giudice, esiste il pericolo di reiterazione reato e quello dell’inquinamento delle prove. Intercettati, Moscardelli e il presidente della Commissione parlavano, addirittura, di “nostro concorso”. Un atteggiamento spregiudicato che restituisce perfettamente qual’è il concetto di meritocrazia del Pd e il suo rispetto delle regole e delle istituzioni. Secondo i magistrati di Latina, le domande d’esame del concorso Asl venivano comunicate al telefono prima dell’orale. Secondo l’ordinanza, il giorno prima del concorso, Moscardelli inviò i numeri di 2 candidati al presidente. L’ordinanza del giudice di Latina che ha spedito agli arresti Moscardelli svela anche che l’episodio non è un fatto isolato ma fa parte di un metodo consolidato tant’è che il direttore del reclutamento della Asl, Rainone, ha gestito due concorsi in modo illecito. Ed anche per Rainone il giudice ipotizza il  pericolo di reiterazione del reato e il rischio di inquinamento delle prove. Il 21 maggio scorso Rainone e Mario Grazieno Espositi, rispettivamente presidente e segretario della commissione per il concorso, erano stati arrestati e indagati per falso e rivelazione di segreto d’ufficio poiché era emerso che il dirigente Asl, nei giorni precedenti alla prova orale, aveva rivelato gli argomenti che sarebbero stati oggetto di esame. Successivamente gli investigatori delle Fiamme Gialle avevano identificato con certezza 6 concorrenti, che hanno beneficiato di quelle rivelazioni e che erano stati indagati a vario titolo per abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. I nuovi approfondimenti investigativi hanno ora permesso di riscontare come due di questi candidati venivano segnalati da Moscardelli, il quale con lo stesso dirigente dell’Asl di Latina s’impegnava, in cambio, a promuovere presso la Regione Lazio, la sua nomina a Direttore Amministrativo dell’Asl, incarico che in effetti Raimone ha rivestito quale facente funzioni dal mese di Dicembre 2020 al mese di Aprile 2021. In tale contesto, Rainone, in veste di presidente della commissione rivelava ai candidati gli argomenti che avrebbe proposto alla prova orale, nonché ritardava l’approvazione della graduatoria dello stesso concorso al fine di posticiparla rispetto alla sua nomina di Direttore Amministrativo, in modo tale da potere individuare lui stesso i luoghi di destinazione lavorativa dei neo assunti. Resta ora da capire il passaggio successivo: chi garantiva dentro alla Regione Lazio, guidata da Zingaretti, al segretario provinciale del Pd, la nomina di Rainone?

“Desidero ringraziare la Procura di Latina e le Forze dell’Ordine per la celerità delle indagini relative al concorso Asl – dice il consigliere regionale di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Trasparenza e Pubblicità della Regione Lazio, Chiara Colosimo. – Quanto emerso è senza dubbio sconcertante, soprattutto per l’uso spregiudicato delle Istituzioni. Insieme alle anomalie emerse sul concorso di Allumiere, sembra essere confermato non come un singolo caso, ma come una modalità ben strutturata e radicata sulla quale ci auguriamo sarà sempre la magistratura ad accertarne la reale consistenza. Da parte continueremo a vigilare e a denunciare le situazioni che ci appaiono poco chiare e trasparenti”. Preso in contropiede dalla imbarazzante faccenda, Letta ha cercato di metterci una pezza a colori nominando l’ex-viceministro degli Interni, ora deputato e responsabile Pd per l’Immigrazione, Matteo Mauri, commissario del Partito Democratico della provincia di Latina mentre la Commissione nazionale di garanzia del Pd sospendeva dal partito Claudio Moscardelli. Ma oramai la frittata è fatta.

Lorenzo De Cicco per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. Il primo confronto tra i candidati del centrosinistra alle primarie (superflue) di domenica prossima va in scena nello scantinato di un palazzo occupato nel cuore di Roma, non lontano dalla stazione Termini: lo Spin Time, in mano agli antagonisti dalla fine del 2012. Oltre 16mila metri quadri, per due terzi condominio illegale, per il resto discoteca abusiva, con tanto di rave che tengono sveglio fino all' alba chi abita nei paraggi. Un business da oltre 250mila euro l'anno - calcoli pre-Covid - tra pigioni imposte sotto banco agli occupanti, il ristorante senza permessi, le feste illegali con alcolici spacciati perfino ai minorenni. Tutto al nero. Un «modello» a sentire alcuni candidati che hanno sfilato all' adunata di ieri pomeriggio. Di fatto, il primo dibattito in vista delle consultazioni tra i militanti di domenica, che ratificheranno la candidatura di Roberto Gualtieri a sindaco di Roma. Proprio l'ex ministro dell'Economia sembra il più imbarazzato quando mette piede nel sottoscala trasformato in auditorium. «Perché partire proprio in uno stabile occupato? È capitato... - risponde al cronista - Siamo stati invitati. Ma ne parlerò meglio durante l'intervento». E in effetti nei dieci minuti conclusivi, dopo un'ora di comizi sul palco da parte di leader e leaderini degli abusivi, Gualtieri prova a barcamenarsi tra i due opposti, le occupazioni e la legalità. «Sulla casa - dice - penso abbiamo il dovere di realizzare un patto per il diritto all' abitare e la legalità». Poi, strizzando l'occhio ad Andrea Alzetta detto Tarzan, ex consigliere comunale antagonista, promotore di svariate okkupazioni tra cui questa, afferma che «la vostra esperienza ce lo insegna, bisogna avere capacità di guardare al tema dell'abitare nel suo complesso» e arriva a sostenere, Gualtieri, che «c' è differenza tra un'occupazione che porta un'esperienza sociale e le occupazioni criminali». In ogni caso, chiosa l'ex ministro, il Pd è schierato contro il «piano sgomberi» voluto dall' ex prefetto di Roma, piano peraltro già formato lumaca, con gli interventi per liberare gli immobili spalmati in 7 anni e per giunta congelato dal blocco degli sfratti. «Noi crediamo nel modello casa-per-casa», è convinto Gualtieri.

Non è l'unico a mostrare un po' d' impaccio, allo Spin Time.

«Il primo dibattito in un palazzo occupato? Che dire...», risponde laconico Tobia Zevi. Il civico Paolo Ciani dice che «la legalità è un tema, ma dobbiamo essere presenti in ogni luogo dove ci invitano, diciamo comunque che la prima occupazione qui era più dura, dobbiamo trovare un equilibrio».

Altri candidati addirittura esaltano l'occupazione. Imma Battaglia, ex consigliera di Sel con Marino (che rimpiange, tanto che dal palco attacca il Pd che andò dal notaio), dice in premessa: «Stare qui mi restituisce il senso del mio impegno in politica». Cristina Grancio, ex grillina folgorata dai socialisti, si spella le mani quando qualcuno rievoca il cardinale Krajewski, l'elemosiniere del Papa che nel 2019 riattaccò la luce ai morosi.

«Non esiste l’immobile, esiste il cittadino», proclama. A meno che l'immobile non sia occupato, a quanto pare. 

Giovanni Caudo, il controverso ex assessore di Marino, oggi presidente del III Municipio, celebra gli illegali: «Spin Time è lo spazio pubblico per eccellenza». Stesso mood per l'altro candidato della sinistra, Stefano Fassina. Alzetta si gode la sfilata Pd, lo vede come «un riconoscimento. Questo è un posto occupato e illegale - ammette candidamente - ma c' è la bellezza». 

LE REAZIONI Com' era inevitabile, lo scivolone dem ha attirato gli attacchi del centrodestra. A partire da Giorgia Meloni: «Un palazzo occupato, sede di bivacco e di illegalità, diventa il luogo di confronto tra i candidati del centrosinistra - attacca la leader di FdI - Una vicenda sconcertante che lascia increduli. Mi chiedo con quale coraggio certe forze politiche che si candidano a governare la Capitale d' Italia possano erigere a simbolo chi fa dell'illegalità la propria bandiera».

Marco Pasqua per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. «Un luogo non sicuro», in cui vengono portate avanti «attività illegali». E' contenuto in una Pec il warning della Investire Sgr inviato, ieri mattina, a Prefettura, Comune, al commissariato di zona e al Pd, appresa la notizia del contestato dibattito per le primarie. Una mail ufficiale, partita per mettere in guardia chi aveva organizzato quell' incontro ma, soprattutto, chi vi avrebbe partecipato che lo stabile occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme è un posto dove non vengono rispettate le più basilari norme di sicurezza. Non solo, quindi, quelle relativa alla presenza di un adeguato numero di uscite di emergenza, che sono state sigillate (per impedire eventuali blitz da parte delle forze dell'ordine), ma anche quello sul numero degli estintori e sulla capienza dei luoghi. Per non parlare degli alloggi abusivi, con decine di bombole del gas usate dagli occupanti per cucinare e nei mesi invernali per riscaldare gli ambienti. 

UNA ZONA FRANCA Una Pec inviata anche per evitare che la responsabilità di eventuali incidenti ricada sulla proprietà. Del resto, è dall' ottobre del 2012, che la Investire Sgr segnala a più riprese alle autorità quanto quel palazzo sia ormai diventato una zona franca, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, tra festini e attività di ristorazione abusiva. E dove, tanto per citare un caso, si continua a rubare l'energia elettrica dopo che, nel maggio 2019, l'elemosiniere del Papa ha rotto i sigilli apposti al contatore mentre gli occupanti pagano, ogni mese, un affitto ad un comitato che decide chi può e chi non può dormire tra quelle mura. Non solo. Da otto anni, la Investire, che per conto del Fondo Immobili Pubblici gestiva, prima dell'occupazione del 2012, la vendita dello stabile, deve continuare a pagare Imu e Tasi: da allora, secondo quanto si apprende, ha speso quasi un milione e mezzo di euro. Oltre al danno, la beffa. Come quando i vigili hanno inviato alla proprietà una lettera, in cui la invitavano a risolvere il problema dei clochard che dormivano nel porticato attiguo e, quindi, a tutelare il decoro. Complessivamente, sono almeno cinque gli esposti presentati alla Procura dalla Investire, sempre per chiedere uno sgombero di uno stabile che sarebbe dovuto diventare un hotel: se la trattativa, con un grande gruppo, fosse andata in porto, nel 2012, quel palazzo avrebbe dato lavoro ad oltre 150 famiglie. Oggi, ci vivono circa 400 persone - tanti immigrati ma anche diversi pregiudicati - sotto la guida di Andrea Alzetta, ovvero Tarzan, e di Paolo Perrini. Uno stabile di 8 piani complessivi, e due interrati, per quasi 17mila metri quadrati: il valore di mercato è stimato intorno ai 50 milioni di euro.

DUE DECESSI Nel corso degli anni, qui vengono registrati due fatti drammatici: nel gennaio del 2015, un nigeriano viene trovato morto (l'autopsia chiarirà che si è trattato di un decesso per cause naturali); l'anno dopo, a marzo, un marocchino si toglie la vita. Difficile controllare le attività illegali che avvengono nello stabile, nonostante le lamentele dei residenti, soprattutto in occasione delle feste abusive che vi vengono organizzate.

Fabio Amendolara per “la Verità” il 4 giugno 2021. La nuova tegola che imbarazza il Partito democratico è caduta ieri mattina sull' ex presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, passato con una certa velocità dal Pd ad Articolo Uno e poi rientrato nel Pd (ora ha un incarico da commissario del partito di Enrico Letta in Umbria): è stato rinviato a giudizio dal gup del Tribunale di Firenze Gianluca Mancuso con l'accusa di falso ideologico per aver taroccato le spese della campagna elettorale per le regionali del 2015. Con il governatore è finito alla sbarra anche il commercialista Luciano Bachi, che era il mandatario elettorale. La prima udienza è fissata per il 18 febbraio 2022. Secondo l' accusa, rappresentata in aula dal pubblico ministero Antonino Nastasi, l' ex governatore, difeso dall' avvocato Gaetano Viciconte (davanti al giudice ha affermato che si trattava di spese sostenute prima dell' inizio della campagna elettorale e che al più «ci si troverebbe di fronte a un illecito amministrativo e non a un reato»), avrebbe indotto in errore il collegio regionale di garanzia elettorale della Corte d' appello di Firenze con una dichiarazione falsa: ha sostenuto di aver speso circa 59.000 euro per la campagna elettorale, a fronte di contributi ricevuti per circa 70.000. In realtà, stando alla ricostruzione della Procura, avrebbe ricevuto e speso denaro ulteriore per circa 600.000 euro, raccolti da Eccoci, l'associazione dell'ex capogabinetto di Rossi, Ledo Gori, confermato anche da Eugenio Giani e finito nell' inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Toscana. Negli oltre 600.000 euro raccolti, come ha confermato anche Gori alla Nazione, ci sono pure bonifici dei conciatori (un cartello di conciatori è al centro dell'inchiesta). L'indagine è partita proprio da alcune conversazioni intercettate sul telefono rovente di Gori nel corso di un'inchiesta per corruzione che stava coordinando la Procura di Pisa. Si trattava di una presunta assegnazione di un incarico da dirigente sanitario in cambio di voti proprio mentre era in corso la campagna elettorale per le regionali nel 2015. Da quell' indagine è scaturito un processo che vede tra gli imputati Gori. La campagna elettorale delle regionali che riconfermarono Rossi sulla poltrona da governatore, insomma, è risultata dopata per 540.000 euro. E rispetto alla legge regionale, che prevede un tetto massimo di circa 125.000 euro per le spese elettorali, è andata oltre di 475.000 euro. Per un secondo capo d' imputazione, sempre per falso ideologico, invece, l'ex governatore è stato prosciolto con la formula «perché il fatto non sussiste». In questo caso si trattava di presunte irregolarità nelle dichiarazioni sulle spese elettorali presentate alla Regione Toscana. Rossi, nonostante il rinvio a giudizio, continua a sostenere che i magistrati hanno preso un granchio e ha dichiarato di «non aver superato il tetto». Secondo Rossi i conti dei magistrati si riferivano «a più anni di attività politica e non allo stretto periodo di campagna elettorale». Poi ha aggiunto: «L' accusa di finanziamento illecito è stata archiviata dagli stessi pm in sede di indagine: è un'attestazione di onestà nei miei confronti». E infatti Rossi dovrà affrontare il processo per falso ideologico.

Puglia, promise assunzioni in cambio di voti: condannato a 9 mesi il consigliere Mazzarano (Pd). La sentenza del giudice monocratico del Tribunale di Taranto Paola D’Amico. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Maggio 2021. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Paola D’Amico ha condannato a 9 mesi di reclusione il consigliere regionale pugliese del Pd ed ex assessore allo Sviluppo economico Michele Mazzarano, accusato di corruzione elettorale per una vicenda portata alla luce qualche anno fa da Striscia la notizia. La stessa condanna è stata inflitta ad Emilio Pastore, l’uomo che denunciò alla trasmissione televisiva il presunto scambio di favori durante la campagna elettorale del 2015. Proprio le dichiarazioni rilasciate da Pastore al Tg satirico provocarono le dimissioni di Mazzarano dalla carica di assessore. Secondo la tesi del procuratore facente funzioni Maurizio Carbone, l’esponente del Pd, candidato alle elezioni regionali del 2015, avrebbe promesso a Emilio Pastore l’assunzione di due figli in una ditta privata in cambio di voti. L’uomo avrebbe concesso a Mazzarano anche un locale di sua proprietà, a titolo gratuito, allestito come comitato elettorale. Stando all’ipotesi investigativa, Mazzarano avrebbe poi effettivamente favorito l'assunzione di uno dei due figli di Pastore presso la ditta Ecologica spa. Il consigliere del Partito Democratico, difeso dagli avvocati Fausto Soggia e Marco Pomes, ha sempre respinto gli addebiti. 

Alberto Busacca per “Libero quotidiano” l'1 marzo 2021. Quando c' è da parlare male del Pd, la cosa migliore è rivolgersi ai dirigenti del Pd. Nessuno come loro, infatti, conosce bene le magagne della "ditta". E pochi sembrano resistere alla tentazione di raccontarle al mondo intero. Dopo la caduta del governo Conte, poi, i democratici non si trattengono più. Sui giornali, in televisione e in radio c' è sempre un esponente del carrozzone di Zingaretti pronto a spiegare che le cose da quelle parti vanno piuttosto male. La lista delle lamentele è parecchio lunga: il partito ha perso la sua identità, le correnti lo stanno distruggendo, le donne non sono valorizzate, l' alleanza coi grillini è un fallimento e via di questo passo... Qui ci limitiamo a riportare le parole degli interessati. Non c' è bisogno di aggiungere altro...

Dario Nardella, sindaco di Firenze: «Siamo in un momento storico decisivo, per la politica in generale ma soprattutto per il Pd: o si cambia davvero, o si rischia l' estinzione. Quello che più mi preoccupa è che sta diventando il partito dell' establishment: autoreferenziale, lontano dal Paese reale e legato all' apparato romano, in cui comandano esclusivamente le correnti, che non si dividono sulle idee ma sui posti. Non si capisce il tentativo di una fusione a freddo fra Pd e 5Stelle, anche perché finora le uniche circostanze in cui questa alleanza è stata sperimentata sono state fallimentari». (Intervista alla Nazione).

Antonio Decaro, sindaco di Bari: «Il partito è ostaggio delle correnti e le correnti tengono in ostaggio il segretario. Non sono contrario per principio alle correnti, se sono aree culturali che dibattono sui temi. Ma non è più così da molto tempo. Oggi sono gruppi di eletti che si muovono allo scopo di essere rieletti sulla base di un vincolo di fedeltà al loro leader. Si alimentano di parlamentari che studiano strategie per tornare a fare i parlamentari. Le competenze non c' entrano, l' ho detto a Orlando: chi ha fatto il ministro dell' Ambiente, della Giustizia e ora del Lavoro non mi pare che sia scelto sulla base delle competenze». (Intervista a Repubblica).

Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Per il Pd il problema è dove vogliamo andare e come vogliamo conquistare la fiducia degli elettori, perché con il 18-20% non si ha la possibilità di vincere le prossime elezioni». (Intervista a Che tempo che fa su Rai3).

Lia Quartapelle, deputata: «Sulla rappresentanza di genere Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti. Da noi più che le regole dello statuto e più che i valori prevale una logica di correnti: questo è molto deludente. Si è più pensato agli equilibri interni che alle competenze e alla rappresentanza. Oggi non posso che essere delusa dal mio partito». (Intervista a Radio Popolare).

Alessandra Moretti, eurodeputata: «Le donne hanno perso 312mila posti di lavoro durante la pandemia ed è semplicemente incomprensibile che con una vera recessione femminile non ci sia una donna ministro nel maggior partito di centrosinistra». (Intervista a Coffee Break su La7).

Sandra Zampa, ex sottosegretario alla Salute: «Zingaretti? In un anno come quello che abbiamo vissuto non ho mai avuto uno scambio né sul merito né sul piano delle relazioni personali». (Intervista al Corriere della Sera).

Alessia Morani, ex sottosegretario allo Sviluppo economico: «Niente conferma (come sottosegretaria, ndr)? Zingaretti con me non ha mai parlato, né prima né dopo le nomine. Non ho saputo nulla. Ignoro i motivi della scelta, ma la cosa non mi turba e non mi disturba. La mancanza di rappresentanza femminile è la punta dell' iceberg dell' incapacità del nostro partito di rappresentare la società italiana, un' incapacità che diventa evidente quando ne escludi la metà dalla delegazione dei ministri. Il problema riguarda le nostre politiche, l' identità del Pd. Serve una riflessione profonda, bisognerebbe andare oltre gli equilibri interni. E invece si pensa di mettere una toppa alla mancanza di rappresentanza di metà della società italiana con cinque sottosegretarie e una vicesegretaria. L' ultima rilevazione ci dà al 18,3% e se fossi nel gruppo dirigente del Pd mi interrogherei». (Intervista alla Stampa).

Stefano Pedica, minoranza Pd: «Fa bene Zingaretti a parlare della questione delle donne nel partito, ma questo argomento non deve essere la scusa per non affrontare il problema principale: la perdita di identità del Pd, che improvvisamente si è ritrovato grillino e contiano. Un partito in continuo declino, schiavo delle correnti e nelle mani di una ristretta cerchia di persone fedeli ai vertici mentre la minoranza non viene presa minimamente in considerazione. Questa scelta di dire tutto e tutto il suo contrario ha rappresentato il problema vero del Pd. Serve non solo un congresso ma una rigenerazione intesa come cambio totale di una classe dirigente a vocazione zingarettiana».

Monica Cirinnà, senatrice: «Bisogna fare una distinzione tra le aree culturali e le correnti vere e proprie legate ad una gestione del sistema quasi feudale. Esistono aree feudali nel Pd, purtroppo esistono territori nei quali alcune persone esercitano un' egemonia così pesante da non consentire ad altre aree culturali di introdursi. Io, alle precedenti elezioni, da capolista nel Lazio non ho potuto accedere ad alcuni territori perché non ero gradita a quel qualcuno che era egemone in quel territorio. Basta nepotismo, basta poteri territoriali dei soliti noti». (Intervista a Radio Cusano Campus).

Giuditta Pini, deputata: «Il punto è che siamo diventati un partito che esclude tutto. Siamo nati come partito aperto, con le primarie, e adesso non le facciano neanche più le primarie». (Intervista all' Adnkronos).

Fausto Raciti, deputato: «Una fase si è chiusa con il fallimento di una linea politica, prima lo capiamo meglio è. Zingaretti stesso dice di sentire l' esigenza di una discussione. La sentiamo tutti. Sui modi e i luoghi della discussione aspettiamo di sentire cosa proporrà». (Intervista a LiveSicilia).

Gianni Cuperlo, presidente fondazione Pd: «Io credo nel pluralismo, anche dentro il Pd, ma questo modello di partito, il suo modo di discutere, di decidere, di selezionare le classi dirigenti a ogni livello va cambiato alla radice. Non è un problema di adesso, ce lo portiamo appresso dalla nascita. Sarebbe inoltre un errore pensare di risolverlo con qualche ritocco allo Statuto, che pure servirà». (Intervista a Repubblica).

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 febbraio 2021. Caro Dago, per molti anni ho puntato il mio mirino sul Cretino di Sinistra, un personaggio che era stato avvistato da Leonardo Sciascia già negli anni Sessanta, perché mi sembrava un personaggio diffuso e presentissimo nel panorama della mia generazione. I tempi cambiano, i termini “sinistra” e “destra”  _ nati nell’Ottocento _ non hanno più il benché minimo significato, ed ecco che assurge a protagonista il Cretino Assoluto, il Cretino che è Cretino punto e basta, il Cretino che respira cretineria e che si drappeggia nella cretineria. Come definire altrimenti codesto professore che chiamato a usare le parole nel definire il lavoro e la fisionomia politica di Giorgia Meloni, anziché attingere al repertorio vastissimo della terminologia storico/politica si mette a scaraventarle in volto ingiurie che neppure nella più abietta delle taverne, e ora vedo che si è scusato. Per un intellettuale (mi immagino che il professore lo sia, anche se non è detto) usare parole talmente ingiuriose e volgari è esattamente come di un automobilista che mette sotto un paio di ragazze che passano. E’ uno che tradisce il suo mestiere, il suo compito, quel pochino pochino di compito che incombe su ognuno di noi: la buona creanza, il rispetto umano, il confronto civile tra le diverse idee e opzioni. Ho avuto di fronte la Meloni più volte in tv, le facevo delle domande, lei mi rispondeva, alla fine ci stringevamo la mano. Il Cretino Assoluto. C’è uno che mi scrive chiedendomi “Com’è che la Palombelli è divenuta di destra?”. Sbalordisco, raccolgo le mie forze e replico “Ma da che cosa ti risulta che è diventata di destra?”. Controreplica “Lavora otto ore al giorno nella tv di Berlusconi”. Sbalordisco ancora di più, e le faccio notare che Barbara lavora sì molto, è anzi una macchina da guerra dal punto di vista giornalistico e comunicativo, ma che c’entra tutto questo con la destra. E senza dire della sindacalista Rai che manifesta il suo cattivo umore per il fatto che sul palco di Sanremo andrà una sera Barbara e non invece una delle tante e bravissime giornaliste Rai. Diomio, dio mio, dio mio. Potrei continuare così per pagine e pagine. A furia di elencare le gesta odierne del Cretino Assoluto, il gran protagonista della nostra era.

"Addio Milano bella". L’indagine di Cavenaghi tra le macerie del Pci. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Si sa tutto sui socialisti a Milano negli anni di tangentopoli, sui sindaci Tognoli e Pillitteri e sul cittadino più famoso, Bettino Craxi. È sempre rimasto un po’ in penombra il partito che per molti anni con il Psi ha governato la città e che non è stato risparmiato dalle mazzate dei pm. Questo partito si chiamava Pci, lo stesso che a Roma andava a braccetto con le toghe, a Milano non si salvò né dalle inchieste né da una devastazione dei suoi militanti, che fu psicologica prima ancora che politica. Una città che nel 1993 non si è ancora ripresa dalla botta, che è tutta uno sferragliare di tram e presenta luci fioche, viene raccontata da uno che c’era, nella metropoli e anche nella sinistra, in un libro dal titolo che sa di resa: Addio Milano bella di Lodovico Festa, Edizioni Guerini e associati. «Erano quattro anni che Mario aveva tagliato i ponti con Milano, con il partito, con le vicende di una politica a lungo, per più di trent’anni, padrona quasi assoluta della sua vita». Questa storia potrebbe essere liquidata come fosse solo la piccola vita di uno dei tanti che se ne erano andati, in parte anche quella dell’autore, ma sarebbe poco generosa nei confronti dell’ingegner Cavenaghi, l‘ex capo dei Probiviri lombardi del Pci fin quasi agli anni novanta. Uno di quelli addetti all’etica (troppo spesso anche alla vita personale dei compagni), ma anche alle strategie del partito e a certe relazioni, da cui non erano esclusi magistratura e forze dell’ordine, e che non disdegnavano di tenere l’occhio attento ai rapporti con l’Unione Sovietica, fin che c’era stata. Quasi avesse avuto l’intuizione di qualcosa di tremendo che stava per abbattersi sulla città, sulle sue istituzioni, sui suoi partiti, e anche sui comunisti lombardi, quelli della corrente riformista (o migliorista) sempre sospettati di intelligenza con il nemico, cioè quel Bettino Craxi con cui pure governavano Milano e migliaia di altri Comuni, Mario Cavenaghi aveva dato un taglio netto a tutto. Aveva preso su la Carla, «da sempre rigidamente anticomunista», i due figli e se ne era andato a Lugano. Un posto da sempre considerato “noioso” dai milanesi, che ci andavano per una gitarella sul lago o negli anni sessanta per fare benzina e comprare sigarette e dadi di pollo, ma che non avrebbero mai potuto viverci. Lui si, il Cavenaghi. Anche perché ascoltare ogni mattina il tg ticinese che festeggiava il centenario del famoso coltellino svizzero, che raccontava la vita senza fremiti dei consigli comunali o dell’ennesimo referendum, dava pace alla mente. Addio Milano bella, io sto a Lugano. Niente correnti di partito né congiure di palazzo né pericolo di scissioni. Quando lui se ne era andato, lo scioglimento del Pci e poi la nascita del Pds e di Rifondazione comunista non erano ancora nell’aria. O per lo meno non erano dichiarati. Riservatezza comunista. Quel che invece correva lungo le vie sotterranee del suo partito era la “questione morale”. Certo, ne aveva parlato Enrico Berlinguer («i partiti di oggi sono soprattutto macchine di clientele e di potere…») tanto tempo prima. E in seguito, ma quando Mario era già via e il disastro si era già abbattuto anche sul suo partito, Bettino Craxi aveva enunciato analogo concetto in un suo famoso discorso alla Camera: tutti i partiti, aveva detto con enfasi senza che nessuno lo smentisse, sono finanziati in modo irregolare o illegale. Mario Cavenaghi, benché ormai “svizzero”, quando viene svegliato dal suo torpore da un vecchio compagno del partito che gli chiede aiuto per una questione a metà tra la morale berlingueriana, il complotto politico o sbirresco o magari straniero e un rompicapo da film giallo, sente che non può sottrarsi. Non può negarsi, benché debba prima fare i conti con l’implacabile Carla, per quel suo antico senso del dovere, per l’affetto nei confronti di quella che è pur sempre stata per anni la sua comunità, e anche perché curioso di guardare per due settimane dal buco della serratura le macerie sotto cui sembrano seppellite Milano e la vecchia Federazione del Pci. Che ormai non si chiama neanche più così. Perché i comunisti non ci sono più, meglio dirsi “democratici”, lo sguardo si allarga. Anche se nel frattempo si è perso per strada qualche milione di voti. Due settimane di incontri, su e giù per i tram, quasi la vecchia morale impedisse l’uso dei taxi. A cercare, a capire. A cercare due miliardi di lire spariti dalla cassaforte le cui chiavi erano in possesso del Presidente dei probiviri (quello che aveva preso il posto di Mario dopo un po’ dalla sua partenza) morto d’improvviso d’infarto. Due settimane che si trasformano in una radiografia impietosa dello stato di un partito che, mentre a Roma, cioè sul piano nazionale, era l’alleato più fedele, anche se non certo disinteressato, dei pubblici ministeri di Mani Pulite che avevano fatto a pezzetti la prima repubblica, a Milano erano ancora lì a leccarsi le ferite. C’erano stati indagati, perquisiti e arrestati. Cavenaghi cerca i soldi ma trova solo gente che vuol parlare di quello che è successo con tangentopoli e le inchieste dei pubblici ministeri. Parla un po’ con tutti, fa il finto distaccato, ormai senza passione né sentimenti, come se ci si potesse mai levare dalla pelle la scimmia della politica. E quella del sogno rivoluzionario, anche. “Partito di lutto e di governo”, ridacchia qualcuno. In tutti c’è lo sconcerto all’idea che possano esserci stati compagni che si dedicassero all’arricchimento personale, magari “teste finissime e aliene da qualsiasi volgare pulsione” di quel tipo. Ci pensano tutti, e si capisce che un po’ ci credono, nonostante un personaggio come Bruno Trentin (uno dei pochi citato con il nome vero, gli altri sono solo citazioni allusive, difficili da individuare per i non milanesi), troppo radicale per i comunisti milanesi, avesse messo in guardia: «Stiamo attenti a condannare senza cercare di capire». Ognuno dice la sua, spesso con una certa pedanteria, il funzionario come l’ex magistrato, il famoso architetto e la sciura protettrice di giovani rivoluzionari, il vecchio cronista giudiziario dell’Unità che stava per principio sempre dalla parte dei magistrati, e di uno in particolare. Qualcuno si avventura a spiegare la spaccatura tra i compagni sull’operato della magistratura simile a quella che c’era stata sul sessantotto, come se i magistrati con la distribuzione di manette, spesso a casaccio, fossero diventati i protagonisti del cambiamento. Ma c’è chi parla di “macelleria giudiziaria” e chi si difende, lamentando di esser arrestato pur avendo fatto tutto “secondo le regole”. Si, ma quali regole? La carrellata va a sfiorare il ministro Conso e il suo fallimentare tentativo di un’uscita onorevole da tangentopoli, stroncata da quel pool di direttori di giornali che agiva in parallelo (e in combutta) a quello dei pm. C’è chi ricorda di aver avvertito Craxi della deriva che stava prendendo la classe politica milanese. E c’è l’angoscia, la mancanza di una zattera cui i naufraghi possano aggrapparsi, la mancanza di ricambio della classe politica dirigente. Si ondeggia tra la disperazione e la voglia di ribellarsi comunque a certi comportamenti della magistratura, e anche degli avvocati complici, gli “accompagnatori” che mettevano i propri assistiti nelle mani di Di Pietro. Come è andata a finire? Visto che “Addio Milano bella” è anche un noir, sappiamo che il compagno Cavenaghi il giallo dei soldi spariti l’ha risolto, con l’aiuto di qualche papa straniero. Sentendosi una specie di James Bond “con la pancera”. Ma dobbiamo anche sapere che il suo compito principale non era quello di improvvisarsi detective, ma di fare la relazione; dove stava andando, dopo le inchieste giudiziarie e tutto il resto, quel popolo che era stato comunista? Che cosa ne pensavano i cittadini e i compagni? «Febbraio non è mai un mese allegro a Milano, nonostante il carnevale». Così l’ingegner Mario Cavenaghi, ex presidente dei probiviri, ormai in procinto di tornare esule a Lugano, finisce con lo stendere la relazione secondo il canone tradizionale dei comunisti quando erano in difficoltà, «cioè quella di sostenere che fosse vera una cosa ma anche il suo esatto contrario». Poi dice addio, ma questa volta per sempre, a Milano. E tornato a casa «poté serenamente andare a letto e, tenuto sveglio non dalla tensione ma dall’amore, dopo un po’ dormire del tutto pacificato».

Stasera Italia, Luca Ricolfi: "Governo nato su un pretesto, mi vergogno di essere di sinistra". Libero Quotidiano il 22 gennaio 2021. Un giudizio molto severo quello che Luca Ricolfi ha espresso sull'esecutivo, e sul Pd in particolare, a Stasera Italia, il programma di Barbara Palombelli su Rete4. "La politica sociale di questo governo è stata caratterizzata da una continua deriva di tipo assistenziale, che va contro quel po' di riformismo e anti-assistenzialismo che nel Pd sopravviveva". E ancora: "Con questa mossa Renzi ha dimostrato la non maturità democratica della sinistra", ha detto riferendosi alla crisi aperta dal leader di Italia Viva. Il sociologo è passato poi a bacchettare la sinistra italiana: "Da decenni ormai ogni volta che si affaccia la possibilità che  a governare non sia la sinistra si grida all’allarme democratico e al rischio di autoritarismo e razzismo. Io penso che il riconoscimento della legittimità dell’avversario è fondamentale". Secondo Ricolfi, quindi, bisognerebbe pensare solo che l'avversario abbia un progetto politico diverso, non che sia l’incarnazione del male. Poi ha continuato: "Noi invece abbiamo assistito un anno e mezzo fa alla nascita di un governo sulla base di un pretesto, su una narrazione inconsistente. Salvini auspicava solo di avere il 51%, non di instaurare una dittatura in Italia. Questo era già successo con Berlusconi, con Bonaccini e le elezioni in Emilia". Ricolfi ha spiegato che questo atteggiamento è tipico di chi è immaturo dal punto di vista democratico. "Per me la sinistra – cui purtroppo devo dire di appartenere, perché me ne vergogno un po’ in questo caso – non è ancora matura dal punto di vista democratico. Lo dimostra tutte le volte che c’è una competizione e la paura del voto la tenta alla demonizzazione dell’avversario", ha concluso il sociologo. 

Ricolfi: “La sinistra non è democraticamente matura. Mi vergogno di farne parte”. Gigliola Bardi sabato 23 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. “La sinistra, alla quale ora mi vergogno di appartenere, non è matura democraticamente”. È un Luca Ricolfi durissimo quello che parla del fallimento del Pd e della sinistra, manifestando tutta la sua delusione per una parte politica che, comunque, è la sua. “Nell’abbraccio mortale tra Pd e M5S, ha prevalso il M5S”, ha detto Ricolfi, riferendosi al governo giallorosso, ma allargando la propria analisi della sinistra anche al di là dell’attuale esperienza di governo. Che, semmai, è conseguenza e non causa di questa “immaturità democratica”.

Il riformismo ucciso dalla “deriva assistenziale”. Ricolfi, ospite a Stasera Italia, parlando dell’esecutivo Conte, ha sottolineato la “continua deriva di tipo assistenziale, che va contro quel poco di riformismo e antiassistenzialismo che sopravviveva nel Pd”. Ma il punto più dolente, per il sociologo, non è neanche questo. Il problema è a monte. È nel fatto che “da decenni ormai, ogni volta che si affaccia la possibilità che a governare non sia la sinistra” tornano “l’allarme democratico“, il “rischio di autoritarismo”, al pericolo “razzismo”.

Il governo Pd-M5S nato sulla base di un “pretesto”. In questa tara, in questa scarsa attitudine democratica, ci sono anche le origini dell’attuale governo. “Noi – ha sottolineato Ricolfi – abbiamo assistito un anno e mezzo fa alla nascita di un governo sulla base di un pretesto, su una narrazione del tutto inconsistente. Salvini – ha ricordato – auspicava soltanto di avere il 51%, non certo di instaurare una dittatura in Italia”. “Io penso – ha quindi proseguito il sociologo – che il riconoscimento della legittimità dell’avversario sia fondamentale. Che sia fondamentale riconoscere che l’avversario ha un progetto politico diverso legittimo, non che è l’incarnazione del male”.

Ricolfi: “La sinistra non è matura. Me ne vergogno”. Ma “la sinistra, a cui purtroppo devo dire di appartenere, perché me ne vergogno un po’ in questo caso, invece, non è ancora matura dal punto di vista democratico. E lo dimostra tutte le volte che c’è una competizione elettorale e la paura del voto la induce a quella mossa che è la demonizzazione dell’avversario“, ha concluso Ricolfi, il cui ultimo libro è una summa dei mali che possono derivare da arroccamenti di questo tipo. Si intitola La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia (La Nave di Teseo) e mette infila tutti gli errori compiuti nel gestire la pandemia da questo governo nato dalla paura e dalla immaturità democratica della sinistra.

Giorgia Meloni contro il governo: "Spudorato, Spadafora stanzia 400 mila euro per celebrare il Partito Comunista Italiano". Libero Quotidiano il 23 gennaio 2021. Giorgia Meloni a gamba tesa. La leader di Fratelli d'Italia denuncia l'ultima iniziativa dell'esecutivo guidato da Giuseppe Conte. "Governo giallorosso spudorato - esordisce su Twitter - il ministro Spadafora stanzia 400 mila euro per le celebrazioni della fondazione del Partito Comunista Italiano. Ecco come spendono i soldi degli italiani mentre la Nazione è in ginocchio, le famiglie sulla soglia della povertà e migliaia di imprese chiudono. Che amarezza". Una decisione, quella del ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, già denunciata nel 2019 da Matteo Salvini. Il leader della Lega a proposito non aveva fatto attendere il suo commento: "Dicono che non ci sono soldi, e allora tassano la plastica, lo zucchero, le cartine per le sigarette, tuttavia - scriveva al vetriolo - spunta un emendamento che riesce a stanziare 400 mila euro per festeggiare il centenario della nascita del Partito comunista italiano. Fatelo coi vostri soldi l’anniversario, non con i soldi degli italiani".

Feltri, comunismo e centenario Pci. Compagni addio: «Onore? Macché solo esequie e oblio». Bianca Conte sabato 23 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. Quella di Feltri sul comunismo è una vera orazione funebre. Celebrata in prima pagina su Libero di oggi, Feltri disattende coraggiosamente, dalla prima all’ultima parola, i dogmi che il politically correct impone. A partire dal titolo che, esaustivamente, recita: “I comunisti celebrano la loro morte“. Uno sguardo sul centenario della nascita del Partito comunista italiano che, spogliato come scrive il direttore di Libero, di «toni elegiaci» e «prosa retorica», getta lo sguardo al di là di ogni convenzione. Quella che, ricorda lo stesso Feltri, «si usa in ogni festeggiamento». Una voce fuori dal coro che esprime il desiderio represso a lungo di parlare dell’altra faccia di un mondo. Dei profili di una storia che in questi giorni giornali e tv celebrano tra enfasi e accademismo. Una storia, quella comunista di «falce e martello» che – scrive nella sua orazione il direttore – a differenza di quella «dei fasci littori» ha «ancora il diritto di albergare nei cuori di un certo popolo nostalgico. Niente di grave. Molto di assurdo»…

Feltri sul comunismo e sul centenario del Pci. E ancora. Una storia che, nella sua rivisitazione lucida e scevra da revisionismi trionfalistici e descrizioni agiografiche, Feltri ripercorre libero da qualunque forma di condizionamento culturale. Da ogni tentazione di ossequio al moloch comunista. Perché, scrive il giornalista nel suo editoriale in prima pagina, «il socialismo reale ha prodotto solo tragedie e ingiustizie macroscopiche. Come ben sanno quelli della mia generazione. I quali ne hanno viste di ogni colore, trovandosi anche a dovere lottare fisicamente contro i rossi invasati e violenti». E allora, niente giustificazionismi sul passato solo in quanto tale. Niente abbellimenti indotti dal tempo e dalla nostalgia.

Il caso è costato una condanna all'Appendino. Piero Fassino indagato per turbativa d’asta: l’ex sindaco di Torino nell’inchiesta Ream bis. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Gennaio 2021. Piero Fassino, ex sindaco di Torino e deputato del Partito Democratico, è indagato per il caso Ream Bis. Nei suoi confronti e degli altri indagati (la dirigente del Comune di Torino Paola Virano, il presidente della Fondazione Crt Giovanni Quaglia e Antonio Miglio, all’epoca in Ream e ora i vertici della Cassa di Fossano) il reato ipotizzato è quello di turbativa d’asta. La vicenda riguarda la vendita dell’area ex Westinghouse, quando nel 2012 la città della Mole era amministrata dal centrosinistra: Ream, partecipata di Fondazione Crt, versò al Comune 5 milioni a titolo di prelazione, ma poi quando venne indetta la gara per riqualificare l’area e trasformala in un centro congressi non partecipò e i soldi non vennero restituiti (entro il 2016). In un procedimento parallelo la stessa vicenda è costata all’attuale sindaco, la grillina Chiara Appendino, una condanna in primo grado, a settembre, per falso in atto pubblico. La Appendino non avrebbe inserito nel bilancio del 2017 i cinque milioni versati come caparra: la somma, secondo l’accusa, non è stata però versata, né iscritta a bilancio ma considerata come un debito fuori bilancio. Secondo l’accusa del pm Gianfranco Colace, dietro la vittoria da parte della società Amteco&Maiora, cordata collegata all’Esselunga che nell’area voleva realizzare un supermercato, ci sarebbe stato un accordo con Fassino. LE REAZIONE– La vicenda è stata commentata così da Fassino: “Ricevo oggi una informazione di garanzia relativa all’iter – conclusosi, come è noto, nell’ottobre 2013 – di aggiudicazione dell’area ex Westinghouse di Torino. Come avrò modo di spiegare e documentare, mi sono attenuto, come sempre, al rispetto delle norme in materia, agendo nell’esclusivo interesse della città“. Raggiunto telefonicamente dall’Ansa, il direttore della Divisione "Attività’ Economico Produttive e Sviluppo" del Comune di Torino, Paola Virano, ha chiarito di “non aver ricevuto nulla, non mi risulta di essere indagata”.

Bonaccini nei guai: indagato per abuso d’ufficio durante la campagna elettorale. Redazione mercoledì 27 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini è finito nel mirino della procura di Ferrara.  Risulta indagato in un fascicolo per abuso d’ufficio sulla vicenda delle presunte pressioni che il sindaco di Jolanda di Savoia, Paolo Pezzolato denunciò in un esposto. Il Resto del  Carlino ha diffuso la notizia. All’esposto era allegato l’audio di una telefonata tra Bonaccini e il sindaco. Secondo il sindaco Pezzolato, tutto sarebbe iniziato dopo la decisione della vicesindaca Elisa Trombin di appoggiare la candidata leghista Lucia Borgonzoni alle scorse regionali. Bonaccini naturalmente non l’avrebbe presa bene. E avrebbe fatto sì che Comuni limitrofi rifiutassero di condividere con l’amministrazione di Jolanda di Savoia alcuni dipendenti. Così come era avvenuto invece fino ad allora, vista la scarsità di personale. “Nel mio Comune sono venute a mancare tre figure di dipendenti che erano condivisi con altri Comuni: revocati o negati” aveva confermato ai tempi Trombin. Secondo  Pezzolato nell’esposto, in una telefonata con Bonaccini, il presidente della Regione Emilia Romagna avrebbe espresso la sua contrarietà  avvertendolo che: “se per caso vinco io, come è probabile, dopo però non mi cercate più”. Parole che Pezzolato ha interpretato come pressioni ‘improprie’ nei confronti della sua amministrazione. “Non c’è stata nel modo più assoluto alcuna pressione, né irregolarità da parte del presidente Stefano Bonaccini. Da parte nostra c’è la massima tranquillità, non abbiamo alcuna ragione di preoccupazione”. Così all’AdnKronos il professor Vittorio Manes, legale del presidente della Regione Emilia-Romagna. “Sono tranquillo, esattamente come le ero un anno fa”, afferma lo stesso Bonaccini. “Non solo perché ho fiducia nell’azione della magistratura, ma anche perché sono totalmente estraneo ai fatti riportati”. Le reazioni della Lega in Regione non si sono fatte attendere: “Come nella nostra tradizione, siamo garantisti e attendiamo che la magistratura faccia il proprio corso. Ma pur augurandoci che la vicenda giudiziaria possa avere un epilogo positivo per i protagonisti, invitiamo il Partito democratico e Bonaccini a raccogliere l’insegnamento che emerge da queste brutte pagine di fine campagna elettorale: sia lui che i dirigenti del suo partito facciano un bagno di umiltà e dismettano quei panni che trasudano un senso di onnipotenza figlio di decenni di governo del territorio”. Così il capogruppo della Lega in Emilia-Romagna, Matteo Rancan. “Il tempo dell’arroganza è finito – aggiunge -, è venuto il momento che il Pd cominci a lavorare per il bene di tutti, a prescindere dalla loro appartenenza politica. Ci auguriamo che queste indagini li richiamino al rispetto dei cittadini e, a questo punto, forse anche della legge”. “Amministrando in base alle simpatie, non si fa il bene dei cittadini. Per la Lega la politica è una cosa diversa: non temiamo il confronto sulle idee e sui progetti, e non festeggiamo se qualche avversario viene indagato. Tuttavia ora si faccia tutta la chiarezza che gli emiliani meritano”, aggiunge il senatore Andrea Ostellari, commissario del partito in Emilia.

Abuso d'ufficio durante la campagna elettorale: Bonaccini indagato. A denunciare i fatti il sindaco di Jolanda di Savoia, che ha allegato nell'esposto una telefonata avuta con l'attuale governatore. Fiducioso il legale di Bonaccini: "Nulla che possa fare pensare a illeciti di rilievo". Federico Garau, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. Indagato per abuso d'ufficio a causa di pressioni esercitate durante la campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia Romagna, così Stefano Bonaccini finisce nel mirino della procura della Repubblica di Ferrara. Ciò nonostante, il legale del governatore si dice tranquillo: "Sapevamo dell'iscrizione ma non abbiamo alcun profilo di preoccupazione", ha infatti spiegato a Il Resto del Carlino il professor Vittorio Manes. Il fascicolo sul cosiddetto "Caso Jolanda" fu aperto dopo l'esposto presentato ai carabinieri da Paolo Pezzolato, sindaco, per l'appunto, di Jolanda di Savoia (Ferrara). A riprova di quanto denunciato, il primo cittadino presentò in allegato anche l'audio di una telefonata avuta con Stefano Bonaccini in cui si discuteva della volontà della lista civica Elisa Trombin (ex sindaco di Jolanda e sua vice), di dare il proprio appoggio al centrodestra di Lucia Bergonzoni. Una scelta, quella di correre per la Lega alle regionali, mal digerita dallo stesso Bonaccini, che avrebbe reagito molto duramente, arrivando ad esercitare delle forti pressioni. Questa la versione del sindaco di Jolanda di Savoia, minimizzata invece dal legale dell'attuale presidente della regione Emilia Romagna, che ha sì confermato una discussione dai toni decisamente accesi, "ma nulla che possa fare pensare a illeciti di rilievo". Nel proprio esposto, Paolo Pezzolato ha parlato al contrario di forti ingerenze da parte di Bonaccini, uomo in grado di fare pressioni evidentemente anche a livello locale. Il primo cittadino ha spiegato che dopo quella telefonata il Comune di Jolanda si sarebbe visto negare la possibilità di utilizzare dipendenti pubblici di altre amministrazioni limitrofe. Raggiunto dalla notizia della denuncia, il governatore dell'Emilia Romagna respinse al mittente le accuse: "Se cercano di gettare fango hanno sbagliato indirizzo, ho sempre dimostrato la mia moralità e la mia onestà", disse infatti Bonaccini, come riferito da Agi. L'iscrizione nel registro degli indagati è semplicemente un atto dovuto, spiega il suo avvocato, che riferisce: "Massima tranquillità da parte mia e del mio assistito". "Come nella nostra tradizione, siamo garantisti", ha dichiarato in una nota riportata da Agi il capogruppo del Carroccio in Emilia Romagna Matteo Rancan. "Pur augurandoci che la vicenda giudiziaria possa avere un epilogo positivo per i protagonisti, invitiamo il Partito democratico e Bonaccini a raccogliere l'insegnamento che emerge da queste brutte pagine di fine campagna elettorale: sia lui che i dirigenti del suo partito facciano un bagno di umiltà e dismettano quei panni che trasudano un senso di onnipotenza figlio di decenni di governo del territorio". Finito il tempo dell'arroganza, Rancan auspica che i dem inizino a lavorare per il bene di tutti i cittadini, "a prescindere dalla loro appartenenza politica. Ci auguriamo che queste indagini li richiamino al rispetto dei cittadini e, a questo punto, forse anche della legge", conclude il capogruppo della Lega.

REGIONE LAZIO, INDAGATO ZINGARETTI : FAVORITISMI NELLE NOMINE ASL. Corriere del Giorno il 23 Gennaio 2021. Le accuse, a seconda delle differenti posizioni, sono abuso d’ufficio, falsità commessa da pubblico ufficiale e rifiuto di atti d’ufficio. L’inchiesta ha avuto origine da due esposti. Nel primo, presentato da Fratelli d’Italia, si chiedeva di indagare sulla nomina, in posizione dirigenziale in una Asl, di un candidato che non avrebbe avuto i requisiti per ottenere il posto, ma che sarebbe stato selezionato grazie a una modifica effettuata nel bando di accesso. Nei giorni scorsi su richiesta della pm Desiré Digeronimo, il Gip ha disposto una proroga delle indagini. Il segretario nazionale del PD e presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti è indagato insieme all’assessore alla Sanità, Alessio D’Amato, e ad altre sette persone, sull’ipotesi investigativa della Procura di Roma che ci siano stati favoritismi nelle procedure di nomina in alcune posizioni chiave della sanità romana. Nei giorni scorsi, intanto, su richiesta della pm Desiré Digeronimo, il Gip ha disposto una proroga delle indagini. Le accuse, a seconda delle differenti posizioni, sono abuso d’ufficio, falsità commessa da pubblico ufficiale e rifiuto di atti d’ufficio. Tra gli indagati ci sono anche due dirigenti della Regione Lazio, Renato Botti all’epoca responsabile della direzione della Salute ed Andrea Tardiola, segretario della giunta, Flori Degrassi, direttore della Asl Roma 2, Vincenzo Panella (che è l’ex direttore generale n.d.r.) , Giuliana Bensa, Giovanna Liotta, Paola Passon, dirigenti dell’ospedale Policlinico Umberto I. L’inchiesta ha avuto origine da due esposti. Nel primo, presentato da Fratelli d’Italia, si chiedeva di indagare sulla nomina, in posizione dirigenziale in una Asl, di un candidato che non avrebbe avuto i requisiti per ottenere il posto, ma che sarebbe stato selezionato grazie a una modifica effettuata nel bando di accesso. La questione era stata anche sollevata in un’interrogazione parlamentare dal consigliere Antonello Aurigemma a cui l’assessore D’Amato aveva risposto il 16 novembre 2019: “Il provvedimento è pienamente legittimo all’interno del quadro nazionale. La gran parte delle Regioni italiane ha adottato un’analoga metodologia, sia Regioni governate dal centrodestra, sia Regioni governate dal centrosinistra, come Toscana, e Umbria, adesso passata a un nuovo governo, ed altre ancora”. Dalla Regione Lazio hanno fatto sapere che la delibera è uguale a quella utilizzata un anno prima anche dalla Lombardia. L’amministrazione regionale guidata da Zingaretti in una nota ha anche riferito di essere “convinta di aver operato nel rispetto della normativa vigente” e ha espresso “massima fiducia nel lavoro della magistratura, certa che chiarirà la vicenda in tutti i suoi aspetti“. Vincenzo Panella, ex direttore generale del Policlinico Umberto I ha dichiarato: “Siamo convinti che gli atti che abbiamo assunto siano legittimi e confidiamo nel lavoro della magistratura. Sono tranquillo. L’azienda ospedaliera è sicura di aver nominato un direttore amministrativo in regola con i requisisti previsti dalle norme nazionali”. Sul caso si è scatenata anche la polemica politica, con il leader della Lega, Matteo Salvini, che è stato tra i primi a intervenire: “I cittadini meritano chiarezza e rapidità, anche per le eventuali ricadute sul governo nazionale: i guai del leader Pd complicano il reclutamento di voltagabbana o per il Movimento 5 Stelle i politici indagati non sono più un problema?“.

Fabio Amendolara e Giuseppe China per “La Verità” il 23 gennaio 2021. Abuso d'ufficio, falsità commessa da pubblico ufficiale e rifiuto d' atti d' ufficio. Secondo alcune fonti di stampa, sono questi i reati contestati nell' ambito dell' inchiesta che tiene Nicola Zingaretti, l' assessore alla Salute del Lazio, Alessio D' Amato e almeno altri sette big della sanità laziale, sulla graticola. E che ruota attorno ad alcune nomine strategiche effettuate nel 2019. Quasi come una nemesi, nelle stesse ore in cui un Lugi Di Maio più giustizialista del solito dichiarava la rottura dei rapporti con l' Udc per l' avviso di garanzia al segretario (dimissionario), Lorenzo Cesa, un alleato di peso del M5s finiva anche lui in una inchiesta giudiziaria. L' ipotesi di reato per Zinga e co. è assai meno grave di quella di Cesa, ma il cortocircuito politico è evidente, considerando le parole del ministro degli Esteri su Facebook: «Ciò che andrebbe riconosciuto al Movimento (oltre ai provvedimenti portati a casa che durante questa pandemia si sono rivelati lungimiranti) è aver chiuso ogni spazio di manovra a chi credeva che la politica fosse un salvacondotto dai problemi giudiziari. Di fronte ad ogni più piccolo sospetto (di altri, ricorderete il caso Siri) abbiamo agito garantendo pulizia a tutto il sistema». A rimarcare l' incongruenza, memore forse proprio del caso Siri, è stato il segretario della Lega, Matteo Salvini: «Prorogate le indagini che coinvolgono il governatore Zingaretti per le nomine nelle Asl del Lazio. I cittadini meritano chiarezza e rapidità, anche per le eventuali ricadute sul governo nazionale: i guai del leader Pd complicano il reclutamento di voltagabbana o per il Movimento 5 stelle i politici indagati non sono più un problema?». La vicenda nasce nel 2019 da un esposto di un consigliere di opposizione alla Pisana, Antonello Aurigemma, che aveva presentato una serie di interrogazioni sulle nomine dei vertici delle Asl, avvenute anche attraverso una modifica dei requisiti richiesti. Infatti, con la «Determinazione 25 ottobre 2019, n. G14590», scritta in conseguenza di una delibera di giunta del giorno precedente, dai parametri per la selezione degli idonei da cui attingere per la nomina di direttore amministrativo, erano spariti i cinque anni di esperienza in «strutture sanitarie pubbliche o private», trasformati in un più semplice «svolgimento di qualificata attività di direzione tecnica o amministrativa, con diretta responsabilità delle risorse umane, finanziarie e strumentali». Il 31 ottobre di quell' anno Aurigemma presenta un' interrogazione a risposta immediata, la 272, denunciando che le modifiche al bando «risultano nulle in quanto in contrasto con una norma di rango superiore quale il decreto legislativo 502 del 1992 o la stessa legge regionale della Regione Lazio numero 18 del 1994» e chiedendo quindi il ritiro del provvedimento. Ma nella sua risposta in aula, il 6 novembre, l' assessore alla Sanità era stato irremovibile: «No, non è intenzione dell' amministrazione regionale ritirare il provvedimento, un provvedimento pienamente legittimo all' interno del quadro nazionale. Peraltro, voglio dire al consigliere Aurigemma che la gran parte delle Regioni italiane ha adottato un' analoga metodologia, sia Regioni governate dal centrodestra, e può verificare, qui vi è l'ultima delibera fatta dell' Albo dei direttori amministrativi nella seduta del 24 settembre di Regione Lombardia, sia Regioni governate dal centrosinistra, come la Regione Toscana, la Regione Umbria, che adesso è passata a un nuovo governo, ed altre ancora. Vi è stata un' interpretazione estensiva per dar modo a un' ampia platea di professionisti di partecipare all' Albo dei direttori amministrativi, per poi eventualmente essere presi da quest' Albo. Per cui, nessuna volontà di ritiro perché il provvedimento è legittimo». Due giorni dopo Aurigemma, che nelle settimane successive approderà al gruppo consiliare di Fratelli d' Italia, presenta una nuova interrogazione a riposta immediata, la 283, con un oggetto che lascia pochi dubbi sulla posizione del consigliere: «Errore nella risposta immediata a interrogazione 272 concernente Legittimità previsioni normative Dgr 786 del 24 ottobre 2019 inerenti la modifica e l' integrazione delle Dgr 680/2019 e 681/2019, criteri per la formazione dell' elenco degli idonei alla nomina di direttore amministrativo delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale», chiedendo di nuovo la revoca del provvedimento. Ancora nulla da fare, per D' Amato sulle nomine «la Regione Lazio si sta comportando, per quanto riguarda i bandi dei direttori generali, in analogia con molte altre Regioni italiane secondo i requisiti del decreto 502». Da qui l' esposto e le iscrizioni sul registro degli indagati che hanno ricevuto la richiesta di proroga delle indagini. Flori Degrassi, direttore generale della Asl Roma 2, si è affrettata a dichiarare: «Operando questa azienda nel rispetto delle normative vigenti, confida nell' operato della Procura». Ma a dirimere la vicenda, mettendo la parola fine all' inchiesta, potrebbe essere la riforma del reato di abuso d' ufficio varata dal governo giallorosso con il decreto Semplificazioni, che era stata oggetto di accese polemiche. Fonti qualificate della Procura riferiscono che all' interno del pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione sarebbe in corso un confronto riguardo alle inchieste per abuso d' ufficio, alla luce delle modifiche al reato apportate nel luglio scorso con il decreto semplificazioni. Al momento, però, l' inchiesta va avanti e la grana giudiziaria per Zinga, l' assessore e i sette Golem della sanità laziale potrebbe trasformarsi in una nuova pesante tegola sulle trattative per tenere in piedi Giuseppe Conte.

·        Tassopoli.

Tasse su morte e disoccupazione. I balzelli nascosti che il Pd dimentica. Giuseppe Marino il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. Si pagano pure concorsi e attestati di decesso. Cento scadenze fiscali sulle Pmi. E sulle case salasso e blocco degli sfratti senza ristori. La giungla di gabelle che Draghi deve disboscare. C'è un Paese spaventato, in cui è aumentato del 20% il numero di famiglie che non arriva a fine mese (oltre sei su dieci, dati Bankitalia di ieri) e le altre, quelle che ce la fanno, pensano «di ridurre i consumi non durevoli nei prossimi tre mesi». L'idea di Draghi è aiutare chi non ce la fa e rassicurare gli altri per spingerli a spendere, mentre si vara una riforma fiscale che renda il fisco più equo: troppe regole e balzelli aggiunti negli anni. La proposta di Enrico Letta, una tassa sulla successione, va nel senso esattamente opposto: aumenta la pressione fiscale su chi può spendere e non fornisce vere opportunità a chi non ce la fa. A meno di non pensare che lo Stato che distribuisce soldi a pioggia sia un modello di crescita. I tentativi di sostegno ideologico alla proposta Letta citano ipocritamente il parere favorevole di Luigi Einaudi sull'imposta di successione, dimenticando di specificare che all'epoca il reddito era tassato con un'aliquota dell'8 per cento (tramite l'imposta di ricchezza mobile). Nel suo libro appena uscito (La Repubblica delle tasse, ed. Castelvecchi, una bella rassegna di tutto il sistema fiscale) Gianluca Timpone (nel tondo qui sopra) esemplifica il primo nodo della tassazione sul reddito da cui ogni riforma deve partire e che Letta pare ignorare: oggi in Italia un dipendente che guadagna 30mila euro ne paga poco meno di 6mila di tasse sul reddito. Se dovesse lavorare di più e guadagnare altri mille euro, finirebbe con il consegnarne allo stato ben 450, «380 euro per lo scalone che subisce l'aliquota e 70 euro di minori detrazioni», spiega l'autore, esperto commercialista. Un vero e proprio disincentivo alla produttività. Negli anni la logica di aggiungere una tassa alla volta in stile Letta ha fatto scuola. Il risultato è che nel 2019 la Cgia di Mestre aveva contato un numero record di scadenze fiscali per le Pmi: cento in un anno. La strada indicata da Draghi è proprio quella di semplificare questo groviglio. A quanto pare Letta non condivide, dimenticando la marea di balzelli che già colpisce redditi e patrimoni. L'imposta di successione, mentre i ricchi veri possono tranquillamente portare al sicuro i patrimoni liquidi, colpirebbe soprattutto gli immobili già gravati da una patrimoniale da 21 miliardi com'è l'Imu e da mille altri balzelli. Alcuni veramente bizantini. Il certificato energetico, ormai obbligatorio anche per dare in affitto una casa, non è letteralmente una tassa ma di fatto è una spesa imposta dallo Stato. E inspiegabilmente scade dopo dieci anni, pure se la casa è rimasta la stessa. E cosa fa il legislatore? Lo rende obbligatorio per il Superbonus 110%, ma non lo stesso: documento diverso, nuova spesa. «In più la redditività degli immobili, -dice il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa- non è tutelata dallo Stato: i proprietari di case date in affitto a utenti morosi sono gli unici a non aver ricevuto ristori mentre il governo vietava gli sfratti». «È pieno di microtasse odiose -ricorda Timpone- come la tassa sulla disoccupazione, il versamento imposto a chi partecipa a un concorso. O la tassa sulla morte, il balzello chiesto per avere un certificato che attesti il decesso. O quella sulle insegne, che colpisce l'imprenditore che cerca di farsi notare per fare più affari». E infine la tassa sulla fortuna, l'unica di cui nessuno si lamenta davvero: chi la paga ha vinto una lotteria. Letta ci faccia un pensierino.

Da “il Giornale” il 22 maggio 2021. «Un milione di euro è il valore di un normale appartamento familiare in una grande città come Roma, come quelli in cui tutti siamo vissuti con i nostri figli finché sono stati con noi». Così parlò il giornalista Marcello Sorgi a «L' aria che tira». L' intenzione era di criticare la patrimoniale Letta in favore dei giovani, l'effetto è stato di scatenare sul web le reazioni inviperite di chi un appartamento da un milione di euro forse non lo hai neppure sognato, nonostante figli, lavoro e vita in una grande città. Così, per evitare di far piangere i benestanti non ricchi, ha scatenato chi non è né ricco né benestante. La critica più benevola? «Questo distacco dalle persone normali è davvero preoccupante».

Da ilfattoquotidiano.it il 22 maggio 2021. “La proposta di Enrico Letta di tassare i redditi da oltre un milione di euro? Un milione di euro è il valore di un normale appartamento familiare in una grande città come Roma. Parliamo di uno di quei appartamenti in cui tutti noi abbiamo vissuto coi nostri figli finché non sono stati con noi”. Così, a “L’aria che tira” (La7), l’editorialista de La Stampa, Marcello Sorgi, commenta la proposta del segretario del Pd, Enrico Letta, circa una tassa di successione dell’1% per i redditi oltre un milione di euro, a vantaggio dei 18enni. Sorgi nega che l’iniziativa dem possa essere paragonata a quella di Rifondazione Comunista, che in occasione della legge finanziaria del 2007 diffuse lo slogan “Anche i ricchi piangono” con un manifesto recante l’immagine di uno yacht: “Almeno in quel manifesto di Bertinotti c’era uno yacht da 100 milioni di euro.  Ma nella proposta di Enrico Letta c’è da tassare un milione di euro. Se i ricchi sono quelli che hanno un appartamento in centro e magari una seconda casa al mare, secondo me, non sono ricchi che devono piangere – continua – Sono persone che hanno costruito qualcosa durante la loro vita e che amerebbero lasciarlo ai figli senza pesi ulteriori. Letta poi, rispondendo alla replica dura e perentoria di Draghi, ha detto: “Ma io devo fare il capo della sinistra e quindi devo dire queste cose”. È un po’ da vedere se la sinistra debba proporre tasse, perché le tasse non sono mai una cosa popolare”.

La strana coerenza Dem. Il PD dalle battaglie contro gli stage alla ricerca di stagisti su LinkedIn: il caso dell’annuncio a Milano. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Maggio 2021. Predicare bene, razzolare malissimo. Il Partito Democratico che si lancia in una battaglia per i giovani, con l’ormai nota "dote" per i 18enni frutto dell’aumento dell’aliquota della tassa di successione oltre i 5 milioni, ma che soprattutto due giorni fa, il 20 maggio, si intestava una battaglia contro gli stage, casca proprio sul tema del lavoro. Facciamo un passo indietro. Giovedì 20 maggio il segretario Dem Enrico Letta all’evento “La precarietà non è destino – Una riforma per il lavoro dei giovani” lanciava strali contro l’uso degli stage e contro il loro “stravolgimento”, ovvero l’utilizzo come “falso modo di assumere le persone”, perché in questo caso “non vanno bene per niente”. Dal confronto che aveva visto anche la presenza del ministro del Lavoro Andrea Orlando, dell’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi e dell’europarlamentare Brando Benifei, era quindi uscita la proposta Dem sul tema: il blocco degli stage non retribuiti e degli stage non collegati alla scuola o all’università frequentata, sostituendoli con l’apprendistato. Peccato che sole 24 ore dopo su LinkedIn, il social "del lavoro", il Partito Democratico di Milano abbia pubblicato un annuncio in cui si cerca un “intern” per la posizione di social media “in vista del ciclo elettorale 2021”. Intern, ovvero stage. Il tirocinio proposto dal Partito Democratico prevede una durata di sei mesi full time, mentre nell’annuncio non c’è alcuna informazione riguardante la retribuzione. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.

·        I Raccomandati.

Paolo Gentiloni, l'affondo di Luigi Bisignani: "Dove ha piazzato la cognata". Fantasmi nella scalata al Colle. Libero Quotidiano il 31 ottobre 2021. Paolo Gentiloni è uno dei nomi validi per il Quirinale, ma secondo Luigi Bisignani ci sono alcuni fantasmi che potrebbero costringerlo a girare alla larga del Colle, dove a febbraio dovrà salire il successore di Sergio Mattarella. Da commissario europeo l’ex premier si è costruito un’ottima reputazione a livello internazionale, che passa da Washington, Parigi e Bruxelles. La corsa al Quirinale è però tutta un’altra storia: per farcela, Gentiloni dovrebbe dribblare un po’ di fantasmi del passato. In particolare quello legato alla “fedelissima” Alessandra Dal Verme, piazzata al Demanio - motore del Pnrr - nonostante sia sua cognata. “Una nomina denunciata in più interrogazioni parlamentari - scrive Bisignani sul Tempo - perché in pieno conflitto di interesse per il grado di parentela tra un commissario europeo e un dirigente che deve istruire i progetti per accedere ai fondi”. Ma non è finita qui, perché secondo l’ex faccendiere c’è di più in questa vicenda che riguarda Gentiloni e la cognata. “Tra le prime decisioni della Dal Verme - sottolinea Bisignani - quella di rimuovere due dirigenti chiave dell’Agenzia, quello della Regione Lazio Giuseppe Pisciotta e quello di Roma Capitale Antonio Fichy proprio coloro che avrebbero dovuto gestire i 20 milioni di euro e di beni confiscati a Luigi Lusi, tesoriere della Margherita di cui Gentiloni è stato non solo fondatore ma anche percettore, secondo Lusi, in piena legittimità, di circa 200 mila euro di spese per la campagna elettorale”.

"Vi racconto il sistema che ha scoperchiato il concorso nel Lazio". Francesco Boezi il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Il "caso Allumiere", per il consigliere regionale Chiara Colosimo, non è un caso isolato. Anzi, quel concorso "scoperchia" l'esistenza di un "sistema". E il MoVimento 5 Stelle sta a guardare (e non solo). Del concorso di Allumiere e del possibile ruolo della Regione Lazio rispetto a quel caso si parla poco di questi tempi, ma qualche novità c'è. Anzitutto, la relazione di Chiara Colosimo, presidente della commissione Trasparenza, è pronta. Per quanto qualcuno abbia tergiversato nell'approvare quella relazione. I commissari, per via delle "resistenze", dovranno aggiornarsi dopo le ferie estive. Inoltre, il comune di Allumiere ha inviato una lettera ai candidati del concorso in cui si inizia a parlare di annullamento. Gli effetti delle graduatorie, nel frattempo, sono state sospesi. Insomma, nella stabilità estiva, qualcosa si muove. Parliamo della "stipendiopoli" balzata alle cronache nazionali che, come ha scritto su Il Giornale, Giuseppe Marino "moltiplicato i pregiati posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato e ne ha distribuiti almeno 24, in gran parte tra chi ha la tessera del Pd". Il Consiglio regionale del Lazio, com'è peraltro previsto, ha attinto dalla graduatoria. E le polemiche si sono scatenate. Ma c'è anche una rete di comuni coinvolta nelle assunzioni di persone ascrivibili al Partito Democratico. Il caso del "concorso dei miracoli" potrebbe essere vicino a una qualche conclusione. Il consigliere regionale Chiara Colosimo, che è espressione di Fratelli d'Italia, si è fatta questo conto: 29 su 44 assunti sono i "candidati fuori dalle pre-selettive", perché non avrebbero i requisiti; di quei 44, 34 avrebbero legami con la politica o con la commissione. L'esito dell'inchiesta, almeno per quel che riguarda la parte politica, è in divenire. Ma il "caso Allumiere", per la Colosimo, fa parte di un "sistema". Non sarebbe solo un caso isolato, dunque. Qualcosa che sarebbe ormai consolidato. Qualche giorno fa, il consigliere regionale Francesca De Vito è uscita in polemica dalla formazione pentastellata, citando il tradimento degli elettori ed il caso Allumiere tra le motivazioni. Ma il resto del MoVimento 5 Stelle laziale non è dello stesso avviso. Attorno a questa storia, possono essere elencati più aspetti: le questioni di legittimità, su cui si pronunceranno gli inquirenti; l'opportunità politica, che è al centro del dibattito; la linea tenuta dal MoVimento 5 Stelle, che su "Allumiere" e dintorni non è troppo attivo sul piano dei giudizi senza sconti, com'è invece avvenuto in altre circostanze; il peso di questa vicenda per le imminenti elezioni amministrative e per i prossimi appuntamenti.

Senta, cerchiamo di partire con un atteggiamento garantista: voi contestate l'opportunità politica o il merito giuridico?

"Ho sempre tenuto i due piani separati: l'opportunità politica è una cosa, gli errori amministrativi un'altra. E questi ultimi non sono più contestabili, perché sono palesi. C'è un tema, però, considerando pure il comunicato dei carabinieri: credo che le due cose siano andate di pari passo".

Cioè?

"Cioè che alcuni errori, che potrebbero sembrare amministrativi, siano stati fatti, in realtà, per facilitare alcuni candidati amici dei politici".

Però la sua linea è garantista..

"Ho iniziato a fare le pulci alla Regione per dimostrare come ci fosse una falla che creava un danno a chi amministrava, così come con la storia delle mascherine. A me interessa difendere l'istituzione, non condannare Tizio o Caio. Per cui, se c'è qualcuno che ha sbagliato, quel qualcuno deve pagare. E non per via del giustizialismo, bensì perché deve emergere che non siamo uguali. Perché non siamo tutti uguali".

A che punto è l'iter della relazione?

"La relazione finale è stata stilata. Però ci sono molte resistenze. Dunque, con la riapertura dei lavori darò un termine per le osservazioni agli altri commissari".

Scusi, ma resistenze in che senso?

"Nel senso che molti hanno utilizzato questa motivazione: la relazione è lunga e dettagliata. Per cui, c'è chi ha detto di aver bisogno di tempo ulteriore. La relazione non è stata approvata, come speravo, prima della chiusura dei lavori".

Quali conclusioni ha tratto nella relazione?

"Le conclusioni derivano dalle audizioni e dagli atti in nostro possesso. Al netto dell'opportunità politica, è evidente come anche la procedura amministrativa e burocratica del concorso sia stata falsata. Dalla prova pre-selettiva alle strane coincidenze all'interno delle cosiddette battterie del concorso, passando dal non comunicare la graduatoria con il punteggio ai comuni. Gli stessi che poi hanno attinto".

Il Comune di Allumiere ha inviato una lettera ai candidati...

"Sì, è l'ultima follia targata Partito Democratico e sindaco Pasquini. Gli inquirenti stanno stringendo. Cercano di venirne fuori con una sorta di sondaggione. Una cosa tipo: "Caro candidato, tu hai partecipato, che ne pensi se annulliamo?" Vorrei che qualcuno mi dicesse se è normale che accada nella pubblica amministrazione".

Ma il suo intento qual è?

"Io non sono una giustizialista, però credo nei principi. Quello che emerge con Allumiere è una completa mancanza di valori. Gli stessi che dovrebbero essere propri prima di una democrazia e poi dei singoli. Ciò che ha scoperchiato il caso Allumiere non è un caso singolo, ma un modus operandi. Nella provincia di Roma, esiste un sistema. La stesso meccanismo ha avuto luogo in altri comuni".

Ossia?

"Il sindaco uscente di Subiaco è stato assunto insieme ad un assessore di Marino che ha vinto un concorso a Guidonia. Il sindaco di Rocca Santo Stefano ha assunto il sindaco di Zagarolo. Ciò che deriva dal caso Allumiere è che alcuni hanno usato le istituzioni per sistemarsi. Secondo il mio modo di vedere, non ha nulla a che vedere con il giustizialismo, però ha molto a che vedere con come si concepisce la politica. Per questo, non farò nessuno sconto. La verità è che c'è un sistema".

Sì, ma se lei mi parla di "sistema", io le devo chiedere da chi è composto..

"Non io ma i casi citati fin qui ci dicono che per ora i comuni coinvolti sono ascrivibili al Partito Democratico e, nello specifico, al Pd della provincia di Roma. Però, prendendo in considerazione la questione relativa alla Asl di Latina, si fuoriesce da Roma e provincia. Io credo si sia sviluppato un sistema che è a metà tra chi governa e chi dirige. Perché non dobbiamo dimenticare la parte recitata dai dirigenti o dai commissari in questi processi".

Passiamo alla politica. Il MoVimento 5 Stelle è il convitato di pietra di questa storia? Governano col Pd senza remore?

"Il sindaco di Guidonia è grillino. Sono il più grande bluff della storia. Non sono stati in grado di fare opposizione, dunque hanno pensato bene di entrare in maggioranza. L'unica che faceva opposizione (Roberta Lombardi, ndr) oggi fa l'Assessore. Non l'ho vista alzare un sopracciglio su Allumiere. I grillini non sono proprio convitati di pietra...".

Cioè?

"Cioè, almeno per le assunzioni in Consiglio regionale, sono parte in causa: i grillini esprimono un membro del Consiglio di presidenza. Per quello che ne sappiamo, poi, qualcuno legato al MoVimento 5 Stelle è stato assunto con l'infornata di Allumiere, ma come dimostra Guidonia, sono diventati il tonno delle scatolette in un batter d’occhio".

E la linea Zingaretti qual è?

"Zingaretti è immune. È inspiegabile come possa continuare a far finta di niente, le mascherine mai arrivate ma profumatamente pagate erano fake news (c’è ancora la grafica della regione sui social), le nomine politiche in piena pandemia polemiche sterili, i debiti fuori bilancio non erano un problema (fin quando non è arrivata la corte dei conti) e su “Concorsopoli” nemmeno una dichiarazione ufficiale, solo un tentativo di maquillage. La miglior foto ricordo di Zingaretti è la sua potente dirigente sui rifiuti, già vicesindaco del Pd, che dopo l’arresto si candida sindaco nel suo comune viterbese di Vetralla. Incredibile ma vero...".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento

"Nomi pesanti vicini al Pd". Bufera sul maxiconcorso che fa tremare i dem. Il "concorso dei miracoli" continua a far discutere: adesso spuntano i nomi. E l'ex sindaco Ignazio Marino tira fuori il racconto che imbarazza il Partito democratico. Luca Sablone - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. "Di questo concorso sottovoce si diceva da parecchio. È stato superato il limite: gli assunti sono nomi pesanti, persone vicine al sindaco e a molti esponenti del Partito democratico". Continua a far discutere il maxiconcorso di Allumiere, finito al centro delle polemiche tanto da aver ritenuto necessario richiedere la creazione di una commissione d'indagine. Le domande su cui si vuole far chiarezza restano ancora diverse: come è possibile che ben 85 persone siano finite a pari merito nel punteggio finale? Per quale motivo gran parte degli idonei proviene dal mondo della politica? Intanto Mauro Buschini ha deciso di dimettersi da presidente del Consiglio regionale del Lazio. Delle assunzioni definitive avrebbero beneficiato alcuni collaboratori fiduciari dei consiglieri regionali del Partito democratico (ma anche di Movimento 5 Stelle e Lega), dei militanti e addirittura un consigliere capitolino.

Spuntano i nomi. Come riportato da Il Fatto Quotidiano, nell'elenco dei neo-assunti figurerebbero molteplici esponenti del settore della politica: due collaboratori di Buschini; Matteo Marconi, segretario del Pd di Trevignano Romano (Roma); Arianna Bellia, assessore Pd di San Cesareo (Roma); Augusta Morini, consigliere e assessore Pd di Labico (Roma); Paco Fracassa, segretario Pd di Allumiere (Roma); un componente del circolo Pd di Frosinone (città di Buschini); tre militanti dem (Allumiere, Civitavecchia e Roma). Su 16 posti disponibili, a dicembre la Regione avrebbe contattato in totale 24 persone ma in otto avrebbero rifiutato. Il 28 dicembre il Comune di Guidonia avrebbe stipulato un accordo con Allumiere e avrebbe deciso di assumere otto funzionari prendendoli dallo stesso elenco-idonei. Tra loro vi sarebbe stato anche Marco Palumbo, consigliere del Partito democratico in Campidoglio e presidente della commissione Trasparenza. I dem hanno preso subito preso posizione e non si sono nascosti, anche se si continua a ritenere che la procedura sia "regolare e limpida". Per Matteo Orfini si tratta "di una vicenda sulla quale è necessario fare chiarezza subito, senza timidezze". Il deputato del Pd si è detto sconcertato per quanto accaduto poiché così si rischia di minare "la credibilità delle istituzioni". Un eletto del Partito democratico, scrive La Repubblica, chiede di valutare l'annullamento di tutto il pacchetto di nomine: "Nicola (Zingaretti, ndr) è fuori di sé. Come dargli torto? Nel Consiglio di presidenza hanno combinato questo pasticcio e ora dovrebbero fare un passo indietro".

La testimonianza di Marino. Ad aumentare l'imbarazzo per il Pd è stato un racconto fornito da Ignazio Marino nel corso della trasmissione Non è l'arena su La7 condotta da Massimo Giletti. L'ex sindaco di Roma ha rivelato un retroscena risalente al periodo in cui stava cercando persone competenti per guidare le aziende del Comune: "Spesso il capogruppo del Pd mi proponeva alcuni curricula e in particolare me ne proponeva sempre uno che a me non impressionava". A quel punto il primo cittadino decide di incontrare il candidato, convocandolo per fare un colloquio in vista di un ruolo da amministratore delegato. Nel curriculum però non vi è alcun riferimento alla preparazione sul settore rifiuti. "Te la senti di affrontare questa sfida epocale? Rinunceresti a tutti i tuoi incarichi?", gli chiede Marino. E la risposta del candidato si commenta da sé: "Assolutamente no, non rinuncio alle altre mie posizioni". Però l'uomo si fa venire in mente un'idea: farsi nominare presidente, piuttosto che amministratore delegato, "così ho un impegno che mi prende massimo tre pomeriggi al mese". L'ex sindaco rimane spiazzato e chiama il capogruppo per denunciare la situazione, ma la replica è stata tutt'altro che di indignazione per quanto accaduto: "Ma che cosa ti costa? Sono solo 100mila euro di stipendio e ti metti un po' in pace con il Partito democratico con cui non vai d'accordo".

Pd, Marianna Madia contro Debora Serracchiani: "Cooptazione mascherata", accusa i vertici di avere truccato la partita.  Stefano Re su Libero Quotidiano il 28 marzo 2021. Donna contro donna. Piddina contro piddina. Marianna Madia contro Debora Serracchiani. È il primo vero guaio inflitto da Enrico Letta al Pd. O il primo vero schiaffo dato dai suoi al nuovo capo, poco cambia. Sta di fatto che alla Camera, in ossequio alla richiesta del segretario, una donna sta per essere eletta dai deputati democratici come loro capogruppo. Accadrà martedì e sarà con ogni probabilità la Serracchiani, promossa malgrado un curriculum non proprio esaltante (con lei al comando, in Friuli-Venezia Giulia il centrosinistra fu asfaltato dal leghista Massimiliano Fedriga). Tutto bene, quindi? Musica nuova nel Pd, finalmente? Mica tanto. Perché la Madia, che ambisce al ruolo di capogruppo (è donna pure lei, e il suo cursus honorum non è certo peggiore di quello della compagna), si mette al computer e invia una lettera al vetriolo agli altri 92 deputati del suo partito, accusando la rivale e Graziano Delrio, autore dell'operazione, di avere orchestrato una «cooptazione mascherata». Con tutto quello che ne consegue per la dignità delle donne, si capisce. «Care colleghe, cari colleghi», si legge nel suo testo, «la verità rende liberi. E parlarci con chiarezza e trasparenza, senza bizantinismi, penso possa aiutare a riannodare il filo spezzato di una comunità democratica che è viva ed esigente con chi la rappresenta». Spiega di avere sempre considerato Delrio «una persona di valore» e racconta che è stato proprio lui, dopo aver accettato l'invito del nuovo segretario a fare un passo indietro (era Delrio il capogruppo, sino a pochi giorni fa), a chiederle «di mettermi in gioco con la mia candidatura insieme a quella della mia amica stimata Debora Serracchiani». Senonché, «quello che poteva essere un confronto sano tra persone che si stimano si è subito trasformato in altro». È successo infatti, prosegue la Madia, che «immediatamente si è ripiombati nel tradizionale gioco di accordi trasversali più o meno espliciti» e che Delrio, «da arbitro di una competizione da lui proposta, si è fatto attivo promotore di una delle due candidate, trasformando ai miei occhi il confronto libero e trasparente che aveva indetto in una cooptazione mascherata». Che non è come dire «partita truccata», ma poco ci manca. Esternato il proprio «dispiacere umano» per ciò che è successo, la Madia appare tutt' altro che rassegnata, e promette di «combattere in ogni istante per colmare il vuoto democratico che ipocrisie e verità sottratte alla discussione stanno scavando». Da qui, annuncia, «inizia una storia diversa». Parole che nel Partito democratico, dove la «ipocrisia» denunciata dalla Madia è una delle regole della casa, hanno l'effetto di una bomba. Così, dopo poco, gli stessi deputati del Pd ricevono una lettera di Delrio, il quale giura di non avere «invitato nessuno a candidarsi e nessuno a non farlo, perché sarebbe stato poco rispettoso della libertà». La terza lettera arriva pochi minuti dopo, e a firmarla è ovviamente la Serracchiani. «Non posso credere che Maria Anna» (che in realtà si chiama Marianna) «intenda riferirsi a me come una persona cooptabile e quindi, dovrei supporre, non autonoma», scrive. E dunque invita la compagna a confrontarsi con lei «senza ipoteche e senza retropensieri», in modo che gli altri, chiamati a votarle, possano decidere «in piena libertà». E la storia non finisce certo qui: è appena iniziata, purtroppo per Letta. Chissà se già gli manca Parigi.

Marianna Madia grida al maschilismo? Ha fatto carriera nel Pd grazie a Renzi e Delrio. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano l'01 aprile 2021. Ah, brutta bestia l'ideologia: rischia di annebbiarti la vista e farti perdere la memoria. Dopo una sconfitta poi diventa un'attenuante comoda che non ti consente di riconoscere i demeriti tuoi e di apprezzare i meriti altrui. È sempre colpa di un "ismo" se le cose sono andate storte Ne è testimonianza Marianna Madia, deputata del Pd e candidata capogruppo alla Camera, uscita con le ossa rotte dalle sfida al femminile con Debora Serracchiani per quel ruolo: lo scontro è finito 66 a 24. Di fronte a numeri così netti si dovrebbe avere l'onestà di ammettere «l'altra candidata era più forte» o l'umiltà di dire «ha vinto la migliore» o almeno il buon gusto di fare gli auguri alla vincitrice senza se e senza ma. A maggior ragione se si è colleghe di partito. Ma così non è andata. In un'intervista a Repubblica la Madia, commentando la sconfitta, scaglia palle di fuoco contro un partito di cui lo stesso ex segretario Zingaretti aveva detto di vergognarsi. L'aspetto curioso tuttavia è che, alla fine di una competizione tutta rosa fatta proprio per dimostrare l'apertura del Pd al mondo femminile, la Madia che fa? Dà la colpa al maschilismo. Lei è stata accusata di passare da una corrente del Pd all'altra? Bugie, risponde, figlie del «maschilismo» che «non riesce a tollerare che una donna possa non appartenere ad alcuna area organizzata».

PREGIUDIZI. Lei ha assunto una posizione pregiudiziale contro la Serracchiani e ai più la cosa è sembrata il capriccio di una persona che non voleva perdere? È sempre colpa del maschilismo, replica lei, di quel «classico atteggiamento paternalistico, spesso tipicamente maschile, di chi pensa che se due donne discutono sono isteriche, se lo fanno due uomini sono in ballo i principi». Ma allora ce li spieghi questi principi, onorevole Quando le vengono chiesti, tuttavia, la Madia sforna supercazzole: occorre, avverte, «fare delle battaglie dialettiche in grado di aprire una breccia rispetto a dinamiche sclerotizzate». In che senso? Forse nel senso che, come aveva detto giorni fa, «la leadership femminile non può dissociarsi dal combattere in ogni istante per colmare il vuoto democratico che ipocrisie e verità sottratte alla discussione stanno scavando verso, se non ci ribelliamo, un punto di non ritorno». Boh! Nichi Vendola, ti prego, esci da quel corpo! Insieme alla coerenza di corrente, anche la chiarezza non pare il punto forte della Madia. E meno male che è stata il ministro alla semplificazione. L'ira funesta della deputata dem contro il «risultato già scritto» del voto conferma in realtà due cose: in primo luogo, la cronica incapacità delle donne, ancor più in politica, di fare squadra. Parlano di lotte di genere, di neofemminismo militante, fanno appelli tipo "donne di tutto il mondo, unitevi" ma, alla fine della fiera, non riescono a cooperare neppure se sono compagne di partito. Altroché women power. Qua è già tanto se riescono a non mandarsi a quel paese. E poi la Madia, con certe affermazioni, dimostra di avere la memoria molto corta. Lei attacca il maschilismo e, a proposito della Serracchiani, evoca una «cooptazione mascherata» da parte del partito, ossia una designazione voluta dai maggiorenti del Pd. Ma parla proprio lei che deve parte della sua carriera a leader e uomini dem che hanno creduto nelle sue capacità? Le facciamo un piccolo promemoria. Nel 2008 la Madia viene scelta dall'allora segretario del Pd Veltroni come candidata alla Camera, nonostante la sua autodichiarata «inesperienza politica».

DA RENZI A DELRIO. Nel 2014 Renzi la sceglie come ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, peraltro in un momento in cui lei è all'ottavo mese di gravidanza, dando così un messaggio positivo, tutt' altro che paternalistico: si può essere mamme e insieme donne impegnate ad alti livelli in politica. Nel 2016 Gentiloni la riconferma ministro, nel 2018 Renzi le affida la candidatura in uno dei collegi più importanti di Roma, nel quale la spunta. Ora Graziano Delrio le ha chiesto di candidarsi a capogruppo della Camera, dopo il via libera di Letta alle donne come figure apicali del partito in Parlamento. Tutti maschi, anche grazie ai quali la Madia è cresciuta e dai quali in alcuni casi è stata cooptata (e intendiamo la cooptazione come una prassi normale, e spesso positiva, in un partito). E allora, esattamente, la Madia di che diavolo di maschilismo sta parlando?

Delrio: “Non ho fatto nessuna trattativa”. Lite Pd per il capogruppo alla Camera, Madia: “Cooptazione mascherata di Serracchiani”. La replica: “Io autonoma”. Redazione su il Riformista il 27 Marzo 2021. Una lettera di Marianna Madia ai colleghi deputati del Pd fa scoppiare un caso interno al partito sulla nomina del prossimo capogruppo alla Camera. Madia punta il dito contro il capogruppo uscente, Graziano Delrio, accusandolo di aver di fatto già indirizzato la scelta del successore, poltrona per la quale sono in lizza la stessa Madia e Debora Serracchiani. Madia parla di ‘cooptazione’ e vecchie logiche di partito, rompendo di fatto la ‘pax lettiana’ che, almeno all’apparenza, regnava dall’insediamento del nuovo segretario. “La verità rende liberi. E parlarci con chiarezza – scrive Madia – senza bizantinismi, penso possa aiutare a riannodare il filo spezzato di una comunità democratica che è viva ed esigente con chi la rappresenta. Con Graziano Delrio, che ho sempre considerato persona di valore, ci legano anni di lavoro comune. È stato proprio lui, dopo aver accettato l’invito del nuovo segretario a fare un passo indietro, a chiedermi di mettermi in gioco con la mia candidatura insieme a quella della mia amica stimata Debora Serracchiani. Sceglieva una via diversa da quella presa al Senato dove il capogruppo uscente Marcucci ha invitato senatrici e senatori a sottoscrivere unitariamente la candidatura di Simona Malpezzi”. Ma le cose, secondo Madia, non stanno così: “Quello che poteva essere un confronto sano – prosegue infatti – tra persone che si stimano si è subito trasformato in altro. Immediatamente si è ripiombati nel tradizionale gioco di accordi trasversali più o meno espliciti con il capogruppo uscente che, da arbitro di una competizione da lui proposta, si è fatto attivo promotore di una delle due candidate: una cooptazione mascherata”. A stretto giro, sempre attraverso una lettera ai colleghi deputati, la risposta di Delrio: “Per me e Letta la competizione non era un problema. Non ho invitato nessuno a candidarsi e nessuno a non farlo perché sarebbe stato poco rispettoso della libertà. Ho espresso serenamente la mia opinione su cosa voterò a chi lo chiedeva. Non ho fatto trattative anche perché direi di aver già fatto la mia parte. E credo di non meritare accuse di manovre non trasparenti o di potere visto che a quel potere ho voluto rinunciare lasciando immediatamente il mio incarico. Certe parole mi feriscono oltremodo perché non corrispondono alla realtà”. E Serracchiani replica alla collega: “Non posso credere che Marianna intenda riferirsi a me come a una persona cooptabile e quindi, dovrei supporre, non autonoma. No, l’autonomia è stata la cifra della mia storia personale e politica. Confrontiamoci senza ipoteche e senza retropensieri”. In serata, mentre si consumava lo strappo, Letta, incontrando in streaming i segretari fiorentini di circolo, ha puntualizzato che “la questione dei capigruppo è una questione nostra, punto. In Senato la scelta è stata fatta. Ora vediamo alla Camera”. (Fonte:LaPresse)

Da iltempo.it il 26 marzo 2021. C’è sempre una seconda possibilità a sinistra. Lo sa bene Sandra Zampa, sottosegretario alla Salute nel governo Conte bis, trombata peró da Mario Draghi: è stata la sola non riconfermata in quel ministero, visto che il nuovo premier si è tenuto il ministro Roberto Speranza e il sottosegretario Pierpaolo Sileri. Uscita dalla porta per la Zampa, nota durante la pandemia per aggravare sempre la situazione nelle comparsate tv con previsioni funeste da Cassandra, ora rientra dalla finestra. La poverella infatti era restata senza stipendio perché nel 2018 era stata pure trombata nella corsa a un seggio parlamentare: candidatasi per la terza volta consecutiva, era stata battuta in Senato dal fratello di Italia Alberto Balboni. Ma a sinistra c’è sempre speranza di essere tirato fuori dai guai con altri soldi pubblici. Anzi, Speranza nel caso della Zampa, che il 18 marzo scorso come scrive oggi Libero, è stata arruolata fra i consulenti del ministro collaborando con lui sugli “aspetti comunicativi relativi alle relazioni internazionali e alle attività istituzionali nazionali del ministero”. Alla Salute il ministro si è portato così avanti sulla strada della transizione ecologica, mettendo in piedi una sorta di fabbrica del riciclo: prima della Zampa così riciclata era già arrivato l’ex compagno di partito del ministro Alfredo D’Attoree e l’ex europarlamentare Pd, Massimo Paolucci...

Il Pd porta alle consultazioni la sua donna invisibile: Valentina Cuppi. Nicola Zingaretti l'aveva voluta, al posto che era stato di Gentiloni, come simbolo del "partito nuovo". La sindaca di Marzabotto è divenuta, in questi undici mesi, una specie di essere mitologico: metà presidente, metà foglia di fico. Susanna Turco su L'Espresso il 28 gennaio 2021. Per l'occasione il Pd estrae dalla naftalina anche la sua donna di vertice: alle consultazioni al Quirinale c'è infatti anche lei, Valentina Cuppi. La sindaca di Marzabotto, 36 anni, ex candidata di Sel e vicina alle Sardine che Nicola Zingaretti ha voluto eleggere alla presidenza del Pd nell'ultima Assemblea "fisica" fisicamente prima del covid nel febbraio 2020. Doveva segnare la novità, e in effetti l'ha fatto. È divenuta ormai, al netto del suo ruolo di prima cittadina che non è qui in questione, una specie di essere mitologico: metà presidente, metà foglia di fico. Un caso unico. È grazie a lei, infatti, che il Pd si presenta con una delegazione non esclusivamente maschile – col segretario Nicola Zingaretti, il vicesegretario Andrea Orlando, i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci - alle consultazioni con il capo dello Stato Sergio Mattarella. Un appuntamento importante non solo dal punto di vista politico, ma anche iconico: basti ricordare quanto abbia dato da pensare e da scrivere quel Silvio Berlusconi che nel 2018 tolse la scena a Matteo Salvini mettendosi a contare con le dita, mentre il leader leghista parlava al microfono. Benissimo quindi vi sia anche una donna. Peccato che, all'atto pratico, in quest'anno di presidenza il Pd si sia giovato di Cuppi nel modo che segue, dedotto dalle sue comparse agli onori delle cronache: in marzo figura come possibile contagiata di Covid da Zingaretti medesimo in quanto lui, dopo l'elezione, l'aveva abbracciata; in giugno, nell'ambito di quaranta nomine interne al partito, è indicata come responsabile del progetto Women New deal (qualsiasi cosa voglia dire); in luglio è tra i partecipanti in piazza degli Stati Popolari organizzati a Roma da Aboubakar Soumahoro; in agosto, perché tentata di votare no al referendum sul taglio dei parlamentari; in ottobre è tra gli invitati alla scuola di politica delle sardine in Cociaria. Insomma quanto a capacità di valorizzare una figura al suo interno, il Pd in questo caso non teme rivali: percorso netto verso il baratro. E pensare che Cuppi, al momento in cui prese il posto che era stato di Paolo Gentiloni, fu raccontata come rappresentante del partito «nuovo», simbolo di una svolta anche antropologica, dopo gli anni renziani. Ma poi lo stile «ladylike» è stato soppiantato dal ruolo di «donna invisibile» e resta dunque il mistero su quale sia il passo avanti, alla fine.

ELOGIO DI UNA RACCOMANDAZIONE. Dagospia l'11 gennaio 2021. Tratto dal libro di Walter Pedullà, ''Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario''. Rizzoli. Critico letterario, socialista, ex presidente della Rai. Quando mi domandano se ho raccomandato qualcuno in RAI, io ho la risposta pronta: le mie più efficaci raccomandazioni sono quelle a favore di Angelo Guglielmi. Cominciai quando i nostri partiti erano fratelli, ma proseguii anche quando tra il PCI e il PSI erano stati estratti i coltelli. La verità è che Angelo, oltre che bravo come recensore, era un eccezionale homo televisivus….Angelo Guglielmi aveva idee perentorie e propositi non modesti, aspettava l’occasione buona per avere il ruolo che le sue doti legittimavano. Ogni mezzo era ammesso per mostrare cosa sapeva fare… La franchezza perfida lo rende simpatico. E’ molto spregiudicato, non si pone limiti e non va per il sottile. Mi chiese di aiutarlo, l’aiutai, non mi sono pentito. E’ un ingrato? Non ha mai negato di esserlo. Guglielmi che era di rito comunista non era considerato affidabile dai compagni di partito e trovò l’ostilità dei compagni quando si candidò per dirigere la sede Rai di Roma… ma io fui ostinato nel difendere la causa di Guglielmi, caratterizzato da una spigolosità del carattere che se la chiamiamo arroganza, lui non si offende…E divenne direttore anche di Rai 3: “Brutto carattere il tuo amico. Spinoso più di un fico d’India”, mi dicevano i consiglieri Rai. Lo sapevo bene: aveva punto spesso e volentieri anche me. Guglielmi respingeva ogni ideologia… era un empirico per cui esiste solo ciò che conta in questo preciso momento. La Terza Rete aveva un finanziamento inferiore alla prima e alla seconda Rete: lui trasmise film spazzatura sdoganandoli con il suo linguaggio da critico d’avanguardia. Guglielmi fu abile nel cercarsi alleati, come Beniamino Placido, che dalle colonne di “Repubblica” collaborava come critico televisivo e sosteneva la Terza Rete trovandoci anche quello che non c’era… E Beniamino, che si considerava un campione solitario, fu anzitutto il portavoce e l’interprete più compiacente di Angelo. Qualche tempo dopo Roberto Zaccaria mi rivelò che Guglielmi si oppose alla mia conferma alla presidenza Rai. Non gli ho mai chiesto la ragione del suo comportamento. Ma se lo avesse fatto immagino che mi avrebbe risposto con la risata nervosa che gli fa ripetere cinque volte lo stesso spezzone di frase: “Il motivo è semplice: io sono comunista e tu sei socialista”: Il socialismo contiene il comunismo ma non succede mai il contrario.